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production of Puglia for over sixty
years, and still today. This emblem
of devotion to wine producing
culture passed on to his son
Salvatore and, upon his death, to
his great grandson Piernicola, who
supervises today a modern plant
with the same principles and ideals
that made Five Roses an absolute
success even in those difficult
years.
Antonio Massara was born in
Palermo in 1961. He graduated in
Economics and worked in the
marketing sector of wine
producing farms in Sicily. Unable
to satisfy his creative talents in the
field of business, he started to
dedicate himself to photography
and began writing short stories and
novels, between one cellar and
another. He considers himself an
Icon-novelist, a storyteller of
imagery, an explorer of the world
of awareness, tracing events
through the imagery of life
experiences.
To know more about the author:
https://ikonovel.wordpress.com/
In September '43, in the Puglia
Region occupied by the Allied
Army, Piero Leone Plantera (Don
Pierino), descendant of an ancient
and illustrious family of Salento,
lawyer, wine cultivator and
producer as well as olive oil
producer in Salice Salentino,
sustained with love and devotion
by his wife Maria Luisa de Castris
di Lemos (Donna Lisetta)
overcame all the hardships that
hindered his harvest.
At the end of that year the situation
in Italy, divided in two and victim
of civil war, was an
insurmountable obstacle to the
distribution of his wine to the rest
of Europe. A daring entrepreneur,
he fought to turn the obstacle into
an advantage, by bottling a special
Rosé wine which was discovered
by the American Authorities and
then bought and distributed to the
Allied Armed Forces. It had a
quaint English name: it was the
birth of Leone de Castris' Five
Roses. Most appreciated by all, it
was then exported to the USA and
the main international markets,
giving renown to the Leone de
Castris family and to the wine
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Questo romanzo è frutto, sotto alcuni aspetti, di fantasia.
Gli unici personaggi che trovano corrispondenza in fatti del
passato sono quelli della famiglia Leone de Castris. Tutti gli
altri personaggi, i loro nomi, le situazioni nelle quali si trovano non hanno riferimenti con persone realmente esistenti o esistite. Tuttavia il romanzo nasce da una precisa realtà storica e
descrive la creazione del primo vino rosato imbottigliato
d’Italia, quindi può succedere che qualcuno creda di riconoscersi in un personaggio o in una situazione, ma si tratta di
una coincidenza puramente casuale.
Questo testo è materiale COPYLEFT, cioè si può copiare e diffondere liberamente senza fini di lucro. Ogni utilizzazione commerciale dell’opera (edizione per la vendita, riduzione cinematografica, riduzione teatrale,
audiolibro) è espressamente vietata salvo specifica autorizzazione di
Enotime [email protected].
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ANTONIO MASSARA
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Progetto editoriale a cura di
Testi
Revisione
Editing
Copertina e vignette
Foto d’epoca e
caricatura di Don Pierino
Altre foto
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Enotime www.enotime.it
Antonio Massara
Fabrizio Penna
Elisabetta Fezzi
Valerio Marini
Archivio storico Leone de Castris
Antonio Massara
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Indice
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
1:
2:
3:
4:
5:
6:
7:
8:
9:
10:
11:
12:
L’estate di tre generazioni
Armistizio a Messere Andrea
Una vendemmia di contadine
Come il Rosato che piace a Lisetta
Vendemmia nel ’43
E adesso?
L’autunno degli americani
Regina di Natale
A Lecce
Cinque Rose di Negroamaro
Il cliente
Epilogo
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CAPITOLO 1
L’estate di tre generazioni
Quindici luglio 2000.
Da giorni la luce filtra attraverso le persiane oblique
dalla verticale del sole prossimo allo zenith, così forte
che sottili strisce di luce sul pavimento di ceramica blu
e oro illuminano interamente la stanza, diffondendosi
morbidamente lungo le pareti.
L’alta volta affrescata con amorini intrecciati, frutti
autunnali e paesaggi marini, vividi da duecento anni,
resta nella penombra a sospingere la mente sul piano
inclinato del sonno verso immagini pacate e leggere,
confusamente private dei contrasti della vita reale. A
suggerire l’illusione, al risveglio, di un mondo leggero
e tenero come nel sogno appena interrotto.
Alessandra, distesa sul letto, immersa nel lucore
diffuso dagli ori dell’armadio, osserva le volute colorate del soffitto e ascolta Marialuisa che cresce dentro
di sè. Non è ancora nata e già si fanno compagnia da
mesi. Si rilassa inspirando come le ha insegnato il dottore e l’ascolta muoversi. Le sembra a volte, quando si
concentra, di riuscire a percepire anche quando allunga di poco un braccino o apre e chiude una manina.
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Alessandra, avvolta da un caldo che sa essere solo
una frazione di quello che l’aspetta fuori da quella
stanza, come di riflesso, allunga la mano verso il comodino accanto e si alza sul gomito per bere un po’
d’acqua dal bicchiere. E poi ne beve un altro sorso per
lei, che nuota nel suo mare e ne ha più bisogno.
Alza sul cuscino i capelli biondi, che non s’imbevano
del sudore della nuca e si stende nuovamente in ascolto.
Sarebbe capace di passare tutto il pomeriggio così.
Non riesce a capire perchè il ginecologo non sia molto
felice di quella compagnia che si fanno lei e sua figlia.
Insomma è o non è una parte di sè? Lui si chiede se
non sarà peggio dopo il parto, se non le riuscirà difficile tornare a vivere quando questa parte che si chiamerà Marialuisa sarà fuori, separata, urlante e affamata. <<Mi avvisa della depressione post partum.
Depressione io? Figurarsi. Con tutto il lavoro da riprendere è impossibile che mi lasci andare alla depressione. Anzi, proprio per questo oggi mi godo questa
compagnia, perchè so che fra poco finirà. Un peccato.
Ma insomma, sono milioni di anni che succede>>.
Quando si sveglia le strisce di luce che filtrano attraverso le persiane lambiscono il copriletto di cotone
bianco, illuminandolo nella semioscurità. Alessandra
sa che è l’ora della passeggiata, oppure l’ora di alzarsi
a stringere ancora di più le persiane.
È l’ora migliore per uscire: quando il sole scende al di
sotto dei tetti delle case basse del paese e la luce è ancora forte, i muri spandono calore, ma almeno non ti arriva
a bruciare fin sotto la pelle; è l’ora in cui le lucertole so10
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no ancora troppo scattanti per i gatti ottenebrati dall’afa.
Un lieve ronzio alle orecchie, forse un po’ di pressione alta, o forse troppi biscotti durante lo spuntino
pomeridiano…
Dall’altra parte della grande casa bianca Don
Salvatore, in piedi davanti allo specchio, indossa una
giacca di lino color panna e si guarda ravviandosi i capelli. Il suo sguardo osserva dall’alto in basso la sua figura con un’analisi approfondita di desolante sincerità.
<<A parte i capelli>>, pensa <<quest’immagine riflessa che mi sta osservando non mi assomiglia.
Questa figura magra, dai tratti affilati, non ha nulla che
possa paragonarsi a chi sono realmente. Almeno non
più. Da quanto tempo? Molto. Forse già dieci anni fa
mi guardavo allo specchio e mi chiedevo chi fosse mai
quell’uomo così pensoso, serio, importante certo, come se il contenuto, il vero, fosse celato da un personaggio, un abito di scena che gli altri scrutano con apprensione e che oggi, nella vecchiaia, nasconde invece
di svelare. Mi viene da ridere. Che pensieri profondi!
Certo il mio sorriso più difficilmente riesce ad essere
gaio come vorrei, mi misuro meglio con l’ironia, ma
una sottile scintilla riesce sempre a sfondare gli occhi:
lì dietro ci sono ancora, sempre io, sempre lo stesso,
anzi di più, me stesso più saggio, più lento, capace di
assaporare meglio e di masticare più a lungo le poche
buone cose di questa terra>>.
Milo, il suo pitbull, è riuscito a raggiungere il vestibolo della sua camera e si agita sbuffando dietro la por11
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ta, distraendo Salvatore dalla concentrazione interiore.
Milo sente che è l’ora della passeggiata e non vuole rinunciare. Salvatore lo attacca al guinzaglio corto, esce
dal suo appartamento e scende la grande scala curva
del palazzo, tra alte mura bianche come neve notturna,
lontane secoli dal calore del paese. Milo è preso dall’eccitazione della passeggiata. In fondo alla scala li
aspetta oscuro il grande ingresso dal portone massiccio. Una piccola porta vi si apre per gli accessi quotidiani tagliata nell’anta sinistra, così piccola che per
varcarla occorre scavalcarne l’alzata e curvarsi in basso, come a omaggiare la Casata entrando e la gloria del
Creatore del mondo uscendo.
Salvatore sente che in alto sulla scala un’altra porta
si apre e ascolta Alessandra dire alla domestica che
esce per la passeggiata.
L’aspetta guardando il portone. Avverte i suoi passi
lenti e guardinghi scendere lo scalone.
<<Ciao Alessandra, come va oggi?>>.
<<Bene grazie, un po’ caldo>>.
<<Hai portato gli occhiali da sole?>>.
<<Certo>>.
<<Allora possiamo andare>>.
Don Salvatore cede il passo alla nuora che inforca
gli occhiali e, facendo attenzione, supera la porta immergendosi nel soporifero tardo pomeriggio di Salice
Salentino, abbagliata dal biancore del paese, nonostante le ombre lunghe tra le stradine strette.
Si avviano a braccetto lungo la solita strada, fuori
dallo stretto marciapiede che serve solo a mantenere
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lontane le acque piovane, lasciando passare di tanto in
tanto qualche rara automobile. La coppia avanza con
andatura curiosa: un uomo anziano non alto e una donna giovane che procede con il leggero ondeggiare di
chi porta, oltre che sè stessa, anche un’altra vita in
grembo. Camminano lentamente, chiaccherando della
propria salute, lui di acciacchi e dolori mattutini, lei di
calcetti e di movimenti del nascituro, con le inevitabili sorprendenti deformazioni del proprio corpo. L’uno
non crede più che il proprio corpo abbia a che fare con
sè stesso, l’altra si crogiola nella sensazione di una comunità di esseri tutt’avvolta in sè stessa, una moltiplicazione possessiva di corpi e affetti, lasciando alla razionalità il fatto che tra qualche giorno quella simbiosi si dividerà e una nuova vita assumerà individualità
indipendente, alla ricerca della propria affermazione
nel mondo. L’uno tira somme e fa bilanci, l’altra trova
il conto economico di perdite e profitti moltiplicato, in
attesa di essere azzerato da compiti nuovi.
<<Ho parlato con Piernicola della faccenda della
Russia>>.
<<Sì, è tutto preso dall’organizzazione di questo
viaggio. Non voleva partire, per via del parto vicino,
ma gli ho detto di stare tranquillo. Del resto mancherà
solo per tre giorni>>.
<<E tu, sei sicura di restare tranquilla?>>.
Alessandra lo guarda.
<<Ma certo papà! Quante donne avranno partorito
prima di me in milioni di anni? E poi mi fido del mio
ginecologo>>.
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<<Anch’io ho detto a Piernicola di stare tranquillo,
di organizzarsi bene e di tenersi vicino al telefono. E di
stare attento ai russi! Lì è tutto troppo nuovo, e quindi
è rischioso fare affari; e poi c’è il problema dei pagamenti>>.
<<Mi ha detto che si aspetta più da Volgograd che
da Mosca>>.
<<Lui è convinto, come sempre, che nelle realtà
non grandissime ci sia più possibilità di avere rapporti
interpersonali stabili e di qualità. Molte volte ha ragione>>.
<<Gli ho detto di non preoccuparsi e anche di divertirsi un po’, almeno di riposare, anche per lui questi
ultimi mesi sono stati stressanti!>>.
<<Stressanti? Vedrete fra poco! Invece io gli ho
chiesto di dare un’occhiata in giro a Volgograd, se ha
un po’ di tempo. Fino al 1961 si chiamava Stalingrado.
E lì, nel ’42-’43, ci fu il più grande e sanguinoso assedio della storia, la più grande battaglia persa dai tedeschi, l’inizio della fine della seconda guerra mondiale.
Chissà se ne è rimasta traccia, un museo, delle rovine,
testimonianze. Sarebbe interessante andare a vedere>>.
<<Di solito i popoli vogliono dimenticare le grandi
tragedie>>.
<<È vero. Sarà anche banale pensarlo, ma è così che
si finisce per compiere sempre gli stessi errori>>.
Camminando arrivano ai margini del paese, lì dove
la scarsità delle case induce gli abitanti ad allargare gli
orti, ad aprirsi alle vigne, agli uliveti, creando grandi
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spazi per il gioco dei bambini, a uscire all’aperto più
spesso di quanto non facciano i compaesani del centro.
La strada dritta prosegue a est, verso il mare, invisibile oltre la lontana scarpata del tacco pugliese.
Tre febbraio 1943, mercoledì.
Pierino Leone, nel bianco Palazzo de Castris di Salice Salentino, ascolta alla radio la <<Voce dell’America>>. Il Generale Paoletti annuncia che il Comando
Supremo Militare Tedesco ha dato ordine alle armate
germaniche di cessare i combattimenti a Stalingrado,
che i russi hanno cominciato l’avanzata per riconquistare la loro terra offesa e deturpata dall’invasore tedesco. E che le divisioni corazzate, con l’aiuto degli alleati, si stanno riorganizzando fuori dalla città, in fiamme da mesi, per sferrare l’attacco al cuore della
Germania.
Ormai Pierino è abituato alla parlantina di Paoletti,
l’ascolta quasi ogni sera, anche se a volte è noiosamente chiacchierone. Questa volta però i dati che snocciola sono impressionanti. Pierino capisce che se i
combattimenti sono davvero cessati senza che Radio
Fante abbia dato notizia della solita propagandistica
<<schiacciante vittoria delle armate dell’Asse>>, considerato lo sforzo bellico messo in atto dalla Germania
nell’invasione della Russia, non resta che pensare che
si tratti di una grande disfatta dell’Asse; questo anche
se Paoletti dicesse la metà della verità. Forse l’inizio
della fine della Germania. E quindi la fine dell’Italia.
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La fine della guerra. La fine di una guerra che non
può che essere persa. E Pierino sa che la ragione è
sempre dalla parte dei vincitori.
Ma non si illude. È febbraio e i russi non possono
avanzare come il lampo, anche se abituati al terreno
ghiacciato e ben equipaggiati dagli americani. Ci vuole tempo. Città e paesi da ricostruire, strade da rifare,
treni da rimettere sui binari. Tanto tempo.
Il calvario dell’Europa continua, anzi si intensifica
tornando indietro, come nel deflusso dell’onda di uno
tsunami che, assorbito in parte dalla terra invasa, ritorna indietro al mare come un’inondazione, l’ultima fase della distruzione già iniziata. I russi si vendicheranno dell’invasione. E gli eredi dei cosacchi non sono
gente che va per il sottile.
Nel frattempo, dall’altra parte dell’Europa, si ricomincia daccapo. Qualche giorno fa Cagliari è stata
bombardata. Da mesi al Circolo si dice, sussurrando,
che la guerra si sposterà proprio lì, nel sud Italia. Loro,
gli Alleati, hanno Gibilterra, l’Atlantico e il Mediterraneo. Pierino ha sentito raccontare che gli italiani che
hanno lasciato l’Etiopia occupata dagli inglesi, hanno
passato i campi minati davanti a Gibilterra a bordo del
transatlantico Rex guardando la Rocca completamente
illuminata a giorno. Già, lì non c’è il coprifuoco, non
ci sono incursioni aeree. Come potrebbero, visto che
gli unici aerei che si vedono in giro da quelle parti sono inglesi e americani?
Arriveranno anche qui gli americani. E le loro
bombe.
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Salvatore entra nella stanza oscurata e si mette accanto al padre, guardando la grossa radio di legno che
continua ad emettere la voce del Generale in onde corte, falsata dalle scariche elettriche. Ha diciassette anni
e una figura magra, è già più alto del padre, ha il viso
affilato, lo sguardo serio in attesa.
<<Novità?>> chiede.
<<Sì, grandi novità. Sembra che la battaglia di
Stalingrado sia finita con l’annientamento di tedeschi
ed italiani>>.
<<Proprio annientamento? Ma non saranno le solite storielle di Paoletti?>> chiede Salvatore.
<<Stavolta potrebbe dire il vero, anche perchè dice
che sono stati i tedeschi a dare ordine di cessare i combattimenti: sentiremo poi cosa dirà a proposito Radio
Fante. Se parlano di atti di eroismo, vuol dire che sono
morti tutti. E poi lo sai come sono i tedeschi, se lo dicono, è perchè gli unici soldati vivi sono prigionieri,
ammesso che ne abbiano fatti>>.
<<E adesso che succederà?>> chiede Salvatore. Si è
fatto più magro d’improvviso, come se l’intuito animale gl’imponesse di mimetizzarsi, di farsi sottile intorno
ai motivi floreali della carta da parati dorata dello studio del padre. Pierino sa che suo figlio ha ormai l’età
per comprendere come milioni di morti, anche a migliaia di chilometri di distanza al di là dell’Adriatico,
non possano essere senza conseguenze, anche per loro.
Stanno tutti e due in silenzio, davanti alla radio che
continua a gracchiare la parlantina americaneggiante
dell’Ufficiale.
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Al di là della porta aperta dello studio, i rumori della famiglia che si prepara alla notte dicono che il tempo scorre come prima, che nulla è cambiato. L’oscuramento imposto alle finestre e le luci fioche, per non rischiare che filtri qualcosa all’esterno, fanno parte delle abitudini serali degli italiani ormai da mesi. Se dall’esterno la casa sembra deserta, all’interno è il solito
vocìo di bambini che non vogliono andare a dormire e
prendono le scuse più improbabili, come un gioco da
sistemare, un libro da cercare, un bacio della buonanotte da restituire alla nonna o alla mamma Lisetta,
concentrata nella preparazione di una serata musicale
col notturno di Chopin opera 9 n° 2 in Mi bemolle
maggiore, dedicato a Camilla Pleyel. Una scusa perfetta per poter ribattere alla Professoressa che no, non
si può andare a dormire mentre la mamma suona il pianoforte. Maria Vittoria, la più piccola dei cinque fratelli, è quella che si permette le monellerie più grosse,
ed è anche quella più difficile da convincere perchè ha
imparato presto dai suoi quattro fratelli come fare ad
aggirare gli ordini tassativi dei grandi. E usa alla perfezione la tecnica del sorriso e delle moine per intenerire i cuori più integerrimi.
Pierino chiede a Salvatore di chiudere la porta e di
spegnere la luce, poi apre l’alta finestra, affacciandosi:
il buio lontano, oltre la sua cantina, gli dice che in campagna, nei vigneti, tutto è tranquillo. Le macchie degli
oliveti all’orizzonte si stagliano neri contro la debole
luminosità lunare.
Se Cagliari è stata bombardata, ora forse toccherà a
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Taranto, e perchè allora non a Lecce o a Salice?
Nelle scorse settimane ha fatto sgombrare il sotterraneo del palazzo, un antro umido e freddo, una specie
di cantina dove nel 1600 si conservavano i capasòni col
vino. E lui nuovamente di capasòni l’ha fornita, tutti di
acqua, tranne una giara piccola con del vino. Se dovessero bombardare Salice… Certo, se crollasse la casa colpita da una bomba, forse neanche lì si salverebbero. Ma meglio che stare alla finestra a prendersi le
schegge, meglio che stare nel Palazzo Leone di Lecce,
al centro del Viale Gallipoli, che dall’alto di un aereo
deve sembrare una pista di atterraggio per quanto è largo e dritto.
E poi a Lecce comincia ad esserci miseria dappertutto. Meglio stare lì a Salice. Meglio stare vicino alla
cantina, alle masserie, ai vigneti della famiglia. Meglio
stare tutti insieme che dispersi in tutta la Puglia. Se arrivano le bombe degli americani può succedere di tutto, un tutto difficilmente immaginabile in quel momento. I ragazzi possono fare scuola con la Professoressa lì in casa. Poi dopo, quando tutto sarà finito,
chissà quando, potranno fare gli esami e tornare a
scuola regolarmente a Lecce. Per adesso non se ne parla. Ancora qualche mese poi cominceranno i lavori in
campagna, nei vigneti di Majana, Ursi, Messere
Andrea, Case Alte, e dopo tutti gli altri.
E poi ancora, prepararsi alla vendemmia. Se quella
del 1942 è stata difficile, chissà che cosa ci aspetta
quest’anno, pensa Don Pierino. Nel ‘42 abbiamo avuto il problema dei muli e dei cavalli, introvabili. Quan19
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do ne abbiamo radunati una decina, erano talmente
malati e denutriti da far temere che venissero a mancare, dopo tanta fatica nello scovarli. Dovemmo rifocillarli, farli riposare, farli riprendere. A qualcuno demmo
persino del vino. Li sistemammo tutti in cantina, per
evitare che si disperdessero tra le famiglie e che a qualcuno potesse pure venire lo sfizio di cederne un paio a
peso d’oro al mercato nero, per il macello clandestino.
Quindici luglio 2000.
<<Ma ci pensi Alessandra! Dovevamo nascondere i
muli e gli asini nella cantina, e mio papà Pierino doveva pure convincere il paese che lì non c’era nessun
animale sottratto allo <<sforzo bellico della nazione>>>>. Lo so, dette oggi sembrano cose dell’altro
mondo, non ci si crede oppure non si riesce ad immaginare. Tutto ciò che oggi è diventato facilissimo, come telefonare, accendere il gas, fare il pieno di benzina, allora era possibile solo raramente e come risultato
di uno sforzo prolungato. D’inverno i ragazzi percorrevano chilometri per trovare lungo le rotaie dei pezzi di
carbone caduti per caso dai vagoni ferroviari. Tutto era
difficile, rischioso, una lotta estenuante per ottenere risultati minimi. Mio padre, quando si trattava di organizzare la produzione, quando si trattava di vino o di
olio, non si fermava davanti a niente. Raccoglieva tutta la benzina razionata che poteva e la metteva in un
serbatoio di ferro che aveva fatto installare sotto il giardino della cantina, che era molto più grande di adesso.
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La raccoglieva per poi usarla durante la vendemmia
per girare tutti i vigneti, veloce e comodo: molto più
veloce con la sua auto che con la carrozza. È stato un
grande esempio, non c’è dubbio. Bisogna che queste
cose le ricordi a Piernicola e che le raccontiate ai vostri figli. È importante>>.
Camminando hanno superato da un pezzo le ultime
case del paese e sono già vicini al camposanto, racchiuso tra alte mura di calce ingiallita e sbrecciata dal
tempo. Sono circondati dalla presenza silenziosa della
campagna, interrotta ogni tanto da qualche auto di passaggio sulla provinciale verso est. In fondo all’oliveto
che si estende alla loro destra si staglia un gigantesco
olivo, ben visibile tra i suoi colleghi più giovani, vecchio più di duecentocinquanta anni. Sotto di lui una radura perfettamente piana, resa tale da secoli di spianamenti, su cui non cresce assolutamente nulla, neanche
il più piccolo filo d’erba, perfettamente rotonda, disegnata dall’uomo e rinnovata anno dopo anno, centinaia
di volte. Alcuni rami, più lunghi di altri, si ergono per
un’altezza che non ha paragoni tra gli altri ulivi. Forse
quell’ulivo è così perchè, molto più longevo di alcune
generazioni di suoi proprietari, ha trovato, nell’indolenza di uno di questi, il tempo e lo spazio per poter
esprimere interamente i suoi geni. Chi poi è tornato nel
campo non ha avuto il coraggio di domarlo e lo ha lasciato crescere fino a giganteggiare sui suoi compagni.
Don Salvatore si guarda intorno con sorpresa, emergendo d’improvviso dal mare dei ricordi scopre di es21
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sersi spinto molto oltre il suo desiderio di camminare.
<<Ma guarda quanta strada abbiamo fatto, a furia di
rinvangare il passato>>.
<<Qui c’è più fresco, si cammina meglio, anche se
comincio ad essere un po’ stanca>>.
Don Salvatore la guarda con un pizzico di apprensione.
<<Vuoi che ci facciamo venire a prendere?>>.
<<Non è necessario; sono sicura di farcela>>.
Ritornano sui loro passi scoprendo che la luce del
sole si è abbassata molto dietro il paese, ormai quasi
completamente in ombra, tranne che per la cupola della Matrice, al centro, che riflette di sbieco gli ultimi
raggi con la sua cupola di ceramica verde.
<<Magari camminiamo un po’ più piano>> continua Alessandra.
Quella sera Piernicola, tornando a casa, trova
Alessandra distesa a letto, in dormiveglia. Le chiede se
ha fame, ma la risposta è lenta, impastata: <<Io ho già
cenato>>. Nessun commento. Eppure un briciolo di
senso di colpa affiora nella coscienza di Piernicola.
<<Scusami Ale, ho fatto tardi senza accorgermene.
Dovevo fare delle cose prima di partire>>.
<<Sì, non ti preoccupare. Magari mangi e poi vieni
qui a farmi compagnia>> risponde Alessandra.
Sulla tavola apparecchiata Chiara, la domestica, dispone in fretta la cena. È solo, è tardi ed è tutto quanto freddo. Anche Chiara ha un vago senso di colpa negli occhi, e Piernicola le regala un sorriso, tra un boc22
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cone e l’altro. Le dice che se vuole può lasciarlo, metterà tutto lui in cucina.
Mangia in fretta, dando una seconda occhiata al
giornale che ha disteso sulla tavola. Non gli piace mangiare da solo. Un ultimo sorso di Five Roses gli dona
un attimo di fresco godimento. Sparecchia la tavola
mangiucchiando una banana, con un paio di viaggi in
cucina. Adesso che non sente più né il rumore delle
stoviglie né la propria mandibola masticare si accorge,
per la prima volta dalla mattina, che intorno a lui è sceso il silenzio. Un silenzio urlante di ricordi di cose da
fare l’indomani, prima di partire. Prima di tutto la valigia; chissà se le camicie sono tutte pronte e se hanno
ritirato gli abiti dalla tintoria. Meglio evitare di indagare e far alzare Alessandra. Per oggi basta così.
Arriva in camera da letto deglutendo l’ultimo boccone di frutto e si lascia cadere sul letto.
<<Com’è andata oggi?>> chiede ad Alessandra
<<Tutto bene. Un po’ caldo, anche troppo, o forse è
che comincia a pesare>>.
<<Non ti sei affaticata troppo vero?>>.
<<Forse un po’ e adesso mi fa piacere stare distesa
a riposare le gambe. Ho fatto una passeggiata con tuo
padre>>.
<<Glielo dico sempre di non farti camminare troppo>>.
<<Non abbiamo camminato troppo. Una bella passeggiata e basta. Mi racconta un sacco di cose di te e
della famiglia>>.
<<Per esempio?>>.
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<<Per esempio di quella biondina cui davi la caccia
anni fa, com’è che si chiamava, fammi ricordare…>>.
<<Biondina? Non ricordo…>>.
<<Dai che scherzavo. Ci sei cascato, non conosci
abbastanza tuo padre da non sapere che non mi racconterebbe mai dei tuoi amori giovanili? Magari mi accenna i suoi, ma quando parla di te sembri un chierichetto>>.
<<Magari sono proprio così, chi lo sa?>>.
<<Ah sì? E andavi ad aiutare il parroco a servir
Messa all’alba magari, vero?>> dice Alessandra sfilandosi il cuscino e buttandoglielo in faccia. Piernicola ride, poi glielo rimette a posto sotto la testa.
<<Io però non ho ancora capito il rapporto tra tuo
padre e tuo nonno Pierino. Lui lo descrive come un uomo deciso, vigoroso, dedito al lavoro e alla famiglia in
modo assoluto, sempre in corsa con progetti nuovi, innovativi, innamorato dell’organizzazione. Ma poi, da
quel che mi racconta di sé, non mi sembra che tuo padre sia molto diverso. Tu come la vedi?>> gli chiede
Alessandra.
Piernicola guarda per qualche istante gli amorini
lassù, al centro della volta affrescata, ora illuminati da
una lampada da lettura sul comodino. Vede mentalmente suo padre che sale in macchina per andare a
Lecce, oppure sulla barca mentre tira su la lenza. Poi il
nonno, alle prese con l’amministrazione della cantina,
che fa un brindisi in una festa di Natale, oppure all’aeroporto Kennedy di New York, quella volta che partirono tutti e tre per gli Stati Uniti.
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<<Sai Alessandra, è difficile pensare alla vera natura di uomini che sono vissuti in momenti così diversi,
storicamente e culturalmente. Se il carattere vero si vede per le scelte che uno fa, dipende anche dalle condizioni in cui si vive. Mio nonno aveva quarant’anni
quando è finita la guerra, finito il fascismo, finito il
Regno, poi l’avvento della Repubblica. Non erano difficoltà, erano montagne. E lui si è impegnato a scavarle, minarle, svuotarle e infine spianarle. Mio padre
aveva venticinque anni nel dopoguerra: la ricostruzione, la crescita economica, tutto enormemente più facile. Guardavi avanti e dovevi decidere solo quanto lontano andare. Il mondo già correva con te. Troppo diverso. Mio padre porta i capelli lunghi come mio nonno non si sarebbe mai sognato di fare. Per questo sono
diversi? No, forse sono più simili di quanto sembra.
Determinati, attivi, decisi. Accanto alla dedizione per
la famiglia e l’azienda magari ci sono interessi diversi:
per il nonno la musica e per il papà la letteratura e la
storia. Mio padre può sembrare più un organizzatore,
mio nonno più imprenditore, ma la verità potrebbe essere che a suoi tempi l’imbottigliamento era ancora
una piccola realtà e parlare di organizzazione complessa sarebbe stato inutile. Era un altro mondo. Per
esempio ai tempi del nonno la vendemmia era un evento colossale: centinaia di persone, carri, animali, gente
da far dormire e da sfamare, intere famiglie di contadini che si trasferivano in campagna. Oggi la vendemmia
non è così complicata. Insomma, in fin dei conti, il
nonno e il papà sono molto più simili di quanto non
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sembri. Sai, ora che ci penso, mi ricordo di un episodio. Sarà stata la fine dell’estate. Avevo sedici o quindici anni. Mio padre mi fece una ramanzina di mezz’ora perchè avevo scorazzato per le vigne guidando come un pazzo la moto da cross. Insomma, davo fastidio
a chi lavorava, e poi non davo un buon esempio. Su
questo punto cominciò ad alzare la voce e ad accalorarsi. Io mi feci piccolo piccolo. Aveva ragione. Poi di
botto si bloccò, prese un gran respiro e compresi che
anche se sembrava guardarmi, in effetti il suo sguardo
andava oltre, cercando di mettere a fuoco qualcosa che
invece l’aveva colpito interiormente. Colsi l’occasione,
avviai la moto e feci per partire ma, prima di mollare
la leva della frizione, lo sentii distintamente mormorare fra sé e sé <<Mi pare di sentire le parole di
papà…>>. Che te ne pare?>>.
Piernicola si volge verso Alessandra.
Dorme.
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CAPITOLO 2
Armistizio a Messere Andrea
A
lla fine di maggio del 1943 cominciarono le pesanti incursioni di bombardieri inglesi e americani su
Foggia. Nessuno dei suoi abitanti era preparato a tanta
perizia, a tanto accanimento nel radere al suolo la città.
Il perchè poi rimaneva un mistero per tutti. Per questo
forse, molti non si decidevano a lasciarla. La città venne bombardata quasi ogni settimana, per tutto il mese
di giugno e luglio. Chi era rimasto senza casa abbandonava la città e lunghe colonne di profughi si allungavano in ogni direzione, anche verso sud, verso Bari
e Brindisi, anche loro bombardate ma con meno accanimento. Il 22 luglio qualcuno aveva contato più di novanta bombardieri concentrati su Foggia, su una città
semideserta, ridotta per metà ad un cumulo di macerie;
in tre ore di attacco la ridussero in polvere. Il giorno
successivo chi era rimasto lasciò la città.
Due giorni dopo Pierino e la famiglia ai primi boati
di lontane esplosioni si precipitano in cantina, in mezzo ai capasòni. Lecce, Nardò, Leverano, Galatina e
persino San Pancrazio, dieci chilometri da Salice, erano sotto attacco. Tutto intorno a loro esplodevano le
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bombe, e si sa che cinque o dieci chilometri per un aereo sono solo pochi secondi di distrazione del navigatore. Nella mente di Salvatore si formavano immagini
di branchi di bombardieri che si adunavano e si separavano nel cielo, ad altezze inusitate, annusando nell’oscurità le prede sottostanti. Temeva che potessero
individuare la nuvola di paura proveniente dalla cantina come cani assetati di sangue fresco, come se quelle
macchine moderne fossero in grado di localizzare le
onde cerebrali impazzite dal terrore di chi era nascosto
in quella cantina, dirigendosi da loro, sopra Salice, a
fare una strage. Allora Salvatore appoggiava l’orecchio
al pavimento, come fanno gli indiani, per sentire le vibrazioni delle esplosioni e soprattutto per coglierne un
avvicinamento.
Quando la sera del giorno dopo, il 25 luglio, Pierino
sente alla radio che Mussolini è stato messo in minoranza dal Partito e fatto arrestare dal Re, prova un certo rilassamento. Razionalmente sa che non può esserci
nessuna relazione tra la nottata passata in cantina con
la paura delle bombe e la caduta rovinosa del Duce, ma
lo interpreta come un segno del cambiamento.
Ad agosto sembra che il mondo della guerra stia rallentando, come se il caldo avesse preso nella sua morsa l’uno e l’altro dei contendenti del suolo italiano, rallentando il passo, impedendo di avviarsi nelle ore del
giorno in cui è più alto il sole e fermandoli la sera a godere un po’ di frescura. Pierino non riesce ad immaginare perchè. La Sicilia è ormai interamente liberata e
le armate inglesi non riescono ad avanzare veloci lun28
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go le strade calabresi, agli ordini del Generale Montgomery. Quando e se fossero arrivati a Salerno avrebbero tagliato fuori la Puglia che si sarebbe potuta liberare come d’incanto, quasi da sé. Eppure tutto sembrava rallentare, incepparsi.
La prima metà d’agosto del 1943 porta una serie di
brevi e veloci perturbazioni con venti da nord che rinfrescano le vigne con qualche spruzzata di grossa pioggia. L’aria si rinfresca quel tanto che basta per rallentare leggermente la maturazione delle uve, mentre l’acqua piovana, penetrando nelle fibre della terra sabbiosa, raggiunge le radici dei piedi americani delle viti di
Negroamaro, riempendo gli acini di spesso succo.
Pierino si augura che duri, nonostante i ragazzi siano
scontenti di quella pioggia che impedisce loro di scorazzare in giardino. Il tempo però si mette al bello e la
temperatura comincia a crescere e il vento a diminuire.
Solo la brezza di terra riesce a mitigare verso sera il
caldo della giornata e a rinfrescare le pareti bianche
delle case, arroventate da dieci ore di sole quasi verticale. L’aria scuote le chiome degli alberelli del
Negroamaro, spazzando ogni ipotesi di umidità notturna da sotto le chiome. La vigna reagisce colorando le
bucce degli acini di un nero sempre più fondo, ispessendo la patina cerosa della pruina a proteggersi dal
calore diretto del sole.
Pierino spera che la maturazione non proceda troppo rapidamente.
Si trasferisce nella Masseria di Messere Andrea, subito fuori dal paese, ed affida la famiglia a Salvatore.
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La Masseria è una grande costruzione quadrangolare, bianca come un lenzuolo, conficcata in mezzo alle
vigne coltivate ad alberello e agli uliveti secolari, a tre
chilometri dal paese. Ci si arriva dalla strada provinciale su uno sterrato dritto e piano come una matita che
conduce al portone d’ingresso, sormontato dall’abitazione di Pierino, l’unica parte della masseria non a
contatto diretto col terreno. All’interno, si apre un largo spiazzo dominato dal pozzo, il protagonista assoluto della vita tra quelle mura, poche decine di pietre a
secco per reggere un arco di ferro da cui pende una carrucola rossa di ruggine che agevola lo scorrere della
corda col secchio. Il pozzo è esattamente al centro del
cortile della masseria, a significare quasi che quella
esiste perchè c’è lui, perchè trecento o quattrocento anni prima qualcuno aveva deciso di costruire una masseria lì solo perchè esisteva il pozzo. Sulle due facciate dell’abitazione di Pierino si aprono due balconi
stretti da cui lui stesso può controllare tutte le attività:
allevamento di mucche e pecore con la produzione di
formaggio, il piccolo mulino per la farina e un forno
grande per il pane, il frantoio con la grossa pietra girata dall’asino. C’è anche un palmento per la fermentazione del mosto, ormai in disuso visto che tutta la produzione viticola viene portata nella Cantina di famiglia, a Salice. E ci sono anche le stanze degli operai di
fiducia di Pierino, quelli che hanno sulle spalle molte
più vendemmie di lui, che avevano lavorato con suo
padre e con il suocero Arcangelo de Castris, il Conte,
il Senatore del Regno, grande ammiratore di Crispi.
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Francesco Albano, per esempio, è nato a Messere
Andrea. Suo padre aveva lavorato da giovane per il
Senatore Arcangelo in un vigneto vicino Brindisi, ma
poi era riuscito a tornare in quella masseria dei Leone.
Adesso è vecchio, da alcuni anni non lavora più.
Francesco ha detto a Pierino che suo padre, con l’età,
ha perso un po’ di contatto col tempo presente, tornando a vivere con la mente in un’epoca in cui era molto
più giovane. E gli chiede di Arcangelo, il Senatore. Il
vecchio resta tutto il giorno seduto su una sedia di paglia, appoggiato al muro imbiancato a calce della masseria per raccogliere l’ombra della grande bouganvillea che cinge la porta di casa. Ogni giorno saluta Don
Pierino quando lo vede passare nel cortile, alzando leggermente al berretto la mano destra, magra e solcata di
vene contorte come il rampicante che gli fa ombra.
Capisce che lui è il Padrone, e proprio per questo non
gli rivolgerebbe mai la parola a meno di non essere interrogato, ma resta come confuso, distratto. Perchè lui
è il Padrone? Il Padrone adesso è questo giovane signore? Si chiede. Il Senatore dov’è? Francesco ha cercato di riportarlo a tempi più recenti, ma senza nessun
risultato.
Quando alla masseria sentono il ronzio lontano di
un aereo, tutti escono di corsa e si lanciano verso i vigneti o sotto qualche olivo. Sanno che dall’alto il biancore lunare di Messere Andrea spicca in mezzo al verde lussureggiante dei vigneti e al rosso della terra, ed è
una specie d’invito ai pollici nervosi dei piloti che accarezzano di sbieco i pulsanti dei cannoncini da venti
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millimetri, lungo le ali dei loro aerei. Ricordano che il
Maresciallo Barba riusciva a deviare ogni tanto dalla
sua rotta su Brindisi per sorvolare Salice, dove vivevano i suoi genitori. Descriveva il paese visto dall’alto e
di come prendesse la masseria quale punto di riferimento. Poi a maggio Barba è stato abbattuto lontano,
sul mare, di ritorno da una ricognizione in Grecia.
Nell’isolamento operoso di Messere Andrea Pierino
ha modo di riflettere sulla situazione della cantina e dei
suoi affari. La vendemmia prossima annunciava un ottimo raccolto. Nel frattempo però, qualunque fosse la
velocità dell’avanzata delle truppe alleate, era chiaro
che presto l’Italia sarebbe stata divisa in due: gli
Alleati a sud e tedeschi e fascisti a nord. Era facile prevedere che, qualunque cosa avesse deciso di fare il Re,
l’Italia sarebbe stata destinata a sopportare il calvario
di una guerra di conquista sul suo stesso suolo, e la popolazione a subire enormi difficoltà di sopravvivenza.
Non poteva esserci situazione più difficile, imprevedibile e irta di difficoltà per svolgere le operazioni di
vendemmia.
Eppure anche in quella tragedia nazionale una speranza c’era.
La Puglia è sempre stata la periferia più esterna del
centro del mondo. Pur essendo parte della terra italica,
era così distante dalla Roma Imperiale da potersi considerare una provincia esterna dell’Impero. Persino nel
massimo splendore della Repubblica di Venezia, quel
tacco fedele e prosperoso era solo la porta estrema del
mare Adriatico, il mare interno della Repubblica, come
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dire l’inizio del poi. I leccesi dicono sempre che a
Lecce non è possibile essere di passaggio, se ci sei
vuol dire che proprio volevi andarci. Era probabile
quindi che Montgomery e l’intera strategia alleata e tedesca si sarebbero rivolti alla costa tirrenica, oppure
avrebbero cercato di tagliare l’Italia lì dove è naturalmente più stretta, a scannarsi quindi per l’Appennino,
facendo il classico errore di sottovalutare l’asprezza
del terreno, l’ardita verticalità dei luoghi e l’assenza di
vere strade. Forse addirittura la Puglia poteva diventare improvvisamente la retroguardia di un esercito conquistatore lontano con pochissimo terreno occupato.
Pierino lo sperava con tutto il cuore. Ciò avrebbe forse
significato meno pericolo per la sua famiglia e per l’azienda, ma anche la possibilità di uscire presto dall’assurda miseria di quella guerra e passare rapidamente
ad un livello di attività produttiva favorevole. E per lui
la ripresa comprendeva in primo luogo la conduzione
di un’ottima vendemmia.
Poi bisognava sperare che gli sforzi per la raccolta
fossero coronati dal successo di riuscire a portare le
uve e l’olio in salvo in cantina. Proprio per questo motivo lui si era trasferito a Messere Andrea, lasciando la
famiglia nel palazzo de Castris di Salice.
Man mano che le notizie dell’avanzata di Montgomery lo raggiungevano si rendeva conto di un problema successivo, ma non per questo meno pericoloso.
Se l’Italia fosse stata divisa in due, se il nord Italia e il
centro Europa fossero stati ancora per molto tempo
sotto la dominazione tedesca tormentati da una lunga
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guerra di annientamento, tutti i suoi clienti più importanti, le aziende vitivinicole toscane, piemontesi, venete e francesi, non avrebbero avuto alcuna possibilità di
acquistare il suo vino, sempre ammesso che fossero
ancora in piedi dopo i bombardamenti e salve dalla distruzione del conflitto.
E già. È la storia del vino pugliese. Da secoli la
Puglia fornisce vino <<da taglio>> al resto d’Europa,
come e perfino più della Sicilia, sia con i rossi che con
i bianchi. I rossi soprattutto, Negroamaro e Primitivo,
densi e colorati, di ottima gradazione alcolica e talune
volte anche con buoni residui zuccherini, dai profumi
di bosco, sono perfetti per rimpolpare il sangue dei vini nordici, coltivati nelle nebbie brumose, di quelli per
cui l’illuminazione solare costituisce un’avventura più
che la regola, un accidente più che la normalità. Come
una trasfusione di denso sangue mediterraneo può donare roseo splendore ad una carnagione fredda ed anemica, così i vini del tacco ogni vendemmia viaggiano
verso le terre bagnate dai mari del nord. Ogni anno, da
secoli, arrivano in Puglia ogni sorta di commercianti,
mediatori, padroni marittimi e carriaggi a caricare il
vino che viene portato su al nord, in botti legate ai carri, oppure caricate su navi di piccolo tonnellaggio che
fanno rotta lungo l’Adriatico, oppure volgono a sud,
passando per lo stretto di Messina e facendo rotta sui
porti del nord Mediterraneo.
Persino nei primi anni di guerra, salvo qualche contrattempo o difficoltà, salvo qualche cliente abituale di
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cui Pierino non aveva avuto notizie, questo flusso di
vino denso ha percorso la sua strada, per entrare nel
corpo di più famose fermentazioni. I produttori di vino
e i vignaioli pugliesi hanno quindi potuto contare su
una solida base economica per sostenere la propria attività, portando nelle casse delle aziende il contante necessario per l’attività e per il sostentamento delle famiglie contadine e non. Non si può neanche dire che si
trattasse di una florida economia, visto che l’abbondanza della produzione e i costi di trasporto impedivano ai prezzi alla produzione di alzarsi oltre la soglia di
sussistenza ai produttori anche nel caso, com’è quello
della famiglia Leone de Castris, di possedimenti estesi
oltre milleottocento ettari, divisi in diverse proprietà e
coltivazioni.
Pierino era certo che nel 1943 tutto ciò sarebbe stato impossibile.
Anche se tutti gli sforzi fatti in vendemmia fossero
andati a buon fine la produzione del 1943 e quella delle annate precedenti che si stavano affinando in cantina, non avrebbe avuto compratori. E questo per Pierino
era un pensiero inaccettabile. Certamente non avrebbe
determinato grossi scossoni all’economia familiare.
C’erano altre attività, seppure di minore entità. Per lui,
ciò che era semplicemente inaccettabile, era che i suoi
vini, quei fantastici prodotti frutto del suo e del sudore
di oltre cento uomini in cui era profusa ogni cura, dovessero restare in cantina e nel frantoio, senza possibilità di essere apprezzati e conosciuti, a causa di una
guerra insensata e della distruzione di una nazione. Per
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lui era semplice follia, come se il caos avesse decretato la fine di una tradizione millenaria.
Per Pierino l’ipotesi dell’impossibilità di far assaggiare i suoi preziosi vini, prima ancora che una perdita
economica, corrispondeva alla privazione della sana
soddisfazione di un anno di sforzi dell’intero Creato.
Un’assurdità da combattere con tutte le sue forze.
Alle dieci del mattino del 3 settembre giunge la notizia che gli Alleati stanno sbarcando a Salerno e che
gruppi di paracadutisti sono stati lanciati su Brindisi, a
pochi chilometri da lui. Così Pierino capisce perchè la
guerra aveva rallentato ad agosto: ma ormai a lui importa poco. Guerra o non guerra, sbarco o non sbarco,
tedeschi, americani, inglesi, marocchini, neozelandesi,
italiani, fascisti, comunisti, socialisti o fedeli a Casa
Savoia, per lui nessuna di tutte queste categorie aveva
un grande interesse. Le cose che gli interessavano di
più erano l’uva e le olive, da raccogliere e portare in
cantina, contro tutto e tutti.
La sera dell’8 settembre c’è di ronda Francesco, che
a cavallo fa il giro dei vigneti più vicini a Salice, mentre Domenico Lumia è dall’altra parte del paese, al
Truppère.
Nella notte hanno sentito passare uno stormo di
bombardieri diretti a nord. Si sono svegliati tutti per
essere pronti a scappare verso le vigne, controllando se
il tascapane con una bottiglia d’acqua e un po’ di pane
raffermo fossero pronti lì vicino per ogni evenienza.
A diecimila metri un gruppo di uomini chiusi den36
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tro i loro gusci rombanti, dal nome di Bombardiere
Liberator, siedono circondati da un freddo glaciale, imbottiti dagli abiti di volo fino a non potersi più muovere, incastrati nei loro seggiolini riscaldati, respirando
aria compressa che, all’interno dei loro respiratori, fischia debolmente. I Liberator sorvolano la Puglia e poi
virano di qualche grado a ovest, dirigendosi a nord di
Napoli.
Gli uomini e le donne della masseria sentono il rombo allontanarsi e si riaddormentano.
Per poco.
Alle 5 del mattino è ancora buio e lo scalpiccio di
un cavallo sulla ghiaia che ricopre la terra battuta antistante l’ingresso basta a destare il loro sonno leggero.
Gli uomini di guardia che dormono vestiti armano i fucili e aprono uno spiraglio di finestra.
<<Sono io, sono io, Salvatore, non sparate! Devo
parlare con Don Pierino, mio padre! È finita la guerra!
È finita la guerra!>>.
Pierino è già in piedi e si precipita dabbasso.
Salvatore entra nel cortile accompagnato da Brutus, il
fiero alano arlecchino, che trotta accanto al cavallo.
<<Salvatore, ma sei pazzo ad andare in giro da solo
di notte?>>.
<<Lo so che non volevi papà, e convincere la mamma è stata un’impresa, ma era importante. E poi sono
con Brutus, sai che non lascia avvicinare nessuno sconosciuto. È finita la guerra. È stato firmato l’Armistizio, a Cassibile, in Sicilia>>.
Pierino sorride. <<Così finalmente è finita, eh?>>
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poi si fa serio <<ragione di più per non andare in giro
a cavallo col buio. Ora davvero potrebbe succedere di
tutto, con i tedeschi ancora in giro. Però sono felice di
vederti, sei stato bravo>>. Lo abbraccia.
Salvatore sapeva di rischiare con quella piccola avventura e sapeva di meritarsi una ramanzina coi fiocchi, ma un armistizio non capita tutti i giorni!
I contadini esultano e al grido di <<È finita la guerra!>> cominciano a sparare colpi di doppietta in aria,
mentre Brutus abbaia balzando tutt’intorno al cortile. I
contadini credono che sia passata via per sempre quella nube scura che li ha avvolti con racconti di storie orrende, di perdite di ragazzi partiti col sorriso e che mai
più torneranno, e la fine di quegli orribili bombardamenti che loro hanno vissuto da racconti, da testimonianze, senza per fortuna mai averli provati sulla loro
pelle, lasciandoli tutt’al più privi di poche cose, come
lo zucchero, il caffè, e di tanto in tanto del pane.
Passata via come un incubo, lasciando loro la speranza
di quel che si dice, che gli americani distribuiscono a
piene mani cioccolata e sigarette, caffè e caramelle, cose che loro stentano a credere, come se quelli che vengono così da lontano non venissero da una terra come
la loro, ma dalla stessa divina matrice del miele infavato. Più che il ritorno alla normalità del passato e ad
una vita comunque di stenti, la fine della guerra diventa così quasi la promessa che quel regno di bengodi
verso il quale si sono diretti tanti emigranti, potesse arrivare lì da loro e invaderli con pan di zucchero bombardato di canditi.
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Pierino sarebbe felice di credere e sperare come loro che finalmente quella follia della guerra sia davvero
finita, così lui potrebbe finalmente dedicarsi a quello
che gli interessa di più, Lisetta, i ragazzi e le sue vigne.
Per onorare la speranza fa aprire una vecchia botte di
Negroamaro e tutti insieme brindano al futuro dei loro
figli. Pierino ripensa all’illusione del fascismo. Ma lì
in paese il fascismo era solo un sipario trasparente su
una realtà immutabile, un abito carnevalesco su ruoli e
abitudini che reggevano immutati da più di seicento
anni. Come quella volta che il Sindaco volle fare un’adunata oceanica in piazza e cominciò a distribuire dolcetti. L’Avvocato Gioele Leone, il padre di Pierino, lasciò la piazza, e tutti i suoi operai presenti con mogli e
figli, vedendolo allontanarsi, si guardarono l’un l’altro
e lo seguirono, pensando che fosse meglio fidarsi del
buon senso proverbiale del padrone in quel genere di
cose. A Pierino piacerebbe credere e sperare così semplicemente. Teme invece che, armistizio o no, il peggio
debba ancora arrivare.
Così manda un contadino in paese. Gli dice di passare da Donna Lisetta a chiedere se hanno bisogno di
qualcosa. Poi di andare da Arcangelo <<Manomonca>>, Giulio e Francesco, di chiamare due suoi cugini
e uno zio, di armarsi e di venire a Messere Andrea.
Occorrerà predisporre delle guardie ai vigneti, di notte
e di giorno.
Poi raduna tutte le famiglie della masseria nel cortile centrale, sale sul bordo del pozzo e, mentre il sole fa
capolino sui tetti illuminandogli i capelli neri, dice:
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<<Adesso che è finita la guerra possiamo tutti quanti
sperare in un futuro migliore. Ma purtroppo ci sono
tanti ragazzi ancora sotto le armi, che forse torneranno
presto. Ci sono tanti profughi che cominceranno a girare per l’Italia alla ricerca di un posto dove dormire,
di un po’ di cibo. Ci saranno tante famiglie che vorranno tornare a casa e soprattutto ci saranno due eserciti, gli americani e i tedeschi, che continueranno a farsi la guerra in casa nostra. C’è una gran confusione e
ce ne sarà ancora. Speriamo tutti che duri poco, ma nel
frattempo noi abbiamo una cosa da fare>>. Si ferma un
attimo. Li scruta negli occhi scuri di chi ha dormito poco e male, non solo quella notte ma per intere settimane, mesi, dall’inizio di quella guerra, dalla fine del
1939, senza nemmeno sapere perchè. Occhi stanchi
che adesso si sentono di nuovo in grado di continuare
a sperare e di lottare. Improvvisa una voce roca rompe
il silenzio dal fondo del cortile.
È quella del vecchio Salvatore che dice :<<Lu
Mieru>>.
Don Pierino sorride.
<<Certo Salvatore, lu Mieru dobbiamo fare. E lo
dobbiamo fare buono, perchè dobbiamo venderlo, e
venderlo bene, per ricominciare daccapo, dopo questa
maledetta guerra. Quindi adesso abbiamo festeggiato,
ma da domani, anzi da oggi, occhi aperti e sotto a lavorare>>.
Pierino torna nelle sue stanze al primo piano dove la
domestica gli ha preparato il caffè di carrube e si sbarba in fretta, parlando nel frattempo con Salvatore che
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gli racconta le ultime della famiglia. Si fa preparare la
carrozza e parte, seguito da suo figlio a cavallo e
Brutus in avanscoperta. Il trotto di Ella, la sua giumenta, scandisce veloce il tempo verso casa.
Quando entrano nel giardino di casa, Lisetta è già
stata informata del loro arrivo dal contadino di guardia.
Si mette al pianoforte e suona per loro. Pierino e
Salvatore salgono insieme la scala mentre le note
dell’Inno alla Gioia di Beethoven risuonano in tutto il
palazzo. Pierino abbraccia Lisetta in abito bianco ornato di fiori rosa d’organza e riuniscono tutta la famiglia nello studio, con la radio accesa e con le finestre
aperte. Ormai si può dimenticare la farsa di non ascoltare la BBC. I bambini sono eccitatissimi, senza nemmeno comprendere perchè, girano e girano in tondo
approfittando per una volta dell’occasione di fare baldoria, continuando a gridare <<È finita la guerra, non
andremo più in cantina! Andremo a far vendemmia!>>.
Si abbracciano tutti, come se avessero scoperto una
nuova porta per il giardino della felicità, come se fossero nel capodanno di un nuovo secolo, in cui le finestre possano stare aperte, di giorno e di notte e nessun
lontano mugghiare di motori ad elica possa mai più
rompere la serena tranquillità di una vita di lavoro.
Pierino è andato a casa a Salice per festeggiare, ma
anche per preparare i suoi.
Dice loro di tenersi pronti perchè la confusione sarà
grande. Ci sono i soldati in Grecia che torneranno, ci
sono tutti quelli che avevano lasciato Foggia e altre
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città che vorranno tornare, ci sarà un gran viavai. Che
facciano attenzione. Lui lascerà due uomini di guardia
alla cantina e alla casa. Ma soprattutto che stiano attenti. E che si organizzino per dare assistenza a quelli
che ne hanno bisogno. Adesso è il momento di avere i
nervi a posto. Lui deve badare alla vendemmia, è essenziale portare in cantina tutto il prodotto della terra,
e poi si vedrà cosa farne.
La famiglia lo ascolta mentre parla tenendo in braccio Maria Vittoria, che gioca con la sua cravatta, girandosela attorno al collo.
<<Ma perchè Pierino, non pensi che tutto sia finito?>> gli chiede la madre.
<<Sì, è tutto finito, ma ci sono gli americani e i tedeschi, il Re non si sa dove sia, l’esercito è allo sbando, e gli sfollati girano da tutte le parti. È finita la guerra, ma forse perchè finiscano le nostre difficoltà e quelle degli altri, occorre che passi un po’ di tempo. Nel
frattempo dobbiamo rimboccarci le maniche>> risponde Pierino.
<<E che dobbiamo fare, di grazia?>> gli chiede la
suocera, un po’ allarmata.
<<Stare con gli occhi aperti e soprattutto, se possibile e se c’è bisogno, dare una mano alle famiglie del
paese in difficoltà. Tutto qui>>.
<<Contaci, e se hai bisogno di una mano in cantina,
te la diamo anche noi>> dice Lisetta con risolutezza.
<<No, non ce ne sarà bisogno, ma tenetevi uniti e
state attenti>>.
Dieci minuti dopo Pierino è già sulla carrozza al
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trotto, lascia alla sua destra la cantina ed esce dal paese. Non ha tempo neppure per lei, ci tornerà la sera.
Adesso deve andare a controllare le vigne. Non si sa
mai.
Il marinaio scelto Giuseppe La Manna, 19 anni, sta
lavando il pavimento della timoniera della corvetta
Baionetta, un vascello antisommergibili da 728 tonnellate, lungo 64 metri e mezzo, che va a sud alla velocità
di crociera di 19 nodi. A settembre, si sa, il Mar Adriatico può essere solo calmo e tranquillo. L’affilata prua
della corvetta alza due baffi d’acqua alti e trasparenti
che collassano più indietro, sulla scia, spalmando la
schiuma verso la poppa bassa e sottile.
La sera del 9 settembre, nel porto di Pescara,
Giuseppe aveva visto due anziani ufficiali salire sulla
nave in tutta fretta. Avevano poi salpato in direzione
sud. Immediatamente si sparse la voce che quei due
erano nientedimeno che Badoglio e il Capo della
Marina de Courten. Ma le sorprese per un marinaio sono normali. All’una di quella stessa notte a Ortona avevano imbarcato altre sessanta persone, tra cui addirittura il Re e la Regina.
Giuseppe passa la ramazza bagnata a destra e a sinistra sul pavimento fino a quando non diventa di un
lucido e uniforme colore grigio ferro. Poi saluta la
guardia e scende la scaletta che porta sul ponte. Vede
le signore in abiti eleganti che stanno a poppa, accanto
ai violenti lanciatori delle bombe di profondità, al riparo dal vento e dal sole, con le gonne che ondeggiano
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col lieve rollio. Parlano tra loro mentre qualche sbuffo
di vento agita i loro capelli. A poppa, distante, l’incrociatore Scipione li segue.
Giuseppe sa che adesso deve passare nel quadrato
ufficiali. È la terza volta oggi che lava il pavimento del
quadrato, così zeppo di gente che non si riesce neanche
a passare la ramazza in mezzo alle gambe di tutti quegli alti ufficiali. Lui ha una gran paura di ministri, ammiragli, e oggi ha persino incontrato il Re lungo un
corridoio. Si è immobilizzato come un soldatino di
piombo cedendogli il passo, e il basso Sovrano è passato oltre facendo risuonare i suoi stivali da caccia, così poco adatti alla navigazione, senza dar alcun segno
di essersi accorto di lui.
Giuseppe viene da Porticello, un paesino di pescatori vicino Palermo, ed è in marina da nemmeno un anno. Da quando è partito da casa ne ha viste di cose. Nel
suo paese le personalità più in vista erano qualche barone che abitava a Bagheria, l’arciprete e il sindaco. E
il Raìs della tonnara. Ora invece in un sol giorno gli è
capitato di dover incontrare una ventina di volte l’intero Stato Maggiore e il Governo d’Italia.
Finito il suo turno, dopo aver pranzato in piedi tra
una porta tagliafuoco e uno sgabuzzino delle ramazze,
decide di buttarsi in branda, almeno mezz’ora. Alle
15,00 dorme appena quando i motori passano dalla
propulsione diesel a quella elettrica. Il silenzio e l’assenza di vibrazioni lo svegliano di botto, ansimante. È
una cosa strana per una nave. Tende l’orecchio, ma non
sente nessun allarme, nessun ordine di combattimento.
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Ormai è impossibile riaddormentarsi. Sale in coperta
per dare un’occhiata. Lo Scipione è sempre sulla loro
scia. Tutto va a rovescio a questo mondo. Dovrebbero
essere loro a scortare lo Scipione per difenderlo dagli
attacchi dei sommergibili, e invece adesso è lui a scortare la piccola Baionetta perchè a bordo c’è il Re.
Sono al largo di Brindisi e Giuseppe vede una lancia puntare su di loro a tutta velocità, alzando baffi di
spuma bianchissimi nella luce abbagliante del pomeriggio settembrino.
La lancia si affianca alla corvetta e il Comandante
Militare di Brindisi sale a bordo. Alla vista del Re e
della sua famiglia la sorpresa è totale. Pochi minuti
dopo la nave vira ed entra in porto.
Giuseppe spera che tutta quella gente sbarchi. Lui è
addestrato per lanciare le bombe di profondità, preferisce vedersela con i sommergibili tedeschi, prima amici e ora nemici, che con tutti quegli alti papaveri.
Il 10 settembre giunge a Messere Andrea la notizia
che un battaglione di paracadutisti americani è stato
lanciato su Brindisi e ha preso la città e il porto. Nel
frattempo gli americani sono sbarcati a Salerno e infuria la battaglia verso Napoli. Sembra che la città sia
impazzita. La popolazione si rivolta contro i tedeschi,
contro i fascisti e ogni autorità costituita, spontaneamente.
Il Primitivo di Truppère in tre o quattro giorni sarà
perfetto per cominciare la vendemmia. Dopo toccherà al
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Negroamaro e alla Malvasia. L’uva è bellissima e questi
ultimi giorni di caldo l’hanno resa croccante, profumata
come di donna e dolce come il miele selvatico.
Occorre vendemmiare, entro il 14. Pierino si chiede
che cosa succederà entro tre o quattro giorni. Forse
niente. Forse invece li invaderà il caos, che fino ad ora
li ha risparmiati. Il Primitivo non si curerà affatto delle vicissitudini degli uomini in guerra. Continuerà a fare ciò che ha sempre fatto: svilupperà gli zuccheri fino
al massimo, poi l’acino comincerà a collassare, a perdere acqua, concentrando le sostanze interne ancora di
più. Prima di quel giorno occorrerà raccogliere. Per
farlo occorrono gli uomini, molti uomini e molte braccia. Se ci saranno abbastanza uomini non impegnati a
scappare, a fuggire, a limitare il caos che è lì lì per
scoppiare, ce la farà. Se invece tutti gli esseri umani saranno in movimento per salvare almeno la pelle, l’uva
resterà attaccata alla vite, e infine si perderà. Un anno
di fatiche perduto, la cantina semivuota, a velocità ridotta. Un disastro. Quando Pierino pensa a questa
eventualità gli viene voglia di battere i piedi per terra
dalla rabbia. Pensa che l’uomo non può con le sue inutili follie, con la sua vanità, il suo orgoglio, o con la
paura, oppure ancora con l’orrenda volontà di saccheggio impedirgli di raccogliere quell’uva che a quel
punto è diventata un dono della terra e di Dio. A volte
si ferma a pensare a cosa potrebbe dare in cambio di
una tranquilla vendemmia. Forse arriverebbe a pagarla
il suo intero valore, pur di portare a casa quel frutto celeste. Poi si corregge, non può arrivare a tanto. Ma la
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rassegnazione non è un sentimento che gli piace.
Comincia a fare delle ipotesi. Supponendo di voler cominciare il 14, l’indomani e cioè l’11, dovrà chiamare
tutta la gente che serve, che ha già allertato, dando l’ordine finale. Supponendo che non succeda niente nei tre
giorni successivi, con i sei carretti che hanno a disposizione e le trentacinque persone, di cui otto di guardia
e sei ai carretti, restano ventuno uomini in condizione
di raccogliere anche due quintali di uva in un giorno,
per un totale di quarantadue quintali. Ci vuole un’eternità a raccogliere tutto, considerando che appena finiscono con il Primitivo devono attaccare col Negroamaro, che è molto di più. Ma non ha altri uomini disponibili.
Per fare più in fretta ed essere sicuro di portare tutto in cantina, a dispetto del caos che avanza, dovrebbe
far lavorare le donne in vendemmia come si fa in tutta
la Puglia, ma lui non può.
Lisetta, nota per le sue idee progressiste, cinque anni prima lo convinse a fare la vendemmia senza le donne.
Tutto era nato quando in autunno, come sempre, si
erano trasferiti a Messere Andrea. Lisetta aveva passato molti mesi a leggere articoli e libri sulle condizioni
di vita delle donne e dei ragazzi nelle miniere e fabbriche inglesi e francesi, restando inorridita da quella che
considerava una nuova barbarie. Ciò che succedeva in
vendemmia non le era sembrato molto diverso. Intere
famiglie di contadini si trasferivano nelle campagne, in
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vigneti spesso molto distanti. Le donne faticavano anche più degli uomini, venivano pagate di meno e la sera dovevano pure occuparsi delle famiglie. Non erano
infrequenti i casi di totale prostrazione fisica di quelle
donne, a volte malnutrite, sottoposte ad una fatica
enorme sia per la raccolta che per i lavori familiari.
Lisetta aveva detto che era inaccettabile che nel ventesimo secolo succedessero quelle cose. Aveva fatto una
serie di conferenze per denunciare la situazione sia a
Salice che nei paesi vicini e aveva avuto molti attestati di stima da parte delle signore, ma ben poca attenzione da parte dei loro mariti, possidenti terrieri. Alla
fine si era decisa a passare all’attacco con Pierino, dicendo che bisognava dare l’esempio: dai Leone de
Castris la vendemmia si doveva fare senza le donne.
Pierino aveva detto che era impossibile, per vari motivi. Innanzi tutto per gli stessi contadini. Il reddito occasionale della vendemmia fatta dalle donne era essenziale per le famiglie. La povertà sarebbe aumentata invece che diminuire. Se poi loro non avessero assunto le
donne quelle sarebbero andate da un’altra parte a lavorare, dividendo le famiglie. Sarebbe stato peggio.
Inoltre quell’idea sarebbe stata osteggiata da tutti in
paese, e anche fuori, insomma sarebbero passati per
originali, se non addirittura folli. Per non parlare delle
conseguenze sulla loro azienda. Costretti ad assumere
più uomini pagandoli di più, il costo del vino sarebbe
salito tanto, forse troppo. Da ogni parte la si guardasse, la faccenda era molto seria e piena di conseguenze
rischiose.
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Ma Lisetta non demordeva. Lo incitava a trovare soluzioni alternative, che fossero in linea con il principio
che le donne avevano gli stessi diritti degli uomini e
che in più dovevano anche badare alle loro famiglie.
Lisetta de Castris, figlia del Conte Arcangelo, non era
donna dal carattere cedevole. Era nata che il padre era
già anziano, era restata orfana quando aveva appena
quattro anni. Sua madre, Vincenza Fantastico, l’aveva
allevata nella dignità della famiglia nobiliare, condita
dalla coscienza di un ruolo superiore nel mondo e della fermezza della volontà incrollabile. Sulla questione
delle operaie aveva fatto capire al marito che gli dava
tempo, ma che non sarebbe retrocessa di un passo. Ne
andava della sua credibilità.
Pierino aveva escogitato di fare la vendemmia pagando di più gli uomini e facendo lavorare le donne solo quattro ore, ma con una paga inferiore. Aveva cercato inoltre di coinvolgere intere famiglie, in modo da tenerle insieme nel periodo della vendemmia.
Aveva salvato in questo modo il reddito dei contadini e i costi della sua azienda, ma si era attirato tutte
le chiacchiere di Salice e dei paesi vicini, in cui si diceva persino che dai Leone de Castris i pantaloni non
li portava solo Pierino, ma anche Lisetta. Gli altri proprietari terrieri inoltre si erano adirati perchè gli uomini cercavano di andare a lavorare dai Leone de Castris,
a causa della paga più alta, privandoli di braccia durante la vendemmia.
Era stato coraggioso e lungimirante ma proprio
adesso che aveva bisogno di più gente perchè il tempo
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era prezioso, non poteva contare sulle donne. La parola data a Lisetta era sacrosanta.
Un’idea lo coglie all’improvviso. <<Ma certo! - si
dice, - come ho fatto a non pensarci subito!>> La parità! Certamente sua moglie avrebbe acconsentito a far
lavorare le donne se la loro paga fosse stata uguale a
quella degli uomini, e al diavolo cosa ne avrebbero
pensato gli altri produttori. Certo come idea era grossa, lo avrebbero accusato di essere una suffraggetta
con i pantaloni, di essersi fatto sedurre totalmente da
idee troppo progressiste. Follie? E cosa c’era di più
folle che prepararsi ad una vendemmia nel bel mezzo
di un Armistizio, dopo un paio di sbarchi di intere divisioni alleate, bombardamenti, migliaia di morti e di
profughi che girano per le campagne, un Re senza
Regno a Brindisi e centinaia di ettari di vigneto e oliveto che dopo un anno aspettano di portare il loro frutto agli uomini che hanno innaffiato di sudore la terra?
Tutto il resto, comprese le chiacchiere di tutto un
paese, sembravano ridicoli squittii di una talpa il giorno di carnevale.
Pierino ferma di botto la carrozza e impone a Ella di
tornare sui suoi passi, verso il paese, verso casa.
Arrivato nel suo giardino molla le redini davanti l’ingresso e sale le scale a due a due, chiamando Lisetta a
voce alta. Incontra il Maestro di Casa che lo guarda
stupito passare di corsa e gli indica timidamente il salone col dito. Entra spalancando la porta. Lisetta sta
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prendendo il tè con alcune amiche e lui deve rallentare
il passo, sistemarsi la cravatta e spolverare la polvere
dei vigneti dalla giacca. S’inchina alle signore, scambiando qualche convenevole, lanciando occhiate a
Lisetta che aggrotta leggermente la fronte a chiedere
<<Che c’è?>>. Lui le fa un cenno verso la porta, appena percettibile, e si allontana uscendo dal salone.
Resta dietro la porta socchiusa fin quando non vede
Lisetta chiedere permesso alle sue amiche e avviarsi
verso di lui. Quando gli è davanti, Pierino lancia uno
sguardo nel corridoio, per accertarsi che non ci sia nessuno, le cinge la vita col braccio e la bacia. Lisetta dapprima resiste leggermente, ma poi viene vinta dalla
dolcezza dell’abbraccio e ricambia il gesto. Si guardano per qualche istante teneramente poi Pierino le prende le mani fra le sue e le dice:
<<Scusami ma dovevo parlarti subito>>.
<<Ma che è successo?>>.
<<Niente, mi è venuta un’idea>>.
Lisetta sente il suo sguardo intenerirsi e cerca di dominarsi:
<<Un’illuminazione, vedo>>.
<<Forse>> dice Pierino <<La situazione è che con
tutta questa confusione dell’Armistizio e degli americani non si trova abbastanza gente per fare la vendemmia in fretta, col pericolo che l’uva ne soffra e col rischio che succeda ancora qualcosa e la gente si sbandi.
Allora ho pensato.>>.
<<Alle donne vero? Ma tu lo sai che…>>.
<<Sì, lo so, ma ho pensato che allora, visto che sia51
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mo in emergenza, facciamola completa. Che ne diresti
se pagassi le donne come gli uomini?>>.
<<Come gli uomini?>> Lisetta ride di cuore <<sarebbe una cosa da far pubblicare sui giornali in
Inghilterra! Ma ti metteresti tutti contro>>.
<<Ah, se è per quello, non cambia molto>>.
<<Ma i tuoi uomini non pretenderanno mica che
quelle raccolgano esattamente come se fossero uomini,
non è che poi le ammazzeranno di lavoro?>>.
<<Ma no, Lisetta, per carità, lavoreranno sodo come tutti ma raccoglieranno con le ceste piccole, si riposeranno mezz’ora di più al giorno e lavoreranno solo fino alle sei del pomeriggio. Per tenere occupati
bambini e ragazzi forse ci potrebbe dare una mano la
Professoressa e tenere un po’ di scuola a Messere
Andrea. Che ne pensi?>>.
Lisetta ride dicendo <<Che così ti capiterà di assumere uomini travestiti da donne!>>.
<<Non scherzare Lisetta, qui ne va della vendemmia>>.
<<Va bene Pierino, per me va bene, si può fare. Già
mi sento le chiacchiere in paese e in famiglia… Cose
da pazzi!>>.
<<E già, anch’io l’ho pensato. E perchè, non sono
tempi pazzi quelli in cui viviamo? Ma lo sai che mi
hanno detto? Che il Re è andato via da Roma e adesso
è a Brindisi!>>.
<<Davvero?>>.
<<Pare proprio di sì. Che dici, la Mamma sarà contenta?>>.
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<<Giubilante, direi>> dice Lisetta e tutti e due ridacchiano piano piano, per non farsi sentire dal salotto.
<<Va bene adesso vai, che annuncio la notizia alle
mie amiche. Ci vediamo stasera?>>.
<<Sì, sì a più tardi. Io convoco la gente. Il 14 si comincia>>.
<<Buona vendemmia, allora>>.
<<Ciao, a stasera>>.
Pierino fa girare la voce in paese che tutti i suoi contadini, uomini e donne, e tutti quelli che vogliono fare
la vendemmia si raccolgano domenica 12 settembre,
dopo la Messa, nel giardino del palazzo, quello tra la
casa e la cantina. E che la paga delle donne sarà uguale a quella degli uomini.
Quella sera il Maestro di Casa gli porge un biglietto del Notaio Torre, portato da un suo famiglio, informandolo che lo stesso attende una risposta.
<<Illustrissimo Avvocato,
le novità di questi giorni sono così sorprendenti da
lasciare senza fiato. Ma che nelle tenute dei Leone de
Castris le contadine saranno pagate come i loro uomini, sfiora l’inverosimile. L’anno prossimo vorrà stupirci con una vendemmiatrice meccanica? Un caro abbraccio. Suo (firmato illeggibile)>>.
Adesso Pierino sa che se il Notaio non si è potuto
trattenere dal canzonarlo, le chiacchiere in paese saranno al vetriolo.
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Passa nello studio, prende un foglio di carta intestata Leone de Castris, e lo dispone sullo scrittoio.
Sceglie un bel pennino nuovo e rimane a guardare fuori dalla finestra per qualche istante. Poi intinge il pennino e scrive:
<<Illustrissimo Signor Notaio,
mi rendo conto che vivendo in tempi straordinari la
normalità sia un miraggio. Ma a mali estremi, estremi
rimedi. Ho il diritto e il dovere di portare il frutto dei
miei vigneti e oliveti in cantina, nonostante l’Armistizio, i bombardamenti, i tedeschi e (speriamo bene)
gli Alleati. Se per fare il mio dovere devo <<mettere i
pantaloni>> alle donne, vuol dire che viviamo in un
momento ben strano del nostro vecchio mondo. Pazienza. Mi sono convinto che meglio qualche stranezza concreta che tante speranze inutili. A Dio piacendo
inizierò la vendemmia a Messere Andrea il 14 settembre. Umilmente Suo, (firmato illeggibile).>>.
A Salice Salentino sta per cominciare la vendemmia
del 1943.
Una vendemmia di guerra.
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CAPITOLO 3
Una vendemmia di contadine
L
a famiglia Leone de Castris si prepara con cura
particolare per la Messa di quella domenica. Lisetta
controlla che tutti i bambini siano pettinati con la precisione necessaria e che si siano puliti ben bene le
orecchie. Dà un’occhiata anche alla toilette di Maria,
la Tata, e predispone gli abiti di Salvatore. Ci mette
l’impegno di un caporale di giornata in occasione della rassegna del Comandante di battaglione, e di quello
si tratta, visto che il paese intero li avrebbe passati in
rassegna.
Il Parroco, Don Gaetano, recita un’omelia particolarmente breve, dichiarando che le chiacchiere in paese sull’Armistizio e sull’inizio della vendemmia hanno
fatto traboccare il vaso del dire, e che è venuto invece
il momento del fare, ed è proprio nel fare, retto e corretto, che si vede la vera Fede dell’uomo. <<È nel fare
che si vedono gli uomini, e non i chiacchieroni>>.
Accompagna queste parole con occhi tanto iracondi
che molti si chiedono quali siano in realtà i pensieri del
parroco di Salice e soprattutto a chi, dei presenti, stia
parlando.
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Pierino si chiede se non sia stato informato di qualche avvenimento particolare. Ma un Parroco, che sia veramente tale, sa tutto quel che avviene nella sua parrocchia. Ne viene informato rapidamente e con pienezza di
dettagli. Dalla profondità del confessionale è in grado di
interpretare ogni singolo filo della trama che lega tra loro gli uomini e le donne del suo gregge di fedeli.
Appena Francesco aveva passato la voce per l’assunzione dei contadini, Don Gaetano aveva avuto conoscenza
non solo dei dettagli dell’offerta di lavoro ma anche dei
commenti dell’intero paese e soprattutto di quelli dei
soliti sei o sette notabili che avevano la catteristica di essere sempre contro. Che i loro commenti siano stati negativi non desta in lui la minima sorpresa. Si tratta infatti di persone che, isolate nel proprio egoismo, non desiderano alcun cambiamento, meno che mai quando
questo è rivolto al miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, e cioè del loro prossimo. Se Don
Pierino assumeva per la vendemmia e se le donne guadagnavano come gli uomini a loro non sarebbe costato
nulla. Però parlavano, criticando, a voce alta.
E Don Gaetano non si stupiva di questo, capitava
sempre. Ma quello che gli faceva perdere la proverbiale Santa Pazienza era che mentre Pierino faceva, quelli stavano seduti a casa loro, mangiando e bevendo, e
già andava bene se durante la vendemmia si preoccupavano, una volta o due, di andare a vedere le vigne.
<<E pazienza se fossimo in tempi normali>> pensa
Don Gaetano, <<ma adesso, con tanta gente che scappa dalle città bombardate, affamata e senza casa, senza
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lavoro, continuare a dire <<Ma a Pierino chi glielo fa
fare di far beneficienza>> è veramente crudele, inaccettabile. Almeno facessero, lavorassero… Ma no, niente. Stanno seduti e parlano>>.
E così Don Gaetano aveva deciso che l’omelia di
quella domenica dovesse contenere un solo messaggio
rivolto a sette persone, e solo a quelle. Per la spiegazione del Verbo Divino il resto dei fedeli avrebbe
aspettato la domenica successiva. Il Parroco sapeva di
non avere nessuna speranza di modificare quel comportamento, ma certe cose, come usava dire, urlano la
loro ingiustizia di fronte a Dio.
Il campanile suona i primi rintocchi delle undici e
trenta quando Don Gaetano si decide a diffondere la
benedizione del Signore. I Leone de Castris, che si sono alzati in tutta fretta dal loro banco, scendono velocemente i gradini della Matrice dirigendosi di buon
passo a casa guardando davanti a sé, senza curarsi degli immancabili curiosi che affollano le zone d’ombra
della piazza. Pierino, in testa, tiene a braccetto Lisetta,
paludata in un castigatissimo abito scuro nonostante il
caldo. Più che camminare sembrano marciare verso
casa, seguiti dai cinque figli più Maria, la governante,
che ha la piccola in braccio. Persino lei, come se avvertisse il momento particolare vissuto dalla famiglia,
parla sottovoce vicino all’orecchio della Tata. Lisetta
chiede a Maria cosa le abbia detto. La governante sorride e sussurra <<Mi ha chiesto se ci sono i bombardieri>>. Lisetta ride pensando <<Quasi>>.
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All’uscita dalla Messa la gente del paese ha rallentato il passo occupando la piazza antistante la Matrice,
ritrovandosi per discutere delle loro cose, delle ultime
novità, piccoli fatti di campagna, concreti, semplici, o
delle storie di quella guerra, dei bombardamenti, di parenti morti o in fuga, di case distrutte, di poderi sconvolti dalle bombe. Sono soprattutto donne quelle che
formano capannelli nella piazza, accostandosi per antica conoscenza.
Gli uomini sono pochi. In piazza ci sono solo quelli che sono riusciti a non farsi arruolare, oppure troppo
anziani per prendere le armi. Gli altri, che sono stati
mandati a combattere in Africa e in Russia, sono ancora troppo lontani. Hanno lasciato le loro uniformi dopo l’Armistizio e sono già in marcia verso casa, un lungo e pericoloso viaggio attraverso la guerra morente.
La maggior parte arriverà entro la fine dell’anno, ma la
vendemmia sarà finita da un pezzo.
Le donne che si preparano a quella vendemmia sono abituate a dare una mano nei campi, hanno dovuto
prendere in mano le redini della famiglia oltre che del
proprio podere, se il marito ne aveva uno. Molte di loro sono sole da anni, alcune da mesi, altre ancora sanno che non rivedranno più quell’uomo che le ha lasciate partendo da una stazione, con in mano una carabina, per andare a fare il gioco più vecchio e cruento
che i maschi della specie umana si sono inventati, ammazzandosi fra di loro. Molte di loro pensano che se
provassero una volta a far fare alle donne, la guerra finirebbe prima ancora di cominciare. Che gli uomini
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sono come bambini, si gloriano di andare a combattere e le lasciano lì a faticare come muli per mesi e anni,
a crescere i loro figli che vengono su più come le piante che come gli uomini, a furia di stare in campagna.
E adesso stanno in piazza, con la vendemmia dai
Leone de Castris che comincia il quattordici, e loro la
devono fare, perchè le pagheranno proprio come i loro
uomini lontani. Che è una cosa sacrosanta, pensano, a
maggior ragione perchè le donne da secoli faticano
quanto e più degli uomini e <<ognuna di noi>>, si dicono, <<di vendemmie ne ha sulle spalle da dieci a
venti. E per una volta, in questo mondo che sembra andare al contrario, se ne sente una giusta>>.
Il primo gruppo è quello dei contadini che lavorano a
giornata. Pensano che la vendemmia di Don Pierino
spetti innanzi tutto a loro. Sono i più poveri, hanno fame
tutto l’anno e quando arriva settembre, piegati in due a
raccogliere i grappoli bassi delle vigne ad alberello cercando i grappoli nascosti fra le frasche, possono finalmente riempire la pancia e mettere da parte qualche soldo per l’inverno. Poi c’è il gruppo di quelli che hanno un
piccolo podere, magari a colonìa, ma che sono tanti in
famiglia, donne e bambini, e così possono offrire qualche braccio a settembre e a ottobre per la vendemmia.
Questi pensano di avere diritto di lavorare perchè sono
del paese e quindi tocca a loro, dopo i giornalieri.
Poi ci sono gli sfollati, i profughi, i più poveri di tutti, che sono in paese perchè non hanno più un posto dove andare, privati dalla guerra di una casa, di un lavoro. Possiedono solo i vestiti che hanno addosso e una
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fame mai soddisfatta, antica quasi, che ciascuno sogna
debba finire un giorno, ma chissà quando. Sono arrivati a Salice perchè magari ci abita uno zio, un cugino,
che dà loro una mano, a volte veramente solo quella
perchè da mangiare e da dormire non ce n’è a sufficienza neanche per loro.
Gli sguardi delle donne s’incrociano attraverso la
piazza carichi di speranza, determinazione, rassegnazione, fame, rabbia, risolutezza e disperazione, paura e
dolore.
E tutto intorno corrono i bambini, per sfogare l’immobilità imposta dalla lunga ora della Messa domenicale, per i quali l’essere tutti insieme è già una festa
perchè si possono fare più giochi. E siccome sanno che
staranno in piazza per poco, corrono e corrono tra i capannelli, li collegano, li sfiorano, ora l’uno o l’altro,
senza poter spezzare con questo la pesantezza degli
sguardi dei grandi.
Mentre tra le giornaliere si discute su chi vuole andare da Pierino, chi s’è promessa al Notaio, chi
all’Avvocato, le sfollate le guardano senza potersi rassegnare ai loro sorrisi, entrando in agitazione non appena quel gruppo si scioglie, scoprendo quante tra loro si avviano da Pierino. L’agitazione degli sfollati sale, qualcuno accenna ad alzare la voce, a fare gesti bruschi. Una donna prende i suoi figli per mano e segue i
giornalieri. Qualcuno vuol trattenerla dicendo che è
inutile, ma lei è decisa e prosegue urlando <<glielo devono dire in faccia a ste creature>>. Tutta la piazza si
gira a guardarla mentre una decina di persone si stacca
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dal gruppo e la segue. Molti scuotono la testa e lasciano la piazza per tornare a casa. Infine un terzo gruppo
prende la via di palazzo de Castris.
Sulla via adesso ci sono tre schiere, fatte in maggioranza da donne, e quella di mezzo è la più rumorosa per farsi coraggio.
All’ultima svolta prima del giardino de Castris,
quando già s’intravedono le persiane verdi del palazzo,
le voci si placano, le parole si smorzano, rimane solo il
suono dei passi, anche di quelli scalzi, a rimbalzare tra
le pareti bianche delle case intorno.
Don Pierino, appena entrato in casa, sale le scale a
due a due verso lo studio dove lo sta aspettando Francesco.
<<Ciao Francesco, allora?>>.
<<Buongiorno Don Pierino. Ieri sera ho passato voce che ci servono quaranta giornalieri, e che potranno
portare i figli per studiare alla masseria. Dovrebbero
esserci tutti i soliti, che difenderanno in qualche modo
il posto. Ci saranno anche le donne di quelli che gli altri anni hanno fatto la vedemmia con noi, perchè pensano di averne diritto. E ci sarà anche molta altra gente. C’è da aspettarselo, con i tempi che corrono>>.
<<Lo credo bene, con quello che offriamo>> dice
Pierino <<A tal proposito, pensavo che forse potremmo assumerne più del previsto, potremmo velocizzare
la raccolta. Male non farebbe…>>.
<<Certamente, però se raccogliamo troppo in fretta
poi la cantina non ce la fa a reggere il ritmo, e allora…>>.
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<<A tal proposito ho qualche idea che sto ancora
elaborando. Se fosse la vendemmia di un anno normale avresti ragione, ma questa sarà una vendemmia particolare, non solo per i contadini, ma anche per la cantina. Dovremmo farcela>>.
<<In ogni caso, Don Pierino, deve decidere lei. Per
me che ci sia più gente a raccogliere è una buona cosa.
Impegnativa, ma buona. Rischiamo meno con le piogge, se verranno>> conclude Francesco.
Nello studio entra Salvatore che scambia un’occhiata col padre, ricambiando il buongiorno di Francesco.
<<Salvatore, il banco è pronto?>>.
<<Sì, l’ho fatto portare fuori, sotto il noce, così stiamo all’ombra>>.
<<Bene, allora siamo pronti. Francesco, posso offrirti qualcosa?>>.
<<Non vi disturbate Don Pierino, sto bene, grazie>>.
<<Neanche un bicchiere d’acqua?>>.
<<Quello non si rifiuta mai>>.
Pierino chiama la domestica e fa portare una caraffa di acqua fresca. Si siede sulla poltrona dietro la scrivania e prende una matita. Con un temperino ne affila
la punta. Salvatore si sposta verso la finestra dalle persiane abbassate: da lì può vedere solo sottili strisce della parte bassa del giardino. Tutto il resto gli è precluso.
Nel frattempo i contadini giungono al cancello del
giardino, tenuto aperto da una delle domestiche di casa. Quelli che da più tempo raccolgono l’uva nelle tenute di Pierino sorridono, certi del fatto loro, vorreb62
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bero quasi fare gli onori di casa per quelli che stanno
dietro, entrando nei viali ornati di fiori, di cespugli di
erbe aromatiche, all’ombra dei noci, dell’araucaria,
delle palme. Ma la presenza della bianca facciata con
la scala e il portone a due ante aperto ma buio mette
soggezione. Cominciano a disporsi all’ombra degli alberi, i più anziani dove la frescura è più fitta, più scura, e poi via via i più giovani ed infine i nuovi, quelli
che non hanno mai visto la casa.
Nel frattempo al primo piano, dietro le persiane abbassate, Salvatore tenta di guardare nel giardino, ma
quella parte di verde vicina alla casa non gli mostra
nulla. Don Pierino si accorge dello sguardo ansioso del
figlio ma non si scompone, almeno fin quando un rumore di ramo secco spezzato, un ramoscello finito sotto la scarpa di qualcuno, non lo mette sull’avviso.
Francesco allarga appena le fessure della persiana e
guarda fuori.
<<Aspettiamo ancora un po’, Don Pierino>> dice,
volgendo il volto verso la scrivania ma continuando a
guardare fuori.
<<Ma certo, che fretta c’è>> dice Don Pierino, con
voce appena più alta, un segnale di lieve agitazione.
<<Che fretta c’è>> continua <<la vendemmia viene
una volta l’anno, è da novembre dell’anno scorso che
aspettiamo, che ci auguriamo il meglio, che speriamo
e che lavoriamo. Un minuto più o meno, che differenza fa? Piuttosto dimmi, per la festa di stasera è tutto
pronto?>>.
<<Certamente Don Pierino, la facciamo come l’an63
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no scorso. Ho solo fatto preparare due capretti e una
decina di pagnotte in più. Magari qualcuno ha più fame dell’anno scorso. Chi lo sa? A quest’ora stanno già
preparando la brace, una bella infocata. Il vino l’ha
portato Gaetano ieri l’altro. Che ci serve più?>>.
<<E la musica?>>.
<<Ho già parlato con Pippo <<Zufolo>> qualche
giorno fa. Ci teneva a esserci, anzi era pure preoccupato che avremmo scelto qualcun altro. Verrà col figlio,
che sta ai tamburelli, e al solito con i suoi fratelli.
Abbiamo sgomberato il cortile. Invece è sorto un altro
problema.>>. dice Francesco, guardando di nuovo fuori. Alza le persiane di un paio di millimetri ancora, riuscendo adesso ad avere una maggiore visuale del giardino. Dietro di lui guarda anche Salvatore.
<<Cioè?>> chiede Pierino.
<<Il Notaio Torre. Stamattina sono andato al suo
magazzino per comprare la farina che ci serve per il
pane degli operai>> Francesco fa una pausa, come se
sapesse qualcosa ma non la volesse dire. Pierino si
preoccupa di quel silenzio e chiede <<E allora?>>.
<<E allora Paolo, il padre di Nicola Ferrante, quello che di solito sta a vendere, mi ha detto che un sacco
me lo può dare, ma che di farina il Notaio non ne ha
più… per noi. Ha detto così, per noi. Potrebbe voler dire che non gli basta per il paese, ma non credo, suonava strano. Sa se è successo qualcosa?>>.
<<Niente d’importante, direi, ma qui in paese, e soprattutto col Notaio Torre, non si può mai sapere>>.
<<E che facciamo se quello non ci da più la farina?
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Un sacco basta sì e no per tre giorni>>.
<<Vedremo, una cosa alla volta, male che vada
mando qualcuno a Leverano>>.
Pierino si alza dalla poltrona, va alla finestra e guarda tra le doghe delle persiane. Quella storia del Notaio
è una preoccupazione in più, ma non è il momento di
occuparsene.
Fa una conta approssimativa scovando con gli occhi
la gente seminascosta dall’ombra sotto gli alberi.
La gente è venuta, adesso tocca a lui.
Esce dallo studio e si sistema la cravatta davanti la
grande specchiera del vestibolo.
<<Allora, andiamo?>> dice.
Scendono insieme le scale e si dirigono verso l’uscita di casa. Appena fuori dalla porta spalancata lo colpisce il sole, e tutti si girano a guardarlo dal giardino.
<<Buongiorno a tutti!>> fa a voce alta, dopo essersi schiarito la voce.
Un mormorio sommesso segue le sue parole.
<<Come sapete abbiamo bisogno di quaranta giornalieri per la vendemmia. La paga la conoscete. È la
stessa per tutti. Uomini e donne. Adesso verrete avanti
una famiglia per volta, e darete nome e cognome a mio
figlio Salvatore. Vedo che ci sono molti bambini. Dal
momento che quest’anno le donne sono le benvenute
nel vigneto, abbiamo pensato di mettere su una piccola scuola per tenere occupati i vostri figli, ma dovrete
dichiarare che scuola hanno frequentato, così ci potremo organizzare meglio. Coloro che saranno assunti restino qui per altre comunicazioni. Grazie>>.
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Pierino lascia che Francesco si metta dietro Salvatore, seduto alla scrivania, all’ombra del noce che lambisce con i suoi rami più bassi i gradini di accesso alla
casa.
Si fa avanti il primo capofamiglia. È un uomo alto e
corpulento, dal viso rubicondo, con una giacchetta
stretta, scura, dai risvolti stretti e dal taglio ampio a
scoprire i pantaloni, una foggia antica. La cravatta
marrone è corta, lontana dalla cintura dei pantaloni.
<<Buongiorno Ciccio, anche quest’anno?>> gli
chiede Francesco.
<<Sì, ho lasciato le nuore al vigneto e sono qui con
i figli piccoli e mia moglie>>.
<<Che classe hanno fatto?>> chiede Salvatore.
<<Il grande ha 8 anni, e ha fatto la prima. Felicina invece ha sei anni ma non è mai andata a scuola>> dice,
accostando la mano verso la moglie che voleva intervenire per impedirgli di dire che la figlia è analfabeta.
<<Va bene, grazie, avanti un altro!>> dice Francesco.
La processione delle generalità continua. Qualche
forestiero solo, lontano da casa, anche se bisognoso,
viene scartato. Francesco vuole stare tranquillo con gli
uomini.
Salvatore finisce di compilare un rigo del libro e dichiara:
<<E con questo sono quaranta>>.
Ci sono ancora molte persone in giardino che accolgono le parole di Salvatore senza alcuna emozione visibile. Una donna con due bambini si fa avanti.
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<<Da dove venite voi?>> chiede Francesco rivolgendosi alla donna.
<<Mi chiamo Luisa e sono di Lecce. Mio marito è
in Grecia. Non ho più casa e sono venuta da mio cugino>> risponde
<<E chi è tuo cugino?>>.
<<Rosario La Duca>>.
<<Mhmm!>> fa Francesco, poco convinto. Guarda
Pierino che annuisce lievemente.
<<Vieni avanti, che facciamo un’eccezione>>.
Gli altri, a quelle parole, acquistano fiducia e si fanno avanti. Una famiglia sfollata da Lecce, due da
Foggia e una da Leverano. Francesco li interroga, uno
ad uno, e ogni volta guarda Pierino, che fa un breve
cenno di assenso per l’iscrizione nel registro. Quando
arrivano a 52 assunti Francesco gli chiede <<Ancora?>>
<<Sì Francesco, prendiamoli tutti>>.
I contadini assunti aspettano raggruppati all’ombra
delle grandi palme in fondo al giardino, il più possibile lontano dalla scrivania di Salvatore.
Quando hanno finito, Pierino chiede a Francesco di
farli avvicinare tutti e sale sul secondo gradino della
scala di casa, dicendo:
<<Vi ringrazio tutti. Com’è tradizione della Casa
stasera daremo una festa a Messere Andrea a cui siete
tutti invitati, anche i bambini. Non è una grande festa,
ma ci piace stare in compagnia prima della fatica. Ci
andrete con i carri, che partiranno dalla cantina alle
sette di stasera. Chi vorrà potrà tornare indietro appe67
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na finita la festa. In ogni caso, dovrete essere a Messere Andrea dopodomani alle cinque del mattino. Vi indicheremo dove raccogliere l’uva e vi daremo l’attrezzatura. Ogni sera potrete tornare in paese con i carri
dell’ultimo carico, che vi lasceranno in cantina.
Naturalmente chi vuole può fermarsi a Messere Andrea, ma non potremo ospitarlo. Buona domenica a tutti>>.
Pierino rientra in casa, insieme a Salvatore, mentre
Francesco rimane fuori a dare altre informazioni e a
scambiare quattro chiacchiere, prima di raggiungerli
nello studio.
<<Tutto bene, mi sembra, vero?>> dice Pierino rivolto a Francesco.
<<Sono tanti, forse troppi. Alcuni non lavorano da
mesi, si vede, ma si abitueranno presto>>.
<<Stai pensando agli ultimi assunti>> dice Pierino.
<<Sì, i primi giorni resteranno indietro, facendo innervosire i più pronti. Cominceranno a dolergli i muscoli e a fare le vesciche sulle mani. Soffriranno più
degli altri e avranno più fame>>.
<<E dovrai avere più pazienza>> conclude Pierino,
facendo più una raccomandazione che una previsione.
<<Si Don Pierino. Intanto mi servirebbero per la festa un paio di capretti in più e una decina di pagnotte.
Posso predisporre?>>.
<<Sì. Ci mancherebbe che questa gente stasera non
mangi a sazietà>>.
<<Don Pierino mi scusi, ma per il fatto della farina,
con questa gente in più durerà solo due giorni>>.
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<<Va bene, ho capito, adesso me ne occupo>>.
Poco dopo lo stalliere consegna il cavallo a
Francesco che galoppa verso Messere Andrea con l’elenco dei giornalieri in tasca.
Più tardi quella sera Pierino e Salvatore salgono sul
calesse avviandosi alla festa, mentre dietro di loro sorge un’enorme luna piena rossa, prima ancora che dall’altra parte del cielo la luminosità del giorno si sia
spenta del tutto. La strada è adesso libera dei carriaggi
che portano l’uva e raggiungono presto la Masseria, illuminata a dispetto di ogni coprifuoco da decine di
lampade a petrolio, con sottili strisce di fumo nero che
si perdono nell’aria ferma, insieme agli ultimi carri carichi di contadini provenienti dalla cantina. Vengono
accolti da fischi e grida di giubilo.
Li accoglie Francesco.
<<Benvenuto Don Pierino>> dice, prendendo le
briglie del calesse.
<<Vedo che la festa mette allegria anche a te>> risponde Pierino, visto il largo sorriso di Francesco.
<<È per quelli che abbiamo assunto per ultimi.
Prima abbiamo dovuto convincerli a venire a Messere
Andrea, gli sembrava che la festa non fosse per loro. E
poi quando sono arrivati stavano davanti la Masseria, a
guardare, e non si decidevano ad entrare. Sono dovuto
uscire io a prenderli. Finalmente hanno capito che erano i benvenuti, e allora si sono buttati a capofitto sul
pane e sull’arrosto e non c’è stato verso di fermarli dicendo che doveva arrivare il Padrone. Adesso sono lì
che mangiano>>.
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Pierino sorride. <<E come si fa a fermare la gente
quando ha fame? Non ti preoccupare, che mangino,
basta che ce ne sia anche per gli altri>>.
<<Oh, per quello basterà. Ce n’è anche troppo per
tutti>>.
<<Bene. E allora andiamo a cominciare la festa>>
dice Pierino, avviandosi verso l’orchestra con
Salvatore a fianco. La festa della vendemmia è sempre
stata un avvenimento in paese. Ma quella del ’43 sarebbe stata ricordata per il fatto che da mesi non si vedeva tanta abbondanza in quelle campagne. I forni avevano sfornato pagnotte preparate con la farina del mulino ininterrottamente dalla mattina e, a parte gli arrosti di agnello, in un grosso calderone sistemato appena
fuori dalla Masseria un’intera pecora era stata messa a
lessare nelle prime ore del pomeriggio. La cosa che
stupiva di più nel vedere tanta gente che passava da un
piatto all’altro era che di lì a quarantotto ore le stesse
persone avrebbero faticato per ore sotto il sole, mangiando lo stretto necessario e riposandosi ancora meno, e questo per giorni e giorni.
Pierino e Salvatore lasciarono presto la festa dopo
aver fatto gli onori di casa, fidando sul fatto che la gente si sarebbe divertita con maggiore rilassatezza senza
essere sotto lo sguardo dei proprietari della Masseria.
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CAPITOLO 4
Come il Rosato che piace a Lisetta
L
a mattina del 13 settembre Pierino alle sette è già
in cantina. La prima uva ad entrare l’indomani sarà il
Primitivo e lui desidera che Nicola Guadente, il capo
cantiniere, abbia le idee perfettamente chiare su cosa
fare di quell’uva e soprattutto di quella che seguirà.
Pierino si è preparato già la sera prima a quell’incontro. È costretto a cambiare a Nicola il programma prestabilito. Pierino sa che il lavoro di vendemmia era stato predisposto da Nicola con precisione e per tempo e
adesso quel cambiamento rischia di mandare in crisi la
sua ben nota idiosincrasia per le novità.
La Cantina de Castris, a poca distanza dal Palazzo,
è come un’enorme nave incastrata nel terreno, dominata al centro dalla torre di avvistamento del seicento,
turrita e merlata, una corona di pietra che orna il tetto.
L’entrata principale, al centro della costruzione che si
allunga su tutta la strada che porta fuori dal paese, è
proprio al centro della Torre, affogata in basso nella
costruzione più recente. Entrando si cercano le vecchie
mura, ma esse sono state inglobate da quelle erette al71
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l’inizio del 1800. Non si riconosce più la torre, se ci sei
dentro vedi solo una grande sala con gli uffici commerciali, col tetto aperto su lucernari che rimandano
alle mura della torre. Una perfetta continuità d’intenti,
la totale commistione del passato e del futuro. A sinistra una porta a vetri conduce alla grande bottaia, oscura e umida, contenente le enormi botti intitolate ai vini, fino a sei annate diverse di Negroamaro, Malvasia
nera, Primitivo, Bombino. Segue la sala delle vasche in
pietra in cui fermenta il vino e quelle sotterranee per lo
stoccaggio. A destra un’altra sala con vasche di pietra
per lo stoccaggio e in fondo il reparto di imbottigliamento, piccolo e sperimentale, ma funzionante. Il magazzino dei materiali per la produzione confina col
magazzino del prodotto imbottigliato. Come una nave
che si allunga da prua a poppa, lunga e stretta, la cantina sconfina nell’ampio spiazzo retrostante, dove i
carri con le botti dell’uva raccolta durante la vendemmia attendono in fila il turno per lo scarico.
Lo spiazzo è pieno di carri collocati di sbieco rispetto all’uscita carraia posteriore, con le barre a toccare terra, in attesa di essere occupate dagli animali da
tiro la mattina dell’indomani.
Gli operai stanno ingrassando l’argano per il sollevamento delle botti e ricontrollano tutte le catene e i
cavi. Sanno che Pierino li esorta a predisporre al meglio la manovra dell’argano. È l’unico che c’è in cantina ed è il punto in cui passa tutta la produzione di
uva. Se l’azione degli uomini che se ne occupano è
pronta e ordinata, coordinata con la movimentazione
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dei mosti all’interno delle varie vasche, la fila dei carri in attesa non si allunga, ma non appena l’organizzazione di ricezione entra in affanno si crea la fila, che
arriva oltre la porta carraia e finisce in strada. Una delle cose che mandano in grande agitazione Don Pierino.
Dopo aver parlato con le varie maestranze Pierino fa
provare l’argano con una botte piena per metà di acqua. La fa sollevare da terra e porre su un carro, poi segue l’operazione fin quando l’acqua non viene svuotata nell’invaso che, tramite un sistema di tubazioni, la
conduce dentro le vasche, diversificate per tipologia di
uva e per vigneto. Assicuratosi che tutto procede bene
manda a chiamare Nicola, il cantiniere.
In quel momento Nicola si trova dall’altra parte della cantina, a supervisionare le prove di tenuta delle
grandi botti di rovere che andranno ad accogliere il vino una volta ultimate le fermentazioni nelle vasche di
pietra. Sa benissimo che Don Pierino in quel momento sta riverificando ciò che lui stesso ha controllato non
più di una settimana prima, ma non se ne duole. Sa che
il Padrone si fida di lui, che hanno pianificato con attenzione tutte le manutenzioni e i lavori di approntamento della cantina e sa anche che la verifica non è solo per controllare il suo lavoro, ma anche per dimostrare la sua presenza, per sostenere e motivare i collaboratori, infine per stare più tranquillo. Come dice sua
moglie Caterina <<Non te la prendere Nicò, quattr’occhi sono meglio di due>> e in una cantina così grande
niente deve essere lasciato al caso.
Nicola lascia gli operai nella bottaia a continuare il
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lavoro e va da Don Pierino, trovandolo con la testa cacciata dentro la portella aperta di una vasca intento a tirare su col naso, per sentire l’odore che emana, un’altra delle manie del Padrone. Annusa tutto perchè vuol
sentire, come dice lui, se tutto sa di buono. Se i grandi
vasi che contengono i mosti e il vino sanno di buono
quando sono puliti o dopo aver ospitato i liquidi, allora si può essere sicuri che anche il vino saprà di buono. Nicola vede un operaio che sta dietro Don Pierino
fargli segno. Lui si avvicina e l’operaio gli sussurra che
il Padrone ha detto di dare una pulita supplementare alla vasca 48, quella d’angolo, perchè non è stato un lavoro ben fatto.
Nel frattempo Pierino ha finito di annusare la vasca
e si gira a guardarli.
<<Buongiorno Nicola. Tutto bene?>> gli chiede
<<Sì, Don Pierino, stiamo verificando le botti per
non avere problemi dopo. Gaspare mi stava dicendo
della vasca 48>>.
<<Non è pulita bene, oppure c’è un problema>>.
<<Quella è la vasca d’angolo che si danneggiò
quando si staccò un pezzo d’intonaco esterno portandosi dietro anche una parte di pietra. L’abbiamo riparata, ma non abbiamo mai capito perchè successe quel
danno. Forse c’era stata un’infiltrazione dall’interno. È
il caso di controllare. Ci penso io>>.
<<Va bene. Comunque ti stavo aspettando perchè
dobbiamo parlare. Vieni, andiamo nel mio ufficio>>.
Si dirigono verso l’entrata principale, sotto la Torre,
poi girano a sinistra e, passando sotto i lucernari, per74
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corrono il lungo corridoio che porta all’ufficio di
Pierino, una stanza più lunga che larga, dal soffitto alto. Una grossa scrivania si trova in fondo, a fianco del
muro e con le spalle alla parete più corta. A destra e a
sinistra due cassettiere basse possono dare l’impressione a chi si siede di essere circondato, anzi di essere prigioniero del proprio lavoro, oppure di poter affrontare
ogni genere di problema con la virtù essenziale della
concentrazione mentale, della dedizione scrupolosa. È
questo secondo senso che prende Pierino quando riesce a dedicarsi al lavoro amministrativo, che lo appassiona sopra ogni cosa. Pierino ha inclinazione per la ricerca dei particolari, per l’analisi delle problematiche
amministrative e legali, e questo perchè ha il punto di
vista tipico dell’avvocato oltre a quello, acquisito, dell’imprenditore.
Nicola si siede sulla poltroncina dallo schienale
basso e i braccioli stretti che sta di fronte alla scrivania.
Lì tutti e due hanno passato ore a programmare la vendemmia.
<<Caro Nicola>> esordisce Pierino.
Quelle parole spiegano a Nicola più delle successive. Quando Don Pierino lo chiama <<Caro>> è solo
perchè è preoccupato, oppure perchè ha deciso di chiedere qualcosa di più a lui e agli operai della cantina.
<<Ho pensato che ciò che abbiamo programmato
per i vini di questa vendemmia non va più bene.
Dobbiamo cambiare qualcosa, anzi per la verità dobbiamo cambiare molto>> continua Pierino.
<<E che è successo?>> chiede Nicola.
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<<È successo che da quando sono sbarcati gli americani in Sicilia ho cominciato ad agitarmi. All’inizio
non sapevo neanche io il perchè. E più quelli salivano
per la Calabria, più io mi agitavo. Pensavo che fosse
perchè la vendemmia si avvicinava, oppure che fosse
la guerra, per i bombardamenti. Certo c’era anche
quello. Ma insieme a tutte queste cose c’era dell’altro.
Ti racconto tutto questo per farti capire bene la situazione>>.
Nicola raramente l’ha sentito parlare tanto. E tutto
lascia supporre che avrebbe parlato ancora per molto.
Decide di stare zitto guardandolo dritto negli occhi, e
di aspettare.
<<Da sempre, in questa cantina, intorno al mese di
luglio di ogni anno cominciano a farsi sentire i clienti,
i mediatori. Una telefonata, una lettera, una visita.
Persino l’anno scorso, anche se qualcuno non si è fatto vedere, alla fine quasi tutti erano qui o hanno comprato. Nicola, è da quest’aprile che io non sento nessuno. Mi sono preoccupato, ci ho pensato su, e così, arrivati a settembre, ho cercato di telefonare e ho scritto
qualche lettera. Risultato: niente. Chi mi ha risposto,
mi ha detto che ci stavano pensando, che non erano sicuri, che lì da loro era tutto un disastro, che insomma
la guerra stava dando un sacco di problemi. Erano tutti nei guai. Dei mediatori piemontesi e liguri, quelli
che commerciano con la Francia, niente di niente, né al
telefono né per posta. Niente. E tu sai che erano quelli
i più grossi>>.
<<Un bel guaio>> si lascia scappare Nicola.
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<<Sì, un bel guaio. Poi ho incontrato il Notaio di
Salice, poi il Barone Del Sordo, il Principe Della
Monaca a Lecce, e anche loro non hanno avuto nessun
contatto con i clienti soliti, quelli storici. Ma soprattutto, non si è fatto sentire proprio nessuno>>.
<<E il guaio diventa ancora più grave>>.
<<E già. Loro dicono che non c’è da preoccuparsi,
perchè se una cosa succede per vent’anni non può non
accadere anche quest’anno. Io invece sono entrato in
agitazione perchè mi sono detto che certe cose valgono per il sole, per la luna, per la primavera che segue
l’inverno, ma se gli uomini si fanno la guerra, e che
grande guerra, allora può succedere di tutto. Ho aspettato pieno di speranza, ma nel frattempo ho pensato:
che ne faccio di ‘sto vino? Che ne facciamo? Noi produciamo un bel rosso di quelli corposi, che vendiamo
a chi deve fortificare vinelli leggeri. Se poi non ce lo
comprano, del vino a 16 o 17 gradi che ne facciamo?
Di venderlo qui a quei prezzi, tutto quel vino, neanche
a pensarci. Impossibile>>.
Pierino aspetta che quel discorso scivoli dentro il
cervello di Nicola, che si fissi ben bene. Il cantiniere
lo guarda impassibile, ma Pierino è sicuro di aver toccato i punti giusti.
<<Allora forse la cantina è rovinata>> dice.
<<No, rovinata no. Ce la faremmo. Possiamo resistere forse due o addirittura tre anni senza vendere. Ma
l’anno prossimo il vino dove lo mettiamo? E nel frattempo quello nelle botti che fine fa? E poi perché, dannazione, questa guerra deve impedirci di fare il nostro
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lavoro? È questo che mi fa arrabbiare. Perchè deve essere così?>>.
<<È quello che chiedo anch’io>> risponde Nicola.
<<Esatto. Ma poi mi sono calmato e mi sono detto
che in questi casi ci vuole un’idea>>.
Nicola ha sempre pensato che le idee di Don Pierino
sono pericolose, dal suo punto di vista raramente si
tratta di buone notizie. Pierino negli anni ne ha provate tante leggendo libri, articoli, girando per l’Europa a
visitare cantine. Ma il fatto è che lì da loro l’uva e il
clima sono del tutto diversi rispetto al nord e allontanarsi dalla tradizione è, a parer suo, sempre rischioso.
Per Nicola meglio non sbagliare e continuare a fare come si è sempre fatto da generazioni. Già ci pensa la natura con le vendemmie sempre diverse, la pioggia, il
caldo e ogni cosa che il Signore manda a complicare le
cose. Se ci si mettono pure le idee strane alla fine non
si capisce più niente. Se poi la questione è commerciale si rischia che dal male venga il peggio, che un’idea
infelice acceleri l’arrivo della catastrofe. Comunque, si
sa che il padrone è lui, Don Pierino.
Quindi Nicola cerca di nascondere la sua apprensione e lo guarda in silenzio, in attesa.
<<Abbiamo una cosa sola da fare: incrementare la
produzione di rosato. Anzi, dobbiamo fare quasi solo
rosato. In questo modo se i mediatori arrivano gli vendiamo il vino dello scorso anno, se invece non vengono allora possiamo vendere il rosato di quest’anno al
sud, che non lo fa nessuno, che è una novità! Che ne
pensi?>>.
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Nicola deglutisce.
<<Aspetti, vorrei capire meglio. Come lo vorrebbe
fare il rosato?>>.
<<Come quei duecento ettolitri sperimentali di due
anni fa, con una macerazione breve sulle bucce, massimo una giornata, svinatura e poi via a completare la
fermentazione in pulito. In questo modo potremo anche accellerare il lavoro della vinificazione. Ho assunto più contadini per la raccolta, così l’uva arriverà in
cantina a ritmi sostenuti. Serve una breve macerazione
e poi una svinatura veloce. Il Primitivo lo vinifichiamo
separatamente e così anche il Negroamaro e la Malvasia. Vediamo quanto ne facciamo nei primi giorni e
poi decidiamo il da farsi per le ultime uve raccolte.
Che ne pensi?>>.
<<Mhmmm. Ci devo pensare>>.
<<Non abbiamo molto tempo, domani arriva il
Primitivo>>.
<<Lo so. Ma come possiamo fare?>>.
<<Intanto la raccolta non sarà subito velocissima.
Abbiamo un paio di giorni per prenderci la mano e vedere come va. Io direi di utilizzare le vasche da 3 a 7
per la macerazione giornaliera e poi raccogliere il
Primitivo nei tre serbatoi grandi a completare la fermentazione. Che dici?>>.
<<Si può fare. Ma Don Pierino, è sicuro? Voglio dire, è una scelta rischiosa e non lo dico per il vino, perchè ormai esperienza sul rosato ne abbiamo un poco.
Ma fare tutto rosato?>>.
<<Beh, non proprio tutto. La maggior parte>>.
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<<E se poi vengono i clienti?>>.
<<Di vino ne abbiamo, in cantina>>.
<<Ma quelli vorranno il ‘43>>.
<<Pazienza. Un po’ lo faremo per forza, soprattutto
di Primitivo, anche perchè con questo caldo sta facendo un sacco di zucchero e quindi c’è da aspettarsi, come al solito, un’alta gradazione. Impossibile per un rosato come quello che voglio fare io>>.
<<Ma di Primitivo ne abbiamo poco. Rischiamo di
fare l’ottanta per cento di vino rosato>>.
<<Sì, più o meno>>.
Nicola si appoggia allo schienale della poltrona.
Conosce abbastanza Don Pierino per comprendere che
ha già deciso, e la sua determinazione è annunciata dal
suo solito mezzo sorriso sulle labbra. Si è di certo preparato per quel colloquio. E allora, nel bene e nel male, Nicola sa che deve cominciare a organizzarsi di
conseguenza. Tutto il resto è dimenticato. Cambiare le
abitudini consolidate non gli piace affatto. Innanzi tutto perchè si rischia, nella speranza di riuscire: se poi il
gioco non riesce la delusione sarà cocente. In secondo
luogo perchè a qualche problema dell’ultimo minuto
può sempre supplire l’esperienza, ma quest’anno le
maestranze sono poco pratiche e quindi, se manca Don
Pierino, la responsabilità è tutta sua. Lui si sente in
grado di affrontarla, ma fino ad un certo punto. E quella del rosato è una lavorazione delicata, occorre fare attenzione e controllare come si evolve la macerazione,
e tutto cambia a seconda delle temperature e dell’uva
che arriva. C’è sempre la possibilità che ti scappi di
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mano, e allora viene un bel rosso, oppure di fare troppo in fretta, ed ottenere un vino rosatello, quasi bianco. Nel primo caso non c’è danno, ma non sei riuscito
a raggiungere il risultato voluto. Nel secondo caso è un
mezzo disastro.
<<Va bene allora. Come ci regoliamo sul quando interrompere la macerazione sulle bucce?>>.
<<Nicola, quello è un problema. Le uve arrivano in
botti di legno e già macerano dal vigneto a qua.
Dipende dalla giornata, da quanto ci mettono ad arrivare, se sono quelle raccolte al mattino o alla sera.
Ormai queste cose le sappiamo. Diciamo che l’obiettivo è avere un vino come quello del ’39, quello che piaceva tanto a Donna Lisetta, un bel rubino trasparente,
con qualche nota violetta. Ne abbiamo conservato
qualche bottiglia?>>.
<<Sì, dovrebbe essercene qualcuna>> dice Nicola,
alzandosi.
Va a cercare la bottiglia in magazzino e poco dopo
torna con una bordolese con un’etichetta bianca, con
su scritto a mano <<Leone de Castris. Rosato 1939.>>.
Nell’altra mano ha due bicchieri che usano per la
degustazione, sempre gli stessi. Nicola apre la bottiglia
e versa il vino, avvinando i due bicchieri.
Poi ne versa il contenuto. Si avvicinano al lucernario più vicino con un foglio bianco sotto, per evidenziare il colore. Il vino ha un colore rosa-granato, con
abbondanti note arancio.
<<Beh, certo il colore è cambiato in tre anni>> dice Nicola <<si è come spento>>.
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<<Certo, però aveva una colorazione bella intensa,
non era certo tenue>>.
Lo assaggiano ed ambedue sono soddisfatti del sapore ancora fresco del vino, insieme pastoso ed elegante, come di un frutto ben maturo, dai toni autunnali.
<<Perfetto, dopo tre anni è ancora perfetto. Lo dobbiamo fare così>> dice Pierino.
<<Quindi ci affidiamo alla nostra esperienza>>.
<<Ma senza dubbio! Attento Nicola che questa non
è una prova, o un esperimento. Qui dobbiamo produrre per vendere>>.
Nicola è più sollevato, e anche un po’ più preoccupato… produrre un rosato per venderlo… una bella responsabilità per lui, un grosso azzardo per il Padrone.
<<Allora va bene. Vado a predisporre per le vasche
di domani. Lei sarà qui quando?>>.
<<Domani in tarda mattinata. Domattina presto sono a Messere Andrea e poi vengo qui. Adesso prendo
la Lancia>>.
<<Bene, allora mi metto al lavoro>>.
Nicola si alza e si sporge sulla scrivania per dare la
mano a Pierino. È una tradizione tra loro due, quella di
cominciare la vendemmia con una stretta di mano.
<<Buona vendemmia, Don Pierino>>.
Pierino per un istante mostra negli occhi tutta la
stanchezza e le preoccupazioni di quei giorni. Ma è solo un momento, poi accenna al suo mezzo sorriso. Gli
stringe la mano e ricambia l’augurio con voce affettuosa. Sa che può fidarsi, Nicola ama il vino almeno
quanto lui.
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Rimane a guardarlo per qualche attimo mentre si allontana, poi abbassa lo sguardo sulla copia delle lettere inviate ai suoi clienti abituali. Lettere cui nessuno ha
risposto. Saranno arrivate? O saranno rimaste inevase,
impolverate dal crollo delle cantine bombardate, oppure rimaste dentro gli uffici e le case abbandonate di
mezza Europa? Immagina quelle lettere bruciacchiate,
scagliate lontano dalle esplosioni, bagnate di pioggia e
gettate nel fango dai bombardamenti. Speranze e anni
di lavoro spazzate dal vento della follia. Ma non è forse tutta la vita così? Non è sempre e comunque una
continua, costante e quotidiana reazione contro le forze del caos?
Prende il telefono e chiede al centralino la comunicazione con Messieur Lanflac, di Lione, un suo affezionato cliente. Dopo qualche minuto il centralinista lo
richiama per dirgli che dall’altro lato dell’apparecchio
gli hanno risposto in tedesco. L’ennesima conferma. Il
mondo è cambiato, e a lui non resta che prenderne atto una volta per tutte.
Niente da fare. Per lui, lì in ufficio, è tempo sprecato.
Si alza dalla sedia dando uno sguardo al portafotografie con l’ultima foto al collodio di Lisetta. Il fotografo era stato così bravo da colorare con tinte appena
accennate i capelli, la carnagione e i fiori che le ornavano il decoltè.
Deve parlarne a Lisetta. Non immagina cosa ne potrà pensare, ma ha il dovere di parlargliene. E comun83
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que non sopporta più tutto quel peso solo sulle proprie
spalle, deve parlarne con lei, che da sempre lo appoggia nelle sue scelte. E questa certamente è la faccenda
più preoccupante da quando sono sposati.
Tornato a casa la trova intenta a fare il bagno alla
piccola Maria Vittoria, aiutata da Teresa. Ha i capelli
un po’ spettinati, le maniche rimboccate e il viso arrossato per il vapore che scaturisce dal bagno dove
Maria Vittoria sguazza schizzando tutto il pavimento
d’acqua. Nella stanza c’è un caldo soffocante. Non si
respira quasi, ma Lisetta gli proibisce di aprire la finestra: <<La bambina potrebbe prendere freddo>>.
Pierino ride <<Ma se fuori ci sono almeno trentadue
gradi!>>.
<<Ma sta facendo il bagno! È tutta bagnata! Pierino
vieni qui, dammi un bacio ma poi esci subito, che queste non sono cose da uomini!>>.
<<Va bene, va bene, esco. Però appena hai finito
vieni da me>>.
<<Problemi, problemi sempre problemi, intanto vediamo di fare questo bagno e poi vengo. Vai, vai, che ti
raggiungo appena posso>>.
Pierino esce con la sensazione di avere la camicia
intrisa di vapore e va in terrazzo a godersi l’ombra.
Appoggiandosi all’inferriata vede tutti i tetti del centro
del paese, compresa la cupola della Matrice e il campanile, violentemente bianchi sotto la luce accecante
del sole di settembre. Il cielo quel giorno è di un blu
profondo, con toni uniformi del violetto, segno che in
quota è presente aria più fredda, proveniente dai Bal84
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cani. E questo può voler dire, di lì a qualche giorno,
l’arrivo di qualche debole perturbazione che potrebbe
portare un po’ di pioggia. Un’altra preoccupazione che
si aggiunge a quelle precedenti. Ma qualche millimetro d’acqua in quel momento potrebbe essere positivo
per la produzione di un buon rosato. Pierino si riempie
i polmoni d’aria e si affida al Buon Dio, che da lassù
veglia su tutti loro.
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CAPITOLO 5
Vendemmia nel ’43
L
isetta lo raggiunge nel terrazzo poco dopo con
l’abito intriso di umidità, le braccia scoperte ancora
umide dopo aver fatto il bagnetto a Maria Vittoria.
Qualche ciocca di capelli è sfuggita all’acconciatura e
scende morbida e umida attorno alle tempie.
<<Bella giornata, vero?>> dice a Pierino, che si gira per baciarla brevemente sulle labbra.
<<Sì, e una bella giornata è proprio quello che ci
vuole per fugare tutti i dubbi>>.
<<E quali dubbi affliggono il mio occupatissimo
marito? Vuoi che ti descriva i dubbi e le preoccupazioni della madre di una bimba di tre anni nel mezzo di
una guerra, con tante di quelle malattie in giro che c’è
da farsi prendere dalla disperazione? Oppure sulla salute della propria madre o della suocera? O anche…>>.
<<No, no, per carità. Mi bastano le mie!>> la interrompe ridendo Pierino
<<Lo credo bene. Allora siediti qui vicino a me e
dimmi tutto>>.
<<Senti, mi dispiace d’importunarti…>>.
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<<Oh, smettila. Sono qui tutt’orecchi>>.
<<Allora, ti ricordi della faccenda dei clienti della
cantina che si sono volatilizzati? Insomma, ne abbiamo
parlato qualche giorno fa>>.
<<Ebbene? Si sono fatti vivi?>>.
<<Neanche uno>>.
<<Non c’è da stupirsene. Chissà che fine hanno fatto>>.
<<Appunto. E allora pensavo che se questa situazione dura, e durerà, perchè produrre i vini che ci chiedevano questi clienti? Se non li comprano loro nessun
altro li vorrà>>.
Lisetta lo guarda e attende silenziosa che il marito
prosegua.
<<Pensavo>> continua Pierino <<che si potrebbe
produrre vini a pronta beva, ossia apprezzabili presto,
magari entro l’estate prossima, un bel vino chiaro, fresco e profumato, come quelli che piacciono a te>>.
<<Mi sembra una buona idea. Se quei clienti sono
spariti, meglio fare in modo di trovarsi pronti per altri.
È questo che pensavi?>>.
Pierino la guarda lievemente accigliato. <<Perchè
mi guardi così Pierino? Forse non ho capito? Cos’hai
in mente?>>.
<<No, hai capito bene, ma tu non sei d’accordo vero?>> le chiede Pierino, esitando.
<<Invece no, trovo l’idea molto saggia. Se i Guelfi
non si muovono, meglio prepararsi per i Ghibellini. E
allora cosa vuoi fare?>>.
<<Il problema è che se ci prepariamo per i Ghibel87
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lini e poi tornano i Guelfi, siamo in guai grossi! E se
poi non arrivassero né i Guelfi né i Ghibellini?>>.
<<Tu cosa senti nel tuo intimo? Arriveranno i vecchi clienti?>>.
<<No, non arriveranno>> dice Pierino, con una
convinzione tratta da una lunga e profonda riflessione.
Lisetta vede la profonda ruga che segna lo spazio tra
le folte sopracciglia di Pierino. La fronte liscia di quell’uomo di trentanove anni è solcata da una scura frattura, che ormai è presente da settimane sul suo volto.
Lisetta alza la mano e la spiana col pollice lentamente,
delicatamente, per riportarla a com’era un tempo, prima che iniziasse tutta quella confusione. Pian piano gli
occhi di Pierino si rilassano, ingrandendosi. Lisetta si
chiede, come spesso ha fatto in quegli ultimi due anni,
se sarebbe preferibile un marito più riflessivo, oppure
più gaudente, uno come tanti, meno impegnato, uno di
quelli che si alzano la mattina con calma e magari la
sera fanno tardi giocando a carte con gli amici. Forse
avrebbe meno rughe e più attenzioni per lei.
Ma no, è lui l’uomo della sua vita, l’amore della sua
vita, e non lo vorrebbe diverso. Non avrebbe potuto innamorarsi di nessun altro uomo al mondo.
Molto meglio un marito pieno di idee, di sogni, magari diversi dai suoi, invece di uno che sta in pantofole
o a giocare a ramino tutto il giorno.
<<Se il meglio che possiamo fare>> dice Lisetta
<<è essere pronti per altri clienti, e se serve anche andarseli a cercare, va bene così. Senti Pierino, devo dir88
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ti che anch’io ho riflettuto quando ne abbiamo parlato
e credo che la tua idea sia la migliore possibile. Lo so
che è un rischio, ma non abbiamo altre possibilità. Io
sono d’accordo con te e ti sosterrò, come sempre.
Affidiamoci alla Madonna della Cona, che protegge la
nostra famiglia. Se chiederemo con profonda fede, vedrai che otterremo tutte le risposte, e anche la soluzione ai nostri problemi>>.
Pierino, grato per la dolce carezza che gli ha rilassato la fronte, è profondamente colpito dalle parole
della moglie. Lo ha sempre stupito quell’apparente sicurezza nelle scelte che fanno di Lisetta tutto ciò che
lui avrebbe sempre voluto essere. Tutte le sue decisioni sono il frutto di profonde riflessioni, di lunghe meditazioni alla ricerca di tutte le soluzioni possibili ad
ogni singolo problema, con l’analisi anche delle varie
probabilità del loro verificarsi e di come gli interessi in
gioco si potrebbero comporre, come se si trattasse di
un’enorme scacchiera in perenne trasformazione e movimento. Lisetta al contrario ha l’incredibile capacità
di descrivere dettagliatamente una situazione nella sua
effettiva complessità, ma la sua determinazione nell’agire è sempre dettata da semplici ed efficacissime sintesi, come provenienti da un senso ulteriore, da un intuito del cuore più che della mente. Forse per questo
motivo Lisetta si affida immancabilmente a quanto di
più etereo si possa concepire nelle questioni pratiche:
la Fede in Dio.
<<E che vini produrrai, infine?>>.
<<Facciamo quasi tutta la vendemmia di rosato ten89
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tando di avvicinarci a quello del ’39, quello che ti piaceva tanto>>.
<<Bene! Quello sì che era un rosato con i fiocchi,
un vino elegantissimo, raffinato ma concreto e potente
come la nostra terra. Se riesci a fare un vino così, tutto andrà per il meglio. E come potrebbe essere diversamente? Un ottimo vino, una costante perseveranza e
idee chiare. Che difficoltà potremo mai avere? Certo
una bella preghiera alla Madonna del Latte non te la toglie nessuno!>>.
Pierino sa bene quanto la moglie, madre di cinque
figli, sia devota alla Madonna del Latte cui è dedicata
<<La Cona>>, la Cappella di famiglia nella tenuta Li
Muezzi, attigua a Messere Andrea. È lì che, in mezzo
ai vigneti, da quattrocento anni l’intera famiglia assiste
alla Messa durante il soggiorno estivo alla Masseria.
Lisetta gli propone di fare una novena di famiglia a
<<La Cona>> alla fine della vendemmia e lui accetta
volentieri, quasi con entusiasmo. È da sempre molto
affezionato a quella chiesetta di famiglia, sebbene sappia di non avere quella fede profonda che dirige le intenzioni della moglie; ma non è tanto orgoglioso da
non riconoscere che affidarsi alla speranza divina in
nome di un bene superiore è cosa che fa bene al cuore
e rischiara gli orizzonti.
Lisetta lo informa che l’indomani mattina lei e la
Professoressa, insieme con tutti i suoi figli, si recheranno di buonora a Messere Andrea per aiutarla ad organizzare la scuola per i bambini dei contadini. Pierino
le chiede se non preferirebbe andarci con lui, ma lei ri90
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fiuta: lui ha già abbastanza problemi. Prenderanno la
carrozza scoperta. Magari, tanto per cambiare, potranno pranzare insieme, giù alla Masseria.
Pierino torna in cantina, andando dritto sul retro, in
fondo al giardino, ad aprire il garage.
È un luogo che negli ultimi tre anni è stato aperto
solo per un paio di mesi, e solo una volta l’anno.
Dentro il garage è posteggiata al buio, nera ed affusolata, la sua Lancia Astura. È il momento dell’anno in
cui lui si deve spostare velocemente, spesso e il più
possibile comodamente. In momenti come questi preferisce abbandonare la carrozza, affidare la sua giumenta Ella allo stalliere e prendere la Lancia.
Ha conservato la benzina per quasi un anno, dal novembre dell’anno precedente, in previsione della futura vendemmia. Di benzina razionata ormai non se ne
trova più, e quella sul mercato nero è molto cara e anche di pessima qualità. E così, quando gli è capitata
l’occasione, di quando in quando è riuscito a metterne
da parte un po’, conservata dentro un piccolo serbatoio
interrato nel giardino della cantina.
Apre lo sportello dell’Astura e appoggia la doppietta, che lo accompagnerà nei giorni successivi, al sedile del passeggero. Si siede al posto di guida e fa aderire la schiena alla morbida poltrona. Com’è riposante
viaggiare in auto rispetto alla carrozza! Quando verrà
un tempo in cui si potrà viaggiare sempre in auto, senza problemi di manutenzione, di benzina? Forse mai?
Come sarebbe bello non dover più utilizzare la carroz91
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za, vivere sempre il vantaggio che in un’automobile ci
sta una famiglia al completo e si può parlare comodamente seduti mentre la macchina corre senza scossoni.
Allunga la mano verso la chiave e gira il contatto.
Sente il clic clic clic, clac della pompa Autopulse,
poi schiaccia il pedale dell’avviamento.
Un breve gracchiare e il motore si avvia, con una
lievissima esitazione.
Incredibile, non l’accendeva da cinque mesi!
Controlla la lancetta della pressione dell’olio e l’indicatore della benzina. Ingrana la retromarcia e la macchina docile segue l’istruzione che lui ha dato con il
pedale della frizione, posizionandosi nel giardino, fuori dal garage. Adesso la vernice nera manda bagliori alla luce del sole e le cromature luccicano da far male gli
occhi. L’interno in pelle color panna promette la frescura che la giornata calda è determinata a proibire agli
abitanti della Puglia.
Abbassa i finestrini, ingrana la prima e, rombando,
esce dalla cantina avviandosi verso il magazzino del
Notaio Torre.
Pochi minuti dopo si ferma davanti al portone a doppia anta, alto e largo quanto basta per farci passare un
carro. È chiuso. Ferma l’auto e scende a bussare al più
vicino battente, ornato da una possente testa leonina.
Dopo qualche istante sente il rumore dei ferri all’interno e vede aprirsi una minuscola fessura, completamente nera. Dall’oscurità compare un occhio e la base
di un grosso naso. È quello di Paolo, che allarga la fessura salutandolo con ossequio.
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<<Buongiorno>> dice Pierino <<Francesco mi ha
detto che non potete dargli più farina>>.
<<Così disse il Notaio, Don Pierino>>.
<<E posso parlare con lui?>>.
<<Qui non c’è. A quest’ora dovrebbe essere a casa.
Vuole che vada a vedere?>>.
<<Sì, grazie>>.
Paolo esce dal magazzino facendo cigolare i cardini
del portone e attraversa la strada verso il bianco palazzo
di fronte, grande e massiccio, alleggerito da ampie finestre di foggia veneziana, con tanto di colonnine corinzie.
Paolo scompare all’interno e due minuti dopo lo
raggiunge al piccolo trotto, l’unica andatura veloce che
gli è permessa dalle sue gambe arcuate. Dice a Pierino
di accomodarsi che il Notaio lo aspetta nello studio.
Il Notaio Torre è uno degli uomini più importanti di
Salice. Grande proprietario terriero, dall’alto della sua
figura massiccia e imponente disdegna da sempre la
piccola vita paesana che lo circonda, e si tiene accuratamente lontano dalla politica attiva. Durante il fascismo i suoi grandi baffi bianchi alla Cecco Beppe e la
marsina ottocentesca non si facevano mai vedere ai raduni del Partito. Ha sempre preferito, come dice lui,
una vita mediocre, fatta di piccoli piaceri. Molti dicono che il non avere avuto figli è stata una tragedia che
l’ha profondamente segnato, e che l’enorme ricchezza
accumulata andrà dispersa tra i numerosi nipoti dediti
alla bella vita in giro per il mondo.
Pierino viene ricevuto in un grande studio buio, con
due enormi scrivanie ricolme di carte ingiallite, asse93
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diate sui tre lati da scure librerie ripiene di faldoni di
ogni foggia e colore. Le due finestre veneziane sono
socchiuse.
Dopo un istante entra il Notaio, paludato nell’immancabile marsina nera.
<<Buongiorno Avvocato Leone de Castris, come
sta?>>.
<<Lo domando a Lei Signor Notaio, ma la vedo
molto in forma, nonostante il caldo>>.
<<Sì grazie, è un buon periodo. A che devo l’onore
della visita?>> dice il Notaio, passando subito al dunque.
<<Spero che lo scambio dell’altra sera sia scevro da
ripercussioni>>.
<<Scambio? Ah, sì, il biglietto. Ma certamente
Avvocato, ci mancherebbe. Ciò che lei decide di fare
per i suoi migliori affari sono, appunto, affari suoi.
Spero mi perdonerà invece: con l’età temo di diventare ogni giorno più brontolone>>.
<<I suoi commenti sono sempre per me fonte di riflessioni profonde. Purtroppo anche lei sa bene come
sia difficile portare avanti le imprese di produzione al
giorno d’oggi>>.
<<Appunto, mio caro, appunto>> asserisce affabile
il Notaio.
<<Proprio oggi Francesco mi ha dato l’orribile notizia che i suoi magazzini sono sforniti di farina per i
miei operai>>.
<<Caro Avvocato, viviamo in tempi assai difficili,
come giustamente dice anche lei. Ormai la farina è di94
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ventata più preziosa dell’oro. Pensi che non passa ora
che non me ne facciano richiesta da Lecce, da Bari, da
Brindisi, e i prezzi salgono, lievitano addirittura come
Pan di Spagna, di giorno in giorno, di ora in ora. Non
se ne trova più da nessuna parte! Lei è fortunato, sa?
Potrebbe anche arrivare a Taranto senza trovare un po’
di riso>>.
<<La Borsa Nera, quindi>>.
<<Caro Don Pierino, non so di che colore è, ma so
con certezza che è una borsa piena, piena di soldi>>.
<<Ma forse, in considerazione del fatto che sono
suo cliente da moltissimi anni, vorrà favorire le mie richieste, necessarie affinchè possa condurre in porto la
mia vendemmia?>>.
<<Sa quanto vale la farina oggi a Lecce? Un sacco
vale cinque grammi d’oro! E nemmeno un mese fa valeva lo stesso peso in argento! Come potrei chiedere
proprio a Lei la stessa cifra?>>.
Pierino è stupefatto. Non pensava che in città fossero arrivati a tanto.
<<Per me è una cifra impossibile! Me ne occorre
troppa!>>.
<<Lo credo bene, con tutte quelle donne e bambini
che ha assunto! Un vero azzardo, se mi consente l’osservazione. E la paga delle donne poi…>>.
<<Ma si rende conto Signor Notaio?>> Pierino ha
alzato leggermente la voce, ma si ricompone subito
<<dovrei lasciare l’uva appesa alle vigne solo perchè
non è possibile sfamare la gente? No, non posso. Devo
andare avanti>>.
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Pierino sente le braccia pesanti. Abbassa lo sguardo,
soffermandosi sui terminali delle gambe della scrivania di fronte a lui, due grosse zampe di fiera, non di
leone, forse di tigre del Bengala, enormi nere e lucide.
<<Cosa mi consiglia?>> dice Pierino
<<Un consiglio? No, non posso proprio consigliarle nulla. Mi spiace vederla in queste ambasce, ma non
posso farci niente, mi creda. Di scorte ne ho poche,
glielo assicuro, e sono tempi difficili>>.
<<Va bene, ho capito. Mi servirebbero venti sacchi
di fave, dodici di ceci e cinque di farina: mi arrangerò
così>>.
<<Dovrebbe fare, ai prezzi di oggi s’intende, … circa centoventi grammi d’oro, il peso di un bell’orologio>>.
Pierino sente il sangue pulsare veloce contro il colletto inamidato della camicia, chiuso dalla cravatta,
mentre affluisce rapido al cervello. Non riesce a trattenere un piccolo scatto del ginocchio destro, che trema
quasi impercettibilmente. Spera che il Notaio non se
ne sia accorto. In quell’istante Pierino cade in un’acuta agitazione, combattuto nell’intimo e razionalmente
proteso alla ricerca di una soluzione possibile, cercando spasmodicamente delle alternative. Scandaglia
mentalmente tutte le sue conoscenze di Lecce, di Bari
e degli altri paesi. Forse qualcuno più pronto del Notaio ad aiutarlo concretamente si potrebbe trovare, ma
in ogni caso ci vorrebbe tempo, troppo tempo. E lui
non ne ha, di tempo. Lui ha tanta gente che molto presto tornerà da una dura giornata di vendemmia con la
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pancia vuota. E comunque chissà quanti, tra quelli a
cui stava pensando, nel frattempo avevano iniziato a tesaurizzare le loro merci in attesa degli aumenti dei
prezzi provocati dalla borsa nera, così come faceva il
Notaio.
Infine Pierino si decide. Prende l’orologio dal taschino, il dono di laurea del padre, e lo posa con tutta
la catena sul tavolo del Notaio Torre.
Con sorpresa coglie sul volto dell’altro una nota di
disappunto, quasi di delusione. Forse si aspettava di
mercanteggiare, o pregustava un lungo panegirico sulle difficoltà dei vignaiuoli nell’anno di grazia 1943, ma
Pierino ha fretta di tornare al lavoro. Forse avrebbe potuto firmargli una ricevuta e un pagherò, forse il Notaio
l’avrebbe accettata, e Pierino non è sicuro che l’accenno all’orologio sia stato fatto con intenzione. Pierino
non ha eccessiva stima dell’uomo che gli sta di fronte,
ma lo crede abbastanza galantuomo da non arrivare a
tanto! L’orologio a quel punto gli sembra il giusto sacrificio per la soluzione di un problema tanto minaccioso quanto imprevisto, e per Pierino gli imprevisti
sono sempre eventi gravi. Se qualcuno poteva essere
incolpato per quanto stava succedendo, quello era proprio lui. Avrebbe potuto prevedere la penuria di cibo,
avrebbe dovuto organizzarsi prima. Certo ancora il
sangue gli batte nelle tempie, la cravatta gli stringe le
vene ingrossate del collo, ma si sta calmando e accetta
di separarsi dal dono di suo padre, nella speranza che
sia l’ultimo sacrificio dell’anno 1943.
Mentre il Notaio firma la ricevuta e dà ordine a Pao97
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lo di caricare quanto possa contenere l’auto, Pierino
non vede l’ora di tornare nei suoi vigneti, tra la sua
gente, all’aria aperta. Quello studio gli toglie la vita di
minuto in minuto.
Carica il possibile nell’auto e dopo pochi minuti
corre con la Lancia verso Messere Andrea.
I vigneti e gli oliveti gli sfrecciano ai lati mentre
l’auto sobbalza sulla strada in terra battuta. Deve stare
attento a scansare carri e carretti che vanno e vengono,
ma nonostante il traffico in dieci minuti è già arrivato.
E senza indolenzimenti alla schiena.
La mattina del 14 settembre Pierino si sveglia che è
ancora buio. Nessuna luce traspare dalle finestre, socchiuse per fare entrare la ventilazione notturna nella
grande stanza. Scende dal letto con un movimento leggero, attento a non svegliare Lisetta, anche se sa benissimo che da qualche parte, nel sonno, lei ha coscienza
che quell’irrequieto marito, come lei stessa dice spesso, è già in movimento.
Alle 5,30 è già fuori dalla porta di casa, lasciando
dietro di sè un mondo ancora chiuso nel sonno, apparentemente ben lungi dall’essere interrotto. Solo la domestica è in piedi a preparare la colazione dell’intera
famiglia. Gli ha fatto solo un caffè, sa che lui a quell’ora non prenderebbe nient’altro.
Sale sulla Lancia posteggiata in giardino e passa
dalla porta carraia della cantina. Abbassa il finestrino e
richiama col clacson l’attenzione di un operaio vicino,
gli chiede se i carri con gli operai e le botti hanno già
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lasciato la Cantina ricevendone risposta affermativa.
Ingrana la marcia e parte all’inseguimento di quella
prima carovana, la più difficile proprio perchè prima,
perchè tutte le organizzazioni devono essere rodate per
funzionare al meglio. Nei primi giorni finisce col succedere ogni genere di accadimento che prende il nome
di imprevisto: assi dei carri spezzati, infortuni, incomprensioni, scarsa collaborazione, mancanza di attrezzatura, insomma tutto il putiferio ordinario di un’operazione vendemmiale.
Nella tarda mattinata la prima uva arriverà in cantina e Nicola entro quella sera svinerà il primo rosato,
cominciando quella catena di eventi che ormai non può
più essere modificata. Ogni cambiamento significherebbe rinnegare ordini non ancora applicati, a volte solo parzialmente compresi, rischiando una confusione
maggiore, forse fino al blocco totale del movimento.
Mentre guida l’auto e comincia a superare i primi
carriaggi si rende conto che il suo compito in quei primi giorni può essere solo di verifica e controllo, senza
poter modificare gran che di quell’invenzione della
vendemmia del 1943.
Pierino sa anche che può fidarsi dei suoi uomini,
molti dei quali aspettano come lui con ansia quel giorno, considerandolo anch’esso una prova della loro valenza come lavoratori all’interno del meccanismo. Ma
deve verificare anche questo.
Decide così di fermare la macchina circa duecento
metri dall’ingresso di Messere Andrea, scende e si appoggia allo sportello.
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Osserva con aria tranquilla i carriaggi che appena arrivati scaricano la gente che si raggruppa sul piazzale
seguendo le indicazioni di Francesco, la cui voce gli arriva a tratti, le parole incomprensibili. Vede che già un
carro con le botti viene occupato alla meno peggio da un
gruppo di contadini e riparte in direzione nord, verso la
parte più distante della tenuta Li Muezzi. Questo viene
seguito da un altro e poi un altro ancora. Pochi minuti
dopo un altro carro con altre persone prende la stradina
poderale verso ovest, salendo a sinistra di Messere Andrea, dirigendosi alla tenuta delle Cinque Rose.
Quando la maggior parte della gente è partita verso
il lavoro, Pierino risale in macchina e raggiunge Francesco ancora in piedi nello spiazzo davanti la Masseria, intento ad asciugarsi il sudore con un fazzolettone rosso.
<<Buongiorno Don Pierino. Ha visto che la gente è
andata? Speriamo bene>>.
<<Buongiorno Francesco. Sì, ho visto. Più tardi daremo un’occhiata>>.
<<Ha già fatto colazione?>>.
<<Veramente no>>.
<<Lucia ha preparato la ricotta stamattina. Ne prende un po’?>>.
<<Grazie, volentieri>>.
Appena entrato nel cortile Pierino si accorge di
qualcosa di strano.
In fondo, nell’angolo destro, tra la grande porta del
frantoio e la porta della casa di un suo operaio, sta un
grosso mucchio informe, scuro, che accenna lievemen100
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te a muoversi come dotato di vita propria. All’ombra
del muro sembra poggiarsi il dorso di un grosso animale peloso, come la schiena di un gigantesco cinghiale dormiente, mosso da brividi cutanei. Pierino in
quell’istante non riesce proprio ad immaginare una cosa tanto straordinaria all’interno del cortile, sempre così ordinato e operoso. È stupefatto dal fatto che i suoi
occhi non lo aiutino a comprendere, a decodificare
quella strana visione.
Poi, improvvisamente, dal dorso dell’animale si
stacca un pezzo di pelliccia e dal centro compare il viso sporco e rigato di lacrime di un bambino.
Pierino si ferma di botto come impietrito. In una
frazione di secondo gli viene persino in mente la favola del lupo con i bambini nella pancia.
<<Mio Dio, i bambini!>>.
Vedendo che Pierino è sconvolto, Francesco è pronto a giustificarsi.
<<Li ho messi lì in attesa della Professoressa, non
sapevo dove…>>.
<<Non ci avevo pensato! Non possono stare lì tre
ore, fino a quando non arriveranno da casa! Mio Dio,
non ci avevo pensato! Che scempiaggine ho combinato… L’organizzazione… l’organizzazione!>>.
Francesco lo guarda senza capire.
<<Francesco, chiama tua moglie Lucia>>.
Pierino si avvicina al gruppo di bambini.
Sono messi uno accanto all’altro come a difendersi,
stesi su una coperta per terra, avvolti in un’altra nonostante il caldo, per proteggere il sonno. Sono bambini
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abituati a trovarsi in condizioni difficili. I più grandicelli stanno in mezzo ai più piccoli, in modo da confortarli se si dovessero svegliare. Pierino ne individua uno
che si è messo a sedere appena lo ha visto avvicinarsi,
abbracciandosi le ginocchia al petto. Gli guarda le mani, così diverse da quelle dei suoi figli. Sono mani piccole, ma già scure di calli, mani che già lavorano, aiutando i fratelli e i genitori. Mani che hanno difficoltà a
tenere lapis e pennini, ma sono abili a raccogliere verdure intorno alla rafia, a strappare erbacce dal terreno
coltivato, a mungere animali per trarne cibo.
<<Come ti chiami?>> gli chiede Pierino.
<<Antonio>> risponde alzando leggermente il mento, con aria tra l’interrogativo e il guardingo.
<<Quanti anni hai ?>>.
<<Otto>>.
<<Sei qui da solo?>>.
<<No, c’è mia sorella, che ha cinque anni>>.
<<E dov’è?>>.
Il piccolo Antonio alza di poco il lembo di una giacchetta accanto a lui rivelando una guancia e un mento,
abbandonati nel sonno. Solo adesso Pierino riesce a ricostruire, nell’ammasso di tessuti incomposti, l’idea di
un corpicino steso per terra.
<<Hai mangiato stamattina?>>.
<<No. Non mangio da… ieri a mezzogiorno>>.
Lucia arriva e lo saluta abbassando leggermente il
volto.
Pierino continua a interrogare Antonio <<E quanti
bambini siete? Lo sai?>>.
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<<Saremo una trentina>>.
Pierino mormora tra sè quel numero… <<Trenta!
Non ci avevo pensato! Non sapevo quanti fossero!
Lisetta si arrabbierà moltissimo! E con ragione!>>,
Pierino comprende che quei bambini sono il secondo
errore, per incompletezza di previsione, della sua organizzazione.
Si gira verso Lucia dicendole <<Poveri bambini!>>.
Lucia lo guarda con due grandi occhi neri, giovani e
limpidi. Anche lei è madre di due maschietti.
<<Sì, fanno proprio pena. Questa guerra è maledetta!>>.
<<Sì, e non solo quella. Anche la povertà che attanaglia questa terra da secoli, è maledetta! Ascolta
Lucia. Fra due o tre ore arriverà mia moglie con la famiglia e la Professoressa. Questi bambini… lasciamoli dormire ancora per un’ora. Poi, per favore, chiama le
altre donne, portateli alla fontana fuori dalla masseria
e con un pezzo di sapone fateli lavare. Date loro anche
da asciugarsi. Prendete pure la biancheria da casa mia.
Ma prima bisogna pensare a riempire le pance, altrimenti come fanno a studiare? Che possiamo dare loro?
Abbiamo pensato alla scuola e non al vitto!>>.
<<Il latte appena munto, col miele. Ce n’è in abbondanza, per fortuna>>.
<<E pane?>>.
<<No, quello che avevamo fatto ieri l’abbiamo
mandato tutto nelle campagne. Ce n’è solo per noi oggi>>.
<<E come possiamo fare?>> chiede Pierino
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<<Posso mettere Maria a fare della farinata di castagne. Di quella ce n’è e si fa in fretta>>.
<<Benissimo, ci volete pensare voi?>>.
<<Ma certamente, sarà un piacere. Però…>> dice
Lucia, un po’ imbarazzata
<<Dite>>
<<Col latte dovevo farci la ricotta per la Vostra
Signora, e non ne verrà tanta>>.
Pierino si mette a ridere.
<<Non ti preoccupare Lucia, glielo dirò io a Donna
Lisetta, date prima il latte ai bambini, tutto il necessario. Col resto, e solo se ne resta, farete la ricotta per la
mia famiglia>> dice Pierino.
Antonio nel frattempo si è alzato in piedi con accanto la sorellina che si è svegliata al suono della risata di Pierino, e lo guarda aspettando.
<<Adesso state buoni, bambini, che Lucia pensa a
voi. Se volete potete dormire un altro po’, poi vi laverete e farete colazione. Ditelo anche agli altri, appena
si svegliano. State buoni qui. Va bene?>> dice Pierino.
Antonio e la sorellina fanno cenno di sì e lo guardano allontarsi verso la macchina.
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CAPITOLO 6
E adesso?
P
ierino gira tutta la mattina per i vigneti, controllando che il lavoro proceda bene. Incrocia più di una
volta i carri che portano l’uva in cantina, facendoli fermare per tirare su con la mano, da dentro le botti, l’uva croccante, assaggiandola ogni volta.
L’uva è profumatissima.
Se continua così verrà un grande rosato, ma devono
sbrigarsi a raccogliere: con questo caldo l’uva si arricchisce di zuccheri ad una velocità prodigiosa. A meno
che non venga la pioggia, quella di settembre, rapida e
fresca. Pierino scruta il cielo in lontananza, verso nord
est. È di un blu molto profondo, con qualche nuvola
lontana.
Verso le undici e mezza i contadini fanno una pausa per il pranzo, più lunga per le donne, sdraiandosi all’ombra degli ulivi che circondano ogni vigneto. Lui
ne approfitta e fila verso Messere Andrea, lasciando
dietro di sé una scia di polverone, alto e compatto. Le
sospensioni della Lancia sono messe a dura prova dalle sconnessioni delle strade in terra battuta, ma Pierino
sa che si può fidare di quella macchina.
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A mezzogiorno arriva a Messere Andrea. Il cortile è
stato trasformato interamente, ed è tutto occupato da
gruppi di bambini, attorno a cui girano la Professoressa e Lisetta, come api operaie intorno ad un cespuglio di fiori stillanti nettare.
Lisetta, appena lo vede, gli va incontro.
È trafelata, le sopracciglia alzate in segno di attenzione, un sorriso stampato sul volto, la carnagione arrossata dal caldo e dal gran da fare che si è data.
<<Pierino, grazie al cielo sei arrivato. Abbiamo dimenticato le lavagne a casa>>.
<<Le lavagne?>>.
<<Sì, avevamo preparato delle lavagnette con i gessetti colorati e ce le siamo dimenticate>>.
<<L’hai detto a Francesco?>>.
<<Sì, m’ha promesso che nel pomeriggio il primo
carro che arriva vuoto dalla cantina avrebbe portato le
lavagnette>>.
<<Beh, non c’è che da aspettare>>.
<<Ma siamo sicuri? Ne abbiamo proprio bisogno>>.
<<Non ti preoccupare. Se Francesco ha detto così,
alle due arrivano le lavagne. Per il resto come va?>>.
<<Bene, a parte che più che una scuola abbiamo dovuto organizzare un centro di assistenza all’infanzia.
Pierino, è un disastro: sono tutti malnutriti, senza scarpe, vestiti di stracci. Solo cinque o sei si salvano. Per
un paio di giorni di scuola neanche a parlarne. Li stiamo sistemando. Adesso devo andare, c’è un gruppo a
cui stiamo aggiustando i vestiti>>. Lisetta fa per allontanarsi, ma Pierino la ferma.
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<<Aspetta Lisetta. Un attimo>>. La prende per il
braccio e le si avvicina, guardandola negli occhi.
<<Tutto bene?>>.
<<Ma certo Pierino. Invece di fare domande, perchè
non ti dai da fare pure tu?>>.
Ride rispondendo <<Certo Lisetta, ora vado a vedere per il pranzo>>.
<<Ecco bravo, anche i bambini devono mangiare.
Lucia sta preparando un gran pentolone di ceci. È ad
infornare pure un paio di pagnotte>>.
<<Speriamo che in questo trambusto ce ne sia anche
per noi>>.
Adesso è Lisetta che ride abbassando un po’ le braccia stanche.
<<Sì speriamo proprio. Io non ci vedo dalla fame!>>.
Ceci e pagnotte gli ricordano i baffoni del Notaio e
rivede vivida l’immagine del suo orologio sul polveroso tavolo dello studio, scintillante nella debole luce che
filtrava dalle finestre. Percepisce persino il taschino dei
pantaloni, vuoto contro la pelle.
Un senso di frustrazione sta per assalirlo, ma riesce
a distrarsi pensando ai suoi figli.
<<E i ragazzi?>>.
<<Non li hai visti? Guarda fuori della Masseria, sono tutti lì con la Tata che stanno giocando con i più
grandicelli, tutti tranne Salvatore, che è salito a casa a
studiare>>.
Dopo aver pranzato tutti insieme a Messere Andrea
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nella loro casa al primo piano, la famiglia Leone de
Castris si divide per seguire le proprie occupazioni.
Salvatore continua a preparare il suo latino, Lisetta e la
Professoressa scendono a prendere le lavagnette che
nel frattempo sono arrivate, e i bambini restano in casa a fare un riposino in compagnia della Tata.
Pierino prende la macchina e va in cantina, dove sta
nascendo il suo primo rosato.
Quando arriva trova Nicola intento ad assaggiare un
mosto schiumoso e denso, più bianco che colorato,
mentre in alto sulla scala un operaio sta predisponendo
i tubi per il rimontaggio.
<<Come va in campagna?>> chiede Nicola.
<<C’è un movimento che toglie il fiato, ma pare che
l’organizzazione regga. Abbiamo avuto qualche problema con i bambini, ma domani dovrebbe andare già
meglio. Qui come andiamo?>>.
<<Il problema è che ogni mezz’ora devo verificare
la macerazione, e dopo tre ore ogni quindici minuti, se
no ho paura che il mosto diventi troppo rosso e addio
rosato. Ho potuto controllare meno del solito il resto
della cantina. Per fortuna Mario si dà da fare bene, e
pare che sia tutto in ordine. Ma è meglio che lei dia
un’occhiata in giro>>.
Pierino passa il resto del pomeriggio a controllare
l’afflusso dei carri con l’uva, sollecitando una maggiore cura nello scarico e nella distribuzione del mosto
nelle varie vasche.
Alle 17,30 passa da casa, dove lo informano che la
Signora ha mandato disposizioni per trasferire lo stret108
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to necessario per la famiglia a Messere Andrea, dicendo che per il momento restano lì.
Lui riprende l’auto e torna alla Masseria. Mentre
guida, Pierino non è sicuro che quell’idea di Lisetta sia
buona. Avevano deciso di restare a Salice perchè sarebbero stati più al sicuro, visto che la cantina è sorvegliata giorno e notte da una sua guardia armata, per
evitare di essere sorpresi da furti grandi e piccoli o da
sgradevoli sorprese in quel periodo così caotico.
Ma Lisetta ha la tendenza a farsi prendere dall’entusiasmo e dagli eventi, e la scuola e i bambini che lui
ha visto la mattina sono proprio il genere di cose che
le piacciono e in cui mette in gioco tutta sé stessa. La
cameriera gli ha riferito che la Signora ha detto anche
che c’è troppo da fare alla Masseria, e loro non potevano restare a suonare il pianoforte in paese, mentre
c’è bisogno di una mano concreta per la vendemmia.
Le tipiche parole di Lisetta.
D’altra parte però adesso sono tutti riuniti alla
Masseria, e lui potrà stare di più con i suoi figli. E poi
avere vicino Lisetta in quel momento gli rende meno
pesante tutto quello che ha vissuto negli ultimi due
giorni, la disavventura del Notaio, il senso di colpa per
i bambini degli operai e la fatica della vendemmia…
davvero troppa tensione per restare tutto solo!
Al tramonto, dal balcone, vede arrivare i carri con
sopra la gente che torna dalla raccolta. Sono sfiniti.
Molti tornano in paese, altri hanno deciso di restare alla Masseria.
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Nel gruppo degli ultimi scorge una donna che scende dal carro chiamando a voce alta: <<Antonio,
Antonio!>>. Pierino si chiede se sia il bambino con cui
ha parlato la mattina. Lo vede uscire di corsa dalla
masseria con la sorella dietro e andare incontro alla
madre. S’incontrano poco lontano dal balcone.
Pierino vede che li accarezza, dicendo loro che tutti puliti sono bellissimi, chiedendo notizie sulla giornata appena trascorsa. Sente Antonio raccontare che
hanno bevuto il latte col miele, si sono lavati alla fontana e poi la Signora Leone de Castris ha aggiustato i
vestiti a tutti quelli che ne avevano bisogno. Poi hanno
mangiato di nuovo. Poi Maria, la sorellina, ha giocato
nei vigneti con gli altri bambini, e nel pomeriggio hanno disegnato sulle lavagne e si sono sporcati tutti con i
gessetti colorati. E adesso aspettavano lei.
La madre li abbraccia inginocchiandosi davanti a
loro, poi alza il volto al cielo accarezzando loro la testa.
Pierino non sente cosa dice, ma non ha dubbi: sta
ringraziando il Signore.
Rientrato si siede in poltrona e si dice <<Per oggi
basta così: il sole è tramontato ed è tempo che tutte le
creature della terra vadano a dormire>>. Come tutti gli
inizi di vendemmia il caos ha tentato di avvilupparli
nelle sue profonde spire e solo per la prontezza e l’esperienza nella conduzione delle umane cose lui, insieme con i suoi uomini, è riuscito a tenere lontano
quel pericolo. La giornata gli è costata cara, molto ca110
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ra. Chissà cosa dovrà inventare per spiegare a Lisetta
dell’orologio di papà!
Deve ammettere con sé stesso che quelle sono prove dure. Una volta le avrebbe prese come offese personali al suo orgoglio. Oggi, che ha qualche anno in più,
il senso della prova e della sfida subentra a quello dell’offesa, anche se quest’ultima urla ancora le sue ferite nel profondo del suo intimo.
Sabato 18 settembre l’organizzazione si è ormai
stabilizzata. I contadini si sono abituati alla fatica della raccolta, la scuola di Messere Andrea funziona con
tre classi distinte, di cui una guidata da Salvatore che è
stato costretto a lasciare i suoi libri, almeno di mattina.
In cantina il primo mosto, ormai privato delle bucce, sta fermentando nelle vasche di pietra e cominciano a vedersi i suoi colori brillanti, nella densità del liquido ancora opaco di residui.
Il 4 ottobre la quantità di uva che raggiunge la cantina è al massimo. Le donne e gli uomini lavorano sotto il sole dall’alba al tramonto vedendo le nuvole di
polvere alzate dalle ruote dell’Astura lanciata a velocità, mentre Pierino mette a dura prova la sua auto.
Il 6 ottobre ne arriva un’altra.
Tutte le donne alzano gli occhi dalla vigna, posando
il grappolo che hanno in mano nella cesta. Se arriva
una macchina e non è Don Pierino, certo ci sono guai
grossi.
Si guardano intorno cercando la presenza rassicu111
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rante dei guardiani a cavallo, mai molto distanti. Ma in
quel momento non se ne vede nessuno.
L’auto si ferma poco distante dall’inizio del filare,
dove sosta il carro con le due botti quasi piene, in attesa di ricevere quell’ultima uva raccolta prima di ritornare a Salice, in cantina.
Dall’auto scendono due uomini in divisa mentre un
terzo, anche lui in divisa, resta alla guida. Sono i primi
soldati italiani che le donne vedono da mesi.
Il primo è un ufficiale dell’aeronautica, il Maggiore
Rondò dell’Arca. Si rivolge alle vendemmiatrici dicendo che sta cercando l’Avvocato Piero Leone. Le
donne si guardano l’un l’altra per capire se conviene rispondere o no. Siccome l’ufficiale è stato poco gentile
decidono di no: se dovevano essere guai che se li pigli
qualcun altro.
Nel frattempo dai vigneti a nord si alza una nuvola
di polvere: è la Lancia Astura, ma Rondò dell’Arca non
lo può sapere, ha paura che siano tedeschi. Chiede alle
donne se per caso ci sono soldati ancora in giro, ma
quelle fanno finta di non capire. Allora si gira e dice all’autista di nascondersi con la macchina. L’auto imbocca un vialetto tra le vigne. Il Maggiore si nasconde dietro un gruppo di alberelli di Malvasia, accosciandosi in
attesa. Nel frattempo l’Astura arriva rombando e
Pierino vede le donne ferme a guardarlo. Scende.
<<Che succede? Siete stanche? Avete fame?>>.
<<Don Pierino no, è che…>>.
<<Che cosa? Volete che vi porti i vostri mariti?>>
dice lui sorridendo.
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Le donne, serie, accennano col mento al folto del vigneto.
Pierino capisce. Chiede <<chi>> o <<che cosa>>
con un gesto del capo. Loro rispondono mute, toccandosi la spalla. Pierino si volta e vede Rondò dell’Arca
uscire dal vigneto con l’uniforme sporca di terra e di
succo d’uva.
<<La macchina è sua?>> chiede con la solita arroganza militaresca.
<<Innazi tutto buongiorno. Chi è lei?>> risponde
Pierino.
<<Sono il Maggiore della Regia Aereonautica
Militare Italiana Raffaele Rondò dell’Arca, e con chi
ho il piacere?>>.
<<Molto lieto, sono l’Avvocato Piero Leone, e qui
è tutto mio, compresa la macchina>>.
<<Ho l’ordine di sequestrarla, temporaneamente>>.
<<L’ordine di chi?>>.
<<Di Sua Maestà, il Re>> risponde dell’Arca.
<<E chi lo dice?>>.
Il Maggiore spiega che ha ordine del Re di requisire tutte le auto che riesce a trovare nelle campagne tra
Brindisi e Lecce e portarle allo Stato Maggiore giù in
città.
<<Mi fa molto piacere>> risponde Pierino <<che
Sua Maestà il Re si interessi a come i suoi sudditi girano per la campagna a guadagnarsi il pane, ma scuserà certamente il mio dire se le chiedo come vuole che
le creda, signor dell’Arca>>.
<<Non fidandosi della mia parola lei sta facendo un
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torto a me e all’uniforme che porto!>> esclama il
Maggiore, visibilmente alterato.
<<No, per carità, si calmi!>> dice Pierino sorridendo maliziosamente <<Caro Maggiore, lei dovrebbe sapere che qui ne abbiamo viste di tutti i colori: fascisti
travestiti da preti, tedeschi travestiti da donne, soldati
italiani travestiti da contadini, tedeschi da americani e
così via. Mi perdonerà se metto a frutto queste esperienze per dirle che io vedo solo un distinto signore con
una divisa, purtroppo non più immacolata, probabilmente sottratta di recente a qualche deposito governativo>>. Adesso è evidente che Pierino si sta divertendo
a spese del povero Maggiore che lo guarda senza sapere che pesci prendere, indeciso tra un accesso di collera e un’insopportabile ritirata.
<<E va bene, la comprendo>> sbotta infine, rassegnato a mettersi nei panni di Pierino. Fa uscire la sua
auto dal vigneto urlando un ordine all’autista e rovista
nella sua cartella, all’interno del portabagagli, cercando un documento che porge a Pierino in attesa.
Pierino legge con attenzione. Sembra proprio che il
Re sia intenzionato a fare di Brindisi la capitale provvisoria del suo Regno, e a servirsi dei beni dei sudditi
a proprio piacimento.
<<Bene, pare che il documento esista, sempre ammesso che sia autentico. Ma io la macchina non gliela
consegno. Mi dispiace. Buongiorno>> dice Pierino, e
girando sui tacchi fa per salire sull’auto. Ma uno scatto metallico lo costringe a bloccarsi.
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<<Mi dispiace, mi ci ha costretto lei. O collabora,
oppure sono costretto ad arrestarla>>.
Per la seconda volta in poche settimane Pierino sente montare la rabbia, e questa volta non ha davanti un
Notaio baffuto, ma una pistola. Ma quel simbolo della
follia dei tempi lo fa andare in bestia ancora di più. Il
suo non è insensato coraggio. La macchina gli serve e
lui ne ha abbastanza dei soprusi di chicchessia, foss’anche del Re in persona.
<<Ma come si permette lei, con la sua uniforme, di
venire qui come un ladro a prendere ciò che vuole? Mi
vuole imprigionare, perfino? Ma lei lo sa che dietro
quel vigneto ci sono almeno cinque dei miei uomini armati con gli Sten, e che se schiocco le dita lei e la sua
auto vi riempite di buchi? E loro, glielo garantisco, se
ne fregano della sua divisa. Abbiamo visto tedeschi arrivare e scappare, italiani rubare e scappare, fascisti
prendere e andare, e adesso arriva lei? Io non le do un
bel niente e, se prova a toccarmi, suoneranno le armi!!>> Le urla di Pierino, ormai deciso a sfogare tutta
la sua rabbia contro la pistola del Maggiore, raggiungono le guardie che arrivano al trotto, con gli Sten appoggiati alle selle.
Il Maggiore ha ancora la pistola spianata davanti a
sé. Quando vede la guardia armata di Pierino esclama:
<<I briganti!>>.
<<Briganti a noi? Briganti ai miei uomini? Ma lei
dove ha vissuto fino ad ora? E abbassi la pistola prima
che qualcuno si faccia male!>> continua a urlare
Pierino.
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Finalmente il Maggiore segue il consiglio e abbassa
l’arma.
Il gesto dà occasione a Pierino di continuare, con tono di voce meno alterato:
<<Adesso basta, sono stufo di soprusi, di angherie,
di difficoltà. Per fare questa vendemmia ne abbiamo
viste di tutti i colori. Non ci bastavano le bizzarrie del
tempo, il caldo, la pioggia, il pericolo di malattie alle
piante e delle muffe, no, ci voleva anche la guerra, l’invasione, l’armistizio, i tedeschi, la borsa nera, la penuria di braccia per lavorare e anche l’impossibilità di
vendere tutto il frutto di un anno di lavoro. Accidenti!
E adesso, anche la macchina. Mi dispiace, dovrà dire
al Re che la mia vendemmia è più importante. Ora se
vuole lasciarci…>>.
<<Senta Avvocato, ho capito. Ma lei non può passare per un brigante, lo comprende, no? Altrimenti i
guai che avrà in futuro saranno ancora maggiori. Io
posso anche andare via, il più forte qui al momento è
lei. Ma prima o poi tornerò, perchè me l’ordineranno.
Lo capisce vero? Un soldato deve obbedire agli ordini
anche quando non li condivide!>>.
Il Maggiore ha ragione e Pierino lo sa. Può anche
buttare fuori dai suoi vigneti quell’ufficiale, ma dopo
di lui ne verranno altri. Con le carte, i Carabinieri e con
tutto il necessario. Pierino lo sa e sa anche che deve essere rispettoso dell’ordine, non fosse altro che per ossequio del nome che porta, dei suoi antenati.
Si gira e dice ai suoi uomini di abbassare i mitra.
Pierino pensa che quella vendemmia se la ricorderà
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per tutta la vita, e dovrà raccontarla anche ai suoi nipoti. Non ha mai dovuto affrontare tante assurdità tutte in una volta! Una difficoltà dietro l’altra, una vera
disdetta. Certo alla fine l’uva sarebbe stata raccolta
ugualmente quasi tutta e sarebbe stata un’ottima vendemmia, con i grappoli sani e al giusto grado di maturazione. Ma ora lui, come la maggior parte dei suoi uomini del resto, è proprio sfinito.
<<Sì, Maggiore, lo capisco>> risponde Pierino <<e
proprio perchè in quest’anno maledetto ogni giorno si
deve decidere da che parte stare, io le dico che la macchina se la può prendere. Ma voglio la ricevuta e voglio che lei riferisca al Re che l’Avvocato Piero Leone
de Castris considera quest’atto un sequestro, un sopruso che nessuna ragione al mondo, meno che mai la
inetta Ragion di Stato, può giustificare>>.
<<Come desidera>> dice il Maggiore, tirando fuori
dalla sua auto uno scrittoio da campo e redigendo in
fretta la ricevuta, completa di numero di targa dell’automobile e bollo tondo dello Stato.
Il Maggiore, consegnato il documento, lo saluta
portando la mano alla visiera e si allontana con le due
auto lasciando Don Pierino, frustrato e sudato da capo
a piedi, che lo guarda allontanarsi.
Le donne hanno ripreso a vendemmiare con aria indifferente, a testa bassa, e Pierino immagina che quell’episodio sarà sulle bocche di tutti entro sera.
Uno dei suoi guardiani si avvicina e gli chiede se
vuole essere accompagnato a Messere Andrea. Pierino annuisce, scuotendo la testa alla prospettiva di
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doversi spaccare la schiena sulla carrozza chissà fino
a quando.
Domenica 24 ottobre la vendemmia è finita da tre
giorni. Fino all’ultimo grappolo di Negroamaro è stato
raccolto e i vigneti possono cominciare ad ingiallire,
arrossandosi nelle zone più fredde. Ogni tanto qualche
colpo di vento più forte alza nuvole di foglie accartocciate che finiscono a marcire per terra sotto i brevi piovaschi. È già cominciata la raccolta delle olive, e
Pierino ha mandato a casa la maggior parte dei contadini assunti visto che la sua famiglia possiede molti
meno oliveti che vigneti. La cantina adesso funziona a
pieno regime e l’odore di mosto si allarga sulla strada
raggiungendo persino le ultime propaggini del paese,
verso la campagna. Ora è a Messere Andrea che si lavora di più, col frantoio mosso dall’asino cieco che gira e gira tutto il giorno frangendo le olive. Intorno alla
masseria arrivano i carretti ad ammucchiare le vinacce
in alti cumuli, in attesa che si asciughino per fornire
concime a tutta la tenuta.
La famiglia Leone de Castris si appresta a lasciare
la Masseria e a rientrare in paese.
Lisetta ha chiesto al parroco, Don Gaetano, di celebrare la Messa quell’ultima domenica alla Masseria,
prima del ritorno a Salice. Il parroco delega uno dei
suoi giovani sacerdoti per la Messa alla Matrice e di
buonora si reca alla chiesetta della Cona, verificando
che tutto sia pronto. Ha chiesto a Lisetta di preparare
del pane azzimo per l’Eucarestia
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La chiesetta, fatta costruire nel 1580 da un antenato
di Pierino, il Magnifico Don Mauro Leone, è piccola e
raccolta. Imbiancata a calce spicca ai margini della
strada che collega Messere Andrea al paese. L’interno,
anch’esso bianco e odoroso di calce, è semplice e intimo, con pochi banchi rivolti all’altare, dietro cui campeggia l’immagine miracolosa della Madonna del
Latte, affiancata sulle pareti destra e sinistra dalle immagini di San Biagio e Sant’Eligio, protettori degli
animali e dei maniscalchi. Lì vicino abita la famiglia di
Diego Ascorto che, oltre ad occuparsi del podere annesso e dell’uliveto che confina con Li Muezzi, ha l’incarico di fornire di olio i due lumi dell’altare della cappella, accesi notte e giorno tutto l’anno, per ordine della Famiglia Leone de Castris.
La <<Cona>> è famosa nel Salento perchè alla
Madonna del Latte ricorre tutta la popolazione in occasione di calamità naturali, soprattutto per la siccità.
Si racconta che da secoli, quando questa piaga naturale colpisce Salice, la popolazione organizzi una processione che parte dalla chiesa della Matrice in paese.
La tradizione vuole che mentre la riunione religiosa
torna dalla Cona verso il paese, invariabilmente cominci a piovere.
Lisetta arriva col marito, i figli e la Tata. Porta le
ostie tagliate a mano e le consegna a Don Gaetano.
Poi si confessa con lui, parlandogli anche delle loro preoccupazioni per il destino di quel vino che hanno prodotto, con tanti sforzi e spese, nel bel mezzo di
quella brutta guerra. Don Gaetano la esorta ad aiuta119
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re il marito a non cedere allo sconforto e alle eccessive preoccupazioni, perchè qualcuno potrebbe interpretare quest’ansia come mancanza di fede. Pierino è
un uomo molto attivo che si impegna a far del bene,
nei limiti delle sue possibilità e capacità. E il Signore
immancabilmente premia tanta industriosa sollecitudine verso le sue creature. Quindi lavorare sì, ma senza eccessivi pensieri. Dio provvederà! E poi sono tutti lì per pregare, no? E allora bisogna affidarsi all’ascolto del Signore, immancabile quando la preghiera
è sincera e fiduciosa. Poi le chiede notizie della scuola e dei bambini: ne ha saputo qualcosa in paese, dalle chiacchiere dei paesani, e da tempo voleva avere
notizie da lei.
Lisetta gli racconta che da principio è stato molto
difficile, prima hanno dovuto risolvere i problemi più
urgenti. Ha dovuto raccogliere presso le sue amiche
tutti gli abiti usati, così da distribuirli. Poi finalmente si
sono potute formare tre classi, una delle quali è stata
affidata a Salvatore. Insomma, una bella fatica, ma alla fine sono riusciti tutti quanti a darsi da fare. E che
gioia vedere scrivere quei bambini, disegnare nelle lavagnette, al sole o all’ombra degli ulivi. E la contentezza delle mamme, quando tornavano dal lavoro in vigna, e li trovavano sistemati e contenti. Beh, non sempre, qualche monello c’era e bisognava redarguirlo
perchè non combinasse i peggiori guai.
Alla Messa sono presenti pochi fedeli, tutti i Leone
de Castris e la famiglia di Francesco. La tradizione della Messa alla Cona la prima domenica dopo il termine
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della raccolta dell’uva è quasi una consacrazione della
fatica degli ultimi mesi, una dedica alla maggior gloria
di Nostro Signore.
Don Gaetano fa un’omelia breve, ricordando che
Gesù stesso si paragonò ad un tralcio di vite, mentre il
nostro Padre Celeste è il vignaiuolo. Ricorda anche che
Gesù disse che ognuno di noi deve stare in Cristo per
produrre frutto, e che se ci manteniamo in lui avremo
la vita eterna. <<Pensate>> dice <<quant’è importante
la vigna per nostro Signore, il simbolo stesso della fecondità della fede in Lui>>.
Pregano insieme, invocando l’aiuto di Dio affinchè
quella vendemmia sia prodiga di benessere per tutti loro e per tutto il paese, così come lo è stata per i piccoli ospiti della Masseria.
Mentre la carrozza li riporta a Salice, a Palazzo de
Castris, Pierino guarda avanti, ripromettendosi l’indomani di verificare per l’ultima volta insieme a Nicola
le risultanze di quell’annata, facendo una degustazione
delle masse vinose in affinamento. Dopo di che dovrà
inventarsi qualcosa affinchè quel vino esca con profitto dalla cantina, cambiando proprietario. A maggior
benessere suo e di tutti gli uomini che lavorano con e
per lui.
Ma la domanda che lo assilla è: chi comprerà quel
vino? E dove finirà? Chi, in quei momenti così travagliati, avrà il denaro sufficiente per ripagarlo per tutte
le spese impreviste di quella vendemmia?
Lisetta gli ha detto di avere fede.
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E lui spera di averne abbastanza.
Ma sa anche che dovrà darsi da fare.
E molto anche.
Si sa: <<Aiutati, che il ciel ti aiuta>> gli diceva
sempre sua nonna.
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CAPITOLO 7
L’autunno degli americani
I
primi giorni di novembre portano un veloce abbassamento delle temperature. La prima burrasca da
nord est arriva su Salice scaricando una pioggia fredda, fitta di goccioloni che a ondate successive riversano fiumi d’acqua per le strade. Segue qualche giorno di
tregua in cui un sole basso sull’orizzonte riesce ancora
a scaldare la schiena di chi cammina per le strade o rimane qualche minuto in terrazza a godersi lo spettacolo dei tetti bianchi del paese ripuliti dalla pioggia intensa.
Insieme al deciso cambiamento climatico, Lisetta
sente che ormai i tempi stanno mutando il loro corso:
se la guerra continua altrove, più feroce che mai, da loro è giunto il momento di programmare un ritorno alla
normalità. O almeno ad abitudini che ci si avvicinino
molto. La stessa Messa alla <<Cona>>, una delle tradizioni familiari più antiche, le è sembrato un invito in
tal senso. Le sembra che siano arrivati finalmente i
giorni del ritorno a casa, al suo palazzo di Lecce, tanto per cominciare. Anche se si rende conto che è impensabile che le traversie di anni di guerra e di penuria
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possano finire con un semplice ritorno al passato, irrealizzabile, e che il futuro porterà nuovi problemi da
risolvere, a partire da quelli della cantina, spera sia
giunta l’ora di rifarsi a modi e ad abitudini precedenti
a tutto quello scompiglio. Almeno il più possibile.
Innanzi tutto, si ripromette, le nonne devono tornare alla vita di sempre fatta di scansioni temporali lente, consone alla loro età, dopo le numerose emozioni di
quei mesi. Lisetta le aveva lasciate nel palazzo quando
lei si era trasferita a Messere Andrea con i figli, e la solitudine aveva portato alla luce il lato melanconico della suocera, che si rintanava sempre più a lungo nella
sua stanza, e ridato libertà d’azione a sua madre, che
tentava di spadroneggiare spostando mobili e istruendo
la servitù con nuove regole sulla cadenza dei lavori di
casa. Non era proprio il caso di rischiare un sovvertimento dell’ordine familiare.
Le scuole dei ragazzi, a Lecce, sono ancora chiuse
ma la loro apertura è imminente. La famiglia non può
certo trasferirsi in tempo per l’inizio dell’anno scolastico, ma è importante che intanto i ragazzi inizino a
studiare insieme alla Professoressa, in modo da non
perdere il ritmo e poter rientrare a scuola senza troppi
scossoni. Quell’anno scolastico è troppo importante:
maturità Classica per Salvatore, Teresa al Liceo, esami
di Rosellina alla quinta Elementare e Arcangelo al secondo anno di Ginnasio.
Pierino esce tutte le mattine all’alba per recarsi in
cantina dove segue le fermentazioni. Ogni sera Lisetta
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gli chiede se ha ricevuto notizie dai soliti clienti ricevendone risposta negativa, tranne per quei pochi commercianti che ancora trafficano nell’antico mercato del
Mediterraneo Orientale, in Egitto e Libano, zona fiorente di consumi alla fine del diciannovesimo secolo
ma oggi in grossa crisi, e non solo per la guerra. Lisetta
osserva con attenzione Pierino senza cogliere segni di
cedimento della sua volontà, che rimane sempre ferma
e decisa. Per adesso sembra soddisfatto della vendemmia e dei suoi frutti, è concentrato nel lavoro quotidiano.
Lisetta ha ripreso le frequentazioni con le amiche di
Salice, si riuniscono spesso al pomeriggio per preparare alcuni brani di musica da camera da eseguire la serata dell’imminente festività dell’Immacolata Concezione. Sono brani di J.S. Bach per violino, orchestra e
oboe, scelti per far partecipare al trio anche Michele
Santospirito, marito di Rosetta, sua amica dai tempi
della scuola. Michele non è un gran virtuoso con l’oboe, ma le due appassionate sperano di ottenere maggiore attenzione e pubblico se a suonare ci sarà anche
lui.
Ma l’ultimo sabato di novembre, dopo aver sistemato la famiglia al meglio, Lisetta entra in ansia: il
tempo passa, e per lei è giunto il momento di far qualcosa, di sentirsi utile.
L’indomani, all’uscita dalla Messa, la famiglia torna a casa sotto un vento fastidioso e freddo che s’insinua a folate tra le strade strette e tortuose del paese,
spingendoli o frenandoli nel loro cammino. Giunti al125
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l’interno del grande androne del palazzo sono tutti assai contenti di poter salire le scale che li conducono nei
loro appartamenti, togliersi i cappotti e dedicarsi finalmente ad un po’ d’ozio.
Nel tardo pomeriggio rombi di tuoni lontani annunciano tempesta su Salice, mentre nuvole temporalesche rosseggiano contro il sole al tramonto.
Lisetta fa sistemare il salone affinchè tutta la famiglia adulta, con l’aggiunta di Salvatore, prenda il tè
donatole sabato da Rosetta, che l’ha ricevuto dall’attendente del Generale Murphy di stanza a Brindisi.
Con le finestre chiuse e gli alti tendaggi cremisi tirati, le luci degli ampi e colorati lampadari di Murano
si moltiplicano sotto il soffitto affrescato, gli specchi,
i divani dorati e la tappezzeria corallo. In pochi minuti le due nonne, Pierino e Salvatore si riuniscono
accomodandosi sulle poltrone e sul sofà rosso.
Ognuno di loro è stato sottratto al soporifero pomeriggio della domenica, allontanandolo da piccoli e
personali piaceri quali il buon sigaro di Pierino, il solitario della nonna Vincenzina, il ricamo di nonna
Rosina su un fazzoletto per Maria Vittoria, e
Salvatore dall’ascolto di Radio Bari; tutti giungono
nel salotto con la speranza di trovarvi, oltre al tè, non
amato particolarmente da nessuno, anche qualche
leccornia.
Lisetta entra seguita da due cameriere con un grande vassoio su cui sono disposte la grande teiera d’argento, il bricco col latte, il vassoio col limone e il fornelletto ad alcool. Nel secondo vassoio, ancora più
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grande, due biscottiere in argento, con i biscotti al latte e quelli al miele, i preferiti da Pierino.
<<Di solito quando la mamma ci prende per la gola
vuol dire che ha qualcosa da farci digerire>> dice
Salvatore, con un sorrisetto impertinente sulle labbra.
Pierino ridacchia sottovoce, lieto che per il primogenito le mosse della politica casalinga non abbiano
più misteri.
<<Però se tu usassi questa capacità d’osservazione
nei tuoi studi, certamente il greco sarebbe fonte di
maggior soddisfazione, ancor più della radio>> gli risponde Lisetta.
Pierino si avvicina al figlio, seduto all’estremità del
sofà accanto alla nonna Rosina, dicendogli sotto voce
<<Te la sei cercata stavolta>>. Ridacchia.
Le nonne guardano i biscottini tralasciando di osservare le operazioni della cameriera intenta a versare
il caldo infuso nelle tazze. La nonna Vincenzina si accorge che una delle biscottiere tiene piegato in due un
foglio, quasi invisibile tra il bianco dei tovaglioli ricamati e lo splendore del vassoio di Sheffield. Un foglio
di Lisetta pensa e, siccome conosce bene la figlia, le
sfugge un sorriso a metà: si appoggia alla spalliera, in
attesa delle novità che certamente quella riunione
avrebbe portato.
Un tuono più forte degli altri annuncia l’arrivo del
temporale facendo tintinnare i vetri delle finestre.
<<Un tè caldo è perfetto con un tempaccio simile.
Meno male che abbiamo finito la vendemmia per tempo>> dice Pierino, girando il sigaro spento tra le labbra.
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<<Rosetta me l’ha portato da Brindisi ieri mattina.
È un Orange Pekoe. Viene direttamente da Londra, dal
seguito del Generale Murphy, ed è solo per i suoi amici. Si sono incontrati a casa di Giovanna. Con la guerra pare che gli uomini non mandino più fiori alla padrona di casa, ma leccornie esotiche>> dice Lisetta rivolgendosi soprattutto alla madre e alla suocera, sottolineando le ultime parole con un lieve tono sarcastico.
<<E che novità ci sono dalla corte?>> chiede la
nonna Vincenzina.
<<Dalla corte, nessuna. Forse neanche di corte si
può parlare. Il Re non si fa vedere in giro, neanche per
andare in Chiesa, se ne resta chiuso nel Castello Svevo.
Pare che la Regina passi il tempo a fare solitari e a costruire giocattoli di cartone per il figlio di un ammiraglio che abita al piano di sotto. Non è che facciano una
gran vita>> li informa Lisetta.
<<Beh, certo meglio Brindisi con un Re che non si
vede che Salice, dove non c’è proprio nessuno, neanche nascosto>> si lamenta nonna Vincenzina.
La nonna ha settantacinque anni e veste di nero da
trentotto, gli anni della sua precoce vedovanza. Il colore dell’abito sembra aver influito con gli anni sul suo
carattere: aperto e allegro in gioventù si è incurvato
verso una leggera ma costante propensione alla melanconia. Le labbra, un tempo larghe e sensuali, sono ora
sottili e tirate.
<<Non ne sarei così sicura, mamma>> continua
Lisetta <<pensa che non è raro vedere i componenti
amministrativi del Governo Badoglio fare a gara la se128
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ra per trovare, nei vari alloggi, una branda su cui dormire. Si dice che lo stesso Maresciallo sia arrivato a
Brindisi con l’abito indosso e un fazzoletto. Nulla più.
Per fortuna ha trovato una villa fuori città: ha detto che
l’umidità del Castello Svevo gli irritava la gola!>>.
<<E Michele?>> chiede Pierino, riferendosi al marito di Rosetta.
<<È stato assunto dal Ministero dei Beni Culturali.
Si sta occupando di comporre gli elenchi dei siti storici più importanti e aiuta gli americani a diffondere le
informazioni, per evitare che siano bombardati o danneggiati dalla guerra>>.
Un colpo di vento più forte degli altri lancia in orizzontale la pioggia contro i vetri delle finestre, facendoli tambureggiare. Due tuoni in rapida successione fanno vibrare le finestre e tintinnare le tazze sui piattini.
<<Mi pare un’ottima cosa>> commenta Pierino
<<e invece a cosa dobbiamo il fatto di essere qui riuniti sotto questa fine del mondo?>> chiede con un sorriso soddisfatto.
<<Ci sono due cose di cui volevo parlarvi. Innanzi
tutto mi sono informata. Ormai a Lecce hanno riaperto quasi tutte le scuole. È ora che i ragazzi tornino alle
loro occupazioni normali, prima che l’anno scolastico
vada troppo avanti e sia difficile recuperare le lezioni>>.
Pierino guarda pensieroso all’interno della tazza la
fetta di limone che rotea nel tè dove si sta ancora sciogliendo il miele che vi aveva immerso con il cucchiaino. I ragazzi a scuola vuole dire la famiglia a Lecce.
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Vuole dire anche una bella faticaccia, andare su e giù
da Lecce a Salice in carrozza per seguire il suo lavoro.
D’altra parte Lisetta ha ragione.
Salvatore, l’unico diretto interessato da quelle parole, appoggia la tazza sul tavolino di fronte e distende le
spalle sul sofà. Se l’aspettava. Da quando erano tornati a Salice da Messere Andrea, la madre non faceva che
sollecitarlo nei suoi studi, a concentrarsi su di essi dopo le distrazioni dell’insegnamento alla scuola campestre. Quella lunga estate di guerra, seguita da un autunno piovoso e fresco, quei lunghi giorni a Salice, a
occuparsi di fronti in spostamento e di battaglie aeree,
seguendo le notizie alla radio, stava finendo. Sarebbe
tornato a scuola, le lezioni, i compagni, i compiti, le interminabili versioni di latino. Avrebbe passato ore e
ore senza poter vedere l’orizzonte o passeggiare a proprio piacimento tra le vigne, in compagnia di un buon
libro.
<<Pensavo di passare qui l’Immacolata e nelle due
settimane successive trasferirci a Lecce in tempo per il
Natale, in modo che i ragazzi possano riprendere la
scuola a Gennaio>>. continua Lisetta, delineando il
programma familiare.
<<Certo però che spostare tutta la famiglia tra l’8 e
il 20 dicembre non è uno scherzo!>> commenta
Pierino.
<<Volere è potere. D’altra parte ci siamo spostati in
tre ore da Salice a Messere Andrea>>.
Pierino vorrebbe ribattere che non è proprio la stessa cosa, ma sa che Lisetta ha ragione: se lei vuole non
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c’è difficoltà che tenga. Tanto vale rassegnarsi al vortice di preparativi che faranno della festa dell’Immacolata nulla più che un breve momento, quasi con le valigie in mano, pronti a partire per Lecce.
<<Non c’è dubbio>> interviene la nonna Vincenzina <<ma stare qui significa essere più vicini a Brindisi, dov’è il Re, la Corte, e dove si sta formando il
nuovo Governo Badoglio. Certamente la figlia del
Senatore Arcangelo de Castris e suo marito dovrebbero partecipare ad un momento tanto critico per la monarchia d’Italia>> usando la chiarezza del tono di voce e i suoi occhi chiari per sottolineare la fermezza dei
suoi desideri.
Pierino si lascia scappare un <<Mhmmm!>> che
nasconde l’insieme, da tutti intuito, di una sfiducia nella possibilità di un ruolo significativo nella vita politica e condito con il cortese rifiuto di cambiare il proprio
stile di vita e le proprie ambizioni solo a causa della
presenza di un Re che non potrebbe avere guai maggiori per la propria dinastia.
Salvatore, dal suo privilegiato posto di ascoltatore
privo di parola, osserva l’evolversi della partita a scacchi intorno ai biscotti al miele.
Lisetta guarda il marito. Adesso tocca a Pierino.
<<Grazie mamma>> dice con cortesia Pierino
<<sono considerazioni che ho già fatto, anche con
Lisetta. In questo momento a Brindisi c’è una confusione totale, nel mezzo della quale Badoglio sta tentando di formare un nuovo governo. Non è il caso che
mi dilunghi in questi argomenti, non sono faccende
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che riguardano noi che siamo qui a Salice. Certamente
dovremo almeno porgere i nostri ossequi a corte, cosa
che non ho ancora fatto per il semplice motivo che avevo cose più urgenti di cui occuparmi, per il bene della
nostra famiglia e dei nostri affari>> termina di dire posando la tazza del tè sul tavolino e muovendo la mano
destra come a voler tagliare il discorso.
<<Sì, certamente dovrò presentarmi alla Regina in
questi giorni, ma c’è un altro argomento che ci interessa più da vicino>> dice Lisetta, continuando a guardare ora il marito ora la madre <<ed è quello della nostra
cantina>>.
Pierino alza leggermente il sopracciglio destro, ma
resta in attesa.
<<Si tratta delle preoccupazioni di Pierino relativamente alla sua attività nel prossimo futuro. La guerra
sta finendo ma questi sono momenti di difficoltà eccezionale, e anni così duri continueranno a portare difficoltà ancora a lungo. Pierino è preoccupato e noi tutti
dobbiamo esserlo con lui, dobbiamo aiutarlo per quanto possiamo. Ma non è tutto>>. Lisetta si ferma un attimo e prende il foglio posto sotto la biscottiera.
<<La verità è che si continua a combattere, a bombardare, a scappare e a morire. Noi siamo stati molto
fortunati e con grande fatica Pierino è riuscito a portare a termine la vendemmia. Ora ci aspettano certamente tempi difficili, anche se la speranza ha molti motivi
per ravvivarsi. Credo sia doveroso affidarci alla Madonna con fede e sincerità, ringraziandola di essere stati graziati da tutto lo sconquasso di quest’anno, chie132
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dendole di non abbandonarci nel prossimo futuro. Ho
pensato di fare una Novena con queste intenzioni, a cui
partecipare tutti, a partire da stasera e fino all’Immacolata. Ho preparato un’intenzione alla Madonna, insieme a Don Antonio, nostro padre spirituale, che reciteremo ogni sera. Ve la leggo>>.
Lisetta si assicura di avere la massima attenzione di
tutti e comincia:
<<O Madre Nostra, tenera e buona, che ci hai protetti e aiutati affinchè anche noi fossimo d’aiuto al
prossimo, consci della nostra pochezza e dei nostri
peccati, Ti ringraziamo delle Grazie che finora ci hai
elargito con generosità. Ti preghiamo di non guardare
ai nostri molti peccati, ma alla Fede in Te di questa nostra Famiglia. Ti supplichiamo di non abbandonarci
nei tempi difficili che dovremo affrontare, abbiamo il
cuore pieno della speranza della Tua Benevolenza. O
Tu, che nessuno ha mai implorato invano, degnati di
soccorrerci, te ne scongiuriamo, per quella misericordiosa bontà di cui lo Spirito Santo ti ha riempito per
tutti noi. Ave o Maria, Piena di Grazia…>>.
Lisetta alza gli occhi dal foglio incontrando quelli
di Salvatore, che la guarda intenerito e stupito, come
sorpreso di scoprire negli occhi e nelle parole della
madre una fede tanto semplice, eppur tanto profonda.
Pierino invece sorride, dicendo <<Grazie, Lisetta, è
una splendida idea e una bellissima preghiera che cominceremo stasera nella nostra cappella. E io credo
che la Madonna non ci abbandonerà>>. Si alza dal
sofà e l’abbraccia.
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Anche la nonna Rosina approva, e corre a far aprire
la cappella dalla domestica e ad accendere tutte le candele.
La nonna Vincenzina si alza posando la tazza sul tavolino e si avvicina ai due coniugi ancora abbracciati.
<<Va bene per la Novena, ci mancherebbe. Ma voi
due dovete farvi vedere a Corte al più presto>> dice,
allontanandosi dal salotto.
Resta Salvatore, che si alza dal divano. Lisetta e
Pierino lo guardano e gli chiedono di sollecitare le sorelle e il fratello a partecipare alla Novena. Lui li rassicura: ci saranno tutti.
Dopo la cena, mentre lampi e tuoni si allontanano
da Salice lasciando abbondanti cortine d’acqua scendere sul paese, la famiglia intera si riunisce nella cappella del Palazzo, a recitare la Novena. Rosellina, che
ha dieci anni, e suo fratello Arcangelo, il più riottoso a
quel sacrificio, alla venticinquesima Ave Maria si addormentano sul banco appoggiandosi alle spalle dei
genitori. Lisetta chiede sottovoce alla domestica di
portarli a letto, pensando che la Madonna, da Madre
Suprema, comprende che dei bambini piccoli non resistono a lungo la sera svegli a pregare.
Alla fine del Rosario escono tutti tanto assonnati da
trascinare i piedi fino alle stanze da letto. Lisetta pensa che quello sia un buon momento per riprendere il discorso con Pierino e dice:
<<E per Brindisi, come facciamo?>>.
<<Senti Lisetta, è tardi, ho sonno, e non ho molta
voglia di parlarne; vedremo, ci penseremo>>.
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<<Va bene, ma mi prometti che ci penserai?>>.
Pierino si infila nel lettone riscaldato col bracere e
dice:
<<Ci penserò, prometto>>.
<<Pensa anche agli americani. A Brindisi non ci sono solo il Re e Badoglio, ci sono anche loro, con aerei,
navi, soldati, insomma ci sono più americani che italiani>>.
<<Sì sì, lo so Lisetta, gli americani, però adesso
dormiamo eh? Vuoi? Grazie>> dice Pierino, tagliando
corto.
Si gira verso la finestra contro cui scroscia ancora la
pioggia. Con la sensazione di tepore del letto chiude
gli occhi pensando agli americani, ai cowboys dei film
western e agli indiani. Nell’abbandono che sopraggiunge gli sembra di vedere un Sioux con in mano una
bottiglia di vino e l’assurdità dell’immagine si confonde con le cortine luminose del sonno senza sogni che
lo avvince, coprendone la coscienza.
Lisetta lo sente immobile accanto a sé. La concentrazione accorata che ha posto nella preghiera serale le
impedisce di prendere sonno subito come il marito, la
sua coscienza è ancora vigile ed attenta al mondo. A
volte l’incertezza del futuro le pesa nel cuore. Ma alla
fine le preghiere fugano tutte le ombre dello spirito.
Chiude gli occhi e si addormenta con l’immagine della sua piccola Maria Vittoria che sorride sotto il sole.
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CAPITOLO 8
Regina di Natale
I
n quel periodo Salvatore vive con impazienza la
prossima fine del liceo e l’impegno del famigerato
Esame di Stato, come se fosse finalmente l’anticamera
del tanto desiderato mondo degli adulti. Ora che mancano pochi mesi al suo compleanno non sta più nella
pelle, ne ha contemporaneamente grande desiderio e
timore segreto, come se magicamente, nella notte del
diciottesimo compleanno, si alzasse una cortina magica e un nuovo eroe venisse introdotto nell’arena della
vita competitiva, sol per il fatto di essere nell’età in cui
si conclude un ciclo di studi. Cresce la voglia di mondo, di vita adulta e lui si attacca alla radio nelle ore libere, per recepire tutti i cambiamenti che giungono attraverso l’etere. Notizie di guerra e commenti e discorsi politici così nuovi da lasciare lui, nato e cresciuto nel
ventennio fascista, del tutto a bocca aperta. Segue il
padre in cantina con più frequenza e rinnovato interesse, gironzolando tra tini e vasche, facendo domande a
destra e a sinistra. Tutto si fissa nella memoria in modo indelebile, con le sensazioni acuite dalla gioventù e
dalla pulizia del registro mnemonico.
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La giovane età gli consente di registrare nella sua
memoria in modo indelebile quei momenti così particolari. Per esempio il profumo del mosto di Negroamaro. Un odore dolce e vinoso, di un’intensità tale da
essere quasi palpabile. Ha la sensazione che formi delle nuvole che vagano al di sopra delle botti dell’uva trasportata in cantina, ed esca ora direttamente dai bocchettoni delle vasche di fermentazione. Appena sveglio
la mattina apre la finestra, la luce illumina la stanza dominata dalla grande carta geografica d’Italia, e subito
quella nuvola proveniente dalla vicina cantina entra e
supera persino l’odore del caffè già pronto che si riversa nella stanza da sotto la porta, proveniente dalla sala
da pranzo dove si sta preparando la colazione. Le sensazioni sono così forti che gli sembra quasi di vedere le
due nuvole di profumo combattersi al centro della sua
camera, gli basta spostarsi di pochi centimetri per sentire ora uno ora l’altro di quei due aromi penetranti.
Negli anni a seguire cercherà spesso quel profumo di
fermentazione, ma non lo troverà più così intenso.
La madre Lisetta, intanto, è un turbine di attività. Ha
messo in cantiere una nuova commedia da un’idea che
ha avuto uscendo dalla messa alla <<Cona>>. Nel frattempo dirige le operazioni di preparazione al trasferimento della famiglia a Lecce, con chiarezza programmatica e polso fermo nei confronti della servitù, che
vola da una stanza all’altra. Non contenta ha deciso di
studiare l’Inglese con la Professoressa, perchè, dice:
<<Prima o poi vedrete che servirà con tutti questi americani in giro>>.
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È questa una parola nuova che sempre più spesso
viene pronunciata in casa: gli americani.
Fino ad ora ne hanno visti pochissimi in paese e gli
abitanti hanno come l’illusione che tutto potrà proseguire come al solito. Ogni tanto qualche jeep passa davanti la cantina o il palazzo, gli MP fanno il giro del
paese, scomparendo poi verso Brindisi in una nuvola
di polvere, in cui si distingue solo la lunga antenna della radioricevente.
Gli americani stanno a Brindisi col nuovo Governo
e il Re.
Pierino non va più a Brindisi da mesi, da molto prima dello sbarco degli Alleati a Salerno. Prima c’è stata la vendemmia, poi si è occupato del vino in cantina,
e ad ogni modo la vita di società e la politica non lo
hanno mai appassionato, lui preferisce dedicarsi alla
gestione della sua cantina. Si rende però conto che ormai è ora di vedere con i propri occhi la nuova situazione della città, una situazione che tutti i suoi amici di
Salice continuano a riferirgli con parole stupite e sorprese, contenti che invece lì al paese tutto proceda secondo vecchi ritmi. Subito dopo la festa
dell’Immacolata prende al volo l’offerta del sindaco
che deve recarsi in Comune a Brindisi e lo segue, con
l’intenzione di far visita ad un certo Avvocato Russo,
così senza preavvertirlo.
Pierino credeva di essere sufficientemente informato dello stato della città dalle notizie che Salvatore
ascolta regolarmente alla radio e dalle chiacchiere di
paese, ma deve confessare che mai avrebbe immagina138
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to nulla del genere. La città è completamente trasformata, non dalla presenza del Re che nessuno vede mai,
ma per quello che stanno facendo gli americani.
Al ritorno a casa a Salice, quella sera, Salvatore gli
corre incontro, ha sentito la carrozza entrare nel giardino. Sono passate le dieci di sera e di solito a quell’ora Salvatore è già a letto a leggere. Invece Pierino se lo
trova lì, eccitatissimo.
<<Ciao papà, sei stanco?>>.
<<Ciao Salvatore, ancora in piedi a quest’ora?>>.
<<L’ho chiesto alla mamma. Volevo sapere com’è
andata, che hai fatto, com’è la città…>> risponde
Salvatore cercando di nascondere sotto un’acerba aria
adulta, seria e lievemente noncurante, la sua apprensiva curiosità.
<<Innanzi tutto, come sempre, una gran faticaccia.
Quella storia della Lancia proprio non riesco… ma non
ci pensiamo>> si rammarica Pierino, sentendo la
schiena dolente e gli occhi stanchi per la lunga giornata. Vedendo l’aria di attesa di Salvatore, con i suoi occhi attenti e intelligenti, sorride e dice:
<<Salvatore, è una cosa fantastica. Col sindaco siamo arrivati a Brindisi con la carrozza scoperta.
Innanzitutto, da lontano, si vedevano aerei su aerei girare sopra l’aeroporto e la città. Non avevo mai visto
tanti aerei in vita mia! Abbiamo visto i B 52 decollare
uno dopo l’altro contro vento e fare delle lunghe virate, dirigersi verso nord ovest e raggrupparsi. Uno stormo intero! Forse quaranta o cinquanta. Passavano uno
dietro l’altro. Uno spettacolo. Ci passavano sopra la te139
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sta, a trecento o quattrocento metri d’altezza. Dovevano essere carichi di bombe perchè davano l’impressione di muoversi con lentezza, guardinghi, con i motori che andavano al massimo, producendo un rombo
sordo, vibrante>>.
<<Sai che quando si arriva a Brindisi non è che si
riesca a vedere il porto>> continua Pierino <<tutto intorno c’è pianura, e quindi non si vede niente. Quando
siamo entrati in città mi sono reso conto che lì era
cambiato tutto. C’erano tantissimi americani, soldati,
marinai e ufficiali, che andavano e venivano a bordo
delle loro jeep. Non avevo mai visto tante auto nei vicoli di Brindisi! Sembravamo finiti in un altro mondo.
Andavamo avanti verso il porto, scansati ogni momento dalle jeep che rombavano facendo agitare i cavalli, non abituati a tutto quel traffico. Quando siamo
arrivati al porto lo stupore è stato completo: era pieno
di navi da guerra e da trasporto, tante che non si riusciva quasi a vedere l’acqua. Tutt’intorno al Castello
Svevo sembravano le dita di giganteschi orchi con le
mani sulla città. Le banchine stracolme di gente che
andava e veniva dal Castello, tutto vibrava col rombo
degli aerei che decollavano. E poi lo sai, gli americani sono molto attaccati alla loro bandiera. Beh, ce n’erano tantissime, di tutte le dimensioni: a poppa delle
navi erano enormi, come quelle in cima ai torrioni del
castello, talmente pesanti che si muovevano lente nel
fresco grecale. Anche sulle banchine ne hanno issate
decine, più piccole, e se ne vedevano sui tetti della
città, tutte a sventolare nel vento. Insieme alle loro,
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c’erano pure quelle della Regia Marina>> continua a
raccontare Pierino <<Altro che guerra, sembrava una
festa!>>.
<<E poi, che hai fatto?>> vuole sapere ancora
Salvatore.
<<Il sindaco è andato a trovare l’Avvocato Salienti
al Comune. Io sono andato dall’Avvocato Russo, che
per fortuna era in casa. Ha riallacciato rapporti con dei
gruppi antifascisti e li aiuta nei loro rapporti con Badoglio. C’è una situazione molto movimentata. Non contento di questo, siccome ha delle cointeressenze nel
naviglio minore, traffica con gli americani>>. Pierino
ride nel rivedere una scena buffa <<Nel suo appartamento Stile Impero, tutto scuro e serio, è entrata una
ventata di New York. Ha sigarette americane, birra
americana, pane in cassetta americano, prosciutto americano, burro, persino le lampadine sono americane.
Tutto americano. Poi arriva la moglie: non so se te la
ricordi, quella signora bruna piccolina… Beh, anche
lei si è sciolta e tagliata i capelli, ed è tutta un boccolo. Impressionante. Mi ha aggiornato sulla situazione
della città, del Re, del Governatore Militare, del porto
e della borsa nera>>.
Pierino entra in casa seguito dal figlio, pensando di
poter interrompere lì il racconto, che a Salvatore tutti
quei particolari interessino poco. Ogni genitore ritiene
che i propri figli non crescano mai.
<<E allora… Che ti ha detto?>>.
Pierino lo guarda.
<<Di che?>>.
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<<Del Re, degli americani, della politica… Che sta
succedendo?>> lo incalza Salvatore.
Pierino capisce che non può cavarsela così: nonostante la sua stanchezza e le sorprese della giornata
adesso ha un figlio quasi adulto e gli tocca informarlo
di tutto punto.
<<Come puoi capire c’è ancora una gran confusione. Il Governatore militare Macmillian, che è inglese,
sembra volersi comportare come a casa propria, e forse vorrebbe che la Puglia fosse tale. Gli americani invece sono qui solo per fare la guerra, e vogliono meno
fastidi possibile. Il Re non si fa vedere in giro, sta chiuso nelle sue stanze al Castello Svevo, non si fida di
nessuno, neanche di Badoglio che di errori ne ha fatti
ma in ogni caso è fedele. Nel frattempo ci sono dei
gran movimenti di tutti quegli antifascisti che prima
erano in esilio e adesso tornano alla spicciolata, e si
fanno avanti col Governo, appoggiati anche dagli americani che, lo sai, hanno questa loro idea fissa della democrazia parlamentare. Così il Re si fida ancora meno… Sembra che vogliano organizzare un congresso di
questi movimenti. E che Benedetto Croce sarà della
partita>>.
<<Davvero? Un cambiamento rivoluzionario!>>.
<<Che sia un gran cambiamento è certo… E speriamo che sia positivo almeno per le nostre campagne, ma
se credi che sia rivoluzionario scordatelo! Nessuno degli Alleati vuole seccature. Se riusciamo a uscire dalla
guerra civile in Italia e dall’occupazione senza grossi
danni dovremo ringraziare gli americani>>.
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Salvatore segue il padre sulla scala e lo accompagna
in sala da pranzo, dove la domestica gli ha preparato
una cena fredda. Pierino chiede a Salvatore se gli vuol
fare compagnia, nella casa ormai silente. Tutti sono andati a dormire. Compare Lisetta in camicia da notte,
saluta il marito, lo prega di non fare tardi che domani
la giornata sarà faticosa. Saluta il figlio con un sonoro
bacio sulla guancia, cui Salvatore cerca debolmente di
sottrarsi. Lisetta si allontana di scatto dicendo a
Pierino <<Guarda tuo figlio, non ha ancora diciottanni
e già si vergogna delle carezze della madre>>.
Pierino sorride dicendo <<Non prendertela! Certo
qualche anno fa non mi avrebbe chiesto tutte queste
notizie sulla situazione politica in città!>>.
<<Tutti uguali gli uomini>> commenta Lisetta andando a dormire.
Due giorni dopo Pierino è di nuovo a Brindisi, dall’Avvocato Russo.
Arriva intorno a mezzogiorno e lo trova in casa, intento a sorseggiare una birra.
<<Come ti sembra?>> chiede incuriosito.
<<Buona! E fresca. La vuoi assaggiare?>>.
Pierino non ha mai gradito particolamente quella
bevanda e nicchia.
<<Ma dai, è buona, ti assicuro. E poi devi berla, per
comprendere tutto <<Quel Mondo>>>>.
Russo ha preso l’abitudine di riferirsi al complesso
di uomini e cose che ha investito l’Italia con lo sbarco
degli Alleati con questa espressione: Quel Mondo.
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<<L’arrivo degli Alleati è stato per la Puglia come lo
sbarco dei marziani. Persino il Re Savoia, proveniente
direttamente dal medioevo, è venuto a vedere cosa succede>> dice e poi ride.
Pierino l’assaggia e la trova buona, esattamente come dice Russo. Ossia pulita e morbida, assolutamente
priva d’impurità, enormemente gasata per i suoi gusti,
ma comprende che, ad un palato abituato, non deve
procurare alcun fastidio. In più è equilibrata al gusto,
con un lieve tono dolciastro all’inizio e un soffuso
amaro alla fine, che invita a continuare a bere.
<<Da dove viene?>> chiede a Russo.
<<Pensa Pierino, questa viene dritta dritta dall’Australia! Ma ci pensi? Che mondo Quel Mondo! Come
la trovi?>>.
<<Buona. A suo modo proprio buona, come hai detto tu>> dice Pierino. Prende in mano la bottiglia di vetro scuro, spesso e robusto, da mezzo litro. Una bella
bottiglia nel suo genere.
<<Vedi? Te l’avevo detto>>.
<<E ne bevono parecchia?>>.
<<Parecchia? Brindisi, Bari e Lecce ne sono invase>>.
<<Qualche migliaia di bottiglie?>>.
<<Migliaia? Decine e decine, forse centinaia di migliaia. Quel Mondo quando parte va su numeri a quattro e cinque zeri, che credi! Ti va di fare una passeggiata al porto? Ti faccio dare un’occhiata>>.
Scendono da casa e si avviano alle banchine del
Porto Medio. Un MP li ferma chiedendo i documenti.
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Russo mostra un permesso speciale in quanto operatore marittimo e il soldato col casco bianco e la striscia
di tela sul braccio li fa passare. Le banchine sono irte
di navi da cui scende di tutto: vestiario, armi, munizioni, tonnellate di cibo in scatola, pane, sigarette. E migliaia di casse di birra, migliaia, dall’Inghilterra,
dall’Australia e dall’America. Migliaia. Vengono caricate sul treno che percorre le rotaie sulla banchina, oppure su camion che partono subito, andando ad ingolfare ancora di più il traffico della città.
<<Mamma mia>> dice Pierino <<ecco cos’è un’invasione. Dopo gli uomini e le armi, arrivano le cose>>.
<<Eh sì, Quel Mondo fa le cose per bene. Sai Pierino, quando sono arrivati ho pensato che non avevo
mai visto tanta abbondanza in vita mia. Ho pensato che
non sarebbe durato, insomma che l’arrivo di navi dovesse rallentare e poi fermarsi. E invece mi sbagliavo,
continuano ad aumentare! E al Porto Esterno ci sono le
petroliere che scaricano benzina Avio. Pensa che hanno dovuto costruire in fretta e furia dei serbatoi nuovi
dietro il Castello a Mare, perchè non sapevano più dove metterla tutta questa benzina>>.
<<Ma non capisco. Dopo aver bevuto tutte queste
bottiglie, dove lo mettono il vetro?>>.
<<Dove lo mettono? Lo buttano via, Pierino. Pensi
che le ritirino? Sarebbe impossibile, quelle bottiglie
vengono da Quel Mondo, costerebbe troppo riportarcele>>.
<<Le buttano? Ma se noi non vediamo bottiglie simili da anni!>>.
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<<Beh, se è per questo, noi non abbiamo mai visto
nulla di simile. Prova a immaginare cosa deve pensare
il nostro Re quando si affaccia alla finestra e vede decine e decine di navi che sbarcano ogni ben di Dio, e
poi armi e munizioni e carri armati. Secondo me è per
questo che non si fa vedere in giro. Sa di aver perso la
faccia. Questa vecchia Europa si reggeva perchè non
sapeva che da qualche altra parte, nel mondo, esisteva
una simile abbondanza. Quanta della nostra gente è
emigrata? Lo sai che il venti per cento dei soldati americani di Brindisi parla l’italiano? Magari a modo loro,
ma si fanno capire>>.
La sera Pierino rientra a Salice con la sensazione di
rientrare in un mondo vecchio: una distanza fisica di
pochi chilometri, una diversità assoluta, totale, infinita
nel modo di essere e di fare. Frutto della contaminazione di una cultura diversa, certo. Ma soprattutto una
disponibilità di beni, un’abbondanza senza paragoni
nella storia millennaria della civiltà europea. Il Nuovo
Mondo aveva un modo di vivere che faceva della massima disponibilità di cose la sua vera essenza.
Ora Pierino non ha più dubbi: come avevano potuto
italiani e tedeschi illudersi, o anche solo immaginare,
che si potesse fare una guerra con un popolo che ha abbondanza di tutto e mezzi per portarla in ogni dove? La
guerra della pulce contro l’elefante! Una pura follia.
Il corollario a questa riflessione è che la guerra, oggi o domani, gli Alleati l’avrebbero vinta per forza, a
costo di andare a snidare il Furher da dentro il suo
bunker.
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E se quello è il futuro, tanto vale cominciare a lavorarci. Così Pierino inizia a riflettere: comincia a formulare nella sua mente un progetto, anzi la zona iniziale di un progettto, con la semplicità tipica di tutte le
fasi confuse che si susseguono nell’elaborazione di un
approccio nuovo ai problemi. Pierino rimugina sempre
sugli stessi elementi: il rosato della vendemmia ‘43, i
vecchi clienti scomparsi e la necessità di trovarne di
nuovi. Pensa anche agli americani ma gli sembra impossibile coniugare le due cose, perchè quelli sono abituati al consumo di birra, e poi perchè non può assolutamente imbottigliare il vino: gli mancano le bottiglie
e non ha nessuna speranza di acquistarle, visto che tutte le vetrerie sono al di là della Linea Sigfrido, difesa
dai tedeschi.
Nel frattempo sua moglie Lisetta insiste con la storia degli auguri di Natale a Corte, e lo convince ad accompagnarla a Brindisi per frequentare le sue numerose amiche. Lui non è molto felice di dover scorazzare
per quei quaranta chilometri quasi ogni giorno, con la
carrozza, rientrando tardi la sera.
Durante il tragitto i due coniugi intrattengono interminabili discussioni a proposito del Barone Tizio e del
Conte Caio, del Sottosegretario che diventava Ministro
e dei gruppi di antifascisti, delle riunioni di Governo e
di tante altre cose come se, diceva Pierino, le riunioni
salottiere potessero decidere delle sorti di un Regno, o
l’influenza di una moglie potesse cambiare l’atteggiamento e i pensieri di un Governatore inglese.
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Verso metà dicembre Salvatore, una sera che era andato a letto presto ubbidiendo alle raccomandazioni
dei genitori, si sveglia con l’entrata della madre nella
sua stanza. Tra il sonno e la veglia la ascolta comunicargli che il martedì successivo li avrebbe accompagnati a Brindisi, ad un ricevimento informale del Conte
Negris al castello Svevo, e con l’occasione avrebbero
potuto porgere gli auguri di Buon Natale almeno alla
Regina.
<<Adesso continua a dormire. Ne parleremo domani>> conclude, uscendo dalla stanza.
Salvatore si riaddormenta immaginando le luci di
un gattopardesco ricevimento reale, e scopre con viva
sorpresa, guardandosi, che uno spadino gli pende dal
fianco. Cerca uno specchio vicino, e si trova bellissimo
nell’alta uniforme della Marina. Ancora per un istante
sente l’assurdità della situazione, ma il sogno lo affascina con la sua colorata luminosità, l’inconscio ormai
preso dall’inconsistenza del sonno.
Nei giorni successivi Lisetta è in preda all’agitazione per quella serata.
Salvatore preferirebbe non partecipare perchè non è
ancora maggiorenne, ma Lisetta ritiene che sarebbe un
peccato perdere quell’occasione unica e, vista la natura informale dell’incontro, si potrà fare certamente uno
strappo alla regola. Lui torna a studiare convinto che il
mondo degli adulti è sempre stato un po’ pazzo: da un
lato insistono a mandarlo a letto alle dieci di sera anche quando non ha sonno ed ha tante cose da fare, dal148
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l’altro basta che si debbano fare gli auguri ad una
Regina, che la maggiore età sembra raggiunta con
qualche anno d’anticipo.
Pierino invece insiste nel consigliare la moglie di
non illudersi, non si ha nessuna sicurezza di incontrare il Re o la Regina. Il primo praticamente non lascia
mai le sue stanze e la seconda è uscita sì e no due volte per visitare scuole e ospedali, ma non ha mai partecipato a nessun ricevimento, anche se informale.
Alle cinque e mezza del pomeriggio di martedì 21
dicembre 1943, in una serata mitigata improvvisamente da uno scirocco debole e umido che soffia da
Taranto, Donna Lisetta de Castris, Don Pierino Leone
e il loro primogenito Salvatore Leone de Castris si
muovono alla volta di Brindisi a bordo della solita carrozza coperta.
Padre e figlio si ritrovano seduti vicini, un po’ rigidi nel loro abito da sera stretto: Pierino osserva che
quello di Salvatore è perfettamente conformato alla
sua corporatura giovane e longilinea, e osserva che madre e figlio sembrano due giovani cigni.
Giungono in una città scarsamente illuminata, dove
le luci delle strade sono quelle delle osterie dove frotte di giovani militari americani si intrattengono, bevendo birra e ogni sorta di liquori e abbandonando per
strada le bottiglie vuote.
Dopo l’ennesima curva, d’improvviso, la strada si
allarga in prossimità del fossato del Castello, da dove
si vede, a destra e a sinistra, tutta la flotta di stanza a
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Brindisi e il lavoro di scarico delle merci che continua
anche durante la notte.
Le torri rotonde della costruzione, sovrastano con la
possanza della pietra millenaria, il porto e tutta la città.
La carrozza percorre il ponte sul fossato ed entra nel
cortile circondato da altissime mura di pietra, su cui si
aprono innumerevoli strette finestre, apparentemente
pronte a scatenare il fuoco difensivo sugli ospiti del ricevimento.
Sul selciato gli zoccoli dei cavalli e le ruote producono un rumore metallico che si riverbera sinistramente sulle pareti alte e verticali del castello, fin quando il
grido del postiglione non ferma la carrozza.
Lisetta commenta <<È un posto da far venire i brividi, e che umido poi!>>.
Salvatore scende subito e, tenendo aperta la portiera insieme al valletto, aiuta la madre a trovare il gradino della carrozza col piede, offuscato dagli abbondanti volant dell’abito rosa d’organza.
L’attendente del Conte li precede verso il portone, e
li sollecita a star attenti ai gradini diseguali della scalinata, costruita così nel medioevo per ostacolare eventuali aggressori.
Dopo una ripida salita e un paio di lunghi e tenebrosi corridoi stretti, finalmente arrivano nel grande
Salone Giallo, arredato con tutte le sfumature di questo colore, dall’arancio tenue dei divani al giallo limone dei tendaggi stretti lungo le finestre oblunghe.
Il ricevimento è già iniziato e gruppi di invitati sono
immersi nelle reciproche presentazioni. Spicca nella
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compagnia la figura di Macmillian che, a sottolineare
l’informalità della riunione e probabilmente il fatto che
è lì di passaggio, sfoggia la sua perenne divisa africana con i pantaloni color cachi e il frustino sottobraccio,
minaccioso tra tanta eleganza.
Al ricevimento Lisetta è uno splendore e colloquia
amabilmente con dame di compagnia, ufficiali e Ministri del Regno. L’argomento s’incentra sul bombardamento di Bari del 2 dicembre. Le signore si chiedono
se quei duecento aerei della Luftwaffe, che sono riusciti a superare le difese americane, potrebbero arrivare anche più a sud e colpire le loro case. Le più informate affermano che ormai è piuttosto improbabile.
Dopo gli errori di quel giorno gli Alleati non solo hanno aumentato l’allerta ma sono riusciti anche a colpire
gli aeroporti tedeschi. Ormai si può dire che la battaglia dell’aria l’abbiano vinta loro.
Pierino viene presentato al generale americano
Murphy e a due suoi ufficiali, John Pietropaolo e Stephen Alongi, di genitori laziali e calabresi rispettivamente, che lo informano che di lui si parla come uno
dei pochissimi veri imprenditori agricoli della Puglia,
e probabilmente di uno dei più importanti.
Lui si schernisce, lieto per una volta di poter parlare in italiano con degli Alleati, e chiede come si siano
fatti quest’idea.
Loro rispondono che, in qualità di addetti al
Governatorato Militare della Regione sotto il comando
di Macmillian, ricevono rapporti da tutta la Puglia.
Una regione piena di sorprese e di storia.
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Pierino dice <<Sto cercando di fare della mia azienda
una vera impresa agricola moderna, ma sono nulla in
confronto alle cantine toscane o piemontesi. Anche se,
con somma modestia, ho sempre pensato che qui in
Puglia facciamo del gran vino! Naturalmente in questo
periodo, sotto occupazione militare e con una guerra in
corso, non si può far più di tanto, anche se di occasioni
ce ne sarebbero, a ben vedere. In ogni caso il potenziale
prospettico della produzione vitivinicola della regione,
ancora negletta nei grandi mercati europei, è grande>>.
Alongi, un bel ragazzone alto e biondo assai lontano dallo stereotipo dell’oriundo calabrese, chiarisce
<<L’appoggio dell’impresa locale all’azione di
Governo degli Americani è fondamentale, perchè la
sconfitta definitiva del fascismo e della miseria passa
per un rinnovamento economico a tutti i livelli>>.
Alongi sorride, poi chiede della vendemmia.
<<La raccolta è stata fatta per tempo, tra mille difficoltà purtroppo>> dice Pierino passandosi la mano
sulla fronte, memore delle preoccupazioni e dei pericoli corsi <<Il Re ha preteso anche la mia automobile,
costringendomi a ulteriori fatiche. Inoltre la penuria di
viveri si è fatta sentire anche in campagna, con la difficoltà di trovare da mangiare per tanti operai. Ho dovuto provvedere a una guardia armata per evitare ruberìe e fastidi da tanta gente sbandata che girava per le
campagne. Alla fine ce l’abbiamo fatta e tutto il vino
ora riposa in cantina. Sono venuti dei gran vini quest’anno, e sotto quest’aspetto possiamo affrontare il
prossimo anno con fiducia>>.
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<<Sì, indirettamente sappiamo delle vostre difficoltà. Siamo stati informati che esistevano gruppi di
polizia privata nelle campagne di Salice. Così quelli
armati erano i suoi uomini! Lo sa che pensiamo che da
quelle parti non ci sia stato nessun problema serio proprio per questo? Vede cosa intendo per fattiva collaborazione nell’ambito delle reciproche libertà? Proprio
questo. Don Pierino, se posso permettermi di chiamarla così, noi in Italia siamo venuti per combattere il fascismo e i tedeschi, ma non gli italiani. Noi non vogliamo restare. Questa è casa vostra>>.
<<Voi siete i benvenuti in Puglia>> risponde Pierino <<ormai sapete che questa terra ha ben ospitato
tutti i conquistatori che l’hanno occupata. Molti hanno
lasciato segni tangibili della loro opera, altri invece
quasi nulla. Da quel che vedo non ho dubbi che farete
il possibile per rendere questa terra sempre più prospera nel tempo della vostra permanenza>> conclude
Pierino, vedendo che i suoi interlocutori sono distratti
da un movimento che proviene dal fondo della sala. È
appena entrato l’Aiutante di Campo di S.M. Vittorio
Emanuele insieme alla Regina. Come previsto il Re
non si è fatto vedere, ma la presenza della sua reale
consorte riempirà di racconti i pomeriggi di Lisetta
quell’inverno a Lecce.
Il Maggiore Pietropaolo invita Pierino ad avvicinarsi a Sua Maestà dicendo: <<Adesso andiamo a rendere omaggio alla Regina, altrimenti potrebbero nascere
dei conflitti diplomatici>>.
La Regina è sommamente lieta di incontrare Lisetta
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e le dice di aver sentito parlare del padre come di una
figura notevole del suo tempo, dotata di carisma nella
conduzione della politica del Regno. La Regina ritiene
che anche la figlia sia dotata dello stesso ingegno del
padre e sollecita una sua azione in favore della popolazione di Lecce danneggiata da quella guerra. Lisetta se
ne sarebbe occupata in suo nome, una volta trasferitasi da Salice? Avrebbe fondato un’associazione caritatevole che desse un impulso positivo risolvendo il più
possibile le difficili situazioni della povera gente della
città?
Lisetta è lusingata fin nel profondo del cuore.
Risponde affermativamente mentre Pierino, al suo
fianco, assente e con un sorriso di circostanza, spera in
cuor suo che quella nuova attività caritativa non porti
Lisetta a trascurare lui, la casa o i bambini.
Salvatore, dietro di loro, sta rigido, quasi sull’attenti, con l’immediato e urgente problema di non sapere
cosa fare delle mani in preda ad una inconsueta agitazione, consapevole solo di non poterle assolutamente
mettere in tasca, come fa di solito.
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CAPITOLO 9
A Lecce
P
ierino, che precede la famiglia a Lecce, cerca di
trasmettere al personale le disposizioni ricevute da
Lisetta, ciononostante il vigile senso critico della moglie non è pienamente soddisfatto dell’organizzazione
della casa.
Lisetta non trova le condizioni conformi ai suoi desideri e passa i primi due giorni a fare e disfare tutto
ciò che la servitù ha fatto sotto la direzione del marito,
lamentandosi con tutti, figli compresi.
Come accade in ogni matrimonio, dopo anni di vita
in comune Pierino è abituato a quelle sfuriate dopo i
traslochi, e ai visi disperati delle ragazze a servizio che
scappano di qua e di là per ottemperare agli ordini della padrona di casa. L’unica soddisfatta in tutto quello
scompiglio è naturalmente la suocera, che gode nel vedere strigliate a dovere le cameriere.
Il resto della famiglia invece scopre con stupore e
sorpresa una città trasformata da quegli ultimi mesi di
guerra. I bombardamenti hanno prodotto vasti danni,
cui si sta pian piano ponendo rimedio con ricostruzioni e con l’abbandono di alcune aree del centro storico.
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Inoltre è esploso il fenomeno della borsa nera.
Quella vendita clandestina di generi di prima necessità introvabili nei negozi era cominciata molti anni prima, dall’inizio della guerra e dei razionamenti,
e anche se contrastata dalle autorità e dalla Prefettura
era presente, strisciante e nascosta. Con la caduta del
fascismo e con lo sbarco alleato il fenomeno era uscito alla luce del sole, generando una serie di dissesti
evidentissimi. La gente povera rischiava davvero di
morire di fame, mentre pochi eletti si ostinavano a
condurre i loro affari in barba ad ogni senso comune.
I beni di prima necessità salivano di prezzo costantemente, in rapporto alla scarsità degli stessi. Le stesse
vettovaglie degli Alleati, abilmente sottratte, erano
commerciate senza molti pudori a prezzi folli, impagabili dalla maggior parte della gente che si privava
di tutto quel che era riuscita a salvare dalla guerra per
riuscire a sopravvivere. Si cominciava con le suppellettili inutili, per passare ai servizi di piatti e all’argenteria, per chi ne aveva, per finire ai gioielli.
Coloro che non avevano nulla di prezioso da offrire
aspettavano semplicemente la distribuzione dei generi razionati, scarsa e saltuaria, rischiando così l’inedia.
L’incarico esplicito di S.M. la Regina, insieme al
suo spirito organizzativo ed entusiasta, da a Lisetta la
stura ad una determinazione ferrea nel risolvere i problemi del maggior numero di bisognosi della città.
Fonda in quattro e quattr’otto la Casa di Carità di
Salice Salentino, con sede a Lecce presso il vicino
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Collegio Argento dei Gesuiti, dove Salvatore frequenta il Liceo. I frati le mettono a disposizione una stanza
e un grosso magazzino, nel cui tetto una scheggia ha
prodotto un ampio buco. A sostenerla e aiutarla in
quella sua opera accorrono tre delle sue migliori amiche di Salice, che l’hanno preceduta a Lecce di qualche settimana. Ma in quattro non combinano un gran
che, e ogni sera si recano al magazzino per controllare
quanto hanno raccolto facendo il giro delle conoscenze di Lecce. Dopo una settimana convengono che è ben
poco. E non tanto per cattiva volontà delle conoscenti
a cui hanno bussato, ma soprattutto perchè a Lecce di
cibo ne è rimasto davvero poco.
Decidono così di allargare la loro influenza nei paesi vicini: Nòvoli, Squinzano, San Dònaci, Cellino San
Marco, arrivando persino in provincia di Taranto. Non
si limitano ai notabili dei vari paesi, tutti noti all’una o
all’altra delle fondatrici, ma chiedono anche ai conventi, alle chiese, a tutti coloro che sanno avere a cuore la sorte di tante persone.
Il magazzino si riempie e gli stessi che ricevono aiuto dalla Casa della Carità si offrono di riparare il tetto
dei frati. Lisetta riesce persino a convincere questi ultimi a dare aiuto agli scolari più macilenti, offrendo loro una refezione straordinaria alle undici del mattino a
base di zuppa di fagioli. La cosa ha un successo grandioso, tanto che in breve si rende necessaria anche una
distribuzione la sera, per i genitori degli scolari. Nel giro di pochi giorni il pentolone posto nell’ufficio della
Casa non smette mai di bollire, col risultato che quan157
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do Lisetta torna a casa porta con sé, negli abiti, l’odore della zuppa.
Durante la cena, davanti alla famiglia riunita,
Lisetta racconta le decine di storie di coloro che si recano alla Casa per avere aiuto. C’è gente che passa da
Lecce provenendo dalla Grecia, dall’Albania, dall’Africa persino, sbarcata dalle navi che hanno raccolto i profughi dell’Etiopia occupata dagli inglesi. Decine di reduci dalla prigionia in viaggio verso casa e
una quantità di famiglie che hanno avuto la casa bombardata nella regione e si sono rifugiati a Lecce, sperando di trovare di che sopravvivere.
Pierino invece deve affrontare il problema delle persone che, impelagate nei traffici della borsa nera, si recano da lui per ottenere delle forniture di vino, offrendogli cifre da capogiro.
Il prezzo del vino dell’annata precedente e soprattutto di quello elevato per due-quattro anni nelle botti
arriva a prezzi incredibili: prima cento, poi trecento infine mille, duemila AMLire, per poi passare ai dollari,
cinque, dieci, venti dollari per dieci litri. Una sera
Pierino si mette a calcolare il valore della sua cantina
arrivando a cifre astronomiche, il valore di un caveau
di banca. In pura teoria. Ma qualcuno potrebbe avere la
stessa idea. Dispone la chiusura con doppia chiave, duplica i responsabili della bottaia e istituisce un controllo giornaliero, alla sua presenza, dei livelli delle botti.
Meglio essere previdenti.
Pierino non vuole prendere parte agli affari della
borsa nera, è una vergogna approfittare così della fame
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e dell’indigenza. Un suo conoscente della Questura gli
dice che ormai è un fenomeno generalizzato che loro
invano hanno tentato di combattere. Meglio restarne
fuori ma in ogni caso, nell’eventualità, meglio farsi pagare in dollari. È quella la vera manna, la moneta che
apre tutte le porte!
Pierino si convince ancor di più a tenersi ben lontano dal quel traffico.
Se poi a Lecce qualcuno vuole scaldarsi con mezzo
bicchiere di buon vino sa che può andare alla Casa della Carità, dai gesuiti. Lì c’è sempre, grazie a Donna
Lisetta. Anzi, a suo marito Pierino.
Pierino viene a sapere da altri produttori della provincia di Taranto che si sono avuti casi di furti con
scasso notturni nelle cantine. Evidentemente i trafficanti della borsa nera che non riescono ad avere merce
se la procurano con il più antico dei metodi. Decide di
prendere provvedimenti. In poco tempo la cantina
Leone de Castris, sormontata dalla torre di avvistamento, prende le connotazioni di un fortino: due uomini disarmati ma con il fucile a portata di mano stanno all’entrata principale; altri due nel retro, in corrispondenza della bottaia.
All’interno i vini della vendemmia ‘43 sono quasi
pronti per essere posti nei serbatoi di affinamento e
nelle botti di rovere. Pierino ha inviato con grande anticipo i biglietti d’auguri per il Natale e l’Anno Nuovo,
sperando di ricevere risposte e ordinazioni, ma a parte
qualche cliente mediorientale non si fa vivo nessuno.
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Ripensa alle idee nate nelle visite a Brindisi, idee
che continuano a convincerlo poco. Nonostante ciò
elabora delle ipotesi numeriche, e una tabella dei tempi per verificare la praticabilità reale delle ipotesi.
Sulla base di queste determina che è necessaria una
profonda manutenzione del reparto d’imbottigliamento. Convoca Nicola e gli da le disposizioni conseguenti. Lui ribatte chiedendo se Pierino prevede di dover
imbottigliare, accennando un tono più di sufficienza
che di stupore nei confronti di quell’idea: di tutti i lavori possibili quello gli sembra quello più lontano da
una vera utilità! Ma Pierino non rivela le sue idee: ammesso che siano valide non è certo il momento per renderle pubbliche.
A Lecce i festeggiamenti per il nuovo anno sono in
generale austeri: per il futuro tutta la città ha molte
speranze, ma il cibo con cui far baldoria è davvero poco. Nel palazzo Leone si decide di buon grado di non
eccedere nei festeggiamenti, che sono strettamente familiari e senza eccessivo sfarzo. I due coniugi, profondamente consci dei difficili tempi che attendono l’attività della cantina, fanno un brindisi molto sentito, augurandosi la migliore realizzazione delle proprie aspirazioni ed il giusto riconoscimento delle fatiche e dei
pericoli corsi in tanti anni. E ciò vale anche per tutti i
componenti della famiglia.
Superata l’Epifania Lisetta comincia ad entrare in fibrillazione per alcune date fondamentali della famiglia
che cadono nel mese di gennaio: il diciottesimo com160
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pleanno di Salvatore il quattordici, e il quarantesimo di
Pierino, il venti. Guerra o no, i Leone de Castris devono festeggiare degnamente i loro uomini, così pensa
Lisetta, predisponendosi allo scontro con le resistenze
dei due alla vita mondana, e prevedendo le loro opposizioni circa i festeggiamenti in un momento simile.
Rimane quindi sorpresa quando Pierino le dice che
una festa per il compleanno di Salvatore e anche per il
suo non gli sembra affatto una cattiva idea.
<<Se non ti conoscessi bene penserei che stai diventando vanesio con l’età. Ma credo che tu abbia
qualche idea in testa visto che per te le feste, soprattutto quelle grandi, sono sempre state una noia mortale. E
allora, ti decidi? Che idea ti frulla?>>.
<<Lisetta, amore mio, hai ragione, a me delle feste… pure se è il mio compleanno, persino se si tratta
del quarantesimo. Invece per il diciottesimo di
Salvatore mi fa piacere. Ma sai com’è, a Lecce e a
Brindisi si ricomincia a vivere… anche in mezzo a tantissime difficoltà… la tendenza è quella, e allora visto
che al nord Italia non si vende…>>.
<<…Devi vendere qui vero?>> dice Lisetta terminando il pensiero <<Lo sapevo, lo sapevo che a te della festa… però che bello, ogni tanto, riuscire a darti
una mano nel tuo lavoro. Vedrai che metterò su una
bella festa, prima quella di Salvatore,una bella festa da
ballo, per toglierci di dosso questa melanconia, questa
nostalgia, non ne posso più. Tutte le storie che sento,
tutta la gente bisognosa… alla fine ti mettono una tristezza!>>.
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<<Una festa con molti americani magari, eh?>>.
<<Americani? Ma certo, gli americani… Già, non
ci si pensa mai subito agli americani>>.
<<Neanch’io ci avevo mai pensato fino a qualche
mese fa, ma poi…>>.
Lisetta è sorpresa: comprende al volo il pensiero di
Pierino e dice <<Eh già, gli americani, e bravo il mio
Pierino, bravo davvero… ma non stiamo a dirlo alla
mamma in anticipo… non capirebbe…>>.
<<No, no, meglio non dirglielo, per lei sono tutti
strani gli americani>> ridacchia Pierino.
<<Beh, tutti i torti forse non li ha, la cara mamma>>
dice Lisetta ridendo insieme a suo marito <<No, forse
stavolta no, ma forse gli americani possono fare la differenza…>>.
<<…tra una vite sterile e una prospera>> termina
Pierino ridendo. Lisetta ha compreso. Il suo obiettivo
commerciale sono gli americani. E chi se no? A chi
vendere tutto quel vino? Solo loro hanno in quei tempi in Italia lo spessore economico per essere un cliente
solvibile e anche la necessità di approvvigionare un
gran numero di soldati di tutto ciò che può favorire il
morale della truppa. Se va bene la birra, ragiona
Pierino, andrà forse benissimo il suo ottimo vino.
Occorre però verificare che non ci siano resistenze psicologiche o abitudini che lui non conosce. Per far questo ha bisogno di una prova, di una verifica. E quale
miglior verifica se non osservare direttamente il comportamento di possibili consumatori durante una festa?
Anche Salvatore si convince all’idea della festa, e
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più per il fatto che diciotto anni si fanno una sola volta nella vita e… pazienza se a lui capita proprio nel
1944. Ma da buon appartenente alla famiglia Leone de
Castris escogita un’idea che potrebbe rendere la sua festa qualcosa di diverso dal solito. Si potrebbero divertire un mondo con quella musica che si va sentendo
nelle osterie, quei balli scatenati fatti quasi di nascosto,
tra lo scandalo dei benpensanti della città. L’idea solletica la parte ribelle del suo carattere. Ma vuole essere sicuro del benestare dei genitori. Lisetta, presa in
contropiede e poco informata sulla brutta fama di quelle novità, appoggia i suoi desideri dicendo <<Senza
esagerare, però…>>.
Mentre Lisetta è impegnatissima con la sua Casa
della Carità, Pierino mette a punto il suo piano e decide di fare una prova, un esperimento.
Si reca a Brindisi dall’Avvocato Russo. Per poter
realizzare la sua idea gli serve aiuto. Gli spiega il progetto e gli chiede di dargli una mano.
Russo si mostra subito entusiasta, dice che sono proprio quelle le spinte di cui ha bisogno la Nazione per
uscire dal pantano della guerra civile, dai veleni della
corruzione e dell’epurazione, dal lassimo e dalla corruzione del fascismo, mascherato e colpevolmente occultato dalla retorica del MinCulPop, il famigerato Ministero della Cultura Popolare…, e avrebbe continuato
nella sua concione politica se Pierino non l’avesse fermato, per focalizzarne l’attenzione sugli aspetti pratici
della questione. Russo dice di non vedere problemi di
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sorta, basta rivolgersi alle persone giuste e, dove la gente può guadagnare qualche soldo onestamente con un
semplice servizio, i risultati si ottengono sempre.
Qualche giorno dopo si parlano al telefono e
l’Avvocato conferma che la cosa sta procedendo nel
migliore dei modi, aggiungendo che se continua così
avrebbe avuto bisogno non di uno ma di due magazzini per mettere da parte tutta quella merce. Pierino chiede di rallentare il ritmo: quella è solo una prova e dal
punto di vista dell’approvvigionamento sembra che
possano dirsi soddisfatti dei risultati. Adesso occorre
passare alla seconda fase. Pierino conferma a Russo la
sua presenza a Brindisi l’11 gennaio, mentre la merce
deve essere portata in cantina il 13, di mattina.
In quei giorni Lisetta sta organizzando la festa per il
compleanno di Salvatore. Chiede a Pierino quando sarebbe arrivato il vino. Lui risponde di non preoccuparsi: sarebbe arrivato la sera del quattordici. Lisetta coglie un barlume di mistero nella sua voce e incuriosita
gli chiede:
<<Non si potrebbe prima, per organizzarci meglio
sul dove mettere le botticelle?>>.
<<No, non sarà pronto prima di quella data>>.
Lisetta rimane a guardarlo sorpresa.
<<Ma come, Pierino, non sarà pronto! Ma se ne hai
una cantina piena!>> gli risponde col tono di chi non
ammette quelle stranezze misteriose in un momento di
intenso lavoro.
<<Lisetta, se ti dico che non sarà pronto prima è co164
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sì. Tu organizzati con un tavolo tutto per i vini, so io
che devo fare>> taglia corto Pierino, andando spedito
nel suo studio.
Lisetta lo guarda allontanarsi interdetta. Quello non
è il comportamento usuale di Pierino. Inoltre, da secoli, la famiglia in quelle grandi occasioni apre una o più
botticelle di Negroamaro conservate a quello scopo per
molti anni, decenni. Addirittura dalla nascita del festeggiato. Se Pierino si comporta così una ragione ci
deve pur essere. Ma Lisetta non ha molto tempo per
pensarci. Pazienza, si dice, faccia quel che vuole, avrà
il suo tavolo e poi vedremo.
Il 13 alle ore 11 Pierino è in cantina a Salice e chiede a Nicola di riunire tutto il personale nello spiazzo
delle uve. Pochi minuti dopo il suo braccio destro lo
informa che sono tutti riuniti. <<Gira voce che ci siano grandi novità>> dice Nicola sondando il terreno.
<<Eh sì, caro il mio Nicola>> dice Pierino, mentre
il Capo Cantinere pensa che non bastava che la cantina fosse piena di quel bel rosato rubicondo, come non
se n’era mai visto tanto a memoria dei registri; adesso
quel <<Caro Nicola>> gli conferma che c’è da aspettarsi chissà quale diavoleria. Si affida mentalmente alla Madonna della <<Cona>> e segue Pierino verso il
piazzale.
Di fronte a lui una trentina di persone sono riunite,
tutte imbaccuccate contro il freddo pungente.
Pierino inizia dando il buon giorno a tutti, dicendo
che non li farà stare al freddo per molto tempo, ma che
ha diverse cose da comunicare a tutti.
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<<Innanzi tutto>> continua <<desidero ringraziare
tutti voi per l’entusiasmo e la volontà profusa nel lavoro della vendemmia e del periodo successivo>>. Gli
operai applaudono sommessamente, lieti soprattutto
che non si tratti di una ramanzina collettiva, ma anzi
del modo tutto di Pierino di dire <<bravi>>.
<<Inutile dirvi che ci aspettano tempi molto difficili, lo sapete benissimo. In tempi come questi le doti
che avete espresso in questi mesi saranno necessarie
ancor di più, insieme alla perseveranza, la sola virtù
che possa traghettarci lontano dalle difficoltà, per fare
la differenza…>> tutti gli operai dicono in coro <<tra
la vite prospera e quella secca>>, il suo famoso intercalare quando si tratta di motivare i suoi operai. Pierino
sorride pensando che quella davanti a lui non è poi così cattiva come squadra.
Poi prosegue <<Innanzi tutto vi informo che sabato
prossimo a Lecce festeggeremo i diciotto anni di
Salvatore>>.
Si fa sentire un applauso più forte, mentre alcune
operaie commentano che sembra sia passato così poco
tempo da quando Salvatore saltellava tra le botti e le vasche in fermentazione con i pantalcini corti, e adesso
compie diciotto anni. Incredibile come passa il tempo!
Pierino attende che l’applauso si spenga e continua.
<<Inoltre ho deciso di fare un passo importante per
questa cantina, un passo che spero possa essere decisivo. Fare scelte di questa importanza in periodi di grande confusione porta in alto il livello di rischio cui si va
incontro. In ogni caso ho deciso>>.
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Detto questo fa cenno ad una delle guardie affinchè
apra il portone di accesso al cortile. Tutti si voltano a
guardare: entra un carro coperto da un telone. Nel suo
procedere si sente un lieve tintinnio che incuriosisce
tutti gli astanti. Ad un altro cenno la guardia alza il telone scoprendo l’interno carico di bottiglie di vetro
marroni, poste alla rinfusa. La guardia ne prende un
paio e le porta a Pierino. Tutti gli operai si avvicinano
al carro e ognuno ne prende in mano una, soppesandola, guardandola da tutte le parti, analizzandone anche il
collo. Pochi le conoscono.
<<Bene>> dice Pierino per raccogliere la loro attenzione <<queste bottiglie vengono dall’America.
Fino a pochi giorni fa contenevano birra e da oggi le riceveremo per trasformarle in bottiglie del nostro miglior rosato>>. Pierino, tra lo stupore dell’assemblea,
guarda Nicola, ma la sua faccia non esprime alcun sentimento. Solo una preghiera silenziosa lascia la sua
mente, sempre rivolta a quella Madonna miracolosa.
Pierino continua: <<Questo pomeriggio faremo un
esperimento. Riempiremo qualche bottiglia, ne servono una quarantina per la festa di Salvatore. Ho fatto
preparare da un calligrafo delle etichette commemorative, mi raccomando di trattarle con cura, sono particolari. Se l’esperimento dovesse andare bene ne faremo
altre centocinquanta di bottiglie, per la festa del mio
compleanno. Poi vedremo, chissà che quest’anno non
ci porti in sorte di imbottigliarne molte di più, per venderle>>.
Pierino attende che le sue parole siano assorbite dal167
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l’uditorio. Non è gente che con prontezza possa andare al di là delle parole che ha detto. Nessuno di loro
può immaginare cosa passi per la mente del loro Capo.
Neanche Nicola, che sta pensando che sia solo una
nuova maniera di presentarsi ad una festa, con delle
bottiglie di un vino anzichè con una botte della migliore annata. La possibilità di venderle gli pare una
chimera, se non forse a qualche amico, o per qualche
altra festa.
Pierino comprende che il messaggio è arrivato e, vedendo che le operaie cominciano a saltellare per il
freddo, conclude chiedendo <<Qualche domanda?>>.
Una di quelle nuove dell’imbottigliamento alza la
mano:
<<Vorrei sapere se possiamo anche noi procurare
delle bottiglie>>.
<<Se l’esperimento dovesse andar bene state sicuri
che coinvolgerò voi, i vostri parenti, amici, conoscenti, insomma tutti quelli che possono raccogliere bottiglie vuote per portarle in cantina. Però non subito e
non adesso. Prima vediamo se la cosa funziona. Altre
domande? Tutto chiaro?>>.
Gli operai parlottano sottovoce tra loro, ma non
esprimono nessuna obiezione.
<<E allora al lavoro>> conclude <<e cerchiamo di
fare delle bottiglie perfette con quello che abbiamo>>.
Tutti si disperdono tornando al lavoro, tranne
Nicola che gli va incontro.
<<Allora metto le operaie ad imbottigliare quel rosato che abbiamo preparato l’altro ieri? Ma proprio
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dobbiamo adoperare queste bottiglie di birra?>> dice
Nicola storpiando l’ultima parola con disgusto.
<<Certo, subito. Prima sciacquatele per bene, togliete le etichette con l’acqua calda e asciugatele.
Dopo di che le riempite, e le chiudete col sughero e la
ceralacca. Le metterete nelle cassette di legno, in modo che si possano impilare senza danneggiarle. Tutto
chiaro?>>.
Nicola sta un attimo sovrappensiero, poi sbotta
<<Oh sì, sì, tutto chiaro Don Pierino. Che la Madonna
ce la mandi buona. Tutte queste novità…>>.
<<Ma certo, se lavoriamo bene…>>.
<<E noi bene lavoriamo, ci mancherebbe. Allora
vado, con permesso, Don Pierino>>.
<<Sì vai, e buon lavoro!>> dice Pierino, ma quello
è ormai assorto nel programma delle cose da fare.
Pierino torna nel suo ufficio, chiudendo dietro di sé
la porta. La prima fase è fatta, e ormai non può più tornare indietro. È solo una prova, per carità, ma è una
prova che sbilancia, che fa notizia; ma la notizia è proprio quello che vuole. Di rischi economici non ce ne
sono per adesso, ma le idee parlano, si fanno strada, e
se fosse costretto a non farne più nulla quella faccenda
sarebbe stata ascritta ad uno dei suoi insuccessi. E questo gli brucerebbe. Un motivo in più per rianalizzare il
tutto, costi, benefici, tempi e cose da fare.
Ragionando arriva alla conclusione che, per assurdo, in quel progetto così follemente innovativo la cosa
che lo preoccupa di meno è proprio ciò che ha maggior
valore, il vino. Perchè il rosato di quell’anno è stupen169
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do. E se il piano non dovesse riuscire, la colpa non sarà
certo di quello splendido liquido dai colori così brillanti e dai profumi tanto intensi. No, se la cosa dovesse andar male la colpa sarebbe solo degli uomini e dei
tempi, mai della natura delle sue vigne, soprattutto della più amata, la tenuta Cinque Rose di Negroamaro.
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CAPITOLO 10
Cinque Rose di Negroamaro
I
l palazzo Leone di Lecce, appena fuori dal centro
storico, si allunga su Viale Gallipoli, occupandone un
lato per un lungo tratto col suo grande giardino mediterraneo, puntellato di palme e washingtonie. Costruito
all’inizio dell’ottocento, è stato voluto privo degli orpelli del barocco leccese, così gravido di involute elaborazioni rese possibili dalla pietra tenera e bianca. Si
erge signorilmente semplice e gaio nel suo biancore,
all’estrema sinistra del giardino che, con la sua lussureggiante verzura, ne rinfresca anche d’estate le sembianze.
La sera del ballo in onore del diciottesimo compleanno di Salvatore Leone de Castris gli invitati vengono ricevuti all’entrata del giardino e, scesi dai loro
mezzi, percorrono l’intero viale centrale, osservati da
gruppi di curiosi raggruppati tra i palmizi del Viale.
Molti degli invitati sono giovani leccesi ma anche
molti giovani ufficiali di stanza a Lecce, a Brindisi, a
Taranto, italiani, inglesi e americani, che hanno preso
le loro jeep d’ordinanza attirati dalle grandi aspettative
che di quella festa si erano generate in tutta la regione.
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Gli invitati devono passare all’interno del grande arco dell’ingresso principale per giungere nel piccolo
cortile lastricato di bianchissima pietra leccese, illuminato da otto fari che dal tetto proiettano la luce in basso, formando cerchi di luce vivissima sul selciato e illuminando con enormi tratti di ellissi i muri del palazzo interno.
Sulla destra del cortile, in piedi sul primo gradino
dell’ingresso principale, uno dei valletti in livrea con i
colori della Casa indica l’ingresso ai nuovi arrivati, invitandoli a salire le scale di porfido rosso che conducono al vestibolo del piano nobile, con l’antisala e il
salone delle feste.
La scala è ornata di felci che scendono da nicchie
delle pareti accuratamente scavate nella pietra morbida
e bianca, e da statue di Diana nelle varie occasioni di
una caccia boschiva, fino a giungere all’antisalone, dove una domestica si occupa di raccogliere i soprabiti e
le mantelle.
Il grande salone è illuminato a giorno, dando l’impressione di un biancore celeste giallo, quello di una
giornata di prima estate, quando il sole pur scaldando
non arreca alcun fastidio. I pesanti tendaggi giallo oro
riflettono insieme alla luce lo splendore degli stucchi e
degli affreschi del soffitto a volta, occupato da ogni
sorta di composizione floreale dai colori accesi. Una
serie apparentemente interminabile di specchi Luigi
XVI riflette lo spazio innumerevoli volte ridondando le
presenze giovanili, in conversazione, col sottofondo di
violini che riproducono famosi valzer viennesi.
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Lisetta, Pierino e Salvatore sono presso l’ingresso
ad accogliere i nuovi arrivati accanto alla grande consolle Secondo Impero che sostiene il peso dei doni al
neo diciottenne, prossimo all’esame di Stato, sempre
più vicino ad entrare nel consesso dei membri della vita attiva.
Salvatore è costretto a ripetere a decine di persone
l’andamento dei suoi studi e la fatica della preparazione alla maturità classica. Un paio di volte ha dovuto
commentare brevemente dei passi della Divina
Commedia con qualche studioso bontempone che fa
sfoggio della sua erudizione. Nella maggior parte dei
casi è oggetto di presentazioni a giovani donzelle di
buona famiglia che sfoggiano toilette che denunciano
le lotte dell’ultimo minuto tra il vecchio stile, irto di
trine e chiffon, e quello moderno, riflesso nelle copertine patinate delle prime riviste <<liberate>> che sono
arrivate in città insieme con i conquistatori.
Le feste dei giovani, si sa, iniziano presto e non durano a lungo, poichè si tratta di ragazzi ancora alle prese con impegni scolastici mattutini. Non sono ancora le
nove e già il salone è stracolmo di gente di tutte le età.
Le ragazze, per lo più figlie degli amici di Pierino e
Lisetta, sono raggruppate nella parte destra del salone
intente a commentare le reciproche toilette. Sulla sinistra, gli amici di Salvatore si sono radunati accanto ai
gruppi degli ufficiali americani che si forniscono l’un
l’altro notizie sull’andamento solito di quelle feste,
preoccupati e quasi intimoriti dal suono melodioso e
antico dei violini viennesi.
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Lisetta dice due parole all’orecchio di Salvatore che
si dirige verso il direttore dell’orchestra mentre lei
controlla con un rapido sguardo la toilette guardandosi allo specchio un ultimo istante. La musica si interrompe e Salvatore percorre l’intero salone verso
Lisetta, che adesso lo aspetta con un sorriso raggiante
nel volto addolcito dagli occhi umidi, scintillanti sotto
le candele. Sotto gli occhi di tutti si avviano verso il
centro del salone, mentre le voci si smorzano fino al silenzio. Il Direttore alza la bacchetta e le note del Bel
Danubio Blu increspano l’aria del salone. Mentre
Salvatore e Lisetta danzano, Pierino si lascia scappare
un applauso subito imitato da tutti i presenti. Il fragore supera d’intensità la musica mentre Lisetta si ferma
un istante ad asciugarsi le palpebre inferiori con un
fazzoletto di pizzo.
Le signore sue amiche non possono non commuoversi di fronte a quel duetto, così composto ma insieme cosi denso di sentimenti.
Subito Pierino si avvicina alla sorella che gli offre il
braccio e in pochi istanti il salone comincia a riempirsi di coppie danzanti.
Gli ufficiali americani osservano le coppie volteggiare, componendo con maggior o minor grazia passi
d’una danza a loro completamente ignota e uno di essi, vedendo gli sguardi delle ragazze dall’altro lato del
salone, allarga sorridendo le braccia a voler dire che la
buona volontà non mancherebbe ma che nessuno di loro ha la benchè minima conoscenza di questo ballo.
Il Maggiore Pietropaolo, giunto da Brindisi insieme
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ad alcuni commilitoni, dice a Pierino che è indispensabile mantenere alta la bandiera a stelle e strisce, altrimenti tutti penseranno che gli Americani siano degli
zòtici impenitenti. Si avvicina ad una delle ragazze che
indossa un bell’abito azzurro e la invita a ballare.
Pierino osserva che come ballerino è un po’ goffo, ma
ai passi supplisce col fascino e la noncuranza del fisico prestante.
Al quarto giro di valzer l’atmosfera si è riscaldata
per i balli, le luci e le candele, ed è ora di accogliere gli
ospiti con qualcosa di fresco. Pierino sa che tocca a lui.
Si mette dal lato del palchetto della musica e al termine di un brano chiede attenzione con il trillo del
triangolo del diapason suonato dal direttore. D’incanto
tutte le conversazioni sono interrotte e i convitati si
volgono a lui.
<<Di nuovo buonasera a tutti e spero che vi stiate
divertendo>> dice Pierino a voce alta, con l’intenzione
di farsi sentire anche dai più lontani. <<Mi fa un immenso piacere che siate qui con noi a festeggiare il
compleanno di Salvatore. Mio figlio è un ragazzo fortunato. Compie diciotto anni, e i prossimi anni fino alla maggiore età li affronterà in un mondo in grande trasformazione dove evidenti sono le difficoltà, ma ancora maggiori sono le speranze di una vita prospera.
Tanti dei miei amici e coetanei qui presenti vorrebbero
essere al suo posto. Tempi nuovi portano novità e noi
stasera ne avremo un paio. La prima ve la presento io
stesso. Desideravo informarvi che, tra i rinfreschi presenti nella sala attigua, si trovano alcune bottiglie di un
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nuovo vino rosato che la mia cantina ha il piacere di
offrirvi, rinfrescato con del ghiaccio. Spero che gradirete questo pensiero. Grazie e buon divertimento>>.
Pierino sta avviandosi per raggiungere Lisetta quando dal fondo della sala uno dei suoi amici di più antica data agita la mano e dice qualcosa ma lui non è in
grado di sentire, nel chiacchiericcio che nel frattempo
è ripreso.
<<Un attimo, un attimo, vi prego. Vedo laggiù il
Conte Scaccia che ha qualcosa da chiedere>>.
<<E la seconda novità?>>.
<<Vedrete, vedrete voi stessi! È una sorpresa! Non
voglio anticiparvi nulla. Grazie ancora, e vi prego di
accomodarvi ai rinfreschi>>.
Tutti si avviano con calma verso la sala Blu, attigua
al salone da ballo, dove una serie di tavoli sono addobbati con grandi composizioni di fiori. Numerosi domestici in guanti bianchi e livrea servono cocktails internazionali e bevande analcoliche. Su un tavolo più grande degli altri numerose bottiglie di birra americana
fanno bella mostra all’interno di enormi frappeuse colme di ghiaccio. L’etichetta, in carta a mano bianca, è
scritta con inchiostro rosso bordeaux, con uno stile
chiaro ed elegante. Riporta in alto la dicitura
<<Azienda Agricola Leone de Castris>> e più in basso, in corsivo: <<Alla Prima delle mie Cinque Rose>>.
Più in basso la data <<Lecce, gennaio 1944>>.
Tutti gli americani si avviano decisi verso quelle
che individuano nella forma come le loro bottiglie di
birra, grati di tanta attenzione. Ma lo stupore è grande
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quando il domestico versa nei bicchieri a calice di cristallo un liquido roseo e brillante, dagli scintillii violacei.
Un grande amico di Pierino, il Marchese Ciura, dopo averlo assaggiato si avvicina per commentare la trovata del rosato:
<<Splendido vino, bravo Pierino, non finisci mai di
stupirci con questa tua cantina>> gli dice alzando il calice.
<<Sono contento che ti piaccia, è frutto di notevoli
fatiche>>.
<<Ma come ti è venuto in mente di metterlo in bottiglia?>>.
<<Beh, sai, volevo una novità per questa festa, un
po’ all’uso francese delle bottiglie commemorative da
potere conservare negli anni, un ricordo. E poi così è
possibile abbassarne la temperatura, almeno in parte.
Fresco è meglio, vero?>>.
<<Eccellente, davvero eccellente>>.
In quel momento si avvicina Pietropaolo, il
Maggiore.
<<Don Pierino lei è un uomo dalle mille risorse>>
gli dice, con il suo accento strascicato
<<I miei detrattori direbbero dalle mille trovate
strane>> risponde Pierino
<<Questa delle bottiglie è un’idea fantastica. Posso
portarne qualcuna a Brindisi?>>.
<<Ma certamente, le faccio preparare subito all’ingresso, così potrà indicare al Maestro di Casa la sua
jeep>>.
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<<Grazie, gliene sono grato. Ma mi dica di questo
vino>>.
<<Con piacere. È un rosato di Malvasia Nera e
Negroamaro, coltivato nella mia tenuta delle Cinque
Rose, a Salice. È un vino che facciamo da qualche anno in piccole quantità perchè piace molto a mia moglie
Lisetta e alle sue amiche. Finora non l’avevamo mai
imbottigliato>>.
<<Siamo rimasti tutti di sasso nel vedere uscire dalle bottiglie della Richmond Brewing Co. il suo vino>>.
<<Spero non le dispiaccia. Erano bottiglie destinate
alla distruzione>> dice Pierino, come a scusarsi.
<<Dispiacermi? È un’idea… Fantastic! Beautifull!
Sa cosa mi ricorda?>> dice Pietropaolo sorridendo
<<Il dottor Fleming, quello che ha scoperto la pennicillina. Ho studiato biologia a Yale e quella della scoperta è una delle storie più interessanti che ho sentito.
La conosce?>>.
<<No, per la verità no>>.
<<È semplice. Fleming stava studiando le sostanze
naturali antibatteriche, e quindi doveva preparare moltissime colture diverse stando attento a non inquinarle,
per poi poter fare gli esperimenti. Una sera doveva
chiudere il laboratorio per tre giorni perchè partiva per
un weekend lungo. Dimenticò di eliminare cinque colture, lasciandole vicino alla finestra. Quattro giorni dopo rientrò nel suo laboratorio. Le trovò inquinate e
quindi inservibili, e ne restò seccato per la perdita di
tempo e per la sbadataggine. Prima di buttarle via però
notò che su una di esse, solo una delle cinque, c’era una
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piccola formazione di muffa e intorno i batteri erano
scomparsi. Per noi biologi la muffa è una gran seccatura, si forma facilmente e inquina tutto. Insomma, come
dite voi, una schifezza. Avrebbe dovuto gettare via subito tutto, invece s’incuriosì e fece degli esperimenti.
Da cui nacque la scoperta della penicillina. Ecco, è una
storia che ci ricorda come le cose apparentemente inutili che stanno intorno a noi a volte, se vogliamo, hanno
una grande importanza, non crede? Fleming era convinto che quella cosa fosse successa chissà quante volte a lui stesso e ad altri biologi, senza che nessuno si
fosse mai fermato a riflettere se quella schifezza non
potesse invece essere una grande medicina. Incredibile
vero? Proprio come le sue bottiglie vuote>>.
<<Sì>> dice Pierino <<sono la curiosità e la buona
volontà che a volte fanno la differenza>>.
<<Certo, proprio così>>.
<<Noi abbiamo il problema che le bottiglie classiche da vino sono introvabili. Tutte le vetrerie sono nel
nord Italia e, anche ammesso che con la guerra riescano a produrre vetri, non potrebbero mai inviarceli.
Quindi, se vogliamo imbottigliare il vino, dobbiamo
usare tutti i vetri che possiamo trovare. E voi ne usate
tanti!!!>>.
<<Oh sì, tanti davvero>> Pietropaolo ride al riferimento alla capacità tutta americana di consumare discrete quantità di birra. <<E sono anche convinto che
se i nostri soldati o ufficiali vedessero il suo rosato in
quelle bottiglie lo apprezzerebbero ancor di più, proprio perchè affezionati al tipo di bottiglia>>.
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<<Lei crede? Io temevo che potessero offendersi>>.
<<E perchè mai? Noi americani, per vostra fortuna,
siamo molto diversi dagli inglesi>> dice Pietropaolo
vedendo avvicinarsi il Tenente Howard, che riesce a
cogliere quella frecciatina ai suoi compatrioti.
Ma il Tenente, che ha riempito il suo terzo bicchiere di rosato, sente la sua indole ammorbidirsi e replica
con generosità <<a ciascuno il suo allora>>, commento che può essere inteso anche con riferimento ad un
altro bicchiere.
<<Stamane ho ricevuto la notizia che saremo visitati dal Generale Paoletti, certamente ne ha sentito parlare>> dice Pietropaolo a Pierino, che non crede alle sue
orecchie.
<<Diamine, sì che l’abbiamo sentito parlare, per ore
e ore alla radio all’inizio dell’anno scorso. È in Sicilia,
vero?>>.
<<Sì. Pensavo di offrirgli qualche bottiglia del suo
vino>>.
<<Ma con piacere, con vero piacere. Anzi gli dica
che sono a sua disposizione, se desidera venire a trovarci>>.
<<Lo farò, ma non ho idea dei suoi impegni>>.
<<Sappia che noi il 20 festeggeremo il mio quarantesimo compleanno. Siete invitati naturalmente, e sarebbe un grande onore se partecipasse. Davvero>>.
<<Lei è molto gentile. Riferirò senz’altro>>.
Pierino riesce a stento a sentire le ultime parole del
Maggiore, quando nel Salone scoppia una baraonda.
Un gran chiasso seguito dalle urla tipiche dei cow180
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boy o degli indiani, Pierino non capisce. Resta interdetto cercando di vedere tra la gente quel che succede,
ma interviene il maggiore a tranquillizzarlo <<Mi scusi Don Pierino, ma credo che gli animi dei miei compatrioti siano un po’ riscaldati. Hanno messo su il
Boogie Woogie>>.
<<Ah, sì, prego prego>> dice Pierino senza comprendere appieno, mentre il Maggiore si allontana facendosi largo tra gli ospiti più maturi che in massa
stanno lasciando il salone grande per rifugiarsi in quello Blu.
<<Ma che succede?>> chiede ad uno dei suoi amici che viene da lì.
<<A me sembrano impazziti. Hanno messo su dei
dischi e si muovono come dei diavoli. Ballano tra uomini. Cose da pazzi!>>.
Pierino si fa strada per raggiungere il salone, stretto
tra gli invitati che gli esprimono la loro gratitudine per
la bellissima festa. Finalmente Pierino raggiunge il salone restando di stucco.
Da un lato il giradischi sta urlando una musica fortemente ritmata a base di trombe, mentre al centro gli
ufficiali americani stanno mostrando alcune figure di
quel ballo scatenato, invitando le ragazze a provare.
Una specie di scuola di ballo improvvisata, in cui tutti
i partecipanti hanno i freni inibitori allentati dall’alcool. Persino gli orchestrali hanno lasciato i loro posti
e si sono tutti raggruppati in un angolo, tenendo stretti
al petto i loro strumenti. Guardano con stupore la
straordinaria scena di un ordigno elettrico che emana
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suoni sincopati a volume elevato, mentre i ragazzi sudano copiosamente in quel ballo atletico e vigoroso.
Gli amici dei padroni di casa si sono tutti rifugiati nella Sala Blu, lasciando libero sfogo alla gioventù. La
porta a doppia anta del salone è affollata di volti di genitori stupefatti: hanno sentito parlare di quella musica
che si suona solo nelle osterie prese d’assalto dagli invasori, ma non avevano mai avuto occasione né di sentirla né di vederla ballare. Uno di loro, che è stato in
Etiopia e ha fatto qualche safari, dice che sembra il
ballo degli indigeni della valle del Congo.
Gli americani cominciano ballando tra loro e poi allargano il gruppo per comprendere tutti gli altri ragazzi. Nel giro di un’ora neanche le ragazze più rotonde e
impacciate restano sedute nei sofà lungo le pareti, rese
inconsapevoli dell’infrangersi del pudore dal ritmo di
quella musica liberatrice.
Qualche madre più saggia accenna a Lisetta che forse sarebbe ora di dare una calmata alla serata. Lei è interdetta: la festa è un successo insperato e non le pare
che i ragazzi stiano trascendendo. Non sente pericolo
in quella musica e nel suo ballo, solo l’esplosione di
un’energia vitale che certo a quei ragazzi, dopo anni di
costrizioni, non può far che bene.
Quando però si accorge che i contatti fisici sono
troppo evidenti, decide che i cambiamenti sono i benvenuti, ma le rivoluzioni no. Si avvicina al Maggiore
Pietropaolo che intuisce subito i suoi intendimenti. Lui
si avvicina al giradischi e abbassa il volume lentamente, mentre tutti i ragazzi si voltano verso di lui.
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<<Ragazzi, calma. Prendiamoci una pausa>> dice a
voce alta.
Solo i più scalmanati si lamentano brevemente. Ma
in fin dei conti tutti sono contenti di rilassarsi, mentre
l’orchestra coglie l’occasione e riprende prontamente
posizione ricominciando a suonare.
Chi non riesce proprio a tenere fermi i piedi organizza una scuola di ballo al contrario: sono adesso i
giovani ufficiali americani a dover imparare in fretta i
passi del valzer , tanto cari alla buona società leccese.
Nella Sala Blu sono comparsi come d’incanto un
numero stupefacente di vassoi ricolmi di ogni specialità leccese: ceca mariti, pittole, pitta di patate, scapece, due enormi calderoni di rame con fave e cicoria e
gl’immancabili ciceri e tria. E in onore degli ospiti anche quattro enormi tacchini ripieni e due roastbeef con
patate al forno.
A mezzanotte circa quasi tutti gli ospiti hanno lasciato il palazzo e i domestici stanno spegnendo le luci.
Salvatore è entusiasta della festa e sorridendo ringrazia di tutto cuore i suoi genitori. Le sue sorelle, che
hanno visto tutto da uno spiraglio della porta, cercano
di replicare i passi di danza andando a letto.
Lisetta e Pierino aspettano che il silenzio e l’oscurità scendano nel giardino e nel palazzo e, sincerandosi con la servitù della sistemazione generale, si ritirano
in camera da letto. L’eccitazione della serata sta facendo spazio rapidamente al sonno, la stanchezza è ancora più intensa visto il livello della tensione precedente.
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Hanno appena il tempo di riepilogare brevemente alcune scene principali della festa appena finita, sicuri
che tutto è sembrato andare per il meglio, che sono
vinti dal sonno e dalla fatica.
L’indomani a colazione tutti i ragazzi sono ancora
stravolti.
Cominciano ad arrivare le telefonate, prima degli
amici più intimi, poi man mano di tutti gli altri per ringraziare della bellissima serata in cui per una volta tutti, ragazzi ed adulti, si sono divertiti un mondo. E complimenti anche al vino in bottiglia di Pierino.
C’è anche la telefonata del Maggiore Pietropaolo da
Brindisi, che ringrazia a nome di tutti i suoi commilitoni, e conferma a Pierino che omaggerà le sue bottiglie ad un paio di alti personaggi quel giorno stesso.
Lui mentalmente incrocia le dita.
Nella settimana successiva a Lecce non si fa altro
che parlare della festa di Salvatore e degli inviti che sono già partiti dal Palazzo Leone per la festa del 20. Una
festa dopo l’altra, a tutti sembra che la famiglia Leone
de Castris abbia deciso di iniziare quell’anno così burrascoso al centro dell’attenzione pubblica.
Lisetta decide di lasciare che il lunedì passi nel riposo, poi si lancia nell’organizzazione del secondo
evento familiare, con alcune importanti varianti.
Innanzitutto nel cibo. Se quella di Salvatore è stata soprattutto una festa per i giovani, questa dev’essere importante, anche se non grandiosa: non bisogna esagerare in tempi così difficili.
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Il martedì si reca alla Casa di Carità, ma lì vige l’ordine e l’efficenza più pronta: le sue amiche l’hanno sostituita egregiamente e la macchina assistenziale è ormai rodata, quindi può dedicarsi interamente alla festa
del suo Pierino.
Dal giorno successivo inizia la programmazione
della cucina. Lisetta è intenzionata a ridare fiato alle
antiche tradizioni leccesi in fatto di gastronomia invernale o natalizia. Prepara con lo chef il menu della festa
che comprende fagioli con le rape, uno dei piatti preferiti da Pierino, la galantina di pollo, il sartù di riso, il
royale di ricotta in brodo, capretto e cardi al forno, il
capitone e per finire i purceddhruzzi e il pesce di pasta
di mandorla.
Nel frattempo le bottiglie di Cinque Rose campeggiano sulla tavola di una riunione importante: il
Generale Paoletti è giunto a Brindisi e cena insieme
con l’alto comando alleato, a fianco del Maggiore
Pietropaolo. Le due bottiglie, chiuse ancora con la ceralacca, sono al centro involontario della discussione:
come provvedere alla gestione della Regione in attesa
che il Governo Badoglio prenda in mano la situazione;
come gestire la fase di transizione, in cui la spinta all’epurazione è così forte e coinvolge l’intera amministrazione dello Stato; come provvedere infine alle necessità della guerra utilizzando al meglio le risorse disponibili in loco. Paoletti, proveniente da Napoli, si
rallegra nel trovare una situazione molto più tranquilla
in quella regione così vicina eppure così distaccata dalle follie di una Napoli in cui il caos sembra ad ogni
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istante predominare. Si fa l’idea che quello sia il cuore
agricolo del meridione dell’Italia continentale: è quindi necessario rendersi conto di persona delle possibilità
offerte. Pietropaolo insiste per fargli incontrare la
realtà di Lecce, facendolo partecipare alla festa di
Pierino. Lui accetta di buon grado sperando che sia
realmente utile: troppe volte ha partecipato a noiose ed
evanescenti riunioni mondane, tese in fin dei conti alla
restaurazione dell’ordine medioevale.
Per la celebrazione del quarantesimo di Pierino più
di trecentocinquanta persone sono riunite per augurare
a lui, a Lisetta e a tutta la loro famiglia ogni bene per
il futuro, e lunga e prospera vita. Il giardino si riempie
nuovamente di ogni tipo di veicolo, e la fila dei mezzi
si allunga anche su Viale Gallipoli. La casa è di nuovo
illuminata e ancora più splendente della settimana precedente, tanto che persino il giardino è pieno di luce.
Quando la festa è già iniziata, mentre numerose
coppie ballano seguendo la musica della stessa orchestra, Paoletti arriva insieme al suo Stato Maggiore, preceduto dalla sua fama di anchor man.
I suoi genitori emigrarono negli States alla fine del
secolo precedente. Ha studiato legge ed ha avuto la
possibilità di fare un lungo soggiorno a Roma mentre
il Duce faceva crescere il suo potere politico. Intriso di
sana democrazia costituzionale americana, fu facile
per lui comprendere i caratteri totalizzanti del fascismo, e aveva sempre deprecato in special modo la propaganda di partito e i suoi metodi spicci. Tornato negli
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Stati Uniti aveva cominciato la sua carriera di avvocato all’interno dell’Amministrazione di New York, appoggiato politicamente dagli ambienti italoamericani.
Allo scoppio del conflitto era stato destinato ad incarichi riguardanti la guerra; servivano infatti brillanti italo americani in previsione dello sbarco in Europa. Con
il grado di Generale sbarcò insieme agli alleati a Gela
e poi a Palermo.
Dopo un periodo a Napoli era ora in Puglia e stava
visitando i principali centri amministrativi, in primo
luogo Bari, Brindisi e adesso Lecce, dove approfittava
della festa di Pierino per conoscere tutti i principali attori della scena politica.
Nel salone del Palazzo Leone i giovani ballano lenti valzer viennesi, ma hanno poca speranza di ricostruire l’atmosfera di un mondo ormai cancellato dalla
storia; la differenza è resa ancora più evidente perchè
tra i cavalieri domina una maggioranza di divise color
cachi al posto dei più congeniali frac neri.
L’arrivo del Generale solleva un brusìo di curiosità
tra gli invitati.
Pierino, quale padrone di casa, si mette subito a disposizione dell’illustre ospite, dicendosi desideroso
che possa trovarsi a proprio agio.
<<Lei ha una casa meravigliosa>> gli dice Paoletti,
<<e una magnifica famiglia. In una parola è un uomo
fortunato. Per questo non si interessa di politica?>>.
<<Cosa glielo fa credere?>> gli domanda Pierino,
sorpreso di aver dato quell’impressione.
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<<Da alcuni particolari non secondari. Ho partecipato a troppi ricevimenti in Sicilia per non conoscere
la delicata arte del disporre gli invitati a proprio vantaggio. E qui per la verità non ce n’è traccia. In secondo luogo ci sono troppi giovani che si divertono davvero: incompatibile con un vero ricevimento politico.
In terzo luogo, ma è l’elemento più importante, ho già
conosciuto a Brindisi uno dei frutti del suo lavoro. E
chi riesce a produrre vini e a imbottigliarli di questi
tempi o è un pazzo oppure è un grande imprenditore, e
in ogni caso non ha tempo per la politica>>.
Pierino ascolta con curiosità quelle parole, sorprendendosi come con così pochi particolari abbia avuto
quel quadro di lui e della sua famiglia, un quadro non
tanto lontano dalla realtà.
<<Confesso che per intraprendere un progetto di
quel genere ci è voluto una buona dose di quello che
voi militari chiamate <<fegato>>>> risponde Pierino
<<Nel mio caso l’effetto principale è di dormire poche
ore e svegliarmi verso le quattro di notte a rimuginare
scelte e opportunità. Ma la prego, non mi consideri un
grande imprenditore, e neppure un pazzo!>>.
Il Generale sorride: <<Non si preoccupi, si vede
lontano un miglio che non è un pazzo. Mi dica invece
dei suoi vini. Ho assaggiato il rosato giudicandolo, per
quanto posso, notevolissimo>>.
Pierino gli delinea brevemente la storia e il quadro
presente della sua azienda agricola e della cantina, accennando alla scelta produttiva di quella vendemmia e
al progetto dell’imbottigliamento.
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<<Mi sono molto stupito di vedere delle bottiglie>>
dice il Generale <<in Sicilia, una terra di grande produzione di vino, a parte il Marsala non ho visto vini
imbottigliati, e me ne sono stupito assai>>.
<<Il fatto è che la maggior parte di ciò che vinifichiamo è tradizionalmente esportato all’estero e in
Italia, verso altri produttori. I nostri vini del sud vanno
a fortificare le produzioni del nord. Persino il Marsala
viene venduto per lo più in botti! È raro che venga imbottigliato>> spiega Pierino.
<<E come mai allora lei…>>.
<<Per due motivi. Innanzi tutto devo fare di necessità virtù: con la guerra i miei soliti clienti sono tutti in
difficoltà. La seconda è che sarebbe una bellissima novità poter finalmente compiere il gran passo di pubblicizzarsi con il proprio nome, in modo moderno. È una
cosa che già mio padre aveva in mente di fare. Non è
affatto facile, però>>.
<<Mi rendo conto benissimo. Non le nascondo, con
la mia esperienza di questi mesi, che lei è una mosca
bianca, un rarissimo caso di vera imprenditoria, simile
a quella normale nella mia patria>>.
<<Posso farle una domanda? Lei ha genitori italiani, eppure chiama l’America la sua patria, con tono deciso. Posso comprenderlo, ma allora mi chiedo, quali
sono i vostri sentimenti per l’Italia?>> chiede Pierino.
<<La risposta è abbastanza complessa. Da un lato
siamo orgogliosi di avere radici italiane. Teniamo a
conservare la nostra lingua e tutte le abitudini, anche
alimentari, delle terre da cui provengono i nostri geni189
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tori, perchè sentiamo che sono radici buone, come cose di famiglia. È un po’ diverso dalla nostalgia, piuttosto un’eredità culturale da tenere in vita. Sappiamo che
il contenuto di questa tradizione si è diversificato da
quello che realmente è l’Italia oggi, ma ci sta bene così. Così è per tutti coloro che sono emigrati in America.
Noi siamo tutti americani, poi ognuno di noi ha le sue
radici: scozzesi, inglesi, irlandesi, italiane, spagnole,
messicane, cinesi perfino. Altra cosa è l’Italia come
nazione: per lo più tendiamo a distinguere l’aspetto
geografico con la nostalgia per il paese da cui proveniamo. E poi c’è il dolore per la povertà diffusa e
profonda, per le sopraffazioni, per il fatto che ai nostri
genitori è stata estorta anche la speranza di un futuro
migliore. Per la politica insomma. Per quest’aspetto
abbiamo un odio profondo e molto poco diplomatico>>.
<<Posso immaginarlo>> risponde Pierino <<ma allora sarà difficile per lei essere equilibrato nel suo attuale ruolo>>.
<<Non tanto. Grazie a Dio ho una buona esperienza precedente. E poi mi guida il senso dei bisogni della gente. Io sono un convinto democratico, anzi un democratico pratico, senza paroloni, ma con il senso delle cose da fare>>.
<<Però ricordo le sue serate alla radio… quante parole!>> dice Pierino con una sottilissima vena di ironia.
<<Era necessario, dovevamo farci conoscere. Se
non avessi parlato tanto alla radio oggi lei sarebbe mol190
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to più diffidente nei miei e nostri confronti. Ma torniamo al suo vino. Ha mai pensato di esportarlo negli
Usa?>>.
Pierino quasi si affoga nel bere un sorso di Cinque
Rose.
<<Nei miei sogni più sfrenati sì. Ma occorrerebbe
un’organizzazione molto più pronta della mia>> gli risponde.
<<Posso immaginare. Ma a quella c’è rimedio, e lei
è un buon organizzatore. Invece quello che conta sono
i contatti, conoscere il mercato e le persone giuste. Ma
adesso devo riprendere il mio ruolo. Le dispiace se dico due parole in pubblico?>> chiede a Pierino, il padrone di casa.
<<Ma certamente, ne saremo onorati>> Pierino si
reca dal direttore dell’orchestra e lo prega di fare una
pausa. Poi si mette al centro del salone e fa risuonare il
bicchiere con l’orologio per ottenere silenzio e attenzione.
<<Grazie, grazie. Signore e signori, mi scuso di interrompere la serata, ma per un motivo importante.
Come sapete abbiamo l’onore di avere nostro ospite il
famoso Generale Paoletti. È la prima volta che viene a
Lecce, e desidera rivolgervi alcune parole. Credo che
l’ascolteremo tutti con grande attenzione>>.
Gli ospiti applaudono, in attesa.
Lisetta lascia la conversazione con alcune amiche e
raggiunge Pierino, mettendogli una mano sul braccio.
Paoletti sale sulla pedana dell’orchestra, di fronte
alla sala gremita di gente.
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<<Ringrazio l’Avvocato Leone de Castris a cui noi
tutti facciamo i migliori auguri di cento di questi anni:
se ciò dovesse avverarsi, come ritengo assai probabile
dall’energia positiva che emana, ne saremmo tutti invidiosi>>.
In sala tutti sorridono, mentre la maggior parte dei
presenti applaude Pierino.
<<Come forse sapete sto facendo un giro per rendermi conto della situazione. Vi porto i saluti del governo militare, che ha molta stima del popolo di questa terra. Credo mio dovere dirvi che siete stati molto
fortunati fino ad ora: la guerra vi ha colpito marginalmente, o comunque molto meno di altri. E questo vi
mette nelle migliori condizioni per poter iniziare subito la ricostruzione. Non dovete temere, noi ce ne andremo appena finito il lavoro con i tedeschi. Tocca a
voi e solo a voi approfittare di questa relativa migliore posizione per essere più attivi ed intraprendenti.
Come ha fatto il nostro ospite, Don Pierino. Ha prodotto un meraviglioso rosato, impegnando la propria
cantina in un’innovazione notevole. Sebbene sia da
mesi in Italia, non avevo ancora visto nessuna iniziativa del genere. Lui si sta preparando. Dobbiamo tutti
imparare da Don Pierino. È questa l’unica strada,
ognuno nel proprio mestiere e con le proprie abilità. È
con grande sollecitudine che v’invito: preparatevi,
perchè avete un vantaggio. Sappiate approfittarne per
il bene vostro e del vostro paese, con fiducia e coraggio>>. Si ferma un momento per riprendere fiato e
continua <<È proprio da questi uomini entusiasti che
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l’Italia può risorgere, gli Italiani devono fare il loro lavoro. Ormai sono qui da abbastanza tempo per sapere
che molta della nobiltà di questo meridione d’Italia
non crede nello sviluppo dell’agricoltura e dell’industria, tranne quei pochi esempi che da soli portano sulle spalle le sorti economiche delle regioni che abitano.
È un grosso errore. È giunta l’ora di mettere a disposizione le vostre conoscenze e i vostri capitali per produrre, creare, sviluppare, sia nell’agricoltura che nell’attività industriale, altrimenti la povertà di questa
terra e quindi di tutta l’Italia non diminuirà mai. Molti
pensano che la situazione di combattimenti, e di guerra civile in cui siamo, non sia propizia. Eppure è proprio quando si ricomincia, quando è necessario ricostruire, quando si riparte dal niente che i grandi uomini possono fare e far fare grandi fortune. La Sicilia per
esempio è una terra dalle mille opportunità, con una
ricchezza di ambienti e di inventiva invidiabili. Una
grande terra, di una prosperità potenziale davvero
enorme. Lo stesso vedo qui. Ma c’è solo un modo per
approfittare di ciò che la natura vi offre: fare il vostro
lavoro, preferibilmente insieme. Io spero che la mia
amministrazione ponga le basi per un periodo di transizione breve e produttivo di libertà. Di questo mi impegno. Ma il resto dipende da voi>>. Paoletti si accorge di essersi infervorato troppo. Questa è una festa,
pensa, non può farne un comizio politico. <<Adesso
credo di aver chiesto veramente troppo al nostro ospite, cui auguro con tutto il cuore di riuscire nei suoi intenti in mille e uno di questi giorni. Buon complean193
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no, Don Pierino!>> dice applaudendo e, con un balzo,
scende dalla pedana e raggiunge Pierino stringendogli
la mano, tra applausi scroscianti.
Ad uno ad uno gli esponenti politici di Lecce presenti alla festa si fanno avanti per complimentarsi del
discorso ma Pierino, con nuova sorpresa, si rende conto che Paoletti li accetta con notevole noncuranza e
scarso entusiasmo. Decide dentro di sé che quello è un
uomo davvero singolare se riferito ai parametri della
società tipica del sud a cui è abituato.
Poco dopo è costretto ad andare via per recarsi a
Bari dove l’indomani mattina lo attende una riunione
importante, e non può far troppo tardi. Prega Pierino di
scusarlo, ma deve proprio andare.
Pierino ha già fatto caricare nella jeep due casse di
rosato e un paio di vassoi di purceddhruzzi.
Pierino lo segue in giardino e si salutano davanti all’auto, sotto la luce dei fari:
<<Grazie per la splendida serata Avvocato, e per
tutti i doni che gusterò più tardi, purtroppo lontano da
qui>>.
<<Faccia buon viaggio e sappia che qui ha degli
amici, qualora debba tornare>>.
<<Farò di più col suo permesso. La verrò a trovare
in Cantina. Mi è venuta una certa idea, e spero ne potremo parlare>>.
Pierino non se lo aspettava e ne è felice: <<Sarà un
onore>> dice.
<<Allora a presto>> dice il Generale salendo sulla
jeep che sgomma nel brecciolino del giardino di casa
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Leone, imbocca il Viale Gallipoli e esce dalla città a
velocità sostenuta.
Pierino risale la scala e torna alla festa, entra nel salone e incrocia subito lo sguardo di Lisetta in mezzo ad
un gruppo di signore. Pierino sta proprio pensando a lei,
alla sua fiducia, alle sue preghiere e alla dedizione che
ha messo in quelle settimane nel predisporre tutto quello che lo circonda in quel momento. Le sorride grato.
Lisetta non può immaginare cosa pensi in quel momento quel suo marito così eternamente attivo e inquieto, ma la sottile distensione che vede in quel sorriso la riempie di gioia. Non sa cosa stia succedendo, ma
sembra che sia positiva.
Molti degli amici di Pierino gli si avvicinano facendogli i complimenti per la festa e per l’illustre ospite.
Pierino sa che sono parole di circostanza: il discorso
del Generale non può aver riscosso consensi in quella
società dove lui stesso viene considerato un originale a
mettere a rischio il patrimonio familiare per l’attività di
produzione in cantina. Per anni a Lecce molti dei suoi
conoscenti gli hanno chiesto per quale motivo si desse
così tanto da fare, tutti quei rischiosi impegni finanziari e patrimoniali per la cantina e i vigneti; Pierino, come loro, avrebbe potuto vivere benissimo, senza rischiare, senza impegnarsi nel lavoro come un forsennato, giorno dopo giorno.
Sa che quelle parole diventano molto più caustiche
in sua assenza.
Ma lui è fatto così. Da secoli la sua famiglia era impegnata assiduamente e lui continua a farlo, come ha
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visto fare a suo padre, a suo nonno e al suo bisnonno.
E si aspettava che l’avrebbe fatto anche Salvatore, seppure all’interno dei suoi specifici interessi ed inclinazioni, quali che fossero. La sua terra è lì non soltanto
perchè era stata di suo padre e di suo nonno prima di
lui, ma innanzi tutto perchè ogni anno promette di beneficare dei suoi frutti lui, la sua famiglia e tutti coloro che lavorano con lui, e suo preciso dovere morale è
di valorizzarne al meglio la specificità. Solo così
avrebbe reso giustizia alle fatiche degli uomini e donne che lo avevano preceduto in centinaia di anni.
Se poi il mondo cambiava e lui doveva adeguare tutta quella attività alle mutate condizioni, assumendone
anche dei rischi, ciò era esattamente quello che avevano fatto tutti i suoi predecessori. Gli errori di valutazione, le difficoltà materiali e le disgrazie che potevano verificarsi erano nel conto sempre e comunque, sia
che lavorasse sia che rimanesse con le mani in mano.
Quindi tanto valeva combattere. Ecco cosa intendeva
col suo famoso intercalare quando affermava di impegnarsi a <<trasformare una vite secca in una prospera>>, aprendo nel dire la vocale finale di <<vite>> per
allargare il concetto alla <<vita>>.
Il discorso del Generale alla festa di Don Pierino è
l’argomento di discussione della settimana a Lecce.
Alcuni ravvisano un tono socialista in quei toni, altri
soltanto una inutile profusione di parole poco aderenti
alla realtà. La maggior parte si limita a stare a guardare sapendo che, da almeno duemila anni, in quella ter196
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ra tanto si dice e meno si fa e si cambia.
Nel giro di una settimana l’episodio è stato completamente dimenticato da tutti.
Da tutti tranne che da Pierino.
Chiuso nel suo studio della cantina di Salice, sa che
deve decidersi. Se vuole puntare a condurre in porto il
suo progetto deve avviare la seconda fase, quella dell’approvvigionamento delle materie per l’imbottigliamento.
Fare le poche bottiglie per le feste di famiglia ha
comportato un’inezia d’investimento. Ma adesso deve
sapere se fare sul serio o attendere gli avvenimenti. Se
avesse deciso di attendere non sarebbe stato pronto nel
momento in cui avesse trovato dei clienti. In periodi
normali procurarsi i vetri, le etichette e i tappi avrebbe
richiesto un periodo di circa un mese e mezzo. Ma
adesso le cose erano enormemente complicate. Impossibile calcolare il tempo necessario per trovare tutto il
necessario, comprarlo e farlo arrivare indenne lì a Salice. Uno sforzo probabilmente enorme. E tempo, tanto tempo, oltre che denaro.
A ben vedere il rischio più grosso è proprio procrastinare la decisione finendo col mancare il momento
propizio, quando il vino è pronto per essere imbottigliato: c’è un periodo in cui è perfetto e la sua evoluzione dev’essere chiusa in bottiglia. E poi potrebbero
arrivare i primi ordini. E se l’imbottigliamento coincidesse con l’arrivo dei primi ordinativi? Il coincidere
dei due avvenimenti sembra a Pierino un’utopia, però
occorre essere pronti.
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È la vecchia faccenda del treno che passa. Non sai
se passerà ma speri che lo faccia, e tutto te stesso ti dice che lo farà. Hai pregato per questo, ti sei appellato
alla tua fede, ne sei quasi certo, ma razionalmente sai
che è solo una speranza. Però se passa devi essere lì.
Con le valigie. Se non ci sei, l’hai perso. Se ci sei, ma
senza valigie, non fai molta strada.
La prudenza ti consiglia di aspettare, di non fare le valigie, di non investire per non aumentare il rischio… ma
non sarebbe molto peggio dover uscire dalla stazione col
treno che si allontana senza di te, solo perchè non hai
avuto il coraggio di preparare il necessario per salire?
Pierino sa che qui ci sono in gioco la sua fede e la
sua speranza.
Sa anche che non ha più di cinque o sei giorni per
decidere se prepararsi ad imbottigliare.
Parlarne con Lisetta sarebbe inutile, dal modo in cui
lo guarda ogni mattina sa che gli risponderebbe semplicemente di farle quelle benedette bottiglie, e non
pensarci più.
Il 4 febbraio è venerdì. Prima di prendere il calesse
per tornare a casa fa il solito giro per la cantina. Gli
operai stanno riordinando tutto in modo da essere
pronti per il lunedì successivo. Le vasche di pietra e cemento piene fino alle portelle di buon rosato attendono. Il piccolo impianto di imbottigliamento è fermo in
attesa. Nicola stesso fa analisi nel suo laboratorio, classificando le masse e ritoccando il quadro del piano di
cantina, correggendo quantità e tipologia di prodotto
relativi a tutti gli spostamenti fatti nella giornata.
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Lui stesso si aggira tra le vasche, i tini e le botti, in
attesa.
Improvvisamente si rende conto che quell’attesa
non ha senso, che sta aspettando qualcosa che è già avvenuto. La decisione vera lui l’ha presa il primo giorno di vendemmia quando le uve appena raccolte sono
arrivate in cantina e ha avviato la produzione di rosato.
Lisetta ha ragione: non ha più senso aspettare. Non può
tornare indietro.
Le valigie le ha già fatte, ora deve solo chiuderle.
Rientra in ufficio e chiama al telefono l’Avvocato
Russo, a Brindisi.
<<Ciao Russo, come stai?>>.
<<Bene, spero meglio domani. Sono stanco morto>>.
<<Settimana pesante?>>.
<<Lasciamo perdere. Posso fare qualcosa per te?>>.
<<Sì, ma non ti preoccupare, la potrai fare anche lunedì>>.
<<Le bottiglie, vero?>>.
<<Sì, voglio che cominci a raccoglierle, tutte quelle che riesci a trovare. E che me le mandi man mano.
Poi la carta. L’hai cercata?>>.
<<Sì, ma senza risultati. Il prezzo delle bottiglie è
sempre quello?>>.
<<Sì>>.
<<Allora lunedì passo parola. Sgombera i magazzini, perchè saranno tante>>.
<<Meglio, molto meglio. Ti chiamo la settimana
prossima, va bene? Ma tu ricordati della carta>>.
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<<Certo. Buona domenica a te e alla famiglia>>.
<<Grazie, ricambio di cuore>> dice abbassando il
pesante ricevitore nero di bakelite.
Pierino fa altre due telefonate ad altrettanti conoscenti di Bari e Lecce: servono bottiglie vuote, preferibilmente di birra americana, da portare a Salice. Saranno pagate dieci AMLire la dozzina. Serve anche carta
da stampa bianca, non importa di che dimensione.
Pierino si ripromette di dare la stessa notizia lunedì
anche lì in paese, attraverso i suoi operai che poi
diffonderanno la cosa ad amici e parenti.
Poi chiude l’ufficio e torna a casa, a Lecce. Quel fine settimana vuole proprio riposarsi, e non pensare più
a niente.
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CAPITOLO 11
Il cliente
L
unedì Pierino convoca Nicola e gli spiega che arriveranno moltissime bottiglie di tutte le fogge e dimensioni, bisogna sgomberare i magazzini esterni per
accoglierle. Gli chiede di disporre affinchè le donne
dell’imbottigliamento lascino il lavoro di cantina e si
dedichino alla pulizia del reparto e alla verifica di tutto l’impianto, perchè entro una settimana, quindici
giorni al massimo, inizieranno ad imbottigliare, dopo
due giorni di prova. Gli dice di verificare la giacenza
delle plance di sughero e di controllarne lo stato, unitamente alla colla e alla ceralacca. Quando Nicola esce
dall’ufficio Pierino telefona alla stamperia che ha realizzato le etichette commemorative a Lecce. Purtroppo
della carta nessuna traccia. Chiede di continuare a cercare. Nel frattempo inizia a scarabocchiare con la matita una nuova etichetta. Mentre disegna ascolta
Nicola, dall’altra parte della cantina, spiegare a tutto il
personale riunito il nuovo programma di lavoro. Tutta
la cantina è in moto.
Richiama l’Avvocato Russo che gli conferma che
tutti i ragazzi di Brindisi stanno raccogliendo le botti201
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glie gettate via dalle osterie. Chiede di raccogliere anche le cassette di legno, le stesse della birra americana,
tutte quelle che trovano, che le pagherà ugualmente.
Quattro giorni dopo arrivano i primi tre carri da
Brindisi carichi fino all’altezza delle spalle del cocchiere di cassette di bottiglie vuote, che entrano tintinnando con fragore nel piazzale retrostante la cantina,
da dove vengono prontamente dirottate verso il magazzino.
Però, a parte quel primo carico e ad un centinaio di
bottiglie raccolte a Salice, in quella settimana la cantina non riceve altro. Pierino entra in ansia: teme che il
numero delle bottiglie raccolte possa essere troppo esiguo per i suoi scopi. Sente più volte Russo a proposito
ma quello lo tranquillizza: il passaparola sta funzionando, non c’è ragione di preoccuparsi, il flusso delle
bottiglie è destinato ad aumentare. Non contento
Pierino teme che Brindisi potrebbe non bastare per i
suoi approvvigionamenti. Si reca a Bari e coinvolge
nel progetto un paio di suoi amici che cominciano a far
girar voce in tutta la città. La stessa cosa fa a Lecce,
sebbene si aspetti poco dalla sua città che non ospita
basi americane.
Finalmente il flusso delle bottiglie in arrivo comincia ad aumentare, prima poche decine al giorno, poi un
paio di centinaia, ed entro la fine di febbraio la strada
di accesso è un continuo tintinnare di vetri trasportati
da ogni mezzo. Alcune persone arrivano persino a piedi con le sporte cariche di bottiglie, e talvolta salgono
sui carri per farsi dare un passaggio più comodo.
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Rimane il problema della carta. La stamperia di
Lecce non ne trova, e neppure a Bari è riuscito ad avere una qualche rassicurazione.
Decide di rivolgersi agli americani dietro indicazione del solito Russo che gli procura un appuntamento
con il Sergente MacLean, dicendogli che parla perfettamente l’italiano.
Pierino entra nell’Hotel Internazionale, fermato subito da un MP in pieno assetto di guardia. L’uomo lo
sovrasta di un paio di palmi abbondanti e gli si para davanti chiedendogli qualcosa. Pierino boccheggia. Per
fortuna interviene un uscere italoamericano che gli
chiede chi cerca. L’MP si fa da parte ma lo guarda minacciosamente. Pierino chiede di MacLean e lo fanno
passare al primo piano, alla stanza 18. MacLean, nonostante il nome scozzese, è un giovane longilineo dai
lineamenti mediterranei, magro e nervoso, con un baffetto nero e folto che sembra vibrare sopra due labbra
sottilissime e decise.
<<Buongiorno. Lei dev’essere l’Avvocato Leone de
Castris>> gli dice, dandogli la mano <<mi ha avvisato
Russo della sua visita. Prego si accomodi>> continua
il Sergente mentre sposta delle pile di carte da una sedia, ammonticchiandole su un’altra scrivania già ingombra, addossata al muro.
<<Buongiorno>> dice Pierino, che si guarda intorno sbalordito dalla mole di scartoffie che occupa l’intera stanza.
<<Carta, carta e ancora carta. Noi siamo qui per fare la guerra, ma ci portiamo dietro tante di quelle car203
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te da riempire navi intere. Mi dica, in che cosa posso
esserle utile?>>.
<<Non gliel’ha accennato Russo?>>.
<<No, mi ha detto solo che voleva parlarmi>>.
<<Ah, ho capito. Mi serve della carta>>.
MacLean si irrigidisce leggermente e il baffo ha un
fremito.
<<Vuole mettere su un giornale?>> gli chiede cominciando a far roteare una matita intorno alle dita.
<<Un giornale? No, no, mi serve per le etichette del
mio vino>>.
<<Vino?>>.
<<Sì, vede io ho una cantina a Salice e vorrei imbottigliare il mio vino…>>.
<<Ah! Vino, ora capisco. Cantina! C’è un ottimo vino qui in Puglia.>> dice il sergente, pensando certamente a qualche serata in osteria.
<<Eh già. Vede e allora…>>.
<<Ma noi non possiamo dare la carta per questo.
Anzi, ne abbiamo appena per noi. Mi dispiace>>.
<<Ma a me non ne servirebbe tanta, sa le etichette
sono piccole>>.
<<Oh, sì capisco, etichette, labels, vero? No, spiacente, non possiamo. Se cominciamo a dare la carta a
lei… Mi capisce no? I giornali, i manifesti, ci manca
solo questo…>>.
Pierino non comprende immediatamente perchè il
sergente insista con cose come i giornali e i manifesti.
A lui servono solo etichette. MacLean comprende che
Pierino è sovrappensiero, e si spiega.
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<<Vede Avvocato, di carta ne abbiamo poca e ce ne
fanno richiesta i giornali, gli editori, quelli che vogliono stampare libri e riviste e quelli che fanno manifesti.
Pensi, ogni giorno decine di persone vengono qui a
chiedere carta per questo e quello, soprattutto per i
giornali. Ma noi non possiamo, qui c’è troppa politica
in Italia, troppa>>.
<<Ma io non faccio politica, solo vino!>>.
Ora Pierino comprende che il problema non è la carta, nè lui, nè il vino, è solo la paura di avere un altro
produttore di chiacchiere pericolose.
<<Senta>> insiste Pierino <<Io ho una cantina a
Salice, devo imbottigliare qualche migliaio di bottiglie
e mi serve la carta per le etichette, per stamparla col
nome del vino…>>.
<<Sì, sì, ho capito, labels>>.
<<Ecco appunto. Mi faccia magari parlare con un
suo superiore, qui non si tratta di giornali o di politica,
si tratta di vino, solo buon vino>>.
MacLean lo guarda mentre la matita gira vorticosamente e il baffo vibra. Poi si alza di scatto e dice a
Pierino di aspettare lì, di non muoversi, e esce dall’ufficio.
Pierino si guarda intorno. L’ufficio è stracolmo di
pratiche, faldoni, raccoglitori; le paretti strapiene di
appunti, fogli d’ordine ed elenchi infiniti, fissati con le
puntine da disegno. MacLean torna in ufficio e gli dice di seguirlo. Dopo un paio di corridoi lo fa entrare
nella stanza 125, che è più larga e luminosa delle altre,
sebbene vi stagni una pesante nuvola di fumo. Sulla
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destra un ufficiale di grado superiore sta parlando al telefono. Dopo qualche secondo chiude la cornetta e gli
dà il benvenuto, facendolo accomodare.
MacLean lo presenta a Pierino come il Maggiore
Aflek, della Sussistenza, dicendogli sottovoce che lui
ha la carta ma non parla italiano.
Pierino ripete ad Aflek la stessa richiesta e attende
che MacLean traduca, e intanto pensa che la faccenda
si sta complicando ulteriormente.
Aflek è un uomo alto e corpulento, biondo. Dà l’impressione di essere una persona metodica e nel suo ufficio sgombro l’ordine è perfetto. In compenso fuma
un grosso sigaro, spostandolo in continuazione da una
parte dall’altra dell’ampia bocca.
Pierino guarda il sergente e il Maggiore parlottare.
Comprende solo tre parole: Russo, newspaper e label,
quest’ultima imparata solo pochi minuti prima. Il
Maggiore sembra alterarsi e guarda alternativamente
Pierino e poi MacLean, che insiste con Russo ancora
una volta. Poi impreca e si alza di scatto parlando a voce alta. Con tre passi arriva alla porta e urla qualcosa
nel corridoio. Pierino guarda MacLean che alza gli occhi al cielo come a dire che lui ci ha provato. Pochi secondi e sul corridoio compare il Maggiore Pietropaolo
che si mette a parlare con Aflek. Poi alza lo sguardo oltre la sua spalla e vede Pierino seduto nell’ufficio e gli
va incontro sorridendo.
<<Avvocato Leone de Castris, che piacere vederla
qui a Brindisi!>> gli dice stringendogli affettuosamente la mano.
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<<Buongiorno Maggiore, anche per me è un piacere incontrarla>>.
<<Ma scusi, che è successo qui? Aflek mi ha detto
che la manda Russo a chiedere della carta, deve pubblicare un giornale?>>.
<<Ma no, è un’ora che dico a tutti che la carta mi
serve per le etichette. Russo mi ha mandato qui sperando che possiate aiutarmi>> risponde Pierino sinceramente stufo di essere preso per un editore.
Pietropaolo si mette a ridere rumorosamente, mentre Aflek e MacLean lo guardano sopresi.
Asciugandosi le lacrime e trattendendo le risate
Pietropaolo rispiega la situazione ad Aflek che finalmente si leva il sigaro dalla bocca e sorride. Poi si rivolge a Pierino:
<<Ecco fatto, tutto chiarito. Sa com’è Avvocato Leone de Castris, Russo è un’ottima persona ma tende a fare troppa politica, e di questi tempi non vogliamo seccature, lei capisce cosa intendo. La carta per le etichette
delle sue buonissime bottiglie è un’altra storia. Adesso il
Maggiore le darà l’ordine di prelievo. Magari le costerà
qualche bottiglia omaggio per il comando>>.
Pierino è sollevato e grato: <<Ma certo, ma certo,
sarà un vero piacere, ci mancherebbe>>.
Pochi minuti dopo Pierino si congeda e abbandona
il comando Alleato, asciugandosi il sudore dalla fronte
nonostante il freddo di febbraio: in tasca ha un ordine
di prelievo di due rulli di carta da stampa bianca, da
prelevare nei magazzini alleati l’indomani mattina, a
Brindisi.
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Il tipografo di Lecce è già avanti nel lavoro e tre
giorni dopo, seduti accanto ai due rotoli di carta appena arrivata da Salice, lui e Pierino esaminano l’ultima
bozza dell’etichetta. Il foglio quadrato color crema
ospita in alto al centro lo stemma araldico di famiglia:
uno scudo coronato con torre e leone rampante in campo azzurro, sormontato da due stelle e due comete. Ai
lati dello stemma due grossi grappoli di Negroamaro,
con gli acini rossi. Sotto, al centro dell’etichetta, la
scritta <<Azienda Agricola Leone de Castris>>, e in
grande il nome <<Cinque Rose>>. Chiudono in basso
le diciture <<Rosè del Salento, Vecchia Riserva>> e
<<Prodotto in Italia>>, oltre al marchio di Casa Savoia
visto che la Cantina è fornitrice ufficiale della Real
Casa.
Pierino è soddisfatto, soprattutto per la realizzazione delle immagini delle uve e dei caratteri in rosso della scritta <<Cinque Rose>>. Conferma la bozza e lascia al tipografo l’ordine di stampa di cinquemila etichette da consegnarsi entro e non oltre il 15 marzo, e
versa un anticipo del 20% sul costo totale della fornitura.
In cantina è ora di predisporre il vino per l’imbottigliamento. Pierino ha deciso di fare una cuvèe più giovane rispetto a quella che ha fatto per le feste di compleanno. Sa che quelle bottiglie di prova serviranno a
farsi un po’ di pubblicità in giro e il vino deve essere
un briciolo meno impegnativo e più fresco. Chiede a
Nicola di prelevare ogni singola massa disponibile in
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cantina e di allineare tutti i campioni sul bancone del
laboratorio. In un pomeriggio Pierino e Nicola si chiudono nel laboratorio e provano tutti i campioni fino a
quando riescono a comporre una miscela che possa arrivare al risultato voluto: 10% del 1935, il 20% del
1942 e il 70% del prezioso rosato del 1943, tutto proveniente dal vigneto Cinque Rose. Il vino è di un intenso rosa antico, dai riflessi violacei che ne denunciano la giovinezza. Un naso pieno di frutta mediterranea,
con un lieve sentore di frutti di bosco e ribes e qualche
nota acuta di fiori. Il gusto, inizialmente morbido e vellutato, si amplia con una leggera nota tannica prima di
scivolare via denso e corposo. Un istante dopo la bocca resta ancora memore del gusto tondo e corposo, ma
pulita e pronta a riprendere la degustazione, mentre si
sprigiona il retrogusto come un’apertura amplificata
dei profumi e del velluto iniziale, premessa ideale per
invitare ad un nuovo assaggio. Nicola conferma che,
stante le masse disponibili, quel vino sarebbe immediatamente replicabile con successivi imbottigliamenti
fino a trecentocinquantamila bottiglie di birra americana. Pierino, pensando previdentemente al futuro, chiede com’è la situazione delle rimanenze delle vecchie
annate. Nicola controlla le giacenze delle annate ‘36‘37 e ‘43 e risponde che, con qualche piccola variazione di qualità, la quantità imbottigliabile sarebbe incrementabile senza problemi, a meno che Don Pierino
non pensi di farne un paio di milioni, di quelle bottiglie. Pierino ride e risponde che non è così follemente
ottimista.
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Nicola predispone la creazione della massa unica
partendo dalle singole partite selezionate, e si prepara
a stabilizzarla al meglio prima di andare in bottiglia.
La prova generale di lavorazione, dopo la consegna
delle etichette, vede Pierino impegnato ad osservare
con attenzione il lavoro nel reparto di imbottigliamento. Si trasforma in un ingegnere organizzativo, dà consigli alle lavoranti e predispone in modo da rendere il
lavoro più sicuro, efficiente e meno monotono possibile. Si rende conto che la fase più pesante dal punto di
vista fisico è quello del trasporto delle cassette di bottiglie piene dal reparto imbottigliamento al magazzino
dei prodotti finiti. Per quel lavoro crea una squadra di
uomini e fa adattare in fretta due pianali con delle ruote al centro e quattro piedi sollevabili, in modo da fornire un piano di appoggio sicuro che si trasformi rapidamente in un mezzo di trasporto. La produzione oraria
passa da trenta bottiglie a sessanta, poi a settantacinque
per raggiungere il massimo di duecentoquaranta bottiglie. Alla prova dei fatti Pierino si rende conto che, se
quel progetto dovesse effettivamente prendere piede
come lui spera tanto, per non perdere troppo tempo in
quella delicata fase e lasciare al vino il tempo necessario per elevarsi in bottiglia prima della vendita, dovrà
impiantare due o tre linee di imbottigliamento.
Nel frattempo l’afflusso delle bottiglie in cantina si
mantiene costante ad un ritmo di ottomila bottiglie
vuote alla settimana, provenienti per la maggior parte
da Brindisi e Bari.
Il 7 marzo riceve una telefonata di Pietropaolo che
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gli chiede se è disposto a ospitare il Generale Paoletti
per una visita alla sua cantina due giorni dopo in mattinata. Pierino risponde che ne sarebbe profondamente
onorato, naturalmente.
La sera di giovedì 8 marzo Pierino non torna a
Lecce e trascorre la notte al palazzo de Castris di
Salice. Il 9 marzo alle 8,30 è già in cantina, dove la manovalanza sta ultimando la pulizia generale straordinaria di tutta la struttura. Tutti gli operai pensano che stia
arrivando finalmente un grosso cliente, e rimangono
delusi quando si diffonde la voce che due jeep e due
auto hanno posteggiato di fronte alla cantina dal lato
della strada, e degli ufficiali americani sono in visita
allo stabilimento.
Pierino accoglie il Generale con un sereno ringraziamento per la sua presenza, mentre l’altro rimane impressionato dalla grandezza dello stabilimento enologico.
Poi esordisce: <<Carissimo Avvocato, ho una sorpresa per lei. Mi segua>> ed esce dall’ufficio.
Pierino lo segue pensando che si tratti di qualche
dono usuale in quelle occasioni, e si aspetta il solito
crest militare.
La sua sorpresa è enorme quando, proprio davanti
all’ingresso della cantina, vede posteggiata la sua fida
Lancia Astura.
Paoletti infila una mano in tasca e gli consegna le
chiavi dicendo:
<<Ecco qua, è di nuovo sua. In tutta Brindisi si racconta la storia dell’unico italiano che ha avuto l’ardire
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di far avanzare i suoi carri armati all’arrivo di una pattuglia dell’esercito a difesa della sua auto e del suo lavoro. Non posso dirle che approvi, ma insomma…
Credo che il suo atto sia perfettamente comprensibile>>. Ride soddisfatto. Pierino prende le chiavi dicendo che per la verità non si trattava di una pattuglia di
americani ma di un semplice ufficiale dell’aeronautica
militare italiana e del suo autista. Un paio di uomini,
neanche bene armati. E che lui aveva solo la sua guardia di quattro uomini a cavallo dotati di mitra Sten.
Niente carri armati. Figuriamoci. I due finiscono col ridere della capacità di una semplice storia di trasformarsi in leggenda passando di bocca in bocca, fino ad
assumere dimensioni ridicole.
<<Ma non vorrei che questo suo dono si trasformasse in un incidente diplomatico per voi e in guai amministrativi per me>> dice con sincerità Pierino.
<<Oh, non si preoccupi. La sua auto era stata affidata ad un ministro. Gli ho fatto assegnare una jeep.
Sono convinto>> aggiunge il Generale ridendo ancora
più sonoramente <<che a lei la Lancia serva molto di
più che al ministro!>>.
È un Pierino sorridente quello che coglie l’occasione per invitare Paoletti ad un giro di ricognizione in alcuni suoi vigneti. Tutta la campagna intorno a Salice è
presa in una morsa di gelo dopo l’arrivo di una nuova
perturbazione dai Balcani. Persino le pozzanghere sono gelate. Ma al riparo della sua Astura hanno modo di
girare in lungo e in largo Messere Andrea intorno ai vigneti spogli e rossicci nella chiara luce bassa dell’in212
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verno. Si fermano anche nella Masseria dove Pierino
fa servire la ricotta fresca e una fetta di formaggio col
pane appena sfornato.
Paoletti racconta che i suoi genitori gli descrivevano terre molto più alte e fredde, brumose e umide, dolci colline che in quel momento sono certamente spruzzate di neve. Invece qui in Puglia, la forza della luce e
il freddo vento di levante proveniente dal mare hanno
una determinazione a cui le vigne si assoggettano, miti e sapienti, condotte da uomini che stavolta hanno almeno il coraggio delle proprie idee.
Si dice grato a Pierino per quella visita e soprattutto per aver dimostrato che esiste il coraggio di una vera attività imprenditoriale, ancora in nuce ma già evidente e produttiva.
<<Bravo Don Pierino, se in Italia ci fossero state più
persone come lei e la sua famiglia, certamente molti
italiani non sarebbero emigrati negli States. Non è stata libera scelta quella dei miei genitori, è stata la costrizione, la necessità di volgere la speranza altrove. E
mi creda, chi perde la speranza che la propria terra possa sfamarlo ha subito una grande sconfitta. È come
perdere per sempre una parte del proprio essere.
Adesso, come per un destino che si burla dell’uomo,
sono proprio i figli di questi emigranti che ritornano,
mano alle armi, a liberare questa terra così mal governata, così mal sfruttata, a dare nuove speranze alla gente che invece è rimasta e che, dopo cinquant’anni, è ancora in catene, gente antica e tuttavia così poco saggia.
Ho visto la Sicilia, una terra grandissima, bellissima,
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ma come addormentata in un sudario stretto da uomini
privi di cultura e di fantasia. Uno spreco dei doni di
Nostro Signore>>.
Pierino è allarmato da quelle parole. C’è una carica
di novità e di libertà che giudica al limite dell’anarchia.
Quell’uomo si erge tutt’intero nella sua potenzialità
senza condizionamenti di storia, di famiglia, nell’assenza assoluta di un primato esterno, di un monarca, di
un qualsiasi altro personaggio con cui doversi confrontare; solo uomo e natura, e questa solo come dono
di Dio, da saper utilizzare nel modo migliore per sè
stesso e per i suoi fratelli.
Don Pierino, sorpreso, non risponde.
Poi visitano la cantina, dove assaggiano da una ventina di botti diverse. Finalmente entrano nel magazzino dei prodotti finiti, dove le colonne di cassette di vino imbottigliato e pronto per essere consumato attendono il loro destino.
<<E queste? Per chi sono?>> chiede il Generale.
<<Ho fatto una prima prova di imbottigliamento per
controllare che non ci fossero problemi, in modo da essere pronto per un lavoro maggiore. Naturalmente sono in vendita, ma non ho ancora nessun compratore.
Ho lavorato per il magazzino, come si dice tecnicamente>>.
Le sue parole gettano il silenzio in quell’uomo così
pragmatico. Tutte quelle bottiglie stanno nella quiete
del freddo e buio magazzino, in attesa del loro destino.
Si sente quasi il silenzio della tigre che, indecisa,
non spicca il balzo verso la sua preda.
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Paoletti si mostra impaziente, non capisce: <<E allora, cosa aspetta?>>.
<<Il cliente>> risponde Pierino
<<Eccolo qui!>> dice l’Ufficiale allargando le braccia. <<Intanto cominciamo da noi ufficiali e dalle forniture per la Navy>>.
Pierino in una frazione di secondo viene colto dal
terrore che si tratti di uno scherzo. Oppure di un sogno.
È ancor meglio delle sue più rosee speranze! Guarda le
facce degli ufficiali dello Stato Maggiore, cinque serissimi ufficiali amministrativi che stanno di certo calcolando quante bottiglie serviranno. Il suo animo comincia a sollevarsi e ad espandersi facendogli temere di essere oggetto di una levitazione lì, proprio in cantina. Si
morde il labbro inferiore e si controlla proprio mentre
sente che un sorriso infantile sta per spuntare sul suo
volto.
Paoletti si consulta con gli ufficiali e gli ordina
35.000 bottiglie da consegnarsi entro due settimane.
Pagamento alla consegna.
Pierino sente che una sfrenata risata di felicità sta
per esplodere nel suo cervello, da qualche parte, ma
l’attenzione si fissa su quel numero: 35.000. È un problema, una possibile catastrofe. Teme che tutto possa
sgonfiarsi all’istante, lui non è in grado di produrre tutte quelle bottiglie in quel lasso di tempo.
<<No>> dice Pierino <<ci vuole più tempo, non sono abbastanza meccanizzato. Ma posso consegnare
diecimila bottiglie ogni quindici giorni. Le può andare
bene?>>.
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<<Per me va bene, si può fare, solo un po’ più complicato>> risponde il Generale.
<<Va bene allora, 35.000 in tre consegne di diecimila ogni quindici giorni, tranne l’ultima di cinquemila dopo una settimana>>.
Si mettono d’accordo anche sul prezzo ma Pierino
vuole un anticipo del 30% sull’intera fornitura.
Paoletti lo guarda e riflette. Poi dice: <<Okay, mi fido di lei. Ma il 30% è troppo, diciamo che le diamo un
20% sul totale e poi il primo saldo sul consegnato della prima e seconda fornitura. Le sta bene?>>.
Pierino annuisce. L’aiutante di campo stila un semplice foglio, un memorandum, come lo chiama lui, in
cui ci sono scritti gli accordi. Poi gli stacca un assegno
pari al venti per cento, pagabile su una banca di Lecce.
Pierino invita gli americani a guardare una botte da
trecento litri. Una piccola lavagnetta nera porta un nome scritto col gesso bianco, impolverato da decenni:
Pasquale.
Ne spilla un vino nero, denso, il cui profumo si
spande nella cantina. Il vino si allarga nel bicchiere,
come a volerne uscire. Pierino fa notare come ruotando il bicchiere il vino tenti di avvolgerlo dall’interno,
scorrendovi lento come burro fuso, aderendovi come
fuoco al legno, e scendendo poi dai fianchi del bicchiere come una pioggia di tizzoni ardenti verso il corpo del liquido sottostante. In controluce, dal vino non
traspare il sole.
Don Pierino dice: <<Questo vino fu fatto a Guagnano dal mio bisnonno Mauro nel 1851, l’anno in cui
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nacque mio nonno Pasquale. Lui stesso aprì questa
botte l’anno in cui Pasquale sposò mia nonna Virginia
Baldassare qui a Salice Salentino. Questo vino ha 92
anni. È denso, dolce, alcolico come questa terra e come gli uomini che vi hanno abitato per secoli. Da sempre si usa così: per ogni figlio si fa una botte che viene
aperta per il suo matrimonio e queste botti non vengono perse mai, a meno che la famiglia si disperda, perdendo il suo legame con la terra. Bevendo questo vino
si partecipa a questo legame tra famiglia e terra. Non
possiamo far trascorrere il tempo al contrario, non possiamo correggere gli errori di altri, e non possiamo
neppure far finta di non avere limiti e costrizioni dalla
società in cui viviamo, almeno non noi che viviamo in
questa terra. Però possiamo lavorare e sforzarci di fare
un passo in più, di migliorare questo mondo, lasciandolo possibilmente migliore di come l’abbiamo trovato; per noi stessi, per la nostra famiglia, per tutti coloro che abitano nel nostro paese. Fare questo in una terra antica è difficilissimo, molto più difficile che farlo
in una grande e nuova Nazione. I miei conterranei pensano che io sia un tipo originale, una specie di maniaco del progresso anche se nessuno qui sa cosa sia veramente il progresso, uno che mette a rischio il patrimonio della sua famiglia per produrre e svilupparsi.
Qui per secoli c’è stata la terra, solo quella. Viviamo di
poco, quando la terra è tanta allora viviamo meglio. Le
famiglie, nel rispetto di tutti i figli, hanno cercato di
mantenere intatte le condizioni di vita per le generazioni successive, a volte riuscendoci a volte no. E for217
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se era l’unica speranza che c’era, l’unica possibilità. Io
sto tentando, col favore dei tempi, di crescere, ma i rischi che sto correndo sono grandi, grandissimi: il primo è di cadere nel ridicolo. Non cerco alcun tipo di
grandezza o di riconoscimento, avrei già tutto per stare bene: un discreto reddito, una bella famiglia, una
moglie che amo, ma sento che per il bene dei miei figli e della mia famiglia, e anche di questa terra, devo
tentare questo passo così nuovo, così inusuale, nella
speranza di farlo bene e per questo motivo mi affido a
Dio. Ma nel fare ciò, ogni volta che entro in Cantina o
vado nei vigneti, vedo i miei operai che dipendono dai
miei sforzi, e quando durante la vendemmia lavorano
per me quasi tutti coloro che sanno camminare e tenere in mano le cesoie, allora mi dico che tutto il paese
dipende da me. Ed è un fardello molto grande per un
uomo solo. Io spero che bere questo vino dia una maggiore comprensione di quello che state vivendo qui in
Puglia in questo periodo, delle persone che incontrate
e delle angustie che vivono, per fare giustizia nei loro
confronti. Lo auguro di tutto cuore>>.
Le parole di Pierino colpiscono Paoletti dritto al
cervello e penetrano in quell’aria di superiorità, mista
a lieve disprezzo, che hanno i fanciulli più distratti per
le abitudini e le parole degli anziani, come se fosse
possibile spazzare via centinaia di anni, intere generazioni di sofferenze e schiavitù solo con un semplice
progetto per il futuro. Il Generale è scosso da quella
determinazione mite e umile già vinta eppure perseverante nella giustizia, una determinazione che spegne
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quel rancore che lo ha assalito dopo lo sbarco a Gela
nel luglio del ‘43. Smorza l’odio che prova nei confronti delle centinaia di nobili e altolocate persone che
sono venute da lui a chiedere di tutto, come se fosse un
re dispensatore di doni o maledizioni, e lui a esortare
dicendo fate, datevi da fare, lavorate e loro a rispondere cosa fare, come lavorare, noi nulla sappiamo fare. In
Sicilia gli unici che ha visto affrontare con le mani i loro problemi sono quelli che nati dal popolo al popolo
restavano, senza potere, senza reddito, senza censo.
Quel vino di novantadue anni contiene tutta la passione dell’appartenenza degli uomini al Salento, una
terra faticosa ma feconda, e ad una famiglia antica, sede di amore; infine anche alla gioia di vivere, da comunicare agli altri, nel tempo, con semplici gesti.
<<Don Pierino>> dice <<mio padre m’insegnò,
molti anni fa, che la saggezza di solito non sta in alto
ma in basso, non sta altrove ma dentro di sè. Lei oggi
mi ha ricordato le sue parole. Che questo vino, sangue
di questa famiglia, possa durare ancora mille anni.
Bevo alla sua salute!>> termina alzando il calice.
<<Però dobbiamo metterci d’accordo>> continua
<<Io penso che il suo Cinque Rose debba avere un nome americano>>.
<<E come si dice Cinque Rose in inglese?>> chiede Pierino
<<Five Roses!>>.
<<Allora brindiamo a questo nuovo vino, Five
Roses di Leone de Castris>> dice Pierino.
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Pochi giorni dopo, quando ha già modificato l’etichetta col nuovo nome e sollecitato il tipografo a stampare alla massima velocità, Pierino è colto dal dubbio:
un nome inglese su un vino francese o italiano non si è
mai visto prima, almeno a sua memoria. E dire che in
gioventù ha girato parecchio in Francia e di vini e cantine ne ha conosciuti tanti. Temendo che possa essere
uno sbaglio nonostante tutte le rassicurazioni del suo
cliente, decide di parlarne prima di tutto ai ragazzi.
La sera torna a casa prima del solito e, con
Arcangelo, entra nella stanza di Salvatore dicendo che
deve parlare a tutti e due. I ragazzi sono in allarme, di
solito quelle convocazioni non portano nessuna buona
notizia. Invece Pierino racconta in dettaglio ciò che è
successo, generando l’entusiasmo dei figli, che si congratulano con lui per il successo dell’iniziativa.
<<Congratulazioni papà, sono proprio contento!>>
esclama Salvatore, abbracciandolo con trasporto.
Arcangelo è meno affettuoso nel suo entusiasmo,
ma si congratula con franchezza anche lui.
<<Bene, ragazzi, avete capito che questa è una gran
cosa per tutti noi, ma rimane un dubbio: non sarà un errore mettere un nome in inglese ad un nostro vino?
Non ce n’è esempio in tutto il mondo, che io sappia.
Che ne pensate?>>.
Arcangelo risponde dicendo che gli sembra troppo
nuovo, troppo <<boogie woogie>> per un vino. Insomma loro sono una famiglia antica, in una terra ancora più antica, che nome è mai quello per un vino che
viene da loro? Che senso ha che da Salice Salentino
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venga un vino che si chiama come un giardino di New
York?
Salvatore si dimostra più cauto. È un momento di
grande cambiamento, o almeno tutti sperano che lo
sia. C’è chi si augura che gli americani restino, sono
pochi quelli che non li vogliono. È un atto di coraggio
e di fiducia negli Alleati: l’Italia, almeno per un quarto, è ancora fascista, e il Re è a Brindisi. <<Noi siamo
all’inizio ma molte cantine del nord hanno molte etichette e una in più, solo per un affare limitato non può
far male, basta stare attenti. Potremmo pensare di aver
fatto il Cinque Rose per gli americani e basta, almeno
per il momento>> dice Salvatore con un tono velato di
attesa.
Pierino è rincuorato dalle parole di Salvatore, la
pensano più o meno allo stesso modo.
Poi raggiunge Lisetta nella loro camera e le ripete lo
stesso discorso fatto ai ragazzi, chiedendo la sua opinione.
Come sempre Lisetta rivela tutto il suo entusiasmo,
gli fa i complimenti per l’affare riuscito e ringrazia la
Madonna del Latte che anche questa volta ha fatto il
miracolo tanto atteso. <<Ma ci pensi?>> gli dice
<<Venderemo un bel po’ dei nostri vini proprio in quest’anno di grandi lutti e problemi. È fantastico!>>.
Ma lui la incalza <<E il nome inglese? Non sarà un
problema?>>.
<<Ma quale problema!>> risponde Lisetta <<Basta
con questo vecchiume! Ben vengano nomi nuovi, novità, il mondo deve aprirsi, dobbiamo togliere… estir221
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pare queste polverose ragnatele che riempiono i nostri
vuoti palazzoni, dove nulla cambia…>>.
Pierino la interrompe, ben sapendo che Lisetta può
trascendere e tirare per le lunghe quelle invettive contro ciò che definisce <<la stantia coperta medioevale>>.
<<Va bene Lisetta, però questo è il nome di un nostro vino. Noi che contatti abbiamo con l’inglese?>>.
<<E perchè io non lo parlo l’inglese? Magari poco>> risponde Lisetta <<ma lo capisco. Certo conosco meglio il francese che è una grande lingua, ma
l’inglese è facile, una grammatica semplice, lineare,
comprensibile da tutti, che s’impara rapidamente, almeno per i primi rudimenti. Sembra proprio la lingua
del futuro. E lo dico a malincuore per il francese. Però
occorre aprire gli occhi. Ma piuttosto tu che ne pensi?>>.
<<A me sembra una grandissima idea>> risponde
Pierino <<Ma sai com’è, a volte ci si lascia prendere
dall’entusiasmo, da speranze superiori a qualsiasi
realtà vera, e poi si finisce con l’averne paura>> esprimendo con aperta sincerità tutta la complessità intricata e pulsante delle speranze e delle paure di fronte ad
un futuro difficile ed ignoto.
<<Ma la senti dal cuore?>> gli chiede Lisetta.
Lui la guarda mentre scava dentro di sé <<Dal cuore? Sì certo, la sento dal cuore>> risponde con semplicità. Lisetta vede un lampo nuovo negli occhi del marito, il sorriso scanzonato, semplice, l’allegria contagiosa, il Pierino di sempre, anzi il Pierino di allora, di
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prima della guerra. È solo un attimo, ma basta a toglierle ogni dubbio.
<<E allora vieni qui e dammi un bacio, perchè se
una cosa viene dal tuo cuore, che è così semplice e vero, come può essere sbagliata?>>.
L’indomani Pierino organizza una riunione generale in cantina per la verifica dei preparativi, del lavaggio delle bottiglie, dei sugheri, dei tappatori, della ceralacca, delle botti, dei cartoni, della filiera del
lavoro, insomma di tutto. Una verifica del vino, e poi
tutti a casa.
Martedì 14 marzo 1944, alle 17,30 raduna tutti i
suoi operai. Attende che siano riuniti e che facciano silenzio, poi dice solo <<Ragazzi cominciamo. Da domani imbottigliamo sul serio>>.
L’indomani alle 6 è ancora buio e già l’attività in
cantina ferve. Il tintinnìo delle bottiglie arriva in strada
attraverso le finestre, insieme col bagliore delle lampade accese dovunque nella sala dell’imbottigliamento,
dove ben tre squadre di donne sfornano bottiglie tappate ed etichettate ad un ritmo elevato. Fuori piove, il
levante si è abbattuto con forza sul Salento facendo
ululare gli ulivi. In piazza, in paese, si diffonde la notizia e numerosi curiosi passano davanti alle mura della cantina e si affacciano ai cancelli posteriori per capire cosa sta succedendo realmente. Molti si allontanano scrollando la testa, pensando che come al solito
Don Pierino se n’è inventata una delle sue.
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Lisetta tiene tutto il giorno un’imposta aperta, nonostante il freddo e i camini accesi, e i bracieri che ardono in tutte le stanze, per vedere se il vapore continua
ad uscire dai comignoli, segno che il lavoro continua.
Pierino si fa vedere ad ora di pranzo per prendere un
boccone. Lei chiede come sta andando. Lui risponde
ridendo con gli occhi <<Considerato che siamo stati
bombardati, che eravamo senza bottiglie e senza carta,
con la ceralacca di 6 anni fa… va benissimo, anzi
splendidamente. Il ritmo è buono e le donne sono brave con le bottiglie, dovremmo farcela a rispettare i
tempi della prima consegna>>.
Lisetta non vede quello sguardo da alcuni anni, certamente da quando è cominciata la guerra, anzi dal dicembre del 39, quando gli aveva detto che era incinta
di Maria Vittoria. La cosa che la stupisce è che, come
d’incanto, tutta la tensione che offuscava gli occhi castani di suo marito da quasi un anno ora è scomparsa.
Lisetta aveva visto quella luce nei suoi occhi molti
anni prima. Lui aveva non più di quindici anni, lei era
già una donna di quasi diciotto. Si erano incontrati nel
consueto ricevimento che i Leone tenevano nel loro
palazzo di Salice ogni anno subito dopo l’Immacolata
Concezione, a dicembre. Lei ormai stava con le donne.
Ma quella sera il protagonista era proprio lui, Pierino,
per l’ultima pazzia che aveva combinato.
Si era messo in testa di provare a partire per un viaggio in giro per il mondo con una mongolfiera dopo
aver letto un libro di Verne. Zitto zitto aveva raccolto
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sacchi di carbone, pezzi di vecchia tela da carretto, lenzuola bucate e aveva cucito tutto insieme con lo spago.
Poi si era fatto dare una grossa bacinella dalla domestica, aveva legato il tutto in una leggera rete che aveva comprato in merceria e si era messo a raccogliere
legna.
Un pomeriggio, certo che il giardino fosse deserto,
aveva tirato fuori la mongolfiera piegata sotto un cespuglio e aveva acceso il fuoco. Dopo qualche minuto
la nonna Rosina, che si era recata in visita da alcuni
amici nel palazzo di fronte al giardino, aveva dato l’allarme. Una grossa lingua di fuoco lambiva gli alberi e
la colonna di fumo che si sprigionava minacciava la casa. I primi domestici accorsi con i secchi d’acqua avevano trovato Pierino, mezzo bruciacchiato, che tentava
di salvare ciò che restava della mongolfiera battendole
sopra con dei fuscelli.
Quella sera Lisetta aveva visto Pierino senza sopracciglia e con il cranio rasato perchè metà dei capelli erano stati bruciati dal fuoco; contrito dalle punizioni, addolorato per le canzonature dei compagni, ma con in
fondo all’anima ancora vivo il sogno vissuto, l’illusione ancora infantile di un obiettivo ambizioso cui si era
dedicato con cura, un gioco più vero del gioco, che era
finito male, ma era stato grandioso da vivere.
Quando la madre gli aveva chiesto di spiegare alle
signore presenti il motivo della sua trovata, la luce nei
suoi occhi brillava ancora di piena volontà. La madre
gli aveva fatto promettere per la centesima volta che
non l’avrebbe più fatto, e lui aveva promesso, ma quel225
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la scintillante determinazione delle iridi prometteva
uno spirito indomito nella ricerca dei suoi obiettivi.
Lisetta aveva provato simpatia per Pierino, nulla di
più.
Molti anni dopo sua madre aveva deciso di combinare il matrimonio tra lei e Pierino, un matrimonio
grandioso, quello che sarebbe stato il matrimonio del
secolo per il paese. Lisetta non si era sentita di opporre una grande resistenza, se non quella di prammatica in questi casi. Pierino le piaceva, inutile negarlo.
Quando si erano incontrati in seguito lo aveva visto
sereno, senza eccessivi timori. Aveva deciso di conquistarlo, matrimonio o no.
Non era stato difficile: nel suo sangue scorreva Negroamaro puro.
Poi, con gli anni, quello sguardo si era intiepidito
per ricomparire solo in rare occasioni, in slanci successivi, sostituto dalle incombenze quotidiane, dalla
vita che scorreva senza eccessive fatiche. Lei aveva imparato a conoscere Pierino a fondo, ad amarne gli slanci e a non contraddire le sue imposizioni che, doveva
pur riconoscere, non erano senza ragione.
Eppure spesso riusciva a sorprenderla.
Quella volta che erano andati a Parigi, per esempio.
Prima aveva cercato di convincerlo a dedicarsi una vacanza, poi aveva implorato, supplicato perfino. Non ottenendo risultati, lo aveva affamato. E allora lui si era
convinto rabbuiandosi terribilmente. Le aveva fatto anche una scenata. L’aveva accontentata, ma lei ormai
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non voleva più partire, temeva che lui le avrebbe rovinato la vacanza. Lui aveva insistito: <<Adesso si parte
e basta!>>.
Pierino l‘aveva stupita perchè man mano che si allontanavano da Salice rifioriva e diventava più gaio.
Aveva fatto molte conoscenze in giro per Parigi, e si faceva merito per aver convinto un enotecario a comprare alcune bottiglie del suo Primofiore dopo un’accesa
degustazione all’interno del negozio. Pierino non l’aveva mai ringraziata, non era nel suo carattere, ma la
gioia che le aveva dato in quel viaggio era stata più di
un grande regalo, quasi un secondo viaggio di nozze,
nonostante fossero con i bambini.
Venerdì 24 marzo 1944 sei carri colmi di casse di
vino raggiungono il molo del porto di Brindisi, dove i
camion alleati sono pronti a caricare le bottiglie per
portarle a nord, verso il fronte. Dietro i camion viaggia
Pierino, a bordo dell’Astura. Scendendo dall’auto vede
il Maggiore Pietropaolo che ispeziona il carico man
mano che viene trasferito dai carri ai camion. Si scambiano una vigorosa stretta di mano.
<<Allora ce l’ha fatta, eh Avvocato?>>.
<<Sì, ce l’ho fatta. È una grandissima soddisfazione. Stiamo ancora imbottigliando e continueremo ancora per una quindicina di giorni, lavorando anche sabato e domenica. Gli operai si riposeranno dopo, quando l’imbottigliamento sarà finito>>.
<<Devo complimentarmi con lei, le bottiglie sono
perfette e l’intero carico è una bellezza. Arriverà a de227
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stinazione senza che se ne rompa nemmeno una>>.
In quel momento arriva trottando anche l’Avvocato
Russo che saluta il Maggiore e abbraccia Pierino. Poi
si ferma a guardare le casse che passano di mano in
mano per raggiungere i camion e, girandosi verso
Pierino, dice: <<Se non avessi vissuto quest’avventura
insieme a te non avrei creduto che si potesse realizzare. Complimenti Pierino>>.
Pierino rimane chiuso in sé stesso qualche istante ad
osservare le casse. Poi si riscuote e riponde: <<No, no,
grazie a te, grazie al Maggiore e grazie anche a tutti
quelli che hanno lavorato e che stanno ancora lavorando. Grazie alle vigne, ai contadini, insomma a tutti.
Arrivare qui non è stato né semplice né privo di fatica
né, per la verità, senza preoccupazioni. E sto già pensando ai problemi di domani e di dopodomani. Ma devo ammettere che ho avuto una bella soddisfazione,
una volta tanto!>>.
<<Ho sentito il Generale ieri>> dice Pietropaolo
<<e mi ha chiesto di inviare un paio di casse di vino ad
alcuni suoi amici di New York, ho il suo permesso
Avvocato?>>.
<<Ma la prego>> ringrazia Pierino <<sono a vostra
disposizione>>.
<<Allora d’accordo. Procedo e speriamo che ne
vengano buone nuove. Nel frattempo quando ci vediamo per le altre?>>.
<<Spero di consegnare la seconda tranche il 3 maggio, se tutto va bene. Sto accelerando la produzione,
acquisto esperienza di giorno in giorno. Dovremmo
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farcela, comunque la chiamerò per conferma entro la
fine di questo mese>>.
<<Allora d’accordo>> risponde il Maggiore tendendogli la mano ossuta dalle dita lunghe. Si stringono forte la mano e il Maggiore si allontana per tornare
al suo Comando. Pierino e l’Avvocato Russo guardano
i camion allontanarsi e i carri tornare vuoti a Salice.
<<Vuoi un passaggio?>> chiede Pierino a Russo.
<<No grazie, voglio fare due passi e pensare a tutta
questa faccenda. Devo dirti la verità Pierino: quando
mi hai chiesto di darti una mano con le bottiglie vuote
l’ho fatto con piacere e anche perchè era un affare, ma
ho pensato che era un pazzia e tu un entusiasta votato
alla rovina. Non ti offendere, ma era veramente un’idea incredibile. Quasi una follia>>.
Pierino ride: <<Non mi offendo, a parte il fatto che
me lo dicono tutti, e ormai ci ho fatto l’abitudine, a
volte mi sento un po’ pazzo pure io>>.
<<E adesso devo riconoscere di avere un debito verso di te>> dice Russo <<Sai, io ho sempre pensato che
questo mondo fosse troppo difficile da cambiare, da
combattere. Che le azioni individuali non portassero
mai a nulla. Tu invece mi hai dimostrato il contrario.
Che poi è anche quello che mi dice sempre mia moglie,
che adesso non la finirà più di insistere che vale la pena di combattere per migliorare questo mondo, anche
a costo di passare per dei visionari. Dice che se si hanno grandi sogni, allora si possono fare grandi cose.
L’importante è non spegnerli, non lasciare che passino
senza crederci>>.
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<<Per la verità non basta affatto crederci. Bisogna
anche lavorarci, e a volte falliscono>> commenta
Pierino <<La cosa importante è risollevarsi sempre.
Non sempre riusciamo a realizzare i sogni ma, quando
capita, allora abbiamo trovato il nostro posto nel mondo. E dobbiamo tentare. Ma il tuo sogno qual’è?>>.
<<Ma, sai, vorrei darmi alla politica… ma poi mi
dico che ci sono troppi draghi in giro, e iene e squali,
non vale la pena… non so se ne ho la stoffa, potrei
uscirne a pezzi>>.
<<Beh, prima o poi succede a tutti di essere fatti a
pezzi… E allora? Ne vale sempre e comunque la pena,
credimi>>.
Alla fine del 1944 il marinaio La Manna è a bordo
del <<Baionetta>>, ancorato nel porto di Brindisi.
Stanno facendo bunkeraggio e lui è in attesa che la barca di servizio della petroliera statunitense si stacchi dopo aver terminato il pompaggio dell’olio combustibile.
Nel frattempo fuma una sigaretta americana appoggiato alla battagliola, lontano dal bocchettone di ingresso
del fuel. Vede il Comandante arrivare sottobordo con
una jeep, insieme al Primo Ufficiale. Sorridono mentre
salgono sulla passerella che porta a bordo. Salutano la
bandiera e gli passano davanti. La Manna sente il
Comandante dire al Primo Ufficiale: <<Proprio un bel
pranzo. L’Ammiraglio si tratta bene con tutti i suoi ufficiali. Io non assaggiavo un pecorino così buono da almeno cinque anni. Ma la sorpresa più grande è stata il
vino. Vedo in tavola una bottiglia di rosato, che già mi
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stupisce alquanto, con un nome inglese. Allora chiedo
se in America si produce molto vino. Loro sorridono in
modo beffardo. Ma ormai, amico mio, ci siamo abituati, non è vero? Mi dicono che la California produce un
po’ di vino, ma che il Five Roses che ho bevuto non è
stato prodotto negli States. Allora mi faccio dare la
bottiglia dal cameriere e vedo che le scritte sono in italiano, il vino però si chiama Five Roses, e poi leggo
che l’hanno fatto qui, carissimo De Lorenzi non ci crederà, viene da una cantina a trenta chilometri da qui,
forse trentacinque, non di più. Eh sì, caro mio, giuro
che ho visto più cose strane in questi anni di guerra che
in vent’anni di onorato servizio nella Regia Marina.
L’Italia sta proprio cambiando, glielo dico io caro De
Lorenzi, sta cambiando tantissimo, e rapidamente anche. L’Ammiraglio vedendo il mio sconcerto mi ha arringato dicendomi <<Comandante, abbiamo scoperto
presto che l’Italia è una nazione strana, tutto fa tranne
che aiutare i suoi figli migliori, le idee più brillanti e il
sacrificio nel lavoro. Chi ha capacità se ne va, e chi resta è condannato a restare com’è. Eppure è un vero
peccato, mi creda. Ma voi non ve accorgete. Secondo
lei cambierà?>>; che potevo dire? Ho detto che speravo di sì ma ci credo poco, in effetti. E lo sa De Lorenzi,
quel vino che io non avevo mai assaggiato prima, è ottimo, veramente ottimo, tra i migliori che mi è capitato di bere negli ultimi anni. Ma lei ha mai sentito dire
che in Puglia si producono ottimi vini? Ma che, dovevano venire gli americani a scoprirlo?>>.
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L’anno successivo Pierino approfitta della riapertura delle vetrerie toscane per produrre il Five Roses annata 44 dotandolo di una lunga retroetichetta, che occupa quasi tutta l’altezza della bottiglia e porta in alto
il numero progressivo di produzione. Sulla bottiglia
numero 570702 si legge: <<Rosè riserva superiore, ricavato da poderi selezionati e da annate speciali,
Stravecchio naturale di oltre gradi 14 di color rosa antico, di gusto e profumo tutto particolare, asciutto pieno, indicato sugli antipasti e piatti forti, è richiesto e rinomato in Italia e all’Estero. Viene imbottigliato all’origine ed esclusivamente in confezioni classiche bordolesi e mezze bordolesi da ml 720 e ml 320 dove continua ad invecchiare sino al giorno della vestitura. Non
va mai servito ghiacciato ma appena fresco a 14-15
gradi. L’eventuale velatura è la caratteristica di tutti i
vini ottenuti con lunga stagionatura naturale; in tal caso, prima della degustazione, la bottiglia dovrà essere
lasciata in posizione verticale, avendo cura di eseguire
la mescita con molta cautela.>>
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CAPITOLO 12
Epilogo
Maggio 2000.
Il sole del tardo pomeriggio illumina solo i tetti di
Salice lasciando il resto del paese nell’ombra che anticipa la sera. Piernicola esce dalla Cantina e sale in auto mentre i merli della torre centrale, sopra di lui, si infiammano di rosa luminoso.
A casa lo aspettano per cena, e non può tardare.
Trova tutti già in sala da pranzo. Alessandra, sua
moglie, suo padre Salvatore e sua madre Marisa, che
chiacchierano sulle ultime notizie del TG.
<<Che c’è di buono stasera?>> chiede sentendo improvvisa la fame che gli divora lo stomaco.
<<Per te poco, una bella insalatona e due uova sode>> risponde Alessandra <<se no nel giro di qualche
anno, a furia di andare al ristorante, ti trasformi in una
botte>>.
Piernicola un po’ deluso fa appena in tempo a cambiarsi per la cena e a tornare in sala da pranzo, dove
trova già tutti seduti che si servono delle portate.
Si versa un bicchiere di Five Roses e chiede le ultime novità.
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<<Niente di nuovo sotto il sole>> risponde Salvatore <<Cinque o sei guerre nel mondo, soldati dappertutto, qualche disgrazia e hanno cominciato a battere la gran cassa per questa storia della nuova moneta
europea. La storia pare che non insegni mai niente a
nessuno. È un vero peccato>>.
<<Ma a proposito>> interviene Alessandra rivolgendosi al suocero e contemporaneamente servendosi
dell’insalata con yogurt <<Piernicola non mi ha mai
raccontato di come lei papà ha lasciato l’insegnamento universitario per dedicarsi alla cantina>>.
Salvatore guarda sua moglie che sorride con un velo di malinconia. Poi sorridendo lui stesso alza la forchetta dicendo: <<Piernicola era troppo piccolo per ricordarsi, aveva forse quattro o cinque anni. È successo
intorno ai miei quarant’anni. Stavo a Bari nella facoltà
di scienze politiche. Ero assistente alla cattedra di storia del risorgimento. Mio papà Pierino si occupava della cantina sempre con grandissima efficienza. Non c’era bisogno di me, almeno così credevo. Ci vedevamo
spesso. Ogni quindici giorni facevamo una capatina a
Salice, e li trovavo tutti molto bene>>.
Salvatore si ferma e beve un sorso di vino. Alessandra capisce che non ha molta voglia di raccontare.
<<E dopo, che è successo?>> lo incalza comunque.
<<Che è successo Marisa? Fu per la nonna Rosina,
vero?>> riprende Salvatore cercando di ritrovare il filo dei ricordi.
<<Sì>> risponde Marisa <<cominciò da lì>>.
<<Insomma successe che papà mi chiamò al telefo234
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no, erano all’ospedale di Lecce perchè la nonna Rosina
aveva avuto un attacco e l’avevano dovuta ricoverare.
Papà mi disse di andare che forse era l’ultima volta che
la vedevo in vita. E così andai. Povera nonna Rosina,
era proprio uno scricciolo, così minuta, così anziana!
C’erano anche Arcangelo e la zia Virginia, una sorella
di papà. Andavamo e venivamo dall’ospedale, ci davamo il turno. Poi la nonna passò la crisi e papà la riportò
a Salice. Mi rendevo conto che era strano nei miei confronti, mi guardava come se volesse parlarmi, ma non
diceva nulla. Quando lo sentivo al telefono era sempre
triste. Ne parlai con Arcangelo che mi disse che papà
avrebbe voluto che cominciassi a prendere in mano la
cantina. Gli chiesi se ce la facesse ancora e lui rispose
di sì, ma forse sentiva l’età avanzare. Pensava che io
dovessi avere il tempo di prendere il testimone>>.
Finiscono di cenare in silenzio, mentre la televisione a volume bassissimo continua a proiettare le sue luci fosforescenti nella stanza.
Appena la cameriera ha terminato di sparecchiare la
tavola, Salvatore continua <<Insomma alla fine andai a
trovarlo in cantina. Ricordo che mi disse di aver calcolato quante bottiglie aveva prodotto la cantina in venticinque anni: 39 milioni, di cui almeno 16 con l’etichetta del Five Roses. Un numero che mi sembrò enorme>>.
<<E lo è>> interloquisce Piernicola <<un grande
successo internazionale>>.
<<Infatti>> prosegue Salvatore <<parlammo della
famiglia e dell’azienda. E poi finalmente mi disse che
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quello dov’era seduto lui era il mio posto. Nient’altro.
Non mi chiese cosa volessi fare. Non mi domandò che
idee avessi. Sapeva che doveva essere così da sempre,
che io stesso ero conscio di questo da quando ero ragazzino. Tacemmo entrambi, non c’era più niente da
dire>>.
Salvatore si accende un sigaro.
<<Cominciai a vedere il mio impegno all’università
in modo diverso. Ormai non m’interessava più molto,
ma ero ancora combattuto. L’anno dopo, al funerale
della nonna, papà disse qualcosa a proposito del fatto
che quando si perde un genitore, e si ha la fortuna di
non essere più giovani, si sente che il tempo scorre e
che è ora di farsi da parte, di lasciare il testimone. Mi
guardò, ma ormai tutti avevamo deciso. E così ci trasferimmo a Salice e cominciai a lavorare con papà, che
mi lasciò carta bianca quasi subito. Ebbe molto tatto, e
spesso gli piaceva viaggiare con me. Diceva che era un
piacere fare il turista visto che io mi occupavo del lavoro. E per la verità era un compagno di viaggio fantastico. Alla sua età si entusiasmava ancora per un nonnulla ed era curiosissimo>>.
Salvatore guarda Piernicola e sa che ha avuto fortuna, suo figlio lo ha seguito da subito nel lavoro in cantina, lasciandogli il tempo di dedicarsi anche ad altro,
alla presidenza della Camera di Commercio di Lecce,
agli altri incarichi di rilevanza nazionale ed internazionale. A vivere insomma al di là del puro lavoro.
Piernicola si è preparato con dedizione al suo ruolo
in azienda, forse perchè sente che è impegnativo reg236
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gere il peso di tanta capacità imprenditoriale. Ha seguito il padre coadiuvandolo appena conseguita la laurea in economia e commercio e si occupa della parte
commerciale. Anche Salvatore gli ha lasciato spazio da
subito, l’unico modo per un Leone de Castris di assumere il proprio impegno in pieno.
Novembre 2006.
<<Ciao papi, guarda che cosa ho fatto a scuola>>
dice la piccola Marialuisa a Piernicola che è appena
giunto a casa dal lavoro. Gli mostra un disegno della
cantina con la torre grandissima.
<<Bello!>> dice Piernicola, entusiasta <<come mai
hai disegnato la cantina?>>.
<<La maestra ha detto che dovevamo disegnare dove lavorano i papà>>.
<<Ah, bene! Hai messo anche le botti! Che brava
che sei!>>.
<<È piaciuto anche alla mamma>>.
<<Lo credo, e dov’è la mamma?>>.
<<Sta sistemando i giocattoli di Piersalvatore…
Aspetta, aspetta, ti devo chiedere una cosa>>.
<<Un attimo solo, saluto la mamma e torno, va bene?>>.
<<Va beneee>> dice Marialuisa un po’ sconsolata.
Dopo pochi minuti Piernicola ritorna e siede accanto a lei.
<<Allora, dimmi tutto, volevi chiedermi qualcosa?>>.
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<<Sì papi, è perchè ho disegnato la cantina che si
chiama come te e come me. Ma non capisco perchè…
è tua?>>.
<<È nostra>>.
<<E com’è che abbiamo una cantina tutta per
noi?>>.
<<È una lunghissima storia…>>.
<<Davvero? E perchè non me la racconti?>> chiede Marialuisa entusiasta, a lei le storie piacciono un
sacco. Ma da sola non è piacevole come quando è in
compagnia di Elo, il diminutivo familiare di Piersalvatore. <<Eeeelo veni, Eeelo, veni>>. lo chiama urlando a squarciagola. Un rumore di passi di corsa e compare Piersalvatore, suo fratello, biondissimo, che fa
oscillare i boccoli intorno alla testa. <<Che c’è?>>.
<<Veni Elo, che papi ci racconta una storia. Allora,
dai papi>>.
<<Ma bambini, è lunga e dobbiamo cenare>>.
<<E tu comincia, dai!>>.
<<Va bene, allora. Dovete sapere che il vostro bisnonno Pierino Leone de Castris…>>.
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