scrivere l`esilio. - E

Transcript

scrivere l`esilio. - E
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE
EN CO-TUTELLE AVEC L’UNIVERSITÉ DE
PARIS VIII-SAINT DENIS
* * *
ÉCOLE DOCTORALE EN ÉTUDES FÉMININES
LANGUES ET LITTÉRATURES COMPARÉES
SCRIVERE L’ESILIO.
Esilio, identità e lingua
in opere di scrittrici contemporanee.
Candidate
SECCARDINI Gabriela
Directeurs de recherche:
Prof.ssa Marina CAMBONI (Università di Macerata)
Prof.ssa Nadia SETTI (Université de Paris VIII-Saint-Denis)
Date de soutenance:
24/01/2008
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE
IN CO-TUTELA CON L’UNIVERSITÀ DI PARIS VIII-SAINT DENIS
* * *
DOTTORATO IN LINGUE E LETTERATURE COMPARATE
TESI DI DOTTORATO
SCRIVERE L’ESILIO.
Esilio, identità e lingua
in opere di scrittrici contemporanee.
DOTTORANDA
Gabriela Seccardini
Sotto la direzione delle relatrici
Prof.ssa Marina Camboni (Università di Macerata)
Prof.ssa Nadia Setti (Université de Paris VIII-Saint-Denis)
Anno Accademico
2006/2007
Alla mia Mamma
INDICE.
INTRODUZIONE
p.
1
PARTE I
QUADRO TEORICO-CONCETTUALE: FIGURE
DELL’ESPATRIO, CARATTERISTICHE DELL’ESILIO E
CATEGORIE INTERPRETATIVE
p.
11
1 - L’ESILIO
p.
13
1.1 L’esilio
p.
13
1.2 Migranti: esilio, emigrazione, espatrio
p.
17
1.3 L’esilio: “un grande tema letterario”
p.
24
1.4 L’esilio come condizione tra-due
p.
29
2 - MODELLI SPAZIALI DELLA CULTURA
p.
37
2.1 Tema della cultura e rappresentazione spaziale della cultura
p.
37
2.2 Il ruolo della frontiera
p.
49
2.3 Esilio, spazio e frontiera
p.
56
2.4 Lo spazio e le pratiche spaziali
p.
59
3 - IDENTITÀ, LINGUA E MEMORIA
p.
65
3.1 Identità multiple e transnazionalismo
p.
65
3.2 L’identità per i soggetti in esilio
p.
68
3.3 La lingua e lo spazio linguistico
p.
70
3.4 Lingue in contatto, bi- e pluri-linguismo, politica linguistica e
nazionalismi
p.
78
3.5 Lingua e colonizzazione
p.
82
3.6 Il tempo, l’assenza e la memoria
p.
88
3.7 L’esilio e la memoria
p.
102
SCHEMA DELLE CATEGORIE PER L’ANALISI DELL’ESILIO
p.
112
PARTE II
SCRIVERE L’ESILIO
p.
115
1 - NARRATRICI SULLE ORME DI SHAHRAZADE:
SCRITTRICI NORD-AFRICANE E MEDIO-ORIENTALI
CONTEMPORANEE
p.
117
1.1 Shahrazade
p.
117
1.2 L’analisi spaziale
p.
125
2 - IL SAPERE E LA SCRITTURA COME ESILIO PER MALIKA
MOKEDDEM
p.
131
2.1 Malika Mokeddem
p.
131
2.2 Ici/là bas
p.
132
2.3 “Le savoir est pour moi le premier exil”
p.
141
2.4 La serva e l’ospite
p.
146
2.5 Dalla lettura alla scrittura. Il deserto e il mare. La lingua.
p.
151
3 - LA SCUOLA, IL LUOGO COMUNE DI PARTENZA PER
L’ESILIO
p.
161
3.1 La scuola
p.
161
3.2 La strada, luogo di aggressioni
p.
171
4 - L’ESILIO NELLA LINGUA FRANCESE DI ASSIA DJEBAR
p.
175
4.1 Perché scrivere?
p.
176
4.2 L’esilio nella lingua francese
p.
181
5 - “LIFE IS TRESPASSING”. FATIMA MERNISSI E
L’ATTRAVERSAMENTO DEGLI HUDUD
p.
187
5.1 La donna dal vestito di piume
p.
187
5.2 La casa
p.
188
5.3 Lo spazio della narrazione
p.
196
5.4 L’harem e Shahrazade
p.
198
6 - “MY HOUSE HAD A MAGIC DOOR”: ELMAZ ABINADER,
DONNA ARABO-AMERICANA TRA DUE MONDI
p.
207
7 - GLI SPAZI DELL’ESILIO E DEL RITORNO DI DUE SCRITTRICI
IRANIANE: AZAR NAFISI E MARJANE SATRAPI
p.
217
8 - IL LUOGO COMUNE DEI DIRITTI UMANI
233
p.
8.1 Tre modi per affermare i diritti delle donne
p.
233
8.2 Affermare se stesse
p.
235
8.3 Denunciare la negazione dei diritti delle donne
p.
240
CONCLUSIONI
p.
251
BIBLIOGRAFIA
p.
257
SITOGRAFIA
p.
272
INTRODUZIONE.
Perché all’interno della scrittura dell’esilio, le scrittrici di cultura islamica
del Maghreb e della regione medio-orientale costituiscono un gruppo così
cospicuo? Che cosa determina i loro modi particolari di rappresentare la
condizione dell’esilio, così diversi da quelli occidentali? Perché tante donne
arabo-musulmane dichiarano di sentirsi costrette a scegliere l’esilio?
La risposta a questi interrogativi va ricercata nelle dinamiche socio-politiche
e culturali che, nel corso dei secoli, hanno interessato queste regioni. Le scrittrici
hanno ovviamente una precisa nazione d’origine, sono cresciute in uno specifico
contesto storico-culturale e nelle loro opere vi fanno continuo riferimento. Se
scelgono l’esilio è proprio perché vivono tale scelta con profonda convinzione,
che diventa presa di posizione di forte socio-politico e culturale.
Le donne degli ultimi decenni del XX secolo che vivono in Maghreb e in
Medio-Oriente si sono ritrovate ai margini degli spazi pubblici e politici e escluse
dai luoghi di potere. Di conseguenza, quelle tra loro che maggiormente si
rendevano e si rendono conto della propria condizione cercano di ribellarsi e di
affermare il proprio punto di vista sulla vita, la società, il paese e la cultura. Molte
tra queste si sono sentite costrette ad una forma di esilio intra-muros per sottrarsi
alle regole della famiglia, della tradizione e dello stato e guardare ad un altrove,
che potesse loro dare la speranza, se non la sicurezza, di vivere secondo le proprie
idee, le proprie aspettative di vita e per poter liberamente dedicarsi alla ricerca
della felicità personale.
Il fatto di scegliere un paese occidentale come luogo di accoglienza e di
esilio e la lingua di adozione come lingua in cui scrivere indica che le donne
originarie di queste regioni guardano all’Europa e/o agli Stati Uniti come luoghi di
diritti, libertà, democrazia, modernità. Questi paesi vengono scelti come luoghi
d’esilio perché percepiti come stati in cui le donne possono muoversi, esprimersi e
scrivere più liberamente. Le algerine Malika Mokeddem, Assia Djebar, Leila
Sebbar, la tunisina Fawzia Zouari e la fumettista iraniana Marjane Satrapi hanno
scelto la Francia come terra d’esilio. L’iraniana Azar Nafizi, la libanese Elmaz
Abinader e la marocchina Laila Lalami si sono recate negli Stati Uniti. Un’altra
scrittrice iraniana, Marsha Mehran vive in Irlanda. Questo elenco di scrittrici è
chiaramente limitato, diversi altri nomi vi si potrebbero difatti aggiungere.
Sono molte le donne che, emigrate, espatriate, fuggite, hanno sentito il
bisogno di scrivere la loro storia, sia in forma di autobiografia, sia in forma di
romanzo. La narrazione delle cause dell’esilio, come pure delle sue possibilità
nasce dal bisogno di raccontare soprattutto quello che si configura come momento
di rottura culturale. La patria di origine, la sua cultura, le sue tradizioni sono
sempre presenti nelle storie. Ma i racconti, autobiografici o di finzione, sono
scritti in inglese o in francese, a dimostrano del fatto che molte donne emigrate
sono state scolarizzate, oppure preferiscono, esprimersi nella lingua d’adozione
piuttosto che nella lingua madre.
Questo lavoro è articolato in due parti. Nella prima ho messo a fuoco gli
aspetti portanti dell’esilio come esperienza biografica, politica e letteraria. Nella
seconda parte ho messo in luce le rappresentazioni dell’esilio che emergono dai
testi di autrici maghrebine e medio-orientali, evidenziando tra l’altro i punti di
convergenza e le differenze tra le due regioni. Centrale, in entrambe le parti è la
connessione fra lingua e esilio.
Il metodo usato è quello comparatistico, che permette di avvicinare e far
dialogare testi che provengono da aree e paesi differenti e che sono scritti anche in
lingue diverse. Inoltre, affronto l’analisi dei testi servendomi di un approccio
interdisciplinare: il mio scopo, infatti, non è semplicemente di analizzare le
scritture dal loro punto di vista letterario, ma come testi della cultura secondo la
definizione del semiologo russo Jurij M. Lotman, ovvero come prodotti creati in
uno spazio, tempo e società definiti.
Da un lato, l’approccio comparatistico rispecchia la realtà delle letture
personali: secondo lo studioso italiano Armando Gnisci, la letteratura comparata
“è la sola disciplina concretamente capace di corrispondere al vissuto delle nostre
letture”. Allo stesso tempo, spiega Gnisci, viene incontro alla presenza plurale di
letterature del nostro tempo e rispecchia l’offerta letteraria alla quale ogni lettore
si trova di fronte entrando in libreria oggi. La mondializzazione non è, infatti, un
fenomeno che interessa solo l’economia o la politica, bensì tutti gli aspetti della
vita umana, tra cui anche la cultura e la letteratura, che è una delle principali
espressioni umane. L’approccio comparatistico concepisce la letteratura come un
fenomeno culturale mondiale, dunque come ‘letterature’ al plurale. La
letteratura/le letterature sono pensate come un fenomeno culturale transnazionale,
che ha bisogno di strumenti analitici che diano voce alla polifonia, al dialogo
interculturale. Inoltre, “la comparatistica induce a pensare ed educa a vedere la
letteratura/letterature come un immenso e multiplo discorso”. L’approccio
comparatistico così definito non persevera nell’eurocentrismo del comparatismo
degli anni cinquanta per considerare tutte le espressioni letterarie “alla pari/nelle
differenze delle culture attraverso il discorso letterario”. La comparatistica più
recente si è difatti arricchita dell’apporto fondamentale di nuove discipline quali
gli studi postcoloniali, culturali, gli studi di area e i women studies.
I più recenti studi di comparatistica ritenengono difatti elitario il tradizionale
approccio critico ad un canone letterario ristretto che teneva ai margini molto
produzione letterarie e culturale. Emblematico il testo Death of a Discipline, della
studiosa Gayatri Spivak, che ritiene morto il comparatismo tradizionale e propone
un nuovo discorso sul metodo degli studi di area, degli studi culturali e sulla
letteratura comparata. Spivak denuncia l’eurocentrismo degli studi comparatistici
così come erano stati definiti nel secondo dopoguerra e dichiarati nei rapporti
dell’ACLA (American Comparative Literature Association) anche se nel terzo
rapporto, del 1993, il Presidente Berheimer rimetteva in discussione i principi e
gli interessi della letteratura comparata inclusi nei primi due rapporti
dell’Associazione (il primo del 1965 e il secondo 1975). Spivak sostiene la
necessità di sviluppare un metodo comparatistico capace di dare voce e descrivere
la realtà mondiale e mondializzata e di creare ponti tra le varie parti del mondo.
“Attraversare i confini” è per la studiosa la vera essenza del nuovo comparatismo.
Si tratta di un attraversamento di confini non solo tra le varie letterature e culture,
ma anche tra le varie discipline. La metafora dell’attraversamento si applica anche
a una comparatistica, rappresentata come disciplina che riconfigura e ripensa
continuamente se stessa e i propri confini. Secondo Spivak, il rinnovamento del
comparatismo è una questione etica, cioè riguarda il modo di considerare le opere
provenienti dalle varie aree geografiche della terra. Il comparatismo deve, in
sostanza, abbandonare l’ottica eurocentrica, o occidentale e farsi più democratica,
facendo dialogare insieme le scritture di qualsiasi origine. Inoltre, è una questione
etica perché la polifonia di voci e idee rende esplicito che la vita, la politica, la
società, la cultura, e la letteratura non sono fatte di certezze. Propone così una
disciplina che si faccia modello etico di una realtà fondata sul dialogo e
sull’ascolto reciproco: “lasciamo che la letteratura ci insegni che non vi sono
certezze, che il processo è aperto e che è salutare che sia così”.
Il dialogo a più voci è salutare perché mostra più vie, più punti di vista e
aiuta a allargare la mente e a far progredire l’umanità. Se la letteratura è “maestra
di finesse umana”, come la definisce Josif Brosdkij, ogni scrittura letteraria è una
voce che si aggiunge al dialogo dell’umanità, apportandovi l’eccezionalità di
un’esperienza personale e di donare un insegnamento a chi legge. Può trattarsi di
insegnamenti morali, come pure di condivisione di esperienze. Le voci delle
donne scrittrici qui analizzate narrano realtà spesso sconosciute o conosciute solo
superficialmente e attraverso canali a volte non sufficienti a cogliere tutte le
sfaccettature di quella realtà.
La narrazione e il dialogo tra le narrazioni aiuta anche a stabilire scambi,
contatti e relazioni che vanno a incidere sull’identità degli individui che leggono.
La studiosa americana Susan Stanford Friedman definisce la narrazione “a
multiplicitous form of meaning-making thought”. La narrazione, asserisce, è alla
base della formazione dell’identità dei soggetti:
identity is literally unthinkable without narrative. People know who they are through
the stories they tell about themselves and others.
Inoltre, i testi narrativi costituiscono dei documenti di primaria importanza
nell’espressione della cultura da cui si originano:
narrative texts – whether they are verbal or visual, oral or written, fictional or
referential, imaginary or historical, constitute primary documents of cultural
expressivity. Narrative is a window into, mirror, constructor, and symptom of
culture. Cultural narratives encode and encrypt in story form the norms, values, and
ideologies of the social order.
Seguendo l’insegnamento di Friedman, si è cercato di basare questo lavoro
anche su un altro tipo di dialogo, quello tra teoria e narrativa. Ciò significa che,
laddove le teorie mutuate dalle scienze umanistiche e sociali non risultavano
sufficienti a spiegare tutti gli aspetti dei testi analizzati, si è fatto ricorso ad altri
testi letterari per ampliarle.
La letteratura comparata, inoltre, si propone come metodo che ricerca i
‘luoghi comuni’ delle letterature del mondo, sviluppa cioè un discorso attorno alla
polifonia, al dialogo tra i mondi e ne ritrova le somiglianze e le affinità nella
distanza, nelle differenze. Come spiega Édouard Glissant, scrittore e critico
antillano, capita che a volte si legga in un giornale o in un libro di origine lontana
la stessa idea che si era pensata: questo accade perché, in fondo, le esperienze
umane, con tutte le particolarità del luogo e del momento, sono simili ovunque.
Pour moi les lieux communs ne sont pas des idées reçues, ce sont littéralement des
lieux où une pensée du monde rencontre une pensée du monde. Il nous arrive
d’écrire, d’énoncer ou de méditer une idée que nous retrouvons, dans un journal
italien ou brésilien, sous une autre forme, produite dans un contexte différent par
quelqu’un avec qui nous n’avons rien à voir. Ce sont des lieux communs. C’est-àdire, les lieux où une pensée du monde confirme une pensée du monde.
Nel presente lavoro, ho cercato di isolare dalle letture i vari ‘luoghi comuni’
in cui si ritrovano le scrittrici prese in considerazione. È la condivisione dei
discorsi quella implicitamente contenuta nella locuzione proposta da Glissant.
Attraverso l’analisi dei testi, ho voluto mostrare come le autrici propongano,
attraverso percorsi di scrittura personali, delle idee e delle rappresentazioni
dell’esilio che possono essere condivise in più regioni e aree del mondo, nel caso
specifico il Maghreb e il Medio-Oriente. Luoghi comuni risultano la lettura e la
scrittura, unificabili nel bisogno di narrazione che emerge dalle produzioni delle
scrittrici. Attraverso la costruzione del dialogo tra i testi delle autrici qui
analizzate emergono anche luoghi fisici comuni, come la casa e la scuola, punti di
riferimento fondamentali per queste donne.
La ricerca dei ‘luoghi comuni’ permette di ricostruire dei punti di analogia e
le modalità dello “stare insieme alla pari/nelle differenze” dei differenti testi e
degli autori e delle autrici. Il mio lavoro critico, quindi, è consistito nel far
dialogare voci diverse e di ravvicinare le esperienze grazie a questa
comunicazione a distanza.
A questo dialogo letterario comparato è poi affiancato un approccio
interdisciplinare, fatto che permette di inserire nella lettura, delle scritture come
della realtà, più punti di vista, che corrispondono alle varie discipline utilizzate a
supporto all’interpretazione dei testi, che in questo modo non vedono separato il
loro rapporto con la vita, i luoghi, gli eventi storici. Ogni disciplina introduce,
infatti, un punto di vista differente, dando un più ampio orizzonte
all’interpretazione degli eventi e apportando le proprie competenze specifiche.
L’interdisciplinarietà, come la comparatistica, è dunque un approccio
fondamentale particolarmente per quanto riguarda la tematica al centro di questo
lavoro. L’esilio, infatti, ha a che fare con tutti gli aspetti della vita di una persona.
L’esilio è una questione politica, in quanto la persona si ritrova a dovere vivere e
lavorare in un ambiente spesso molto diverso da quello in cui è nata, vissuta e al
quale è abituata. È una questione sociale e culturale, perché l’esilio catapulta un
individuo in una società e in una cultura con leggi, regole, comportamenti e
pensieri a volte in netto contrasto con quelli che abbandona. È una questione
geografica, perché l’esilio implica sempre un movimento (o, come vedremo,
anche una limitazione al movimento), un attraversamento di territori e di frontiere,
e conduce l’esiliata/o a dover interagire con un differente spazio/luogo e il suo
clima (geografico, ma anche umano, sociale, culturale ecc.). È una questione
linguistica, perché nella maggior parte dei casi l’esilio comporta uno spostamento
da una nazione ad un’altra, complicato dal fatto che si è costretti a vivere a
contatto con una società che spesso non parla la stessa lingua. Tante sono dunque
le discipline che concorrono ad un’esauriente spiegazione del fenomeno
dell’esilio.
Questo lavoro si concentra su scritture di donne e si avvale di alcune teorie e
approcci sviluppati nell’ambito dei gender studies che, come asserisce Elena
Gajeri
costituiscono un’autentica frontiera del sapere contemporaneo il cui intento è
comprendere le differenti visioni del mondo e le diverse poetiche/politiche che
caratterizzano i discorsi degli uomini e delle donne. Se il femminismo ha insegnato a
guardare dalla prospettiva delle donne, i gender studies hanno minato il mito della
neutralità del soggetto e introdotto il concetto che ogni attività e pensiero umano è
sessuato.
Perciò definire la specificità dell’esperienza dell’esilio al femminile e
definire in cosa è affine e in cosa diverge dall’esperienza maschile costituisce il
nodo portante di questo lavoro.
Prendendo inoltre in esame scrittrici che vengono da regioni del mondo che
solo da qualche decennio si sono liberate dal giogo coloniale, si avvale
dell’apporto degli studi postcoloniali.
Questo lavoro tocca anche alcuni spetti del discorso geo-politico e dei diritti
umani. Gli studi sui diritti umani costituiscono una disciplina di recente
istituzione, la cui necessità è stata sentita a causa degli enormi sconvolgimenti che
stanno avvenendo sul palcoscenico planetario. Le guerre, con il loro lascito di
prigionieri, torture, rapimenti, sparizioni, profughi, rifugiati; la globalizzazione,
con i flussi migratori, che sono diventati una delle caratteristiche più rilevanti
dell’assetto mondiale contemporaneo, sono tutti fattori che hanno fatto sì che i
riflettori fossero puntati sulla questione dei diritti umani e sull’importanza di
trovare accordi e protocolli sovranazionali che ne assicurino il rispetto da parte di
tutti gli attori della scena internazionale, a partire dai singoli Stati.
Gli ultimi anni hanno visto sorgere molti centri di ricerca sui diritti umani.
Si tratta di una disciplina trasversale, in quanto il discorso sui diritti umani
interessa a tutto tondo la vita degli individui. Si possono quasi pensare come una
prospettiva dalla quale leggere molti eventi e questioni sociali, tra cui la
letteratura. Leggere una scrittura dal punto di vista dei diritti umani significa
guardarla come un documento sociale e sociologico capace di portare alla luce,
raccontare e far conoscere ad un pubblico più o meno vasto un problema. Una
narrazione può essere interpretata come una denuncia di violazioni di diritti
umani, oppure come una richiesta di maggiore attenzione da parte della comunità
internazionale su un problema specifico di una o più persone, di un gruppo o di
una categoria. La letteratura diviene in questo caso testimonianza e atto d’accusa.
L’attenzione alla storia, alla politica, alla cultura delle regioni di origine è
fondamentale e senza questo approfondimento non è possibile capire le ragioni
della scelta dell’esilio, della nazione occidentale e della lingua occidentale.
Delle due parti di questo lavoro, la prima, Quadro teorico-concettuale:
figure dell’espatrio, caratteristiche dell’esilio e categorie interpretative, mette in
luce gli aspetti teorici per l’analisi delle scritture dell’esilio e le caratteristiche
dell’esperienza e della narrazione dell’esilio, anche in relazione ad altre figure
dell’espatrio. Si individuano le categorie teoriche da tenere in considerazione ogni
volta che si è di fronte a questa tematica. La seconda parte, Scrivere l’esilio,
costituisce la vera e propria analisi e il tentativo di far parlare direttamente i testi e
di farli dialogare tra loro, facendo emergere i luoghi comuni e le differenze che
caratterizzano ciascuna autrice.
Per concludere questa introduzione riporto infine le parole di Susan
Stanford Friedman, che condensano insieme l’importanza delle narrazioni e quella
della pratica critica, riaffermando l‘importanza culturale di chi delle narrazioni
discute e dialoga.
The stories they tell matter. So do the stories we tell about them.
PARTE I
QUADRO TEORICO-CONCETTUALE:
FIGURE DELL’ESPATRIO,
CARATTERISTICHE DELL’ESILIO
E CATEGORIE INTERPRETATIVE.
CAPITOLO 1.
L’ESILIO.
1.1 L’esilio.
Esilio. Una parola che tutti riconoscono, di cui tutti credono di saper dare
una definizione immediata. La diffusione di questo termine e di idee ad esso
legate fanno apparire l’esilio un’esperienza facile da situare, definire, riconoscere.
A prima vista, dunque, lavorare sull’esilio sembra un’impresa non troppo ardua,
ma quando ci si addentra nella questione e si tenta di dare una definizione
ragionata del termine, dei concetti che definisce e della realtà a cui si riferisce, se
ne riconosce la complessità.
Manca, difatti, una chiara definizione di esilio, di letteratura dell’esilio, e di
letteratura della migrazione. La stessa espressione “letteratura dell’esilio” è
ambigua. È un’espressione-cappello che dice poco, dal momento che le esperienze
dell’esilio sono molteplici e spesso molto personali. Le scritture di autori e autrici
in esilio, a loro volta, possono trattare dell’esilio come possono invece non
occuparsene esplicitamente. Nella definizione di letteratura dell’esilio è
importante, quindi, specificare se con questa espressione ci si riferisce all’esilio
come tema delle narrazioni o se, più in generale, si intende tutta la produzione di
autori e autrici che si trovano a vivere in una nazione differente dalla loro
madrepatria.
Per quanto riguarda gli studi sistematici e analitici sull’esilio ve ne sono
pochi e questi sono a loro volta non esaustivi, come ammettono gli stessi teorici.
In The Anatomy of Exile, Paul Tabori, studioso ungherese emigrato e residente a
Londra, che pure rifiuta di considerarsi “esiliato”, così definisce il termine:
An exile is a person compelled to leave or remain outside his country of origin on
account of well-founded fear of persecution for reasons of race, religion, nationality
or political opinion; a person who considers his exile temporary (even though it may
last a life time), hoping to return to his fatherland when circumstances permit—but
unable or unwilling to do so as the factors that made him an exile persist.
In seguito, tuttavia, Tabori stesso si è sentito insoddisfatto della definizione,
troppo stretta per inglobare tutte le esperienze reali dell’esilio.
La difficoltà nell’affrontare l’esilio in modo teorico analitico sta anche nel
fatto che negli scritti degli “esuli” l’esilio appare più come una auto-definizione
che come una categoria oggettiva, appare, cioè, come un’auto-percezione, una
descrizione che una persona si dà o rifiuta, in base alla percezione e all’immagine
di sé.
L’assenza di una definizione teorica del concetto di esilio e la qualità
soggettiva dell’esperienza dell’esilio sono il motivo per cui esistono numerose
definizioni letterarie dell’esilio, che possiamo trarre da scritture più o meno
autobiografiche. Forse ha ragione, allora, la scrittrice croata Dubravka Ugrešić a
sostenere che “l'esilio è una condizione letteraria; non solo fornisce una ricca lista
di citazioni letterarie, ma è una citazione letteraria”. Infine, la maggior parte dei
tentativi di definire l’esilio in modo analitico è stata fatta da scrittori e da scrittrici,
come testimoniano il testo Dall’esilio del poeta russo Josif Brodskij e Pour une
ontologie de l’exil della scrittrice ceca Vera Linhartová.
Restano comunque pochi i contributi teorici sull’argomento. La questione da
affrontare è se si possano utilizzare i termini esilio e esiliato/a in modo analitico,
scientifico, a prescindere dalle auto-rappresentazioni individuali e se sia possibile
uno studio sistematico di tali esperienze o se, al contrario, l’esilio è destinato a
rimanere un concetto “cappello”.
Sembra esserci una discrepanza tra l’esilio come categoria analitica e come
concetto teorico e le molteplici esperienze di esilio che si sono succedute nella
storia, sia individuali, sia di comunità intere.
Il termine esilio ha una forte connotazione storica, legato com’è ad eventi
che si sono succeduti nei secoli. L’esilio nasce come concetto politico, legato a
questioni di politica e di potere e si configura come l’allontanamento dalla casa,
dalla famiglia e dalla patria, spesso come forma di punizione da parte di un regime
oppressivo. Nell’antica Roma, uomini politici o intellettuali scomodi al potere
venivano banditi dal territorio romano e mandati a finire i propri giorni agli
estremi confini del mondo conosciuto, spesso in una zona di frontiera tra il mondo
‘civilizzato’ dei romani e quello dei ‘barbari’, dove non potevano più nuocere al
centro del potere. Celebri casi di esilio nel mondo classico sono stati, ad esempio,
quello di Cicerone o del poeta Ovidio. Un altro celebre esilio è quello cantato
nella Divina Commedia, nel XVII Canto del Paradiso, dove Dante profetizza a se
stesso il proprio esilio. Esilio per eccellenza, legato questa volta non al singolo ma
ad un’intera comunità, è quello del popolo ebreo, costretto a lasciare la patria e a
disperdersi su vasti territori. In questo caso, gli ebrei costituiscono una nazione in
esilio e il termine “esilio” si con/fonde con un altro concetto molto dibattuto
recentemente nell’ambito di studi letterari, studi culturali, scienze sociali e studi
della migrazione, cioè quello di “diaspora”. I due concetti spesso si
sovrappongono.
Le narrazioni letterarie raccontano di un esilio differente. Incentrate come
sono sull’esperienza del singolo, l’esilio viene descritto attraverso gli occhi di chi
lo vive o sente di viverlo. L’esilio che emerge dalla letteratura è strettamente
legato all’immagine che l’autore o l’autrice ha di sé come soggetto che si muove
nel mondo e alla direzione verso cui vuole orientare la propria vita. L’esilio ha a
che fare con le emozioni, i sentimenti, le paure e le angosce individuali; con la
possibilità di inserimento/integrazione in un nuovo contesto sociale, politico,
linguistico, possibilità legata sia al soggetto che si sposta, sia alla realtà che questo
incontra.
Per tentare di superare la confusione generata dalle varie connotazioni
assunte dal termine esilio intendo distinguere tra esilio come esperienza storica e
politica, da un lato, e, dall’altro, esilio come categoria concettuale e come
metafora dell’estraneamento, della disappartenenza e della deterritorializzazione,
similmente a quanto indicato da Avtar Brah nell’analisi di “diaspora”.
Ovviamente, le due possono sovrapporsi e riferirsi alle due facce di un’unica
esperienza, ma è bene tenere a mente tale distinzione per riconoscere le varie
componenti dell’esilio.
Per quanto riguarda l’esilio, dunque, non si può far altro che arrischiare una
teoria. “To ‘risk’ a theory, so it is with exile”, come afferma Angela Ingram
nell’introduzione al volume Women Writing in Exile.
In Questions of Travel, la studiosa Caren Kaplan spiega come il
postmodernismo abbia prodotto una lunga serie di discorsi che si riferiscono al
periodo modernista e che individuano nell’esilio la forma per antonomasia dei
movimenti degli individui e la loro scelta di abitare altrove. A causa di questi
discorsi della critica postmodernista, l’esilio, nel corso del tempo, ha finito per
assumere la connotazione di condizione artistica, in un certo senso bohemienne, di
poeti, letterati/e, artisti/e che di spostavano soprattutto verso le grandi capitali
europee, soprattutto Parigi, con Roma e Londra, considerate i maggiori centri di
produzione della cultura del tempo. L’esilio, in altre parole, è diventata un
“historical construct of modern displacement”, insieme ad altri termini, quali
viaggio, immigrazione, nomadismo e così via.
Travel is very much a modern concept, signifying both commercial and leisure
movement in a era of expanding Western capitalism, while displacement refers us to
the more mass migrations that modernity has engendered.
Nell’analisi di Kaplan, i discorsi postmodernisti hanno creato una sorta di
mito dell’esilio, per cui questo finisce per essere pensato come condizione del
singolo, piuttosto che di una comunità o di un gruppo. In genere, l’esiliato/a è un/a
intellettuale o artista, e la sua condizione è associata a sentimenti di nostalgia,
perdita e spaesamento. Inoltre, l’esilio viene narrato attraverso una forma artistica
e per questo ancora di più si configura come condizione eccezionale, lontana dalla
vita delle persone “normali”. Sembra che solo gli/le intellettuali o gli uomini e le
donne d’arte possano godere della prerogativa di esiliato/a, mentre questi/e sono
quasi immuni dallo stato di migranti e profughi.
Few of the writers included in critical assessments of Euro-American high
modernism are referred to as immigrants or refugees. Their dislocation is expressed
in singular rather than collective terms, as purely psychological or aesthetic
situations rather than as a result of historical circumstances.
In conclusione, l’immagine dell’esilio che deriva dai discorsi critici sul
modernismo è in un certo senso viziata dall’aura romantica che gli viene
associata, troppo distaccata dalla realtà dell’esperienza storica e politica degli
individui che vivono la condizione dell’esilio.
The modernist trope of exile works to remove itself from any political or historically
specific instances in order to generate aesthetic categories and ahistorical values.
1.2 Migranti: esilio, emigrazione, espatrio.
È necessario rivalutare gli aspetti meno romanzati e mitici che fanno parte
dell’esperienza dell’esilio, soprattutto perché il XX è stato un secolo di notevoli
flussi di persone da un punto all’altro del pianeta, che si spostano per i più svariati
motivi.
Migration, in its endless motion, surrounds and pervades almost all aspects of
contemporary society. As has often been noted, the modern world is in a state of flux
or turbulence. It is a system in which the circulation of people, resources and
information follow multiple paths.
Le agenzie di stampa, i bollettini di guerra, i telegiornali sono pieni di
riferimenti ad esuli, migranti, espatriati, profughi, sfollati e richiedenti asilo, senza
alcuna differenziazione tra le diverse situazioni che gli individui si trovano a
vivere e a causa delle quali sono costretti a cambiare luogo di residenza. Questi
stessi termini vengono talvolta utilizzati senza una chiara ed univoca definizione
per cui spesso si genera confusione.
Innanzitutto, si distinguono le varie figure in base alle motivazioni della
partenza dalla casa o dalla patria. Queste possono essere dovute a situazioni
politiche, sociali, culturali o personali, e nei vari casi gli individui vengono
differentemente connotati.
Secondo le definizioni che ne dà Amnesty International, i migranti sono
coloro che lasciano il proprio Paese per un lungo periodo di tempo. Fra questi,
alcuni decidono volontariamente di cercare un lavoro o una nuova vita altrove (i
migranti economici), altri, invece, scappano da situazioni di guerre, carestie o
catastrofi naturali, nel qual caso si parla di profughi. Si parla invece di rifugiati
riferendosi a coloro che sono costretti a fuggire perché hanno il fondato timore di
essere individualmente perseguitati dal loro governo o da altri gruppi organizzati
per motivi di opinione politica, religione, etnia, nazionalità, provenienza, sesso,
orientamento sessuale, o per altri motivi. Coloro che fuggono cercano quindi
protezione presso un altro governo; quando richiedono che sia loro concessa
questa protezione, cioè sia loro concesso lo status di rifugiato, si chiamano
richiedenti asilo. Gli sfollati sono coloro che a causa di guerre, carestie o catastrofi
naturali fuggono dalla propria abitazione e vanno ad abitare altrove, ma nello
stesso Stato.
Per Edward Said, profughi e rifugiati costituiscono una creazione del XX
secolo e sono termini con una forte connotazione politica.
Refugees […] are a creation of the twentieth-century state. The word “refugee” has
become a political one, suggesting large herds of innocent and bewildered people
requiring urgent international assistance […].
Gli espatriati, invece, sono persone che scelgono volontariamente di lasciare
il proprio paese. Gli analisti sono d’accordo nel riconoscer loro una connotazione
completamente diversa, non legata ad eventi politici né catastrofi naturali o
guerre. Per Said,
Expatriates voluntarily live in an alien country, usually for personal or social
reasons.
Anche Mary McCarthy, in “Exiles, Expatriates and Internal Emigrés”
discosta completamente l’espatriato dalle altre figure, considerandolo una sorta di
artista ed edonista, non interessato alle questioni politiche e non attaccato
sentimentalmente al proprio paese.
The expatriate is a hedonist. He is usually an artist or a person who thinks he is
artistic. He has no politics or, if he has any, […] he has acquired it from the country
he has adopted. The average expatriate thinks about his own country rarely and with
great unwillingness. He feels he has escaped from it.
Il termine esule, in tutto questo panorama, contiene connotazioni differenti.
Said, che pure riconosce che la persona a cui viene impedito di fare ritorno alla
propria casa possa essere considerata in esilio, sottolinea da un lato l’elemento
politico, legato all’origine storica dell’esilio come messa al bando, al confino da
un determinato territorio, e dall’altro come ciò che caratterizza l’esiliato sia la
condizione psicologica e sentimentale in cui si ritrova.
Exile originated in the age-old practice of banishment. Once banished, the exile lives
an anomalous and miserable life, with the stigma of being an outsider. […] “exile”
carries with it, I think, a touch of solitude and spirituality.
Said mette dunque subito in evidenza i sentimenti associati all’esilio, cioè il
senso di separazione, solitudine e perdita: “True exile is a condition of terminal
loss”.
Exile is strangely compelling to think about but terrible to experience. It is the
unhealable rift forced between a human being and a native place, between the self
and the true home: its essential sadness can never be surmounted.
In tutto questo panorama, e tenendo in mente la flessione verso l’aspetto
artistico ed edonistico assunto dalla parola esilio in riferimento al periodo
modernista, è necessario rivalutare il termine per utilizzarlo nelle istanze di oggi.
Le rappresentazioni dell’esilio nelle scritture contemporanee delle donne
maghrebine e medio-orientali non sono staccate dalla realtà che circonda le
autrici, anzi sono a questa intimamente legate. L’esilio, infatti, comincia proprio
dalle condizioni sociali, culturali e politiche in cui le scrittrici si trovano a vivere.
Le difficoltà, le privazioni, i soprusi che queste donne devono affrontare
quotidianamente le portano, alla fine, a vedere l’esilio come l’unica soluzione e
via per riprendere in mano la propria vita.
Non vi è nulla di estetico, edonistico o a-storico nel loro esilio. Al contrario,
per comprendere a pieno le loro ragioni è fondamentale immergersi nella storia,
nella cultura e nella società in cui sono nate e vissute.
Una delle più sistematiche e convincenti analisi dell’esilio è stata fatta dalla
scrittrice cèca Vera Linhartová, che propone, nella sua lingua di adozione, il
francese, una vera e propria ‘ontologie de l’exil’. Secondo Linhartová la nozione
di esilio ha senso solo nelle società sedentarie (non avrebbe ragione di esistere tra
le popolazioni nomadi). Nomade è colui che “change lieu sur cette terre, sans se
soucier d’usages et de convenances, car le choix du lieu est pour lui une question
de préférence et de nécessité intime, non d’obligation”.
Linhartová si addentra a spiegare il senso di esilio.
Que veut dire le mot ‘exil’? D’origine latine, exilium, il signifie littéralement: ‘hors
d’ici’, ‘hors de ce lieu’. Il implique donc l’idée d’un lieu privilégié parmi tous, d’un
lieu idéal et sans pareil.
Linhartová traccia l’evoluzione storica del concetto di esilio, strettamente
legato alla configurazione socio-politica e storica (come precisa l’autrice,
l’etichetta “esilio” spesso viene utilizzata in modo superficiale, ma in realtà
designa un insieme di situazioni, comportamenti, fenomeni molto differenti tra
loro). Linhartová opera una prima distinzione, di ordine storico, tra esilio forzato e
esilio volontario. All’inizio, nella Grecia e nella Roma classica, scrive, l’esilio è
stato istituito come pena, strumento di repressione, condanna. E’ questo il caso
dell’esilio forzato, che si configura come allontanamento obbligato dalla propria
comunità, esclusione e conseguente perdita di tutti i diritti di cittadinanza. In
tempi più recenti, nei regimi totalitari, il cittadino viene considerato proprietà
dello Stato, di conseguenza l’esilio diventa una scelta volontaria: l’esilio
volontario diventa strumento di ribellione allo stato. A sua volta, l’esilio
volontario può essere concepito in due modi differenti. Da un lato, può essere
inteso “comme une fuite devant une adversité et une menace immédiate; il sera
alors vécu comme un temps suspendu, provisoire, en attendant le retour
improbable vers le lieu et le temps d’avant la rupture”. È il caso di coloro che
fuggono a causa della guerra o di persecuzioni dovute a motivi ideologici e/o
politici, e che, nel tempo dell’esilio, sono sempre con lo sguardo e le orecchie
rivolti in direzione del proprio paese e attendono un cambiamento politico per
poter ritornare.
Di tale condizione Salman Rushdie scrive, utilizzando la lingua inglese
come per tutte le sue opere, nel romanzo Satanic Verses, in cui racconta la
condizione di un imam, un esule politico, nel suo appartamento di Londra. La casa
dell’imam è “a rented flat”, perché non ha intenzione di comprarlo e di
trasferirvisi. È una sala d’aspetto, un luogo di transito, in cui egli dimora nella
costante attesa del ritorno. L’esule vive in una condizione sospesa, sia nel tempo,
tra il passato e il futuro atteso con ansia, che nello spazio, nella terra straniera che
non vede l’ora di lasciare.
Who is he? An exile. Which must not be confused with, allowed to run into, all the
other words that people throw around: émigré, expatriate, refugee, immigrant,
silence, cunning. Exile is a dream of glorious return. Exile is a vision of revolution:
Elba, not St Helena. It is an endless paradox: looking forward by always looking
back. The exile is a ball hurled high into the air. He hangs there, frozen in time,
translated into a photograph; denied motion, suspended impossibly above his native
earth, he awaits the inevitable moment at which the photograph must begin to move,
and the earth reclaim its own. These are the things the imam thinks. His home is a
rented flat. It is a waiting-room, a photograph, air. (SV, pp. 205-206)
Una simile condizione, sentita intensamente come di transito, di
sospensione in attesa del ritorno, è vissuta come spaesamento. L’imam non pensa
ad alcun tentativo di integrazione, di avvicinamento, o comprensione del mondo
che lo accoglie e che è sentito come esterno/estraneo. Questo mondo straniero,
opposto alla patria, viene identificato dall’imam come il male, “the evil”:
The curtains, thick golden velvet, are kept shut all day, because otherwise the evil
thing might creep into the apartment: foreignness, Abroad, the alien nation. (SV, p.
206)
La città straniera è una “hated city” perché “[it] humiliates him by giving
him sanctuary, so that he must be beholden to it” (SV, p. 206). Ed è per l’esule “a
point of pride to be able to say that he remained in complete ignorance of the
Sodom in which he had been obliged to wait; ignorant, and therefore unsullied,
unaltered, pure” (SV, pp. 206-207). L’imam di Rushdie rappresenta la concezione
che l’Islam fondamentalista ha del mondo cosiddetto occidentale, ritenuto il
grande Satana, un mondo corrotto e perverso, una concezione che non esaurisce
certamente i punti di vista sul mondo esterno, la terra ospitante, ma che ben
illustra l’atteggiamento ideologico di distacco, separazione e giudizio dell’esule
verso la terra che lo ospita.
Tornando all’analisi di Linhartová, l’esilio volontario può, però, anche
configurarsi come “point de départ vers un ailleurs, inconnu par définition, ouvert
à toutes les possibilités; et dans cette optique, il sera vécu comme un temps plein,
comme un commencement sans but définit […] ”. Ma per Linhartová, in questo
secondo caso il termine esilio è inappropriato:
pour qui part sans regret et sans le désir de revenir en arrière, le lieu qu’il vient de
quitter a une bien moindre importance que le lieu où il va arriver. Il ne vivra plus
« hors de ce lieu », mais s’engagera sur le chemin […] vers cet ailleurs […]. Tout
comme le nomade, il sera « chez lui » partout où il posera le pied.
Per Linhartová questa condizione non può essere definita esilio, ma si tratta
di uno stato permanente di vita altrove. In questo caso il soggetto è piuttosto un
nomade, aperto a tutte le possibilità dell’altrove.
Manca invece ogni sorta di ottimista attesa dalla terra di arrivo per coloro
che subiscono l’esilio. Per Linhartová, infatti, nell’esilio subito, la “principale
caractéristique consiste sans doute dans l’expectative que le temps suspendu
prenne fin et dans l’espoir de retrouver le statu quo antérieur”.
La definizione del nomade che dà Linhartová è condivisa dalla filosofa
femminista Rosi Braidotti che, nel volume Nomadic Subjects, distingue le tre
figure di esule, migrante e nomade. Per Braidotti, il nomade è distinto sia
dall’esule che dal migrante perché nelle sue dislocazioni non è spinto da
motivazioni politiche né economiche. Il migrante si sposta per una ragione ben
definita, generalmente di natura economica, ed è una figura legata alle distinzioni
di classe nella società.
The migrant is no exile: s/he has a clear destination: s/he goes from one point in
space to another for a very clear purpose. Europe today is a multicultural entity; the
phenomenon of economic migration has created in every European city a set of
foreign “sub-cultures”, in which women usually play the role of the loyal keepers of
the original home culture. […]
The migrant bears a close tie to class structure; in most countries, the migrants are
the most economically disadvantaged groups. Economic migration is at the heart of
the new class stratification in the European Community today.
L’esule è invece, per Braidotti, colui che si sposta per ragioni politiche e
generalmente non si può associare alle classi sociali meno elevate.
By contrast, the exile is often motivated by political reasons and does not often
coincide with the lower classes.
Il nomade si oppone ad entrambe le figure perché contiene una nozione
positiva, ottimistica del futuro e della vita. L’identità del nomade è legata a questa
visione della vita e si configura come un’identità di transizione e cambiamento.
The nomad does not stand for homelessness, or compulsive displacement; it is rather
a figuration for the kind of subject who has relinquished all idea, desire, or nostalgia
for fixity. This figuration expresses the desire for an identity made of transitions,
successive shifts, and coordinated changes, without and against an essential unity.
In conclusione, ciò che caratterizza il/la nomade, è il movimento e
l’attraversamento delle frontiere, e la mancanza di una destinazione. Essere
nomade “is about crossing boundaries, about the act of going, regardless of the
destination”.
1.3 L’esilio: un grande tema letterario.
“Don’t you have any luggage?”
“No, I only have lifeage!”
Dubravka Ugrešić
Dubravka Ugrešić è una scrittrice croata nata nel 1949 a Zagabria, che vive
in una condizione di doppio esilio, di cui racconta in Vietato Leggere. Il suo è
esilio volontario innanzitutto: ha difatti lasciato la Croazia nel 1993 per attriti con
il governo Tuđman, che l’accusava di essere una “strega” e di tradire la Croazia.
A causa delle sue affermazioni e i suoi lavori di letterata contraria al
nazionalismo del governo, Ugrešić veniva accusata dalla propaganda di stato di
ledere gli interessi del paese, di istigare alla dissidenza e compromettere l’operato
della propaganda stessa. Come un tempo si bruciavano le streghe sul rogo, così la
propaganda nazionalista croata aveva cercato, con metaforici roghi o spingendoli a
lasciare il paese, di far tacere gli/le intellettuali che non si erano schierati/e dalla
parte del governo, non avevano accettato di scrivere articoli elogiativi sul suo
operato ed osavano apertamente sfidare l’autorità. Ugrešić era una di queste voci
dissidenti, denunciando l’assenza di un’informazione alternativa a quella del
governo e accusandolo di forgiare notizie false e di manipolarle a proprio favore.
Non solo roghi metaforici aveva usato la propaganda contro le donne
giornaliste e letterate che avevano osato contraddirla, ma nel 1992 sul settimanale
Globus, il giornalista filogovernativo Slaven Letica aveva accusato cinque
letterate croate, tra cui Ugrešić, di essere moderne “streghe”. Sentitasi
abbandonata nella sua lotta per la cultura, la verità e la coerenza professionale
anche da vecchi compagni e colleghi, nel 1993 ha preferito scegliere l’esilio: “I
invested my own money in the purchase of my broom. I fly alone”.
Ancora prima di essere un esilio volontario, una fuga dalla Croazia, quello
di Ugrešić è un esilio ‘forzato’ dalla sua patria, la ex-Yugoslavia. La scrittrice,
come molti altri connazionali, si è ritrovata privata del proprio Paese, scomparso
come realtà geo-politica e nazionale. Quella che era prima la Yugoslavia è
diventata ex-Yugoslavia, cioè un “ex-Paese”, che non esiste più. La exYugoslavia fa, così, parte di un più vasto “mondo ex”, come viene definito da
Pedrag Matvejevic.
Insieme con la Yugoslavia è finito anche un sogno, un progetto politico: il
progetto multinazionale della pacifica convivenza tra più popoli, tra più nazioni
della Penisola Balcanica. Dopo la scissione violenta e drammatica, i documenti, le
carte d’identità e i passaporti non sono stati più validi, sono diventati carta da
riciclare, così come da riciclare sono le identità che essi veicolavano. Identità che,
forse, sono da ricercare altrove, su altri spazi e, magari, sullo spazio della pagina
che si scrive. Se questa ricerca si trasferisce sulla pagina, la scrittura diviene
specchio di questa identità frantumata, spezzata, interrotta, che porta in sé anche il
sapore dell’esilio in cui viene creata.
Dubravka Ugrešić, in uno dei suoi ultimi libri, Vietato leggere, afferma che
“l’esilio è un grande classico tra i temi letterari” e prosegue:
La storia cristiana del mondo ha inizio con un racconto sull’esilio. Esilio è inoltre la
parabola del figliol prodigo, del tradimento, della cacciata e della punizione, il mito
del doppio e dello scambio dei ruoli, il mito di Odisseo, la storia di Faust e del
Diavolo che offre la possibilità di un’altra vita, esilio è la favola dell’allontanamento
da casa, la ricerca della strada di casa e il ritorno a casa (Il mago di Oz), esilio è la
fiaba russa di Ivan lo Scemo. (VL, p. 179)
L’esilio è un grande tema letterario che è stato affrontato innumerevoli volte
e sotto molteplici aspetti da una grande quantità di scrittori e scrittrici e poeti,
esiliati per motivi politici o che si sono allontanati dalla terra di origine perché
impossibilitati a restare da circostanze storiche o personali. La storia letteraria è
ricca di apporti di scrittori in esilio. Certo, non tutti hanno esplicitamente scritto
della loro condizione di esiliati, ma una gran parte lo ha fatto. La scrittura, difatti,
non può prescindere dalle condizioni di vita di chi scrive.
Come scrive Ugrešić, l’esilio è anche uno stile. A suo parere gli scritti degli
esuli sono riconoscibili per lo stile frammentario:
Esilio è inoltre uno stile, una strategia narrativa. Una vita in pezzi può essere
raccontata solo in frammenti (Rilke), e “certi generi e certi stili non possono essere,
per definizione, praticati in esilio”. (VL, p. 179)
Gli scrittori e le scrittrici in esilio vivono in una condizione di perdita della
patria, della famiglia, di una parte della propria esistenza, dovute ad una frattura
che si è verificata nella loro vita. La partenza è una frattura, che marca un taglio
con la linearità di un’esistenza prima della partenza. Come spiega Salman Rushdie
in Imaginary Homelands, quando si guarda al passato, che già in sé è un tempo
che non esiste più, per narrarlo, ciò non può avvenire che in modo frammentario, a
pezzi. Questo perché la narrazione coinvolge la memoria, che per definizione è
fallibile e, soprattutto, frammentaria. Uno scrittore o una scrittrice che scrive della
patria dal di fuori si ritrova, continua Rushdie, “to deal in broken mirrors, some of
whose fragments have been irretrievably lost”. Il racconto di una vita spezzata
parlerà ovviamente di fratture, cesure, di un prima e un dopo, ai quali sono
associati luoghi diversi. Il viaggio e la partenza costituiscono la prima, grande
cesura nella vita di un esule e la sua memoria sembra condannata a percorrere
cammini avanti e indietro dal luogo di partenza a quello dell’esilio.
“La storia cristiana del mondo ha inizio con un racconto sull’esilio”,
afferma Ugrešić. L’esilio, dunque, è un grande tema della letteratura già a partire
dai testi sacri, non solo nella Bibbia, quindi per il mondo cristiano, ma si estende
anche al mondo islamico attraverso i racconti contenuti nel Corano.
L’exil a toujours été au coeur de la création littéraire, comme il a toujours été une
des marques des sociétés humaines. Dès le premier couple humain, dès le premier
groupe social l’homme a connu l’exil.
È suggestiva l’analisi che dell’esilio fa Jean-Pierre Makouta-Mboukou, il
quale nell’introduzione al suo libro Littératures de l’exil specifica che il concetto
di esilio implica sempre una cacciata ed è perciò legato alla figura di un capo, di
un creatore. Il primo ad aver cacciato dalla terra qualcuno è stato Dio, il creatore,
che ha bandito Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre. Makouta-Mboukou estende
la nozione di ‘creatore’ fino ad includere, oltre ai creatori e alle creatrici
letterari/e, i “creatori politici”. In questo modo lo studioso comprende tutti i tipi
possibili di esiliato/a.
Initialement nous n’avons pensé qu’à l’exil des créateurs: écrivains, poètes. Chemin
faisant nous avons élargi la notion de créateurs en y englobant les créateurs
politiques, les bâtisseurs de cités ou d’empires, etc. L’exil des créateurs ainsi
envisagé fournit à l’histoire de l’humanité tous les types d’exilés possibles, comme si
par essence l’homme n’était destiné qu’à être déplacé, déchu du jardin originel,
chassé de son pays, de sa maison, coupé de sa culture, de sa civilisation, de sa
langue ; comme s’il était perpétuellement destiné à être exilé dans les territoires et
dans l’histoire des autres ; dans les idéologies étrangères (économique, sociale,
financière) ; dans les humanismes, c'est-à-dire, dans les visions du monde des
autres ; dans la foi et les spiritualités des autres ; pire, dans la langue des autres.
Comme si, en un mot, la vie de l’homme était une permanente a-culturation, à défaut
d’être une heureuse acculturation.
La storia biblica del genere umano comincia con la cacciata di Adamo ed
Eva dal Paradiso Terrestre. La Bibbia racconta anche di molti altri esili, di Caino,
punito per aver ucciso il fratello Abele; di Abramo, di Agar, di Giacobbe e
Giuseppe; l’esilio di Mosé e del popolo di Israele. Anche il testo sacro dell’Islam,
il Corano, parla di esilio, quello di Mohammed, che a causa dell’ostilità degli
abitanti di Mecca, di cui egli ha violentemente criticato la religione politeista,
deve abbandonare la città e scappare a Medina.
Nell’antichità, l’esilio continua ad essere un tema presente nella letteratura:
lo ritroviamo nei testi ispirati alla religione politeista greca, l’Odissea e l’Eneide;
in quelli dei poeti dell’antichità, come Ovidio, e via via nel corso dei secoli. Il
tema dell’esilio è diventato in questo modo un vero topos letterario e culturale.
Tutte le figure di esiliati sono accomunati da almeno un elemento: la
sensazione di instabilità, di ricerca costante, una sorta di erranza. Come afferma
Makouta-Mboukou, “Tout véritable exil est nécessairement une errance”:
L’espace de l’exilé est avant tout un espace qui ne conduit nulle part. L’exilé y erre.
Et cette errance est une véritable persécution. Tous les exilés dont nous avons étudié
l’espace l’ont ainsi ressenti : les enfants d’Israël et Moïse, Ulysse, Enée, Ovide,
Marot, Du Belley, Satan, Pèlerin, Rousseau, etc.
1.4 L’esilio come condizione tra-due.
L’esilio, cioè l’allontanamento dalla casa, dalla patria, dai familiari, la
perdita delle sicurezze legate al passato, si configura come la condizione di
sentirsi fuori, altrove, privati di qualcosa. Che ciò derivi da una scelta forzata o
volontaria, da un’esigenza personale o da costrizione esterna (causata da
condizioni socio-economiche, politiche, da guerre o altro), l’esiliato è colui o colei
che sente di vivere in una condizione sospesa e non definita, tra due terre, due
culture, due stati, due lingue. Talvolta anche più di due.
L’esiliato a volte ha la sensazione di essere un soggetto intrappolato in una
condizione in cui nessuna opzione è possibile: sulla nuova terra in cui si è esiliati
si prova nostalgia per la madrepatria e ci si sente stranieri, perché non si
appartiene a quel popolo, a quella nazione e a quella lingua. Ma allo stesso modo
si prova un senso di alienazione e spaesamento quando ci si trova in patria: anche
qui ci si sente estranei, stranieri, non si condividono le idee, le scelte, i modi di
vivere e di pensare della gente, si sogna di essere in un altro luogo, dove diverse
sono le regole e i valori della società.
Questo sentimento di spaesamento, per il quale non esiste soluzione, è
espresso da un personaggio di un’opera teatrale del drammaturgo francese
Bernard-Marie Koltès, dal titolo Le Retour au désert. In quest’opera ambientata in
una città della provincia est della Francia, Mathilde, dopo quindici anni passati in
Algeria, torna alla casa paterna, dove abita ormai il fratello Adrien con la sua
famiglia. Nata in Francia, ma avendo passato gran parte della sua vita ad Algeri,
Mathilde rivendica la libertà degli esseri umani di viaggiare, di spostarsi, di non
dover dimorare per sempre nel luogo in cui il destino li ha voluti far nascere.
“Mes racines? Quelles racines? Je ne suis pas une salade; j’ai des pieds et ils ne
sont pas faits pour s’enfoncer dans le sol!”. Ma allo stesso tempo, voler rifiutare le
radici causa un costante rifiuto del luogo in cui ci si trova nel presente, poiché tale
luogo risulta sempre essere inadeguato alle aspettative dell’individuo.
« Quelle patrie ai-je, moi? Ma terre, à moi, où est-elle ? Où est la terre où je pourrais
me coucher ?
En Algérie, je suis une étrangère et je rêve de la France; en France, je suis encore
plus étrangère et je rêve d’Alger. Est-ce que la patrie, c’est l’endroit où l’on n’est
pas ?... »
Mathilde vive una situazione di scissione e di doppio desiderio tra la Francia
e l’Algeria. Il suo spirito ricerca costantemente la tranquillità della patria, della
casa, ma nessuna delle due terre è in grado, da sola, di soddisfare tale aspirazione.
La patria cui non riesce ad approdare è forse proprio quella assente, l’altrove che
manca, quell’altrove che completa il qui e ora. Mathilde arriva così alla
conclusione che, forse, la sua patria, il luogo che è suo, in cui si riconosce, è
proprio il senso di mancanza, di incompletezza della sua condizione.
Tale sensazione risuona come un ritornello nella mente e nel cuore
dell’individuo in esilio, come in tutti coloro che si trovano “spaesati”. Il termine
italiano spaesato, come fa notare Iain Chambers, significa privato del paese, della
nazione, dunque straniero e perso: “To be a stranger in a strange land, to be lost
(in Italian spaesato – ‘without a country’)”. Gli/le spaesati/e gli/le esiliati/e si
riconoscono in questo ritornello, come quello che si ripete, con qualche leggera
variazione, nelle pagine di introduzione al volume A New World Order di Caryl
Phillips:
I recognise the place, I feel at home here, but I don’t belong. I am of, and not of, this
place.
Le opere da me prese in considerazione in questo lavoro disegnano una
mappa dell’esilio che si configura generalmente come allontanamento necessario
dalle condizioni socio-politiche e culturali di vita. L’esilio rappresentato in queste
scritture è sempre un esilio volontario, sebbene sia una scelta che costa dolore e
sofferenze. La scrittrice algerina Malika Mokeddem, ad esempio, sceglie l’esilio
come fuga per non farsi soffocare dal peso delle tradizioni e delle condizioni
sociali che considera insostenibili per le donne in Algeria. Altre scrittici e artiste,
come le iraniane Azar Nafisi e Marjane Satrapi, se da un lato abbandonano la
propria terra e la propria famiglia a causa della guerra, dall’altro, una volta che
questa è conclusa, non riescono più a vivere nelle condizioni socio-politiche e
culturali in cui ritrovano il loro paese e sono costrette ad auto-esiliarsi,
rispettivamente negli Stati Uniti e in Francia, per poter vivere nel rispetto delle
libertà personali.
Nel loro caso l’esilio è la condizione tra-due: è allo stesso tempo il nonessere-là e l’essere-qua. Prendendo in prestito le parole di Mokeddem, si può dire
che per queste scrittrici l’esilio è uno stato indefinito tra “ici” e “là bas”. L’esilio è
un evento fisico e psichico, è la condizione di trovarsi tra due spazi/lingue/culture.
Si è partiti ma la memoria è costante compagna, i ricordi della terra lasciata, della
casa, dei familiari sono sempre presenti. Inoltre, la terra di origine lascia sempre
un marchio in ognuno di noi, se non altro perché vi abbiamo trascorso l’infanzia,
che è il periodo in cui si formano i primi ricordi, si forma il carattere della persona
che sarà, gli affetti e le sensazioni. Si impara a conoscere il mondo attraverso i
suoni, le vibrazioni, gli odori del luogo di origine, come pure nella e attraverso la
lingua in cui si è immersi, che è poi la lingua materna. Nancy Huston, scrittrice di
origine canadese che vive da molti anni a Parigi e scrive soprattutto in francese,
così parla di questo marchio indelebile che ha lasciato in lei il grande Nord, la sua
terra di origine:
[…] mais alors pas du tout la même chose de passer dans un pays les vingt-cinq
premières ou vingt-cinq autres années de sa vie.
Le Nord, le Grand Nord a laissé sur moi sa marque indélébile.
A quoi ressemble cette marque, de quelle nature est-elle ? En quoi suis-je encore
l’enfant de mon pays ? En tout : pour la simple raison que j’y ai passé mon enfance.
Or rien ne rassemble à l’enfance. On n’en a pas deux, et, quoi qu’on en dise, même
avec la maladie d’Alzheimer, on n’y retombe pas.
Nell’esilio si giunge su un altro territorio, al quale non si arriva mai
veramente: “Tout le temps où je vivais en Algérie je rêvais d'arriver un jour en
Algérie, j'aurais fait n'importe quoi pour y arriver, avais-je écrit, je ne me suis
jamais trouvée en Algérie”. Cixous scrive il suo sentimento di disappartenenza, la
sua impossibilità di toccare, di raggiungere l’Algeria, pur essendovi nata e
cresciuta, quasi come in un incubo, uno sforzo continuo e, comunque, inutile.
Huston invece ci parla dell’impossibilità di raggiungere la ‘francesità’, ma con un
atteggiamento meno tragico, più tranquillo e rilassato; nelle sue parole non
sentiamo il dolore della separazione come in quelle di Cixous. Huston non vi
arriverà mai proprio perché non ha avuto un’infanzia francese.
Même si je vis en France depuis plus longtemps que, par exemple, mes enfants
(haha, ça va de soi), je ne serai jamais aussi française qu’eux. Dans la famille, tout le
monde est français mais, c’est comme l’égalité, il y en a qui sont plus français que
d’autres. […].
« Vous sentiez-vous française maintenant ? me demande-t-on souvent. (Les
expatriés : éternellement exposés aux questions stupides.)
Cela voudrait dire quoi, se sentir français ? A quoi le reconnaîtrais-je, se ça devait
m’arriver un jour?
Altre volte, invece, la mancata integrazione nel paese di arrivo è vissuta più
traumaticamente, quando ad esempio è l’ostilità degli abitanti del luogo che non
offre una vera possibilità di inserimento, di approdo definitivo. L’esilio resta
un’erranza nell’altrove, una ricerca continua.
Dunque, per alcune scrittrici la condizione di esilio è dolorosa, altre vi
trovano comunque aspetti positivi, pur nel dolore della perdita: “Les exilés, eux,
sont riches. Riches de leurs identités accumulées et contradictoires.”
Ma un elemento rimane: la rottura, la separazione, la cesura tra un qui e un
là, un “ici” e un “là-bas”, tra il presente e la terra d’infanzia:
L’exil géographique veut dire que l’enfance est loin; qu’entre l’avant et le
maintenant, il y a rupture.
Une existence ici, et une là-bas.
“Ici” e “là-bas” denotano due spazi oppositivi, di cui uno è lo spazio
dell’oppressione e l’altro della libertà e della speranza. Per Malika Mokeddem la
lettura di romanzi occidentali o la fuga in cima alla duna dietro la casa diventano
il luogo delle possibilità di realizzare i propri sogni. Per Azar Nafisi e Marjane
Satrapi la casa è stata ‘espropriata’ al controllo dei legittimi proprietari a causa
delle continue incursioni del regime della Repubblica Islamica nello spazio
privato. È per questo che è necessario andare a ricavare uno spazio ancora più
circoscritto all’interno dello spazio domestico, uno spazio dove nascondersi dagli
occhi e dalle orecchie del regime, uno spazio dove potersi togliere il chador,
comportarsi secondo le proprie idee e leggere opere censurate dal regime. Questo
spazio rappresenta la prima forma dell’esilio politico dall’Iran, la prima tappa
nella via dell’allontanamento dalla patria. Quando questo spazio non è più
sufficiente o sufficientemente sicuro e impenetrabile, bisogna optare per un altro
tipo di esilio, che comporta l’allontanamento geografico dalla patria.
La Francia e gli Stati Uniti non rappresentano la casa che queste donne non
trovano in patria, ma la possibilità di realizzare le proprie aspettative e i propri
sogni, di vivere una vita in linea con le proprie idee, e soprattutto libera dagli
impedimenti e dagli ostacoli di un regime oppressivo come quello iraniano o di
una tradizione troppo pesante per le donne, come quella del Maghreb.
Per queste donne, lo sguardo è naturalmente rivolto all’Ovest, all’Europa o
agli Stati Uniti. Alcune di loro vi hanno studiato e trascorso alcuni anni delle
propria formazione (Nafisi negli Stati Uniti, Satrapi in Austria), altre, nel
Maghreb, hanno studiato il francese e la cultura, la storia, la letteratura della
Francia al posto di quelle arabe. Per Assia Djebar e Malika Mokeddem imparare,
scrivere e parlare la lingua francese rappresentano già di per sé un successo
personale e sociale. Il semplice fatto di andare a scuola e poi all’università è da
considerarsi una conquista, specialmente per una ragazza, in un’Algeria in cui
solo i bambini venivano fatti studiare.
È da sottolineare comunque come l’esilio sia caratterizzato, in ogni caso,
dalla forte presenza della patria, della famiglia, della società e della cultura di
origine. Non si sceglie l’esilio per sottrarsi per sempre all’influenza della patria.
Lo si sceglie con l’idea, seppur vaga, che un giorno si possa far ritorno in una
patria differente, migliore o, forse, di poter essere d’aiuto per tale trasformazione.
La nuova terra è caricata di aspettative che non hanno nulla a che vedere con
il tenore di vita. Queste donne non sono come coloro che emigrano per trovare
ricchezze e una vita più agiata, ma vogliono sfuggire all’oppressione che
subiscono in quanto donne e in quanto appartenenti ad una società che non
permette all’individuo di sviluppare le proprie potenzialità. Fawzia Zouari, nata in
Tunisia, dottoressa in letteratura francese e comparata, è giornalista a Parigi dove
vive dal 1979. Nel romanzo La Retournée, in cui una giovane donna ritorna nel
villaggio natio in Tunisia dopo quindici anni perché ha ricevuto un telegramma
che le annuncia la morte della madre, la parola “esilio” compare già alla seconda
pagina, insieme con le ragioni di questa scelta:
Je sais ce qui m’a fait fuir mon pays: c’est cette masse mascoline compacte et
déterminée, barrant l’horizon!
L’esilio per le donne maghrebine è la via di fuga per sottrarsi ad una società
in cui la parte maschile domina il genere femminile. Si studia il francese, come
Mokeddem e Djebar, o si parte per la Francia o gli Stati Uniti per imparare
soprattutto la cultura, insieme alla lingua, e fare propri i modi di essere di una
società in cui le donne hanno libertà di movimento, possono uscire.
Si parte per imparare, per acquisire i modi delle donne nella terra di Francia
o d’America, per poter poi tornare, perché non vi è esilio senza speranza del
ritorno, cambiate, arricchite. Si parte per imparare a camminare a testa alta di
fronte a tutti,
Que se passe-t-il? Tant d’années de liberté de l’autre côté de la Méditerranée ne
m’ont donc pas appris à regarder les miens droit dans les yeux ? Pourquoi serais-je
partie, si ce n’est pour arracher mon ombre de la leur, me défaire du poids de leurs
préceptes et de l’emprise de leurs versets ?
CAPITOLO 2.
MODELLI SPAZIALI DELLA CULTURA.
2.1 Tema della cultura e rappresentazione spaziale della cultura.
Lo spazio non è vuoto, bensì denso di soggetti, di luoghi, di proiezioni
umane e di relazioni e movimenti tra questi. Juriji M. Lotman, semiologo russo
del XX secolo, è il primo autore a proporre un modello spaziale come descrizione
della cultura e dei processi culturali. La cultura è pensata da Lotman in termini di
un modello basato su un’organizzazione spaziale.
Una delle particolarità universali della cultura umana, connessa forse alle proprietà
antropologiche della coscienza dell’uomo, sta nel fatto che il quadro del mondo
assume tratti spaziali. La stessa costruzione dell’ordinamento del mondo è pensata
immancabilmente sulla base di una struttura spaziale che ne organizza tutti gli altri
livelli. In tal modo, tra le strutture metalinguistiche e la struttura dell’oggetto si
stabilisce una relazione di omeomorfismo. Sicché i modelli spaziali intervengono
come un metalinguaggio, e la struttura spaziale del quadro del mondo come un testo.
[…] Essendo […] la caratteristica spaziale una componente immancabile, e insieme
la più formale, di ciascuno dei quadri del mondo appartenenti alla cultura umana,
essa diviene quel livello del contenuto del modello culturale universale, che rispetto
agli altri interviene come piano dell’espressione.
Attraverso il modello spaziale Lotman dà un ordine visivo, geometrico al
mondo. Nell’opera Tipologia della cultura, scritta a quattro mani con Boris
Uspenskij, troviamo ben quattro differenti definizioni di cultura. Innanzitutto, la
cultura è il patrimonio non naturale che una particolare società decide di
tramandare.
Noi intendiamo la cultura come memoria non ereditaria della collettività, espresso in
un determinato sistema di divieti e prescrizioni.
Questa prospettiva tratta la cultura come un sistema, un codice con precise
norme strutturali:
La cultura è […] un insieme di segni organizzato in un certo modo. Proprio il
momento dell’organizzazione, che si manifesta come somma di regole, restrizioni,
imposte al sistema, è il connotato che definisce la cultura.
L’eredità trasmessa dalla cultura si configura, per Lotman, come l’insieme
degli elaborati o prodotti umani, ordinati e trasmessi secondo una certa lingua. La
lingua della cultura, modellata su una lingua naturale, è costitutiva di una
specifica società o epoca. Una cultura si autorappresenta come una totalità che si
contrappone da un lato alla natura, dall’altro alla non-cultura.
La cultura si contrappone non solo alla natura […], ma anche alla non-cultura, a
quella sfera, cioè, che funzionalmente appartiene alla cultura, ma non ne adempie
alle regole.
Nella sua analisi Lotman mette in evidenza come in ogni cultura siano
presenti dinamiche di inclusione ed esclusione: tutto ciò che segue e si adatta alle
regole imposte dalla cultura è accettato, incluso, e allo stesso tempo tutto ciò che
diverge da tale sistema di leggi è considerato fuori dalla sfera culturale, al di là del
limite/confine che definisce la cultura.
La cultura si organizza al proprio interno, individuando un centro (gli assi
portanti, le regole che definiscono la cultura stessa) e i margini. Tratto
fondamentale nel modello lotmaniano di cultura è inoltre la presenza di una
frontiera, che divide lo spazio in due parti distinte, lo spazio interno da quello
esterno (IN/ES): lo spazio interno è chiuso ed organizzato (fornito di struttura)
mentre quello esterno è aperto e non organizzato (privo di struttura). Lo spazio
interno è inoltre continuo e si interrompe in corrispondenza della frontiera. Tale
linea di demarcazione tra i due spazi distinti non appartiene a nessuno dei due, o
meglio, può appartenere all’uno o all’altro a seconda dei casi. Inoltre, la frontiera
è immaginata come una linea chiusa che circoscrive un insieme di punti finiti
nello spazio IN, in contrapposizione allo spazio infinito ES. Il punto di vista della
cultura è interno, contrappone cioè semanticamente “noi” a “altri”.
Il modello lotmaniano distingue tra due specie di testi, immobili (fissi) e
mobili. Da una parte, Lotman individua i testi fissi, che caratterizzano la struttura
del mondo, “rispondono alla domanda: come è organizzato?”. Lo spazio è
organizzato, come si è visto, innanzitutto dalla linea di demarcazione della
frontiera, ma anche da altre strutture che seguono le categorie di vicinanza,
continuità, e le opposizioni sopra/sotto, destra/sinistra, concentrico/eccentrico,
inclusivo/esclusivo. Dall’altra parte, vi sono i testi mobili, dinamici, che
descrivono il movimento del soggetto nel mondo e sono caratterizzati dalla
presenza di un intreccio.
Anche gli esseri umani nella cultura, come i personaggi dei testi, si
distinguono in fissi e mobili. I primi si presentano come quelli che non sono in
grado di mutare il proprio ambiente, di interferire con la struttura della cultura. I
personaggi mobili, invece, sono gli eroi, coloro che si spostano da un ambiente ad
un altro, attraversano la frontiera e sono in grado di distruggere le rigidità della
struttura o crearne una nuova. Rappresentano l’elemento dinamico della cultura, la
possibilità di cambiamento delle regole e delle strutture fisse.
Lotman introduce anche il concetto di orientamento, che consiste nel punto
di vista. L’orientamento, secondo Lotman, può essere “diretto”, quando il punto di
vista coincide con lo spazio interno, e la direzione del vettore va da IN verso la
frontiera e verso l’esterno; oppure “inverso”, se il punto di vista coincide con lo
spazio esterno e la freccia è diretta da ES verso la frontiera e verso IN. Tale
distinzione si traduce anche negli opposti punti di vista, tra noi e l’altro/gli altri.
Il modello spaziale descritto da Lotman, come pure le dinamiche al suo
interno, rappresentate particolarmente dall’eroe che attraversa lo spazio, sono di
grande utilità per lo studio della letteratura e in particolar modo per le scritture
dell’esilio. Dal punto di vista del paese d’arrivo, l’esiliato/a può essere pensato/a
in termini dell’eroe lotmaniano, colui o colei che attraversa la frontiera che
circoscrive la cultura del paese di origine e/o di arrivo (secondo se si prende come
orientamento ES→IN – cioè dall’esterno verso il paese di accoglienza – o IN→ES
– cioè dal proprio paese verso l’esterno).
Il modello lotmaniano, però, rimane statico e si basa su una concezione
egocentrica della cultura: la cultura appartiene esclusivamente a chi è all’interno,
nello spazio IN, e tutto ciò che è fuori rientra nel campo, se non della natura,
quanto meno nella non-cultura.
Altri studiosi e nuove teorie che si sono sviluppate nell’ambito degli studi
umanistici e delle scienze sociali, quali gli studi post-coloniali, l’antropologia, gli
studi culturali, i women studies, e altri, hanno invece mostrato che è necessario
non limitarsi a prendere in esame le rappresentazioni nazionaliste eurocentriche e
colonialiste della cultura. Non esiste solo una cultura, bensì più culture che
interagiscono. Il modello di Lotman, per quanto utile, richiede delle modifiche che
lo rendano più dinamico e che offrano una rappresentazione della complessità
delle dinamiche. Il modello spaziale lotmaniano si sviluppa su una superficie bidimensionale, potremmo dire su una concezione dello spazio propria della
geometria euclidea, dove manca la dimensione temporale. Il suo modello si
sviluppa, infatti, su un piano fisso, immobile, dove solo qualche elemento isolato
riesce a muoversi attraverso lo spazio. La cultura, al contrario, non è immobile,
bensì in constante evoluzione, si arricchisce inesauribilmente di sempre nuovi
elementi. Quello di cui abbiamo bisogno per descrivere le dinamiche, i
movimenti, gli scambi, i transfer è un modello più complesso e articolato, che
prenda in considerazione tutti gli elementi che concorrono all’aspetto reale della/e
cultura/e.
La definizione che il critico e semiologo bulgaro Tzvetan Todorov dà di
cultura ci aiuta a comprendere cosa manca all’analisi lotmaniana. Todorov parte
da una definizione che sembra molto ricalcare la concezione di Lotman, ma poi
aggiunge elementi che rivelano la complessità della categoria di cultura. La
cultura, spiega Todorov, è l’insieme delle rappresentazioni che si hanno del
mondo: è un’immagine, un’interpretazione del mondo ed è un fatto collettivo, che
riguarda almeno due, ma normalmente una grande quantità, di esseri umani.
Ces représentations, comme le nom l’indique, sont une image, donc une
interprétation du monde; posséder une culture signifie qu’on a à sa disposition une
pré-organisation du monde, un modèle miniature, une carte en quelque sorte, qui
nous permet de nous y orienter. La culture est à la fois mémoire commune (nous
apprenons la même langue, la même histoire, les mêmes traditions) et règle de vie
commune (nous parlons de manière à nous faire comprendre, nous nous conduisons
en accord avec les codes en vigueur dans notre société) ; elle est tournée en même
temps vers le passé et le présent.
Come Lotman, anche Todorov considera la cultura un insieme di regole
(linguistiche, morali, giuridiche, ecc.) che sono trasmesse e apprese, e in questo
senso la cultura si configura come memoria collettiva. Ma subito dopo, aggiunge
che vi sono altri due tratti essenziali della cultura: in primo luogo, la molteplicità
delle culture che ad ogni dato istante formano il carattere e l’identità di ciascun
essere umano, e, in secondo luogo, che il tempo, la diacronia, sono importanti,
cioè che tutte le culture sono soggette al cambiamento. Todorov spiega nel modo
seguente il suo concetto di “pluralité dans la synchronie”:
Chaque individu participe de cultures multiples et chaque culture est sujette au
changement. Prenons d’abord le premier : un individu quelconque fait partie de
nombreux groupes humains, il partage donc la culture de chacun d’eux et il est
pourvu d’identités multiples. Certains de ces groups s’emboîtent les uns dans les
autres. Par exemple, un Français provient toujours d’une région, mettons qu’il est
berrichon, mais d’un autre côté il partage plusieurs de ses traits avec tous les
européens : il participe donc à la fois des cultures berrichonne, française et
européenne. D’autres ensembles sont en intersection : tel individu se reconnaît à la
fois dans la culture méditerranéenne, chrétienne et européenne. Á l’intérieur d’une
seule entité géographique, les stratifications culturelles sont multiples il y a la culture
des adolescents et celle des retraités, la culture des médecins et celle des balayeurs
de rues, la culture des femmes et celle des hommes, des riches et des pauvres.
Dall’altra parte riconosce che le culture sono caratterizzate da “mobilité
dans la diachronie”: le culture, continua Todorov, cambiano inevitabilmente,
sebbene alcune siano maggiormente predisposte di altre, o almeno disposte ad
ammettere il cambiamento. I cambiamenti nelle culture, secondo Todorov,
avvengono per due fattori distinti: per le tensioni interne a ciascuna cultura, che,
come si è visto, ne ingloba o si interseca con altre, e per contatti esterni.
Les cultures sont toujours susceptibles de changer, même s’il est certain que les
cultures dites « traditionnelles » le font moins volontiers et moins vite que celles
qu’on appelle « modernes ». Ces changements ont des raisons multiples. Puisque
chaque culture en englobe d’autres, ou est en intersection avec d’autres, ses
différents ingrédients forment un équilibre instable. Á côté de ces tensions internes,
il y a aussi les contacts externes, avec les cultures voisines ou lointaines, qui
provoquent à leur tour des infléchissements ; à quoi s’ajoutent les pressions exercées
par l’évolution d’autres séries constitutives de l’ordre social : l’économique, le
politique, le physique. Ces changements sont d’autant pus faciles que les cultures –
mémoire commune, règles de vie communes – se forment par agglutination et
addition, et ne possèdent pas la rigueur d’un système.
Diversamente da Lotman, Todorov non riconosce un carattere sistematico
alle culture, che proprio perché non irrigidite da rigorose codificazioni, non
cambiano in maniera sistematica, ma per assimilazione o aggiunta di nuovi
elementi. Le culture, conclude Todorov, possono essere paragonate al lessico di
una lingua, piuttosto che alla sua sintassi: le regole rimangono invariate, ma si
possono sempre aggiungere nuove parole. Dall’osservazione di Todorov si deduce
che i mutamenti all’interno di una cultura sono resi visibili anche dalle modifiche
e dalle integrazioni che sono apportate al suo lessico. I nuovi vocaboli che entrano
nell’uso comune e quotidiano di una lingua sono le spie di una certa tendenza che
sta interessando la società che le ha coniate o prese in prestito. Nel caso di paesi
ex potenze coloniali si riscontra a volte la preferenza per espressioni mutuate dalla
lingua delle popolazioni un tempo colonizzate. È il caso, ad esempio, di alcune
parole arabe che sono entrate nell’uso comune dei francesi, come tabīb (medico) o
bled (paese, usato per lo più per indicare la madrepatria in Nord Africa o Medio
Oriente). Oppure il caso dell’espressione usata nell’inglese d’America, passed
away, che ha pressoché sostituito il più crudo died e che è un prestito dalla lingua
creola dei Neri d’America.
Integrando le definizioni di Todorov al modello di Lotman è possibile
raggiungere un maggiore livello di complessità. Innanzitutto l’unico insieme IN
della rappresentazione spaziale della cultura deve essere piuttosto costruito come
molteplici insiemi IN1+IN2+…+INn, che, secondo i casi, si intersecano, sono
concentrici, ne inglobano altri e cosi via. I livelli di inglobamento sono essi stessi
molteplici (ad esempio, regionale – nazionale – sovranazionale). Ogni individuo,
inoltre, raccoglie in sé diverse culture in base a nazionalità, genere, razza, classe,
età, impiego, casta, ecc. Un tale approccio alla cultura si fa sempre più urgente,
spiega Todorov, perché al momento attuale siamo di fronte ad un’accelerazione,
sempre crescente e mai raggiunta nel passato, di contatti e interazioni tra le
culture.
Il modello presentato da Todorov, sebbene descriva la dinamicità delle
culture, non spiega però come avvengono le interazioni tra le culture. Inoltre,
parlando di agglomeramento e addizione di elementi all’interno di una cultura,
non tiene conto del fatto che spesso gli elementi, i prestiti, i transfer, come pure
gli esseri umani che si muovono da uno spazio culturale ad un altro, che passano
da una cultura ad un’altra, non restano inalterati, ma si modificano, facendo
interagire il mondo culturale di origine con quello di arrivo. Il prestito non solo si
aggiunge alla cultura, ma ne influenza il corso, modifica, sebbene in minima parte,
la visione del mondo di quella cultura. Accogliendo in sé un elemento prima
considerato estraneo, “altro”, la cultura non solo si accresce di quell’elemento, ma
si apre, sebbene impercettibilmente, verso questo “altro”. Ovviamente ci sono vari
livelli di apertura, ma colui che accoglie non resta comunque inalterato da tale
processo.
Per descrivere le dinamiche ora delineate è utile, da una parte, riprendere e
integrare la nozione di frontiera, o confine, e di zona di confine o zona di contatto
già presente in Lotman; dall’altra, aggiungerei la pratica e il concetto di
negoziazione. Lo studioso che le ha teorizzate in un sistema che tiene conto della
dinamicità delle culture è l’indiano Homi Bhabha, le cui teorie si sono sviluppate
nell’ambito degli studi post-coloniali. Basandosi sulle nozioni di spazio e
frontiera, Bhabha ha proposto un approccio teorico che presenta culture contigue
divise da una frontiera. Questa frontiera, però, non si configura come una linea,
ma diventa spazio, lo spazio in-between. Tale spazio, che si situa tra due culture,
diventa lo spazio della negoziazione, caratterizzato da creatività, dinamismo,
prese di posizione verso un’autorità politica o culturale. La visione di Bhabha è
molto ottimista rispetto alle dinamiche di interazione, sincretismo, contrattazione
tra culture che possono avvenire in questo spazio, in cui, proprio per il loro
decentramento, l’autorità prestabilita perde il proprio potere e nuove forme di
autorità si sviluppano. Ciò che avviene nella zona di confine è, con le parole di
Bhabha
A turning of boundaries and limits into the in-between spaces through which the
meanings of cultural and political authority are negotiated.
Bhabha definisce il confine come dotato di una doppia faccia, come quella
del dio romano bi-fronte Giano. Come Giano, anche l’elemento o il soggetto che
si trovano nello spazio tra le due culture, ha due volti, ognuno rivolto ad una delle
due culture. In termini spazio-temporali, il terzo spazio può essere considerato la
zona di movimento, di transito, di passaggio del soggetto, il cui doppio sguardo è
rivolto contemporaneamente al passato e al futuro, per non dimenticare da dove
viene e non perdere di vista la direzione verso cui ci vuole muovere. E ancora, in
termini dello spazio dell’identità, il soggetto che si muove nel terzo spazio ha lo
sguardo rivolto all’interno e all’esterno, verso la propria identità e,
contemporaneamente, verso l’altro, l’estraneo, il diverso. La linea di frontiera è
mobile e si traduce sul piano del terzo spazio, in un continuo dialogo con l’altro,
che viene accolto, incorporato e mediato. Questo processo influenza e modifica il
soggetto stesso che si muove come pure lo spazio culturale, politico, sociale che
accoglie questi processi di movimento e dialogo.
The boundary is Janus-faced and the problem of outside/inside must always itself be
a process of hybridity, incorporating new “people” in relation to the body politic,
generating other sites of meaning and, inevitably, in the political process, producing
unmanned sites of political antagonism and unpredictable forces for political
representation.
L’ibridazione per Homi Bhabha è un processo di incontro, mescolanza,
creolizzazione e creazione. Si tratta di un processo durante il quale da più
elementi di diversa origine si crea un organismo nuovo, un soggetto nuovo:
“neither One nor the Other, but something else besides, in-between”. Il processo di
ibridazione è dunque strettamente collegato allo spazio in cui avviene, lo spazio
interstiziale, in-between.
L’ibridazione costituisce anche un processo di traslazione/traduzione, in cui
elementi non-omogenei vengono trasposti da un luogo ad un altro, da un primo
spazio culturale ad un nuovo spazio culturale, che Bhabha chiama “the third
space”:
The importance of hybridity is not to be able to trace two original movements from
which the third emerges, rather hybridity […] is the ‘third space’ which enables
other positions to emerge. This third space displaces the histories that constitute it,
and sets up new structures of authority, new political initiatives, which are
inadequately understood through received wisdom […]. The process of cultural
hybridity gives rise to a something different, something new and unrecognizable, a
new area of negotiation of meaning and representation.
Per Bhabha il terzo spazio è “the precondition for the articulation of cultural
difference”. Questo terzo spazio, caratterizzato da “productive capacities”, è
dunque lo spazio della creatività e della creazione, della proposizione, in cui si
sviluppano nuove alternative e nuove possibilità. È uno spazio in cui nella cultura
sia l’individuo che il testo ‘altro’ diventano soggetti, prendono possesso di sé e
possono articolare il proprio discorso, la narrazione della propria identità. È lo
spazio della possibilità dell’emancipazione del sottomesso, che diventa soggetto e
agente della propria vita e dunque ha una forte valenza positiva e propositiva.
Bhabha, inoltre, propone di dare importanza all’interstizio, allo spazio
minimo che si crea tra i due spazi, alla crepa, la faglia, e intravede in questa
spaccatura una grande forza di riforma del sistema imposto dall’autorità.
The interstitial passage between fixed identifications opens up the possibility of
cultural hybridity that entertains difference without an assumed or imposed
hierarchy. […] “Beyond” signifies spatial distance, marks progress, promises the
future.
Bhabha propone un modello spaziale di interpretazione della cultura in cui
lo spazio liminale e ai margini acquista potere, grazie alla ri-negoziazione delle
relazioni di forza che avviene nel processo di ibridazione. Frutto di questo
processo è una ri-locazione della forza produttrice di cultura. In una visione
eurocentrica la cultura era immaginata come costituita da un centro, che deteneva
il potere e l’autorità sulla periferia. Gli studi post-coloniali hanno contestato
questo punto di vista e rivendicato un potere contrattuale nelle interrelazioni tra
culture. Nel modello proposto da Bhabha, che si inserisce in questo filone di
teorici, i margini vengono rivalutati, assumono potere e, anzi, diventano essi stessi
centro, grazie al potere creativo di cui sono dotati. A proposito dei margini
potremmo dire, con le parole di Donna Haraway, “the bastard race teaches about
the power of the margins”.
Negoziazione è sinonimo di interazione, di scambio, di “agency”, che
caratterizzano i margini, lo spazio in-between. Bhabha conclude,
it is the “inter” – the cutting edge of translation and negotiation, the in-between
space – that carries the burden of the meaning of culture. It makes it possible to
begin envisaging national, anti-nationalist histories of the “people”. And by
exploring this Third Space, we may elude the politics of polarity and emerge as
others of our selves.
Un modello teorico in cui vengono rappresentate le dinamiche, i movimenti
degli elementi o dei soggetti attraverso lo spazio è fornito dalla teoria del
polisistema dello studioso israeliano Itamar Even-Zohar. Questa teoria, che prende
origine dal Formalismo russo degli anni Venti del XX secolo, in parte coincide
con il modello lotmaniano e le teorie semiotiche, ma rende conto degli elementi
che passano da una cultura all’altra e degli effetti che questi transfer hanno sulle
culture di origine e arrivo, in breve, sulle dinamiche di interazione tra le culture.
La teoria del polisistema non è limitata al campo letterario, ma anzi vede la
letteratura come un’attività che non è isolata dal resto delle attività umane nella
società. Questa teoria fornisce quindi una descrizione dei processi di produzione
dei testi della cultura, che prende in considerazione le interferenze delle varie
sfere settoriali (sistemi, come ad esempio quello letterario, politico, sociale,
economico ecc.) di cui è composta, e allo stesso tempo descrive le dinamiche
interne a ciascuno di questi sistemi.
Come Lotman, anche Even-Zohar prende in considerazione l’insieme di
leggi ed elementi (che siano singoli, composti o modelli generali) che governano
la produzione dei testi e che egli definisce repertoires. Secondo Even-Zohar i
testi, nel sistema letterario, non partecipano alla canonizzazione delle regole del
sistema, ma si configurano piuttosto come il prodotto di tali processi. Ciò che
interessa gli autori, secondo lo studioso, è che i propri testi vengano considerati
come manifestazioni di un certo modello da seguire, e di conseguenza, diventino
rappresentazioni di tale modello. Quando una regola o una struttura viene assunta
come modello per la composizione di altri testi nella produzione contemporanea,
si può affermare che tale struttura si trova al centro del sistema. D’altra parte,
quando dei testi sono considerati di buona qualità ma non sono assunti come
modelli da seguire dai produttori dei testi contemporanei, essi si spostano dal
centro alla periferia (questa condizione non è apprezzata dagli autori). La
conclusione di questo discorso è che “it is not through their texts that writers
acquire positions in the literary system”, ma quando questi vengono considerati
“as acceptable models for making new texts”.
Ciò che dà dinamicità al polisistema, che è l’insieme dei singoli sistemi nel
modello di Even-Zohar, sono, come si è già detto, i transfer, cioè i movimenti di
elementi o funzioni da un luogo all’altro all’interno del polisistema. Questi
movimenti possono avvenire dal centro verso la periferia o viceversa, e da una
periferia a quella di un altro sistema, sempre all’interno dello stesso polisistema. I
transfer sono dunque correlati alla nozione di cambiamento e trasformazione
all’interno del polisistema, per cui Even-Zohar propone delle regole generali che
descrivano tale relazione. Egli distingue, inoltre, tra repertori (cioè l’insieme delle
regole che definiscono un sistema) innovatori e conservatori. Il cambiamento
avviene quando un modello innovatore diventa dominante nell’insieme delle
regole che strutturano il sistema (repertoire). La fase seguente sarà una
perpetuazione di questo nuovo modello, che condurrà alla stabilizzazione e ad un
nuovo conservatismo.
Un altro concetto fondamentale introdotto dalla teoria dello studioso
israeliano è quello di interferenza, che descrive attraverso quali transfer e quali
dinamiche avvengono i contatti tra le culture e, di conseguenza, i cambiamenti.
Even-Zohar considera importanti in questi processi i testi considerati minori,
come la letteratura per l’infanzia o le traduzioni:
In short, it is a major goal, and a workable possibility for the Polysystem theory, to
deal with the particular conditions under which a certain literature may be interfered
with by another literature, as a result of which properties are transferred from one
polysystem to another. For instance, if one accepts the hypothesis that peripheral
properties are likely to penetrate the center once the capacity of the center (i.e., the
repertoire of the center) to fulfill certain functions has been weakened (Shklovskij's
second law), then there is no sense in denying that the very same principle operates
on the inter-systemic level as well. Similarly, it is the polysystemic structure of the
literatures involved which can account for various intricate processes of interference.
For instance, contrary to common belief, interference often takes place via
peripheries. When this process is ignored, there is simply no explanation for the
appearance and function of new items in the repertoire. Semiliterary texts, translated
literature, children's literature--all those strata neglected in current literary studies-are indispensable objects of study for an adequate understanding of how and why
transfers occur, within systems as well as among them.
Literatures are never in non-interference.
2.2 Il ruolo della frontiera.
Le frontiere svolgono un ruolo fondamentale, riconosciuto da tutti I teorici
fin qui considerati. Nel modello spaziale di Lotman, le frontiere sono i punti di
contatto tra la periferia di una cultura e la non cultura o natura. Sono come
membrane attraverso le quali avvengono dinamiche osmotiche, il passaggio di
elementi dall’una verso l’altra e viceversa. Il limite di questa analisi è che tutto ciò
che è esterno ad una cultura rimane tale, cioè non-cultura. La divisione dello
spazio è immobile, il modello non ammette cambiamenti. Todorov aggiunge
l’elemento dinamico al modello e definisce la presenza simultanea di più culture.
Le frontiere sono, di conseguenza, il punto di contatto e di scambio tra culture
paritarie. Gli scambi avvengono inter pares. Nella concezione di Bhabha le
frontiere capovolgono addirittura le relazioni di forza nel modello spaziale e
diventano in un certo senso centrali. Infatti, è proprio nello spazio che si apre tra
le due culture il luogo di creazione, interazione e sovvertimento dell’autorità
costituita.
Le frontiere, nella definizione della studiosa Susan Stanford Friedman, sono
“material borders among nation-states, the technologies of enforcement, the
controls and markers of citizenship, and the structures of inclusion and exclusion
that are enabled by borders as lines on a map backed by armies and laws”.
Le nozioni di frontiera e confine sono ambivalenti in quanto contengono sia
l’idea positiva dell’attraversamento, del passaggio al di là, che quella negativa di
chiusura, di contenimento, di ostacolo al libero movimento. La frontiera
geopolitica tra gli stati mette in atto una complessa dinamica burocratica di
documenti di identità, passaporti, visti e permessi di transito e di soggiorno. La
frontiera è l’ultimo baluardo del territorio di uno stato ed è il luogo che vede
combinarsi la burocrazia con le forze di controllo militari. Non bisogna, infatti,
dimenticare che le frontiere, i confini dello stato, sono sempre controllati dalle
forze armate che impongono il rispetto della legalità in materia di movimento
transnazionale. Allo stesso tempo, le sempre maggiori difficoltà burocratiche ad
ottenere i documenti necessari al transito o al soggiorno in un determinato paese
pone la questione dei diritti umani: il diritto del singolo individuo al movimento,
il diritto di asilo politico, il diritto di essere accolto quando si trova in pericolo di
vita nel proprio paese, ecc. In questa prospettiva, lo stesso esilio si configura come
privazioni di diritti fondamentali dell’essere umano, così come vengono sanciti
dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e ampliati nelle carte e
dichiarazioni firmati a livello transnazionale sotto la tutela delle Nazioni Unite.
La nozione di frontiera e quella dell’attraversamento delle frontiere, inoltre,
possono contenere una dimensione metaforica, possono, cioè, diventare concetti
atti a descrivere dinamiche di movimenti attraverso confini figurati, quali quelli
culturali, linguistici, sociali, religiosi, di genere, psicologici e immaginari. Inoltre,
le frontiere non sono immobili, bensì combinano allo stesso tempo caratteristiche
opposte. Le frontiere sono
Fixed and fluid, impermeable and porous. They separate but also connect, demarcate
but also blend differences. Absolute at any moment in time, they are always
changing over time. They promise safety, security, as sense of being at home; they
also enforce exclusions, the state of being alien, foreign, and homeless. They protect
but also confine. They materialize the law, policing separations; but as such, they are
always being crossed, transgressed, subverted. Borders are used to exercise power
over others but also to empower survival against others. They regulate migration,
movement, travel – the flow of people, goods, ideas, and cultural formations of all
kinds. They undermine regulatory practices by fostering intercultural encounter and
the concomitant production of syncretic heterogeneities and hybridities. They insist
on purity, distinction, difference but facilitate contamination, mixing, creolization.
Mentre i confini, dunque, sono linee immaginarie che hanno conseguenze
materiali, diversa cosa, sebbene correlata, sono le “zone di confine”, o “zone di
contatto”. Il termine inglese borderland indica un’area prossima al confine, che si
situa da entrambe le parti di quest’ultimo, e che è caratterizzata da una storia di
scambi, incontri e scontri che hanno prodotto nel corso del tempo un’osmosi da
entrambe le parti. Pensando in termini di una geometria euclidea applicata alla
teoria degli studi letterari, le zone di confine, o borderlands, si trovano quindi a
cavallo tra due spazi considerati distinti e unitari al loro interno e dove tale zona
di confine viene pensata in termini di zona marginale o di periferia, o come
baluardo contro una minaccia esterna. Ad esempio, l’impero Austro-Ungarico
aveva creato una zona di confine, chiamata Krajina che, nella lingua serbo-croata
significa letteralmente ‘confine militare’ e che costituiva il baluardo contro la
minaccia turca da oriente.
Paradossalmente, però, questa zona di confine o contatto, invece che essere
il sito di scontri di elementi opposti, è al suo interno caratterizzata da elementi
simili, proprio per la lunga serie di contatti che si sono avuti nel passato. Susan
Stanford Friedman definisce borderlands
Ambiguously demarcated areas with complicated histories, where different peoples
and cultures have intermingled over time, often in the context of competing state
powers and institutional regulation. Borderlands have been the sites of hatred and
murderous acts akin to the grating of continental tectonic plates and their occasional
violent eruptions. They can also be locations of utopian desire, reconciliation and
peace. Borderlands are a “contact zone” where fluid differences meet, where power
is often structured asymmetrically but nonetheless circulates in complex and
multidirectional ways, where agency exists on both sides of the shifting and
permeable divide.
La frontiera diventa quindi luogo di scambio, interazione e dialogo. Per
questo è anche il luogo in cui si mette in discussione l’identità. L’identità è legata
alla frontiera, alle borderlands, perché si crea e ricrea costantemente. Dal
momento che l’identità è relazionale, cioè il prodotto delle interazioni tra
l’individuo e l’ambiente (sociale, culturale, politico, ecc.) circostante, le relazioni
che avvengono sulla frontiera o nei pressi di questa marcano l’identità.
La frontiera deve essere pensata come linea di demarcazione tra qualsiasi
tipo di diversità. Come spiega Susan Friedman, esistono “frontiers between all
differences”, che diventano “the locations of movement in which routes produce
roots and routes return to roots”. Riprendendo la fortunate frase coniata da
Clifford, “routes/roots”, Friedman stabilisce la relazione tra frontiere, percorsi e
origine. La frontiera, ossia lo spazio dei contatti, degli scambi, dell’incontro con
l’alterità diventa il luogo della negoziazione tra le differenze, dello scambio
reciproco di esperienze e visioni del mondo. Diventa così anche il luogo in cui
colui o colei che si avventura verso la frontiera, che viaggia (routes) si apre alla
diversità e si rimette in discussione il proprio bagaglio culturale (roots). La
metafora del bagaglio si addice più d’ogni altra all’individuo che viaggia
attraverso le frontiere e porta con sé, come bagaglio, semplicemente se stesso, la
propria identità, la propria vita. Come scrive Dubravka Ugrešić, “la vita è l’unico
bagaglio che portiamo con noi”.
La scrittrice chicana Gloria Anzaldùa nella sua opera Borderlands/La
Frontera—The New Mestiza, ha definito l’identità del suo popolo un’“identità di
frontiera”. Appartenente ad un popolo diviso e incapace di trovare la propria
identità, un popolo emarginato perché situato ai margini, Anzaldùa propone una
nuova prospettiva, un nuovo modo per leggere la frontiera e gli esseri che la
popolano. Anzaldùa guarda alla frontiera come ad uno spazio da abitare, che ha
diritto di cittadinanza a pieno titolo. È un luogo d’incontro e di dialogo, in cui
poter superare le differenze. La frontiera può diventare uno strumento per
decostruire le ideologie dominanti e allo stesso tempo proporre una nuova visione
della vita.
Living on borders and in margins, keeping intact one’s shifting and multiple identity
and integrity, is like trying to swim in a new element, an “alien” element.
A prima vista la locuzione “keeping intact one’s shifting and multiple
identity” sembra una contraddizione, in cui i due aggettivi, “intact” e “shifting”,
sembrano indicare significati opposti. Ad una lettura più approfondita si
comprende che si tratta invece di preservare la libertà di cambiare, di evolvere, di
mutare, senza essere intrappolati in definizioni e categorie che ostacolano il libero
divenire di ogni essere umano. L’identità è come un organismo biologico, che
cresce, muta. Assumere, riconoscere e convivere con un’identità di frontiera
significa accettare il cambiamento, cioè quell’elemento “cangiante” come
costituente della propria identità; significa riconoscere il cambiamento come parte
integrante di sé stessi, che dà senso alla propria vita, al contrario della stabilità,
dell’immobilità e dell’esclusione di ogni elemento esterno/estraneo/diverso,
‘altro’. La visione di un essere di frontiera di avvicina alla concezione del
‘soggetto nomade’ della filosofa femminista Rosa Braidotti: nel suo testo
Nomadic Subjects propone infatti un’identità, un modo di essere, un’attitudine
mentale al nomadismo. Per essere creativo, il pensiero deve essere agile, libero,
fecondarsi con la differenza.
Un concetto vicino a quello di zona di frontiera è contact zone, espressione
coniata dalla studiosa Mary Louise Pratt nel suo libro Imperial Eyes: Travel and
Transculturation. Pratt definisce il concetto di contact zone come segue:
Social spaces where disparate cultures meet, clash, and grapple with each other,
often in highly asymmetrical relations of domination and subordination – like
colonialism, slavery, or their aftermaths as they are lived out across the globe today.
[…] [The contact zone is] the space of colonial encounters, the space in which
peoples geographically and historically separated come into contact with each other
and establish ongoing relations, usually involving conditions of coercion, radical
inequality, and intractable conflict. […] [The contact zone] is an attempt to invoke
the spacial and temporal copresence of subjects previously separated by geographic
and historical disjunctures, and whose trajectories now intersect.
La nozione contact zone di Pratt mette al centro dell’analisi la questione
coloniale e si interessa, conseguentemente, di incontri e interazioni tra soggetti
che avvengono in una situazione fortemente marcata dalle relazioni di potere. Per
questo studio sull’esilio, poiché la terra dell’esilio spesso coincide con quella
dell’antico (o neo) colonizzatore, almeno nei casi qui analizzati, l’incontro tra il
soggetto in esilio e la terra ospitante spesso si configura come una sorta di
riproduzione, in chiave contemporanea, della relazione coloniale.
Alcuni studiosi preferiscono utilizzare il termine ‘soglia’ per indicare il
punto di contatto, di dialogo e di scambio attraverso i confini, mentre considerano
questi ultimi il simbolo e luogo di divisione e conflitto. Lo studioso Johann
Drumbl scrive che “la soglia è il confine visto nella prospettiva dinamica del suo
superamento, è il luogo della creatività”. Nel presente lavoro verranno analizzate
delle opere in cui è fondamentale il concetto di soglia inteso da questo punto di
vista, dell’attraversamento, cioè, di un limite, di un confine tra due spazi opposti e
ben definiti. La soglia si può manifestare metaforicamente sotto forma di una
porta, di una finestra, una terrazza; può essere addirittura rappresentata
dall’immagine di una crepa su un muro. Il varcare la soglia può essere un
attraversamento sereno oppure una trasgressione di limiti imposti e mal sopportati
dal soggetto. Ad esempio, l’autobiografia della sociologa marocchina Fatima
Mernissi, che si intitola Dreams of Trespass, contiene già dal titolo la promessa di
una narrazione che descrive il movimento, o il sogno, la proiezione del soggetto
verso un al di là, un oltre, un altrove. Si vedrà, inoltre, che l’autrice, nel primo
capitolo intitolato “My Harem Frontiers” situa se stessa, la sua casa e la sua città
in un luogo di confine, in una zona di frontiera, che, pur essendo ancora nello
spazio islamico, è molto più vicina ad una capitale cristiana, Madrid: cioè, già
dall’incipit si afferma l’importanza dei concetti e delle realtà di frontiera, confine
e attraversamento per l’economia della narrazione. La studiosa Mae Henderson,
nell’introduzione al testo Borders, Boundaries and Frames. Cultural Criticism
and Cultural Studies, scrive a proposito degli abitanti delle frontiere e del
significato dell’attraversamento dei confini e dei limiti:
Borderland inhabitants are always considered transgressors and aliens. For, although
“to transgress” literally translates as “to step across”, it also carries with it legal and
moral connotations – as in “trespass” – which are essentially negative. Therefore,
breaking down structures of resistance not only speaks to breaching the ramparts that
bolster the system of containment and categorization, as Derrida insists; it also
concerns the modifying of the limits in order to transform the unknown or forbidden
(metaphorical borderlands) into inhabitable, productive spaces for living and writing.
Anche la scrittura, come la vita, può assumere un’identità di frontiera, può
essere un soggetto di confine, transfrontaliero, transnazionale, può farsi portavoce
di esigenze che scaturiscono da un’esistenza sui bordi o ai margini. ‘Margini’ è la
parola che usa Trinh Minh-Ha per esprimere le idee riferite ai soggetti che si
trovano in una condizione di mezzo, tra due spazi, sul bordo. In Framer Framed
la scrittrice e cineasta Vietnamita scrive che “each work generates its own
constraints and limits”, applicando così il termine margini alla scrittura, oltre che
all’esistenza reale.
I concetti di frontiera, confine, soglia, borderland e contact zone, insieme
con le metafore che da questi si possono trarre, sono fondamentali per l’analisi
della letteratura dell’esilio. Tali scritture attraversano le frontiere, sono transfrontaliere, trans-nazionali, in quanto, come si è detto, valicano i confini di una
nazione. C’è una tensione tra il punto di arrivo e quello di partenza, c’è un
costante guardare indietro. Infine, gli scrittori e le scrittrici in esilio che scelgono
di scrivere nella lingua del paese di arrivo, si trovano anche in una condizione di
creazione tra due lingue.
La frontiera e l’attraversamento della frontiera per gli scrittori e le scrittrici
può diventare poetica transfrontaliera. In ogni modo, Mireille Calle-Gruber
ricorda che attraversare la frontiera non significa annullarla. Essa rimane presente,
simbolo e marca dell’incontro tra le diversità.
[…] franchir la frontière, c’est la maintenir frontière ; ce n’est pas l’abolir, tout le
contraire. Passer la frontière, c’est la passer sans cesse, non pas une fois pour toutes,
mais toutes les foies une autre. Le second postulat : toute frontière est intérieure.
Même la plus extérieure, la plus géographique, la plus matérialisée – mur, enceinte,
harem, voile, écriture.
2.3 Esilio, spazio e frontiera.
L’esilio è l’allontanamento, imposto o volontario, di un soggetto dalla
propria patria causato da un’intolleranza, che può essere politica, religiosa o
ideologica. L’esilio implica dunque un movimento del soggetto da un luogo ad un
altro. È un movimento attraverso lo spazio. Ogni movimento implica due punti,
due luoghi o localizzazioni nello spazio, che sono il punto di partenza e il punto di
arrivo. Per l’esule, il punto di partenza è innanzitutto la patria, da cui viene
espulso (anche nel caso dell’esilio volontario, il soggetto viene comunque espulso,
nel senso che si ritrova in una condizione insostenibile, altrimenti non
sceglierebbe l’esilio). Con la patria e il luogo da cui parte, l’esiliata o l’esiliato
perde anche il contesto fisico ed emotivo in cui si trovano la casa e la famiglia, in
cui una comune lingua madre contribuisce alla coesione sociale e al senso di
identità. Il punto di arrivo è rappresentato dal paese di adozione, con tutto ciò che
questo rappresenta in termini personali, politici, sociali, culturali e linguistici.
Per le scrittrici provenienti dal mondo arabo-islamico l’esilio si configura
inoltre come la segregazione della donna all’interno della casa, e dunque diventa
una limitazione al movimento verso l’esterno e l’estero. Anziché oltrepassare le
frontiere nazionali, l’esilio di queste donne è vissuto all’interno dello spazio
domestico. Le società musulmane, infatti, sono fortemente caratterizzate da
divisioni basate sul genere, e queste vengono organizzate spazialmente:
Gender in Muslim societies, for instance, is spacially organized and bounded (in
contrast to the organization of gender in modern American society), creating a sharp
differentiation between “inside” and “outside”, located within a broader terrain of a
borderless, potentially global community (umma).
Si può considerare una condizione di esilio metaforico anche quella cui si
arriva compiendo, volontariamente o forzatamente, un movimento che allontana
da un gruppo sociale. L’esilio, infatti, è un’esperienza individuale, che interessa il
soggetto singolo e non un gruppo o una comunità. Ciò vale anche se si sente
parlare del popolo ebreo esiliato, dei dissidenti sovietici e in generale dagli stati
dell’Europa dell’est, dell’esilio dal Sud Africa dei simpatizzanti dell’African
National Congress dalla fine degli anni Cinquanta al 1990. In questi casi, il
concetto di esilio si sovrappone ad un altro concetto utilizzato per descrivere i
movimenti di comunità, cioè la diaspora.
L’esilio, dunque, presuppone un movimento, che si concretizza, come si è
detto sopra, nel passaggio da una nazione ad un’altra, o da uno spazio sociale ad
un altro. Il movimento dell’esilio implica necessariamente un attraversamento di
confini e frontiere. Nel Vocabolario della lingua italiana, il ‘confine’ è definito
come “limite, termine, pietra, sbarra, steccato che delimita una proprietà. Linea
costruita naturalmente o artificialmente a delimitare i limiti di un territorio, di una
proprietà o la sovranità di uno stato”. Ogni volta, quindi, che ci si trova di fronte
ad una proprietà (dalla più piccola e privata a quella di uno stato) si è costretti a
confrontarsi con un confine. La proprietà presuppone un controllo e quando si
tratta di uno stato questo controllo si concretizza in controllo delle forze militari.
Nel caso dell’esilio più classico, quello in cui si è espulsi o si decide
volontariamente di abbandonare la propria patria, l’esule attraversa le reali
frontiere geopolitiche che separano gli stati. L’attraversamento delle frontiere da
parte dell’esule è uni-direzionale: dall’interno, cioè dalla patria, dalla casa, dalla
famiglia, ci si sposta verso l’esterno. Si tratta di un movimento uni-direzionale
perché l’esilio esclude il ritorno, almeno in un futuro prossimo o prevedibile, il
che provoca un costante senso di perdita e di nostalgia caratteristico dei soggetti in
esilio. L’esilio-isolamento, al contrario, come si è visto, si configura come
impossibilità, impedimento ad oltrepassare la frontiera, il limite imposto da altri,
dalla società, ecc. Ne sono esempio quelle donne che nelle società arabomusulmane sono relegate agli spazi considerati femminili e i cui movimenti negli
spazi esterni, pubblici, sono limitati, controllati, mai totalmente liberi ed
emancipati. Il corpo stesso della donna musulmana che esce in strada velata può
essere letto come un corpo che si muove in uno spazio paradossale:
geograficamente è fuori, ma psicologicamente e fisicamente, il velo la separa dallo
spazio esterno e la donna può muoversi al sicuro come tra le pareti domestiche. Il
velo rappresenta una frontiera sia fisica che interiore, psicologica.
2.4 Lo spazio e le pratiche spaziali.
I concetti e le metafore fin qui discussi, ossia frontiera, borderland, contact
zone, sono legati a quello di spazio, perché è nello spazio che tali concetti e
metafore hanno un senso. Lo spazio è una categoria astratta che possiamo
utilizzare per analizzare l’esilio attraverso la formulazione di un modello spaziale
teorico che mette in relazione lo spazio, da un lato, e, dall’altro, le categorie di
cultura, identità e lingua. Benché sia possibile dare definizioni specifiche di
ognuna di tali categorie, queste spesso interagiscono e si sovrappongono l’una
all’altra quando si tratta di definire un soggetto, nel nostro caso il soggetto in
esilio. Oltre a queste categorie, sarà necessario integrare nel modello teorico i
concetti di nazione/nazionalismo/identità nazionale e memoria. Queste ultime
categorie possono essere, nel nostro studio, considerate trasversali, in quanto
interessano tutte le altre: ogni nazione individua uno spazio, che a seconda dei
casi, può essere considerato contiguo o in opposizione ad un altro. Ogni nazione,
inoltre, è anche il sito di una determinata cultura, è un elemento dell’identità e del
senso di appartenenza di un individuo, ed è generalmente associata ad una lingua
nazionale o del gruppo etnico che la parla all’interno di una nazione. La memoria
interessa lo spazio nel senso che è legata ad eventi nel passato o nel presente che
si svolgono e sono localizzati in uno spazio preciso, che può essere una nazione,
un luogo, come la casa, o lo spazio pubblico contrapposto allo spazio privato. La
memoria è associata all’identità, dal momento che quest’ultima si riscrive ogni
giorno, si modifica con l’esperienza, è retrospettiva, “identity is retrospective”,
nella definizione che dà la filosofa femminista Rosi Braidotti. Infine, la memoria,
intesa come memoria collettiva, è anche parte della cultura che, come vedremo,
viene definita da più studiosi memoria di una comunità che viene tramandata. La
memoria è un elemento fondamentale delle scritture dell’esilio, dal momento che
l’esilio, in quanto perdita, è indissolubilmente legato al passato, alla vita prima
della frattura che è l’esilio.
La patria che l’esule abbandona e il paese di arrivo possono essere pensati in
termini spaziali, in cui l’esule è il soggetto, il vettore che si muove dall’uno verso
l’altro, attraversando una o più frontiere. In questa prospettiva la patria diventa lo
spazio di partenza, mentre lo stato ospitante è lo spazio di arrivo.
Tra la patria e lo stato ospitante vi sono diverse frontiere. Innanzitutto vi
possono essere frontiere geopolitiche da attraversare prima di arrivare a
destinazione. Ma esistono anche altri tipi di frontiere, meno nettamente definite
della linea di demarcazione dei confini e meno fisiche e tangibili dell’ufficio del
controllo dei passaporti. Esistono tante frontiere quante sono le differenze tra stati,
ad esempio la frontiera culturale, quella linguistica, quella religiosa, ecc.: esiste,
cioè, tutto un insieme di frontiere che il soggetto deve attraversare per passare dal
proprio stile di vita che corrisponde a quello della sua patria allo stile di vita in
atto nello stato che lo accoglie.
Per quanto riguarda la concettualizzazione dello spazio come categoria
teorica per gli studi letterari, parto dal lavoro di alcuni geografi e antropologi, le
cui teorie possono essere adattate all’analisi letteraria. Tali approcci delle scienze
sociali sono molto utili per osservare le scritture dell’esilio in particolare, e di
narrazioni di altre forme di movimento, quali diaspora, migrazione, espatrio,
nomadismo ecc, proprio perché vi aggiungono l’elemento primo in cui tali
movimenti avvengono, lo spazio appunto.
Le recenti teorie della geografia mettono l’accento sul fatto che lo spazio
non è mai vuoto o neutro, bensì pieno, denso. Susan Stanford Friedman scrive che
lo spazio si configura come
Generative of situation, relation, and social being; marked by formations of power
and resistance. Not a static essence, space in these terms is a location of historical
overdetermination, a site for the production of communal and individual identities.
L’antropologo James Clifford riprendendo la definizione di Michel de
Certeau, ritiene che lo spazio non sia ontologicamente dato, non è pre-esistente,
ma viene definito dai movimenti che avvengono attraverso di esso, dalle relazioni
tra le cose o dalla pratica discorsiva:
“Space” is never ontologically given. It is discursively mapped and corporeally
practised. An urban neighbourhood, for example, may be laid out physically
according to a street plan. But it is not a space until it is practiced by people’s active
occupation, their movements through and around it.
Da queste citazioni si comprende come non si possa pensare allo spazio
senza pensarlo in termini sociali, ovvero come popolato da soggetti, individui che
interagiscono. Anzi, sono esattamente i soggetti con i loro movimenti e azioni,
spostamenti e interazioni con gli altri soggetti e con i luoghi a definire lo spazio
che li circonda. Ciascun soggetto inoltre, non è un elemento vuoto, ma porta con
sé un mondo. Si può quindi dire che, attraverso il soggetto, nello spazio
interagiscono, vengono a contatto e dialogano anche la cultura, le identità e le
lingue.
Clifford, sempre mutuando da de Certeau, parla di “pratiche spaziali”
proprio per sottolineare l’idea che lo spazio è definito dalle pratiche che
avvengono su e attraverso di esso, cioè i movimenti, le relazioni e i discorsi
relativi allo spazio. Come l’antropologo, anche il teorico della letteratura deve fare
la sua ricerca “sul campo”, osservare le pratiche spaziali degli autori, specialmente
quando si tratta di autori in e dell’esilio, che hanno alle spalle l’esperienza del
movimento, dell’espatrio, dell’attraversamento di frontiere, della relazione con
altri autori nelle stesse condizioni o con altri espatriati, immigrati, viaggiatori.
Spesso, infatti, i soggetti che si trovano a vivere lontano dalla propria patria per i
più svariati motivi, tendono a ritrovarsi, raggrupparsi tra loro, scambiare e
rinvigorire i ricordi della patria, che diventa così spazio reale e immaginato al
contempo.
Inoltre, il teorico della letteratura deve anche studiare i movimenti dei
personaggi dei testi, dal momento che anche questi si muovono nello spazio,
instaurano relazioni con i luoghi e le persone. Per quanto riguarda i soggetti in
esilio, che si tratti di autori o di personaggi dei romanzi, questi mettono in
relazione, sia attraverso i loro corpi sia nella loro mente e nel loro immaginario,
luoghi e spazi differenti, li fanno incontrare e dialogare. Il corpo diventa il sito di
questo dialogo/comunicazione/negoziazione tra luoghi e spazi che possono essere
reali o immaginari, o entrambe le cose contemporaneamente.
Lo spazio, infatti, secondo il tipo di relazioni che vi si instaurano, si
configura di volta in volta come spazio fisico/geografico, politico o geopolitico,
sociale, culturale, linguistico, religioso, di genere etc. Inoltre, lo spazio può essere
sia reale, cioè fisico, tangibile, dove effettivamente avvengono le interazioni e i
movimenti, oppure immaginario, quando è pensato dal soggetto lontano. Lo
spazio immaginario è uno spazio mentale, che viene associato ad idee o
sentimenti. Nel caso dei soggetti in esilio, la patria diventa spesso uno spazio
immaginario, nel quale accadono eventi o sul cui sfondo il soggetto proietta
desideri e aspirazioni.
Un altro concetto introdotto da James Clifford, molto utile per descrivere le
dinamiche dei soggetti in esilio, è la coppia omofona roots/routes. La sua
associazione dei due termini, opposti ma omofoni in inglese, descrive la
negoziazione a livello identitario tra le proprie origini, cioè l’identità originaria, e
ciò che avviene durante il viaggio, lo spostamento. Per l’antropologo, un concetto
fondamentale e modello di vita dello studioso deve essere quello del ‘dwelling in
displacement’: infatti, dal punto di vista dello studio dell’antropologia, afferma
Clifford, questo modello di vita è il più adatto per lo studio di tale disciplina.
Possiamo mutuare tale concetto per lo studio dei soggetti in esilio e delle
loro scritture. Questo ci permette anche di affrontare il discorso sulla casa. Che
cosa significa e dove si localizza la casa per il soggetto in esilio? La casa è un idea
che ritorna spesso negli scritti degli esuli, come ricordo, come mancanza, come
ricerca. Ad esempio, la scrittrice croata Dubravka Ugrešić descrive con una
particolare attenzione la serie di case, appartamenti, cucine prese in affitto e poi
abbandonate, sottolineando come la biografia dell’esiliato/a possa essere
raccontata solo attraverso questi luoghi e attraverso oggetti concreti, perché la vita
in esilio è un continuo ricreare la propria casa, è un ‘dwelling in displacement’, è
un continuo far i conti e convivere con ‘routes’, ossia la strada e i nuovi luoghi a
cui questa ci conduce, e ‘roots’, la memoria, i ricordi e la nostalgia di ciò che è
stato abbandonato. Un altro esempio è quello fornito dall’autobiografia
dell’Iraniana Marjane Satrapi, questa volta una scrittura particolare, il fumetto: la
ragazza, mandata a studiare al liceo a Vienna perché in Iran era cominciata la
guerra, al rientro in patria la trova cambiata, non la riconosce più. Marjane, dopo
l’esperienza dello spaesamento, al rientro non si sente più a casa nella sua vecchia
casa, tutto è cambiato, le strade sono cambiate, le persone e le idee sono cambiate.
Allo stesso tempo, l’esule, Marjane, ama il proprio paese, ma non sopporta la
deriva islamista e nazionalista presa dai governanti del paese. In una tale
situazione, l’Iran resta la casa, la patria, ma è necessario distinguere, da un lato, la
casa così come è immaginata o voluta e, dall’altro, quello che è diventata. Inoltre,
l’esperienza nel mondo occidentale europeo, considerato all’avanguardia e
progredito, ha fatto capire al soggetto in esilio che anche l’occidente è pieno di
aspetti negativi come pure di immagini distorte del mondo orientale. Da questo
esempio si comprende anche, come già detto, l’importanza di considerare le
categorie di nazione/nazionalismo nello studio delle scritture dell’esilio.
Un ulteriore concetto da tener presente nello studio dell’esilio è ciò che lo
studioso australiano Nicos Papastergiadis definisce ‘the turbulence of migration’.
Spostando il concetto dalla migrazione all’esilio, che ha in comune con la prima
molti aspetti, quali lo spaesamento, il viaggio, lo spostamento a livello linguistico,
‘the turbulence of migration’ vuole descrivere gli effetti sul soggetto del viaggio,
dello spostamento.
CAPITOLO 3.
IDENTITÀ, LINGUA E MEMORIA.
3.1 Identità multiple e transnazionalismo.
La definizione di cultura data da Tzvetan Todorov come una “serie
d’appartenances” accosta la cultura al senso di appartenenza. La definizione che
dà lo studioso bulgaro identifica la cultura come qualcosa che è vicino all’identità
del soggetto: ciascun essere umano è abitato contemporaneamente da più culture e
a queste egli sente di appartenere. La definizione di Todorov si avvicina al
concetto di identità così come la esprime il premio Nobel per l’economia Amartya
Sen. Quest’ultimo parla di identità plurali, l’insieme delle quali costituisce
l’identità complessa di ogni singolo individuo:
In our normal lives, we see ourselves as members of a variety of groups – we belong
to all of them. The same person can be, without any contradiction, an American
citizen, of Caribbean origin, with African ancestry, a Christian, a liberal, a woman, a
vegetarian, a long-distance runner, a historian, a schoolteacher, a novelist, a feminist,
a heterosexual, a believer in gay and lesbian rights, a theatre lover, an environmental
activist, a tennis fan, a jazz musician, and someone who is deeply committed to the
view that there are intelligent beings in outer space with whom it is extremely urgent
to talk (preferably in English). Each of these collectivities, to all of which this person
simultaneously belongs, gives her a particular identity. None of them can be taken to
be the person’s only identity or singular membership category. Given our
inescapably plural identities, we have to decide in the relative importance of our
different associations and affiliations in any particular context.
Riconoscere la complessità, la molteplicità delle identità che compongono
l’essere umano, continua Sen, è fondamentale se si vuole instaurare pace ed
armonia nel mondo contemporaneo. Inoltre, è importante comprendere che tali
identità sono trasversali, cioè che ciascuna individua gruppi o collettività umane
che non sono limitate ad una cultura, civiltà o nazione. Ci sono delle identità che
individuano comunità transnazionali, mettono in comunicazione soggetti che
appartengono a nazioni, lingue, tradizioni diverse. Tali identità trasversali, in altre
parole, scavalcano i limiti e le frontiere tra stati, nazioni, civiltà, creando delle
solidarietà transnazionali che si basano su una grande varietà di elementi, che
possono essere il genere, il colore della pelle, il lavoro, gli hobby o la pratica di
uno sport, la passione per un certo tipo di cultura, teatro, arte, musica, etc. Tale
approccio alla questione dell’appartenenza identitaria degli essere umani mette
l’accento sulla responsabilità di ciascuno nei confronti delle scelte relazionali, e
sulle relazioni stesse. Sono i singoli soggetti che scelgono (liberamente) con chi
intessere relazioni, a quale gruppo o comunità appartenere. L’imposizione di
un’identità unica, unidimensionale, che spesso coincide, nel mondo
contemporaneo, con la presunta identità religiosa, è una violenza che si compie su
un individuo, imprigionandolo in schemi fissi, in opposizione l’uno all’altro. Tale
violenza è, sempre secondo Sen, all’origine della violenza nel mondo
contemporaneo tra cosiddette civiltà opposte, identificate esclusivamente in base
all’elemento religioso.
The politics of global confrontation is frequently seen as a corollary of religious or
cultural divisions in the world. Indeed, the world is increasingly seen, if only
implicitly, as a federation of religions or of civilizations, thereby ignoring all the
other ways in which people see themselves. Underlying this line of thinking is the
odd presumption that the people of the world can be uniquely categorized according
to some singular and overarching system of partitioning. Civilizational or religious
partitioning of the world population yields a “solitarist” approach to human identity,
which sees human beings as members of exactly one group (in this case defined by
civilization or religion, in contrast with earlier reliance on nationalities and classes).
Con queste argomentazioni Sen risponde alla diffusa concezione che vede il
mondo come un insieme di religioni, civiltà o culture in opposizione l’una
all’altra, e che ignora completamente le altre forme di identità che gli esseri umani
possiedono e giudicano importanti. Tale tendenza ad immaginare il mondo
suddiviso come un insieme di popoli che si oppongono l’un l’altro a causa delle
differenti religioni professate è alla base dei più violenti conflitti cui assistiamo
nel mondo contemporaneo. L’idea delle identità trasversali di Sen si propone
come una risposta alla visione conflittuale del mondo. In particolare, il Premio
Nobel critica la nozione dello “scontro di civiltà”, teorizzata dallo scienziato
politico statunitense Samuel Huntington nell’articolo apparso sulla rivista Foreign
Affairs nel 1993 e successivamente sviluppata nel libro The Clash of Civilizations
and the Remaking of World Order, del 1996. Il modello di Huntington presuppone
la concezione della cultura come una civiltà, che risulta un’entità chiusa e
continua al proprio interno, che può essere descritta in un certo senso attraverso il
modello della cultura che propone Lotman, un modello in cui tutto ciò che non
rispecchia le regole e i canoni della cultura stessa è considerato altro, diverso,
nemico. L’identità dei soggetti appartenenti all’una e all’altra cultura è ridotta ad
unidimensionale, è appiattita all’aspetto religioso.
È importante, come dicevo prima, tenere in considerazione la libera scelta
degli individui di intrecciare relazioni con altri esseri umani in base alle proprie
inclinazioni, aspettative, progetti, passioni, ecc. Nel mondo contemporaneo, più
che nel passato, esistono tecnologie che permettono lo scambio di comunicazioni,
messaggi, notizie, grazie alla telefonia cellulare, alle comunicazioni satellitari e ad
internet. Tali comunicazioni danno la possibilità di intessere strette relazioni con
qualsiasi località del globo (che sia industrializzato e in cui siano state portate tali
tecnologie) con estrema facilità. Grazie a queste tecnologie è, inoltre, possibile
sviluppare connessioni e reti tra persone, fondare gruppi o comunità di carattere
culturale, linguistico, politico, artistico, ecc, che esulano dai limiti fisici e
geografici della distanza. Queste tecnologie, che possono essere considerate anche
come modalità capaci di creare comunità, sono fondamentali quando si vogliano
studiare i soggetti che si muovono da un luogo all’altro del globo, e in particolare
i soggetti in esilio. Queste persone, spaesate, spesso allontanate dalla propria
famiglia, dai propri cari, dalla comunità di appartenenza, cercano di ricrearsi una
comunità sul luogo in cui sono arrivati. Questa può configurarsi come una
comunità i cui membri condividono la stessa situazione politico-personale di
espatriati, oppure che condividono la stessa patria, o la stessa lingua. Attraverso le
tecnologie della comunicazione è possibile addirittura stabilire contatti con chi è
rimasto nella nazione di origine. Inoltre, attraverso le persone, sono gli stessi
luoghi o spazi che vengono messi o mantenuti in contatto e grazie a questi contatti
si possono creare reti transnazionali, o “comunità immaginarie”.
3.2. L’identità per i soggetti in esilio.
Sen parla dell’importanza di riconoscere il dovuto spazio alle scelte
individuali. In questa prospettiva, è importante tenere in considerazione la risposta
della comunità quando un individuo richiede di farne parte. Questa risposta è di
grande importanza quando si studiano i soggetti migranti, in particolare, come
nella presente analisi, l’individuo in esilio.
Qui entra in gioco l’elemento nazionale. La categoria di
nazione/nazionalismo è rilevante nell’analisi teorica dell’esilio ed interseca in
modo trasversale tutte le altre (spazio, cultura, identità, lingua). La nazione,
infatti, è un’identità cultuale collettiva. Per l’esiliato/a, che ha abbandonato la
patria e risiede in un paese altro, si pone il problema di scegliere a quale identità
nazionale identificarsi, di riflettere e comprendere a quale paese sente di
appartenere.
A volte, tale sentimento di appartenenza è rivolto verso la propria patria, ma
non la patria come è al momento attuale, la cui politica o ideologia è stata la causa
dell’impossibilità di rimanervi. Il pensiero dell’esule va, dunque, verso una patria
del passato, prima che qualche terribile evento la cambiasse; l’esule guarda alla
tradizione, alla storia o ai miti del passato, ad una memoria collettiva di ciò che è
stato quel paese che si interseca con la memoria individuale. Ma l’assenza fisica
dalla terra di origine, come spiega Salman Rushdie in Imaginary Homelands,
implica una perdita (di memoria, di conoscenza, ecc.) che fa sì che chi si è
allontanato non possa far altro che creare nella propria mente una madrepatria
immaginaria, che sarà anche il suo progetto per il futuro.
But if we do look back, we must also do so in the knowledge – which gives rise to
profound uncertainties – that our physical alienation from India almost inevitably
means that we will not be capable of reclaiming precisely the thing that was lost; that
we will, in short, create fictions, not actual cities or villages, but invisible ones,
imaginary homelands, Indias of the mind.
Ma la vita dell’esule è anche caratterizzata da un altro elemento. Non solo
l’esule vive fuori dalla propria patria, ma ha scelto un’altra residenza, per sempre
o in attesa del ritorno. La distanza tra l’esiliato/a e la terra di origine è uno spazio
in cui si inseriscono, oltre che la memoria, anche lo Stato ospite, con le sue
strutture politiche, sociali, ideologiche, la lingua, la cultura, in breve, tutti gli
aspetti della vita di un paese e dei suoi cittadini. Senza dubbio, vivere immerso in
una cultura, in una lingua, in un sistema socio-politico-religioso differenti ha
influenze sull’individuo e sulla percezione della propria identità.
L’identità, infatti, oltre ad essere molteplice e sfaccettata sul piano
sincronico, è caratterizzata anche da uno sviluppo diacronico. L’identità non è
fissa, ma cambia, evolve nel tempo, con le esperienze che la persona vive.
L’identità è una costante negoziazione. Le esperienze si moltiplicano per chi
viaggia, per chi attraversa spazi, più di quanto accada a chi rimane in un luogo per
tutta la vita. Madan Sarup, filosofo di origine indiana, afferma che
Identity is changed by the journey.
Nei casi in cui l’esule abbia la libertà di scegliere in quale paese vivere il
proprio esilio, tale scelta è da tenere in considerazione perché può rivelare aspetti
interessanti dell’identità e del senso si appartenenza dell’individuo. Infatti, la
scelta di dove essere esiliato/a può derivare da una più o meno forte
identificazione con gli ideali che una nazione rappresenta. In altre parole, nella
scelta della terra del proprio esilio (dove ci sia la possibilità di una scelta libera, e
non dipendente da fattori politici o burocratici quali, ad esempio, la possibilità di
ottenere asilo politico e un visto di soggiorno) concorrono elementi di affinità,
identificazione e condivisione di idee, ideologie, valori con il paese stesso. Ad
esempio, la Francia, con i suoi storici ideali rivoluzionari di Liberté, Égalité,
Fraternité, è stata un approdo mitico per gli esiliati dall’Europa dell’Est nel corso
del Novecento e tuttora continua ad esserlo per i migranti provenienti dalle ex
colonie. Anche gli Stati Uniti continuano a richiamare grandi numeri di migranti,
espatriati, esiliati, rifugiati o cervelli in fuga, per il fatto di essere, fin dall’inizio
della loro storia moderna, il luogo che rappresenta la libertà personale, la
possibilità di costruirsi un futuro, il luogo mitico della democrazia e del progresso
sociale, culturale, scientifico e tecnologico. Come scrive Josif Brodskij,
l’esiliato/a non può che essere tale in un paese più liberale di quello da cui
proviene:
Da una tirannia si può essere esiliati solo in una democrazia.
Il soggetto in esilio, diversamente da chi emigra, non può tornare in patria. I
migranti spesso ritornano nel proprio paese per le vacanze e, con i mezzi a
disposizione al giorno d’oggi per i trasporti, è molto più facile. L’esiliato, per
definizione, si vede esclusa la possibilità di fare ritorno.
3.3 La lingua e lo spazio linguistico.
Come Lotman ha messo in evidenza a proposito della rappresentazione
spaziale della cultura e nel rapporto della cultura con il luogo, anche la lingua ha
una sua dimensione spaziale. Si parla di geografia anche per quanto riguarda le
lingue e la linguistica, e questa scienza ha fornito gli strumenti, le carte e le
metafore per lo studio delle differenze linguistiche e dei mutamenti delle lingue.
Le lingue cambiano nello spazio e nel tempo, scrive il linguista Georges Drettas:
Éléments fondamentaux de la culture des groupes humains, elles naissent, évoluent
en se transformant avec leurs locuteurs, puis certaines disparaissent laissant des
traces gravées à la limite du désert ou, pour le plus grand nombre, s’effaçant à jamais
dans un oubli que les mythes eux-mêmes ne comblent pas. […]
La géographie fournit la modélisation dominante à la linguistique issue de la
grammaire comparée. La faculté de langage, caractéristique propre de l’espèce, se
réalise dans des langues naturelles qui ne cessent de se différencier dans le temps.
L’ensemble est défini d’abord comme un phénomène spatial, avant d’être
explicitement reconnu comme un fait social.
Come spiega Drettas, fin dalla fine del XIX secolo la dialettologia ha preso
in prestito gli strumenti di rappresentazione propri della geografia del clima, nello
specifico le linee isoterme della seconda sono diventate modelli per le isoglosse,
cioè linee immaginarie che delimitano le aree in cui una lingua è parlata. I
fenomeni linguistici sono rappresentabili attraverso modelli spaziali e metafore
proprie della geografia: si parla di atlanti, di geografia linguistica, o
geolinguistica, per definire quella branca della linguistica che si occupa di studiare
l’estensione nello spazio dei fenomeni linguistici, come pure di frontiere
linguistiche.
Ogni lingua, quindi, occupa e determina uno spazio, ma allo stesso tempo
segue i movimenti dei parlanti. Le lingue si spostano, migrano, “vanno in esilio”
proprio come i loro locutori, che le portano nel viaggio con sé. Metaforicamente,
si può dire che la lingua entra nella valigia del soggetto che si sposta, espatria,
emigra o va in esilio.
La langue […] se déplace aussi aisément que l’être humain qui la possède. Et cet être
parlant, communément désigné sous le nom de locuteur, peut en avoir plusieurs, de
langues.
Grazie agli spostamenti dei locutori, le lingue entrano in contatto tra loro,
sia attraverso la prossimità geografica delle aree delimitate dalle isoglosse, sia
attraverso i commerci, i viaggi, le migrazioni o attraverso le guerre e le conquiste
coloniali succedutesi nel corso della storia. La francofonia, ad esempio, è una
diretta conseguenza delle conquiste coloniali.
In questa prospettiva, l’esilio implica un cambiamento di spazio linguistico,
che può causare conseguenze traumatiche, senso di smarrimento e perdita
d’orientamento. Spesso, infatti, nel passaggio da una lingua ad un’altra il parlante
si trova a disagio, incapace di esprimere i concetti, le idee, le sensazioni e i
sentimenti in modo esauriente. In quella che può essere chiamata ‘autotraduzione’, ossia in quella pratica attraverso la quale ci si auto traduce, si cercano
parole ed espressioni in un’altra lingua che possano trasporre i pensieri formulati
nella lingua primaria. Pensieri, emozioni, sensazioni sono molto delicati e il
processo di traduzione come pure quello dell’auto-traduzione, può causare delle
perdite di senso e significato. Nella traduzione qualcosa può andare perduto per
sempre, come vuole dimostrare la scrittrice di origine polacca Eva Hoffmann,
emigrata con la famiglia all’età di sette anni prima in Canada e poi negli Stati
Uniti. Nella sua autobiografia Lost in Translation, attraverso esempi della sua
storia personale di bambina sbarcata in una terra anglofona, racconta del suo
shock culturale quando si è trovata nell’impossibilità di esprimere l’interezza dei
suoi pensieri, delle sue sensazioni, come pure l’essenza stessa delle cose. La realtà
della Polonia non era esprimibile attraverso le parole e i suoni della nuova lingua.
Nell’atto della auto-traduzione qualcosa viene indiscutibilmente perso, che sia la
fluidità, la spontaneità della lingua e dell’espressione o la capacità di fare
dell’ironia.
Sembra esserci uno scarto tra ciò che si esprime nella lingua madre, tra i
concetti e i referenti della lingua madre, e quello che si riesce a dire in una lingua
acquisita successivamente, per quanto bene la si parli e la si conosca. Bertold
Brecht, in esilio negli Stati Uniti nel periodo 1945-46, scriveva in Ecrits sur la
politique et la société, che “I do not say what I want to say, but what I am able to”
.
So, if you want to really hurt me, talk badly about my language. Ethnic identity is
twin skin to linguistic identity – I am my language.
“I am my language”, afferma Gloria Anzaldùa, che dedica gran parte del
proprio libro Borderlands/La Frontera alla questione linguistica. La lingua è un
elemento molto importante di ciascun essere umano. È l’elemento con cui si
esprime, comunica con gli altri della sua specie. La lingua è lo spazio primario in
cui si nasce: ogni essere umano che viene al mondo, nasce all’interno di uno
spazio linguistico, viene nutrito dai suoni della lingua materna. Le sonorità di
quella lingua lo accompagneranno per l’intera vita, anche se cambierà paese,
viaggerà, parlerà lingue diverse, le sonorità, la musicalità della lingua prima non
saranno mai dimenticati. Il legame tra l’essere umano e la lingua madre è dunque
molto radicato in quanto la comunicazione, l’esprimersi, è una necessità della
persona, e la lingua madre è il mezzo più naturale attraverso il quale farlo.
La lingua materna delimita dunque uno spazio, che si può definire come
spazio linguistico. La lingua madre è lo spazio familiare per eccellenza, come la
casa, uno spazio in cui ci si sente a proprio agio, ci si muove naturalmente, ci si
sente al sicuro. Ci si sente protetti e rilassati e le parole vengono naturalmente,
senza sforzo, senza necessità di un esercizio mentale. Parlare la lingua madre è un
atto naturale. La lingua materna costituisce una sorta di matrice sensitiva, un
insieme di vibrazioni, sonorità che circondano l’essere umano fin già nel ventre
materno, che lo cullano e lo ospitano.
Su questo concetto è diversa la posizione del filosofo ebreo franco-algerino
Jacques Derrida. Nel testo Le monolinguisme de l’autre, in cui affronta il
problema dell’identità culturale dalla prospettiva della questione linguistica,
Derrida afferma che la lingua non si possiede, che nessun essere umano può dire
di avere una ‘propria’ lingua, perché questa gli viene donata da un essere altro da
sé. Derrida, ebreo nato in Algeria, si considera un individuo privo di una lingua
sua, in quanto la lingua che egli parla, e che gli è stata trasmessa in dono dalla
madre, è la lingua francese. In quanto ebreo, la lingua francese non è la lingua dei
suoi antenati, bensì è una lingua dell’altro.
Derrida alla fine giunge ad affermare che questa situazione di
disappartenenza della lingua è “una struttura universale” perché “rappresenta o
riflette una sorta di ‘alienazione’ originaria che istituisce ogni lingua come lingua
dell’altro: l’impossibile proprietà di una lingua”.
Si può dire che la lingua costituisce uno spazio di accoglienza, un’ospitalità.
Solo in un secondo momento arriva l’apprendimento della lingua, lo studio
cosciente e ragionato della lingua come sistema con le sue regole. Si apprendono
le regole sia della lingua materna che delle lingue straniere. L’accoglienza data
dallo spazio linguistico può essere rappresentata tramite la metafora della casa: la
lingua viene pensata come una casa che si abita come una dimora. Ad esempio, la
scrittrice algerina Assia Djebar, che scrive le sue opere in francese, lingua appresa
a scuola da bambina, considera questa lingua come una casa in cui abita:
Ainsi, le français est en train de me devenir vraiment maison d’accueil, peut-être
meme lieu de permanence où se perçoit chaque jour l’éphémère de l’occupation.
Mais enfin, j’ai fait le geste augural de franchir moi-meme le seuil, moi librement et
non plus subissant une situation de colonisation.
Si bien que cette langue me semble désormais maison que j’habite […].
Assia Djebar ha una situazione diversa da quella di Jacques Derrida. Djebar,
come altri scrittori e scrittrici maghrebini francofoni, sono meglio descritti dal
bilinguismo, così come lo analizza Abdelkebir Khatibi nella sua opera Du
bilinguisme. Questi hanno, infatti, “un accesso alla lingua detta materna”: l’arabo
dialettale, che appartiene agli antenati, la lingua che si parla in famiglia,
nell’ambito domestico. Il Maghreb risuona anche di sonorità berbere, la lingua più
antica e autoctona del Nord-Africa. A queste lingue, prevalentemente orali, si è
aggiunta la lingua francese, conseguenza della colonizzazione, che è entrata nella
vita del Maghreb, nelle scuole e nell’amministrazione, con le differenze da paese a
paese. Derrida, al contrario, in quanto ebreo franco-maghrebino, non può
rivendicare la lingua araba come di sua proprietà, né della sua famiglia. Non può
neanche rivendicare il diritto di proprietà sulla lingua francese, che non appartiene
ai suoi antenati. Il francese, per lui è la lingua dell’altro che gli è stata data dalla
madre.
Il monolingue di cui parlo parla una lingua di cui è privato. Non è la sua, il francese.
Poiché è dunque privato di ogni lingua, e non ha più altra possibilità a cui ricorrere –
né l’arabo, né il berbero, né l’ebraico, né alcuna delle lingue che degli antenati
avrebbero parlato –, tanto che questo monolingue è in qualche modo afasico (forse
scrive proprio perché è afasico), egli è gettato nella traduzione assoluta, in una
traduzione senza polo di riferimento, senza lingua originaria, senza lingua di
partenza. Non ci sono per lui che lingue d’arrivo, se vuoi […]
La lingua ci accoglie e ci immerge nelle sue sonorità. Per il neonato,
generalmente è la madre che se ne fa veicolo, lo culla nelle sonorità della sua
propria lingua.
All’inizio della sua autobiografia, Out of Place, in cui racconta la propria
condizione di vita in esilio, Edward Said afferma l’esistenza di un legame tra
lingua ed esperienze vissute:
Everyone lives life in a given language; everyone’s experiences therefore are had,
absorbed, and recalled in that language. The basic split in my life was the one
between Arabic, my native language, and English, the language of my education and
subsequent expression as a scholar and a teacher, and so trying to produce a
narrative of one in the language of the other – to say nothing of the numerous ways
in which the languages were mixed up for me and crossed over from one realm to the
other – has been a complicated task.
Ciascuna esperienza è legata ad una sola lingua, quella in cui avviene
l’esperienza stessa, perché è difficile per Said tradurre un’esperienza vissuta in
una lingua in un’altra. La condizione dell’esilio, invece, implica spesso la
necessità della traduzione. L’esilio è in se stesso un’esperienza linguistica, è una
condanna alla privazione della lingua madre, del mezzo naturale di esprimersi, e a
doversi adattare a vivere, comunicare, dialogare, in una nuova lingua.
Per lo studioso egiziano di islamistica Nasr Hamid Abu Zayd, condannato a
lasciare l’Egitto e vivere in esilio in Olanda, “l’esilio non è un luogo”. Per lui,
l’esilio non è una questione geografica, di distanza, perché con i mezzi a
disposizione al giorno d’oggi le distanze sono facilmente percorribili e
ravvicinate. Per Abu Zayd l’esilio è un’“esperienza linguistica”.
L’esilio non è più una questione di distanza; esistono telefono, fax e posta
elettronica. L’esilio non è un luogo.
Credo che l’esilio sia oggi un’esperienza linguistica: la condanna ad usare e alla fine
a pensare in una lingua diversa dalla madrelingua […].
Anche altri autori in esilio vivono la condizione dell’esilio come
strettamente legata alla lingua del paese in cui si trovano a vivere e, allo stesso
tempo, alla possibilità di usare solo limitatamente la lingua di origine. Tale
condizione però è vissuta in modo differente a seconda dei casi. Per alcuni,
l’allontanamento dalla lingua madre e dalle sue sonorità, dallo spazio linguistico
materno si può dire, è vissuto come un trauma, come una sofferta privazione di
una parte di se stessi e della propria identità. Per altri, al contrario,
l’avvicinamento alla nuova lingua, pur con qualche difficoltà iniziale, non
costituisce un grosso problema. Anzi, talvolta le due lingue, quella materna da cui
ci si allontana e quella del paese ospite, vivono in simbiosi, si alimentano a
vicenda, interferiscono e apportano novità una all’altra. La lingua del paese ospite
diventa a sua volta una lingua ospite, si fa spazio di accoglienza. Sono molti gli
autori e le autrici, infatti, che scelgono di scrivere ed esprimersi nella lingua
ospite, che di volta in volta viene definita lingua di adozione, o lingua “matrigna”,
come il francese per la scrittrice algerina Assia Djebar.
Per molte delle autrici e autori qui analizzati, scrivere in francese o in
inglese, piuttosto che nella lingua madre, non è vissuto come una privazione, un
dolore, una violenza, bensì come una libera scelta. Motivazioni personali, di
libertà o di capacità di meglio esprimere se stessi o le proprie idee, hanno portato
all’adozione della lingua altra. Talvolta è stato il pubblico a cui ci si voleva
rivolgere a determinare la scelta. La scrittrice ceca Linhartová scrive :
J’ai donc choisi le lieu où je voulais vivre mais j’ai aussi choisi la langue que je
voulais parler. Souvent, on prétend que, plus que quiconque, un écrivain n’est pas
libre de ses mouvements, car il reste lié à sa langue par un lien indissoluble. Je crois
qu’il s’agit là encore d’un de ces mythes qui servent d’excuses à des gens timorés
[…]. L’écrivain n’est pas prisonnier d’une seule langue. […] mes sympathies vont
aux nomades, je ne me sens pas l’âme d’un sédentaire.
Un altro personaggio che ha lasciato la sua terra natia, la Romania, per
vivere in Francia, Cioran ha scritto che "non viviamo in un paese, ma in una
lingua". Tutti questi esempi dimostrano come la lingua sia percepita come un vero
e proprio spazio, che può essere abitato, vissuto, praticato e la lingua materna,
quella nelle cui sonorità si è nati, rappresenta la nostra casa uditiva.
Un altro aspetto dell’esilio linguistico è messo in luce da Amara Lakhous,
un giovane scrittore algerino che vive e lavora in Italia. Rivolgendosi a Julio
Monteiro Martins, autore brasiliano da anni trasferitosi in Italia, che scrive
anch’egli in italiano, Lakhous distingue l’esilio compiuto di quest’ultimo dal suo
personale esilio incompiuto. Scrivere nella propria lingua per Lakhous equivale a
trovarsi in una situazione in cui la scelta dell’esilio non è stata ancora attuata al
cento per cento, perché l’esilio completo e compiuto si ha solo quando si decide di
abbandonare anche la propria lingua:
Adesso ho capito, il tuo esilio, caro Julio, è compiuto, la differenza fra me e te è che
tu vivi un esilio concluso (la separazione dal Brasile e dal portoghese) mentre io
vivo in un esilio incompiuto, sto combattendo la tentazione della lingua italiana,
scrivo in Arabo e traduco quello che scrivo per uscire dall'isolamento, scrivo nella
mia lingua d'origine perché è il ponte che mi lega alla mia memoria, al mondo di ieri,
come diceva Stefan Zweig, è la lingua/ponte/sale che salvaguarda il prolungamento
della ferita, che la ferita rimanga aperta, testimone del nostro scandalo, lo scandalo
dell'upupa che fa i suoi bisogni nel proprio nido.
3.4 Lingue in contatto, bi- e pluri-linguismo,
politica linguistica e nazionalismi.
Au début, il n’y avait qu’une seule langue. Les objets, les choses, les sentiments, les
couleurs, les rêves, les lettres, les livres, les journaux, étaient cette langue. Je ne
pouvais pas imaginer qu’une autre langue puisse exister, qu’un être humain puisse
prononcer un mot que je ne comprendrais pas.
Ci sono persone per le quali esiste solo una lingua, almeno fino ad una certa
età della vita. Persone che hanno vissuto e usato sempre una ed una sola lingua,
per le quali i sentimenti, le cose, i colori, le emozioni possono essere espresse solo
attraverso le parole di quella lingua, perché in un'altra lingua non sono le stesse.
La traduzione comporterebbe una perdita irrimediabile. Le condizioni e il luogo o
paese di nascita sono elementi fondamentali che determinano l’esperienza
linguistica e il modo di rapportarsi di una persona alla lingua o alle lingue. La
citazione qui sopra è tratta dal racconto autobiografico L’Analphabète di Agota
Kristof, scrittrice nata in Ungheria nel 1935, in un paesino di nome Csikvand. Nel
1956, al momento dell’occupazione dell’Ungheria, scappa in Svizzera, dove
comincia una nuova vita come operaia e dove è costretta ad imparare il francese.
Quando aveva nove anni la sua famiglia si era trasferita in una città di frontiera al
confine con la Germania e a quel punto la bambina ungherese aveva cominciato a
capire che esistono persone che possono parlare anche altre lingue, diverse dalla
sua. Ma i parlanti tedeschi, alle sue orecchie, erano parlanti di una lingua
‘nemica’:
Quand j’avais neuf ans, nous avons déménagé. Nous sommes allés habiter une ville
frontière où au moins le quart de la population parlais la langue allemande. Pour
nous, les Hongrois, c’était une langue ennemie, car elle rappelait la domination
autrichienne, et c’était aussi la langue des militaires qui occupaient notre pays à cette
époque.
Un an plus tard, c’étaient d’autres militaires étrangers qui occupaient notre pays. La
langue russe est devenue obligatoire dans les écoles, les autres langues étrangères
interdites.
Personne ne connaît la langue russe. Les professeurs qui enseignaient des langues
étrangères : l’allemand, le français, l’anglais, suivent des cours accélérés de russe
pendant quelques mois, mais ils ne connaissent pas vraiment cette langue, et ils n’ont
aucune envie de l’enseigner. Et de toute façon, les élèves n’ont aucune envie de
l’apprendre.
On assiste là à un sabotage intellectuel national, à une résistance passive naturelle,
non concertée, allant de soi.
Poche righe dopo, Kristof afferma che anche la lingua francese, che parla da
oltre trent’anni e nella quale scrive ed è scrittrice riconosciuta ed apprezzata, resta
comunque una lingua nemica:
Je parle le français depuis plus de trente ans, je l’écrit depuis vingt ans, mais je ne le
connais toujours pas. Je ne le parle pas sans faute, et je ne peux l’écrire qu’avec
l’aide de dictionnaires fréquemment consultés.
C’est pour cette raison que j’appelle la langue française une langue ennemie, elle
aussi. Il y a encore une autre raison, et c’est la plus grave : cette langue est en train
de tuer ma langue maternelle.
Le lingue possono essere percepite come nemiche, per varie ragioni, ma
molto spesso perché sono associate ad eventi storici o personali negativi, tristi o
legati ad avvenimenti di oppressione. Nel caso di Kristof, il tedesco e,
successivamente, il russo sono le lingue del nemico, dei militari invasori, di
popoli che hanno privato la nazione ungherese della propria libertà.
L’esperienza linguistica degli esseri umani è molto varia da persona a
persona. Alcuni nascono in paesi dove il bilinguismo è la norma, per cui crescono
con le sonorità di più lingue contemporaneamente, pur mantenendone una sola
come lingua materna. Inoltre, a seconda dei casi, le lingue ‘altre’ possono
configurarsi o meno come lingue nemiche. Un’esperienza che nel corso della
storia ha fatto interagire le lingue, le ha messe fianco a fianco, è stata la
colonizzazione, che per i colonizzati somiglia all’invasione militare sovietica
dell’Ungheria e degli altri paesi dell’Europa Orientale.
Le lingue entrano in contatto tra loro in vari modi. I soggetti che migrano,
che viaggiano, che commerciano con l’estero, che espatriano per i più svariati
motivi sono uno dei principali fattori che portano in contatto e fanno interagire
lingue differenti. Lo stesso corpo umano diventa il sito in cui le lingue si
incontrano, si conoscono, dialogano tra loro. Nel caso della colonizzazione, le
grandi potenze coloniali hanno imposto la propria lingua alle popolazioni che via
via hanno sottomesso. Così ancora al mondo d’oggi sappiamo come sia
importante la francofonia, e come tante nazioni nel mondo parlano, oltre alla
propria lingua nazionale o al proprio dialetto, anche la lingua dell’antico
colonizzatore.
La colonizzazione, d’altro canto, è stata un evento terribile per chi l’ha
subita e la lingua è stato il più potente mezzo di colonizzazione. Forzare un
popolo ad usare una lingua diversa da quella materna significa modificare con la
forza il suo modo di pensare, vedere e concepire il mondo; significa inscrivere
nella sua mente una cultura differente. Metaforicamente, tale esperienza può
essere descritta come un forzato allontanamento del locutore dalla propria casa,
poiché, come si è visto prima, la lingua in cui è nato può essere descritta come una
casa. Significa de-localizzare il parlante, spaesarlo a forza, cacciarlo dalla sua casa
e imporgli di “abitare” in un altro luogo, che non conosce bene, che non gli è
familiare, in cui potrebbe non sentirsi a proprio agio. Attraverso la lingua, il
colonizzatore impone le proprie strutture, le proprie gerarchie e il proprio ordine
del mondo, che si riflettono nelle strutture linguistiche. La lingua diventa il mezzo
attraverso il quale tale ordine gerarchico si perpetua, grazie all’interiorizzazione
delle strutture linguistiche da parte del popolo sottomesso. La lingua si fa anche
veicolo dei valori insiti in una cultura, per cui la lingua europea nei secoli del
colonialismo ha imposto i valori europei ai popoli sottomessi.
La lingua stabilisce rapporti di potere. La lingua concepita come
gerarchicamente più elevata è solo quella parlata dal colonizzatore, la lingua
standard (sia essa il British English o il francese di Francia); tutte le altre varianti
sono marginalizzate e individuano parlanti di livello inferiore, proprio perché
riconosciute all’istante come ‘diverse’. I rapporti di potere si delineano anche
attraverso i differenti modi e accenti locali in cui la lingua dell’oppressore viene
interiorizzata, parlata e scritta.
La nozione di ‘differenza’, elaborata dalla teoria femminista, può essere
applicata ad altre forme di marginalizzazione/sottomissione. Secondo la teoria
femminista, il concetto di ‘differenza’ è luogo di forti tensioni, dal momento che il
pensiero occidentale si articola secondo opposizioni binarie, dove il primo termine
di paragone è definito come ‘neutro’ Qualsiasi soggetto ‘altro’ è immediatamente
riconosciuto come ‘deviante dalla norma’, anomalo e perciò diverso nel senso
negativo del termine. Seguendo il pensiero di Braidotti, il diverso ha qualcosa in
meno, manca di alcune caratteristiche, da cui la connotazione negativa,
peggiorativa del termine: essere ‘diverso da’ equivale, nella logica europea
occidentale, ad essere ‘meno di’:
In European history, this ‘difference’ has been predicated on relations of domination
and exclusion: to be ‘different from’ came to mean to be ‘less than’. Difference thus
acquired both essentialistic and lethal connotations, which have reduced entire
categories of people – branded as the ‘others’ – to the status of disposable bodies:
slightly less human and consequently considerably more mortal. In this dialectic
scheme of thought, difference or otherness is a constituitive axis which marks off the
sexualized other (woman), the racialized other (the native) and the naturalized other
(animals, the environment or earth). These others, however, are constitutive in that
they are expected to confirm the same in His superior position.
Tale teoria femminista della differenza, inizialmente concepita per
decostruire il discorso patriarcale maschile che relega le donne ad una posizione di
‘altra’, ‘diversa’, può venire estesa anche ad altre forme di minoranze/diversità,
come appunto alle popolazioni autoctone delle regioni colonizzate o ai parlanti di
lingue che esulano dalla cosiddetta lingua standard.
La lingua del colonizzatore ha, dunque, da un lato permesso alle popolazioni
locali di entrare a far parte del sistema economico, produttivo, burocratico, ecc.,
della potenza coloniale, ma dall’altro lato il rapporto che tali popolazioni hanno
con la lingua del colonizzatore è ambiguo, perché contiene anche forti echi e
connotazioni negative legate alla dura esperienza della colonizzazione.
3.5 Lingua e colonizzazione.
La negoziazione con la lingua dell’altro è sempre un’esperienza molto
personale, evidente dalla vasta gamma di esperienze che si trovano narrate nei
romanzi e nei discorsi autobiografici. Il rapporto con la lingua dell’altro è sempre
comunque problematico, e comporta una continua negoziazione. Homi Bhabha
parla di estraneità della lingua, la sensazione che prova il migrante di essere
escluso dalla lingua dell’altro anche dopo averla imparata:
He learnt twenty words of the new language. But to his amazement at first, their
meaning changed as he spoke them. He asked for coffee. What the words signified to
the barman was that he was asking for coffee in a bar where he should not be asking
for coffee.
È come se l’uso delle parole di un’altra lingua ci fosse negato, come se non
avessimo il diritto di usarle, di appropriarcene. A questo Bhabha oppone il diritto
alla scrittura e alla narrazione, ossia “tutte quelle forme di comportamento
creativo che ci permettono di rappresentare la vita che conduciamo, di interrogarci
sulle convenzioni e i costumi che ereditiamo”. Il diritto, cioè, di autorappresentarsi, di portarsi sulla pagina, di esporsi ed esporre le proprie idee e la
propria identità.
La lingua demarca l’identità. L’uso che facciamo del linguaggio e il nostro
accento riflettono nel mondo la nostra identità e ci ‘localizzano’. “Il diritto alla
narrazione”, continua Bhabha, “presuppone che ci sia un impegno a creare ‘spazi’
per la diversità culturale e regionale”. Inoltre, come afferma Hannah Arendt, il
linguaggio è sia discorso sia azione, è un atto linguistico, di conseguenza è solo
attraverso la parola, scritta o pronunciata, che il soggetto può dirsi e agire.
Il colonialismo è stato ovunque un trauma per le popolazioni assoggettate e,
per quanto riguarda più da vicino il mondo arabo-islamico, ha costituito una
violenta irruzione dell’Occidente. Le potenze coloniali hanno, infatti, cercato di
instaurare con la forza il modello di vita europeo in quelle regioni, e ciò ha
comportato forti squilibri a livello economico, sociale e culturale, piuttosto che
una vera modernizzazione. L’occidentalizzazione forzata ha causato gravi danni
alle nazioni, particolarmente in Algeria, dove la lotta per l’indipendenza e il
successivo cammino per ricostruire la pura società algerina sono stati lunghi e
sanguinosi e non hanno ancora trovato una soluzione definitiva al giorno d’oggi.
Nel mondo arabo-islamico, per quanto riguarda i rapporti con le potenze
coloniali e, conseguentemente, l’atteggiamento nei confronti della lingua della
colonizzazione, si individuano due macro-regioni: il Maghreb, ossia il mondo
arabo occidentale, costituito da Marocco, Algeria, Tunisia (e Mauritania), e il
Mashreq, il mondo arabo orientale, comprendente Libia, Egitto, il Medio Oriente
e i paesi della Penisola Arabica. Le due macro-regioni hanno storie e processi
evolutivi della società differenti, fin dai tempi della conquista musulmana, e il
loro divario si è accresciuto nel tempo, diventando ancora più marcato dopo le
lotte per l’indipendenza e con il sorgere degli stati nazionali. Lo spartiacque
fondamentale per lo studio delle civiltà del mondo arabo, infatti, è di norma tra
prima e dopo le rispettive indipendenze.
Isabella Camera d’Afflitto, una delle principali studiose italiane della
letteratura araba, spiega i limiti della prospettiva occidentale nel mondo arabo:
Si continua a parlare di mondo arabo come se fosse un tutt’uno, ma già all’inizio del
XX secolo le differenze e le peculiarità appaiono sempre più chiare, e con il passare
le tempo le differenze si accentuano, anche se gli eventi continuano ad intrecciarsi. E
diventa sempre più opportuno parlare di “letterature arabe” al plurale, perché ogni
paese ha una produzione letteraria specifica, che rispecchia la sua storia politica e
sociale.
La questione linguistica ha ovviamente una rilevante importanza per quanto
riguarda la letteratura di queste regioni. Grazie, o a causa, della colonizzazione,
questi paesi sono stati il luogo di incontro, scontro, scambio di due o più lingue,
per cui uno dei retaggi di questo trauma storico è oggi una situazione di
bilinguismo, o multilinguismo o almeno presenza di più lingue che coabitano, più
o meno pacificamente.
C’è inoltre la questione se le opere in francese o in inglese prodotte da
persone di origine araba debbano essere considerate appartenenti alla letteratura
araba oppure, rispettivamente, a quelle francese/francofona o inglese/anglofona. In
questo lavoro prendo esplicitamente in esame le opere prodotte da scrittrici
provenienti dalle regioni del cosiddetto mondo arabo-islamico che hanno scelto
come propria lingua di espressione il francese o l’inglese. In quasi tutti i casi che
verranno proposti in questo lavoro, la scelta di adottare una lingua per
l’espressione letteraria diversa dalla lingua madre è conseguente ad uno
spostamento geografico, che si associa in un certo modo anche ad un
avvicinamento verso la cultura del paese di provenienza della lingua.
Per la grande, fondamentale importanza che la lingua ricopre nei rapporti di
potere e di autodefinizione del soggetto e della sua identità, gli scrittori e
intellettuali da tempo riflettono approfonditamente sulle ragioni e sulle
conseguenze della scelta della lingua letteraria, ottenendo spesso risposte
differenti e personali. Si tratta comunque sempre di una risposta alla
colonizzazione, in tutti i suoi aspetti, politico, sociale, economico o linguistico.
Per i sostenitori della tesi che anche la letteratura francofona debba essere
annoverata a pieno diritto tra la letteratura araba in generale “l’appartenenza ad
una determinata cultura va ben al di là dell’uso di una certa lingua, comprendendo
un’esperienza, un legame culturale e anche affettivo con un paese e la sua cultura,
le persone, le atmosfere”. L’identità di un popolo e di ciascun individuo, se da una
parte sono estremamente legati ad una data lingua madre, come si è visto sopra,
dall’altra non si esaurisce in questa e vi sono individui che preferiscono o si
trovano più a loro agio ad esprimere i legami, gli affetti, e i sentimenti verso il
proprio popolo, la propria terra e la propria nazione in una lingua acquisita,
studiata sui libri o tra i banchi di scuola.
Anche perché è proprio la scuola che, come si vedrà anche successivamente
nell’analisi delle autrici, viene percepita come luogo di apprendimento e di
formazione di una propria identità autonoma. È a scuola che le ragazzine
imparano a pensare e formano il proprio carattere. Ritroviamo spesso il racconto
dei giorni di scuola e le esperienze relative alla scuola nei racconti e nelle
autobiografie delle scrittrici, che le presentano come momenti fondamentali per la
formazione del proprio carattere e delle proprie idee sulla vita, sulle tradizioni,
sull’organizzazione familiare e sul lavoro. Conoscendo tutto ciò, non meraviglia
che molte autrici preferiscano esprimersi nella lingua che più strettamente è legata
ai ricordi della scuola e alle letture che hanno riempito i loro giorni e hanno
modellato il proprio modo di pensare. L’istruzione delle bambine e delle giovani
donne nel mondo arabo, come sempre è accaduto nel passato in altre regioni del
mondo, va di pari passo con una sempre maggiore presa di coscienza della propria
condizione e della possibilità di scelte alternative a quelle offerte, o spesso
imposte, dalla tradizione e dalla società in cui scrivono.
La questione linguistica, e in particolare per quanto riguarda l’espressione
scritta e la produzione letteraria, è molto sentita in Maghreb, molto più che nelle
altre regioni arabe, e in particolare in Algeria, dove i francesi hanno più
fortemente attuato una dearabizzazione della popolazione autoctona. La scuola in
Maghreb era completo dominio della lingua francese, e se qualcuno veniva trovato
a parlare in arabo veniva punito, cosa che ci viene descritta in molti romanzi e
autobiografie. In Algeria, ad esempio, la francesizzazione dell’amministrazione
della società è stata una vera e propria politica della colonizzazione. Ma
nonostante ciò, non c’è risentimento verso la lingua francese tra gli autori e le
autrici francofone. Inoltre, gli scrittori e le scrittrici maghrebine francofone
mostrano un profondo attaccamento e amore verso la propria cultura, la propria
gente, la propria terra, e “l’utilizzo della lingua francese non ha impedito loro di
restare profondamente arabi o berberi”. In più, gli scrittori e le scrittrici francofoni
utilizzano un francese puro, perfetto, raffinato, studiato, come strumento per
“affermare la propria dignità nei confronti del colonizzatore”. Si scrive in francese
meglio dei francesi.
Per quanto riguarda i popoli che hanno subito la colonizzazione, varie
strategie vengono messe o sono state messe in atto per contrastare la
colonizzazione linguistica. Alcuni scrittori soprattutto dell’Africa sub-sahariana e
meridionale, mirano ad affrancarsi dal retaggio coloniale cercando spazi di
espressione nelle lingue locali, pre-coloniali. In un’intervista per una rivista
francese, Nadine Gordimer, scrittrice Sudafricana, sottolinea l’importanza di
creare le condizioni perché i giovani scrittori possano esprimersi nella lingua
madre, perché la lingua del colonizzatore non permette di esprimere fino in fondo
i propri sentimenti e le emozioni più profonde; ma conclude che, dopo tutto, la
scelta della lingua attraverso la quale esprimersi deve essere una scelta personale:
Nous ne pouvons pas avoir une littérature sud-africaine faite uniquement en anglais
ou en afrikaans, qui sont toutes les deux des langues européennes. Nous devons
absolument créer des conditions pour que les Noirs puissent s’exprimer dans leur
langue maternelle. Car ce sont dans les langues maternelles que se trouvent les
émotions, les sentiments les plus profonds. Je ne suis pas en train de dire que les
Noirs doivent abandonner l’anglais. Chacun devrait pouvoir s’exprimer dans la
langue de son choix.
Personale è, ad esempio, la scelta di Assia Djebar, che scrive in francese, la
lingua del colonizzatore dell’Algeria in cui è nata e cresciuta. Ma il suo uso della
lingua francese non esprime sottomissione al francese/alla Francia e alla cultura
che queste realtà rappresentano (da cui l’ironica definizione del francese come
‘lingua dell’antico colonizzatore’). Al contrario, per Djebar la lingua francese si
definisce come strumento di liberazione e di contro-colonizzazione: utilizzare il
francese meglio dei francesi e portare l’‘altro da loro’ a casa loro.
Questo lavoro si propone di comprendere che cosa ha spinto le scrittrici a
scegliere la lingua dell’antico colonizzatore, quali sono le strategie di
appropriazione e i fini di tale scelta, le dinamiche di “abrogation and
appropriation”.
La questione linguistica si è posta urgentemente al momento
dell’indipendenza. In alcuni paesi questa questione si è risolta senza troppi traumi,
mentre in Algeria, ad esempio, la questione linguistica è stata caricata di valenza
nazionalistica.
3.6 Il tempo, l’assenza e la memoria nell’esilio.
Qualsiasi movimento, viaggio, spostamento nello spazio non può
prescindere dal tempo. Il tempo è una categoria usata nella geografia fisica ed
umana, che studia le interazioni delle comunità sul territorio nel corso del tempo,
cioè le interazioni tra spazio e essere umano. Il tempo aggiunge una dimensione
dinamica ai modelli spaziali di interazione individuo/spazio, mettendo in luce le
differenze o le continuità tra gli avvenimenti/eventi nei vari punti dello
spostamento. Nell’analisi dello spostamento dell’esilio diviene categoria
essenziale.
Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so. Se dovessi spiegarlo a
chi m’interroga, non lo so.
Con questa frase quasi paradossale, Sant’Agostino dichiara la difficoltà di
collegare due procedimenti percettivi: da un lato la percezione naturale del tempo
che scorre e dall’altro, la sensazione di non riuscire a concettualizzarla
adeguatamente. Lo stesso Sant’Agostino (Cap. XI) ha definito il presente come
qualcosa di intermedio tra il ‘non essere più’ (=passato) e il ‘non essere ancora’
(=futuro). Di certo la percezione del fluire del tempo rimane nel soggetto, nella
sua memoria. La memoria presente è legata al tempo passato, cioè un tempo che
non è più, che è assente. La memoria, quindi, colma un’assenza.
Nel corso del XX secolo, soprattutto grazie alla rivoluzione del pensiero che
si è avuta grazie alla Teoria della Relatività di Einstein, è cambiato il modo
tradizionale di pensare al tempo. L’idea di fondo è che, come spiega lo scienziato
Stephen Hawking nel suo famoso libro Dal Big Bang ai buchi neri,
il tempo non sia separato completamente dallo spazio e da esso indipendente, ma che
sia combinato con esso a formare un’entità chiamata spazio-tempo.
È un fatto di comune esperienza che si può descrivere la posizione di un punto nello
spazio per mezzo di tre numeri o coordinate. […]
Un evento è qualcosa che accade in un particolare punto nello spazio e in un
particolare tempo. È perciò possibile specificarlo per mezzo di quattro numeri o
coordinate.
Questa quarta coordinata consiste proprio nel tempo, ovvero il momento in
cui si verifica un determinato evento.
Nella Teoria della Relatività, non esiste un tempo unico assoluto, ma ogni
individuo ha la propria misura personale del tempo, che dipende da dove si trova e
da come si sta muovendo. Il tempo è dunque legato alla percezione personale
dell’individuo, è sempre un tempo percepito. La realtà fisica è dipendente
dall’osservatore e con esso interagisce.
Sino all’inizio di questo secolo si credette in un tempo assoluto. In altri termini, ogni
evento poteva essere etichettato da un numero chiamato “tempo” ad esso associato in
un modo unico, e ogni buon orologio avrebbe concordato con ogni altro nel misurare
l’intervallo di tempo compreso fra due eventi. La scoperta che la velocità della luce
appare la stessa ad ogni osservatore, in qualsiasi modo si stia muovendo, condusse
però alla teoria della relatività, nella quale si dovette abbandonare l’idea che esista
un tempo unico assoluto. Ogni osservatore avrebbe invece la sua propria misura del
tempo quale viene misurato da un orologio che egli porta con sé: orologi portati da
differenti osservatori non concorderebbero necessariamente fra loro. Il tempo
diventò così un concetto più personale, relativo all’osservatore che lo misurava.
Lo scorrere del tempo viene dunque percepito diversamente a seconda del
sistema di riferimento, dicono i fisici. Tradotto in linguaggio letterario, possiamo
dire che la percezione del tempo è diversa a seconda dello spazio in cui ci si trova.
Tenendo presente questa idea nel caso degli esuli, se ne deduce che la percezione
del tempo è diversa nei due spazi, di partenza e di arrivo. Dubravka Ugrešić,
osservando lo smarrimento del suo personaggio quando dal suo esilio in Olanda fa
un breve rientro nella natia Zagabria, trova che “la percezione del tempo” è
diversa. Per coloro che se ne vanno, lo spazio “laggiù” rimane ancorato alla
memoria, ai ricordi, e nella loro mente non cambia, non può e non deve cambiare,
quasi non ne abbia il diritto. Per coloro che se ne vanno per una ragione dolorosa
come la guerra, la povertà o la persecuzione, lo spazio abbandonato rimane
sospeso nel tempo e serba una nostalgia e un fascino legato al momento del
distacco, che si configura come una vera e propria lacerazione. È il trauma di
doversene andare che dona valore emotivo, affettivo, al “laggiù”. La ferita della
lacerazione non si chiude e continua a far male, riproponendo immagini di un sé
non diviso fra un là e un tempo perduto e il qui del vissuto presente.
Nell’autobiografia di Hoffman, la scrittrice da adulta ritorna ad analizzare la
propria storia di emigrazione e la sua esperienza di esilio. Attraverso la
rievocazione delle sue sensazioni di nuova arrivata, la scrittrice dimostra che il
passato, lo spazio e la lingua del passato sono una componente fondamentale
dell’identità di una persona e che perderle, annullarle, equivale ad annullare quella
persona. Emigrata all’età di tredici anni con la sua famiglia in Canada, a
Vancouver, si ritrova di colpo privata del suo passato. Hoffman rivela che i suoi
affetti, nei primi mesi dopo l’arrivo sul nuovo continente, sono tutti rivolti alla
Polonia, alla natia Cracovia, agli amici e alle persone care che facevano parte dalla
sua vita laggiù.
Si è detto, a proposito della definizione di Sant’Agostino, che il passato è un
tempo che non è più, è dunque ‘assenza’. Dalle narrazioni degli scrittori che
raccontano dell’esilio si evince sempre il loro attaccamento al passato, allo spazio
abbandonato. Con un paradosso, potremmo affermare che la vita dell’esule è
‘colma di assenze’. In Etrangers à nous-mêmes, Julia Kristeva afferma che
L’exilé […] s’attache fièrement à ce qui lui manque, à l’absence, à quelque symbole.
[…] Le rejet d’un coté, l’inaccessible de l’autre : si l’on a la force de ne pas y
succomber, il reste à chercher un chemin.
Eva Hoffman, nel romanzo autobiografico Lost in Translation,
poeticamente comunica la propria condizione di esule che, pur camminando per le
strade di Vancouver, ha la mente, il cuore e gli occhi pieni solamente delle
immagini della sua amata Polonia, ormai abbandonata. Si sente ‘incinta’ della
Polonia lontana, assente:
As I walk the streets of Vancouver, I am pregnant with the images of Poland,
pregnant and sick. […] The largest presence within me is the welling up of absence,
of what I have lost. This pregnancy is also a phantom pain.
Questa assenza domina la mente del soggetto in esilio, che sente forte la
frattura temporale nella propria vita, una vita “prima” dello spaesamento e una
nuova vita “dopo”, che corrispondono all’opposizione spaziale tra “qui” e “là” o
“laggiù”. Eva Hoffman scrive:
Loss is a magical preservative. Time stops at the point of severance, and no
subsequent impressions muddy the picture you have in mind. The house, the garden,
the country you have lost remain forever as you remember them. Nostalgia – the
most lyrical of feelings – crystallizes around these images like amber. Arrested
within it, the house, the past, is clear, vivid, made more beautiful by the medium in
which it is held and by its stillness. (LT, p. 115)
Quella di Eva Hoffman è un’esperienza comune a molti/e espatriati/e e ciò
che alla fine vuole comunicare la scrittrice è la sensazione, viva e dolorosa, che la
perdita del passato e dello spazio-tempo della Polonia, della patria e della lingua
madre si tramuta nella sensazione della perdita di sé e di un’identità precisa.
Arrivata sul nuovo continente, si sente molte volte ripetere dalla gente che la
circonda che ormai il passato è da dimenticare, che non serve più a nulla, che anzi
il Canada è un luogo migliore e che c’è tutto da guadagnare nel dimenticarsi al più
presto del passato e a ricominciare una nuova vita nel presente, nello spazio
Americano, capace di offrire molto alla realizzazione personale, e nella lingua
inglese. Ma per la giovane Eva non è possibile sbarazzarsi del passato, perché a
questo è legata la sua persona, quello che lei è. La sua identità è legata al tempo,
ma l’impossibilità di mettere i due tempi in comunicazione l’uno con l’altro, il
tempo del passato e il tempo del presente, che equivale a mettere in
comunicazione la sua identità e la sua esistenza del passato con quelle del
presente, la immobilizzano in un presente quasi a-temporale. Dunque, le prime
impressioni dell’arrivo nella nuova terra sono di perdita, assenza, immobilismo.
Mrs Steiner suggests […] I should not cling to the ways of the past. That makes me
want to defend Mrs Witeszczack even more. Not everything there is old fashion, not
everything here better! But everyone encourages me to forget what I left behind. […]
Can I really extract what I’ve been from myself so easily? Can I jump continents as
if skipping rope? […]
I couldn’t repudiate the past even if I wanted to, but what can I do with it here,
where it doesn’t exist? (LT, p. 115-116)
L’emigrazione, lo spaesamento si traducono quindi in perdita del passato,
dello spazio natio e dello spazio linguistico materno. Gli esuli sono come bottiglie
vuote, come immagina un altro scrittore, Khader Abdolah, un iraniano che vive in
esilio in Olanda. Nel romanzo Il viaggio delle bottiglie vuote l’autore utilizza
questa immagine come metafora per il soggetto in esilio che, come bottiglie
lanciate nel mare degli eventi, sballottate dalle onde, si ritrovano alla fine
spaesate, disperse e svuotate, perdono pian piano la memoria. I ricordi si fanno
confusi e si dimenticano nomi, colori e dettagli. Ma è la stessa identità della
persona ad essere a rischio, se si affievoliscono i ricordi e se la memoria viene
meno.
Ma chi sarei stato senza i ricordi della mia terra natale? Come avrei potuto qui, in
questo paese umido, cercare il significato delle parole senza che la stufa della mia
casa paterna ardesse nella mia mente?
La vita precedente alla cesura, alla ferita, alla partenza costituisce una parte
fondamentale della persona, dell’identità del soggetto che arriva in un nuovo
spazio. Il passato non può venir annullato completamente, né tale perdita è
auspicabile dal punto di vista dell’esule, che si troverebbe perso/a, senza più
sapere chi è. Per questo è fondamentale trovare un mezzo per conservare la
memoria, mettere a punto una ‘tecnologia della memoria’. Per gli scrittori, tale
‘tecnologia della memoria’ consiste nel raccontare storie, la propria o quella di
altri esuli.
Eva Hoffman si sente intrappolata nella dicotomia, nello iato spaziotemporale tra qui/laggiù e passato/presente. Questa condizione incide sulla
percezione di sé e della propria identità, perché si rende conto che, se perdesse i
ricordi e la memoria di ciò che è stata, perderebbe anche sé stessa:
I can’t afford to look back, and I can’t figure out how to look forward. In both
directions, I may see a Medusa, and I already feel the danger of being turned into
stone. Betwixt and between, I am stuck and time is stuck within me. Time used to
open out, serene, shimmering with promise. If I wanted to hold a moment still, it was
because I wanted to expand it, to get its fill. Now, time has no dimension, no
extension backward or forward. I arrest the past and I hold myself stiffly against the
future; I want to stop the flow. As a punishment, I exist in the stasis of a perpetual
present, that other side of “living in the present”, which is not eternity but a prison. I
can’t throw a bridge between the present and the past, and therefore I can’t make
time move. (LT, pp. 116-117)
Questa immagine del tempo bloccato, questa condizione di stasi dell’esilio
richiama un’altra immagine lettereraria. Si tratta della descrizione di un altro esule
che vive un tempo di stasi nell’attesa del tempo del ritorno. Salman Rushdie nel
romanzo The Satanic Verses descrive, con lo stile proprio della narrazione
letteraria, questa sospensione temporale in cui vive l’esule:
The exile is a ball hurled high into the air. He hangs there, frozen in time, translated
into a photograph; denied motion, suspended impossibly above his native earth, he
awaits the inevitable moment at which the photograph must begin to move […]. (SV,
pp. 205-206)
L’esilio è dunque una condizione sospesa, un tempo bloccato; si attende con
ansia il ritorno, e lo sguardo è sempre rivolto al futuro, ma un futuro di un tempo
circolare, che prospetta un ritorno alla condizione di partenza, del passato.
Diversa è invece la percezione del tempo per coloro che rimangono
“laggiù”. Per loro, il tempo scorre e la vita deve andare avanti, non può rimanere
legata, intrappolata al passato. Specialmente nelle terre che sono state colpite da
eventi drammatici quali guerre, terrorismo ecc., la gente pensa alla ricostruzione,
ad alleviare i dolori e a rimarginare le ferite, sia fisiche sia morali, pensa alla vita
quotidiana e alle piccole necessità di tutti i giorni. Nel romanzo Il ministero del
dolore, Ugrešić descrive una scena a bordo dell’aereo che sta riportando la
protagonista ad Amsterdam, il luogo del suo esilio. Rientrata per una settimana
nella natia Zagabria, rimane negativamente colpita da ciò che ha visto e dal fatto
di essersi persa tra vie che conosce benissimo, perché è stato loro cambiato nome.
La protagonista ha una discussione con un uomo seduto accanto a lei a proposito
della divergenza di percezione temporale e di memoria storica tra gli esuli e
coloro che sono rimasti in patria.
“Si tratta di percezione del tempo. Andandosene non si cambia solo il luogo, ma
anche il tempo, il tempo interiore. In questo momento il tempo a Zagabria passa
molto più velocemente del suo tempo interiore. Lei è come imbottigliata in una sua
dimensione temporale. Per lei la guerra è successa ieri, vero?”
“Ma cosa dice! È successa ieri! E non è ancora finita!” montai in collera.
“Ma non per chi è rimasto in patria! Per loro il suo “ieri” è storia antica. Si ricorda
dei vecchi emigranti croati che all’inizio degli anni Novanta calarono in Croazia dal
Canada, dall’Australia, dall’Europa occidentale, dall’America del Sud? Tutti quei
croati arrabbiati, semicriminali, legionari, assassini su commisione, perdenti vari che
risposero al richiamo della tromba di Tuđman?”
“Sembravano usciti da un museo storico di provincia.”
“C’è il pericolo che fra qualche anno anche noi facciamo quest’effetto sui nostri
compatrioti. Perciò occorre dimenticare il più presto possibile”.
“Ma chi ricorderà allora?”
[…]
“La gente non è fatta per le disgrazie, mi creda. Le persone non sono in grado di
identificarsi con le catastrofi di massa. Semplicemente non possono restare legate
stabilmente alla sfortuna. Neppure alla propria”.
Ma c’è un ulteriore fattore temporale che distingue l’esule dalle persone
rimaste in patria. Con l’esilio, il soggetto che espatria si ritrova in uno spazio
molto diverso in termini socio-politici, culturali o tecnologici. Il movimento
spaziale diventa, per l’esule, anche attraversamento di frontiere culturali, spesso si
ritrova in paesi che hanno sviluppato un grado più avanzato in termini di
tecnologia, sviluppo industriale, cammino socio-politico. Il tempo politico, sociale
e culturale scorre diversamente nei vari paesi, per cui per un soggetto, come
l’esule o il migrante, cambiando lo spazio di residenza, che, in termini scientifici
possiamo chiamare il sistema di riferimento, cambia anche la prospettiva da cui
guarda agli eventi. Questo sistema di riferimento è costituito da tutto l’insieme di
elementi che costituiscono la vita sociale e privata in un determinato paese e/o
comunità.
Se ripensiamo a quanto scritto da Josif Brodskij, cioè che “da una tirannia si
può essere esiliati solo in una democrazia”, sembra vi sia, implicito in questa idea,
il fatto che la scelta dell’esilio si configuri come scelta di uno spazio immaginato
più libero, più democratico, capace di offrire all’individuo maggiori possibilità di
vivere secondo le proprie aspirazioni e ideali. Cioè, l’esilio, o meglio la scelta di
dove essere esiliati, ha in qualche modo a che fare con l’immagine mentale che
l’individuo ha del paese che sceglie come destinazione.
Per uno scrittore che va in esilio prendere questa strada è forse come un tornare a
casa – perché egli si avvicina a quegli ideali che l’hanno ispirato fin dall’inizio.
Una vera e propria scelta tuttavia per l’esule è possibile solo nel migliore dei
casi. Al giorno d’oggi, infatti, spesso molti esuli, profughi o rifugiati devono
combattere contro artificiose burocrazie per ottenere il permesso di risiedere in un
determinato paese, per cui la scelta personale è ridotta al ventaglio di paesi che
questa possibilità offrono effettivamente.
Comunque, l’idea di Brodskij è utile in quanto mette in luce un altro aspetto
che contrappone i due spazi dell’esilio, quello di partenza e quello di arrivo. Oltre
al divario spaziale sentito dall’individuo, i due spazi sono differenti anche da un
punto di vista più ampio, sociale, collettivo. Spesso si tratta di spazi (paesi,
regioni, etc) che si trovano a diversi stadi di sviluppo e, nella rappresentazione
mentale comune, alcuni si trovano “più avanti” rispetto ad altri. Questa metafora
del linguaggio, ormai talmente logora che non la si riconosce neanche più come
tale, deriva da una concezione ben precisa del tempo e della rappresentazione
mentale che gli individui hanno dello scorrere del tempo e della storia in generale.
Si tratta di una metafora che prende origine dalla concezione del cosiddetto
mondo ‘occidentale’, che ha una visione evoluzionistica della storia e che è
proiettato nel futuro e nello sviluppo. Sembra esserci una vera e propria
ossessione del tempo e del futuro nelle società ‘occidentali’, che lottano contro il
tempo: contro la vecchiaia e per l’allungamento della vita, ossessionati dalla lotta
contro il tempo negli spostamenti e nella trasmissione delle informazioni. Non
tutte le società sono così, ma in qualche modo, da qualche decennio, con la
globalizzazione e la mondializzazione dell’economia, della finanza, della politica,
della cultura e dei modelli sociali, il modello occidentale sembra il più ‘forte’ o
perlomeno il più aggressivo e contagia il resto del pianeta. Tale è la lettura che fa
del mondo occidentale la sociologa marocchina Fatima Mernissi, che apre il suo
libro Donne del Profeta con un capitolo, “Il musulmano e il tempo”, in cui pone a
confronto due diverse, anzi, opposte concezioni del tempo.
Fatima Mernissi legge la propria società musulmana come ossessionata dal
passato e dal tempo dei morti, sofferente di un “mal del presente”, che soccombe
di fronte ad un mondo occidentale, forte e combattivo perché dominato dal
pensiero del futuro e del progresso.
I musulmani soffrono del “mal del presente”. […] noi musulmani [lo] percepiamo
come un desiderio di morte, un desiderio di essere assenti, di essere altrove. E
fuggire verso il passato è un modo di essere assenti. Un’assenza suicida. (HP, p. 21)
Per i musulmani, il tempo è un “tempo-ferita” e ci si rifugia nel passato
perché è il riferimento di un tempo sacro, ideale, un tempo che si aspetta e si
vorrebbe far ritornare. È il tempo in cui ha vissuto il Profeta Mohammed, il tempo
della stesura del Libro Sacro, il Corano. Immaginando metaforicamente il tempo
come una freccia, per gli occidentali questa freccia corre verso il futuro, per i
musulmani invece è rivolta al passato. Si vorrebbe un annullamento del tempo e il
presente diventa un’assenza del passato. È un’assenza. Se rileggiamo sotto questa
luce il passo di Salman Rushdie che descrive l’Imam esule, siamo in grado di
scoprire un altro livello interpretativo. Quel tempo sospeso in cui si trova l’imam
in esilio è più di una semplice sospensione dovuta alla residenza (temporanea) in
un altro paese. Si configura, invece, come un’intera esistenza che vive il presente
come una perenne attesa di un ritorno alle condizioni del passato.
Mernissi e altri studiosi come lei (come ad esempio, Samir Kassir in
L’infelicità araba) leggono questa ossessione dei musulmani verso il passato
come la loro condanna e causa dell’infelicità e del vittimismo arabo.
L’infatuazione dei politici moderni per gli antenati, in una tradizione araba in cui il
culto degli avi è legato all’istituzionalizzazione dell’autoritarismo, diventa
estremamente sospetta in un momento in cui abbiamo più che mai bisogno di
sorvegliare strettamente l’investimento delle nostre energie attuali. Perché vogliamo
dirigerci verso il tempo morto, proprio in un momento in cui la sola battaglia che
conta è quella del futuro? Le società che ci minacciano nella nostra identità sono
completamente ipnotizzate dal futuro e ne fanno una scienza, che dico, un’arma di
dominio e controllo. (HP, p. 23)
Grazie al controllo del tempo, all’aumento della velocità (degli spostamenti
e degli scambi di comunicazioni e informazioni) l’Occidente è diventato “la
civiltà planetaria” (HP, p. 23), secondo Serge Moscovici, che “si impone come
irresistibile e […] annulla tutte le altre omogeneizzandole”:
Se si guarda ciò che è successo da un secolo a questa parte, si osserva che la civiltà
occidentale è davvero la prima civiltà del tempo. La prima civiltà, cioè, in cui il
tempo svolge un ruolo determinante, soprattutto come misura delle cose. Misuriamo
tutto in termini di tempo: il lavoro, le distanze, la Storia (…). Temporalizziamo tutto
(…), anche le cose che si supponeva sfuggissero nello spazio: la nozione di velocità,
che è la principale ossessione della nostra civiltà. È un modo di temporalizzare lo
spazio.
Il tempo occidentale, continua Mernissi, regola e “standardizza i
comportamenti, quali che siano il luogo e la cultura, e manifesta il suo dominio
[…]. Oggi la dominazione si insinua con la presenza familiare dell’orologio” (HP,
p. 23). È l’orologio la metafora del potere di oggi, secondo Mernissi, un potere
anche e soprattutto politico. Il potere politico si basa sul controllo del tempo, per
cui oggi si può parlare di ‘cronopolitica’, che ha sostituito la tradizione
‘geopolitica’ che si basava, al contrario, sul controllo dello spazio.
La geopolitica era una scienza che faceva perno sulla difesa del tangibile, il
territorio, le frontiere, e le ricchezze che vi si trovano. Oggi essa è sostituita dalle
leggi della cronopolitica, uno scenario-tempo in cui il potere passa per la corsa al
controllo del fluido: il fiume di segni, la circolazione di informazione e di liquidità.
[…] Il nuovo imperialismo che domina noi non-Occidentali, non si manifesta più
con l’occupazione fisica. Il nuovo imperialismo non è neanche economico, è più
insidioso: è una maniera di contare, calcolare, valutare. (HP, p. 24)
Il tempo nel mondo contemporaneo è regolato dal Coordinated Universal
Time, l’ora del meridiano di Greenwich e calcolata con l’orologio atomico. “Les
Occidentaux, les seules avec les Japonais”, spiega Mernissi, sono gli unici al
mondo a padroneggiare la tecnologia necessaria per istituire un sistema di queste
dimensioni:
synchroniser les horloges à l’echelle de la planate, que seul un reseau étroitement
tissé et minutieusement rebrodé sur ce que nous pensons être “le ciel” pouvait faire.
Esclusi dalla possibilità di gestire in alcun modo il tempo globale, il tempo
unico che regola e coordina il pianeta, i musulmani soffrono, secondo Mernissi,
del dramma dell’esilio del tempo.
[…] nous n’existons pas. Nous n’existons que dans le territoire temporel des
Occidentaux. C’est là que se situe cette perte di douloureuse de notre identité : l’exil
temporel. La colonisation la plus horrible est celle qui s’installe dans votre temps.
[…]. Voilà l’age de l’homme scientifique qui n’a plus peur de la mort […] Un age
d’où nous, Arabe set musulmans, sommes exilés, reduits à des consommaurs de
gadgets.
Esiliati dal tempo della modernità e ossessionati dalla sacralità del passato, i
musulmani sono condannati a resistere alla modernità, a viverla come una
minaccia e a leggere la storia e i progressi dell’umanità come una degenerazione
della società e un allontanamento dagli insegnamenti del Profeta Mohammed. Ed
è per lo stesso motivo che le società musulmane restano ancorate ad una lettura
testuale e non contestualizzata del Testo sacro, perché “la morbosa ricerca del
passato ci impedisce di leggerlo” (HP, p. 26).
Mernissi definisce anche che cosa intende con i termini ‘noi musulmani’.
Mernissi spiega che usa tale locuzione non per riferirsi alla fede individuale,
all’Islam come scelta personale:
Per me esser musulmano significa appartenere a uno Stato teocratico. In questo
senso ciò che l’individuo pensa è secondario […]. Essere musulmano è uno stato
civile, una carta nazionale, un passaporto, un codice di famiglia, un codice preciso
delle libertà pubbliche. La confusione tra Islam come fede, come scelta personale, e
Islam come legge, come religione di Stato, in buona parte, io credo, fu la causa del
fallimento dei movimenti di ispirazione marxista e in generale della sinistra nei paesi
musulmani. (HP, pp. 26-27)
Il tempo, legato com’è alla religione e al sacro, pone il problema della
democrazia e dell’esercizio delle libertà politiche nei paesi musulmani, molti dei
quali sono o sono divenuti stati teocratici in cui il governo è imprescindibile dalla
religione. È la religione a costituire la base dei codici penale, civile, della
famiglia. I testi sacri non vengono contestualizzati, ovvero non sono interpretati
alla luce del presente e coloro che detengono il potere hanno interesse a che si
continui a trarne un messaggio letterale (se non deviato) ancorato al tempo della
loro stesura. In altre parole, gli stati musulmani hanno rifiutato, nel corso dei
secoli, cambiamenti e modernizzazioni in ambito politico sociale e culturale, con
la scusa che erano contrari alla legge coranica, per cui ora appaiono, nel contesto
globale, ad un grado meno progredito rispetto al mondo occidentale, soprattutto
per quanto riguarda la condizione femminile, dei diritti umani e delle libertà
individuali. Immaginando, com’è nozione comune, il tempo come una freccia, o
una retta, il mondo occidentale si trova in una posizione più avanzata.
Nei paesi musulmani una delle questioni più attuali e impellenti è quella
della democrazia, delle libertà individuali, dei diritti umani e della condizione
femminile. Scrive Mernissi:
Torniamo a coloro che leggono nei testi del VII secolo la necessità di privare metà
della popolazione musulmana, le donne, dell’esercizio dei loro diritti politici.
Bisogna capire perché, per loro, il problema del tempo è legato al problema della
democrazia, dell’esercizio delle libertà politiche da parte di tutti i cittadini, a
prescindere dal sesso; bisogna capire in che modo il “mal di presente” da una parte,
il rifiuto della democrazia dall’altra, si combinino, si coniughino con il sessuale; in
che modo tre nozioni normalmente considerate indipendenti, e cioè il rapporto con il
tempo, il rapporto con il potere e il rapporto con il femminile, si articolino come
discorso sull’identità. (HP, p. 27)
Mernissi spiega che il problema della condizione femminile si è
riattualizzato al momento dell’indipendenza dal giogo coloniale. Durante i
decenni della colonizzazione, gli Stati musulmani erano quasi scomparsi, si sono
“trovati in qualche modo femminilizzati, velati, annullati, inesistenti” (HP, pp. 2728). Costretti a ridefinirsi al momento dell’indipendenza, si trovarono obbligati a
ridefinire il cittadino. Precipitandosi sulla scena internazionale, questi Stati, per
essere riconosciuti dalle potenze ex-coloniali, hanno dovuto firmare la
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ma riconoscendo alla donna
musulmana pieni diritti umani, si metteva in discussione tutto il sistema sociopolitico degli stati musulmani, basati da secoli sulla sottomissione della donna.
La metamorfosi della donna musulmana, da oggetto velato, nascosto, emarginato,
ridotto all’inerzia, in soggetto di diritto costituzionale, ha annullato le soglie che
definivano l’identità-gerarchia che organizzava la politica e la sfera sessuale. (HP, p.
28)
Inoltre, il riconoscimento della donna come soggetto costituzionale avente
diritti è ancora più difficile dal momento che la società musulmana non
concepisce il concetto stesso di individuo. Nell’Islam non esiste la nozione di
individuo, perché ciò che riconosce è la comunità, il gruppo: “muslim”, infatti,
significa ‘sottomesso’ a Dio, alla sua sola volontà. L’individualità e l’iniziativa
privata sono scoraggiate in una tale società. Tanto più crea scompiglio se ad
affermare tale individualità è un soggetto femminile.
Gli Stati musulmani, legati al passato e alle regole del passato, si trovano
nella necessità di tracciare confini ben netti, definiti, che mantengano ordine
sociale e politico. Perciò, al contrario dell’Occidente, che fonda il suo potere sul
controllo del tempo, gli stati musulmani si concentrano sul controllo dello spazio,
o meglio degli spazi, e li definiscono per mezzo di confini e limiti che danno un
ordine ben strutturato entro cui far muovere i soggetti. La stessa Mernissi nella sua
autobiografia Dreams of Trespass mette in risalto la problematica dei confini,
particolarmente sentita proprio dalle donne, nelle società musulmane: sono gli
hudud, che al contempo limitano ma proteggono il soggetto.
L’ordine, preservato dai limiti e dalla barriere, è un aspetto fondamentale
della società musulmana, che concorda con la freccia del tempo rivolta al passato.
L’ordine preserva intatto il passato. Al contrario, ogni cambiamento nella società
crea disordine e scompiglio. Ogni volta che si valica una soglia, ogni volta che
viene oltrepassato un limite si crea disordine e ci si allontana dalla perfezione del
passato. Questa evoluzione degli eventi sembra in un certo senso seguire una
legge fisica, quella della freccia del tempo termodinamica. Secondo tale legge, la
freccia del tempo non è reversibile, e con il passare del tempo, aumenta il
disordine (o entropia). Un esempio è dato da una tazza che da un tavolo cada sul
pavimento, frantumandosi. Nella vita comune, sappiamo che quei frantumi non
potranno tornare a ricomporsi come prima della caduta. Prima si aveva l’ordine
della materia, con la caduta è aumentato il disordine, e l’orientamento degli eventi
non è reversibile.
Per riprendere il discorso sul tempo nella sua complessità dobbiamo quindi
aggiungere che l’individuo in esilio guarda al proprio movimento come ad un
attraversamento di una frontiera non solo spaziale, territoriale, e geo-politica, ma
anche temporale. La prospettiva da cui osserva gli avvenimenti globali, il sistema
di riferimento, è differente proprio per tutti questi fattori appena descritti. Si
noterà che le scrittrici di cui si analizzano le opere in questo lavoro hanno scelto il
proprio spazio dell’esilio. Gli scrittori e le scrittrici, come afferma Brodskij, sono
tra gli individui privilegiati nell’ampio contesto di persone spaesate, dislocate,
profughe, ecc, e questo lo dimostra. Ciò non toglie, ovviamente, che restino
affezionate al paese natio, che, come nel caso di Eva Hoffman, provino nostalgia o
ammirazione per la propria terra e per aspetti specifici della propria cultura di
origine. Si può essere fortunati e capitare “nel luogo più bello dove essere
esiliati”, ma la nostalgia per la patria non svanisce, come scrive l’autrice libanese
Ghada Samman:
Io e mio marito eravamo terribilmente tristi, non perché ci trovavamo a Parigi, il
luogo più bello dove essere esiliati, ma perché non eravamo in Libano.
Il movimento dell’esilio porta a nuove prospettive, apre gli occhi su nuove
realtà e modi di vivere. Questa doppia conoscenza, doppia visione è uno degli
aspetti positivi della condizione dell’esule (come si è visto). Ma le origini, le
radici rimangono sempre un aspetto fondamentale dell’identità degli individui, ed
eserne privati, come nel caso di Hoffman, equivale ad una perdita di se stessi.
Preservare almeno la memoria delle origini è dunque una questione di preservare
la propria identità.
3.7 L’esilio e la memoria.
Il movimento attraverso frontiere spaziali e temporali per non diventare
smarrimento e trasformarsi in perdità di sé e della propria identità ha bisogno di
appigli, di punti di riferimento, che gli esuli trovano nei ricordi e nella memoria.
Ed è la memoria che ha un ruolo importante in tutti gli scritti di esilio/esiliati.
In Vietato leggere, Ugrešić dedica un capitolo, dal titolo “La vita senza
coda”, alla condizione dell’esilio e dello scrittore esiliato. Il capitolo contiene una
serie di definizioni dell’esilio: alle proprie, Ugrešić aggiunge quelle di altri
scrittori che, avendo sofferto per l’allontanamento dalla patria, hanno conosciuto
la condizione di esiliati e ne hanno parlato. Una dopo l’altra, si accumulano
definizioni in un continuum di osservazioni e citazioni letterarie. Il titolo, “La vita
senza coda”, ci immerge subito in una dimensione dell’esilio, quella della
mancanza di appigli solidi al passato: la coda simbolizza una traccia, un segno che
rimane dietro, nel passato, a cui si può sempre ricorrere, fare riferimento, per
ritrovarsi, per capire se stessi e il proprio passato. L’esiliato, in quanto
staccato/strappato a forza dalla propria terra d’origine, dalla casa, dal passato, ha
perso questi punti di riferimento capaci di dare sicurezza morale. È probabilmente
per questo che l’esiliato deve fare leva sulla memoria. Ed è sulla memoria che
pone l’accento Josif Brodskij.
La memoria, credo, è un surrogato della coda che abbiamo perso per sempre nel
felice processo dell’evoluzione. Dirige i nostri movimenti, emigrazione compresa.
[…] Eppoi, più uno ricorda più è vicino, forse, a morire.
Brodskij sembra raffigurare la memoria come una sorta di timone che
governa una barca, la dirige, la mantiene sulla rotta.
Un libro che parli dell’esilio e della condizione dell’esiliato/a non può
prescindere dall’essere un libro sulla memoria, dunque. Quale migliore luogo per
conservare la memoria di un museo? Nel suo libro Il Museo della resa
incondizionata, Dubravka Ugrešić conduce il lettore attraverso un vero e proprio
museo dove si vedono immagini e foto, si ascoltano aneddoti e racconti, si
incontrano personaggi con le loro biografie e le loro storie. Tali personaggi sono
anch’essi degli esiliati, dei nomadi, degli immigrati, dei profughi, che sono stati
costretti, per vari motivi, a lasciare la propria casa, la propria patria, la famiglia,
gli affetti e vivono ora in un altro luogo, parlano altre lingue nel lavoro e nella vita
quotidiana, anche se quando si incontrano e si riconoscono (perché ci si riconosce
sempre, pur non essendosi mai incontrati), tornano a parlare la propria lingua,
felici di essersi ritrovati, di poter condividere la propria condizione con qualcun
altro. Di profughi, esiliati, immigrati è piena l’Europa, afferma Ugrešić: ve ne
sono talmente tanti che “a casa non è c’è (rimasto) nessuno”.
Uno degli oggetti più comuni per chi si sposta è la valigia, e uno dei luoghi
più spesso incontrati è l’aeroporto. In questo scenario, Ugrešić giocando con le
parole inglesi, immagina di trovarsi in un aeroporto, di fronte ad un agente di
polizia che, vedendola senza valigie, si meraviglia e le domanda il motivo di
quell’assenza. L’autrice risponde con una neologismo:
“Don’t you have any luggage?”
“No, I only have lifeage!”
“La vita è l’unico bagaglio che portiamo con noi”, continua l’autrice sullo
stesso adagio. L’unico bagaglio che l’esule si trascina dietro è la propria vita, il
proprio corpo e la memoria. La memoria coincide con la vita, è ciò che rimane del
tempo vissuto, è l’età della vita, life-age.
L’esilio è un museo personale, dove si raccolgono gli oggetti comprati e
abbandonati (perché non si può portarli sempre con sé nelle valigie ad ogni
spostamento). L’esilio è la serie degli stessi oggetti comprati e ricomprati più
volte, la serie delle camere, delle cucine, degli appartamenti presi in affitto. La
biografia dell’esiliato/a può essere raccontata solo attraverso questi oggetti
concreti, perché la vita in esilio è un continuo ricreare la propria casa. La biografia
dell’esiliato è raccontata anche dalla serie di visti e timbri sul passaporto. In
fondo, la vita dell’esule è possibile rintracciarla soltanto attraverso una serie di
elementi misurabili.
Che potevo ribattere? Che l’esilio, o almeno quello che io vissi in maniera sempre
più stremata, è uno stato incommensurabile. Che l’esilio è uno stato che, in realtà, si
può descrivere attraverso circostanze misurabili – timbri sul passaporto, luoghi
geografici, distanze, indirizzi temporanei, esperienza con varie procedure
burocratiche per ottenere il visto, denaro speso chissà quante volte per comprare una
nuova borsa da viaggio –, ma una descrizione come questa significa poco. Che
l’esilio è la storia delle cose che ci lasciamo alle spalle, un compra e vendi di
asciugacapelli, piccole radio da quattro soldi, pentolini per il caffè… Che l’esilio
significa cambiare voltaggio e hertz, una vita con il trasformatore, altrimenti ci
bruceremmo. Che l’esilio è la storia dei nostri appartamenti presi in affitto
temporaneamente, delle prime mattinate solitarie durante le quali stendiamo la
piantina della città, vi cerchiamo il nome della nostra via, disegniamo un cerchietto a
matita […]. (MRI, pp. 165-166)
Tutte queste serie, queste successioni di foto, immagini, oggetti, luoghi,
incontri, personaggi sono l’unico appiglio per ricostruire nella memoria e nella
scrittura la biografia dell’esule, e la propria autobiografia di esule. Museo della
resa incondizionata non è classificabile entro uno dei generi della letteratura. Non
è definibile come romanzo, perché non ha un inizio e una fine, non c’è una storia
che si sviluppa dalla prima all’ultima pagina. Possiamo definirlo un’opera postmoderna, che contiene elementi autobiografici e narrativi, riflessioni e racconti. Il
libro è costruito sulla base di una “poetica dell’album di famiglia”, come suggerito
dal titolo del primo capitolo della seconda parte (MRI, p. 31). Si tratta di una
poetica del dettaglio, del frammento, che rispecchia il processo di funzionamento
della memoria. La memoria, infatti, non è lineare, ma procede a salti
spazio/temporali, per associazione di idee, immagini. Un ricordo ne solleva un
altro. Il testo è composto da sette parti. La prima, terza, quinta e settima, che
hanno un titolo in corsivo e in tedesco, constano di paragrafi piuttosto brevi e
numerati, come se si trattasse di didascalie poste di fianco agli oggetti esposti in
un museo. Queste parti del testo non raccontano una storia, ma costituiscono una
serie di sketches, descrizioni, immagini, che si richiamano l’un l’altro per
associazione di idee. Non è assenza di ordine o logica, ma una concatenazione che
esula dalla tradizionale concatenazione temporale. Rispecchia piuttosto il
funzionamento del cervello umano e della memoria. Spesso, addirittura, nel corso
della lettura, sembra di aver già letto le stesse frasi. Non si tratta di
un’impressione: nel testo ricorrono a volte paragrafi interi, ripetuti due o tre volte,
con minime variazioni.
Le parti di numero pari (seconda, quarta e sesta) sono più lunghe e coerenti
al loro interno e sviluppano delle storie. Nel museo immaginario, questi capitoli
rappresentano delle sale monotematiche, in cui si approfondisce la trattazione di
un soggetto. Come l’autrice stessa afferma nel corso di un’intervista, questo testo
segue il principio del montaggio o collage, il cui senso è costituito dalla
contiguità. Costituisce, in chiave letteraria, quello che gli artisti creano attraverso
le installazioni di elementi, materiali, oggetti, come quelle dell’inglese Richard,
amico dell’autrice, di cui si parla nel testo stesso.
Non c’è dunque, una temporalità, un ordine spazio-temporale, una
cronologia rintracciabile all’interno della scrittura. Ci si chiede, allora, in che
tempo vive l’autrice, in quale storia collettiva si inserisce la sua vita, dopo che nel
1993, scegliendo l’esilio, si è sottratta alla storia del suo Paese, la Croazia. Lo
stesso discorso del tempo vale anche per lo spazio. Non c’è unità di spazio, bensì
l’autrice si muove su una serie di territori differenti, traccia percorsi sulla mappa
personale, pianta bandierine in corrispondenza delle città visitate. Tali bandierine,
però, restano solo una conquista personale, tracciano una mappa dei luoghi
attraverso i quali si è transitato, ma non rappresentano una conquista. Gli antichi
conquistatori conquistavano i territori. Al contrario, gli esuli transitano, quasi
senza essere notati, senza radicarsi. La poetica dell’album di famiglia, del
frammento, rappresenta, dunque, l’unico modo di raccontare una vita in esilio,
anch’essa frammentata, spezzata.
È importante ricordare, sebbene per frammenti, per immagini. È importante
avere istituzioni come i musei e la letteratura, testi che assicurano la
conservazione della memoria e la preservino dal logoramento e soprattutto dalla
manipolazione. Il potere, la censura, i governi, le guerre spesso si arrogano il
diritto di riscrivere la storia/le storie, di confiscare la memoria. La scrittura ha
anche questa missione, di far ricordare, di mantenere viva la memoria della storia,
delle storie di individui, popoli, nazioni, generi, classi di individui.
L’esilio è la vita con il trasformatore sempre in mano, afferma Dubravka
Ugrešić, altrimenti ci bruceremmo. Munito/a del trasformatore, metafora
dell’adattamento, l’esule si sposta, arriva su nuovi territori, e osserva, vive, si
adatta costantemente alle nuove condizioni, al nuovo ambiente, alla nuova lingua.
Il trasformatore è la metafora per dire che il modo in cui l’esule si inserisce nel
flusso della vita del territorio in cui arriva è uguale a quello della spina inserita
nella corrente di elettricità. Per non rimanere fulminato/a, annientato/, l’esule è
costretto/a ad adattarsi, negoziare, venire a compromessi con il nuovo spazio che
trova. La relazione esule/spazio di arrivo non è senza problemi. I problemi di
adattamento/integrazioni sono diversi e variano a seconda della provenienza
dell’esule, dal ‘grado di diversità’ che porta iscritta sul e nel proprio corpo (colore
della pelle, accento, genere, etnia, religione etc.).
L’esilio dà anche il senso di spaesamento, smarrimento, sensazione
aumentata dall’incontro di altri individui altrettanto de-localizzati. Dal momento
che l’intensità degli spostamenti e delle de-localizzazioni delle persone nel mondo
attuali ha raggiunto livelli molto elevati, spesso passeggiare per le vie di una
particolare città non trasmette più il senso di quella nazione, bensì si ha la
sensazione di trovarsi in un incrocio di razze, popoli, nazioni. Sensazione che
danno, ad esempio, le grandi metropoli e città “globali”, come Berlino.
Berlino è una città mutante. Berlino ha una sua faccia occidentale e una orientale: a
volte l’occidentale appare in quella orientale e l’orientale in quella occidentale. Sulla
faccia di Berlino si riflettono le immagini olografiche di altre città. Se mi incammino
verso Kreuzberg, arriverò in un angolo di Istambul, se mi dirigo con la S-Bahn fino
ai confini di Berlino, arriverò alla periferia di Mosca. (MRI, p. 156)
Le nazioni si spostano anche attraverso le sonorità delle lingue e attraverso i
nomi di caffè che si incontrano inattesi durante le peregrinazioni. Ugrešić sembra
suggerire che nell’esilio, tutte le nazioni/nazionalità sono mischiate, o meglio, che
il mondo è talmente pieno di gente come lei che in qualsiasi grande città ci si rechi
è possibile rintracciare la grande varietà di etnie, nazionalità, razze, lingue,
culture, religioni ecc.
In Kantstrasse, dove in molti posti si parla russo, esiste il caffé Paris. In Savignyplatz
si trova il caffé Kant, e subito a lato il caffé Hegel. “Hegel” è scritto da una parte
dell’insegna in caratteri latini, e dall’altra in caratteri cirillici. […]. Nella zona di
Berlino Est esiste il caffè Pasternak. […]. A Kreuzberg esiste il caffé Esilio.
Dall’altro lato della strada: il caffé Consolato. (MRI, p. 156)
I due Caffé, Esilio e Consolato, si trovano proprio uno di fronte all’altro, a
sottolineare l’impossibilità di sottrarsi a questa legge dell’esilio. C’è un’amara
ironia in quest’ultima frase, che ricorda il costante legame tra la condizione
dell’esiliato/a e le procedure amministrative e burocratiche dei Consolati e delle
Ambasciate, delle lunghe trafile e ore passate nelle sale d’attesa per richiedere
visti e permessi di soggiorno, di visita, di lavoro.
In mezzo a tutta questa umanità in transito, spaesata (che, come ricorda Iain
Chambers, in italiano vuol dire “privata del proprio Paese”), l’esiliato intellettuale
(poeta, scrittore, etc) ci rammenta Brodskji, è un privilegiato. Vi sono migliaia di
persone costrette a lasciare la propria terra a causa di situazioni politiche, socioeconomiche, guerre e altri disastri naturali. In rapporto a queste, l’intellettuale in
esilio gode di molti privilegi.
Anche Edward Said mette bene in chiaro che non si può pensare agli esiliati
solo in termini di intellettuali, scrittori, poeti, perché la Terra è piena di gente che
ha dovuto abbandonare la propria casa; d’altra parte, però, dice anche che non
deve sorprendere il fatto che molti tra gli esiliati siano romanzieri, intellettuali,
persone impegnate politicamente o giocatori di scacchi:
Much of the exile’s life is taken up with compensating for disorienting loss by
creating a new world to rule. It is not surprising that so many exiles seem to be
novelists, chess players, political activists, and intellectuals. Each of these
occupations requires a minimal investment in objects and places a great premium on
mobility and skill. The exile’s new world, logically enough, is unnatural and its
unreality resembles fiction.
L’esule di Said viaggia leggero, non è ingombrato da pesanti bagagli, è
caratterizzato piuttosto dalla mobilità e dall’abilità che porta in sé, e in questo,
somiglia all’esule di Dubravka Ugrešić, per cui, come si è gia visto nel paragrafo
precedente, “la vita è l’unico bagaglio che portiamo con noi”. Said si chiede
ancora come mai la letteratura dell’esilio sia diventata un topos così importante:
How is it that the literature of exile has taken its place as a topos of human
experience alongside the literature of adventure, education, or discovery?
Said ricorda un’altra figura importante del XX secolo, il filosofo e critico
ebreo tedesco Theodor Adorno, che nell’autobiografia scritta in esilio riflette sul
fatto che “the only home truly available now, though fragile and vulnerable, is in
writing”. La scrittura come casa è un'altra delle definizioni che si ritrovano nella
letteratura di autori e autrici esuli. La scrittura e la lingua diventano la casa per chi
vive in esilio. Per chi si ritrova senza un luogo proprio, un luogo che possa
rappresentare la propria vita, il passato, gli affetti, la famiglia, la scrittura è
l’attività che mette in comunicazione con il solo “luogo” “fisso”, se stessi e il
proprio corpo, il proprio vissuto, la propria memoria. Dove il fuori, l’esterno è il
nuovo, il diverso, l’estraneo, scrivere la propria esperienza intima, rappresenta il
dialogo con se stessi, con i propri ricordi. Inoltre, la lingua in cui si scrive è
fondamentale, perché la lingua crea tutto un mondo intorno a sé. La facilità, la
naturalezza con cui si parla la lingua madre si trasforma nel senso di familiarità, di
intimità con questo mondo. Alcuni/e scrittori e scrittrici scelgono la scrittura nella
lingua di adozione, per altri motivi, come vedremo in seguito in questo lavoro.
Altri/e scrittori e scrittrici in esilio, scelgono di continuare a scrivere nella propria
lingua, la lingua madre, che li culla con le sue sonorità e dona loro l’illusione di
essere a casa, nella patria. C’è chi addirittura dopo anni di esilio, torna in patria,
ma non la riconosce, non vi ritrova ciò che aveva lasciato: la realtà non combacia
con i ricordi e allora ci si ritrova in un doppio esilio.
Vorrei a questo proposito citare gli interventi di due scrittrici, una iraniana
l’altra irachena, al convegno Scritture svelate. Parole e donne dal Maghreb
all’Iran, tenutosi nel gennaio 2006. Goli Taraghi racconta che la sua vita, da tre
decenni, da quando è fuggita dall’Iran, è stata una continua esperienza di dualità,
di frattura, di tensione tra due paesi, di un viaggio, un’altalena tra l’Iran e gli Stati
Uniti, dove si è rifugiata e ha studiato e insegnato. “L’esperienza della dualità è il
cuore di tutto ciò che scrivo”. La dualità esterna/esteriore che ha vissuto, cioè la
dualità territoriale e spaziale, riflette una dualità più interiore, quella tra modernità
e tradizione, così come sono rappresentate dagli Stati Uniti e dall’Iran. Si
aggiunge a questa il continuo passaggio linguistico, il transito tra le due lingue, il
persiano e l’inglese di adozione. La scrittrice confessa che il suo destino di dualità
ha origini ancora precedenti, che sono rintracciabili fin dall’infanzia, fin dal suo
nome proprio. Si presenta e firma i suoi libri con il nome di Goli, ma il suo nome
ufficiale, quello che la identifica in tutti i documenti, è un altro, Zohre. È stato suo
padre a darle il nome di Zohre, che vuol dire “progresso”, mentre la madre,
amante della natura, la chiamava Goli, “fiore”. Due nomi che evocano due mondi
opposti. Il padre, che rappresentava per lei la razionalità e il rigore della religione,
le insegnava l’obbligo della preghiera e del chador, mentre la madre la conduceva
nei bar e nei ristoranti, e la portava con sé nei suoi viaggi a Parigi. Dopo dieci anni
negli Stati Uniti, dove ha studiato filosofia, ha insegnato all’università e ha
pubblicato due libri, torna in Iran, ma non riconosce più la sua terra. Il paese era
passato attraverso la Rivoluzione islamica e tutto era cambiato. Per Goli Taraghi,
vivere ora in Iran è come vivere un doppio esilio: come ci si può sentire a casa in
un luogo in cui non si conoscono più i nomi delle strade, perché tutto è stato
modificato? Si cerca allora rifugio nell’unico luogo familiare rimasto, il suono
delle parole persiane. E in perfetto accento di American English dichiara: “My
home is the Persian language”.
Un’altra esule le fa eco, in lingua araba questa volta. Si tratta dell’irachena
Alya Mamdouh, scappata dalla sua città natale, ma da cui non si è mai staccata
con il cuore e con il pensiero. “Abito a Parigi, ma abito lontano.. a Baghdad”.
Baghdad è “la copia originale dei miei testi, tutto avviene là”. Il corpo di Alya per
le vie di Parigi non è altro che un’illusione ottica, un ologramma, perché Alya
continua a vivere e camminare tra le vie della capitale irachena, il suo pensiero
continua a percorrerne le strade, ad abitarne le case. È il dolore, la nostalgia che
percorre tutto l’intervento della scrittrice, e allo stesso tempo l’amore per la sua
terra e la sua città. Ma nella sofferenza della perdita subìta a causa l’esilio, la
scrittrice ritrova forza in una nuova patria, una patria che non ha confini: la patria
formata dalla comunità delle donne come lei. “Io non faccio distinzione tra le
donne del mio Paese e quelle degli altri Paesi. Tutte le donne sono il mio Paese”.
Tutto questo è esilio. L’esperienza dell’esilio è vasta, personale, differente
per ciascuno, con alcuni punti in comune, ma molto varia. Come dimostrano i testi
di Dubravka Ugrešić, l’esilio non è riassumibile in uno slogan, in una definizione,
ma ha bisogno di tante definizioni, tante citazioni.
Schema: CATEGORIE E SOTTO-CATEGORIE
PER L’ANALISI TEORICA DELL’ESILIO:
1. SPAZIO/TEMPO
2. IDENTITA
3. CULTURA
4. LINGUA
+ 5. MEMORIA e 6. NAZIONALISMO = categorie trsversali
TIPI DI SPAZIO:
1. fisico/geografico
2. politico/geopolitico
3. sociale
4. culturale
5. linguistico
6. religioso
7. di genere
→ diritti umani = spazio/linguaggio trasversale
Inoltre lo spazio può essere reale, immaginario o entrambe le cose contemporaneamente.
SOTTOCATEGORIE:
1. SPAZIO / TEMPO
Frontiere: terre di frontiera, attraversamento delle frontiere, margini
Tipi di frontiere che esistono (esistono tante frontiere quante sono i tipi di spazio):
1. fisica
2. geopolitica
3. linguistica
4. sociale
5. razziale
6. di genere
7. culturale
8. religiosa
Life in between: “Life-on-the-hyphen”
“Third space” (bhabha)
“Third geography” (Azade Seyan)
Divisione di genere/sesso degli spazi
Architettura (delle case, palazzi, spec. Nel mondo islamico, separa lo spazio per le donne da quello
per gli uomini: Mernissi, Djebar Donne d’Algeri nei loro appartamenti)
Interazione/Relazioni fra i soggetti che si muovono nello spazio
Casa
Patria: nostalgia, memoria, desiderio, idealizzazione, narrazione della, tradizione
Homeland vs. hostland (acculturation, integration, racism, discrimination, hostility to the
assimilation of the new arrived)
Ritorno: desiderio, sogno, pianificazione, resistenza al ritorno
Queste ultime quattro categorie (casa, patria, paese di arrivo e ritorno) sono implicate nella
dinamica roots/routes (Clifford).
2. IDENTITA’
Corpo: percezione del proprio corpo e come questo viene letto dagli altri (es. colore, accento
linguistico – “body with an accent”)
Genere
Razza
Lingua/e: mono-, bi-, multi-linguismo; “body with an accent”
Origini
Viaggio (“Identità is changed by the journey”, Sarup; “Identity is retrospective”, Braidotti)
Identità nazionale
Senso di appartenenza
3. CULTURA
Tradizioni
Origini
Cultura materiale
Memoria (la cultura di una nazione è la memoria collettiva;
A. Seyan: “culture is memory”, “culture is seen … in its interaction with other cultures”
Cultura nazionale
4. LINGUA
Lingua madre
Lingue acquisite
Mono, bi e multilinguismo
Accento come marchio sul corpo
Traduzioni
Transfers (Even-Zohar)
PARTE II
SCRIVERE L’ESILIO
CAPITOLO 1.
NARRATRICI SULLE ORME DI SHAHRAZADE:
SCRITTRICI NORD-AFRICANE E MEDIO-ORIENTALI
CONTEMPORANEE.
1.1 Shahrazade.
Adriana Cavarero, filosofa, spiega che la narrazione è una pratica da sempre
legata al genere femminile, è un’arte “tutta muliebre”, sia che sia legata all’oralità
che alla scrittura. La narratrice per eccellenza della tradizione araba è incarnata
dalla figura di Shahrazade, l’eroina delle Mille e una notte. Questa figura
corrisponde, nel mondo occidentale, ad altre figure femminili da sempre collegate
alla narrazione e alla poesia, a partire dalla “diva” invocata da Omero, o la musa
Calliope, sino alle “vecchie streghe o sagge nutrici, nonne o cicogne, fate o
sibille”. Tutte stanno in ogni punto dell’immaginario letterario a testimoniare le
fonti e le pratiche femminili del narrare. Un’unica tradizione sembra quindi unire
Oriente ed Occidente. Le donne sono all’origine di ogni racconto e “del potere
incantatore di ogni storia” e Shahrazade viene riconosciuta in entrambe le
tradizioni come la narratrice per antonomasia.
Shahrazade è naturalmente importante nella storia della letteratura nel
mondo arabo, che prende in considerazione la voce narrante. Nella Postfazione a
Parola di donna, corpo di donna, antologia di racconti di donne arabe da lei
curata, Valentina Colombo spiega che, fino alla comparsa di Shahrazade, la
letteratura, in particolare la prosa, nel mondo arabo era stata appannaggio degli
uomini. Dove comparivano donne, queste erano puramente viste come oggetti,
corpi da descrivere, da adorare o da maledire, ma comunque sempre oggettificati
dall’osservatore maschile. Con la comparsa di Shahrazade è invece una donna che
prende la parola e da oggetto diventa soggetto della narrazione, assumendone
anche il controllo.
Da questo momento la voce di una donna non è più una facoltà fisiologica, bensì uno
strumento narrativo che le consente di contribuire in prima persona all’ambito
letterario.
Anche per questo aspetto, come per il precedente, Shahrazade sembra
mettere d’accordo Oriente e Occidente. Il canone della letteratura occidentale,
come hanno ben spiegato Virgina Woolf e tante femministe dopo di lei, è stato per
secoli dettato da scrittori e poeti uomini. La storia delle donne e la letteratura, in
Oriente come in Occidente, ha dunque dei tratti comuni, che indicano nella
direzione dell’esclusione delle donne dai canoni letterari o dalla scena pubblica,
sociale e privata.
Shahrazade è una presenza quasi costante anche nelle scritture di autrici del
mondo islamico contemporaneo. Inscrivendosi nella lunga tradizione narrativa, le
scrittrici maghrebine e medio-orientali di oggi invocano Shahrazade quale loro
musa perché le accompagni nel loro atto di scrivere la propria storia o le storie di
altri personaggi che esse vogliono raccontare. La scrittrice iraniana Azar Nafisi
sembra voler chiedere gli auspici alla musa della narrazione Shahrazade, la cui
figura compare brevemente all’inizio e alla fine del suo romanzo Reading Lolita
in Tehran. Oltre che musa e protettrice della narrazione, Shahrazade viene
ricordata per introdurre un tema fondamentale della narrazione, sia orale che
scritta: l’importanza dell’immaginazione, capace di creare spazi di libertà e aiutare
a sopravvivere in condizioni socio-politiche e culturali opprimenti.
I formulated certain general questions for them to consider, the most central of
which was how these great works of imagination could help us in our present trapped
situations as women. We were not looking for blueprints, for an easy solution, but
we did hope to find a link between the open spaces the novels provided and the
closed ones we were confined to.
In questa citazione si rintracciano tre termini attorno ai quali verterà l’intera
analisi del presente lavoro: la narrazione, coadiuvata dall’immaginazione, e lo
spazio creato dal discorso delle donne e nel quale esse si muovono.
Affrontiamo inizialmente il tema della narrazione, significativo perché
implica la presa di parola delle donne che segue una precedente situazione di
silenzio, reale quanto culturale. Silenzio e voci si intrecciano per creare il discorso
delle donne che hanno intenzione di affermarsi come soggetti. Azar Nafisi,
riferendosi alle centinaia di vergini e di donne uccise dal sovrano prima della
comparsa di Shahrazade, riconosce che queste “have no voice in the story, are
mostly ignored by the critics. Their silence, however, is significant”. È un silenzio
forte, ripetuto, che viene infine vendicato dalla presa di parola di Shahrazade, che
spezza il ciclo della morte e conquista piano piano il diritto di vivere grazie al
discorso e all’uso accorto della forza delle parole.
La filosofa femminista Teresa De Lauretis in Sui generis così definisce la
scrittura:
La scrittura è lo spazio pubblico attraverso cui le donne possono entrare in contatto
con le altre donne […], partecipare insieme ad esse alla costruzione di un discorso
comune e offrire questo discorso a qualunque donna voglia ricominciare a scriverlo.
Per fare ciò, le donne devono partire dal “parlare di sé, in proprio nome,
muovere da una soggettività che, qui e ora, definisce il proprio campo d’azione”.
Per costruire il proprio discorso, le donne, secondo De Lauretis, devono imparare
a “parlare contemporaneamente il linguaggio degli uomini e il silenzio delle
donne”. È quello che fanno le scrittrici prese in considerazione in questo lavoro:
partono da se stesse, dalla loro posizione a margine, interstiziale rispetto alla
società in cui sono nate, lungo le fessure in cui riescono ad intrufolarsi, per
lavorare, da lì, a creare un sempre maggior spazio, modificando così il significato
e il rapporto fra gli spazi e proponendo una nuova visione del mondo.
Per “parlare il silenzio delle donne”, riprendendo l’espressione di De
Lauretis, è innanzitutto necessario prendere coscienza di sé come soggetti
individuali e politici. Assia Djebar dà la parola al silenzio di tante donne, racconta
le loro storie sottraendole all’oblio. Scrivere “à force de me taire” è il paradosso
vitale che muove la mano di Djebar nell’atto del narrare le sue storie.
Scritta o pronunciata, la parola ha il potere di creare, di rendere presente,
visibile e consistente una realtà o un soggetto che altrimenti sarebbe cancellato dal
mondo, dalla società. Con Cavarero aggiungiamo, ha inoltre la funzione di svelare
il disegno che sta dietro agli accidenti della vita che possono sembrare sconnessi e
senza significato. L’atto di scrivere e di nominare rende il soggetto percepibile,
agli altri e a se stesso, così come narrare una storia è l’opposto dell’oblio, della
cancellazione di un mondo. La presa di parola da parte di chi è stato oscurato, reso
invisibile e condannato al silenzio è un riscatto del diritto di ognuno ad essere
ascoltato e a chiedere giustizia per sé e per gli altri.
Shahrazade è diventata un’eroina per le donne perché usa la parola per
opporsi alla logica di violenza del sovrano. La sociologa marocchina Fatima
Mernissi le dedica molte pagine e molte riflessioni, sia nella sua autobiografia
Dreams of Trespass che nei suoi saggi, dove analizza i punti forti della strategia di
Shahrazade e ne mostra tutta l’intelligenza.
But it was then that Mother told me about the need to chew my words before letting
them out. “Turn each word around your tongue seven times, with your lips tightly
shut, before uttering a sentence,” she said. “Because once your words are out, you
might lose a lot.” Then I remembered how, in one of the tales from A Thousand and
One Nights, a single misspoken word could bring disaster to the unfortunate one who
had pronounced it and displeased the caliph, or king. Sometimes, the siaf, or
executioner, would even be called in.
However, words could save the person who knew how to string them artfully
together. That is what happened to Scheherazade, the author of the thousand and one
tales. The king was about to chop off her head, but she was able to stop him at the
last minute, just by using words. I was eager to find out how she had done it. (DT, p.
10)
Mernissi spiega come, nella traduzione dall’arabo al francese del testo di Le
mille e una notte, nel passaggio, cioè, dalla cultura araba a quella europea, si sia
perso qualcosa della vera natura di questa figura, trasformata e resa più docile e
innocua dal pensiero europeo nei confronti delle donne. Mernissi, infatti, spiega
che Shahrazade nel mondo arabo non è la nostra bellissima e innocua
intrattenitrice di uomini, bensì una figura forte e dotata di una sottile intelligenza.
I was amazed to realize that for many Westerners, Scheherazade was considered a
lovely but simple-minded entertainer, someone who narrates innocuous tales and
dresses fabulously. In our part of the world, Scheherazade is perceived as a
courageous heroine and is one of our rare female mythical figures. Scheherazade is a
strategist and a powerful thinker, who uses her psychological knowledge of human
beings to get them to walk faster and leap higher. Like Saladin and Sindbad, she
makes us bolder and more sure of ourselves and of our capacity to transform the
world and its people. (DT, p. 15, nota 2)
La bambina Fatima si chiede, allora, “how does one learn how to tell stories
which please kings?” (DT, p. 16) e la madre le risponde che “that was a woman’s
lifetime work”:
This reply did not help me much, of course, but then she added that all I needed to
know for the moment was that my chances of happiness would depend upon how
skillful I became with words. (DT, p. 16)
Shahrazade è la figura mitica per eccellenza, colei che possiede le qualità
per sovvertire la logica dell’oppressione e della violenza degli uomini nei
confronti delle donne (e, per estensione, di tutte le minoranze). Shahrazade riuscì
a sopravvivere perché la sua strategia si rivelò vincente: usò il proprio cervello per
intessere delle storie capaci di catturare l’interesse del sovrano e rinviare la
propria condanna a morte. Mernissi spiega che Shahrazade doveva avere tre doti
straordinarie perché riuscì a far cambiare idea al suo carnefice.
Cambiare la mente di un assassino pronto ad ucciderti, narrandogli delle storie, è
un’impresa straordinaria che esigeva dalla potenziale vittima il possesso di tre doti
strategiche: una vasta riserva di informazioni, una lucida comprensione della mente
criminale, e molto sangue freddo per agire.
La prima dote è di natura intellettuale: si tratta di avere pronta una dovizia di
conoscenza dalla quale selezionare le storie. La cultura enciclopedica di Shahrazad è
descritta nelle prime righe del libro: “Shahrazad aveva letto i libri di letteratura,
filosofia e medicina. Conosceva a memoria la poesia, aveva studiato i resoconti
storici, ed era ferrata nei proverbi degli uomini e nelle massime di saggi e re. Era
intelligente, ben informata, saggia e raffinata. Aveva letto e aveva imparato” […].
La seconda dote è di natura psicologica: un uso del linguaggio tale da cambiare la
mente di un pazzo criminale. Servirsi del dialogo per disarmare l’omicida […].
L’ultima dote richiesta è il sangue freddo, la capacità di controllare le proprie paure
al punto di continuare a pensare con lucidità e poter agire indipendentemente da
esse, in modo da condurre la dinamica dell’interazione invece di essere condotti
dall’aggressore. […] Se si fosse spogliata, come le vamp hollywoodiane o le
odalische di Matisse, e si fosse stesa passivamente nel letto del furioso re, sarebbe
stata uccisa, perché a quell’uomo non serviva il sesso, gli serviva una psicoterapeuta.
Alla fine, il re comprende di aver sbagliato nell’usare tanta violenza nei
confronti delle donne e che la violenza e la barbarie possono avere una fine solo
nel momento in cui si riesce a stabilire un dialogo tra coloro che detengono il
potere e coloro che ne sono privi, quando gli uomini impareranno a dialogare con
le donne, gli esseri umani loro più vicini e con i quali condividono il letto e i
momenti di intimità. I discorsi su pace e serenità, come quelli sulla democrazia e
sulla pluralità, nel mondo islamico sono sempre legati ai discorsi sui diritti delle
donne.
Nelle Mille e una notte, che è vecchia di secoli, Shahryar ammetteva ufficialmente
che odiare le donne era una malattia e che un uomo normale dovrebbe usare le
parole al posto della violenza per risolvere le sue contese. È questa capacità, da parte
di una donna intelligente, di analizzare la sua situazione e di influire sui pensieri
degli uomini, portandoli al dialogo e all’abbandono della violenza, ciò che
conferisce alla Shahrazad orientale le credenziali di un moderno mito civilizzatore,
un simbolo del trionfo della ragione sulla violenza.
La più potente arma in mano alle donne non è la sessualità ma l’intelletto e
la capacità di usarlo nei migliore dei modi.
Si racconta e si scrive, dunque, per vincere la morte violenta, per civilizzare
l’uomo, come fa Shahrazade, ma anche per ricordare e far ricordare, per non
lasciar che le infinite esistenze che passano nel cammino della vita scompaiano
senza lasciar alcuna traccia dietro di sé. Ogni autobiografia, come pure ogni
biografia, racconta la storia di una vita per tracciare un’immagine complessiva
della parabola dell’esistenza, guarda, cioè, al passato per narrarlo, raccogliendo in
un’unità organica una grande quantità di dettagli che altrimenti rimarrebbero
slegati e la cui totalità rimarrebbe incomprensibile. Questo è, riassunto, il nocciolo
della concezione della narrazione da Adriana Cavarero esposta in Tu che mi
guardi, tu che mi racconti. L’autrice apre l’introduzione a questo testo rievocando
una storia contenuta nell’opera di Karen Blixen, La mia Africa. È la storia di un
uomo che abitava vicino ad uno stagno. Una notte fu svegliato da un forte rumore
e immediatamente uscì e si diresse verso lo stagno. Nell’oscurità non riusciva a
distinguere nulla, per cui correva a destra e a manca seguendo i rumori e inciampò
e cadde più volte. Alla fine riuscì a trovare una falla sull’argine dello stagno, da
cui uscivano acqua e pesci, e si mise a ripararla, per poi rientrare a casa e
rimettersi a dormire. Al mattino si affacciò alla finestra e vide che le orme che i
suoi passi avevano tracciato durante la notte avevano disegnato sul terreno la
figura di una cicogna.
L’idea che struttura questa storia è che “il percorso di ogni vita alla fine si
lasci guardare come un disegno che ha senso”. Non si tratta di un disegno
progettato, previsto o controllato, perché gli ostacoli e gli imprevisti della vita non
possono essere previsti o progettati, però voltandosi indietro a osservare il passato
di un’esistenza si può delineare un disegno.
Il significato del racconto sta infatti proprio in questo semplice risultare che non
consegue ad alcun progetto, e nell’unità figurale del disegno. Detto altrimenti, il
disegno – non dei tratti confusi, ma l’unità di una figura – non è ciò che guida fin
dall’inizio il percorso di una vita, bensì ciò che tale vita si lascia dietro, senza
poterlo mai prevedere e neanche immaginare. La cicogna si vede solo alla fine,
quando chi l’ha tracciata con la sua vita o altri spettatori, guardano dall’alto, vedono
le orme lasciate sul terreno.
[…]
Il significato che salva la vita di ognuno dal mero succedersi degli eventi non
consiste in una determinata figura, consiste però esattamente nel lasciarsi dietro una
figura, ossia qualcosa di cui si possa scorgere l’unità del disegno nel raccontarne la
storia. Come il disegno, la storia viene appunto dopo gli avvenimenti e le azioni, da
essi risulta.
Il racconto svela una storia, ne rintraccia l’unità e mette in correlazione tutti
gli elementi. In altre parole, il significato di un’esistenza è visibile, osservabile,
solo a conclusione del racconto.
Il disegno si lascia osservare attraverso la scrittura e la lettura (o l’ascolto)
insieme. È la scrittura che, mentre si scrive, traccia le linee del disegno. La
scrittura è dunque una traccia, come la traccia della penna sul foglio. Derrida
definisce la scrittura una “trace coupante”: è un’incidere con la penna il foglio, è
un lasciare una traccia fisica del disegno dietro di sé. La penna, nel suo muoversi
lungo le righe del foglio, traccia un cammino. Questa immagine richiama l’idea
del movimento e della fisicità del corpo che scrive. La scrittura, da questa ottica,
diventa movimento della mano e, per estensione, del corpo della donna o
dell’uomo che scrive. Il movimento è un aspetto fondamentale della riflessione
sull’atto di scrivere per molte autrici maghrebine e medio-orientali, come si vedrà
più approfonditamente nel corso dell’analisi in questo lavoro.
In questo lavoro, attraverso le narrazioni e autobiografie delle autrici, ho
cercato di rintracciare il disegno che lasciano dietro di sé le loro esistenze. Dalla
lettura si delineano disegni che rappresentano l’esilio e che possono essere
raggruppati in tre tipi. Il primo è l’esilio come sapere, un sapere che può avere
diverse fonti, quali i racconti e le storie ascoltate nell’infanzia dai membri più
adulti della famiglia, l’andare a scuola e l’istruirsi e, terzo, il piacere/bisogno della
lettura di romanzi. Il secondo disegno che racconta l’esilio lo rappresenta come
l’atto della scrittura. La terza rappresentazione dell’esilio lo identifica come una
condizione linguistica, l’esilio come immersione e utilizzo di una lingua diversa
dalla lingua madre.
Ovviamente, l’esilio è una questione di spazio e di movimento nello spazio,
per cui nell’analisi di queste tre rappresentazioni dell’esilio è importante integrare
l’analisi spaziale.
1.2 L’analisi spaziale
Come si è detto poco sopra, nella citazione di Nafisi si intreccia il discorso
della narrazione con il discorso sugli spazi. Sempre in Sui generis, De Lauretis
definisce il concetto di soggetto eccentrico in riferimento alle donne. Si tratta di
un soggetto in continuo movimento e in libera uscita rispetto ai rigidi confini
assegnati al femminile. Le donne, cioè, si trovano nella necessità di fuggire dallo
spazio e dagli schemi ad esso assegnati dalla cultura tradizionale e per farlo il
primo passo consiste nel riconoscersi come soggetto escluso dallo spazio pubblico
gestito dagli uomini.
Attraverso l’analisi delle opere in questo lavoro mi propongo di mettere in
luce la relazione delle donne con lo spazio e i luoghi in cui si muovono.
Guardando lo spazio dall’ottica socio-culturale del genere femminile, la mia
analisi vuole individuare l’esistenza di differenze di genere nella percezione dello
spazio e nel modo di usufruirne, cercando di comprendere se e in quale misura lo
spazio viene modificato nella sua struttura tradizionale dalle azioni delle donne
che quotidianamente vi si muovono, accudiscono la casa e la famiglia, escono e
lavorano. In questa prospettiva di genere, metterò a fuoco in particolare la
percezione dello spazio nella situazione di esilio che, come si è già detto nella
Parte I, è un’esperienza fortemente legata al movimento nello spazio,
all’attraversamento di limiti e confini e all’allontanamento dal luogo di origine.
Finora ho posto l’accento sull’esperienza geografica, fisica e sensoriale
dello spazio vissuto. Ma lo spazio è anche una costruzione mentale. È un luogo
immaginato, meno fisico, eppure ugualmente reale, dal momento che, sebbene
rappresenti solo un’immagine del pensiero, influisce sui comportamenti, sul modo
di muoversi attraverso lo spazio, di viverlo in parte o nella sua interezza.
Per quanto riguarda lo spazio fisico, si può pensare a differenti livelli di
estensione: lo spazio domestico/familiare e le divisioni al suo interno;
l’opposizione spazio privato/spazio pubblico; lo spazio nazionale e quello
transnazionale. Nel caso delle due ultime tipologie, intendo indirizzare
l’attenzione sul modo in cui questi interagiscono, quali interferenze vi siano tra lo
spazio della nazione, con i suoi miti, la sua lingua nazionale, la storia, la politica,
ecc, e lo spazio sovranazionale, uno spazio in cui più nazionalità, culture, lingue,
tradizioni, mentalità, filosofie politiche ed economiche vengono a contatto, si
scontrano o si fondono, diventano trasversali.
Le due tipologie di spazio, fisico e mentale, spesso si sovrappongono ed è
difficile distinguerle. Lo spazio domestico, ad esempio, che è reale, definito dai
muri della casa, diventa spazio mentale quando viene associato ad ideali, valori, o
identifica lo spazio di un genere (donne o uomini) piuttosto che di un altro. In
altre parole, gli spazi, e con essi i singoli luoghi, non sono neutri, ma sempre
associati a ideali, valori, tipologie sociali che li caricano di significato. Spesso tali
significati vengono ereditati dalla tradizione, dal passato, di cui la famiglia o le
istituzioni si fanno interpreti e perpetuatori. La tradizione e l’accumularsi di secoli
di storia hanno radicato nella mentalità di gran parte delle civiltà umane l’idea che
lo spazio domestico, familiare, fosse ‘naturalmente’ destinato al genere
femminile, mentre lo spazio esterno, pubblico, dovesse essere prerogativa del
genere maschile. Sotto queste forme predominanti del pensiero comune scorrono
però altre idee, che a volte affiorano attraverso voci che contestano lo status quo e
il pensiero comune. Le scritture analizzate in questo lavoro pongono in primo
piano la questione degli spazi, delle loro divisioni e delle problematiche sociopolitiche e culturali ad essi collegati. Attraverso il romanzo o l’autobiografia
vengono raccontate alcune esperienze di donne che mettono in luce gli ostacoli, le
sofferenze e i problemi che incontrano relativamente alla percezione spaziale.
Lo spazio fisico, la percezione dello spazio e la sua divisione sono
imprescindibilmente collegati alla mentalità e alla cultura di colui o colei che
fruisce di quello spazio. Inoltre, data l’inscindibilità dello spazio dalla coordinata
temporale, come si è detto nella Parte I di questo lavoro, si può affermare che la
percezione dello spazio-tempo e le conseguenti modalità di fruizione dello stesso
dipendono in larga misura dalla cultura.
Un aspetto dello spazio-tempo legato alla cultura è quello delle distanze. Le
distanze sono sempre relative, e inoltre essendo percorribili in un dato lasso di
tempo, spesso vengono pensate in termini temporali. I tempi dei vari spostamenti,
però, sono variabili, dipendono dalla modalità di questi, per cui la distanza varia
nel corso delle epoche e in base alle tecnologie di trasporto che queste producono.
Emigrare o andare in esilio nel 1950 costituiva un’esperienza diversa, in termini di
vissuto della distanza geografica, dalla stessa esperienza nel 2005. Rovesciando il
discorso, e data appunto la stretta relazione tra le due coordinate di spazio e
tempo, il tempo è spesso, anche nel linguaggio comune, descritto in termini
spaziali. È comune sentir affermazioni che riguardano epoche differenti descritte
in termini di distanza, come vicine, prossime o lontane.
È necessario pensare allo spazio anche in termini tridimensionali, per cui
ogni corpo occupa un volume. La fisica ci insegna che ogni corpo nello spazio
esercita una forza gravitazionale sui corpi circostanti proporzionale alla sua
massa. Ogni corpo, ossia ogni persona, oggetto e luogo, esercita quindi sul mondo
esterno una certa forza di attrazione, che non dipende necessariamente dalla massa
fisica di cui è composto. In altri termini, gli individui, come pure i luoghi e le
differenti tipologie di spazio, esercitano sul mondo circostante forze di attrazione,
sebbene seguano leggi differenti rispetto a quelle della fisica. Un corpo esile e
sottile, ad esempio, può occupare molto spazio:
Yassi was sprawled on the couch, in her usual place between Manna and Azin,
making me wonder again how such a tiny body could take up so much space.
Quando si parla di esilio, si parla ovviamente di distanze e spesso addirittura
di lontananze (termine meno neutro di distanza, in quanto già implica l’idea di una
grande distanza, incolmabile, e perciò si associa al sentimento di nostalgia).
Nell’esilio le distanze sono la distanza dalla casa, dal suolo natio, dalla patria,
dalla lingua madre, quella dalla famiglia, dagli amici e dalla comunità in cui ci si
riconosce. Le nuove tecnologie dei trasporti e della telecomunicazione riducono in
parte, nel mondo contemporaneo, il problema delle distanze e delle lontananze,
ma non possono risolverlo.
Oltre alla distanza da quel “laggiù” della patria, vi è un altro tipo di distanza
nell’esilio. È una distanza culturale, mentale, che può far più male delle grandi
lontananze geografiche. Si tratta della distanza che isola, che emargina dalla
comunità in cui si giunge. Può assumere la forma della discriminazione, del
razzismo, o semplicemente di distacco, di mancata integrazione nella comunità.
Oppure può trattarsi di una percezione culturale della distanza e dello spazio
occupato dai corpi, che può mettere in imbarazzo. Penso ai gesti e ai movimenti
delle persone durante una comunicazione, come ad esempio quelli di cui parla Eva
Hoffman in Lost in Translation:
I learn my new reserve from people who take a step back when we talk, because I’m
standing too close, crowding them. Cultural distances are different, I later learn in a
sociology class, but I know it already. I learn restraint from Penny, who looks
offended when I shake her by the arm in excitement, as if my gesture had been one
of aggression instead of friendliness. I learnt it from a girl who pulls away when I
hook my arm through hers as we walk down the street – this movement of friendly
intimacy is an embarrassment to her.
CAPITOLO 2.
IL SAPERE E LA SCRITTURA COME ESILIO.
2.1 Malika Mokeddem.
Malika Mokeddem è una scrittrice e un medico nefrologo che dalla natia
Algeria ha scelto di completare gli studi e di vivere in Francia. Da un villaggio nel
deserto, pur amando la propria terra, sceglie volontariamente l’esilio, come ella
stessa lo definisce, che vede come sola via di fuga per non lasciarsi soffocare e
annullare dall’oppressione che la società e le tradizioni algerine riservavano alle
donne e alle ragazze. Il percorso che pian piano la porta a compiere il distacco
dalla famiglia, dalla casa, dal deserto e, infine, dall’Algeria si compie per tappe,
lentamente, iniziando fin dai primi anni di vita.
Malika Mokeddem discende dai nomadi del deserto algerino, gli ‘uomini
blu’, ma cresce negli anni Cinquanta a Kenadsa, un piccolo villaggio ai limiti del
deserto. I suoi genitori sono diventati sedentari, tradendo, secondo l’autrice, le
radici nomadi degli antenati. L’unica rappresentante del popolo del deserto che
rimane alla famiglia è la nonna paterna di Mokeddem, che racconta alla nipote le
storie dei lunghi cammini del popolo Tuareg. Mokeddem frequenta la scuola
superiore e diventa sorvegliante delle altre ragazze, ottenendo così il suo primo
lavoro retribuito, e contemporaneamente comincia ad abitare presso il collegio
della scuola. Negli anni Settanta si iscrive alla Facoltà di Medicina nella città di
Orano, fatto che l’allontana ancora di più dalla famiglia e da casa. Nel 1977, in
seguito agli attacchi degli integralisti islamici, lascia l’Algeria e continua gli studi
in Francia, a Parigi. Ottenuta la laurea, sceglie di andare ad esercitare la
professione di medico nefrologo a Montpellier, nel sud della Francia, dove risiede
tutt’ora.
Sebbene la sua storia personale l’abbia condotta e tenuta lontano dalla patria
per lunghi anni, le sue opere letterarie non possono fare a meno di riferirsi
costantemente all’Algeria, al deserto, alla sua famiglia, alla società algerina e ai
nomadi del deserto da cui discende e in cui ritrova le proprie radici. La scrittura la
riporta a casa, nei luoghi familiari della sua infanzia. In altre parole, dalla sua
scrittura filtra la lacerazione che l’autrice prova per essere dovuta scappare dalla
sua terra.
Le radici dell’esilio di Mokeddem partono da lontano, dalla sua infanzia.
Uno dei suoi ultimi lavori, pubblicato nel 2003 ed intitolato La Transe des
insoumis, è una scrittura autobiografica in cui Mokeddem narra le vicende della
propria vita, ripercorrendo il cammino che l’ha portata alla drammatica scelta
dell’auto-esilio. Mokeddem scrive per se stessa, perché ha bisogno della scrittura
come spazio vitale e per rimettere insieme i frammenti sparsi della sua esistenza.
Ai lettori e alle lettrici spetta invece il compito di individuare nella storia il
disegno composto dagli eventi della sua esistenza. Il disegno che Mokeddem si
lascia alle spalle è un’immagine che contiene in sé la rottura, la divisione. La
narrazione è infatti organizzata in un’alternanza di capitoli dal titolo “Ici” e “Làbas”.
2.2 Ici/Là-bas.
‘Ici’ e ‘Là-bas’ sono due termini spaziali oppositivi che individuano la
frattura della vita di Mokeddem, una vita che, come l’autrice stessa afferma, è una
vita in esilio. La frattura spaziale si accompagna ad una frattura temporale. Il
‘qui’ è anche il tempo presente della vita di Mokeddem a Montpellier, nel sud
della Francia, dove abita in una casa su una falesia di fronte al mar Mediterraneo.
Al di là del mare, dall’altra parte di quello spazio, si stende l’Algeria, il deserto,
quel ‘là-bas’ che è relegato, ormai, al passato, all’infanzia e alla prima giovinezza
dell’autrice.
Essendo uno degli ultimi libri pubblicati dall’autrice, La Trance des
insoumis contiene proprio quelle chiavi di lettura capaci di aprire le porte che
lasciano intravedere il disegno lasciato dalle vicende della donna. Allo stesso
tempo, La Trance des insoumis può essere letto in chiave intertestuale, per la sua
ricchezza di riferimenti espliciti alle tematiche trattate negli altri romanzi, agli
episodi in essi raccontati e agli aneddoti legati alla loro pubblicazione.
La Trance des insoumis è, inoltre, il primo libro di Mokeddem scritto in
prima persona, in cui l’autrice si rivela intimamente, racconta se stessa, le sue
paure, le sue convinzioni, le sue scoperte del mondo. È un’autobiografia e una
trasgressione rispetto alla tradizione in cui il genere narrativo e quello
autobiografico rappresentano uno scandalo perché svelano l’intimità della
persona. Il romanzo, in quanto mette in scena la persona che lo scrive, è stato un
genere tabù nel mondo arabo fino alla metà del XX secolo. Tanto più il tabù vale
per una donna, relegata nel chiuso dello spazio domestico, costretta a nascondere
il suo aspetto e la sua identità nello spazio pubblico della strada come della
scrittura.
L’autrice percepisce la propria esistenza come non lineare, fatta di una serie
di rotture, fratture, partenze, e molteplici ritorni, reali o immaginati. Si tratta
dunque di una scrittura, di una narrazione spezzata. Come afferma Dubravka
Ugrešić, la vita di uno scrittore o una scrittrice in esilio è una vita spezzata e può
essere raccontata solo con uno stile frammentato, spezzato. Per Ugrešić
l’organizzazione del racconto di una vita in esilio è quindi necessariamente alineare. Sta allora a chi ascolta o legge raccogliere gli elementi e vederne l’unità.
L’unità è visibile attraverso la frammentarietà, la frammentazione e la dispersione
che appaiono a chi vive la vicenda in prima persona. Nella dimensione del qui e
ora sono presenti entrambe le dimensioni spazio-temporali: ‘ici’ incorpora anche
il ‘là-bas’. Come la protagonista de L’interdite, Malika potrebbe dire “je n’en suis
jamais vraiment partie. J’ai seulement incorporé le désert et l’inconsolable dans
mon corps déplacé. Ils m’ont scindée”. Il qui è anche il laggiù, perché l’Algeria, il
deserto, l’infanzia sono vivi come memoria del corpo. Come scrive il sociologo
Madan Sarup, emigrato dall’India in Gran Bretagna all’età di nove anni, “the
migrant is here and there”.
Inoltre, la vita presente è il risultato di tutte le tappe e le scelte compiute nel
passato. Il passato continua a vivere e contribuisce a forgiare la persona del
presente, anche quando l’individuo lotta per affrancarsi dal proprio passato.
L’identità, come afferma la filosofa femminista Rosi Braidotti, è retrospettiva:
attraverso il racconto o l’auto-narrazione, si può arrivare a comprendere meglio se
stessi, ripercorrendo le tappe che hanno costituito il proprio cammino fino al
momento e al luogo (il punto spazio-temporale) in cui inizia la narrazione. Ad
ogni momento, girandosi indietro per guardare il disegno della propria vita, si può
vedere quel disegno modificato, più dettagliato, più preciso. Ogni giorno, senza
aspettare necessariamente la fine di un’esistenza, ci si può affacciare alla finestra
del proprio passato per cercare di scorgere il disegno e capire meglio se stessi o gli
altri. Questo è ancora più vero per le persone che si spostano, che viaggiano e che
non passano l’esistenza in un solo luogo, aggiunge Madan Sarup.
Identity is changed by the journey; our subjectivity is recomposed. In the
transformation, every step forward can also be a step back.
Il racconto autobiografico dell’esule, nel suo stile spezzato, nella
rappresentazione di una personalità divisa, riflette anche i luoghi differenti che
segnano le tappe della vita. Mokeddem abita a Montpellier, ai margini della città e
della collettività in cui si compie il suo esilio francese. Mokeddem abita in
Francia, ma nell’estremità meridionale, ai bordi del mare, un mare che con la sua
liquidità, fluidità, la unisce alla sponda opposta, alla fluidità delle dune del deserto
algerino. Mokeddem osserva entrambe le terre da una posizione a margine e per
questo può guardarle con un certo distacco e una coscienza critica. Li mette a
confronto per cercare gli aspetti positivi e i limiti di entrambi. Collocandosi ai
limiti del territorio francese, la sua casa può essere pensata come un estremo di un
continuum costituito dal Mediterraneo, che dall’estremità opposta continua ad
essere connesso, in un perpetuo scambio negoziale che alimenta la creatività. È
questo il terzo spazio di cui scrive Bhabha.
Un altro binomio di parole fondamentali della narrazione di Mokeddem è
composto da “coupure”/“rupture”, che riprende e rafforza l’idea della frattura
spazio-temporale ‘ici’/‘là-bas’. Il concetto di rottura è strettamente connesso ad
altre due parole-chiave del testo, ‘letto’ e ‘libro’. In Algeria, nella casa paterna, i
libri e le letture rappresentavano la rottura con la famiglia: il libro era il mezzo che
Mokeddem usava per erigere un muro di separazione tra sé e il resto della
famiglia. I libri erano muri invalicabili, che creavano una divisione tangibile tra
Mokeddem e la sua famiglia e le permettevano di ritagliarsi uno spazio tutto per
sé, dove gli altri non potevano entrare perché privi delle chiavi di accesso alla
lettura: l’alfabetizzazione. In Francia, è di nuovo il bisogno che Malika prova per i
libri e la scrittura a separare senza possibilità di appello la donna dal suo
compagno, un francese di nome Jean-Louis.
Quello dei libri è uno spazio che Mokeddem ricerca costantemente, uno
spazio dove potersi prendere cura di sé, dove poter far valere le opinioni personali,
dove condurre un’esistenza che rispecchi le proprie convinzioni e le proprie
aspettative, e non rassegnarsi ad essere schiava di spazi che non ammettono
futuro. Per Mokeddem, come per la piccola Dalila, alter ego dell’autrice, del
romanzo L’interdite, la ricerca dello spazio può divenire una malattia. Una
persona che cerca lo spazio è una persona sempre in cammino “et qui veux pas
vivre comme tout le monde”.
La Transe des insoumis si apre con una frase che rivela una rottura. “Il est
parti ce matin” (TI, p. 15): si tratta della partenza di Jean-Louis dalla casa e dal
letto che avevano condiviso per diciassette anni. Il testo dunque prende inizio da
una fine. Anzi, la fine della relazione dà all’autrice la forza di un nuovo doppio
inizio: da una parte, comincia una nuova vita, dall’altra intraprende la stesura
della sua nuova opera. Il testo continua con “Je suis seule dans le lit” (TI, p. 15),
frase che subito tesse insieme le immagini di rottura, solitudine e letto.
L’immagine della rottura all’inizio del testo ne suggerisce una simile, che
viene alla mente se, sull’esempio della scrittrice americana contemporanea Ursula
K. Le Guin, compariamo lo studioso di letteratura ad un archeologo. L’archeologo
studia le civiltà del passato attraverso i frammenti e le rovine che trova nel
terreno, tracce di esistenze che sono passate sulla terra. Il critico letterario studia
le civiltà e le identità delle persone attraverso le storie che queste hanno
raccontato e cerca di tracciare il disegno della loro vita. In questa ottica, per i
critici i libri costituiscono le rovine. Quando si pensa ai resti archeologici,
vengono in mente ruderi e rovine contrassegnate inevitabilmente da qualche
rottura e qualche crepa. Anche nel caso di La Transe des insoumis si è subito
messi di fronte ad una rottura metaforica.
“Casser, rompre, j’ai toujours su” (TI, p. 27), rivela Mokeddem. Le rotture,
i tagli hanno scandito le tappe della vita dell’autrice. Questa ultima rottura,
rappresentata dalla separazione con il proprio uomo, è però differente dalle altre,
poiché si tratta della prima volta in cui l’autrice rimane sul luogo degli eventi che
hanno determinato questa crisi.
C’est la première fois que je reste sur les lieux d’une rupture. (TI, p. 25)
È la casa che fa la differenza a Montpellier. Nel corso della sua vita, ad ogni
rottura con la famiglia e la società, Mokeddem si era sempre allontanata,
fisicamente o mentalmente, dal luogo o dalle persone con cui si trovava in
disaccordo e che desiderava lasciarsi alle spalle. Sentiva di trovarsi in un luogo
che non le apparteneva e a cui sentiva e sapeva di non appartenere. Al contrario, la
rottura della relazione con Jean-Louis non provoca una fuga da parte di
Mokeddem, che rimane, questa volta, sul luogo della rottura e non si lancia in
un’altra fuga.
Toutes ces ruptures, ces amputations pour arracher d’abord, pour sauvegarder
ensuite le droit de décider pour moi-même. A chaque instant. Cette répétition a fini
par extorquer une part d’ivresse à la traversée des détresses. Elle a gorgé de volupté
les refus. Seulement je n’en peux plus. J’ai quitté ma famille, le désert, plusieurs
amours algériennes, le pays… C’est la première fois que je reste sur les lieux d’une
rupture. Mais c’est ma maison. J’ai mis longtemps à trouver ce site. J’ai eu le coup
de foudre, au premier regard, pour ses arbres, ses murets en pierre, sa situation en
nid d’aigle au bord d’une falaise. L’architecte l’a dessinée d’après mes directives. Il
a dû maintes fois revoir sa copie jusqu’à ce qu’elle corresponde parfaitement à mes
attentes. J’en ai tracé moi-même les terrasses, sculpté le jardin… On me dit souvent
que ma maison est à mon image, arabe et méditerranéenne. Sitôt que j’y ai habité, je
me suis mis à écrire. Comme si l’écriture avait attendu ce lieu-là pour enfin venir.
(TI, pp. 25-26)
L’immagine della casa come nido, scrive Bachelard, dà l’idea di guscio,
calore, protezione, riposo e tranquillità. Il nido è il luogo del ritorno, della fedeltà
e dell’intimità; contiene tutti i valori della casa. Citando Michelet, Bachelard
ricorda che “La casa è la persona stessa, la sua forma”: casa e colui o colei che vi
abitano hanno la stessa forma, si somigliano.
Mokeddem questa volta non fugge perché ora ha finalmente il suo nido, il
suo rifugio. In quel “J’ai mis longtemps à trouver ce site” si legge non solo
l’attenzione, la cura impiegata per scegliere proprio quel luogo e non un altro, ma
anche qualcosa di più. Trovare quel luogo è stato come trovare se stessa ed è a
partire da questo ritrovamento che il tempo della vita passato a cercarlo può essere
riconquistato. Cessare di essere il tempo di rottura e di fughe per divenire il tempo
della tessitura, della scoperta di un percorso nomade, del movimento come scelta
e non come fuga. Non appena ha cominciato ad abitare questa casa non ha più
avuto bisogno di partire, perché alla fuga territoriale si è sostituito un nomadismo
mentale. La scrittura è la sua fuga, il suo viaggio di nomade.
Giunta nel suo spazio, in uno spazio liminale, sulla costa del Mediterraneo,
su una terra-che-è-quasi-mare, può voltarsi e guardare all’Algeria che il mare
unisce alla Francia. Dopo essere fuggita prima dal deserto, poi dall’Algeria, aveva
infine scelto di lasciare anche Parigi, la grande città del nord, per ritornare un po’
più verso le proprie origini. Il 1985 era stato l’anno delle “grandes routes” (TI, p.
70), l’anno in cui si era incamminata verso il sud della Francia, verso un luogo più
prossimo all’Algeria. Dopo l’allontanamento, il riavvicinamento. Sempre a
distanza di sicurezza, però. Rimane nella terra straniera, più prossima al suo
spirito e alla sua identità, ma si riavvicina, geograficamente e spiritualmente, al
deserto e alla sua patria, alle sue origini. La casa è “mon désert prolongé” (TI, p.
26), rappresenta, cioè, una parte delle sue origini e della sua identità che ha
attraversato il mare e l’ha raggiunta sul suolo francese.
Il compagno è partito e l’autrice si ritrova sola nel letto. La narrazione ha
inizio dal letto. L’autrice scrive nel letto e del letto. Via via, la scrittura si
sofferma sui vari letti che hanno popolato le notti insonni di Mokeddem, letti che,
unici compagni, hanno condiviso con lei la solitudine delle sue letture. Un libro
sull’insonnia, giustamente, non può prescindere dal parlare di letti. Sono letti di
solitudine, di amore, di esilio, di morte e di scrittura. Si parla dei letti della sua
casa e quelli nel suo studio medico, c’è il letto dei suoi pazienti, come pure il suo
letto privato. Il letto della poeta che abita di fianco allo studio medico di
Mokeddem, nel centro di Montpellier. Poi ci sono i letti dell’infanzia, a
cominciare dal giaciglio in terra, il letto comune a tutta la famiglia, nella piccola
casupola nel deserto algerino; si racconta del giaciglio accanto alla nonna che,
nelle ore di insonnia, all’insaputa degli altri componenti della famiglia, raccontava
a Malika le sue storie; si parla del primo vero letto acquistato dai suoi genitori, di
quello del collegio al liceo e quelli delle camere universitarie ad Oran. Il letto è
un’immagine così ricorrente nel testo perché è il luogo in cui è cominciata tutta la
storia di ribellione, rotture e allontanamento di Mokeddem, che l’ha portata fino
all’esilio. Ed è il luogo in cui Mokeddem legge e scrive le sue storie. Il letto è lo
spazio della solitudine, della lettura e della scrittura. Dal momento che la lettura e
la scrittura sono due rappresentazioni dell’esilio per Mokeddem, il letto diventa un
luogo dell’esilio.
Il primo letto che incontriamo è anche l’ultimo di tutti per cronologia. Si
tratta del letto che lui, il compagno ora partito, ha fatto con le sue mani. Sembra di
leggere tra le righe il riferimento ad un altro letto famoso della storia della
letteratura, il letto che Ulisse aveva intagliato con le proprie mani da una quercia,
e attorno al quale aveva poi costruito la camera nuziale per sé e Penelope.
Il letto di Mokeddem è un letto che ha una memoria e proprio per questo
bisogna romperlo, farne legna per il fuoco, distruggerlo per distruggere la
memoria che contiene.
Casser le lit! Il faut casser ce lit qu’il a fait de ses mains. Casser ce lit de mes mains.
Démanteler lame par lame ce radeau abandonné dans une chambre vide. Casser,
rompre, j’ai toujours su. (TI, p. 27)
La decisione è difficile da prendere, sofferta: distruggere il letto che il
compagno ha costruito con le proprie mani significa cancellare la memoria che
quel letto contiene, rompere con il passato, capire che quel passato è ormai giunto
a termine. Ma significa anche, d'altronde, accettare che il motivo per cui la storia
d’amore è finita è più importante dell’amore stesso. Il compagno non poteva più
sopportare la passione di Malika per la lettura e la scrittura. La scrittura la porta
troppo lontano da lui, su altri orizzonti, la allontana da lui e dal mondo che hanno
in comune. La scrittura, così importante, persino indispensabile a Malika per non
soffocare, ora soffoca lui.
Comment un seul homme peut-il être l’amour, l’amant, l’ami, le frère, la mère, le
fils ? une tribu à lui seul ? Jean-Louis a été tout ceux-là pour moi pendant dix-sept
ans. Je me sens orpheline de lui, l’homme multiple. Je promets de ne plus me laisser
aller à une telle dépendance. Ne plus jamais masquer tous les manques par une
unique présence.
Dans l’obscurité, je pense à ma tribu de naissance. Je ne l’ai pas quittée par rejet ou
par goût d’aventures. Je me suis coupée d’elle pour ne pas mourir d’étouffement.
Maintenant, je me sépare de l’homme que j’aime parce que c’est lui qui suffoque de
me voir le corps et le mental chevillés à l’écriture. Il dit que l’écriture m’emporte
moi en le laissant sur place. (TI, pp. 23-24)
La separazione e la solitudine elementi costitutivi della vita di Mokeddem.
Ora la scrittura, da lei così tanto amata, la separa dall’uomo amato. La separa
perché la porta via, lontano. Mokeddem, attraverso le parole che scrive, vola verso
coste lontane, che la trascinano via. Entrambi gli amori, quello del compagno e
quello della sua scrittura, erano per lei un bisogno. Ma il secondo si rivela, alla
fine, più duraturo, una necessità vitale, alla quale non può rinunciare.
Dunque il pensiero di distruggere il letto costruito da Jean-Louis è doloroso,
ma alla fine la risoluzione è presa e Malika passa all’azione. Il sabato pomeriggio,
l’inizio del fine settimana, il momento generalmente dedicato allo shopping,
Malika smonta e distrugge il letto. È un gesto quasi neutro, meccanico, che non le
costa gioia né dolore, perché “le chagrin était dans la prise de cette décision” (TI,
p. 51). Solo un piccolo incidente viene a turbare l’automatismo delle azioni, una
piccola scheggia si infila appena sotto l’unghia dell’indice della mano. Una
piccola scheggia di ricordo cerca di rimanere attaccata ancora alla memoria, e ci
vuole tempo per estrarla. Poi l’incidente è dimenticato per tutto il resto
pomeriggio, impegnato negli acquisti per rinnovare la camera e per scegliere un
letto ancora più grande, che esalti la sua solitudine:
Il me faut un lit plus grand pour bien m’y sentir seule. Pour effacer l’absence.
Accroître la surface afin de capter, de piéger un peu de sommeil. (TI, p. 51)
La sequenza delle azioni dello smantellamento del letto e delle riflessioni su
come ri-ammobiliare la stanza è descritta in dettaglio: mostra lo smantellamento
simbolico degli ultimi ricordi della vita insieme all’uomo amato e, allo stesso
tempo, un momento importante per ricominciare una nuova vita in cui, come colei
che naviga in solitario, muove per ritornare a se stessa.
2.3 “Le savoir est pour moi le premier exil”.
“Lire toute la nuit et dormir le matin, vivre décalée des autres” (TI, p. 116).
In questa citazione si concentra uno dei temi principali dell’opera La Transe del
insoumis, cioè l’intimo rapporto dell’autrice con l’insonnia, la sua
passione/bisogno della lettura e la costante ricerca della solitudine. I tre elementi
si rimandano l’un altro e costituiscono il primo nucleo dell’esilio della scrittrice.
Mokeddem racconta come, negli anni della prima infanzia, sente un forte
bisogno di starsene lontano dagli altri fratelli e di rintanarsi, di notte, nel letto
della nonna. Inizialmente contrastato dai genitori, il desiderio di Malika di stare
vicino alla nonna viene infine accettato, non tanto per accontentarla, ma perché,
con la sua veglia notturna e i suoi movimenti per la stanza, la piccola disturba il
resto della famiglia. La nonna paterna, che abita nella stessa casa, ma non dorme
nella stessa stanza con il resto della famiglia, è l’unica presenza con cui Malika si
sente in sintonia. Vegliare, distesa nel letto accanto a lei che le racconta le sue
favolose storie de “les hommes qui marchent”, dona tranquillità alla bambina. Il
letto della nonna diventa così un trampolino verso orizzonti lontani, il punto da
cui lanciarsi per seguire con l’immaginazione i percorsi dei nomadi e apprendere
da loro insegnamenti di vita e un’etica del viaggio.
L’avvicinamento alla nonna rappresenta una prima tappa nel progressivo
cammino di Mokeddem verso la sua libertà. Lo spostamento spaziale riflette la
vicinanza affettiva e mentale tra la nonna e la nipote e, per contrasto, accentua la
separazione dai genitori e dai fratelli, mentre vegliare quando tutti gli altri
dormono segna una frattura nella condivisione di un tempo comune.
L’allontanamento spaziale, reso evidente dall’interporre questa distanza tra lei e la
famiglia, si trasforma pian piano anche in un allontanamento temporale: leggere la
notte e dormire il giorno la sottrae alla condivisione del tempo della famiglia. La
sottrae, inoltre, dall’aiutare la madre nelle faccende domestiche, lei, la più grande
di tutti i fratelli, e femmina. Fare i lavori di casa mentre i bambini non ne sono
coinvolti la fa sentire schiava della famiglia, soprattutto nei confronti dei fratellini
maschi più piccoli.
Questa prima ribellione avviene all’età di tre anni e mezzo o quattro e
rappresenta la prima conquista importante di Mokeddem perché, con il diritto di
vegliare la notte, di non dormire come tutti gli altri, ha conquistato il diritto ancora
più importante di non uniformarsi, di essere diversa e di seguire la propria
vocazione, sottraendosi al senso di oppressione che le dà la famiglia. Simbolo di
questa oppressione e frustrazione è la dura e pesante coperta di lana sotto la quale
dorme tutta la famiglia e che a lei, Malika, non dona ristoro ma solo un senso di
soffocamento.
La passione per le storie aumenta nel tempo, fino a far traslare l’oggetto del
desiderio dalla voce narrante della nonna alla carta stampata. Dal momento in cui
Mokeddem va a scuola ed impara a leggere, si rende conto di avere a disposizione
un nuovo e più potente strumento per isolarsi dalla famiglia, e soprattutto dalla
madre. Mokeddem, infatti, è l’unica a saper leggere. La sua sete di racconti orali
diventa fame di libri, quei racconti sulla carta che sono passpartout per mondi
fantastici, via di uscita dalla stretta morsa dello spazio domestico.
Come dice la stessa autrice, infatti, il sapere costituisce il suo primo esilio. Il
sapere è rappresentato dai libri che divora avidamente uno dopo l’altro, che
prende in prestito in biblioteca e di cui è estremamente gelosa e allo stesso tempo
orgogliosa. Il sapere è esilio perché la isola dal resto della famiglia e dalla società
misogina, le permette di istruirsi, di apprendere quelle competenze ed abilità che
saranno fondamentali per riuscire a farsi forza e uscire dalla stretta sorveglianza
della famiglia, per camminare libera e raggiungere le proprie mete.
Le savoir est pour moi le premier exil. Unique car irrévocable. Il m’a sortie d’une
histoire figée dans la nuit des temps pour me précipiter seule, démunie, gueule
ouverte sur le macadam de ce milieu du xxe siècle pas encore mien. Souvent hostile.
La notion d’exil ne pouvait se rattacher à un territoire pour mes aïeux nomades. Elle
traduisait déjà l’exclusion volontaire ou supportée du groupe familial. […]
Avant une quelconque conscience des discriminations sociales c’est d’abord celles
des parents qui ont provoqué ma révolte, nourri mon désarroi, entamé ma dissidence.
(TI, p. 158)
Inscrivendo la propria storia in quella delle popolazioni nomadi, Mokeddem
individua una forma di esilio non legata ad un territorio geografico. Linhartovà
afferma che l’esilio comincia ad esistere nel momento in cui le società da nomadi
diventano sedentarie e il territorio diventa uno spazio circoscritto che definisce un
particolare popolo e la sua autorità. In questa prospettiva, l’esilio ha senso solo per
coloro che hanno un forte attaccamento al luogo e al territorio. Per chi, al
contrario, discende da popolazioni nomadi, per le quali il significato dell’esistenza
è il cammino, il movimento, non ha senso parlare di esilio in termini territoriali.
Sentendosi parte di una tradizione nomade, Mokeddem ha interiorizzato il
nomadismo spaziale degli antenati, che è divenuto per lei nomadismo mentale. Le
ragioni per la sua scelta dell’esilio sono da rintracciare in questa discendenza
nomade e nel suo bisogno di non sentirsi legata né alla terra, né alla famiglia, né
ad un uomo.
Aux amants d’une soir je dis: « Je ne suis que de passage. Je repars demain. » Je n’ai
aucune envie de m’attacher. Un homme pour moi c’est une terre. (TI, p. 206)
Mokeddem, giunta in Francia, conquista quella libertà di movimento che,
come donna, non aveva in patria. E allo stesso modo, non si sente pronta ad
attaccarsi ad un uomo, che ella associa metaforicamente alla terra. Solitamente,
nella letteratura e nel pensiero comune, è la donna ad essere paragonata alla terra,
immagine che si associa alla fertilità e alla madrepatria. Mokeddem ribalta questa
concezione ed è lei stessa, donna, che, interiorizzata l’etica del nomadismo dei
popoli del deserto da cui discende, reclama per se stessa il diritto di non lasciarsi
legare a nessuno.
La lettura era stata la prima conquista di bambina, la conquista di mondi
dell’immaginazione, il varco di orizzonti lontani. Una passione e un bisogno
insieme. Muoversi nei territori dell’immaginazione l’ha portata a percorrere, dopo
anni, il cammino dalla lettura alla scrittura, la naturale evoluzione del desiderio di
indipendenza e di sviluppare le proprie inclinazioni senza ostacoli. La scrittura,
l’autonarrazione è una ricerca di se stessi, delle proprie origini, della propria
identità.
Les livres sont mes lits debout entre moi et le monde, des mondes où les mots se
couchent au bord de l’infini. (TI, p. 55)
Libri e letti si intrecciano, i loro confini si toccano e sfumano,
impregnandosi l’uno dell’essenza dell’altro. Entrambi rappresentano il momento
dell’evasione mentale, l’allontanamento dal mondo fisico che la circonda, della
fuga nei mondi immaginati. I libri sono lo schermo, lo scudo che la separa dal
mondo esterno, detestato. I libri sono il muro che Mokeddem leva a barriera
contro quel mondo. I libri le servono da filtro attraverso cui leggere il mondo, la
sua vita e quella degli altri, la sua identità attraverso occhi diversi, attraverso una
prospettiva più consona alla propria sensibilità, che non rispecchia quella delle
persone che la circondano. In secondo luogo, i libri rappresentano la barriera che
la isola, la divide, la separa dal resto della famiglia, soprattutto dalla madre, che
un giorno rivelerà ad un giornalista:
Entre ma fille et moi, il y a toujours eu un livre. Même quand elle arrivait enfin à
s’endormir, elle mettait son livre ouvert sur son visage. (TI, p. 109).
Vivere con un libro davanti al volto è l’atteggiamento prevalente di
Mokeddem: “Où que je m’assoie un livre reste dressé tout contre mon visage” (TI,
p. 119).
Allo stesso tempo, i libri sono anche la sua porta magica per entrare in un
altro mondo: ogni pagina che gira è una nuova porta che si apre su un nuovo
luogo, una nuova vita, lasciando tutti gli altri al di fuori. La fuga e l’evasione
erano necessarie alla bambina Malika, che non poteva addormentarsi se non
entrando nelle vite di qualcun altro, vivendo un’altra vita parallela, mentale, una
vita altra.
Un livre à la main. La lecture écarte les préoccupations. Je ne peux m’endormir
qu’avec la vie des autres. Dans une autre vie. (TI, p. 45)
I libri rappresentano il primo rifugio dagli obblighi familiari, la fuga verso
altri orizzonti e allo stesso tempo preparano in nuce, nell’immaginazione, quella
che sarà poi la fuga fisica, spaziale dall’Algeria.
L’unica persona della famiglia per la quale il libro non rappresenta una
barriera è la nonna. Sebbene analfabeta, la nonna rappresenta la narrazione orale,
il racconto dei nomadi. Grazie a questo, la nonna è capace di vedere “al di là
dell’orizzonte”, al di là delle parole, e comprende Malika e il suo bisogno di
leggere. La nonna ha tale sensibilità perché è stata educata dalla vita nomade,
dall’etica dei nomadi, che è l’etica del viaggio, del movimento, che contraddice
l’etica del popolo stanziale.
Mokeddem vive dunque una vita in un certo senso parallela a quella della
sua famiglia, non si interseca con quella dei fratelli e dei genitori. È una vita
marginale e diversa, che la scrittrice descrive con il termine “décalée”, che si può
tradurre come sfalsata/sfasata. Il coinvolgimento nella vita sociale, nella scuola
prima, e nell’ambiente universitario poi, esaspera il senso di esclusione che
Mokeddem sente gravare sulla sua persona. Non è più solo la famiglia a non
comprendere le sue necessità e ad emarginarla. Pian piano si rende conto che è
l’intera società algerina a non essere in grado di soddisfare le sue esigenze e le sue
aspettative: in una parola, non può renderla felice, né concederle lo spazio perché
possa costruire la sua felicità.
La vita vissuta in Algeria è quella di chi si sente “décalée”, e per questo
“differente”, “étrangère”, “en marge”, una marginalità scelta come presa di
distanza da una società i cui valori non può condividere. Dalla sua marginalità,
Mokeddem elabora una propria visione della vita, che necessariamente si rivela
differente da quella degli altri, cresciuti nella ‘normalità’ e nella passiva
accettazione delle regole e delle tradizioni. Il suo isolamento e la sua marginalità,
se da un lato la separano dal gruppo, dal suo spazio fisico come da quello
culturale, le permettono di godere di una posizione privilegiata, di aprirsi uno
spazio critico a partire dal quale affermare la propria differenza. Quella differenza,
scrive Bhabha, è anche lo spazio della creazione, della doppia visione verso
l’interno e verso l’esterno, il margine che diventa spazio, il terzo spazio in cui può
prendere forma una visione alternativa a quella fornita come unica e immutabile
dalla società.
Dalla sua prospettiva ‘sfalsata’, Mokeddem si accorge di ingiustizie e
soprusi che gli altri non vedono. Da questa capacità di vedere, notare e giudicare
fatti, eventi, azioni e tradizioni in modo differente dagli altri individui della sua
società nasce in lei anche la rabbia che la spinge alla ribellione e alla lotta per
portare il cambiamento nella propria vita. La lotta di Mokeddem è insieme
individuale e collettiva, in quanto confluisce nella battaglia per l’emancipazione
delle donne algerine per il riconoscimento delle loro capacità e del loro diritto ad
istruirsi, ad avere una carriera ed un futuro lavorativo come gli uomini. Attraverso
la narrazione della propria esperienza, l’autrice contesta la condizione delle donne
in Algeria. Come si ritrova anche in altre autrici maghrebine, ad esempio negli
scritti della marocchina Fatima Mernissi, è solo attraverso l’esperienza personale
di un grande dolore o la consapevolezza di aver subito una grave ingiustizia che
una donna può sviluppare le ali e, insieme, la capacità e la forza per volare via.
2.4 La serva e l’ospite.
Malika Mokeddem non si è mai sentita a casa all’interno della sua famiglia.
Si accorge di essere esclusa dal cerchio di affettività e amore che cinge una vera e
propria famiglia. Si sente esterna, marginale rispetto a quello che la famiglia
rappresenta. Madre e padre non sono coloro che possono darle affetto, amore e
protezione: “pas d’amour, sauf celui de grand-mère” (TI, p. 128). Soprattutto la
figura della madre assume connotazioni negative per la scrittrice. In un’intervista
sulla rivista elettronica di letteratura della migrazione El-Ghibli, Mokeddem rivela
che la madre per lei rappresentava “tutto ciò che io non volevo essere”.
Mia madre non rivestiva nessun interesse per me e mia nonna, perché era occupata,
in ogni senso: aveva le mani occupate, il ventre sempre occupato dalle gravidanze,
ed era anche occupata, colonizzata, come lo era l’Algeria. Così io e mia nonna
comunicavamo nonostante mia madre; il nostro dialogo la evitava.
La nonna, invece, rappresentava per Mokeddem la famiglia, le radici e una
figura di donna di cui seguire l’esempio. Non potendo aspirare a diventare una
donna simile alla madre, di cui non condivideva le scelte e la visione della vita,
per Mokeddem la nonna era l’unica persona con cui si sentiva in sintonia “perché
anche lei era una donna in esilio come me”. La nonna, come Mokeddem, viveva
nelle/delle parole, viveva attraverso i suoni e le storie che narrava. La nonna “era
una poetessa e una cantastorie ben inserita nella tradizione orale”.
Ma grand-mère comme moi s’est retranchée derrière les mots. Elle est une ascète,
une femme pieuse au verbe vagabond, poète. La quête des mots lui fait guetter leur
impact dans les yeux des autres. (TI, p. 128)
Uno dei più grandi insegnamenti che Mokeddem riceve dalla nonna
attraverso i racconti è quello di scoprire il grande potere posseduto dalla parola,
quando questa viene ben usata.
Ma i momenti in cui apprezzavo di più le sue parole erano quelli in cui diventavano
sferzanti, i momenti in cui la parola rimetteva in discussione l’ordine costituito.
Ho capito molto più tardi che la forza della sua parola derivava appunto dal disturbo
che arrecava […].
Quelle che scaturiscono dalla bocca della nonna di Mokedddem sono parole
che posseggono la forza capace di sovvertire l’ordine imposto, di recare disturbo,
proprio come le storie di Shahrazade o ancora della nonna di Mernissi: “Le donne
illetterate come Jasmina erano più sovversive di quelle istruite”
Le storie e le parole, dunque, da un lato univano Mokeddem alla nonna,
dall’altro la separavano dal resto della famiglia, soprattutto dalla madre. La figura
del padre rimane piuttosto nell’ombra in La Transe des insoumis, fino alla fine,
quando lo si ritrova vecchio e stanco, al momento del ritorno di Mokeddem in
visita alla famiglia dopo molti anni di assenza.
Il graduale ma costante allontanamento di Mokeddem dalla famiglia è
dovuto al senso di non appartenenza al mondo familiare che la circonda e ha
origine dal fatto di non sentirsi amata ma, addirittura, sfruttata dalla madre perché
la aiutasse a badare ai fratelli maschi più piccoli. Ribellandosi alla funzione di
schiava in cui la madre l’aveva relegata, Mokeddem cerca di ritagliarsi uno spazio
per sé. Tale spazio non rimane in seno alla famiglia, ma si configura come una
posizione marginale, quella dell’ospite, dell’invitata.
“Invitée” è una parola fondamentale nel testo e rappresenta la condizione di
estranea che l’autrice sente di vivere, prima nella casa dei genitori e in seguito nel
suo esilio in Francia. Il termine “ospite” contiene in sé l’idea dell’accoglienza in
seno ad una comunità, familiare o sociale. L’ospite è un individuo che viene
inserito ma, allo stesso tempo, rimane estraneo. Come un’ospite, Mokeddem è
qualcosa di altro rispetto alla comunità da cui proviene. È come se le sue origini
venissero da un luogo diverso, proprio come un visitatore, la cui presenza implica
l’idea del movimento e della provenienza da un altro luogo.
Soprattutto, gli invitati sono trattati con tutto rispetto, con stima e alta
considerazione. È questo aspetto ad essere centrale per Mokeddem, perché la
figura dell’ospite si oppone a quella della serva. La serva che diventa ospite si
affranca dalla dipendenza della famiglia e marca una vittoria significativa lungo il
cammino per la propria liberazione.
Da bambina, dopo vari tentativi, Mokeddem riesce ad impossessarsi delle
chiavi della stanza degli ospiti e lì si rifugia a leggere, chiudendosi dentro a chiave
così da non essere disturbata dalla famiglia. La stanza degli ospiti diventa il suo
rifugio, il suo battello per solcare orizzonti e mondi lontani.
Cette victoire d’être enfin seule, bien seule, des heures et des jours durant, est si
décisive qu’elle décuple ma joie autant que ma ténacité. J’ai fait mes premiers pas
sur la voie de la liberté. Reste à ne pas m’en laisser arracher. Barricadée dans la
pièce des invités, je ressasse : « Jamais servante, non. Je suis l’Invitée ». Je
m’impose en Invitée dans ma famille. Au milieu de l’oralité, je vis rencognée dans
les livres. Les livres sont mes seuls convives. Je leur ai même installé trois étagères
dans la pièce des invités. C’est ma petite révolution à moi. Le signe que je suis en
train de devenir étrangère aux miens. Retranchée de leurs jours en plus de leurs
nuits. Une vie en marge. L’idée m’obsède. Ses promesses ne sont pas exemptes de
mélancolie. (TI, p. 120)
Il significato dell’atto di imporsi come invitata nella casa dei genitori,
impossessandosi della camera degli ospiti, si comprende a fondo se si accosta
l’immagine dell’ospite a quella di serva, che rappresenta i sentimenti di Malika
nei confronti del resto della famiglia. Prima di una serie di fratelli e sorelle,
Malika si sente serva dei fratelli maschi più piccoli, spesso chiamata dalla madre
ad aiutarla nelle faccende domestiche. Questo si associa al fatto che Mokeddem si
sente deprivata delle attenzioni e dell’affetto materno, rivolti ai più piccoli. Dal
suo punto di vista, il rapporto con la madre si riduce al suo essere più che aiutante,
serva dei fratelli maschi più piccoli e perciò discriminata perché femmina.
Quando Mokeddem torna in Algeria, dopo anni di assenza, a visitare la
famiglia, le viene naturalmente offerta la camera degli ospiti. Il suo è un ritorno in
veste di ospite nella casa paterna, è un ritorno di passaggio, di poche ore. È un
ritorno molto toccante, per il fatto di rivedere i genitori, soprattutto il padre
anziano e malato. Ma allo stesso tempo è una vittoria: la stanza di cui da bambina
Mokeddem si era impossessata di nascosto e contro la volontà dei genitori, anni
dopo diventa un diritto acquisito.
Mokeddem ritorna da invitata anche nel proprio Paese, l’Algeria, da
scrittrice affermata: è la scrittrice algerina in esilio che viene invitata a partecipare
agli incontri e alla conferenze. L’esilio, la fuga verso un paese altro, al di là del
mare, le ha fatto guadagnare anche prestigio e fama in patria.
Passo dopo passo, Mokeddem ha tagliato tutti i legami che la tenevano
connessa alla sua tribù familiare, sostituendo ai legami familiari altri legami non
imposti, i legami di amicizia e d’amore scelti liberamente. Più volte Mokeddem
nel suo racconto fa riferimento alle amicizie, sottolineando come le persone di cui
si è circondata in Francia siano state frutto di una sua scelta e non hanno nulla a
che vedere con i legami imposti della famiglia. Anche il compagno che si è scelta
rappresenta, con la sua nazionalità francese, un ulteriore distacco dalla famiglia,
che era contraria a questa unione. Jean-Louis ha finito per rappresentare, per
l’autrice, tutta una tribù, tutta la gamma di legami familiari con i quali aveva rotto
tempo prima.
Come per le relazioni interpersonali, così anche il rapporto tra individuo e la
sua patria/nazione per Mokeddem è dinamico, in costruzione. Si tratta di una
ricerca personale. Non è pre-determinato e non determina la personalità e
l’identità dell’individuo, non fissa ruoli e status. L’individuo deve essere libero di
muoversi, di instaurare legami che lo soddisfano e che riflettono il suo essere, le
sue convinzioni e la sua personalità.
Allo stesso modo, anche i rapporti con la famiglia e con le generazioni
passate in un certo senso vengono scelti. Mokeddem rivendica la sua filiazione
dalle popolazioni nomadi del deserto, iscrive la sua discendenza nella loro. Anche
in questo caso si tratta di una filiazione scelta e non imposta. Tra le varie possibili,
Mokeddem sceglie di essere la discendente della nonna paterna e di conseguenza
dei nomadi. Segue le loro orme e i loro insegnamenti, e diventa una nomade anche
lei. In futuro, in Francia, riproduce le migrazioni periodiche delle popolazioni del
deserto nel suo spostarsi regolare tra i due poli di Montpellier e Perpignan, dove
ha fissato le sue due distinte attività.
Il me plait d’avoir une ville distincte pour chacune de mes activités. La distance qui
les sépare me convient. Ma migration entre ces deux lieux, Montpellier et Perpignan,
me permet d’évacuer les préoccupations de l’une afin de mieux pouvoir plonger à
corps perdu dans l’autre. J’aime dire que je fais ma transhumance entre l’écriture et
la médicine. J’aime penser que je garde inscrit en moi le mode de vie de mes aïeux
bergers des hautes plateaux. Mon père, lui, est devenu gardien d’un puits dans le
désert. Mon puits à moi c’est l’écriture au milieu des garrigues et des rocailles d’une
autre terre. Ma vie est un flux tendu entre deux villes, deux activités, deux pôles
captivants. (TI, p. 220)
2.5 Dalla lettura alla scrittura. Il deserto e il mare. La lingua.
Il sapere è per Mokeddem il primo esilio. Se, come dice Marguerite Duras,
leggere con avidità è già scrivere, ne consegue che la scrittura è la naturale
continuazione di questo primo esilio.
La scrittura è un’attività che ha bisogno di solitudine, come la navigazione,
come la lettura. I libri, come battelli, hanno solcato i mari dell’immaginazione di
Malika bambina e l’avevano trasportata lontano. “Non c’è naviglio come un libro
/ per portarci in terre lontane”, scrive Emily Dickinson:
THERE is no frigate like a book
To take us lands away,
Nor any coursers like a page
Of prancing poetry.
This traverse may the poorest take
Without oppress of toll;
How frugal is the chariot
That bears a human soul!
Le tre attività, scrittura, lettura e navigazione, hanno in comune il racconto:
anche la navigazione, infatti, si narra, c’è sempre un diario di bordo sulle navi.
Come in un diario di bordo, Mokeddem scrittrice ripercorre le rotte della sua vita,
sia quelle reali che quelle immaginate, le annota, ne prende coscienza, e la
scrittura diventa per lei una sorta di cura dalle sofferenze e dalla nostalgia.
Attraverso la scrittura Mokeddem può ritornare ai territori della sua infanzia
e finalmente muoversi e percorrerli in libertà, libertà che le era stata negata come
bambina e come donna. “L’écriture est mon territoire”, scrive Mokeddem nel
romanzo Le Siècle des sauterelles. E in un’intervista su Le Quotidien d’Algérie,
spiega il significato del deserto nella sua vita e nella sua scrittura:
Le désert est simplement mon enfance et mon adolescence, pour moi l’écriture est
une réappropriation du désert, parce que pendant toute mon adolescence je me
sentais tellement enfermée que je lisais des livres qui me racontaient des ailleurs, je
n’étais plus dans le désert alors que j’y vivais, et maintenant que j’en suis loin, j’ai
besoin de le sillonner, et d’y revenir par l’écriture. Je crois que ces espaces se prêtent
très bien à l’écartèlement de l’imagination.
Attraverso la scrittura, Mokeddem si riconcilia con il proprio passato, con le
tradizioni e la storia della sua terra, mentre il sentimento di chiusura e prigionia si
trasforma in sentimento di libertà.
L’écriture […] libère la marche dans le sable d’une certaine tradition, transforme
l’oralité, affranchit la femme d’une histoire accablante. Pour lui, écrire c’est
transformer une vieille expérience collective rétrograde en une nouvelle vie
personnelle qui néanmoins englobe ce passé.
Per ritornare all’Algeria e al deserto è stato necessario l’esilio. Solo dopo
anni di allontanamento, di fughe e di ribellioni, e solo grazie allo spazio, alla
solitudine e alla distanza fornite dall’esilio, Mokeddem ha potuto incominciare a
scrivere, rivisitare il passato e i territori della sua infanzia e riappacificarsi con
essi. Scrivere equivale a muoversi in libertà, attività possibili solo sulla terra
dell’altro.
La scrittura di Mokeddem viene necessariamente in un secondo tempo. In
un primo tempo, c’è stato il bisogno di vivere, di immergersi nell’alterità. Si tratta
di un’alterità geografica, culturale, linguistica e fisica. Innanzitutto, le è stato
necessario poter sperimentare con il proprio corpo la libertà di muoversi
fisicamente per le strade della città straniera e provare la felicità di sentirsi
finalmente libera.
Je vis dans les rues de Paris. Je marche dans Paris des journées entières, une partie
de la nuit. Je me fais la java. Je n’ai jamais autant flâné dans une ville, encore moins
au désert. Du reste, j’ai plutôt l’impression de planer. J’ai des semelles de vent dans
les tourbillons de rêveries, des griseries. Je me déboussole à becqueter sur les
terrasses parmi des nuées d’oisifs, de buveurs de soleil. Je les épie et je me dis : « Ils
ne peuvent imagines ce que représente pour moi le simple droit de pouvoir déguster
une bière dehors. Sans être insultée. Embarquée par des flics ignares ». (TI, pp. 205206)
Un ulteriore cammino l’ha condotta, negli anni, verso la scrittura: si tratta
del suo percorso universitario e professionale della medicina. Mokeddem dichiara
che la medicina per lei è stata un cammino tra la lettura e la scrittura.
La médicine, face révélée de la douleur, n’a été qu’un chemin assigné entre la lecture
et l’écriture. (TI, p. 110)
Il percorso di studi l’ha avvicinata anche alla lingua dell’altro, il francese,
appresa a scuola e interiorizzata con la lettura dei romanzi. La lingua francese
contiene l’eco delle evasioni di Mokeddem bambina; è una lingua impregnata di
traversate, esplorazioni di terre lontane fatte a partire dalle pagine dei libri. È
grazie a questa lingua che per la prima volta Mokeddem ha intravisto la possibilità
di allontanarsi dalla famiglia, di rompere i lacci che la incatenavano ad una
concezione di vita nella quale non si riconosceva. È stata la lingua francese la sua
unica amica d’infanzia, l’unica presenza, oltre alla nonna, ad accompagnarla e
guidarla nelle sue peregrinazioni notturne al di là della pesante coperta di lana,
sopra le dune, lontano, su terre straniere. Le parole francesi, con le loro sonorità
che raccontavano di mondi lontani, hanno nutrito l’immaginazione e l’esigenza di
altrove. L’hanno educata al cammino metaforico, all’esplorazione dell’alterità e
l’hanno accompagnata nella traversata, così come i racconti dei nomadi l’hanno
educata all’etica del viaggio. Per questo la lingua francese rappresenta un
territorio trasversale che unisce le due sponde del Mediterraneo, crea un ponte
attraverso il mare tra l’Algeria e la Francia.
Elle [la langue française] est fulgurance rutilante quand elle écume et culmine aux
cimes de l’intelligence ; quand, avec pugnacité, elle se rengorge et brandit le
cimeterre étincelant d’une rhétorique affûtée. Reine des débats, elle devient le
premier éclat, la première arme du combat des rebelles, leur dernier refuge quand
toutes les autres libertés ont été enchaînées. […]
Elle m’a cueillie et recueillie enfant démunie. Avec générosité, elle m’a offert ses
résonances aux miroitements inconnus. Alors, subjuguée, j’ai marché vers ses
envoûtements, comme aimantaient souvent mes pas candides les mirages de mon
désert. Mais, avec elle, point de désillusion, aucune aridité. Chaque page de livre
parcourue m’était fortune thésaurisée.
L’educazione all’alterità e al corpo altro si era tradotta, nella giovinezza,
nella scelta della facoltà di medicina. La professione di medico rappresenta una
forma di avvicinamento al corpo degli altri e insieme la volontà di curarlo,
guarirlo. Il corpo malato dell’altro, sembra dire Mokeddem, può essere meglio
compreso da chi ha conosciuto il male e può empaticamente stargli vicino, capirlo
e prendersene cura. Il corpo dei suoi pazienti rappresenta per Mokeddem una terza
alterità, a fianco di quella geografica e linguistica.
Nella professione medica interviene la lingua scientifica che, per
Mokeddem, è la lingua dell’ascolto e dell’accoglienza del malato, invitato nello
studio medico e fatto accomodare sul lettino, perché possa parlare e confidare le
sue ansie, i suoi dolori, le sue sofferenze.
Ritorna l’immagine del letto come luogo di storie. Il lettino su cui è sdraiato
il paziente è un luogo di congiunzione e di esilio, cioè dell’incontro di due esseri,
il malato e il medico, che condividono la stessa esperienza della lontananza. La
sofferenza fisica, congiunta alla nostalgia dell’esilio, si trasforma in parole, in
racconto, che viene raccolto da chi lo aiuterà a guarire.
Le choix de la médecine, ce corps à corps avec le mal d’autrui, n’est pas un hasard.
Et puis c’est une langue étrangère, traversière, qui m’a cueillie dès l’enfance pour me
frotter à l’altérité. C’est la langue de l’Autre qui est devenue l’intime. C’est elle qui a
pallié les carences de la langue de l’enfance. C’est elle qui a continué à me nourrir, à
me guider, à m’éclairer quand la mère a tu même ses condamnations. Quand la
grand-mère a disparu. C’est elle qui maintenant palpite mes écrits. De refuge en
repère, les livres des autres ont habité ma solitude. Ils ont habité mes luttes. Ils ont
mis du rêve dans les habits de la misère. Ils ont transformé ma véhémence en
ténacité. En résistance. Ils m’ont inscrite à part entière, dans le chemin de l’écriture.
A présent la mienne porte ma dérive de mémoire au plus loin des crispations.
L’écriture s’impose en ultime liberté de l’infamille. Elle est ma partition d’expatriée,
ma fugue de tout enfermement. Mais pour poursuivre l’inachevé, elle n’en tisse pas
moins un rapport puissant avec tous les partisans, les artisans du livre. Quelque
chose qui tient des amarres du marin. (TI, p. 179)
Lingua, professione e luogo sono connessi, formano un’unica componente.
Lo studio di Mokeddem si trova nel mezzo del quartiere degli immigrati di
Montpellier, ovvero il luogo degli altri rispetto ai francesi, e rappresenta
simbolicamente un punto di unione e di forza. È come se Mokeddem si volesse
circondare, nella sua professione, delle sue origini, dello spazio della sua lingua
madre.
Je me raccroche à l’écriture, à l’activité de mon cabinet. Celui-ci est au sein du
quartier immigré, commerçant de la ville. C’est, bien sûr, par choix que j’ai ouvert
un cabinet là. Une décision importante, prise il y a cinq ans. En plus de l’écriture, me
vouer à cette population. Pendant des années à l’hôpital, mes confrères m’avaient
appelée de tous les services lorsqu’ils se trouvaient face à l’un de mes compatriotes
ininterrogeables faute de parler français. Mes compatriotes se révélaient le plus
souvent marocains – ils représentent la majorité de la communauté maghrébine dans
la région – parfois tunisiens ou d’ailleurs. Qu’importent les quelques variantes
d’accent ou de prononciation. Ils étaient tous semblables ces hommes et ces femmes
couchés dans des hôpitaux et incapables d’exprimer leur mal. Leurs yeux
s’allumaient et demandaient miséricorde aux premiers mots arabes que je leur
adressais. Je prenais le temps de les écouter, de les examiner, de leur expliquer les
investigations et traitements à subir pour les rassurer. Seule la promesse d’une autre
visite me délivrait des sollicitations, des mains qui tentaient de me retenir encore
auprès de lits convertis en autant d’exils dans l’exil. (TI, p. 65)
La lingua familiare diventa una casa, un rifugio sicuro per i malati, che si
sentono protetti e amati. La lingua ha il potere di creare uno spazio familiare, dato
dalla possibilità della comunicazione, del riconoscimento reciproco e l’esilio
diventa un po’ meno doloroso. Gli immigrati vivono un doppio esilio: all’esilio
territoriale, geografico, si associa l’esilio linguistico, che marca dolorosamente
l’esclusione. L’impossibilità di esprimersi, di farsi capire e di capire a loro volta
rende molto più soli ed esalta il sentimento di lontananza. Agli occhi dei medici
francesi, chiunque parli arabo diventa automaticamente estraneo/straniero/diverso
e viene sbrigativamente affidato a Mokeddem, perché identificato come suo
compatriota. Con ironia, l’autrice gioca su questa parola, ‘compatriota’, ed
evidenzia come, nella sua esperienza, la Francia sembra non fare attenzione alle
differenze nazionali degli immigrati, facendo degli stranieri un’unica massa.
La lingua condivisa crea dunque vicinanza, familiarità e permette la
comunicazione, allo stesso modo in cui il contrario, cioè il parlare lingue diverse,
può trasformarsi in separazione, lontananza e incomprensione reciproca. Nello
stesso tempo in cui il medico ascolta e cura i suoi pazienti, questi ultimi a loro
volta rappresentano la cura per Mokeddem e le permettono di guarire dalla
sofferenza del suo esilio. Mokeddem rivede in loro i nomadi del mondo
contemporaneo, i loro sguardi rievocano il mondo da cui è fuggita, ma al
contempo la re-inscrivono nella genealogia delle genti del deserto. Si ritrova in un
ambiente familiare, in mezzo a gente come lei:
Ce sont eux qui me soignent tous les jours. Ils me confirment que j’ai continué sans
rien renier, pas même la pauvreté. Ils introduisent dans ma profession une vision,
une dimension maghrébines. Ils me font m’y exprimer dans ma langue de l’enfance.
Leur quartier déploie en permanence autour de moi des saveurs, ses senteurs
familières. Familières, c’est le mot.
Mais le bienfait le plus profond me vient de leurs regards. […] Les mêmes yeux ont
entrepris de restaurer ici ce qui avait été saccagé là-bas.
Au temps du lycée, quand le choix de la médecine s’est imposé, je m’étais longtemps
imaginée toubib des nomades. Je n’allais pas m’occuper des gens de la ville ! je ne
toucherais pas aux corps dont les regards m’étaient déjà une brutalité ! le verbe
nostalgique de ma grand-mère, la vie recluse de ma famille au pied d’une dune, face
à des immensités jamais franchies, une adolescence blessée, le désenchantement des
rêves qu’avait nourris l’attente de l’indépendance, avaient suscité en moi l’illusion
que la liberté était dans le mode de vie abandonné par mes parents, celui des
nomades.
C’est loin du désert, dans un autre Sud, dans une ville au bord de la Méditerranée, à
Montpellier, que je suis devenue toubib des nomades de mon temps, les immigrés.
(TI, pp. 123-124)
Un ulteriore elemento necessario alla scrittura per Mokeddem si è rivelato la
casa e la sua vita appartata. È significativo che la scrittura sia venuta
immediatamente, non appena Mokeddem si è sistemata nella sua nuova casa di
Montpellier. La casa, che le somiglia e che si trova sul bordo del Mediterraneo, è
l’unico luogo che le permette di scrivere. È come se solo in un luogo sul bordo, ai
margini, sia dato scrivere.
Préparer ce nouveau nid me permet de revenir un peu à moi-même, d’envisager la
solitude à partir d’un berceau sur mesure. De me remémorer celle d’autrefois.
Première conquête transportée par les livres. Dès que j’ai saisi un livre, j’ai été
ailleurs. Le livre a été mon premier espace inviolable. Ni mon père mi ma mère ne
savaient lire. Ils ne pouvaient donc contrôler ce que je puisait dans ce cocon de
papier. Quand je ne leur disputais pas quelque autre liberté, je mettais le silence
subversif de la lecture entre eux et moi. J’ai été seule avec les livres des Autres. Je le
serais encore davantage avec les miens. (TI, p. 52)
La casa rappresenta un nido e una culla, una culla su misura, da cui
cominciare una nuova vita, un nuovo percorso di rivisitazione del proprio passato
attraverso la scrittura. I luoghi, dunque, sono importanti nell’economia del testo,
così come per la vita della protagonista. Dietro la scelta di ogni luogo c’è una
precisa ragione, non sono scelti a caso, così come non è stata scelta a caso la
facoltà di medicina: “Il n’y a pas de hasard” (TI, p. 26), “C’est, bien sûr, par
choix” (TI, p. 65). Come un nido d’aquila, la casa è arroccata e appartata, isolata
come la stessa Mokeddem.
Je vis en retrait sur mon rocher. Je ne suis d’aucune mondanité dans la ville de
Montpellier. Je ne l’ai jamais été. Je vis en marge. Dans le silence et la paix de ma
maison. Jalouse de ma solitude […]. (TI, p. 221)
La falesia sulla quale è arroccata la casa di Mokeddem rappresenta un luogo
speculare alla costa algerina, come se la scrittrice guardasse all’Algeria (e a se
stessa, alla sua identità di allora e alle sue origini) trovandosi all’interno di uno
specchio. Mokeddem e la sua scrittura sono lo specchio dell’Algeria e del deserto,
guardate però con la consapevolezza critica dell’esule che conosce anche realtà
diverse da quella di origine. La qualità cristallina, traslucida, diafana del mare
dona quella lucidità necessaria a vedere senza impedimenti al di là del mare,
mantenendo quella distanza e quel filtro critico indispensabili per osservare l’altra
sponda senza esserne invischiati, senza subire pressioni personali, psicologiche,
morali di alcun genere, e mantenendo, di conseguenza, la capacità di scrivere
liberamente. Per questo Mokeddem ha potuto iniziare a scrivere solo dopo aver
raggiunto l’altra sponda, solo nell’esilio.
Il mare è un elemento che ricorre spesso in La transe des insoumis e per
interpretarlo è di aiuto il precedente romanzo dell’autrice, N’zid. La protagonista
di questa storia è Nora, una donna di madre algerina e di padre irlandese, che si
risveglia a bordo di una barca sperduta nel mezzo del Mediterraneo, stordita, con
sulla testa un ematoma che le arriva fin sulla fronte. Nora si rende conto di aver
perso la memoria, non ricorda il suo nome né la sua storia, ma scopre di essere
esperta nel navigare, e il romanzo l’accompagna nel suo vagare nel Mediterraneo
alla ricerca della sua identità e del suo passato. In N’zid, il mare Mediterraneo è
uno spazio liquido, che, fedele all’etimologia del nome, riempie il vuoto che
separa le terre, avvicinandole. Ha questa duplice funzione, di separare e avvicinare
al contempo.
Il mare è caro all’autrice per quel suo non essere mai immobile. Il mare è
caratterizzato da un continuo movimento nello spazio dato dalle onde. L’acqua,
attraverso canali, fiumi, mari e stretti, crea una rete di connessioni tra le terre.
Elemento fluido, può prendere qualsiasi forma, non avendone una propria, e per
questo si fa metafora di un’identità cangiante, modellabile, in movimento.
Il mare, con la sua immagine di una distesa d’acqua e con le sue onde che si
susseguono regolari ma mai identiche, richiama un’altra immagine speculare, un
mare di sabbia, il deserto, come nell’incubo della protagonista di N’zid.
Peu à peu toute cette fureur liquide a commencé à devenir rouge, un rouge sang. La
tempête s’est muée en vent de sable. La mer s’est coagulée en désert.
Elemento comune, che mette in comunicazione il mare e il deserto, è il
vento, che crea e rimodella costantemente onde e dune. Spesso ricordata nei due
testi, la tramontana, il vento del nord, richiama alla memoria, per opposizione, lo
scirocco, il vento caldo del deserto. Sola nella sua casa in cima alla falesia,
Mokeddem si mette in ascolto della tramontana:
La tête vide, un crabe dans le ventre, je prête l’oreille à la tramontane. Les
hurlevents [sic] fouettent les chênes verts, griffent les amandiers en fleurs, les
micocouliers encore dénudés.
Je pense toujours au vent de sable dans la tramontane. Surtout en cette saison, la
sienne. Ce soir de débout mars 1994, le vent, l’errance entre les lits, la solitude peutêtre me ramènent au désert. Là-bas, le sirocco donne au printemps une odeur de
poussière. (TI, pp. 16-17)
Il vento è soffio, sospiro, voce. Creazione. Come il Verbo del Signore ha
creato l’universo, il soffio del vento incide la roccia della falesia, crea le onde del
mare che vi si infrangono, modella le dune del deserto. Il vento, come l’acqua,
unisce, avvicina, e dal deserto algerino raggiunge Mokeddem in attesa sulla riva
opposta, a Montpellier, il primo lembo di terra francese raggiunto dal vento
algerino. Attraverso il mare, il vento trasporta i granelli di sabbia del deserto e,
con questi, le voci dei nomadi che narrano le loro storie. Mokedden si mette in
ascolto di queste voci per poi narrarle, per trasformare l’oralità in scrittura. Gli
elementi naturali si fanno voce e corpo. Come Dio creò Abramo plasmandolo
dall’argilla umida, cosi Mokeddem dà voce e corpo alle storie dei nomadi
plasmando la sabbia del deserto con l’acqua del mare. Dà vita, sulla pagina scritta,
ai suoi progenitori. Il verbo francese écrire, come insegna Assia Djebar, contiene
al suo centro la parola cri, l’urlo, la voce (“L’amour, ses cris” (“s’écrit”)”). La
voce del vento del deserto si iscrive/urla sul foglio bianco.
La scrittura è un tracciato: è la penna che solca la pagina, come il vento
incide le rocce e modella le dune, come la barca solca il mare e lascia una scia,
come le carovane dei nomadi solcano le dune lasciando tracce nella sabbia. Il
vento simboleggia l’ispirazione, che sospinge e guida la scrittura, come la
tramontana sospinge e guida la barca in N’zid, barca che ha il nome di
Tramontane. La traccia è qualcosa che non viene perduto, ma resta per sempre,
come un testo che può essere letto e riletto. L’immagine della scrittura come
tracciato richiama l’idea del cammino delle carovane del deserto: la scrittura
diventa il suo modo di camminare nel mondo.
Tracce. Delle carovane. Della scia delle navi. Delle voci nel vento.
Dell’inchiostro sul foglio. Mokeddem, attraverso i suoi libri, ripercorre la propria
esistenza e quella dei suoi progenitori, per osservare, alla fine, il disegno che
quelle tracce formano nel loro insieme e per trovare la propria identità. Grazie alla
fluidità della scrittura, come a quella del mare, può modellare la propria identità.
Mare e scrittura sono speculari nel loro non essere mai fissi. La loro fluidità
costituisce il terzo spazio (Bhabha), lo spazio delle possibilità, della creazione,
dell’invenzione di molteplici identità possibili. È lo spazio delle identità non
fisse/fissate, bensì mobili. La scrittura e il mare sono uno spazio beyond: oltre le
frontiere, rappresentano lo spazio transfrontaliero, dove gli individui meticci,
come la protagonista di N’zid, irlandese-algerina, e gli individui marginali,
stranieri, diversi, come Mokeddem, possono negoziare la propria identità tra le
diverse culture che li abitano.
Scrittura e mare sono accomunati anche dalla loro capacità di dare vita.
L’acqua è tradizionalmente il simbolo del principio della vita, della nascita o
rinascita, della capacità o possibilità di rigenerarsi, di purificarsi. Il titolo N’zid in
arabo significa nasco, come l’autrice che rinasce ad ogni nuovo libro. N’zid ha
anche un secondo significato, continuo, aggiungo: ogni nuovo libro che
Mokeddem porta a termine aggiunge nuove tracce e un pezzo al disegno della sua
vita.
L’itinerario letterario e di esilio di Mokeddem, dalla lettura alla scrittura,
passando per la professione medica e attraverso l’esperienza dell’alterità, lascia
intravedere “une solide foi dans l’écriture comme processus transformationnel,
comme transfert et restructuration d’une histoire donnée”. Scrivere significa, per
Mokeddem, conquistare una pagina di vita, significa rinascere e continuare (i due
significati di N’zid) il cammino dell’esistenza.
Écrire, noircir le blanc cadavéreux du papier, c’est gagner une page de vie, c’est
reprendre un empan de souffle à l’angoisse, c’est retrouver par-dessus le trouble et le
désarroi, un pointillé d’espoir. L’écriture est le nomadisme de mon esprit sur le
désert de ses manques, sur les pistes sans autre issue de la nostalgie, sur les traces
d’une enfance que je n’ai jamais eue.
CAPITOLO 3.
LA SCUOLA, IL LUOGO COMUNE
DI PARTENZA PER L’ESILIO.
3.1 La scuola.
Il libro è la figura metonimica della scuola, del sapere e dell’istruzione. Per
una donna come Mokeddem l’istruzione è molto importante poiché rappresenta
l’unico mezzo per costruirsi una propria vita, secondo le proprie scelte, senza
dover sottomettersi a nessuno. Malika Mokeddem definisce il sapere come il suo
primo esilio:
Le savoir pour moi est le premier exil. (TI, p. 158)
L’istruzione è per lei, come per molte altre autrici maghrebine, il mezzo
quasi unico attraverso cui le donne possono sperare di emanciparsi dagli uomini e
dalla famiglia, per sperare di entrare un giorno nel mondo del lavoro e rendersi
indipendenti. Già nel 1911, una giovane insegnante inglese di nome Dora
Marsden, impegnata nelle rivendicazioni femministe del primo Novecento in Gran
Bretagna, scriveva nella rivista da lei fondata The Freewoman che
Women require two fundamental things: education and money; the first is available
whenever the second is. The women who made opportunities for the first can
organise labour which will make available the second. And with education and
money, if there is anything worth while in women, it will find its way out.
Dora Marsden, analizzando la situazione del suo tempo in Gran Bretagna,
identificava l’istruzione e l’indipendenza economica come base di partenza per
l’emancipazione delle donne e il loro potere di affermare se stesse come soggetti
attivi nella società. Quello che valeva per le donne europee all’inizio del XX
secolo vale anche per le donne del Nord Africa.
Non è un caso che l’egiziano Qasìm Amin, il nome più importante nel
mondo arabo per quanto riguarda gli albori della battaglia a favore
dell’emancipazione femminile, fece dell’istruzione delle ragazze uno dei pilastri
della sua lotta. Il merito di aver parlato per primo del diritto delle donne
all’istruzione nel mondo arabo va all’intellettuale siriano Butrus al-Bustani che,
nel 1849, tenne una serie di conferenze di carattere sociale, tra le quali una dal
titolo L’istruzione delle donne. Egli sosteneva che l’istruzione femminile era
l’elemento principale attraverso il quale la società araba poteva progredire e
svilupparsi. Ma dopo di lui, fu Qasim Amin a fare grande scalpore nel mondo
arabo per le sue rivendicazioni a favore dell’emancipazione femminile. Grazie al
periodo passato in Francia, a Montpellier, dove studiò giurisprudenza, si rese
conto che le donne arabe vivevano in una condizione di inferiorità rispetto alle
donne in Occidente. Tornato in Egitto, nel 1899 pubblicò il suo famoso libro dal
titolo La liberazione della donna, in cui metteva l’accento sull’importanza di far
studiare le bambine e le ragazze per far progredire il mondo arabo. Nel libro
l’autore invitava le donne a liberarsi dall’imposizione di portare il velo, che
secondo lui non era esplicita in nessuna parte del Corano e non era altro che un
ostacolo alla piena partecipazione delle donne alla vita attiva della nazione e
quindi al suo progresso. Amin rivendicava l’emancipazione femminile a tutto
tondo, collegava cioè il diritto all’istruzione con il diritto al lavoro remunerato
delle donne, come pure rivendicava un giusto rapporto tra uomo e donna
all’interno dell’istituzione del matrimonio. Come afferma Isabella Camera
d’Afflitto, “l’importanza del suo ruolo sta nell’aver saputo trattare la questione
femminile a partire dalla sari’ah”, cioè mostrando che le rivendicazioni per
l’emancipazione femminile non erano contro la legge coranica, ma anzi nel pieno
rispetto della religione islamica. Riagganciando la libertà delle donne ai principi e
ai valori della società araba, Amin sosteneva la necessità che l’emancipazione
femminile nel mondo arabo dovesse assumere caratteri propri e non dovesse
semplicemente essere un’emulazione degli europei, che avevano esagerato
liberalizzando troppo i costumi delle donne. In seguito, un altro intellettuale
arabo, il tunisino al-Tahir a-Haddad (1899-1935) riprese gli stessi temi
dell’emancipazione femminile e propose riforme la cui eco raggiunse presto tutto
il Maghreb.
Grazie ai dibattiti sulla questione dell’emancipazione femminile, soprattutto
in Egitto, Siria e Libano le donne cominciarono a crearsi un proprio spazio nella
società, nella cultura e nel giornalismo, attraverso riunioni in salotti femminili in
cui si discuteva di letteratura e cultura, circoli di letterate e la pubblicazione di
riviste femministe e di libri. In Egitto con il passare del tempo, le donne riuscirono
anche a farsi largo nella sfera politica e ad avere all’interno dei partiti la sezione
femminile (il primo nel 1919). Nello stesso anno in cui Marsden cominciava la
pubblicazione di The Freewoman, il 1911, in Egitto un’altra donna, Bahitat alBadiyat, pubblicava un libro intitolato Le donne che raccoglieva tutti i suoi
articoli. Bahitat al-Badiyat è la figura che, al pari di Qasim Amin, gettò le basi
dell’emancipazione delle donne in Egitto e nel mondo arabo. Il nodo centrale del
suo impegno fu l’istruzione.
L’istruzione delle bambine e delle ragazze è fondamentale per le
conseguenze sulla struttura sociale e per le rappresentazioni dei ruoli di genere. In
Algeria l’istruzione per le bambine cominciò a diffondersi negli anni Quaranta del
XX secolo, si intensificò alla vigilia dell’indipendenza e subì un’ascesa dopo il
1962. In un saggio che fa parte di un’opera sull’Algeria e la questione linguistica
nel paese, Omar Carlier afferma che, grazie all’istruzione di massa delle bambine,
in meno di venti anni era stato rimesso in discussione il modello della differenza
sessuale vecchio di mille anni, sostenuto da secoli di tradizioni e da precetti
religiosi. Sebbene nel 1962 solo il dieci per cento di tutti i bambini in età scolare
in Algeria avesse intrapreso il cammino verso le scuole francesi, e sebbene la
maggior parte di questi fossero maschi, Malika Mokeddem fu una di loro,
circostanza che l’autrice stessa definisce come un miracolo (TI, p. 125).
Conquistarsi il diritto di andare a scuola non era infatti scontato. Era un atto
di sfida alla società e ai valori precostituiti di questa. Soprattutto, per una figlia
andare a scuola equivaleva ad essere sempre più indipendente dalla famiglia e
sempre meno controllabile dal padre nei suoi movimenti. Ancora peggio se, per
andare a scuola, ci si doveva spostare dal villaggio alla città, che rappresentava un
luogo pubblico per eccellenza, in cui la ragazza poteva essere vista da sconosciuti.
Mokeddem racconta il momento in cui ha portato al padre i documenti da
firmare per potersi iscrivere al liceo. Il padre, che rappresenta l’autorità familiare,
ha una reazione di rabbia, perché il gesto della figlia viene in un primo momento
vissuto come sfida alla sua autorità paterna:
[…] pris de rage, mon père a roulé les feuillets en boule, les a jeté à l’autre bout de
la pièce: « Il est hors de question que tu puisse passer la journée loin de ma
surveillance ! ». (TI, p. 118)
È grazie all’aiuto di una straniera, una francese, come sottolinea Mokeddem,
che è riuscita a vincere la sua battaglia. Si tratta di “une bataille sans nom” (TI, p.
117) perché è una battaglia di cui non si era ancora mai parlato, nuova,
rivoluzionaria, ma nascosta, di cui la società sembrava tacere l’urgenza. È
possibile combattere e vincere una simile battaglia solo grazie all’aiuto da fuori: è
la direttrice del liceo della città vicina che, venuta a conoscenza della reazione di
Mohammed Mokeddem, il padre di Malika, si reca nella sua casa per parlare e
cercare di convincerlo. Ci riesce facendo leva sui sentimenti nazionalistici del
padre, che sosteneva la guerra dell’Algeria contro la Francia. La donna, straniera,
istruita e che condivide con il padre di Mokeddem l’idea di un’Algeria libera ed
indipendente, sottolinea la stretta relazione tra la possibilità di un futuro per
l’Algeria e il progresso sociale del suo popolo, che sta nell’istruzione delle future
generazioni. La direttrice non fa un discorso di genere, non pone in evidenza le
donne, ma semplicemente la necessità per tutto il popolo di istruirsi per poter dare
al paese una schiera “d’enseignants, de médecins, d’ingénieurs” (TI, p. 118) e
soprattutto di lottare contro “les mentalités rétrogrades, l’obscurantisme” (TI, p.
118). In questo episodio emerge la figura della straniera, la francese, a
testimonianza dell’idea che, per uscire dalla propria condizione di arretratezza,
l’Algeria avesse bisogno dell’elemento esterno. D’altra parte, con la scelta di
continuare gli studi, Mokeddem lancia un segnale inequivocabile: un futuro
alternativo per le donne algerine, oltre al “péril du mariage” (TI, p. 119), sta
nell’avvicinarsi alla Francia e ai suoi valori. La Francia e la lingua francese sono
elementi fondamentali che caratterizzeranno la vita e l’esilio, per Mokeddem
come pure per le altre scrittrici. L’avvicinamento e l’ammirazione per il mondo
francese, la sua cultura e la sua lingua comincia dagli anni della scuola. Vissuta
con gioia, la scuola è per lei lo strumento per sottrarsi al controllo della sua
famiglia e della società algerina e diventare pian piano una donna forte ed
indipendente, che può decidere da sola della sua vita. E’ la strada verso la libertà:
Le collège dans la ville d’à coté, c’est la journée entière hors de la maison, loin de
toute la famille. Ma délivrance. Je suis la seule fille du village à y aller. Nous ne
sommes que quatre filles du secondaire pour toute la région. Les trois autres se
marient rapidement. Je demeure seule parmi plus de quarante-cinq garçons. Cette
exception illustre combien cet acquis est fragile. (TI, p. 118)
La frequenza della scuola è un cammino duro, conquistato giorno per giorno
con sacrifici e con alti prezzi da pagare. Grazie all’opportunità offertale dai
professori del liceo, ottiene il suo primo lavoro e i suoi primi stipendi in qualità di
controllore delle ragazze. Lo stipendio non lo tiene per sé, ma lo consegna ogni
mese al padre. Attraverso questo gesto, Mokeddem adulta sente di aver acquistato
la propria libertà dalla famiglia pagandola stipendio dopo stipendio: come gli
schiavi, Mokeddem sente di essersi guadagnata la libertà:
Salaire après salaire, j’ai acheté ma liberté. Comme une esclave. Ma liberté et ma
solitude. Les deux vont ensemble. Pour moi, elles ont grandi ensemble dans cet exil
magnifique, le savoir. (TI, p. 158)
Il sapere è l’unico luogo in cui nessuno dei suoi familiari può entrare. I
genitori e la nonna, difatti, non sono andati a scuola perciò non possono decifrare i
segni stampati sulle pagine.
Mokeddem non solo è consapevole di fare qualcosa di importante per il
proprio avvenire, ma sa di poter essere di esempio alle molte altre ragazze algerine
che verranno dopo di lei. Con un chiaro richiamo al Flaubert che asserisce “Mme
Bovary, c’est moi!”, Mokeddem scrive “Ce lycée, c’est moi”, identificandosi
completamente nella scuola e nel sapere che questa rappresenta:
« Ce lycée, c’est moi. C’est l’avenir que je m’y prépare. […] Moi, j’ouvre la voie
aux générations futures des filles du désert ». On se blinde comme on peut dans une
société tout en canines aux abois. Et l’apatride n’en est plus à une contradiction
près. (TI, p. 139)
La scuola e la lingua francese, sul suolo algerino, sono già esilio, e preparano
l’esilio geografico di Mokeddem, il suo abbandono della patria. A differenza di
altre scrittrici algerine, come Assia Djebar o Leila Sebbar, che hanno la fortuna di
nascere e crescere con genitori che credono profondamente nell’importanza
dell’istruzione delle bambine e dell’apprendimento della lingua francese, per
Mokeddem la scuola è una vittoria che conquista a fatica e questo la differenzia
dalle sue colleghe al liceo:
elles, elles n’ont pas eu à batailler pour être là. Issues de milieux moins défavorisés,
les résolutions des parents ont, ici, devancé leurs aspirations. (TI, p. 135)
Nel Maghreb, come nel mondo islamico in generale, l’istruzione racchiude
il seme di una rivoluzione ancora più sottile. La scuola ha il potere di far
conquistare alle donne la libertà di movimento, fattore molto importante per la
società nord-africana in cui una delle questioni fondamentali che concernono il
genere femminile è proprio quello della restrizione delle libertà personali, il
movimento fisico nei luoghi pubblici. L’atto di andare a scuola assicura la
possibilità per una bambina di uscire di casa, camminare sulla stessa strada dei
bambini, dei ragazzi e degli uomini.
Malika Mokeddem ribadisce l’importanza di questo aspetto in varie opere,
tra le quali il romanzo L’interdite. In una scena, la bambina di nome Dalila, che
vive con la famiglia a Tammar, un piccolo villaggio con costruzioni in pietra nel
deserto algerino, discute con la protagonista del romanzo, Sultana, medico che
lavora in Francia e che ha scelto l’esilio, come Mokeddem, per sfuggire alle
condizioni insopportabili per le donne in Algeria. La discussione verte su vari
aspetti delle società algerina e francese, per la curiosità della piccola di sapere
come si vive dall’altra parte del Mediterraneo. Se da una parte Sultana è la stessa
Mokeddem, Dalila, con le sue silenziose ribellioni alle ingiustizie della società e
alle angherie dei fratelli più grandi, e con il suo amore per la solitudine e la forza
che la caratterizza, sembra rappresentare l’autrice stessa da bambina e tutte le
bambine algerine con la voglia di emanciparsi. Dalila esclama:
Tu as personne qui veut te marier bessif et t’empêcher d’étudier et de marcher et
trouver l’espace que tu veux.
Un po’ prima, a proposito della sorella Samia, Dalila riferisce che “Samia,
elle veut seulement étudier et marcher dans les rues quand elle veut et être
tranquille”. Abilmente, queste brevi esclamazioni tessono insieme l’opportunità di
studiare con la possibilità di camminare liberamente e di scegliere altrettanto
liberamente il percorso da seguire per realizzare le proprie inclinazioni, i propri
sogni e trovare il proprio spazio nel mondo.
Il sapere per Mokeddem, come pure per altre scrittrici maghrebine, è legato
all’apprendere la lingua francese. Non solo queste ragazze vanno a scuola e
imparano a leggere e a scrivere, ma imparano a farlo in francese. Come se da sola,
la propria lingua e la propria cultura non fosse in grado di garantire
l’emancipazione delle donne, come se all’arabo mancassero le parole per tracciare
questo percorso.
L’istruzione dona alle donne le capacità di prendere coscienza della propria
condizione e delle proprie capacità e, una volta ottenuta questa, di avere la forza
di re-impossessarsi del proprio corpo e dei movimenti di questo nello spazio.
Attraverso l’istruzione, le donne riescono a riprendersi il diritto di decidere su se
stesse e sul proprio corpo e a riprendere possesso dello spazio su cui hanno diritto
come esseri umani. La questione del movimento legato al corpo femminile è
fondamentale nel pensiero e nell’opera di un’altra scrittrice algerina, Assia Djebar.
Scrittrice e regista nata nel 1936 a Cherchell, Assia Djebar ora vive tra
Francia e Stati Uniti. Nel 2005 è stata nominata membro dell’Academie Française,
la più importante associazione di intellettuali francesi. Sostenitrice
dell’emancipazione femminile nel mondo islamico, autrice di numerosi romanzi,
racconti e poesie e produttrice di vari film, Djebar sottolinea lo stretto rapporto tra
lo studio, in particolare lo studio della lingua francese, e l’atto di uscire fuori, di
camminare liberamente per la strada. “Solo il cammino contava”: è il cammino, il
movimento l’atto simbolo della libertà del corpo della donna.
Il y eut d’abord ma sortie au-dehors; le scandale de mon age nubile, la mobilité de
mon corps de femme. Sans me rendre compte alors à quel point ma voix avait à se
tasser, à se terrer, parce qu’ensoleillée.
Solitude du départ. Sortie du harem, au début des années cinquante – pour les
centaines, ou les quelques milliers de Maghrébines comme moi – grâce à l’étude di
français considéré comme chance. « Elle sort, disait la mère de sa fille, heureuse ou
frileuse de cette chance orpheline, elle sort parce qu’elle lit! » C'est-à-dire, en
traduisant de l’arabe dialectal, qu’elle « étudie ». Comme si le français des autres
devenait stèle immenses profilées à l’horizon, la marche du corps étant dirigée vers
ce but. Comptait la marche seule : un trajet individuel dans le silence concerté.
Come per Malika Mokeddem, anche per Assia Djebar, tutto ha inizio dal
primo giorno di scuola. Il suo romanzo L’Amour, la fantasia si apre con la
descrizione del primo giorno di scuola, quando lei e suo padre, che la tiene per
mano, si avviano insieme verso l’istituto francese.
Fillette arabe allant pour la première fois à l’école, un matin d’automne, main dans la
main du père.
Anna Rocca, analizzando la relazione padre-figlia nella scrittura di Djebar,
sottolinea come questa immagine sia “innovatrice, de complicité” e contrasti
“avec le regard des voisins du village qui prédit la ranger que représente une
femme qui écrit”. Conducendo per mano la bambina alla scuola francese, il padre
era consapevole di marciare controcorrente, di scontrarsi con le convenzioni di
una società per la quale mantenere le donne nell’ignoranza e nell’analfabetismo
era sinonimo di tenere metà della popolazione sotto stretta sorveglianza, evitando
problemi e ribellioni.
Villes ou villages aux rouelles blanches, aux maisons aveugles. Dès le premier jour
où une fillette « sort » pour apprendre l’alphabet, les voisins prennent le regard
matois de ceux qui s’apitoient, dix ou quinze ans à l’avance : sur le père audacieux,
sur le frère inconséquent. Le malheur fondra immanquablement sur eux. Toute
vierge savante saura écrire, écrira à coup sûr « la » lettre. […]
Voilez le corps de la fille nubile. Rendez-la invisible. Transformez-la en être plus
aveugle que l’aveugle, tuez en elle tout souvenir du dehors. Si elle sait écrire ? Le
geôlier d’un corps sans mots – et le mots écrits son mobiles – peut finir, lui, par
dormir tranquille : il lui suffira de supprimer les fenêtres, de canetage l’unique
portail, d’élever jusqu’au ciel un mur orbe.
Si la jouvencelle écrit ? Sa voix, en dépit du silence, circule. Un chiffon froissé. […]
L’écrit s’envolera par le patio, sera lancé d’une terrasse. (AF, pp. 11-12)
Djebar abilmente intreccia, nel quadro che dipinge del suo primo giorno di
scuola, gli sguardi, i movimenti, i gesti e pensieri dei diversi attori sulla scena.
Tutto intorno vi sono gli sguardi, invisibili (“maisons aveugles”) eppure troppo
presenti, dei vicini, che sembrano lanciare i loro malauguri da dietro le finestre.
Lo sdegno e i timori dei vicini, testimoni della prima sortita della bambina che si
incammina verso l’istruzione, sono causati dalla concezione che per una donna
imparare sia sinonimo di una vita sfortunata, di pericoli, e soprattutto che quella
bambina possa crescere con idee strampalate, strane, pericolose per il
mantenimento dello status quo della società.
Il padre cammina diritto e fiero per la sua strada, non curante o forse fin
troppo deciso a contestare con la sua scelta la tradizione che vuole che ragazze
rimangano al proprio posto nel gineceo:
[…] je marche, fillette, au dehors, main dans la mains du père. Soudain, une
réticence, un scrupule me taraude : mon ‘devoir ’ n’est-il pas de rester ‘en arrière’,
dans le gynécée, avec mes semblables ? Adolescente ensuite, ivre quasiment de
sentir la lumière sur ma peau, sur mon corps mobile, un doute se lève en moi :
‘Pourquoi moi ? Pourquoi à moi seul, dans la tribu, cette chance ? (AF, p. 239)
La risposta alla domanda della piccola Djebar la dà lei stessa, attraverso la
descrizione del padre. Questa occasione è toccata a lei e non ad altre, perché suo
padre è diverso dagli altri padri. Lui è istitutore alla scuola francese, non solo,
come dirà in Vaste est la prison, è “instituteur indigène” per i bambini indigeni, ai
quali insegna la lingua e la cultura francese.
Celui-ci, un fez sur la tête, la silhouette haute et droite dans son costume européen,
porte un cartable, il est instituteur à l’école française. Fillette arabe dans un village
du Sahel algérien. (AF, pp. 11-12)
Anche il suo aspetto, vestito con un completo alla moda europea, lascia
trasparire la sua missione di istruire i bambini algerini secondo il modello francese
e in francese. Assia Djebar è stata fortunata, è lei stessa a riconoscerlo, per aver
avuto un padre che, grazie alla sua modernità, ha compreso l’importanza di
assicurare l’istruzione alla propria figlia e, così facendo, l’ha sottratta al destino di
una vita di clausura.
L’istruzione e la lingua francese per Djebar sono dunque un dono del padre,
come lo è stato il suo esempio di camminare diritto sulla strada a dare sicurezza
alla figlia. La lingua e la scrittura che ne conseguirà sono doni che il padre ha
lasciato, come preziosa eredità, alla figlia. Il gesto paterno di tenere la “fillette
arabe” per mano è dunque un indicare una strada personale da percorrere per tutta
la vita.
3.2 La strada, luogo di aggressioni.
La strada, però, è il luogo in cui le donne e i loro corpi sono esposti agli
sguardi degli uomini. Sebbene accompagnata dalla figura maschile per eccellenza,
il padre, percepiamo nella descrizione del primo giorno di scuola che comunque
quegli sguardi esistono, quelle voci continuano a lanciare le loro offese e le loro
critiche. Sono sguardi che feriscono, che incutono timore e oltraggiano. La strada
è il luogo dell’oltraggio alle donne che sfidano le regole e le tradizioni
comunemente accettate. Andare a scuola equivale, infatti, a voler sfidare le
tradizioni che vogliono la donna analfabeta e rinchiusa in casa ad occuparsi delle
faccende domestiche e della cura dei figli. Andare a scuola equivale a camminare
senza il velo, a svelarsi. Andare a scuola per imparare il francese è una sfida
ancora più grave, perché indica la volontà di distanziarsi, di “modernizzarsi”.
Se una bambina accompagnata dal padre è in un certo senso difesa, una
bambina che cammina per la strada sola per andare a scuola diventa sicuramente
oggetto e bersaglio di oltraggi da parte dai maschi. Lo sguardo degli uomini arabi
sui corpi delle donne è insopportabile, pesante, come denunciano molte scrittrici
nelle loro opere.
Samia, elle dit ça. Elle dit, ici les gens regardent pas. Ils zyeutent. Ils ont leurs yeux
collés sur ta peau, collés sur toi jusqu’au sang, comme des sangsues, comme des
sauterelles, partout sur toi, même sous tes habits et même, ça fait des boules dans ta
poitrine. Ça te fait tromper les pieds pour te faire tomber.
La strada è il primo luogo di assalto e oltraggio alle donne, oltraggio che
parte dallo sguardo, ma che si fa poi gesto, voce, insulto, fino a prendere a volte
anche la forma di una violenza fisica. Sultana, la protagonista del L’interdite, al
ritorno in Algeria dopo anni di esilio, ritrova negli uomini gli stessi sguardi
pesanti, gli stessi gesti e le stesse abitudini di quando era partita:
Je regarde la rue, effarée. Elle grouille encore plus que dans mes cauchemars. Elle
inflige, sans vergogne, son masculin pluriel et son apartheid féminin. Elle est grosse
de toutes les frustrations, travaillée par toutes les folies, souillée dans sa laideur par
un soleil blanc de rage, elle exhibe ses vergetures, ses rides, et barbote dans les
égouts avec tous ses marmots.
[…]
Je n’ai pas oublié que les garçons de mon pays avaient une enfance malade,
gangrenée. Je n’ai pas oublié leurs voix claires qui ne tintent que d’obscénités. Je
n’ai pas oublié que, dès leur plus jeune age, l’autre sexe est déjà un fantôme dans
leurs envies, une menace confuse. Je n’ai pas oublié leurs yeux séraphiques, quand
leur bouche en cœur débite les pires insanités. Je n’ai pas oublié qu’ils rouent de
coups les chiens, qu’ils jettent la pierre et l’injure aux filles et aux femmes qui
passent. Je n’ai pas oublié qu’ils agressent, faute d’avoir appris la caresse, fut-elle
celle du regard, faute d’avoir appris à aimer.
Anche un’altra scrittrice algerina ci parla della strada come il luogo delle
aggressioni attuate attraverso gli sguardi e gli insulti. Si tratta di Leïla Sebbar, nata
in un villaggio algerino da padre algerino e madre francese della Dordogna, e
residente in Francia da molti anni. In un’autobiografia dell’infanzia in Algeria, dal
titolo Je ne parle pas la langue de mon père, Sebbar racconta dei ripetuti episodi
di aggressioni verbali subite da parte dei ragazzini arabi nei confronti suoi e delle
sue due sorelle allorché si recavano a scuola, vestite con mini gonne all’ultima
grido in Europa i cui modelli la madre faceva giungere da Parigi. Sebbar adulta si
domanda se il padre, istitutore alla scuola francese del villaggio (come il padre di
Djebar) e che non ha mai insegnato alle figlie la lingua araba, si era mai reso conto
degli affronti che subivano quotidianamente le figlie; se lui come uomo si era mai
reso conto che l’Algeria non è un luogo dove si ha rispetto per le bambine e le
donne.
Mon père a-t-il jamais su qu’on insultait ses filles, depuis le premier quartier de
l’enfance, à Eugène-Étienne-Hennaya près de Tlemcen, jusqu’au Clos-Salembier, le
quartier des « Arabes », presque un bidonville, le repaire des « terroristes » contre la
France et, plus tard, celui des jeunes voyous désœuvrés c contre la nomenklatura
algérienne, sa police et son armée, acharnées à tirer sur les émeutiers dans les rues de
la capitale, sur ordre de la présidence… Mon père n’a pas su que des garçons
injuriaient ses filles, ou le savait-il, mais il ne pouvait garder ses filles séquestrées,
comme d’autres pères qui leur avaient interdit l’école, les écoles, coraniques et
françaises, parce qu’elles auraient côtoyé des garçons, et le chef de famille lui-même
aurait contrevenu aux règles de la partition des sexes, les écoles n’étaient pas mixtes,
mais le chemin de l’écoles était le même, la tradition n’avait pas tracé la rue
féminine séparée de la rue masculine jusqu’aux bâtiments scolaires, les filles, même
si des frères les accompagnaient, étaient en danger et elles mettraient en danger
l’honneur de la famille…
La strada in Algeria è dunque il luogo dell’affronto, dell’aggressione, degli
insulti rivolti alle donne, sia per coloro che conoscono l’arabo, sia per coloro che
non lo parlano e sono per questo riconosciute come diverse, per avere magari un
genitore proveniente dall’estero, in particolare dall’Europa. Mokeddem e Djebar
comprendono gli insulti, comprendono i significati degli sguardi e dei gesti. Leila
Sebbar, come pure Hélène Cixous, non comprendono le parole che vengono loro
rivolte dai ragazzi per la strada, ma possono percepirne il significato profondo. La
strada diventa così quel luogo comune in cui le scritture delle donne maghrebine
si incontrano per articolare insieme la loro ribellione, per rivendicare il loro diritto
a camminare liberamente per la strada senza timore di essere offese, oltraggiate,
con parole, sguardi o gesti. È il luogo dal quale sono escluse perché non possono
esservi liberamente, senza subire oltraggi e attacchi.
CAPITOLO 4.
L’ESILIO NELLA SCRITTURA.
Nella seconda parte di questo lavoro, intitolata “Scrivere l’esilio”, ho
introdotto la figura di Shahrazade, benché la mitica narratrice non si cimentasse
nella scrittura, ma nel racconto orale. Ciò non toglie che Shahrazade rimanga la
narratrice di riferimento, colei che racconta le storie, lette ascoltate, comunque
apprese da altri, intessendole in un discorso personale. La sua abilità sta nel dare
organizzazione alla grande quantità di racconti e nello scegliere abilmente le
parole e le interruzioni al momento giusto. Non solo, ma Shahrazade mostra di
possedere una cultura eccezionale, di aver letto e studiato molto. La sua poderosa
memoria, inoltre, le mette a disposizione storie, personaggi e nozioni nei campi
più disparati.
Perché questa scelta di Shahrazade come immagine rappresentativa di donne
che scrivono le proprie storie nel XX e nel XXI secolo? La risposta è proprio la
connessione tra Shahrazade e la cultura orale di cui si fa trasmettitrice. La fonte
della narrazione di Shahrazade, come viene messo in evidenza all’inizio delle
Mille e una notte, è esattamente la grande quantità di storie di cui era ricca la
cultura popolare. Le scrittrici raccolte in questo lavoro hanno questo in comune
con Shahrazade: la loro scrittura trae origine dall’oralità, dalle narrazioni delle
storie popolari ascoltate da bambine dalla bocca di nonne, madri e zie. Sono,
queste, voci di donne che riempiono le loro teste, come scrive più volte Assia
Djebar, che proprio a questo vero assedio di voci dedica un’intera raccolta di
saggi: Ces voix qui m’assiègent… en marge de ma francophonie.
Oralità e scrittura sono legate, ci fanno capire queste scrittrici, la seconda
non esisterebbe senza la prima. L’oralità si ritrova nella descrizione delle scene
sulla terrazza di un harem, dove si ritrovano le donne e i bambini per ascoltare le
storie ed impersonarle attraverso la recita teatrale. E’ di questo che ci racconta
Fatima Mernissi in Dreams of Trespass. E’ ancora a questo narrare che si riferisce
Malika Mokeddem, quando rievoca le storie della nonna. La cultura popolare
diventa sapere attraverso gli insegnamenti che le storie offrono. Questo sapere,
poi, si accresce grazie all’istruzione istituzionalizzata nelle scuole, dove si legge,
si studia e si organizzano le conoscenze.
Ci sono voluti secoli prima che le donne nel mondo arabo imparassero a
prendere in mano una penna. Quanto precede la scrittura lo possedevano già:
l’immaginazione e la fantasia. Assia Djebar si chiede cosa sarebbe successo se
Shahrazade avesse scritto le sue storie, anziché raccontarle.
Peut-être n’aurait-elle eu besoin que d’une nuit, et pas de mille, pour se libérer?
(CVQA, p. 77)
4.1 Perché scrivere ?
La scrittura è lo strumento che una donna ha per liberarsi. Sembrerebbe
questa la logica conseguenza dell’affermazione di Assia Djebar a proposito di
Shahrazade e del suo ipotetico romanzo.
Per Assia Djebar, la donna nell’islam è “exilée de l’écriture” (CVQA, p. 76).
“Dès les premier temps de l’islam, on a peu à peu expulsé les femmes de l’écriture
comme pouvoir” (CVQA, pp. 75-76). Sono state private della possibilità di
scrivere, cioè dello spazio pubblico che la scrittura rappresenta. Eppure erano le
donne le “détentrices privilegiées de l’écriture” (CVQA, p. 75) nella cultura
berbera che aveva preceduto l’islamizzazione del Nord-Africa. È alle donne che si
deve “une des plus anciennes cultures écrites […], l’alphabet « tifinagh » des
Tuaregs” (CVQA, p. 75). Quindi, il compito delle donne consiste nel recuperare
quel passato che le aveva viste attive partecipanti della vita sociale.
Pourquoi écrire?
J’écris contre la mort, j’écris contre l’oubli… J’écris dans l’espoir (dérisoire) de
laisser une trace, une ombre, une griffure sur un sable mouvant, dans la poussière qui
vole, dans le Sahara qui remonte…
J’écris parce que l’enfermement des femmes, dans sa nouvelle manière 1980 (ou 90,
ou 2000) est une mort lente parce que la non-solidarité (présente) avec les femmes
du monde arabe se fait dos tourné à un passé peut-être de silence, mais certainement
pas d’entr’aide…
J’écris parce que je ne peux pas faire autrement, parce que la gratuité de cet acte,
parce que l’insolence, la dissidence de cette affirmation me deviennent de plus en
plus nécessaires. J’écris à force de me taire. J’écris au bout ou en continuation de
mon silence.
Nelle prime due righe di questa citazione è racchiusa la duplice essenza
della scrittura per Assia Djebar. Scrivere è, per lei, in primo luogo un atto di
ribellione: scrive contro la morte, l’oblio, il silenzio. In secondo luogo, scrivere è
movimento: è lasciare una traccia dietro di sé, è muovere la mano che tiene la
penna e corre sul foglio. La mano che percorre le righe della pagina compie un
atto fisico, lascia segni, incide il foglio, al pari dell’immagine evocata da Derrida
quando parla della “trace coupante”. Qui Djebar disegna con le parole
un’immagine che, come in una dissolvenza filmica, passa dal bianco della
superficie del foglio al giallo sabbia della distesa del deserto. Nello stesso tempo,
la mano che si muove sul foglio diventa corpo della donna che cammina, sola,
attraverso il deserto. “Écrire est une route à ouvrir” (CVQA, pp. 11 e 17) è la frase
che Djebar ha inserito, all’apertura e alla fine del poema “Entre corps et voix” che
introduce il volume Ces voix qui m’assiègent.
Si scrive con il corpo e, scrivendo, ci si espone agli altri. Attraverso la
scrittura, la donna porta se stessa sulla scena pubblica, dà voce alla propria
condizione, ai propri pensieri e ai propri sentimenti. Scrivere vuol dire, dunque,
diventare un soggetto reale nella società, con esigenze e bisogni propri. È un atto
insolente e dissidente (“l’insolence, la dissidence de cette affirmation”) perché va
contro la condizione assegnata tradizionalmente alle donne, cioè tale da non poter
assumere il controllo della propria vita, da non avere l’opportunità di conoscere e,
dunque, rivendicare i propri diritti e, soprattutto, non prendere coscienza di sé
come individualità distinte dal gruppo, dalla tribù.
Oui, la femme est exilée le plus souvent de l’écriture : pour ne pas s’en servir, elle,
comme individu, pour ne pas connaître ses droits dans la cité, pour ne pas redevenir
mobile […] (CVQA, p. 76)
Le donne sono state allontanate dai centri di potere degli uomini, “exilées de
l’écriture” (CVQA, p. 76). Da questa definizione segue che, se una donna prende
la parola e comincia a scrivere, lo fa dalla posizione/condizione di esiliata. ‘In
esilio’ vuol dire che le donne nel mondo arabo-musulmano si trovano all’esterno,
bandite da un certo territorio della cultura. Volendo rappresentare la loro
posizione attraverso il modello spaziale della cultura proposto da Lotman, le
donne si troverebbero in punti non definiti, ma comunque esterni all’area che
circoscrive lo spazio della cultura degli uomini. Da questa posizione le donne che
scrivono producono testi che vanno a formare uno spazio culturale alternativo.
Tale spazio è quello di colei che è stata esiliata dalla cultura, ma allo stesso tempo
costituisce una condizione per scrivere. “Car il me faut vraiment de l’espace pour
écrire”, afferma Assia Djebar.
Esilii sono le fughe, i silenzi, le assenze, le reticenze:
mes absences, mes silences, mes réticences, mes refus anciens ou récents que je ne
comprend pas toujours, du moins sur le moment; j’ajouterais même mes fuites (car il
me faut vraiment de l’espace pour écrire): je dirais donc plutôt mes exils!
Si è detto che la scrittura di Assia Djebar è “une écriture ‘contre’”. La parola
“contre”, a sua volta, individua due movimenti della scrittura. Da una parte
descrive l’opposizione, la lotta della parola contro l’oblio, il silenzio, la
repressione e la segregazione, l’invisibilità delle donne nella società e nella
cultura. La scrittura è per la donna l’arma con cui lotta contro la segregazione
all’interno della casa e della famiglia, contro il ruolo esclusivo di madre e moglie,
assegnatole quale fosse l’unica modalità di realizzazione del suo essere .
Le danger gît là : la femme qui peut écrire (on écrit d’abord pour soi, car l’écriture
amène le dialogue avec soi) cette femme risque d’expérimenter un pouvoir étrange,
le pouvoir d’être femme autrement que par l’enfantement maternel. (CVQA, p. 76)
“Contre” descrive una scrittura che metaforicamente batte contro i muri e le
porte sbarrate degli harem; contro la casa che spesso nel Maghreb e in MedioOriente rappresenta è una prigione mascherata.
Ma è una scrittura che non nega la voce agli uomini, oltre che alle donne. Dà
voce a quegli uomini che condividono con le loro compagne, mogli, figlie e
parenti il destino di esuli. È una scrittura che parla anche di profughi e di esuli
che, prigionieri del passato, intrappolati in una situazione da cui non riescono a
tirarsi fuori, urtano contro muri invisibili:
“Ci sono quelli che dimenticano o che, semplicemente, dormono, e poi ci sono quelli
che continuano a urtare contro i muri del passato […]”.
“Sono loro i veri esuli”.
I muri del passato sono la guerra, che ha costretto molti algerini e algerine a
lasciare la propria terra e vivere una vita da esiliati in Francia, spesso senza
conoscerne la lingua. Ma i muri contro cui il vero esule o la vera esule sbatte sono
anche i muri della tradizione, delle mentalità troppo strette. Gli esuli, uomini e
donne insieme, costituiscono un’intera comunità che condivide la condizione di
essere privata del potere politico, sociale, culturale. Protagonista di uno degli
ultimi romanzi di Djebar, La Disparition de la langue française, è infatti un uomo
algerino, Berkane, che rientra in patria dopo venti anni passati in esilio in Francia
a causa della guerra e della situazione sociale del paese.
Il secondo significato della parola ‘contre’ è quello che si ritrova
nell’espressione francese ‘tout contre’, cioè vicino, a fianco. La scrittura di Assia
Djebar si affianca ai corpi di tante donne che non hanno potuto esprimersi o
mostrarsi, nel passato come nel presente. Si mette in ascolto delle voci di tante
altre donne, dei loro racconti, dei loro lamenti, dei loro pianti e dei loro canti e
cerca di liberare nello spazio pubblico coloro che hanno avuto esistenza solo nel
segreto delle case, delle stanze o dei cuori.
Le opere di Assia Djebar sono scritte “entre le cri et l’écrit: tel est le lieu”,
afferma Mireille Calle-Gruber. La scrittura si origina dal silenzio, come dai
‘gridi’ delle donne: “L’amour, ses cris” (“s’écrit”)” (AF, p. 299), scrive (grida)
Assia Djebar. E ancora:
Certes, dans l’écrit, il y a aussi « les cris », le cri-magma de tous les cris : la douleur
donc… (CVQA, p. 61)
“Le cri” è un grido di dolore: la scrittura traduce in parole il dolore, quello
del mutismo imposto dalla legge del silenzio e dell’invisibilità delle donne. Da
una parte sta dunque il bisogno, l’urgenza di scrivere, “parce que je ne peux faire
autrement” (CVQA, p. 63), dall’altra l’impossibilità di parlare, di lasciare una
traccia scritta.
Je peux résumer celle-ci rapidement :
Ecrire pour moi se joue dans un rapport obscur entre le « devoir dire » et le « ne
jamais pouvoir dire », ou disons, entre garder trace et affronter le loi de l’
« impossibilité de dire », le « devoir taire », le « taire absolument ». (CVQA, p. 65)
4.2 L’esilio nella lingua francese.
“Entre cri et écrit”, “entre mot et écriture”, “entre corps et voix”. La
ripetizione di queste espressioni dimostra che la scrittura di Djebar può esistere
solo in questo luogo interstiziale, fra un’emozione o un sentimento e la sua
espressione. A questa serie si aggiunge un secondo spazio interstiziale, quello che
si apre tra le lingue, l’arabo e il francese: “l’entre-deux-langues et l’alphabet
perdu” (CVQA, p. 30).
Assia Djebar è una scrittrice ‘francofona’, cioè autrice di opere in lingua
francese benché lei stessa provenga da una nazione diversa dalla Francia. Essere
francofono significa “être à l’intérieur et à l’extérieur de la littérature française,
être en dialogue avec elle”. Per Djebar, però, come per tutti gli scrittori e le
scrittrici del Maghreb, la situazione linguistica è più complessa e non può essere
sbrigativamente descritta dall’espressione “tra due lingue”.
Gli scrittori e le scrittrici del Maghreb hanno per lo meno quattro lingue a
loro disposizione per esprimersi. Innanzitutto l’arabo classico, la lingua del
Corano e della religione. Seconda è la lingua francese, la lingua “dell’excolonizzatore”, la lingua ufficiale dell’amministrazione fino all’indipendenza, e la
lingua che si apprendeva a scuola. La terza lingua del Maghreb è l’arabo
dialettale, la lingua “che non si scrive o che ognuno può scrivere come crede,
lingua viva e in movimento”. Vi è inoltre un quarto linguaggio, specificamente
femminile, il linguaggio del corpo. In una terra e in una cultura in cui la parola è
negata alle donne, “un linguaggio fatto di segni corporei e spaziali sostituisce il
verbo. Linguaggio muto che si nutre dello spazio della segregazione, codice
inespresso sotteso ai rapporti fra i sessi […]”.
La scrittura di Assia Djebar si nutre di tutte queste quattro lingue che lei,
donna, algerina e istruita nella lingua francese, ha a disposizione. L’arabo è per lei
la “langue maternelle avec son lait, sa tendresse, mais aussi sa diglossie” (CVQA,
p. 34.). L’arabo di cui parla Djebar però, non è l’arabo classico, che non ha mai
imparato a padroneggiare come lingua di scrittura e di comunicazione. È piuttosto
l’arabo dialettale, quello che si parla a casa, in famiglia, attraverso cui la madre
culla e alleva il bambino o la bambina, quello in cui si comunica tra amici. Il
francese è la “langue marâtre […], ou langue adverse pour dire l’adversité”
(CVQA, p. 34). Arabo dialettale e francese per Djebar “s’entrelacent ou rivalisent,
se font face ou s’accouplent mais sur fond de cette troisième – langue de la
mémoire berbère immémoriale, langue non civiliste, non maitrisée, redevenue
cavale sauvage…” (CVQA, p. 34). La terza lingua per Djebar è rappresentata dal
berbero, l’antica lingua del Nord-Africa, prima che questa terra subisse
l’arabizzazione e l’islamizzazione, con la conseguente imposizione della lingua
araba. Echi berberi però sopravvivono nell’arabo dialettale, oltre che nella
scrittura antica berbera. L’alfabeto tifinagh, l’alfabeto perduto, è stato dimenticato
dalle popolazioni del Maghreb, eccetto che dai Tuareg (CVQA, p. 34), asserisce
Djebar. La lingua berbera è anche uno scrigno che contiene
[…] son trésor à demi ébréché, de légendes, de contes, de mythes, de proverbes,
d’une poésie dilapidée, dépensée de plus en plus dans les sables, ou la solitude, ou
surtout dans le regard des femmes encore méprisées… (CVQA, p. 34)
Poi c’è la quarta lingua, la lingua delle donne. Si tratta di una lingua
Il s’agit d’une « langue des femmes » à usage parallèle, le plus souvent clandestine t
occulte, par rapport à l’arabe ordinaire, celui de la communauté (pour ne pas dire la
« langue des hommes »). (CVQA, p. 36)
Djebar scrive con tutte queste lingue, linguaggi ed echi nella testa, queste
voci di donne e degli antenati berberi che la assediano dai secoli passati. È grazie
al suo lavoro come regista, che Djebar ha appreso, a poco a poco, ad avvicinarsi
alle donne, ad ascoltare i loro racconti, in un arabo della città come quello delle
montagne. Progressivamente, questo ascolto si è trasformato in poetica.
Mon écoute d’alors […] m’introduisait peu à peu à un véritable art poétique […].
(CVQA, p. 38)
Djebar ascolta storie in arabo ed echi berberi, ma scrive in francese. Il
francese è l’unica lingua in cui sa e può esprimersi con la scrittura. È la lingua che
ha appreso a scuola e l’unica che ha scritto, fin da bambina. Appreso alla scuola
algerina, il suo è un “français grandi au milieu d’autres langues”, che ha
accompagnato Djebar negli anni della formazione. Quella di Djebar è una francografia che si è sviluppata all’interno di un’arabo-fonia. La scrittura in francese è
quindi scrittura in esilio dalla lingua materna, che non può essere scritta all’inizio,
ma può essere recuperata più tardi attraverso un ulteriore ascolto:
[…] mon écriture en langue française est devenue une francophonie où graphie et
oralité se répondent comme deux versants face à face. Comme si la (ou parfois les)
langue maternelles perdue à l’écrit, dans un premier temps, revenait par un écho plus
vibrant, multiplié, intensifié […]. (CVQA, p. 38)
Il francese è lingua “mise à disposition” e non scelta inizialmente (CVQA, p.
28). Allo stesso modo, il ritmo e lo stile narrativo non sono scelti, bensì imposti
dall’uso della lingua francese, che ha le sue proprie leggi ritmiche e musicali. Le
voci dei personaggi dei romanzi, però, sono udite in arabo dialettale o in berbero.
Les multiples voix qui m’assiègent – celles de mes personnages dans mes textes de
fiction –, je les entends, pour la plupart, en arabe, en arabe dialectal, ou même en
berbère que je comprends mal, mais dont la respiration rauque et le souffle
m’habitent d’une façon immémoriale. (CVQA, p. 29)
Scrivere in francese in Algeria, per Djebar si tramuta in uno sforzo continuo
di tra-duzione (nel senso di trans-portare) le voci arabe e berbere in francese, “en
trouver l’équivalence, sans les déformer” (CVQA, p. 29).
Oui, ramener les voix non francophones – les gutturales, les ensauvagées, les
insoumises – jusqu’à un texte français qui devient enfin mien. (CVQA, p. 29)
È parere di Djebar che se gli scrittori e le scrittrici francofoni del Maghreb
cercano di far trasparire nelle loro parole l’oralità araba il francese che ne risulta,
benché perfetto dal punto di vista grammaticale, sarà “un français légèrement
dévié, puisque entendu avec une oreille arabe ou berbère”, perché è scritto “tout
contre un marmonnement multilingue” (CVQA, p. 29).
È così che l’espressione “entre”, il ‘fra’ le lingue, l’in-between come direbbe
Bhabha, diventa spazio: entre diventa antre (CVQA, p. 33), con un gioco fonico
che la lingua francese permette, cioè antro, spazio che si allarga tra le varie lingue
e permette la scrittura del dialogo, delle comunicazione tra queste.
La lingua francese, comunque, resta una lingua straniera e come tale
proviene da ‘fuori’, da uno spazio esterno al territorio dell’Algeria e allo spazio
della lingua araba, esterno allo spazio della casa e della famiglia in cui si parla il
dialetto arabo. L’atto di imparare a leggere e scrivere il francese si trasforma in un
movimento verso l’esterno, ma anche in un movimento di rottura e di separazione
dalla cultura algerina della segregazione femminile. È così che si comprende
ancora più a fondo “le scandale” della “sortie eau-dehors” (CVQA, p. 69) di Assia
Djebar e, con lei, di tutte le ragazze maghrebine che camminano per la strada e
vanno a scuola: “Il y eut d’abord ma sortie au-dehors; le scandale de mon age
nubile, la mobilité de mon corps de femme.” (CVQA, p. 69). “ « Elle sort », disait
la mère de sa fille […] « elle sort parce qu’elle lit! »” (CVQA, p. 69). Il francese
rappresenta così una lingua di libertà, che permette alla donna scrittrice di
liberarsi, sia mentalmente che fisicamente, dalla stretta della tradizione. Ma nel
Nord-Africa non solo le scrittrici ma anche molti scrittori hanno adottato il
francese al posto dell’arabo, perché usare la lingua dell’altro rappresenta, tra
l’altro, un mezzo di liberazione.
Per le donne, scrive Assia Djebar, tramite la scrittura si libera anche il
corpo. Per lei stessa scrivere è uno svelarsi un uscire e camminare per la strada,
esponendosi ai raggi del sole per godere del suo calore. Perciò, afferma: “j’aspire
à une écriture au-dehors, au soleil!” (CVQA, p. 68).
Ma vie toute entière serait une lente circonférence, je bougerais lentement mais
constamment, dans ma tête et dans mon corps […]. (CVQA, p. 67).
Le ragioni per scegliere di scrivere in una lingua piuttosto che in un’altra
possono essere le più disparate. Etel Adnan scrittrice, poeta e artista di origine
libanese, nella breve autobiografia To Write in a Foreign Language, spiega che,
alla domanda sul perché si scelga di non scrivere nella propria lingua non esiste
una risposta singola e univoca:
There are no answers to such questions. […] There are a growing number of writers
who use an “international” language, like English, who use in fact another language
than their own because of history, or because of exile, or because of personal taste.
Anche Djebar prova insofferenza per una simile domanda, perché “si vous
etes ainsi interpellée, c’est, bien sur, pour rappeler que vous venez d’ailleurs”
(CVQA, p. 7). Per Djebar, il francese si è imposto nella sua scrittura come
conseguenza della storia particolare del suo paese e della sua condizione di doppio
esilio, cioè del suo essere donna esiliata dalla scrittura e algerina costretta a
scrivere in francese. Interpretando le parole di Etel Adnan, si può dire che ogni
lingua rappresenta un particolare destino. L’utilizzo della lingua francese –
asserisce Djebar le apre la strada verso un destino di libertà, con la sua scrittura
apre un cammino su cui possono avviarsi, con lei le altre donne, quelle di cui
scrive, come quelle che la leggono.
Pour quelle vérité…
[…]
Dirais-je aujourd’hui que pour moi, écrire –
Ecrire de la seule écriture qui me pousse, et
M’habite, et me commande, écrire en français
Mais pour inscrire tout de même voix
Des aïeules et vérités inversées, renversées,
Dans leurs jeux d’ombre et de réalité,
Ce serait cela, écrire en francophonie,
Sur les marges,
A la frontière, au plus loin de soi-même, de nous,
D’eux, là-bas, autrefois ennemis
L’écriture double
Les vérités doubles et se réfléchissant en contraire
Ecrire en francophonie
En francographie
En francographie
En soubresauts entre la langues des origines déchirées,
dépenaillées, lambeaux de mémoire
Et le français qui résiste, mon français qui, malgré moi, fait, en moi, le grand écart,
Pour réparer, bien sûr,
Pour renaître, hier et demain,
Pour quelle vérité…
CAPITOLO 5.
“LIFE IS TRESPASSING”.
FATIMA MERNISSI E L’ATTRAVERSAMENTO
DEGLI HUDUD.
“To live is to open closed doors. To live is
to look outside. To live is to step out. Life
is trespassing.” (Fatema Mernissi)
5.1 La donna dal vestito di piume.
Per le donne scrittrici analizzate in questo lavoro, all’inizio dell’esilio c’è
sempre una storia, un racconto o una fantasia che risale ai tempi dell’infanzia. In
mancanza della possibilità di uscire, evadere fisicamente dalla propria condizione
di semi-prigioniere nella “maison et prison” (CVQA, p. 89), come scrive Assia
Djebar, le donne maghrebine si rifugiano nei racconti, nella narrazione di storie
fantastiche, che narrano di donne e di uomini che si avventurano in terre lontane.
“Entre les murs, malgré les murs, la langue de poésie ouvre passages
inouïs”, scrive Mireille Calle-Gruber a proposito della scrittura di Djebar. “Le
poète fait don de langue : aux lettrés, certes, et plus encore aux analphabèthes”.
Attraverso le storie, i canti e le poesie nel mondo maghrebino e musulmano le
donne si sottraggono agli ostacoli e ai limiti ad esse imposte nella realtà
quotidiana e vagano per terre lontane, incontrando genti straniere. Si tratta spesso
di storie e leggende appartenenti alla stessa tradizione popolare che ha prodotto le
fantastiche storie delle Mille e una notte, e che collega passato e presente in un
comune amore/bisogno di esplorare l’altrove e l’Altro, di immaginare mondi
diversi.
È parlando con gli stranieri che ci si apre sul mondo e si diventa intelligenti. Come
Sinbad.
Le storie, i racconti e le letture sono il mezzo per attraversare le frontiere,
vere o immaginate, solcare orizzonti, e incontrare le genti del mondo. La lettura o
l’ascolto di una storia equivale a viaggiare e conoscere lo straniero e l’estraneo, ad
aprire la mente al diverso.
“Viaggiare è il modo migliore per conoscere e accrescere la tua forza”, diceva
Jasmina, mia nonna, che era illetterata e viveva in un harem, una tradizionale
abitazione familiare dalle porte sbarrate che le donne non erano autorizzate ad
aprire.
Jasmina, la nonna materna di Mernissi, era una donna illetterata, ma molto
saggia. La sua storia preferita, che più di tutte amava raccontare alla nipote, era
quella della donna dal vestito di piume. La nonna era convinta che tutte le donne
possedessero le ali e che facessero male a non usarle (HO, p. 8). Per la nonna
[…] la donna dovrebbe vivere come una nomade, sempre all’erta, pronta a migrare
anche quando è amata, perché […] l’amore può fagocitarla e diventare la sua
prigione. (HO, p. 9)
5.2 La casa.
Nel romanzo autobiografico Dreams of Trespass Fatima Mernissi racconta
la sua infanzia nel Marocco degli anni ‘40 del XX secolo, prima dell’indipendenza
dalla Francia. L’autrice ripercorre i primi anni della sua vita, le sue prime scoperte
e le esperienze vissute nell’harem di Fez, la casa in cui è nata. Descrive gli
abitanti della casa, gli uomini, gli altri bambini e soprattutto molte donne, alcune
delle quali emergono come figure forti e coraggiose, capaci di impartire preziosi
insegnamenti a figli, figlie e nipoti attraverso i loro racconti e i loro esempi.
L’harem della famiglia Mernissi è prima di tutto un luogo chiuso, squadrato,
in cui l’architettura troppo regolare dà un senso di soffocamento. La prima cosa
che percepiamo dalle parole dell’autrice sono i confini, le spesse mura, le pesanti
porte e le squadrate e spigolose geometrie, vere e proprie barriere che non lasciano
spazio alla libertà di movimento. Tutto il primo capitolo, come il testo in generale,
è costruito sul tema delle barriere e delle frontiere, e di come fare per superarle.
Car c’est bien de frontière qu’il est question, de seuils, de limites, mais aussi du
passage – des passages de la navette qui noue fil autobiographique et fil historial.
Questa affermazione di Mireille Calle-Gruber sintetizza il romanzo di Assia
Djebar Vaste est la Prison, una prigione “si vaste […] qu’on ne saurait en sortir”.
Ma le frontiere, le soglie, i limiti, come pure i passaggi attraverso e al di là di
quelle sono temi ricorrenti nelle scritture delle donne maghrebine. La casa che
imprigiona, la soglia agognata, le frontiere da oltrepassare diventano luoghi
comuni in cui si ritrovano le scrittrici del Nord-Africa. Insieme alla narrazione e
alla scrittura come luogo di esilio e insieme passaggio, porta che si apre verso
spazi di libertà. è luogo comune nel senso attribuito all’espressione da Glissant.
Mernissi, Djebar e Mokeddem, scrivono in una lingua altra e anche in un
alfabeto diverso da quello della lingua araba. E’ “un alphabet” adottato “pour
passer les frontières”, scrive Djebar, citando Dobzynski nell’epigrafe all’inizio
della seconda parte di Vaste est la prison. Mernissi usa alternativamente per le sue
opere l’inglese o il francese. Il suo romanzo Dreams of Traspass originariamente
è in inglese, poi tradotto, o meglio riscritto, in francese.
Come si comprende dal titolo dell’opera, per Fatima Mernissi vivere
significa scardinare le porte chiuse, valicare la soglia e passare dall’altra parte.
Significa guardare al di là dei muri, delle porte massicce, delle sbarre alla finestre.
Guardare al di là, ma solo avendo visto e vissuto sulla propria pelle l’al-di-qua,
avendo vissuto la chiusura, la privazione della libertà. Solo dal di dentro, dopo
aver preso coscienza di tale privazione, una donna può riuscire a sviluppare in se
stessa la forza di rompere le catene, distruggere i muri e farsi crescere le ali per
volare via.
Dreams of Trespass ci dà le chiavi di lettura della condizione delle donne
arabe nella seconda metà del XX secolo in Marocco, una condizione determinata
dalla separazione delle sfere di azione tra donne e uomini, che corrisponde alla
separazione degli spazi destinati a ciascuno dei due gruppi sociali. L’opera
racconta delle frontiere sacre dell’Islam, gli hudud, e dell’opposizione di ordine e
caos. L’ordine, per l’Islam, è dato dal rispetto dei limiti stabiliti da tali frontiere
sacre, che secondo la concezione tradizionale sono state tracciate da Dio e sono,
per questo, invalicabili. Il mancato rispetto degli hudud genera caos, disordine ed
ogni sorta di problemi. Dreams of Trespass è un testo che racconta l’architettura
dell’harem, più precisamente, dei due harem che fanno parte dell’infanzia della
piccola Fatema Mernissi: la casa paterna, a Fez, che è anche la casa dove abita con
la sua famiglia, e l’harem dei nonni materni, in campagna. C’è una grande
attenzione e una precisa descrizione dell’architettura della casa, che diventa
metafora della società, delle possibilità e dei divieti, delle divisioni in gruppi
sociali distinti e degli obblighi di ciascuno.
Il testo comincia con il situare la nascita della piccola Fatima a Fez, nello
spazio storico e culturale del Marocco del 1940.
I was born in a harem in 1940 in Fez, a ninth-century Moroccan city some five
thousand kilometres west of Mecca, and one thousand kilometres south of Madrid,
one of the dangerous capitals of the Christians. The problems with the Christians
start, said Father, as with women, when the hudud, or sacred frontier, is not
respected. I was born in the midst of chaos, since neither Christians nor women
accepted frontiers. (DT, p. 1)
Già nelle prime righe dell’opera vediamo quattro spazi, uno incluso
nell’altro come le matriosche russe: domestico, cittadino, nazionale e
sovranazionale. Vi è, in primo luogo, lo spazio dell’harem, che è lo spazio
familiare, domestico, contenuto nel secondo spazio, che è quello della città di Fez,
a sua volta appartenente alla nazione marocchina (“Moroccan city”), inquadrata
nell’area geopolitica sovranazionale. La nascita della piccola Fatima viene
raccontata dalla prospettiva spaziale geopolitica e storica transnazionale, in un
Marocco che nel 1940 si trova all’estremità del mondo arabo-musulmano,
limitrofo alla contigua regione cristiana. L’autrice lega così la vicenda personale
umana alle vicende pubbliche politiche a livello nazionale e sovranazionale.
Il Marocco, e Fez in particolare, fanno parte dello spazio dell’Islam, ma si
trovano alla sua periferia, cinque volte più vicino a Madrid che alla Mecca.
Dall’altra parte c’è lo spazio cristiano, ossia l’Europa, che si trova poco a nord,
rappresentata dagli spagnoli e, un po’ più lontano, dai francesi. Fez e il Marocco
sono quindi alla frontiera tra i due mondi, in una borderland, una zona di confine
dove i contatti sono più facili, gli scontri e, insieme, gli attraversamenti, più
probabili. Dove, di conseguenza, le barriere, i limiti sono più fastidiosi, sentiti
come ostacoli al movimento naturale. È per questo che in posti di confine come
Fez, non appena una frontiera viene tracciata, subito nasce quasi spontaneo il
desiderio di oltrepassarla.
Suggestiva l’ironia che viene dall’accostamento e dalla similitudine tra i
nemici cristiani e le donne. Guardando dalla prospettiva degli uomini musulmani,
entrambi i gruppi danno problemi perché minacciano le frontiere proibite. La
prospettiva di genere rappresenta un ulteriore piano spaziale che viene introdotto
nell’incipit del romanzo. Si tratta di uno spazio mentale, in cui le donne vengono
considerate appartenenti ad un altro gruppo sociale e per questo motivo devono
essere relegate in spazi appositamente riservati per loro. Se i cristiani devono
essere mantenuti fuori dai confini nazionali, le donne devono, al contrario, essere
mantenute all’interno delle mura domestiche. La divisione dello spazio in base al
genere attraversa tutto il testo, rispecchiata e insieme rappresentata nelle divisioni
architettoniche dei luoghi.
Il fatto che Mernissi racconti la propria nascita situandola nel bel mezzo del
disordine socio-politico e culturale (“I was born in the midst of chaos”), segnala la
sua enfasi sulla discrepanza fra il destino metastorico della bambina, già segnato
dal luogo e dalla cultura in cui nasce, e il suo storico trovarsi coinvolta nelle
vicende di ridefinizione dell’ordine socio-politico e culturale del Marocco, da cui
sarà influenzata.
Gli hudud sono ciò che non è permesso. Saper riconoscere il punto esatto in
cui cominciano gli hudud fa parte dell’educazione dei piccoli, rispettarli equivale
ad obbedire agli adulti. Gli hudud separano ciò che è permesso da ciò che non lo
è:
To be a Muslim was to respect the hudud. And for a child, to respect the hudud was
to obey. […] The hudud was whatever the teacher forbade. (DT, p. 3)
Allah ha creato ordine ed equilibrio tra i mondi, allargando la linea di
demarcazione tra cristiani e musulmani e facendone uno spazio, che ha poi
riempito di acqua per renderlo ancora più difficile da attraversare:
When Allah created the earth, said Father, he separated men from women, and put a
sea between Muslims and Christians for a reason. Harmony exists when each group
respects the prescribed limits of the other; trespassing leads only to sorrow and
unhappiness. (DT, p. 1)
Il mare qui è lo spazio che divide, separa, e, dunque, che dà ordine, mentre
continua il parallelismo tra due nemici degli uomini musulmani, i cristiani e le
donne.
Le frontiere cominciano dalla casa, dalla famiglia, e si espandono fino ad
occupare la strada, la città, lo stato e le regioni sovranazionali. Una linea,
invisibile ma molto palpabile, demarca, all’interno della casa, la divisione tra
uomini e donne, spazi di azione legati al genere. Al di fuori della casa, la strada è
quasi esclusivo dominio degli uomini. La divisione che esiste nella sfera privata
viene riproposta dalla società anche nella divisione degli spazi esterni, cittadini,
come ad esempio negli hammam, nei cinema, etc. Per le donne dell’harem di
Fatema la sfida, comunque, comincia all’interno della casa, dal momento che è già
molto difficile avere il permesso di attraversarne la soglia, dove sta di guardia il
portiere Ahmed.
Lo spazio cittadino si fa anche spazio di scontri tra marocchini e soldati
francesi, mentre a livello statale, lo spazio nazionale del Marocco subisce una
divisione interna: soldati stranieri, francesi e spagnoli, che appartengono a due
gruppi, due tribù, differenti, si sono spartiti il territorio nazionale, che non aveva
mai subito separazioni né rotture da quattromila anni, ben prima della venuta
dell’Islam. Ora, il Marocco è diviso in due, la parte settentrionale e quella
meridionale, e tra le due, i soldati europei hanno segnato una frontiera, nei pressi
della città di Arbaoua:
Then, when neither was able to exterminate the other, they decided to cut Morocco
on half. They put soldiers near ‘Arbaoua and said from now on, to go north, you
needed a pass because you were crossing into French Morocco. If you did not go
along with what they said, you got stuck at ‘Arbaoua, an arbitrary spot were they had
built a huge gate and said that it was a frontier. (DT, p. 2)
La frontiera è dunque una linea del tutto arbitraria, che esiste solo nelle
teste di chi la traccia: “The frontier was an invisibile line in the mind of warriors”
(DT, p. 2). Non solo, la frontiera oltre che arbitraria, si fa segno e
rappresentazione del potere: il potere di colui che impone la propria visione del
mondo e delle sue frontiere agli altri:
Cousin Samir, who sometimes accompanied Uncle and Father on their trips, said that
to create a frontier, all you need is soldiers to force others to believe in it. In the
landscape itself, nothing changes. The frontier is in the mind of the powerful. (DT,
pp. 2-3)
Dal punto di vista di chi detiene il potere, dunque, i confini servono a
mantenere l’ordine e soggiogare i cittadini, nonostante siano presentati come un
modo per difendere i cittadini, soprattutto i più deboli, le donne e i bambini. A
Fatima bambina, ad esempio, non è permesso andare con suo padre, suo zio e
Samìr, suo cugino coetaneo, a verificare effettivamente il luogo in cui sono i
confini perché, in quanto femmina, è incapace di difendersi:
I could not go and see this for myself because Uncle and Father said that a girl does
not travel. Travel is dangerous and women can’t defend themselves. (DT, p. 3)
Le donne e le bambine devono accontentarsi di ubbidire: ubbidendo alla
maestra, ai genitori, agli zii, come pure e soprattutto ai dettami della religione,
sono sicure di non valicare i sacri hudud e di rimanere all’interno del giusto.
Education is to know the hudud, the sacred frontiers […].
To be a Muslim was to respect the hudùd. And for a child, to respect the hudùd was
to obey. […] once […] I asked Cousin Malika, who was two years older than I, if
she could show me where the hudùd actually was located. She answered that all she
knew for sure was that everything would work out fine if I obeyed the teacher. (DT,
p. 3)
I cittadini hanno due scelte possibili: accettare passivamente obbedendo e
senza farsi troppe domande, o fare di tutto per capire e cercare l’esatta
collocazione di tali confini. L’obbedienza è la virtù principale richiesta ad ogni
buon musulmano e ogni buona musulmana. La stessa parola araba Islàm significa
‘sottomissione’, ‘obbedienza’ a Dio. La piccola Fatima, pur accettando di
obbedire, decide di impegnarsi a cercare questi confini.
But since then, looking for the frontier has become my life’s occupation. Anxiety
eats at me whenever I cannot situate the geometric line organizing my
powerlessness. (DT, p. 3)
Gli hudùd non sono solo un’immagine mentale, esistono nella realtà
quotidiana, a cominciare dalla casa. Ogni età ed ogni momento della giornata ha i
suoi confini, marcati dalle regole stabilite dai genitori e dal resto dei familiari e
dalla disposizione architettonica, rigorosamente geometrica e simmetrica.
My childhood was happy because the frontiers were crystal clear. The first frontier
was the threshold separating our family’s salon from the main courtyard. I was not
allowed to step out into that courtyard in the morning until Mother woke up, which
meant that I had to amuse myself from 6 a.m. to 8 a.m. without making any noise. I
could sit on the cold white marble threshold if I wanted to, but I had to refrain from
joining in with my older cousins already at play. “You don’t know how to defend
yourself yet,” Mother would say. “Even playing is a kind of war”. (DT, pp. 3-4)
Dalla geometria regolare degli spazi e dell’architettura dell’abitazione è
impossibile sfuggire. Ogni particolare è funzionale a mantenere l’ordine, la
distinzione tra i ranghi, le età ed i generi. Tutto sottostà a regole precise, a
controlli rigidi, perfino le luci delle scale vengono improrogabilmente spente alle
nove di sera da Ahmed, il portinaio, che ne controlla tutti gli interruttori e che
segnala “that everyone on the terrace was going in and all traffic ought to be
officially stopped.” (DT, p. 18).
L’autrice fornisce una descrizione particolareggiata dell’architettura della
casa, delle sue geometrie, delle sue aree e del salone e, soprattutto, degli elementi
che bloccano l’uscita, i muri, le porte, i pesanti battenti e le inferriate alle finestre.
Sembra che ciò che rimane maggiormente impresso alla vista della bambina siano
proprio gli elementi che ostruiscono il passaggio, limitando la libertà di
movimento dei soggetti che vivono all’interno dell’abitazione, e allo stesso tempo
di preservandoli dagli sguardi esterni. L’unico elemento di cui si può fruire senza
filtri è il cielo, ma anch’esso “strictly square-shaped, like all the rest, and solidly
framed in a wooden frieze of fading gold-and-ocher geometric design” (DT, p. 5).
Lo spazio dell’harem è dovunque rigidamente squadrato e ad ogni settore
della casa è stata assegnata una funzione ben precisa, come ben definiti sono i
soggetti che possono muovervisi e usufruirne. La casa ha una pianta squadrata, nel
cui centro si apre il cortile, mentre i quattro lati sono occupati dagli appartamenti
(DT, pp. 5-7). Il cortile è lo spazio pubblico per eccellenza, lo spazio delle
interazioni tra i vari componenti della famiglia, uno spazio non riservato ma che
tutti possono attraversare.
Di fronte all’appartamento della famiglia di Fatima Mernissi è situato quello
della famiglia dello zio, il fratello del padre, di sua moglie e dei loro sette figli.
Alla sinistra è situato l’appartamento della nonna paterna, Làlla Màni, anziana ed
austera signora che non permette ai bambini di camminare sul suo tappeto coi i
piedi bagnati e non ama il chiasso e gli schiamazzi dei bambini. Sul lato destro del
cortile si trova “the largest and most elegant salon of all – the men’s dining room,
where they ate, listened to the news, settled business deals, and played cards” (DT,
p. 7). La casa è costituita di tre piani, più una terrazza, “all whitewashed, spacious,
and invitino” (DT, p. 17). Al terzo piano, di fianco alla terrazza, c’è la piccola e
spoglia stanza di una zia della famiglia, la zia Habiba, relegata lassù perché
annessa alla famiglia non direttamente, ma in qualità di divorziata.
Eppure, in tutta questa perfetta geometria, le cui regole ferree sembrano non
lasciare alcun spazio alla ribellione, alla fuga, alla libertà di movimento, la
narratrice ci indica che esistono vie di fuga, scappatoie segrete o semisegrete,
stanze e stratagemmi che creano uno spazio di evasione.
5.3 Lo spazio della narrazione.
Come sottolinea la critica americana Susan Stanford Freidman nel saggio
“Unthinking Manifest Destiny: Muslim Modernities in Three Continents”,
Like the locked doorway, this interior female space is an architectural representation
of gender relations, in this case the domestic space of intimacy to which women are
confined. Paradoxically, this space is both claustrophobic, but also the site of
women’s storytelling, for which Scheherazade […] is the prototype.
La stanza della zia Habiba, pur piccola e spoglia, attira sempre le donne e i
bambini della famiglia. Non è la stanza, ovviamente, a creare curiosità e desiderio,
bensì la grande abilità della zia a raccontare storie. Il potere della parola e della
narrazione affascina ed incanta, e allo stesso tempo attiva la sua forza in chi
ascolta.
So, on these graceful nights, we could fall asleep listening to our aunt’s voice
opening up magic glass doors, leading to moonlit meadows. And when we awoke in
the morning the whole city lay at our feet. Aunt Habiba had a small room, but a large
window with a view that reached as far as the Northern mountains. (DT, p. 19)
È sufficiente una finestra e il suo panorama a far viaggiare le menti. Ed è
proprio il viaggio della mente che prepara il successivo viaggio reale. La zia
Habiba sa come affascinare e incantare chi l’ascolta, conosce i segreti della
narrazione, perciò si presenta come una moderna incarnazione di Shahrazade,
“Scheherazade’s living avatar”.
She knew how to talk in the night. With words alone, she could put us onto a large
ship sailing from Aden to the Maldives, or take us to an island where the birds spoke
like human beings. Riding on her words, we travelled past Sind and Hind (India),
leaving Muslim territories behind, living dangerously, and making friends with
Christians and Jews, who shared their bizarre foods with us and watched us do our
prayers, while we watched them do theirs. (DT, p. 19)
Il viaggio comincia nella mente, nel pensiero, nell’educazione al viaggio e
all’incontro con altre persone, altri luoghi e altre culture. Il viaggio è non solo
inteso nel suo significato di spostamento geografico, anch’esso importante, ma
come viaggio interiore, alla scoperta delle proprie potenzialità e dei propri
desideri, delle proprie capacità di realizzare sogni e aspirazioni, di sviluppare la
propria personalità senza subire arresti e pressioni dagli altri, dalla società, dalla
tradizione o dalla religione. Basta uno spiraglio, una piccola finestra che
dall’ultimo piano abbraccia un vasto orizzonte per far intravedere all’animo ben
educato tutte le potenzialità che può sviluppare. La stanza della zia Habiba, il
panorama che si allarga fino alle montagne e le storie che vengono raccontate in
quello spazio richiamano da vicino il salotto in cui la professoressa Nafisi tiene il
seminario segreto che costituisce il cuore del romanzo Reading Lolita in Teheran.
Mernissi svela che i racconti della zia Habiba
made me long to become and adult and an export storyteller myself. I wanted to
learn how to talk in the night. (DT, p. 19)
Ed effettivamente, Mernissi, da adulta, diventata sociologa e professoressa
universitaria, mettendo in pratica gli insegnamenti ricevuti nell’infanzia, è riuscita
a realizzare i sogni della bambina che ascoltava le storie meravigliose della zia.
Ha seguito le orme delle eroine delle storie che ascoltava sulla terrazza,
viaggiando per il mondo e raccontando a sua volte storie che, insieme alla storia
delle sue vicende personali, infondono speranza in altre donne. Oltre che le orme
delle eroine delle storie, Mernissi ha seguito le tracce segnate delle donne della
sua famiglia, ha imparato a ricavare spazi di libertà nella rigorosa geometria
concepita, al contrario, per tenere tutto sotto costante controllo e, soprattutto, per
non lasciare spazio al movimento delle donne.
Mernissi ha imparato che non è sufficiente ascoltare le storie per essere una
donna libera, ma è necessario poi mettere in pratica gli insegnamenti che se ne
ricavano. Le rigide geometrie dell’harem, come pure le divisioni in termini
spaziali delle relazioni tra i generi, nel tempo sono state assimilate dalla coscienza
delle donne, interiorizzate a tal punto che le donne hanno finito col perdere la
capacità di pensare che possa esistere un altro ordine delle cose del mondo.
About hudud, Fatima learns that the walls of the harem are only the external
manifestation of the ‘harem within’, the rules and prohibitions that are learned
gradually over time.
5.4 L’harem e Shahrazade.
Lo spazio per eccellenza vietato alle donne è lo spazio pubblico esterno alla
casa-harem.
Our house gate was a definite hudùd, or frontier, because you needed permission to
step in or out. Every move had to be justified and even getting to the gate was a
procedure. (DT, p. 21)
Lo spazio interno all’harem è ben protetto, sia dall’architettura sia dal
portiere che, come un ufficiale di frontiera, controlla costantemente che le regole
di entrata/uscita vengano rigorosamente rispettate.
Our house gate was a gigantic stone arch with impressive carved wooden doors. It
separated the women’s harem from the male strangers walking in the streets.
(Uncle’s and Father’s honor and prestige depended on that separation, we were told.)
Children could step out of the gate, if their parents permitted it, but not grownup
women. (DT, p. 22)
L’intera narrazione di Mernissi ruota attorno all’immagine dell’harem e a
tutto ciò che esso significa e rappresenta. Non a caso il romanzo, narrato in prima
persona, inizia con l’affermazione “I was born in a harem”. Se l’harem è
innanzitutto lo spazio chiuso e sacro, lo è perché che protegge dal nemico, dagli
estranei. Ma la parola “harem” contiene molto più significati, e molto diversi a
seconda di chi la pronuncia. In Scheherazade goes West, or: The European Harem
(L’harem e l’occidente), Mernissi esplora a fondo la realtà dell’harem e le opposte
concezioni che di questo hanno i musulmani, da un lato, e gli occidentali
dall’altro. L’indagine porta la studiosa a prendere in considerazione le
rappresentazioni di harem prodotte da artisti occidentali e musulmani. Ciascun
uomo possiede nella fantasia un harem personale, ma ciò che Mernissi alla fine
scopre è che dietro la diversità delle rappresentazioni occidentali e orientali, vi è
una base culturale diversa, cioè una opposta concezione del rapporto uomo-donna.
La parola ‘harem’ contiene significati molto diversi per gli arabi e per gli
occidentali. Mernissi racconta della sua incredulità le prime volte in cui, girando
per l’Europa per presentare Dreams of Trespass, si sentiva rivolgere, da parte dei
giornalisti europei, domande ironiche e maliziose sull’harem.
Per me, la parola “harem” non solo è sinonimo di famiglia come istituzione, ma non
mi passerebbe mai per la testa di associarlo allo spasso o all’ilarità. Dopo tutto,
l’origine stessa del termine arabo si riferisce, in senso strettamente letterale, al
peccato, alla pericolosa frontiera dove piacere e legge sacra collidono. Harām
significa illecito e peccaminoso. Harām è tutto ciò che è proibito dalle leggi
religiose. L’opposto è halāl, ciò che è permesso. Evidentemente, varcando la
frontiera con l’Occidente, la parola araba harām deve aver perduto questo taglio
peccaminoso, dato che gli occidentali sembrano associarlo all’euforia, all’assenza di
limiti. Per loro, l’harem è un luogo dove il sesso è libero da tutte le ansie. (HO, pp.
15-16)
Nell’immaginario degli occidentali, l’harem “era un festino orgiastico in cui
gli uomini sperimentavano un autentico miracolo: ottenere il piacere sessuale
senza difficoltà o resistenza da parte di donne da loro ridotte in schiavitù” (HO, p.
16). Questa concezione ha fatto presa nell’immaginario di europei e americani.
Pittori famosi come Ingres, Matisse, Delacroix o Picasso hanno dipinto le donne
nell’harem riducendole a odalische, mentre “abili produttori hollywoodiani […]
esibivano succinte danzatrici del ventre, liete di servire i loro padroni” (HO, p.
17). Gli artisti musulmani, al contrario, sono stati molto più realisti nei confronti
della realtà dell’harem, aspettandosi
dalle donne un’acuta coscienza della disparità nell’istituzione dell’harem, e pertanto
una scarsa disposizione a impegnarsi nel soddisfare i desideri dei loro aguzzini. […]
Nelle miniature, così come in letteratura, i musulmani rappresentano le donne come
agenti attive, mentre Matisse, Ingres e Picasso le mostrano nude e passive. (HO, pp.
17-18).
‘Odalisca’ è il termine di origine turca che l’Occidente ha adottato per
designare la schiave dell’harem. Tale termine ha una connotazione spaziale, in
quanto viene da “oda”, che significa “stanza”, dunque odalisca indica “la donna
della stanza”, ovvero la donna schiava (HO, p. 33).
È proprio la concezione opposta della donna e delle sue relazioni con
l’uomo che sta alla base della discrepanza nell’immaginario tra occidentali e
musulmani. I primi si immaginano “sicuri di sé e senza alcuna paura delle donne”
(HO, p. 18), mentre i musulmani si vedono insicuri.
Nelle immagini occidentali dell’harem, le donne non hanno ali, né cavalli, né archi e
frecce. I loro harem dipinti, al contrario di quelli musulmani, non parlano di guerra
tra i sessi, con le donne che resistono, mandano in aria i piani degli uomini e a volte
diventano le padrone del gioco, confondendo Califfi e imperatori. (HO, p. 20).
Le donne musulmane sono immaginate dotate di una forte personalità e
un’acuta intelligenza, ma allo stesso tempo sono temute perché hanno il potere di
destabilizzare l’ordine maschile attraverso la possibilità dell’adulterio. Le qualità
che più attraggono gli uomini arabi verso le donne sono, spiega Mernissi, non
tanto la bellezza fisica, quanto le abilità di intrattenitrici nello scambio della
comunicazione.
La loro [degli occidentali] Shahrazad mancava della più potente arma erotica che la
donna possieda, il nutq, la capacità di tradurre il pensiero in linguaggio e di
penetrare il cervello di un uomo iniettandovi dei termini accuratamente selezionati.
La Shahrazad orientale non danzava […]. Non faceva altro che pensare e infilare,
parola per parola, storie che avrebbero dissuaso il marito dall’ucciderla. […] La
Shahrazad orientale è puramente cerebrale e questa è l’essenza della sua attrazione
sessuale. Nelle storie originali quasi non si fa menzione dell’aspetto fisico di
Shahrazad; ciò che, invece, viene reiteratamente sottolineata è la sua cultura. La sua
unica danza è il gioco del linguaggio nel cuore della notte; per dirla in arabo, samar.
Samar è una delle molte parole arabe cariche di sensualità; significa semplicemente
parlare nella notte. (HO, p. 3).
Si spiega così quanto Mernissi afferma in Dreams of Trespass, – dove
ricorda che da bambina il suo sogno, oltre che di percorrere grandi distanze e
incontrare altre culture e gente straniera, era quello di imparare a parlare nella
notte, come la zia Habiba (DT, p. 19). Per una donna, possedere una tale abilità
significava poter raggiungere la felicità, per la raggiunta capacità di stregare gli
uomini con la magia della parola. Mernissi continua sottolineando che, nel mondo
arabo, il rapporto erotico tra un uomo e una donna ha origine dalla sensualità delle
parole, poiché nasce dal piacere del dialogo e della comunicazione tra i due esseri.
La donna è valorizzata per le qualità intellettuali che possiede: “negli harem
musulmani, veri o immaginari che siano, il confronto cerebrale con le donne è
necessario a raggiungere l’orgasmo” (HO, p. 25).
In un certo senso, l’adulterio o, meglio, la possibilità dell’adulterio della
donna è una sorta di potere preventivo che questa ha per rovesciare l’ordine
stabilito dall’uomo. L’adulterio è alla base delle vicende che fanno da quadro alle
Mille e una notte, dove l’ira del sovrano Shahryar è scatenata proprio dalla
scoperta che la moglie l’aveva tradito con uno schiavo. Questo tradimento, spiega
Mernissi,
sembra condensare la tragedia dell’harem: il fatale bisogno della donna di rovesciare
la gerarchia costruita dal marito che l’ha rinchiusa, schierandosi e accoppiandosi con
il suo schiavo maschio. Il tradimento del marito da parte della donna è implicito
nella stessa struttura dell’harem. Sono proprio le gerarchie costruite dagli uomini, e
le frontiere erette per dominare le donne, che hanno determinato il loro fatale
comportamento. Nelle scene dei crimini legate all’adulterio, presenti nelle Mille e
una notte, le frontiere dell’harem si rivelano porose, fragili, facilmente aggirabili,
cancellabili: gli uomini possono vestirsi da donne e andarsene in giro senza essere
notati. (HO, p. 42).
Nella stessa istituzione dell’harem è dunque presente il seme della
trasgressione dei suoi limiti e delle sue regole. È come dire che le gerarchie sono
fatte per essere rovesciate, le frontiere per essere trasgredite e le porte dell’harem
forzate. Ciò è possibile proprio grazie all’ingegno e all’intelligenza delle donne,
che gli uomini cercano di tenere a freno con mura, sbarre e limiti.
L’adulterio, però, non è l’arma più adatta a ribellarsi alle gerarchie imposte
dagli uomini. La storia della Mille e una notte lo dimostra: la moglie del re fallisce
nella sua rivolta poiché viene fatta uccidere dal marito. L’importante
insegnamento che Shahrazade offre alle donne tutte, non solo musulmane, è che
“il solo uso del corpo, ovvero del sesso privo della mente, non aiuta minimamente
la donna a cambiare la sua situazione” (HO, p. 47). La ribellione della prima
moglie del sultano era fallita perché si era limitata ad una politica del corpo e del
sesso, concedendosi ad uno schiavo. Così facendo, la donna aveva limitato la sua
opposizione all’interno della logica stabilita dal marito e si era intrappolata da sola
nella posizione di schiava legata al corpo e, perciò, perdente. Non era sul piano
della politica del corpo che la donna avrebbe dovuto ribellarsi, ma avere la forza
di rovesciare tale logica, ed imporne una propria, come è riuscita a fare
Shahrazade.
Shahrazad insegna alle donne che la sola arma efficiente alla loro portata è coltivare
l’intelletto, acquisire conoscenza e aiutare gli uomini a liberarsi del loro narcisistico
bisogno di semplificata omogeneità. C’è bisogno di confrontarsi con il diverso, e di
insistere sui limiti da riconoscere e rispettare, perché un dialogo possa almeno avere
inizio. Per imparare ad apprezzare la fluidità di un dialogo bisogna accettare che il
risultato della battaglia non sia rigidamente prefissato, che vincitori e perdenti non
siano definiti già in partenza. (HO, p. 47).
La storia di Shahrazade insegna al mondo contemporaneo che le donne, nel
mondo musulmano non sono recluse e velate perché considerate deboli, bensì
perché sono temute dalle gerarchie degli uomini come soggetti che, se lasciati
liberi di muoversi e di esprimersi a piacimento, saranno in grado di sovvertire
l’ordine delle cose imposto da chi detiene e vuole mantenere il potere e lo status
quo.
L’Islam, infatti, come cultura e come sistema legale, è intriso dell’idea che il
femminile sia un potere incontrollabile, ed è per questo che assistiamo agli
appassionati, se non isterici, dibattiti sui diritti delle donne nei parlamenti
musulmani, dall’Indonesia a Dakar, perché le donne sono l’emblema stesso della
differenza. Qualunque dibattito sulla democrazia è un dibattito sul pluralismo. E
nessun dibattito sul pluralismo può aver luogo nella società musulmana senza
focalizzarsi ossessivamente sulle donne, perché sono loro che rappresentano l’altro,
il diverso, lo straniero all’interno della Umma, la comunità musulmana. (HO, pp. 2122).
Le donne destabilizzano l’ordine degli uomini per la loro diversità. Nella
società musulmane, sono costrette a rendersi invisibili, a nascondere la propria
diversità dietro un muro, una finestra, un velo, per mantenere agli occhi di guarda
dall’esterno la finzione dell’omogeneità della Umma. L’harem serve a celare la
donna agli occhi degli estranei, a nasconderla a sguardi indiscreti, come pure a
proteggerla, preservando, insieme all’incolumità della donna, anche l’onore del
marito. Mentre i bambini possono attraversare il pesante portone dell’harem, le
donne adulte non possono farlo, perché la strada è il luogo dove la donna può
incontrare lo sguardo degli altri uomini, e questi potrebbero voler interagire con
lei. Un mezzo usato per difendere e preservare la donna da questi contatti con i
soggetti maschili è il velo. Il velo è un harem mobile. Il velo da indossare
ogniqualvolta si esca dallo spazio domestico e si vada per strada, che spazio
pubblico per eccellenza, nasconde, o protegge la donna come una sorta di muro
mobile metaforico. Sì che la donna velata porta nello spazio esterno la stessa
separazione che vive all’interno delle mura domestiche.
Le donne musulmane vivono questo paradosso: da un lato l’Islam predica il
principio basilare dell’uguaglianza e dall’altro lato, le donne vivono una
condizione di profonda disuguaglianza sessuale.
Nessuno contesta il principio, considerato divino, dell’uguaglianza tra uomo
e donna:
Anche i più estremisti non osano argomentare che le donne sono inferiori, e le donne
musulmane sono allevate con un forte senso dell’eguaglianza quale maggiore virtù
dell’Islam. (HO, p. 23).
Grazie a tale principio alcune donne sono riuscite a farsi largo e conquistarsi
un proprio spazio pubblico e politico diventando leader politici, come ad esempio
Benazir Bhutto nel Pakistan.
Ma alle donne “viene […] attribuita una condizione minoritaria che ne
restringe i diritti legali, negando loro l’accesso allo spazio decisionale” (HO, p.
22). Sono gli uomini che stabiliscono e modificano le leggi, come pure è a loro
che spetta l’interpretazione del testo sacro.
Le donne, nel mondo islamico, sono mantenute in una condizione
minoritaria anche perché sono temute dagli uomini. L’indagine di Mernissi,
tuttavia, non si limita a illustrare il mondo delle donne islamiche ma pone il
lettore e la lettrice occidentali (per loro è scritto il libro, infatti) di fronte ad uno
specchio, in cui vedono riflessi se stessi e la loro cultura, visti attraverso il filtro
speciale degli occhi di una straniera. La sociologa marocchina rovescia il giudizio,
ilare e negativo, che l’Occidente è solito dare dell’harem e della cultura
musulmana, soprattutto per quanto concerne la condizione femminile. Individua
altresì un harem più subdolo e impalpabile in cui sono racchiuse le donne
occidentali. L’harem delle donne occidentali, sentenzia Mernissi, è la taglia 42!
(HO, p. 170).
Mentre l’uomo musulmano usa lo spazio per stabilire il dominio maschile
escludendo le donne dalla pubblica arena, l’uomo occidentale manipola il tempo e la
luce. Egli dichiara che la bellezza, per una donna, è dimostrare quattordici anni. Se
osi dimostrarne cinquanta, o peggio sessanta, sei inaccettabile. Puntando il riflettore
sulla donna bambina e mettendola in cornice come ideale di bellezza nelle proprie
immagini, egli condanna la donna matura all’invisibilità. […] Le donne devono
apparire belle, ovvero infantili e senza cervello. Se una donna appare matura e sicura
di sé, e pertanto permette ai suoi fianchi di espandersi come i miei, è condannata a
essere brutta. (HO, p. 173)
Mernissi giudica “questo chador occidentale definito dal tempo” ancora
“più pazzesco di quello definito dallo spazio” (HO, p. 174) e ancora più
pericoloso perché invisibile e “mascherato da scelta estetica” (HO, p. 174).
Gli atteggiamenti degli occidentali sono decisamente più pericolosi e sottili di quelli
musulmani, perché l’arma usata contro la donna è il tempo. Il tempo è meno visibile,
più fluido, dello spazio. […] Gli Ayatollah mettono l’accento su di te come donna,
insistendo sul velo.
Qui [a New York], se hai i fianchi larghi, sei semplicemente fuori dal quadro.
Scivoli nel margine della nullità. Puntando il riflettore sulla femmina preadolescente,
l’uomo occidentale vela le donne più vecchie, quelle della mia età, avvolgendole nel
chador della bruttezza. Questa idea mi dà i brividi, perché trasforma l’invisibile
frontiera in un marchio impresso direttamente sulla mia pelle. (HO, p. 174)
Nel mondo musulmano, quindi, è lo spazio ad essere manipolato per privare
le donne dei loro diritti sociali, civili, politici ed economici, che corrisponde alla
manipolazione del tempo nelle regioni occidentali. Sono due sistemi che gli
uomini hanno escogitato per ottenere il medesimo scopo, relegare le donne
nell’impotenza decisionale, nella marginalità e nell’invisibilità.
Il tempo è usato contro le donne a New York allo stesso modo in cui a Teheran lo
spazio è usato dagli Ayatollah iraniani: per far sentire le donne non gradite e
inadeguate. L’obiettivo rimane identico in entrambe le culture: le donne occidentali
che consumano il tempo, guadagnano esperienza con l’età e divengono mature, sono
dichiarate brutte dai profeti della moda, proprio come le donne iraniane che
consumano lo spazio pubblico. (HO, p. 174)
Lo spazio, in conclusione, è l’elemento che viene manipolato dagli uomini
nelle regioni arabo-musulmane per tenere sotto controllo le donne, per escluderle
dalla gestione della cosa pubblica, della legge e di qualsiasi regola che riguardi la
società, la famiglia, la politica. Relegando le donne fuori da ogni spazio pubblico,
in cui è compreso anche lo spazio politico e decisionale, le donne sono mantenute
in una sorta di esilio: esilio dalla possibilità di accedere al potere, esilio dalla
possibilità di incidere sulle decisioni in materia giuridica. Pur essendo
direttamente interessate dalle decisioni dei legislatori, le donne sono escluse dal
prender parte al processo legislativo. Vivono nel chiuso delle pareti domestiche, al
confino dalla vita sociale, economica e politica del paese. Si tratta di un vero
esilio interno, una messa al bando dal potere che si realizza non attraverso
l’allontanamento geografico degli individui scomodi (come nel più classica delle
concezioni dell’esilio), bensì di un confino all’interno del tessuto sociale.
Allo stesso tempo, questo spazio dell’esilio è anche lo spazio da cui si
origina e muove la ribellione delle donne musulmane. Ogni ribellione si attua,
ovviamente, rovesciando dalla prima causa di oppressione, per cui l’oppressione a
livello spaziale si combatte con la creazione o la conquista di un proprio spazio di
azione. Come spiega Susan Stanford Friedman, le radici del femminismo e della
ribellione delle donne si rintracciano all’interno dell’harem, nello spazio
dell’esilio a cui la cultura islamica condanna le donne.
[…] the roots of Mernissi’s feminism lie indigenously within the harem, within the
restrictions against which the women rebelled, within the space where she learned
how to remake the world with words, like Scheherazade.
Per le scrittrici islamiche imparare a volare significa parlare nella notte,
ovvero gestire e calcolare la forza della parola e della narrazione. Per tutte, però,
esiste una sola via che porta alla narrazione libera: l’ istruzione. Già camminare
sulla strada per andare a scuola, significa il primo attraversamento di frontiera,
l’inizio della conquista dello spazio aperto e dei luoghi pubblici.
CAPITOLO 6.
“MY HOUSE HAD A MAGIC DOOR”.
ELMAZ ABINADER, DONNA ARABO-AMERICANA
TRA DUE MONDI.
Dal pesante portone dell’harem descritto da Fatima Mernissi spostiamo lo
sguardo su un’altra porta, un’altra soglia. Quelle della casa di Elmaz Abinader ,
che ci racconta una storia diversa da quella vissuta nel Marocco degli anni 1940.
Emigrata dal Libano negli Stati Uniti con la sua famiglia, Elmaz Abinader è
narratrice, poeta ed artista. Nel breve racconto autobiografico Just Off the Main
Street, Elmaz Abinader racconta della sua esperienza di emigrata dal mondo arabo
al mondo occidentale. Diversamente da Mernissi, che racconta la sua vita sul
suolo del Marocco come esperienza d’esilio, per Abinader all’esilio proprio della
donna nella cultura islamica si aggiunge l’esilio associato all’emigrazione e quindi
al cambiamento dello spazio nazionale. Gli spazi che popolano la vita della
giovane Elmaz sono, dunque, inseriti in due differenti contesti nazionali: lo spazio
domestico, la casa, è come se fosse ancora parte integrante del Libano, mentre lo
spazio esterno, pubblico, è sentito come lo spazio dell’America e dell’americanità.
L’identità e la vita di Elmaz Abinader sono rappresentati, quindi, come duplice
specchio delle due anime delle culture in cui vive o ha vissuto, unite e tuttavia
distinte dal trattino. Il trattino, in inglese hyphen, è quel segno linguistico che
“simultaneously separates and connects, contests and agrees”.
L’esperienza di Abinader può essere definita come “life on the hyphen”
poiché questa scrittrice arabo-americana fa parte di quella categoria di scrittori che
possono essere definiti hyphenated-Americans. Tale locuzione sintetizza la
situazione di quanti emigranti, esiliati o espatriati, vivono la loro esperienza come
un continuo attraversamento di frontiere e una continua negoziazione tra due terre,
sue culture, due modi distinti di guardare alla vita. La vita “on the hyphen”,
inoltre, è caratterizzata anche dal costante attraversamento della frontiera
linguistica.
Nella Parte I di questo lavoro si è detto, infatti, che, in qualsiasi movimento
che coinvolge l’attraversamento di frontiere nazionali è implicito lo spostamento
da uno spazio linguistico ad un altro. Il racconto della scrittrice libano-americana
è anche un racconto della coabitazione, o compresenza, di due lingue differenti nel
corpo del soggetto che attraversa le frontiere nazionali.
Nel suo studio sulle letterature dell’esilio, Writing Outside the Nation, Azad
Seyhan definisce la vita sul luogo in cui due culture-luoghi-lingue si uniscono e
separano come vita senza possibilità di ritorno:
Almost all the writers discussed in this study express the sentiment that neither a
return to the homeland left behind nor being at home in the host country is an option.
They need an alternative space, a third geography. This is the space of memory, of
language, of translation.
La locuzione “life on the hyphen” è quindi metafora che rappresenta la vita
di persone dislocate, che attraversano costantemente la soglia che separa due
culture, due spazi nazionali e due lingue, valicando frontiere sociali, politiche e
linguistiche, in un processo di costante traduzione. È come se tali soggetti
vivessero costantemente in una sorta di borderland, uno spazio in-between,
caratterizzato da scambi, interazioni, dialogo e negoziazione, che spesso
avvengono addirittura non solo all’interno della coscienza individuale, ma nello
spazio del corpo.
Il corpo, dotato di volume, è spazio che occupa uno spazio. Meena
Alexander, una donna asiatico-americana, scrive nel suo trattato poetico Alphabets
of Flesh:
One is marked by one’s body.
Su questo, la studiosa Susan Friedman commenta che “No matter what
passport one carries, the body that looks “foreign” is subject to a variety of gazes –
from the curious and rude to the dangerous and violent”.
Come tutti i tratti visibili del corpo (genere, razza, colore, ecc) anche
l’accento o la pronunzia delle parole sono segni che connotano il corpo. Il corpo è
anche il documento che presentiamo al mondo, la nostra carta d’identità. Di
conseguenza, l’accento con cui pronunciamo le parole delle varie lingue, diventa
un elemento fondamentale di questo documento corporeo. Come afferma Abu
Zayd, l’esilio è prima di tutto una questione linguistica. Per questo, la questione
dell’accento è importante sia nelle esperienze di immigrati ed esuli, sia per chi le
studia.
La porta della casa della famiglia Abinader in Pennsylvania è una porta
magica, che separa due mondi distinti: “When I was young, my house had a magic
door” (JOMS, p. 1). Non ci troviamo più davanti ai massicci battenti dell’harem di
Mernissi che sbarrano, che impediscono l’uscita. Questa soglia viene attraversata
continuamente, quotidianamente, più volte al giorno. Eppure, c’è qualcosa che
non passa, che non può passare attraverso la porta:
My family scenes filled me with joy and belonging, but I knew none of it could be
shared on the other side of that door. (JOMS, p. 3)
Questa magica porta della casa della famiglia Abinader divide due mondi.
All’esterno vi è il mondo della piccola città di provincia della Pennsylvania, con
le sue caratteristiche standard, la banca, i negozi lungo la via principale, tra i quali
vi sono quelli che appartengono alla famiglia della scrittrice. Del mondo esterno
fa parte anche la scuola, il luogo dell’interazione con gli altri bambini.
Al rientro a casa dopo la scuola e dopo aver passato la giornata fuori,
immersa nel mondo americano, una volta attraversata la soglia, Elmaz si trova
immersa in un altro mondo, lontano, in un’altra dimensione. Ad accogliere la
giovane in questo mondo si presentano per primi i profumi della cucina
dell’oriente, con le sue spezie e gli odori caratteristici. I profumi sono dunque il
primo elemento che contraddistingue questo mondo orientale, familiare,
conosciuto e amato, che avvolge l’individuo regalandogli un piacevole senso di
appartenenza e familiarità:
Drawing me from the entrance, down the hall, to the dining room, was one of my
favorite smells. (JOMS, p. 2)
Il profumo è nell’aria, è parte dell’atmosfera che respiriamo; costituisce la
semiosfera del mondo cui apparteniamo. Guidandola e orientandola, il profumo
delle spezie e degli aromi arabi fa reimmergere la giovane Elmaz, nel mondo delle
sue origini.
“Se désorienter, c’est perdre l’est”, scrive l’autrice di origine canadese
Nancy Huston. I profumi arabi, al contrario, orientano, aiutano a far ritrovare il
mondo lontano, l’est per l’appunto. Come una bussola, il profumo guida verso il
centro della casa, la cucina dove la famiglia si riunisce, si nutre. Luogo delle
affettività, la cucina rappresenta amore, affetto familiare, senso di appartenenza.
Cucinare per qualcuno non è solamente un atto finalizzato alla nutrizione; è un
atto di amore, di accoglienza e di condivisione della casa. Come scrive Marsha
Mehran, scrittrice iraniana che ha fatto della cucina persiana la protagonista di un
altro romanzo dell’esilio,
Cooking is a perfect expression of love. When you give of yourself through a dish,
you aren’t just feeding somebody’s physical hunger, but a deeper longing for home,
for a safe place to rest.
Dopo una giornata nel mondo esterno, a scuola, circondata dagli altri
bambini, che non sono come lei, varcando la soglia magica Elmaz si sente a casa.
Lo si comprende da quel “one of my favorite smells”, che esprime tutta la
familiarità che sente permeare la casa e la sua gioia al rientro, mentre le parole
della madre di Elmaz ci raccontano l’affettività e l’amore che regnano nella casa:
By the time I arrived home from school in the afternoon, the house smelled of
Arabic bread and loaves and loaves of the round puffy disks leaned against each
other in rows on the table. She made triangles of spinach pies, cinnamon rolls, and
fruit pies filled with pears from the trees growing on our land. Before greeting me,
she looked up, her face flour-smudged, and said, “There are 68 loaves. You can have
one.” (JOMS, p. 2)
Ancor prima di salutare la figlia, sapendo di farle piacere, la madre le offre
la possibilità di gustare una delle pagnotte che ha preparato.
La voce della madre ci fa immergere nelle sonorità del mondo all’interno
della casa, in quella lingua araba che lo caratterizza:
Behind the magic door, the language shifted as well. Mother-to-daughter orders were
delivered in Arabic – homework, conversations, and the rosary, in the most precise
English possible. (JOMS, p. 3)
Se l’identità, l’appartenenza, le origini sono costituite dalla condivisione di
profumi, sapori e lingua all’interno della casa, all’esterno, sono altri gli elementi
che identificano il soggetto o, meglio, attraverso cui gli altri ci identificano. È
nell’incontro con l’americanità che, per Abinader, l’illusione dell’uguaglianza si
infrange. E’ lo scontro con chi fa notare che si è diversi, che il corpo è marcato a
proiettare una luce inquietante sulle origini e a mettere in dubbio l’interezza
dell’identità acquisita. Il colore della pelle, dei capelli e i peli del corpo sono i
segni esteriori dell’identità, costituiscono la prima carta di identità che viene
esibita e percepita dagli altri:
In these moments of social exchange, the illusion of similarity between me and the
girls on my class floated away, bubble light. Despite sharing the same school
uniform, being in the Brownies, singing soprano in the choir, and being a good
speller, my life and theirs were separated by the magic door. And although my
classmates didn’t know what was behind that portal, they circled me in the
playground and shouted “darkie” at my braids trying to explode into a kinky mop, or
“ape” at my arms bearing mahogany hair against my olive pale skin. (JOMS, p. 2)
Si passa in Abinader dall’illusione dell’uguaglianza (“At that moment,
frozen in second grade, at the threshold of the store, I saw no difference between
my father, uncle, and the people who passed by” (JOMS, p. 2) alla forzata presa di
coscienza della propria differenza a causa dei commenti dei bambini a scuola.
Non solo i tratti somatici, ma anche il modo di parlare, l’accento sono
caratteristiche che possono svelare, tradire la differenza:
Looking different was enough; having a father with a heavy accent already marked
me, dancing in circles would bury me as a social outcast. (JOMS, p. 3)
Avere un padre che parla la lingua del luogo con un forte accento diventa un
marchio della differenza. Gli stranieri che si ritrovano a vivere, per svariati motivi,
in una nuova terra, spesso hanno voglia di nascondere la propria differenza, di
sbarazzarsi più o meno dei tratti che tradiscono l’origine, e lo fanno imitando i
gesti, i movimenti, il modo di vestire degli abitanti del luogo. Nonostante tutti gli
sforzi, la lingua rimane un elemento quasi impossibile da imitare perfettamente.
Come spiega la scrittrice Nancy Huston, originaria del Canada anglofono che vive
in Francia e scrive i suoi romanzi in francese, lo straniero imita, si ingegna a
mettersi una maschera per integrarsi al meglio, confondersi tra gli altri:
Dans le théâtre de l’exil, on peut se “dénoncer” comme étranger par son apparence
physique, sa façon de bouger, de manger, de s’habiller, de réfléchir et de rire. Petit à
petit, consciemment ou inconsciemment, on observe, on s’ajuste, on commence à
censurer les gestes et les attitudes inappropriés… Mais le plus gros morceau, si l’on
aspire à se fondre dans la masse d’une population nouvelle, c’est bien évidemment la
langue.
Ma la lingua resterà quasi sempre impossibile da imitare al cento per cento;
per quanto uno si sforzi, ci sarà sempre una minima traccia che svelerà la vera
identità di chi ha commesso quel piccolo errore:
L’étranger, donc, imite. Il s’applique, s’améliore, apprend à maîtriser de mieux en
mieux la langue d’adoption… Subsiste quand même, presque toujours, en dépit de
ses efforts acharnés, un rien. Une petite trace d’accent. Un soupçon, c’est le cas de le
dire. Ou alors une mélodie, un phrasé atypiques… une erreur de genre, une
imperceptible maladresse dans l’accord des verbes… Et cela suffit. Les Français
guettent… ils sont tatillons, chatouilleux, terriblement sensibles à l’endroit de leur
langue… c’est comme si le masque glissait… et vous voilà dénoncé ! On
entraperçoit le vrai vous que recouvrait le masque et l’on saute dessus : Non, mais…
vous avez dit « une peignoire » ? « un baignoire » ? « la diapason » ? « le guérison »?
J’ai bien entendu, vous vous êtes trompé? Ah, c’est que vous êtes un alien ! Vous
venez d’un autre pays et vous cherchez à nous le cacher, à vous travestir in Français,
en francophone… Mais on est malins, on vous a deviné, vous n’êtes pas d’ici…
La coscienza della differenza dà, all’inizio, un senso di solitudine - “It was
dizzying and my stomach squirrel-squealed in loneliness” (JOMS, p. 2) -, ma alla
fine l’esclusione passiva, cioè il fatto di subire l’esclusione, si rovescia, diventa
un’esclusione attiva. Se, da un lato, gli altri non riconoscono Elmaz come una di
loro, nello stesso momento sono questi ultimi a diventare estranei/esterni al suo
mondo. Non conoscono il mondo racchiuso dalla “magic door”, né tanto meno il
mondo più vasto che esso rappresenta, il mondo dell’Oriente:
When Arabic bread comes out of the oven, it is filled with air and looks like a little
pillow; as it cools, the bread flattens to what Americans recognize as "pita" bread.
(JOMS, p. 2)
Ciò che passa dell’Oriente e dell’arabità nel mondo Americano è qualche
immagine, qualche prodotto, ma solo in una forma standardizzata: solo dopo che
il pane si è raffreddato e appiattito, gli americani sono in grado di riconoscerlo,
solo dopo, cioè, che questo ha assunto una forma fruibile, identificabile con un
prodotto acquistabile al supermercato, al quale è stato assegnato un nome
americano; in un certo senso, solo dopo che il pane è stato ‘depurato’ dall’arabità
d’origine, e americanizzato come “pita bread”!
L’appartenenza e il riconoscimento delle origini diventa orgoglio. Ma
sembra sempre che il proprio mondo dell’arabità sia rinchiuso, circoscritto: come
prima lo era all’interno della porta magica, all’Università Abinader lo ritrova in
una tra le stanze dette ‘nazionali’. Si tratta della Syria-Lebanese Room, la stanza
siriano-libanese che rimane chiusa a chiave, visitabile solo dietro esplicita
richiesta. È una stanza bellissima, ricca, lussuosa. Abinader si sente orgogliosa di
appartenere a quel mondo, di farne parte, mentre la maggior parte dei suoi colleghi
e colleghe americani ne sono esclusi:
At the moment we entered, our breath froze. The room was covered in Persian rug
designs, glass multi-colored lights, brass tables, and cushions against the wall around
the perimeter. It was lush and exotic and suddenly the pride of being associated with
this palace worked its way inside of me. In charge of my own identity in college, I
announced my heritage, wrote about my grandmother, cooked Arabic food for my
friends, and played the music of Oum Khalthoum at gatherings at my house. (JOMS,
p. 4)
Tutta questa passione per mostrare le origini e la propria identità alla fine
non serve ad altro che a rendere Abinader esotica:
It wasn’t long before I understood that my display of my Arab-ness served to
exoticize me. (JOMS, p. 4)
Pur essendo diventata scrittrice, la sua scrittura avveniva ancora “inside the
door” (JOMS, p. 4), il che la escludeva dal mondo circostante (“I did not feel
welcome outside the door” (JOMS, p. 4). Ritrova una comunità con scrittori e
artisti americani di colore. Individui con una personalità doppia, scissa tra due
lingue, due culture, due nazioni si ritrovano in una comunità che si interroga
costantemente su questioni comuni:
I found African-American, Latino, Native American writers, whose voices
resounded about some of the same issues: belonging, identity, cultural loneliness,
community, and exoticization. (JOMS, p. 4)
La soluzione che trova, alla fine, come scrittrice, come attivista e come
donna, sta non nell’escludere un mondo a favore dell’altro. È nella negoziazione,
nel compromesso, nella dualità, nella doppia sensibilità che, giorno dopo giorno,
un soggetto può ritrovare la propria casa, l’appartenenza. È l’appartenenza alla
comunità di scrittori e artisti americani di colore che le fa ritrovare il senso di
sicurezza:
I found a community: American writers and artists of color often travel the same
terrain as I do, living with dual sensitivities, negotiating where one culture I inhabit
conflicts with my other culture, looking for a place that is home. (JOMS, p. 5)
“Home” è nell’abitare la frontiera, nel vivere il conflitto, nello spazio-tradue. Le persone che hanno da tempo abitato questo spazio conflittuale e ambiguo
hanno sviluppato una doppia sensibilità, sono abituate a fare i conti costantemente
con i due spazi opposti. Ed è proprio in quello spazio-tra-due che si sentono “a
casa”, in uno spazio, cioè, che permette una tensione continua dell’individualità,
uno spazio che fa si che ci si rimetta sempre in discussione. Tale è la condizione
della persona scissa in due che descrive Nancy Huston:
“Ah, me dis-je, cette personne est cassée un deux; elle a donc une histoire.” Car celui
qui connaît deux langues connaît forcément deux cultures aussi, donc le passage
difficile de l’une à l’autre et la douloureuse relativisation de l’une par l’autre. Et ça a
toutes les chances d’être quelqu’un de plus fin, de plus « civilisé », de moins
péremptoire que les monolingues impatriés.
La fine della storia ci porta in un villaggio tranquillo, dove gli abitanti
lasciano le porte aperte, metafora dell’accoglienza e dell’assenza di paure verso
l’altro. Dove gli abitanti hanno imparato ad attraversare quella soglia, a lasciare
che il mondo fuori e il mondo dentro si mescolino, dialoghino tra loro:
I have a new small town. It's not anywhere in particular, or maybe it's everywhere. In
this village, people live with their doors open, moving back and forth over the
threshold of what has been exclusive to what will some day be inclusive.
CAPITOLO 7.
GLI SPAZI DELL’ESILIO E DEL RITORNO IN READING
LOLITA IN TEHRAN DI AZAR NAFISI E PERSEPOLIS DI
MARJAN SATRAPI.
Il romanzo Reading Lolita in Tehran della scrittrice iraniana Azar Nafisi
racconta di un altro spazio della narrazione e dell’esilio. Nafisi, professoressa
universitaria iraniana, è emigrata negli Stati Uniti quando la situazione privata e
professionale in Iran le è divenuta insostenibile a causa delle sempre maggiori
ingerenze dei “guardiani dell’Islam” nella vita dei cittadini e in particolare delle
donne. Gli Stati Uniti fanno dunque da sfondo all’esilio di Azar Nafisi, e si
contrappongono all’Iran, la patria tanto desiderata ma perduta.
L’esilio dell’autrice costituisce la cornice del romanzo Reading Lolita in
Tehran. Spazio e tempo sono le coordinate fondamentali attorno a cui ruotano le
vicende autobiografiche dell’autrice, che si intrecciano indissolubilmente alle
vicende pubbliche e politiche della Repubblica dell’Iran. Il romanzo comincia con
i fatti che si sono svolti nel 1995, ossia in un tempo passato rispetto al presente in
cui vive l’autrice, al qui e ora della sua vita negli Stati Uniti. Le vicende narrate si
riferiscono al biennio che va dal 1995 al 1997, anni durante i quali Nafisi
organizza e tiene un seminario segreto di letteratura inglese e americana nel
salotto della propria casa per sette delle sue migliori studentesse dell’Università di
Teheran. Si è ormai ritirata dall’insegnamento pubblico perché non accetta le
imposizioni dei capi religiosi e in questo modo, pur di nascosto continua ad
esercitare la sua funzione di docente, che è anche funzione di critica del sistema
vigente. Il romanzo si sviluppa attraverso un continuo movimento avanti e
indietro nel tempo, con salti temporali nel passato e nel futuro che colmano i vuoti
narrativi e forniscono al lettore informazioni più dettagliate sui vari personaggi
che via via si incontrano. Il biennio si chiude con la partenza di Nafisi dall’Iran.
Il romanzo autobiografico, basato sul sostrato di realtà, si intreccia con la
fantasia: l’autrice chiarisce che “the facts in this story are true insofar as any
memory is ever truthful” (RLT, “Author’s note”), ma nello stesso tempo i tratti dei
singoli personaggi sono confusi e mischiati, per proteggere “friends and students,
baptizing them with new names and disguising them perhaps eve from
themselves, changing and interchanging facets of their lives so that their secrets
are safe” (RLT, “Author’s note”). Dunque, il primo piano spaziale che si individua
nel romanzo è a livello transnazionale, e riguarda la contrapposizione di due
luoghi nella mappa del mondo l’Iran e Stati uniti, e di due tempi, il presente e il
passato. Gli Stati Uniti rappresentano il qui e ora, il momento della scrittura.
Here and now in that other world that cropped up so many times in our discussions, I
sit and reimagine myself and my students, my girls as I came to call them reading
Lolita in a deceptively sunny room in Tehran. (RLT, p. 6)
L’Iran rappresenta il laggiù e l’allora, che rivive attraverso i ricordi, la
memoria. Implicita nella narrazione del passato c’è dunque la concezione che la
parola e la scrittura hanno il potere di rievocare, di far rivivere il passato, le
persone conosciute, incontrate e amate. Tale potere lo hanno sia le parole delle
opere letterarie studiate durante il seminario, sia il romanzo di Nafisi. Per questo
motivo spesso l’autrice, nel corso della narrazione, si rivolge direttamente al
lettore, a cui chiede di provare ad immaginare realmente il gruppo dei personaggi.
I need you, the reader, to imagine us, for we won’t really exist if you don’t. (RLT, p.
6)
Su un altro piano, si individua un altro luogo, quello più intimo e familiare,
lo spazio della stanza dove si tiene il seminario, ogni giovedì mattina. Manna, una
delle ragazze del gruppo, aveva proposto di intitolare il seminario “a space of our
own”, in onore e memoria di Virginia Woolf, “a sort of communal version of
Virginia Woolf’s room of her own” (RLT, p. 12). Il salotto diventa lo spazio per sé
che le componenti del gruppo riescono a ricavare nello spazio politico dell’Iran,
che, trasformatosi in Repubblica Islamica nel 1979, le aveva escluse dalla cosa
pubblica. Le ragazze cercano di sottrarsi alla loro condizione di esiliate in patria,
attraverso l’alternativa di una scelta che le vede libere nel chiuso del salotto.
Questo spazio, benché chiuso, attraverso la lettura dei libri proibiti, si trasforma
per loro in una soglia verso un mondo di libertà, una porta magica che si apre su
un altro mondo. L’altro mondo è, in primo luogo, il nuovo mondo, l’America così
come viene percepita attraverso le letture dei romanzi e immaginata quale terra di
libertà e democrazia.
Il salotto racchiuso dalle quattro pareti rappresenta, per traslazione
metaforica, uno spazio infinitamente aperto, che abbraccia infiniti altri mondi
quanti sono i libri letti dalle ragazze. Se lo spazio fisico è limitato dalle quattro
pareti, quello immaginario infatti si allarga all’infinito, si estende fino
all’orizzonte, e diventa termine oppositivo per quello spazio che sta al di là delle
pareti e che dovrebbe essere più ampio, l’Iran, ma che in realtà opprime e limita le
libertà dei cittadini.
The second photograph belonged to the world inside the living room. But outside,
underneath the window that deceptively showcased only mountains and the tree
outside our house, was the other world, where the bad witches and furies were
waiting […]. (RLT, p. 24)
Vi sono due “altri” mondi, collegati dal filo invisibile delle parole delle
opere della letteratura e dall’opera dell’immaginazione. Lo spazio della stanza del
seminario è uno spazio democratico e libero, racchiuso nello spazio
dell’oppressione e della censura che l’Iran è diventato. Ma “altro” è un termine di
relazione, oltre che un termine oppositivo, e ‘l’altro’ mondo sarà, di volta in volta,
il salotto o l’Iran, a seconda del punto di vista del momento:
How can I create this other world outside the room? I have no choice but to appeal
again to your imagination. (RLT, p. 26)
Per riuscire a sopportare di vivere in quell’oppressione, le ragazze cercavano
qualsiasi via di fuga, qualsiasi spiraglio che potesse presentarsi.
An absurd fictionality ruled our lives. We tried to live in the open spaces, in the
chinks created between that room, which had become our protective cocoon, and the
censor’s world of witches and goblins outside. Which of these two worlds was more
real, and to which did we really belong? We no longer knew the answers. Perhaps
one way of finding out the truth was to do what we did: to try to imaginatively
articulate these two worlds and, through that process, give shape to our vision and
identity. (RLT, p. 26)
Una finestra o una crepa nel muro era uno spazio sufficiente per fuggire, per
mettere una distanza tra loro e il regime degli Ayatollah. È necessario crearsi uno
spazio, una distanza dal quel “mondo del censore”, per costruirsi una propria vita
e una propria identità. Anche qui ritroviamo quello spazio in-between di cui parla
Homi Bhabha, l’unico spazio che possa fornire la forza per cambiare.
Per creare tale spazio è necessario mettere una certa distanza tra se stessi e
lo spazio dal quale ci si vuole distaccare o da cui si vuole fuggire. Si tratta della
distanza che l’esilio è capace di creare, sia l’esilio di chi prende le valigie e se ne
va, sia quello di chi rimane e si crea uno spazio all’interno e chiuso:
Perhaps it is only now and from this distance, when i am able to speak of these
experiences openly and without fear, that I can begin to understand them and
overcome my own terrible sense of helplessness. In Iran a strange distance informed
our relation to these daily experiences of brutality and humiliation. There, we spoke
as if the events did not belong to us; like schizophrenic patients, we tried to keep
ourselves away from that other self, at once intimate and alien. (RLT, p. 74)
La distanza, sia geografica sia temporale data dall’esilio offre la possibilità
della scrittura. Questa distanza le permette di guardare con il distacco necessario
alla propria condizione presente e passata, di vedere il valore relativo delle cose e
delle esperienze.
Car ses hôtes dédaigneux n’ont pas la distance qu’il possède, lui, pour se voir et les
voir. L’étranger se fortifie de cet intervalle qui le décolle des autres comme de luimême et lui donne le sentiment hautain non pas d’être dans la vérité, mais de
relativiser et de se relativiser là où les autres sont en proie aux ornières de la
monovalence.
Ma prima di ricercare l’isolamento, le ragazze del seminario, come le altre
donne iraniane, erano state espropriate della propria identità e del proprio passato,
ridotte a esuli nel proprio paese.
These students, like the rest of their generation, were different from my generation in
one fundamental aspect. My generation complained of a loss, the void in our lives
that was created when our past was stolen form us, making us exiles in our own
country. Yet we had a past to compare with the present; we had memories and
images of what had been taken away. But my girls spoke constantly of stolen kisses,
films they had never seen and the wind they had never felt on their skin. This
generation had no past. Their memory was of a half-articulated desire, something
they had never had. (RLT, p. 76)
Le due generazioni di donne, comunque, pur nella loro diversità, sono
accomunate dal senso di mancanza, di assenza, che come si è visto nella Parte I di
questo lavoro, è un elemento che caratterizza da vicino ogni esperienza di esilio.
Nafisi stessa, dalla lontananza del suo esilio statunitense, scrive: “This is Tehran
for me: its absences were more real than its presences” (RLT, p. 5). La distanza è
necessaria per creare quel distacco attraverso il quale guardare alla patria, al
popolo che si è lasciato in modo oggettivo e meno coinvolto. Allo stesso tempo,
come si è detto, gli esuli sono presi dalla nostalgia della casa e della patria, che
non li abbandona mai.
[… ] the picture of home loomed large. It was mine and I could constantly conjure it,
and relate to the world through its hazy image. (RLT, p. 86)
L’immagine della patria è un’immagine confusa, la nostalgia riempie la
distanza che separa di nebbia e distorce i ricordi e la percezione del presente
vissuto in quella terra. Nell’esilio, le informazioni e le notizie dalla patria
giungono filtrate dai media o dagli scambi epistolari con amici e parenti, non sono
informazioni di prima mano. La distanza, dunque, può falsare la percezione della
realtà, non sempre renderla più chiara.
There were discrepancies, or essential paradoxes, in my idea of “home”. There was
the familiar Iran I felt nostalgic about, the place of parents and friends and summer
nights by the Caspian Sea. Yet just as real was the other, reconstructed, Iran about
which we talked in meeting after meeting, quarrelling about what the masses in Iran
wanted. (RLT, p. 86)
L’esule rimpiange i luoghi, le persone, i sapori e l’atmosfera della patria e
della casa abbandonate e a volte cerca di ricreare quel mondo, trasportarlo nel
nuovo mondo, per renderlo un po’ meno estraneo, per sentirsi un po’ più a casa
propria.
During my first years abroad – when I was in school in England and Switzerland,
and later, when I lived in America, I attempted to shape other places according to my
concept of Iran. I tried to Persianize the landscape and even transferred for a term to
a small college in New Mexico, mainly because it reminded me of home. You see,
Frank and Nancy, this little stream surrounded by trees, meandering its way
through a parched land, is just like Iran. Just like Iran, just like home. What
impressed me most about Tehran, were the mountains and its dry yet generous
climate, the trees and flowers that bloomed and thrived on its parched soil and
seemed to suck the light out of the sun. (RLT, pp. 82-83)
I racconti, insieme ai ricordi, sono forse la cosa più cara che è dato avere
all’esule. Non appena si trova qualcuno disposto a stare a sentire, ad ascoltare i
racconti, la mente vola verso la casa e crea e ricrea incessantemente nuovi racconti
e nuove storie. Un altro scrittore iraniano, Khader Abdallah, ci parla
dell’importanza delle storie per l’esule. Il viaggio delle bottiglie vuote è un
romanzo pieno di assenze, pieno di vuoti, come vuote sono le bottiglie del titolo,
metafora dell’esule. Bolfazl, il protagonista, però, ha la testa piena di storie: “Ero
solo uno straniero con delle storie in testa”. Le storie colmano l’assenza perché
non hanno mai fine, bensì durano per sempre, non fuggono né si estinguono:
Ma non si può scrivere la parola fine a un racconto. I racconti hanno le loro leggi.
Non se ne può cambiare il corso. Un racconto o è morto o vivrà fino alla fine dei
tempi.
Lo stesso accade per la storia di René, amico del protagonista: “per lui era
finita, ma non per il racconto. Lui venne a depositarsi nel vuoto dei miei ricordi”.
Ai ricordi, alla memoria è legata l’identità dell’esule:
Ma chi sarei stato senza i ricordi della mia terra natale? Come avrei potuto qui, in
questo paese umido, cercare il significato delle parole senza che la stufa della mia
casa paterna ardesse nella mia mente?
I ricordi, la memoria danno sollievo e forza all’esule che si ritrova in una
terra inospitale, non accogliente, i cui abitanti sono ostili o, nella migliore delle
ipotesi, indifferenti. Ma, come afferma Nafisi, il vero significato dell’esilio si
scopre solo al ritorno.
I had never felt this sense of loss when I was a student in the States. In all those
years, my yearning was tied to the certainty that home was mine for the having, that I
could go back anytime I wished. It was not until I had reached home that I realized
the true meaning of exile. As I walked those dearly beloved, dearly remembered
streets, I felt I was squashing the memories that lay underfoot. (RLT, p. 145)
Il vero significato dell’esilio sta nel fatto che, al ritorno, non si riconosce più
il proprio paese, ci si sente estranei in patria. Ciò può avvenire in vari modi.
Innanzitutto, il primo impatto con la propria terra passa attraverso il filtro di
dogane e dei controlli di bagagli e documenti da parte degli agenti della polizia di
frontiera. L’aeroporto dovrebbe essere il simbolo dell’uscio di casa, quando la
casa è la patria. L’aeroporto dovrebbe per primo accogliere l’espatriato che sogna
di tornare a casa, offrendogli come dono per il ritorno il senso di appartenere a
quei luoghi. Ma il tempo scorre sia per l’esiliato sia per la patria, cosicché ad
accogliere l’esule, dopo i lunghi anni trascorsi all’estero, non è un aspetto
familiare, ma luoghi trasformati, irriconoscibili.
A young woman stands alone in the midst of a crowd at the Tehran airport, backpack
on her back, a large big hanging from one shoulder, pushing an oversize carry-on
with the tips of her toes. She knows that her husband of two years and her father
must be somewhere out there with the suitcases. She stands in the customs area,
teary-eyed, desperately looking for a sympathetic face, for someone she can cling to
and say, Oh how happy, how glad, how absolutely happy I am to be back home. At
long last, here to say. But no one so much as smiles. The walls of the airport have
dissolved into an alien spectacle, with giant posters of an ayatollah staring down
reproachfully. Their mood is echoed in the black and bloodred slogans: death to
America! Down with imperialism & Zionism! America is our number-one enemy!
Not having registered as yet that the home she had left seventeen years before, at the
age of thirteen, was not home anymore, she stands alone, filled with emotions
wriggling this way and that, ready to burst at the slightest provocation. I try not to
see her, not to bump into her, to pass by unnoticed. Yet there is no way I can avoid
her. (RLT, p. 81)
La giovane donna sola è Nafisi stessa, che guarda a se stessa come dal di
fuori. Usa la terza persona per descriversi, astuzia grammaticale che riflette lo
spaesamento che prova: si sente spaesata nel luogo che riteneva, da sempre, la
propria casa, il luogo più intimo di una persona. Per cui, non riconoscendo i
luoghi della sua infanzia, della sua storia personale, non riconosce più nemmeno
se stessa, si trova di fronte ad un’estranea, e può per questo osservarla con
distacco. Ha smarrito la propria identità perché ha perso, di colpo, con il contatto
con il suolo patrio, la propria storia: i resti della sua storia che si intrecciano a
quella della nazione sono stati cancellati, come spazzati via dai colpi della scopa
di una strega cattiva, che ha cancellato i colori e l’allegria e ridipinto tutto il
quadro di grigi e di visi senza sorriso.
The dream has finally come true. I was home, but the mood in the airport was not
welcoming. It was sober and slightly menacing, like the unsmiling portraits of
Ayatollah Khomeini and his anointed successor, Ayatollah Montazeri, that covered
the walls. It seemed as if a bad witch with her broomstick had flown over the
building and in one sweep had taken away the restaurants, the children and the
women in colourful clothes that I remembered. This feeling was confirmed when I
noticed the cagey anxiety in the eyes of my mother and friends, who had come to the
airport to welcome us home. (RLT, p. 82)
Il senso di familiarità e di appartenenza sono stati anch’essi di colpo
cancellati, insieme ai vestiti colorati, ai bar e i ristoranti. Le stesse sensazioni e gli
stessi sentimenti sono quelli che prova un’altra giovane iraniana, dopo ben soli
quattro anni di vita in esilio in Europa, in Austria. Marjane Satrapi, in Persepolis,
la propria autobiografia a fumetti, descrive il proprio ritorno in Iran e racconta le
sensazioni provate, che sembrano rispecchiare quelle di Nafisi.
Après quatre années de vie à Vienne, me revoilà à Tehéran. Dès mon arrivée à
l’aéroport de Mehrabad et à la vue du premier douanier, je sentis immédiatement
l’irrépressif de mon pays.
Tu n’as rien d’interdit ? journaux de mode, cassettes, alcool, porc, …
Non monsieur !
Remets bien ton voile ma sœur !
[…]
Frère et sœur sont des termes utilisés en Iran par les représentants de la loi pour
donner des ordres aux gens, sans les offender.
Il rientro in patria non corrisponde alle aspettative di chi ritorna. Già al
momento dell’entrata si percepisce che non si calpesta più lo stesso suolo della
partenza. L’aeroporto è divenuto quel luogo di transito dove tutto è tenuto sotto
stretto controllo. All’aeroporto, soglia e frontiera si confondono e diventano la
stessa cosa, luogo protetto e armato, che divide lo spazio interno da quello
esterno, considerato ostile e minaccioso. L’aeroporto in cui sbarcano Nafisi e
Satrapi appare molto diverso da quello descritto dalla filosofa Rosi Braidotti, per
la quale invece i luoghi di transito sono degli spazi liberi, sospesi, delle zone inbetween:
I do have special affection for the places of transit that go with traveling: stations
and airport lounges, trams, shuttle buses, and check-in areas. In between zones
where all ties are suspended, and time stretched to a sort of continuous present.
Oases of nonbelonging, spaces of detachment. No-(wo)man’s lands.
Il rientro delle due esuli avviene in uno spazio diverso, mutato, trasformato
dal tempo e dagli avvenimenti. Il tempo è trascorso sia per l’esule sia per la
società iraniana. Ma per l’esule, l’immagine della patria rimane congelata nella
mente, legata al tempo della partenza. In patria, invece, il tempo ha continuato a
portare mutamenti, la società ha continuato a cambiare (nel bene o nel male). Di
conseguenza, al rientro, l’esule si trova a dover riaggiustare le proprie immagini, a
modificare le idee che aveva sulla propria patria, la propria città. Spesso le città
sono divenute irriconoscibili, e ci si perde fra vie, strade e muri che non si
riconoscono, in cui non si è più capaci di orientarsi né di muoversi in modo
appropriato, proprio come è successo a Dubravka Ugrešić, di ritorno nella sua
nativa Zagabria. Oltre alle immagini del mondo esterno, c’è da rivedere il proprio
modo di vestirsi, di comportarsi, la propria gestualità: bisogna imparare ad
indossare il velo, a portare lunghi abiti pesanti.
Il n’y avait pas que le voile auquel je devais me réhabituer, il y avait aussi tout le
décorum : la présentation des martyrs par des fresques murales de vingt mètres de
haut ornées de slogans les honorant, comme “le martyr est le cœur de l’histoire” ou
“j’espérais être un martyr moi-même” ou encore “le martyr est vivant à jamais”.
Surtout après quatre ans passés en Autriche où on voyait plutôt sur les murs
“Meilleures saucisses à vingt schillings”, le chemin vers la réadaptation me paraissait
très long.
Il y avait aussi les rues … beaucoup avaient changé de nom. Elles s’appelaient
désormais avenue du martyr machin ou la rue du martyr truc.
C’était très déstabilisant.
L’esiliata rappresentata nelle opere di Satrapi e Nafisi vive dunque un
doppio esilio. Prima viene mandata o sceglie di lasciare la propria casa e la patria.
Successivamente, sognando per lungo tempo di rientrare, quando vi fa
effettivamente ritorno, non riconosce più il paese che aveva lasciato. Entrambe le
scrittrici, Nafisi e Satrapi, scelgono l’esilio come unica soluzione per
sopravvivere, e scelgono infine la scrittura come spazio per denunciare il regime
ed esporre al mondo le sofferenze e le violenze che questo ha fatto al popolo.
Entrambe le scrittrici mostrano contemporaneamente il loro profondo
attaccamento all’Iran, l’orgoglio di essere iraniane, il loro senso di identificazione
con una certa idea di Iran, che non corrisponde, però all’Iran in cui si trovano a
vivere nel presente.
Spazio privato e spazio pubblico si confondono. Lo spazio dove ci si sente a
casa, ci si sente al sicuro, è solo lo spazio all’interno delle pareti domestiche.
Fuori è lo spazio della violenza, della paura, della repressione da parte del regime.
Ma vi sono continue incursioni del regime perfino tra le pareti domestiche, nello
spazio dell’intimità, attraverso le perquisizioni, le repressioni delle feste private e
i controlli nelle case.
Per poter avere libertà bisogna ritagliarsi uno spazio ancora all’interno dello
spazio privato. Lo spazio della casa della famiglia Satrapi, così come quello del
salotto di Nafisi dove avveniva il seminario segreto, è il solo a garantire la libertà
di pensiero e di parola. In casa le donne svestono i panni imposti loro dal regime,
tolgono i veli e i chador per sentirsi libere e a proprio agio. Nel loro esilio interno
vivono una libertà che non può essere mostrata all’esterno, pena la repressione. I
genitori di Marjane, a loro volta, decidono di mandarla a studiare all’estero perché
temono per la sua incolumità. La giovane, difatti, ripete nello spazio pubblico le
idee che sente in casa, rompendo così la barriera tra lo spazio privato e lo spazio
pubblico, e portando idee rivoluzionarie in quest’ultimo, a rischio della sua
incolumità.
Il chador e il velo che coprono i capelli e il divieto di mostrare anche un
solo ciuffo o un centimetro in più di pelle sotto il vestito sono vissute da entrambe
le artiste come un’altra modalità imposta di annullamento:
Sometimes, almost unconsciously, I would withdraw my hands into my wide sleeves
and start touching my legs or my stomach. Do they exist? This stomach, this leg,
these hands? Unfortunately, the Revolutionary Guards and the guardians of our
morality did not see the world with the same eyes as me. They saw hands, faces and
pink lipstick; they saw strands of hair and unruly socks where I saw some ethereal
being drifting soundlessly down the streets. (RLT, p. 168)
L’estrema conseguenza dell’esilio rappresentato da Nafisi e Satrapi e, in
particolare, dell’essere esiliati in patria, nel proprio spazio, è quella di sentirsi
annullati, inesistenti.
This was when I went around repeating to myself, and to anyone who cared to listen,
that people like myself had become irrelevant. This pathological disorder was not
limited to me; many others felt they had lost their place in the world. I wrote, rather
dramatically, to an American friend: “You ask me what it means to be irrelevant?
The feeling is akin to visiting your old house as a wandering ghost with unfinished
business. Imagine going back: the structure is familiar, but the door is now metal
instead of wood, the walls have been painted a garish pink, the easy chair you loved
so much is gone. Your office is now the family room and your beloved bookcases
have been replaced by a brand-new television set. This is your house, and it is not.
And you are no longer relevant to this house, to its walls and doors and floors; you
are not seen. (RLT, p. 169)
Le continue interferenze dello Stato nella vita privata dei cittadini hanno
l’effetto di modificare anche la percezione dello spazio domestico, che diviene
estraneo, come estranea è la patria in cui l’esule è ritornata. L’annullamento del
soggetto nello spazio pubblico prosegue inglobando anche lo spazio della casa.
La scrittura, allora, ha lo scopo di salvare dall’annullamento, di ri-iscrivere
la persona nel mondo e, nello stesso tempo, può farsi ponte, legame con la patria
perduta. Tappeto volante che permette di viaggiare là dove le barriere imposte
dalle frontiere, dalle dogane e dalla politica non permettono più di tornare, la
scrittura si fa rivisitazione della propria terra, sotto un’altra forma rispetto a quella
del ritorno fisico e geografico. È un ritorno immaginato, metaforico, che conserva
quella distanza dell’esilio da cui guardare con più distacco agli eventi, ma allo
stesso tempo trasuda tutta la nostalgia di colei che si trova in esilio. Se la memoria
strappa all’oblio il passato con la scrittura si fa rivivere addirittura il presente.
L’Iran attuale, per essere capito dall’esterno, dalla comunità internazionale, ha
bisogno di essere spiegato da chi lo conosce veramente a fondo, da chi ci è nato e
vissuto. In questo la scrittura diventa anche un atto politico.
Come i romanzi delle scrittrici nordafricane, anche il romanzo di Azar
Nafisi, Reading Lolita in Tehran, parla della necessità di raccontare le storie delle
donne, di usare la parola e la scrittura per mostrare il punto di vista femminile, per
renderlo pubblico e per non continuare la pratica di nascondere le donne come
fanno gli Ayatollah, ricoprendole con il chador iraniano.
Il testo di Nafisi, che ho già analizzato dal punto di vista spaziale,
considerandolo come romanzo autobiografico e di finzione, presenta anche un
terzo piano interpretativo, che è quello di un’opera di critica letteraria. In primo
luogo perché l’autrice propone sue interpretazioni dei libri di cui parla, ma ancor
più perché è un testo intriso di commenti sulla funzione della letteratura.
Ho evidenziato come l’autrice si rivolga spesso al lettore direttamente,
chiedendo la sua collaborazione: senza lo sforzo immaginativo di chi legge, le
scritture resterebbero inutili pezzi di carta senza potere. Se chi legge non
immagina il gruppo delle ragazze, riunite nel salotto, queste non esistono. L’unico
modo perché esistano e, soprattutto, perché la loro esperienza non venga annullata
e, ancora una volta, nascosta e resa invisibile, è la narrazione e l’atto di lettura del
lettore. La funzione delle scritture è quella di stimolare l’immaginazione e la
riflessione, di far conoscere realtà che altrimenti rimarrebbero taciute, invisibili,
nel silenzio.
Per Nafisi, la letteratura ha un forte potere sovversivo (RLT, p. 94), nel
senso che stravolge il lettore, lo turba, costringendo a guardare alla realtà da
un’ottica differente da quella consueta. In questo, la narrativa è come l’esilio:
trasporta chi legge molto lontano, interponendo una distanza tra la realtà e la
storia che viene raccontata, fa smarrire la strada, conducendo il lettore lontano
dallo spazio familiare, lo fa sentire estraneo nella sua casa.
I wrote on the board one of my favourite lines from the German thinker Theodor
Adorno: “The highest form of morality is not to feel at home in one’s own home”. I
explained that most great works of the imagination were meant to make you feel like
a stranger in your own home. The best fiction always forced us to question what we
took for granted. It questioned traditions and expectations when they seemed too
immutable. I told my students I wanted them in their readings to consider in what
ways these works unsettled them, made them a little uneasy, made them look around
and consider the world, like Alice in Wonderland, through different eyes. (RLT, p.
94)
Nafisi racconta di quando, durante una delle sue lezioni all’Università di
Teheran, aveva fatto leggere Il grande Gatsby, libro che aveva dovuto subire un
vero e proprio processo nella sua classe, da parte di favorevoli e contrari. Che gli
studenti ritenessero il libro straordinario o lo considerassero immorale, la
professoressa era felice perché il libro aveva svolto perfettamente il suo compito:
era riuscito ad infiammare gli animi dei ragazzi e delle ragazze e a far parlare di
sé. Non urlavano per Lenin o Khomeini, litigavano per un libro! Questa, secondo
Nafisi, è la vittoria della letteratura. Un buon romanzo è quello che riesce a far sì
che il lettore instauri un rapporto empatico coi personaggi e lo induca a riflettere
sugli eventi che scuotono il mondo.
A novel […] can be called moral when it shakes us out of our stupor and makes us
confront the absolutes we believe in. (RLT, p. 129)
Un buon romanzo è anche una lezione di democrazia, in quanto dà a tutti i
personaggi una voce.
We can’t experience all that others have gone through, but we can understand even
the most monstrous individuals in works of fiction. A good novel is one that shows
the complexity of individuals, and creates enough space for all these characters to
have a voice; in this way a novel is called democratic – not that it advocates
democracy but that by nature is so. (RLT, p. 132)
Come Assia Djebar, anche Nafisi riconosce la grande importanza della
narrazione per non tacere e non dimenticare i soprusi, i torti subiti, le violenze che
avvengono nel mondo e le migliaia di vittime e di voci che vengono fatte tacere.
Lolita belongs to a category of victims who have no defence and are never given a
chance to articulate their own story. As such, she becomes a double victim: not only
her life but also her life story is taken from her. We told ourselves we were in that
class to prevent ourselves from falling victim to this second crime. (RLT, p. 41)
Attraverso il romanzo Reading Lolita in Tehran, lo spazio della “stanza tutta
per noi” si trasferisce sullo spazio della pagina scritta che diventa luogo per
parlare di sé, della propria condizione e della privazione dei diritti civili e politici
che le donne e la società iraniana subisce sotto il regime islamista.
Ma è lo stesso spazio del romanzo a costituire per Azar Nafisi una
piattaforma da cui lanciare accuse al governo che attanaglia la società iraniana, e
che le vite individuali.
They invaded all private spaces and tried to shape every gesture, to force us to
become one of them, and that in itself was another form of execution. (RLT, p. 77)
Attraverso la scrittura, al contrario, si può continuare a proporre una visione
diversa, lottare per i propri diritti e quelli di tutte le donne. Nafisi si scaglia
ripetutamente contro uno dei maggiori soprusi alla libera scelta delle donne nelle
regioni musulmane, il matrimonio combinato. Ma, ottimisticamente, fa la rilevare
che la situazione degli anni ’90 in Iran non deve essere considerata come
immutabile e immutata, perché lei stessa ha potuto vivere in una società molto
diversa rispetto quella che è toccata alle sue allieve, una sola generazione dopo. Le
leggi e la situazione politica, soprattutto la condizione delle donne, variano molto
velocemente, e ciò dimostra che sono legate ai cambiamenti di regime e
all’alternanza di chi detiene il potere, e non a principi politici e religiosi solidi.
At the start of the twentieth century, the age of marriage in Iran – nine, according to
the sharia laws – was changed to thirteen and then later to eighteen. My mother had
chosen whom she wanted to marry and she had been one of the first six women
elected in Parliament in 1963. When I was growing up, in the late 1960s, there was
little difference between my rights and the rights of women in Western democracies.
But it was not the fashion then to think that our culture was not compatible with
modern democracy and human rights. We all wanted opportunities and freedom.
This is why we supported revolutionary change – we were demanding more rights,
not fewer. (RLT, p. 261)
CAPITOLO 8.
IL LUOGO COMUNE DEI DIRITTI UMANI.
8.1 Tre modi per affermare i diritti delle donne.
Dalla lettura dei testi analizzati in questo lavoro è emerso un ulteriore luogo
comune di cui parlano e in cui si ritrovano le autrici, luogo comune nel senso
attribuito all’espressione da Édouard Glissant. Si tratta del discorso sui diritti
umani e, in particolare, sui diritti delle donne che queste autrici articolano nelle
loro scritture.
Tale discorso viene svolto a vari livelli. Innanzitutto, il solo fatto di scrivere,
in quanto donne, la propria autobiografia o dei romanzi in cui le protagoniste sono
altrettante donne, implica la presa di coscienza di sé come soggetto attivo e come
individuo distinto dall’insieme della società. In quanto individui, le donne che
scrivono nella società islamica dimostrano di distanziarsi dai dettami della
tradizione e dei governi che le vogliono soggetti segregati. Lo stesso gesto della
scrittura esprime una visione differente della società e della vita.
Ancora più rilevante è tuttavia il fatto che le opere qui analizzate trattano
espressamente dei diritti umani nel senso più esteso del termine e di quelli delle
donne in particolare. Mettono difatti in scena episodi di soprusi e violenze e
denunciano la negazione nei paesi delle loro autrici o autori dei basilari diritti
umani. Si tratta, in alcuni casi, di testi scritti per perorare la causa dei diritti
umani, che cercano nuove modalità discorsive, oltre che concretamente proporre
visioni alternative della realtà.
In terzo luogo, è significativo sottolineare che questi discorsi vengono
articolati in lingua inglese o francese, cioè in due delle lingue occidentali
storicamente più legate alla difesa dei diritti umani. Il francese è la lingua in cui,
nel 1948, è stata redatta a Parigi la Dichiarazione Universale dei Diritti umani, e
la Francia è una delle nazioni che fin dalla sua costituzione moderna, seguita alla
rivoluzione del 1789, si è prefissa gli ideali di libertà, fraternità e uguaglianza. La
lingua inglese è la lingua della Gran Bretagna, ma anche degli Stati Uniti, terra di
emigrazione ed esilio per Azar Nafisi e Elmaz Abinader. Come la Francia, così
anche gli Stati Uniti si sono dotati, al momento della fondazione della
federazione, di una Costituzione che metteva in primo piano il rispetto di alcuni
diritti umani, primo fra tutto il diritto al perseguimento della felicità.
Questi tre aspetti, cioè scrivere in quanto donne, scrivere per denunciare la
negazione dei diritti umani e per proporre nuove strade, e, terzo, scrivere in
inglese o francese, sono elementi che si collegano l’un l’altro. Scrivendo di se
stesse o di altre donne “nascoste”, “invisibili”, queste scrittrici, che provengono
dalla cultura islamica, espongono vite private all’occhio pubblico e, così facendo,
rivendicano un proprio spazio nella società.
Scrivere vuol dire pubblicare non solo nel senso di rendere pubblica una
storia, ma anche nel senso di servirsi di una casa editrice che stampi e diffonda il
testo ad un vasto pubblico. Gli editori di questi romanzi sono francesi o
statunitensi, per cui queste narrazioni vengono lette, esposte, ad una comunità
internazionale, che spesso non è a conoscenza della realtà da cui queste storie
provengono. L’edizione europea o statunitense de-localizza la storia narrata e la
trasforma in testimonianza di un mondo diverso che, a sua volta, guarda
all’occidente e a questo vuole destinare il proprio racconto. Allo stesso tempo, il
racconto è anche rivolto alle donne del proprio paese che vanno a scuola e
imparano a leggere in inglese o francese, perché possano essere ispirate a seguire
le orme tracciate da loro conterranee.
8.2 Affermare se stesse.
Si è affermato in precedenza che scrivere implica la presa di coscienza di sé
come individuo. Le autrici e le loro protagoniste parlano in prima persona, si
rivelano e si svelano, si sbarazzano del velo, reale o figurato, per dire la propria
verità. Si tratta di una forte presa di posizione, particolarmente per il mondo
arabo, dove l’individualità è tenuta sotto stretta sorveglianza, scoraggiata, sia per
gli uomini che per le donne. Tanto più forte e sconcertante è l’affermazione di sé
per una donna, che tradizionalmente è nascosta e velata. È un parlare in prima
persona, un dire e scrivere “io”, “je”, “I” (accompagnati da aggettivi “mon”, “my”
etc, e da tutti gli embrayeurs du discours, secondo la definizione di Benveniste).
La scelta del romanzo, e soprattutto dell’autobiografia, è in se stessa un atto di
ribellione e rottura con la tradizione che punta al primato della comunità sul
singolo. La letteratura araba non ha una tradizione di romanzi proprio per questo
motivo, come spiega Tahar Ben Jelloun, scrittore francofono di origine
marocchina. Per avere il primo vero romanzo arabo bisogna attendere le opere di
Nagib Mahfuz, alla metà del XX secolo:
La société arabe n’a pas reconnu l’individu en tant que subjectivité, entité singulière
qui s’exprime. La révolution française de 1789 a instauré l'individu comme une
émergence essentielle qu'il faut respecter ; la Déclaration des Droits de l'Homme a
daté l'émergence de l'individu dans la société occidentale. A partir du moment où un
individu s’exprime et que son expression est respectée c'est-à-dire écoutée, il peut
devenir un personnage de roman, il peut lui-même être romancier, il peut lui-même
saisir sa société à travers des individualités. Or, dans le monde arabe, ce qui est
reconnu c’est surtout la famille, le clan, la tribu.
Romanzo e autobiografia, nel mondo arabo islamico, fino a poco tempo fa
erano considerati dei veri e propri tabù, pratiche da evitare e condannare in quanto
spazi in cui l’intimità viene messa a nudo:
Genre romanesque et récit autobiographique représentent, en effet, tous les deux, le
surgissement de la personne comme une rupture face à l’unanimité du groupe dans le
conformisme de ses normes morales.
Le lotte di oggi nel mondo arabo sono dirette a cambiare questa percezione,
sono lotte per l’individuo, continua Ben Jelloun.
Si è già parlato della rilevanza sociale e storica dell’estensione
dell’istruzione alle ragazze nel Maghreb e quanto questa fosse legata alla cultura e
alla lingua francese. Per le scrittrici del Maghreb, usare la lingua francese non
significa semplicemente prendere in prestito parole di un’altra lingua e usarle
come se si stesse parlando nella lingua madre. Non si tratta, cioè, di fare un
discorso equivalente nelle due lingue. Significa, invece, usare la lingua e
l’espressione, scritta o orale che sia, in un modo nuovo, diverso da quello che la
lingua araba permetterebbe. Usare il francese equivale ad impregnarsi della
cultura e dei modi dei francesi, e, con il tempo, esserne modificati.
In L’amour, la fantasia Assia Djebar racconta alcuni episodi di cui è stata
testimone da bambina e che vede come protagonisti i propri genitori. Se ne evince,
quindi che, grazie all’utilizzo di una nuova lingua, si può arrivare a rompere con
le consuetudini e addirittura a compiere piccole ma significative rivoluzioni socioculturali.
Nel corso degli anni della sua infanzia, i genitori, ciascuno a suo modo, sono
stati i punti di riferimento che hanno guidato Djebar a rendersi conto che ciò che
la società le prometteva e stabiliva non era incontestabile; che gli individui hanno
la facoltà di pensare e ragionare con la propria testa, che un mondo diverso è
possibile e che per ottenerlo è necessario cominciare dalle cose più piccole e
semplici. Innanzitutto, il padre diventa la sua figura di riferimento primaria, colui
che per primo rompe con la mentalità che lo circonda, portando la figlia
primogenita a scuola. Il padre, istruito secondo la cultura europea, crede
nell’istruzione femminile, nel diritto delle bambine di ricevere le stesse
opportunità rispetto ai compagni maschi. Crede nella possibilità delle donne di
riscattarsi e di emanciparsi dalla situazione di chiusura e invisibilità in cui sono
costrette.
Djebar racconta di come, nella cultura in cui è nata, fosse consuetudine delle
donne non nominare mai lo sposo con locuzioni del tipo “mon mari” o chiamarlo
per nome (AF, p. 54). Si usava, invece, il pronome “il”, “lui”, che manteneva una
distanza quasi reverenziale tra gli sposi e non creava l’idea di coppia e di intimità
tra i due soggetti. Nel corso degli anni di matrimonio, la madre di Djebar aveva
imparato progressivamente il francese, spronata dal fatto che il marito era
istitutore alla scuola francese, ed era in grado di conversare con le mogli dei
colleghi del padre, per la maggior parte coppie venute dalla Francia e che
abitavano nei caseggiati riservati agli insegnanti della scuola. Pian piano, Assia
comincia a rendersi conto che, in queste conversazioni, la madre aveva
abbandonato la consuetudine araba e si riferiva al marito con espressioni del tipo
“mon mari est venu, est parti… Je demanderai à mon mari” (AF, pp. 54-55).
Probabilmente, ipotizza l’autrice, all’inizio per la madre non doveva essere stato
facile, ma con il passare del tempo aveva preso confidenza con questo modo di
parlare e si sentiva sempre più a proprio agio nel nominare in modo diretto il
proprio sposo, tanto da farlo con disinvoltura anche nelle conversazioni con le
sorelle e le cugine.
Une écluse s’ouvrit en elle, peut-être dans ses relations conjugales. Des années plus
tard, lorsque nous revenions, chaque été, dans la cité natale, ma mère, bavardant en
arabe avec ses sœurs ou ses cousines, évoquait presque naturellement, et même avec
une pointe de supériorité, son mari : elle l’appelait, audacieuse nouveauté, par son
prénom ! Oui, tout de go, abruptement allais-je dire, en tout cas ayant abandonné
tout euphémisme et détour verbal. […]
Des années passèrent. Au fur et à mesure que le discours maternel évoluait,
l’évidence m’apparaissait à moi, fillette de dix ou doux ans, déjà : mes parents,
devant le peuple des femmes, formaient un couple, réalité extraordinaire ! (AF, p.
55)
Queste righe di Djebar mostrano tutta la forza della parola, su vari livelli.
Innanzitutto, dimostrano che il fatto di nominare dà consistenza e realtà alla cosa
o al soggetto nominato. Madre e padre formano una coppia, il padre,
nell’immaginario della bambina, si staglia, figura alta e ben tracciata, contro le
altre figure degli uomini della famiglia che “se retrouvaient confondus dans
l’anonymat du genre masculin” (AF, p. 56). Stravolgere le convenzioni sociolinguistiche dell’arabo si rivela un gesto affermativo forte, che progressivamente
cambia la percezione della coppia, dunque dell’istituzione della famiglia, la
cellula su cui si fonda l’intera società. La sostituzione di un semplice pronome
nella frase può avere come conseguenza il mutamento della percezione di cosa sia
una coppia e una famiglia. Non bisogna dimenticare da dove questa
trasformazione si è originata: dall’uso della lingua francese e dalle conversazioni
con donne e uomini provenienti dalla cultura francese.
La rivoluzione all’interno della coppia araba non si ferma a quel punto.
Djebar racconta anche di un altro evento, sconcertante per il mondo algerino di
allora. Mentre il padre si trovava in viaggio, lontano, aveva mandato una cartolina
alla famiglia, indirizzandola direttamente alla moglie. Scrivere il nome di una
donna su una busta che sarebbe stata esposta agli occhi di tanti uomini estranei,
impiegati delle poste delle varie città attraverso cui la cartolina sarebbe passata,
era un atto impressionante per la società di allora. Il nome scritto equivaleva,
infatti, ad esporre il corpo stesso della donna senza veli al pubblico sguardo.
La révolution était manifeste: mon père, de sa propre écriture, et sur une carte qui
allait voyager de ville en ville, qui allait passer sous tant et tant de regards masculins,
y compris pour finir celui du facteur de notre village, un facteur musulman du
surcroît, mon père avait donc osé écrire le nom de sa femme qu’il avait désigné à la
manière occidentale : « Madame untel… » ; or, tout autochtone, pauvre ou riche,
n’évoquait femme et enfants que par le biais de cette vague périphrase : « la
maison ». […]
Alors s’ébaucha, me semble-t-il, ma première intuition du bonheur possible, du
mystère, qui lie un homme et une femme.
Mon père avait osé « écrire » à ma mère. L’un et l’autre, mon père par l’écrit, ma
mère dans ses nouvelles conversations où elle citait désormais sans fausse honte son
époux, se nommaient réciproquement, autant dire s’aimaient ouvertement. (AF, pp.
57-58)
Attraverso questo esempio, la scrittrice dimostra la portata che può avere
l’apprendimento della lingua e degli usi europei. Djebar ne parla in termini di una
vera e propria irruzione nella società algerina di un mondo altro, con il suo modo
di pensare e di agire. La scrittrice dimostra che i timori di chi, nella società araba,
vorrebbe impedire alla cultura europea di infiltrarsi in quella autoctona sono in un
certo senso fondati, dal momento che il processo di cambiamento innescato dalla
conoscenza e dall’avvicinamento alla nuova cultura è lento e quasi impercettibile,
ma porta a risultati evidenti.
Lo stesso discorso vale per Malika Mokeddem, nei cui romanzi troviamo sia
la presa di parola in prima persona, sia la denuncia di violenze e violazioni dei
diritti delle donne.
Le protagoniste dei suoi romanzi, come pure la narratrice di La Transe des
Insoumis, sono donne che dicono je (“D’où a-t-elle sorti ce “je”?”). Sono forti,
come forte è la loro volontà di non lasciarsi sottomettere, di reagire alle
convenzioni e alle tradizioni che le vorrebbero tranquille mogli e madri di
famiglia. “Tu es forte, très forte” è un’affermazione che ricorre come un ritornello
nel romanzo N’zid. Sono sole, benché ci sia sempre una o più presenze maschili
che le accompagna, ma queste ultime rimangono marginali, di supporto. Questa
solitudine, se da una parte riflette la scelta di vita personale dell’autrice, dall’altra
pone l’accento sulla necessità di tutelare le esigenze, i bisogni, le aspirazioni e i
diritti di ciascun individuo, come pure delle minoranze. Ciascun membro della
comunità ha il diritto di essere rispettato e considerato per se stesso e di non
venire sacrificato (soprattutto le donne) ai bisogni della famiglia, del clan o della
tribù.
Non è un caso che Mokeddem usa spesso la parola tribù per designare la sua
numerosa famiglia e i suoi fratelli (in maggioranza maschi). La tribù, i legami di
sangue e il sangue stesso sono elementi costitutivi della società araba e berbera
(perché non bisogna dimenticare che la società maghrebina è un tessuto
complesso di popolazioni di etnia araba ma anche berbera), che tradizionalmente
sono strutturate intorno al clan, alla tribù. Ibn Khaldoun, il grande storico del
Nord-Africa, nella sua opera I prolegomeni, scrive:
La grande distinzione tra i popoli arabi e quelli che non sono arabi (che vivono a
nord del Mediterraneo) è che i primi hanno il senso della competenza,
dell’appartenenza etnica tribale, il legame del sangue, gli altri sottolineano
l’importanza del territorio.
La ribellione di Mokeddem si legge anche nella scelta delle parole e delle
relazioni che intesse con le persone. La parola tribù è usata sempre negativamente,
ha connotazioni dispregiative, che rivelano la posizione critica di Mokeddem nei
confronti del sistema sociale che questa parola evoca, della sottomissione delle
aspirazioni personali dell’individuo al bene comune della famiglia o del clan e
soprattutto alla perpetuazione di norme e abitudini.
Aucun groupe quel qu’il soit n’est jamais un bloc monolithique, moi, je porte mon
attention à l’individu. A ce qu’il a dans le ventre. A ce qui l’accable. Pas à des
communautés, des clans politiques. (TI, p. 196)
Questa è un’affermazione programmatica di una pratica politica, di
avvicinamento all’altro, al singolo in quanto individuo e non in quanto
appartenente ad una comunità che si arroga il diritto di dargli un’identità
prestabilita. Ciò è possibile e Mokeddem medico ce ne dà la prova: tra i suoi
pazienti, sa bene che vi sono alcuni islamici. Ma questi trasgrediscono al
boicottaggio richiesto dai gruppi islamici nei confronti della scrittrice e
continuano a recarsi al suo ambulatorio, perché il rispetto e la fiducia acquisita in
anni di lavoro ha la meglio su un’opposizione politica più distante dalla vita reale:
Quelques-uns sont islamistes. Je le sais. J’en déduis que s’ils persistent à venir me
consulter, c’est que le respect, la confiance l’emportent sur l’opposition, le fait qu’ils
transgressent l’avis de boycott proféré à mon encontre en est une preuve irréfutable.
(TI, pp. 195-196)
8.3 Denunciare la negazione dei diritti delle donne.
I legami di sangue si possono trasformare in sangue versato per difendere
l’onore della famiglia o del gruppo. Mokeddem narra per ben due volte, in due
libri distinti, un episodio di cui era stata protagonista insieme alla sorella più
giovane, ai tempi del liceo, la sera del 1° novembre del 1964, nel paese di Béchar,
in Algeria. La famiglia aveva insistito che andasse anche lei, insieme agli altri,
nella piazza del paese per assistere ai fuochi d’artificio in commemorazione
dell’indipendenza dell’Algeria, perché “on ne laisse pas une fille de quinze ans
seule dans une maison la nuit” (TI, p. 142). Quasi per ironia del destino (un
destino che ha come sfondo l’Algeria e la sua società), la ragazza sarebbe stata
molto più al sicuro in casa da sola, per come si sono svolti gli eventi, piuttosto che
con tutta la famiglia sulla piazza. Le due sorelle arrivano dunque nella grande
piazza squadrata. Questa viene descritta attraverso masse colorate, il bianco dei
veli delle donne da un lato e il nero della folla degli uomini dall’altro.
La marée blanche des haïks, les voiles des femmes, occupe la moitié. La foule
sombre des hommes, l’autre. (TI, p. 142)
In questo quadro bianco e nero, in cui i colori e la loro separazione danno il
senso dell’ordine sociale, le due giovani arrivano a testa scoperta, provocando una
violenta reazione da parte della folla degli uomini. È come se le due ragazze
rappresentassero due atomi isolati che, entrando nel sistema ordinato, provocano
scompiglio e caos.
Nous venons à peine d’arriver que me parviennent des propos obscènes, des haleines
chargées de vinasse. Un groupe de jeunes gens ivre s’est infiltré parmi les femmes
pour se placer derrière nous. J’endure leurs grossièretés en bouillonnant mais sans
broncher car les ronchonnement des femmes alentour m’accusent de les exposer à la
honte, à la vulgarité par mon impudence à me présenter là nue en pleine nuit. On dit
nue parce que sans voile. (TI, pp. 142-143)
Non solo le due giovani sono il bersaglio dei gesti e delle espressioni oscene
da parte di uomini, ma vengono accusate e insultate persino dalle altre donne della
folla. Con questa scena, Mokeddem mette a nudo l’ipocrisia che si cela dietro i
discorsi sul progresso e sulla liberazione dell’Algeria. All’indomani
dell’indipendenza del paese, le donne si ritrovano, dal punto di vista dell’autrice,
ancora a dover fare un lungo cammino per uscire dal timore reverenziale verso la
tradizione e il modo di pensare comune.
Le due ragazze, prese dal panico di fronte ai rabbiosi insulti della folla,
scappano e cercano di raggiungere gli uomini della famiglia, ma vengono
inseguite delle orde degli altri uomini che cominciano a lanciare pietre e ogni
sorta di oggetti nella loro direzione. Fortunatamente, la voce di due uomini si leva
alta, distinguendosi dal resto delle urla inferocite di quella notte, per venire in loro
soccorso. La prima voce è quella di un fotografo, che le conosce da quando erano
bambine e le chiama per nasconderle nel suo negozio. La seconda voce è quella di
un giovane poliziotto che, avendo assistito a tutta la scena ma impossibilitato a
proteggerle sulla piazza, raggiunge le due ragazze al commissariato e le difende,
questa volta, dal commissario che era già pronto a condannarle per prostituzione.
Il nous rejoint au commissariat hors d’haleine, choqué lui aussi. C’est lui qui dans
une fureur magnifique explique ce qui s’est passé au commissaire bourru qui
m’accuse déjà de prostitution. Si son supérieur avait ajouté un grognement de plus, il
lui aurait défoncé la gueule tant il était indigné, survolté : « Des sauvages ! Nous
sommes encore des sauvages ! Des dizaines d’hommes voulant lapider deux gamines
dont le seul tort est de refuser… Elle reste à faire la révolution, la vraie ! ». (TI, p.
144)
Narrato sia nel romanzo Les hommes qui marchent, alla terza persona come
esperienza della protagonista Leila, sia, questa volta in prima persona, in La
Transe des insoumis, questo è uno degli episodi più significativi per l’autrice, che
attraverso queste scene mette in atto le dinamiche della società algerina
all’indomani dell’indipendenza. Le donne sono descritte come coloro che
perpetuano la propria condizione di segregate, mentre gli uomini appaiono come
violenti e ubriaconi, che rovesciano le proprie frustrazioni nella violenza verso
l’altro sesso, mentre allo stesso tempo dimostrano l’ipocrisia dei loro discorsi
bevendo e fumando, atti che sono comunque contro i precetti religiosi. È la logica
della violenza e dell’oltraggio che prevale nella società araba, dove si uccide per
l’onore del proprio sangue.
Mokeddem si ribella a questa logica del sangue. Scrive. Narra, racconta la
storia del quasi-omicidio, non una ma ben due volte, prima come un’esperienza
che appartiene ad un'altra donna, poi la riscrive alla prima persona e questa volta è
il suo corpo che fa da testimone all’evento. Scrive per denunciare l’accaduto e allo
stesso tempo per evitare che si ripeta. Scrive il suo messaggio al popolo algerino
perché questo prenda coscienza dell’assurdità e dell’orrore di quell’atto. In questa
prospettiva, i libri di Mokeddem rispecchiano ciò che scrive Tahar Ben Jelloun,
nel saggio citato, a proposito de Le mille e una notte e della letteratura in generale.
Si scrive, egli afferma, per impedire che venga commesso un omicidio.
Le Mille et Une Nuits? Il s’agit, tout simplement, de cette phrase très simple :
« Raconte-moi une histoire ou je te tue ». Et toute la littérature de l’humanité n’est
faite que pour empêcher un meurtre, symbolique ou réel, enfin c’est ainsi que je la
vois.
Spiccano, nell’episodio, le due figure maschili che si schierano dalla parte
delle ragazze e rappresentano quella piccola minoranza di uomini algerini in cui
Mokeddem intravede l’unica speranza di cambiamento, legata a qualche “uomo
intelligente”. Questa è un’idea che si ripete nei testi di Mokeddem, esplicitata
anche in L’interdite e in Des rêves et des assassins.
Je ne parle pas de Foued. Lui, Kamel, toi… Vous faites partie de ceux, si peu
nombreux, hélas ! qui sauvent la gent masculine. Et nous réconcilient. Il y a ceux
qu’on épouse quand les lâches nous lâchent. Et il y a ceux qui nous quittent parce
que nous sommes des femmes de tête. Des êtres libres ! Parce qu’ils considèrent que
la liberté ne convient pas aux femmes. (Des rêves et des assassins, p. 70)
In un’Algeria in cui gli uomini sono “rois […] de détestation des femmes”
(L’interdite, p. 51), quasi tutti di coloro, già in scarso numero, che hanno studiato
e che possono prendere la difesa delle donne, se ne vanno, preferendo emigrare
all’estero. Un personaggio maschile de L’Interdite così riassume la situazione
della sua società, criticando gli uomini che fuggono lasciando le donne nella
disperazione di dover affrontare da sole le ingiustizie cui sono sottoposte.
Ensuite, ceux d’entre nous qui n’ont plus supporté cette vie-là, ont tout fui vers
l’étranger. La belle affaire ! Tu sais, autant je comprends que les femmes aient envie
de quitter ce foutu pays, autant je condamne les élites mâles qui le font. Je trouve
leur lâcheté sans limite. Si jamais il leur reste encore une once de conscience, ils
devraient revenir réparer ce qu’ils ont laissé faire tant qu’ils n’étaient pas touchés,
tant que les privations et les barbaries n’étranglaient que les femmes. Ils doivent
revenir pour affronter enfin la gangrène des mentalités. Heureusement qu’il y avait
parmi nous quelques exceptions. (L’Interdite, p. 52)
Per fortuna ci sono degli uomini che comprendono le donne e si schierano
dalla loro parte, che amano le loro mogli e le loro figlie e cercano di proteggerle
invece di disprezzarle. “Et puis, chez nous aussi y a des hommes qui aiment les
femmes et le filles, comme Yacine, sauf qu’ils sont pas beaucoup”, commenta la
piccola Dalila de L’Interdite (p. 98).
La narrazione di Mokeddem si fa dunque espressione e denuncia di
ingiustizie e soprusi, della violazione dei fondamentali diritti delle donne in
Algeria. Allo stesso tempo, creando nella letteratura degli esempi, per quanto
isolati, di persone che si battono contro lo stato delle cose, che protestano e che
lottano, contribuisce ad indicare una possibile direzione da seguire. In questo, si
può dire che Mokeddem si serve di quello che Homi Bhabha definisce come il
“diritto alla narrazione”.
Il grande dono della letteratura consiste nel dotare il linguaggio di uguaglianza e di
diritti che si riassumono nel “diritto alla narrazione”: raccontare delle storie che
creino il tessuto della storia e cambiare la direzione del suo corso. Poiché la
narrazione è sia discorso sia azione, come ha osservato Hannah Arendt in Vita
activa: la condizione umana, ed è il mezzo attraverso il quale ci riveliamo a noi
stessi e agli altri. Con “diritto alla narrazione”, intendo tutte quelle forme di
comportamento creativo che ci permettono di rappresentare le vite che conduciamo,
di interrogarci sulle convenzioni e i costumi che ereditiamo, di discutere e propagare
le idee e gli ideali che giungono a noi spontaneamente e di osare prendere in
considerazione le più audaci speranze e paure sul futuro.
La letteratura può far intravedere strade che una comunità sta aprendo e, allo
stesso tempo, cercare nuove forze per proseguire in quella via. Come afferma
Bhabha, “la narrazione non è solo una virtù sociale; è un segno in movimento
della vita civica”. La letteratura è un indice del grado di libertà e di fruizione dei
diritti umani e nello stesso tempo piattaforma per la loro promozione e la loro
articolazione in linguaggio.
Quelle società che voltano le spalle al diritto alla narrazione sono società
caratterizzate da un silenzio assordante: società autoritarie, Stati di polizia, paesi
xenofobi, nazioni traumatizzate dalla guerra o da difficoltà economiche; società sotto
la scure della morte, nella morsa della distruzione della libertà. Quando non si tutela
il diritto alla narrazione, si rischia di riempire il silenzio con sirene, megafoni, voci
prepotenti sostenute da microfoni su podi che stanno molto più in alto delle persone
che si confondono in una massa informe… Il diritto alla narrazione presuppone che
ci sia un impegno a creare “spazi” per la diversità culturale e regionale, poiché è solo
riconoscendo tali risorse culturali come “bene comune” che possiamo garantire che
una democrazia si basi sul dialogo e sulla conversazione […].
Parlare il linguaggio dei diritti umani significa proporre una realtà nuova e,
allo stesso tempo, trovare le parole per esprimere questa realtà che prima non
c’era. Grazie all’immaginazione e alla creatività del linguaggio è possibile
figurarsi quegli “‘spazi’ per la diversità culturale e regionale”, ancor prima di
realizzarli concretamente. Significa, in altri termini, vedere con gli occhi della
mente anticipando la realizzazione nella realtà:
La difesa del diritto alla narrazione non deve solo essere attuata, ma anche essere
vista.
Per questo la libertà di pensiero è vista negativamente dai regimi che mirano
a mantenere una società sotto un controllo rigido. Per questo motivo
l’immaginazione e la libertà di espressione e di scrittura sono le prime vittime
della censura e della repressione. L’immaginazione è, secondo la definizione di
Mernissi, “le lieu de toutes les subversions” ed è la prima ad essere condannata
quando chi detiene il potere si sente minacciato. Per questo gli scrittori e le
scrittrici di romanzi sono spesso, insieme altre figure di intellettuali, i primi ad
essere colpiti dalla censura e dalla persecuzione, specialmente nei paesi islamici.
Basta ricordarne uno fra tutti, continua Mernissi, “le grand condamné du siècle,
Salman Rushdie”. Egli è pericoloso per gli imam proprio perché è uno scrittore di
narrativa.
Son procès est celui de l’imaginaire, le refuge le plus indomptable de la singularité,
le jardin secret de la personne qui échappe à toute censure, à tout compromis. On
peut obliger un individu à se soumettre, on ne peut jamais contrôler son imaginaire.
L’immaginazione è un processo che si configura come “lieu de la pensée qui
se pose comme décollé du réel, comme évanouissement de l’être en soi, […] lieu
de liberté que le groupe ne peut surveiller”. Sulle ali dell’immaginazione, una
persona può viaggiare lontano, esplorare possibilità remote, e tornare a casa con
proposizioni, suggerimenti e idee che scuotono e alterano il fragile equilibrio su
cui si basa la società islamica. Si capisce ora ancora più in profondità il senso
delle storie e delle letture, così care e così importanti per le scrittrici che abbiamo
incontrato in questo lavoro. Attraverso l’immaginazione, la giovane Fatima e le
altre donne dell’harem scavalcavano le mura e gli hudud; attraverso i racconti e le
letture Mokeddem poteva incontrare i suoi antenati ed imparare da loro l’etica del
viaggio e dell’incontro.
Si è già parlato dell’importanza della scuola come primo passo verso la
coscienza di sé come individuo e come prima forma di esilio. Il discorso di
Mokeddem sull’esilio legato all’istruzione e alla condizione delle donne è anche
intimamente legato al discorso sui diritti umani. Si tratta di tematiche che si
intersecano e si intrecciano
Il sapere e l’amore sono i due emblemi della libertà delle donne che
Mokeddem individua, sono i “deux emblèmes mêmes de notre liberté”.
Ces deux droits-là, nous, nous les avons eus à l’arraché. Ils sont notre réhabilitation
dans la totalité de l’être. Dans sa dignité. Aimer, c’est se rendre forts de deux
volontés pour affronter les hordes de l’intolérance. Savoir c’est s’enivrer l’esprit de
lumières. Et comprendre que l’obscurantisme nous avilit tous. C’est s’approprier de
la vie. Apprendre à la défendre, à dénoncer, à dire non.
Non, nous ne serons ni rebuts ni déchus ni pions subalternes d’une communauté.
(DRDA, p. 57)
Un’idea che Mokeddem cerca di far passare con i suoi testi è che una società
non sarà mai libera fino a quando non capirà che la sottomissione di una parte
della popolazione significa opprimere tutti, che segregare e rendere le donne
invisibili nella società non aiuta al progresso della nazione stessa. E che il
fallimento delle idee di innovazione e dei tentativi di portare la cultura dei diritti
delle donne può avere come unico risultato l’esilio di queste.
Et dans ce drame de cendres et de sang, la plus abominable des violences c’est la
ruine de l’espérance. C’est la faillite de la pensée qui fait de celles qui accèdent à
l’instruction des exilées chez elles comme dans leur société. C’est ça l’exil ! Pour
celles-ci, traverser les frontières, mettre les plus grandes distances entre elles et leur
famille, entre elles et un pays qui leur refuse la liberté est une délivrance. (DRDA, p.
57)
Scrivere è il primo passo nella ribellione della donna verso le imposizioni
degli uomini della sua famiglia e delle convezioni sociali. La scrittura è vista
come possibilità di fuga. Le parole, attraverso le lettere e i romanzi, volano
lontano, su altre sponde e presagiscono la partenza di chi le scrive. Anche Assia
Djebar intreccia il discorso dell’istruzione, della scrittura e dell’amore, gridando
la sua rabbia contro la convenzione dei matrimoni combinati, che annullano
l’individuo e il suo diritto di scegliere per la propria vita.
- Jamais, jamais, je ne me laisserai marier un jour à un inconnu qui, en une nuit, aura
le droit de me toucher! C’est pour cela que j’écris ! Quelqu’un viendra dans ce trou
pour me prendre : il sera un inconnu pour mon père ou mon frère, certainement pas
pour moi!
Chaque nuit, la voix véhémente déroulait la même promesse puérile. Je pressentais
que, derrière la torpeur du hameau, se préparait, insoupçonné, un étrange combat de
femmes. (AF, p. 24)
Anche il romanzo di Nafisi è un discorso sui diritti umani delle donne. La
quarta ed ultima parte del romanzo, l’unica dedicata ad una scrittrice donna,
l’inglese Jane Austen, rappresenta un discorso di denuncia di tutte le privazioni
che le donne devono subire ad opera del regime islamico dell’Iran. La parola
diritti è ripetuta molte volte, sempre per sottolineare il fatto che alle donne la
legge iraniana non riconosce gli stessi diritti che agli uomini. Non hanno gli stessi
diritti in tutti i campi della vita, sia negli ambiti pubblici che in quelli privati.
Come Djebar, anche Nafisi tocca ripetutamente il problema della libertà nel
matrimonio e della tradizione dei matrimoni combinati, pratica che toglie ogni
diritto alla donna di decidere sulla propria vita. Inoltre, preme sull’idea
dell’importanza di combattere per la libertà politica ma soprattutto per quella
individuale. Alla base di tutti i diritti individuali sta il diritto alla felicità.
“I was thinking about life, liberty and the pursuit of happiness, about the fact that my
girls are not happy. What I mean is that they feel doomed to be unhappy”.
“And how do you propose to go about making them understand that it is their right?”
he asked. “Surely not by encouraging them to act like victims. They have to learn to
fight for their happiness”.
I continued to dig my boots deeper into the snow, struggling to keep pace with him
at the same time. “But so long as we fail to grasp this, and keep fighting for political
freedom without understanding its dependence on individual freedoms, on the fact
that your Sanaz shouldn’t have to go all the way to Turkey to be courted, we don’t
deserve those rights”. (RLT, p. 281)
La promozione dei diritti delle donne passa dunque attraverso il dialogo, le
relazioni e gli insegnamenti di altre donne. Il luogo per lo sviluppo della cultura
dei diritti delle donne è l’interrelazione con le altre donne, che si realizza nel
momento del seminario, del raccontarsi storie e vicende personali, spesso raccolte
attorno ad un tavolino con tè e biscotti, come pure nel dialogo immaginario con le
eroine storiche o con le figure letterarie.
In Dreams of Trespass di Mernissi affiorano, sebbene velati, molti
riferimenti agli insegnamenti e alla forza delle figure femminili che
accompagnano l’infanzia di Fatima all’interno dell’harem, o meglio, dei due
harem che lei conosce, quello della nonna paterna, e quello dei nonni materni, in
campagna. La prima figura “femminista” che incontriamo è la mamma di Fatima,
che, sebbene non istruita e relegata nell’harem, è a suo modo una figura che si
ribella al conformismo sociale e alle tradizioni familiari e religiose che opprimono
la donna. Allo stesso tempo, è proprio la madre che cerca di trasmettere le proprie
idee di uguaglianza tra uomini e donne e di insegnare alla figlia a combattere per
ciò in cui crede. Si tratta sicuramente di una donna con una forte personalità, che
sa quello che vuole, non accetta di essere sottomessa al marito né alla famiglia ed
è ben consapevole delle proprie capacità e sa far valere le proprie opinioni.
Mother would not allow any publicly visible distinctions to be made between our
salon and Uncle’s, although Uncle was the firstborn son, and therefore traditionally
entitled to larger and more elaborate living quarters. Not only was Uncle older and
richer than Father, but he also had a larger immediate family. […] But Mother who
hated communal harem life and dreamt of an eternal tête-à-tête with Father, only
accepted what she called the ‘azma (crisis) arrangement on the condition that no
distinction be made between the wives. She would enjoy the exact same privileges as
Uncle’s wife, despite their disparities in rank. (DT, pp. 5-6)
Con il proprio esempio, fin dalla nascita la madre sembra indicare alla figlia
la direzione da seguire e la forza delle proprie convinzioni nella parità di tutti gli
esseri umani, a prescindere dal genere.
Samìr and I were born the same day, in a long Ramadan afternoon, with hardly one
hour’s difference. He came first, born on the second floor, the seventh child of his
mother. I was born one hour later in our salon downstairs, my parents’ firstborn and
although Mother was exhausted, she insisted that my aunts and relatives hold the
same celebration rituals for me as for Samir. She had always rejected male
superiority as nonsense and totally anti-Muslim – “Allah made us equal”, she would
say. (DT, pp. 8-9)
È lo stesso insegnamento che Fatima riceve, non a caso, dalla nonna
Jasmina, la madre di sua madre, che deve aver parlato con le stesse parole alla
figlia.
Jasmina said that I should never accept inequality, for it was not logical. That was
why she named her fat white duck Lalla Thor. (DT, p. 26)
Le parole sono spesso seguite da azioni, che, come le parole, rivelano forza
d’animo e di personalità. Le azioni sono le scelte che si compiono nelle varie età
della vita, come pure si sceglie se lottare, difendersi e opporsi all’ingiustizia, o
soccombere. È una piccola battaglia contro l’ingiustizia anche chiamare l’oca con
il nome della prima moglie del marito per vendicarsi dei privilegi di lei.
Sono le parole, le narrazioni e le scritture a forgiare la personalità.
Attraverso queste, madri e nonne insegnano ai bambini e alle bambine a stare al
mondo, nella società, a non lasciarsi sopraffare, a far sentire le proprie visioni, a
“gridare e protestare” per i torti e i soprusi subiti. Attraverso le parole, le donne
possono dunque difendere se stesse, come pure altri esseri più deboli, anzi
possono imparare a difendere meglio se stesse attraverso la difesa dei più deboli.
Inoltre, devono imparare a non fare affidamento sugli altri, ma prendere in mano
la propria vita e le proprie idee ed imporsi e ribellarsi per se stesse.
But Mother kept saying that I could not rely on Samir to do all the rebelling for me:
“You have to learn to scream and protest, just the way you learnt to walk and talk.
Crying when you are insulted is like asking for more”. She was so worried that I
would grow up to be an obsequious woman that she consulted Grandmother
Yasmina, known to be incomparable at staging confrontations, when visiting her on
summer vacations. Grandmother advised her to stop comparing me with Samir, and
to push me instead to develop a protective attitude toward the younger children. (DT,
pp. 9-10)
Con l’aiuto dell’immaginazione, le storie, le favole e le narrazioni hanno
dunque il grande potere di sovvertire la realtà, di aprire spiragli e vie di fuga, che
possono concretizzarsi come uno spiegare le ali e volarsene via dalla finestra,
liquefarsi ed evadere attraverso la crepa di un muro, aprire la porta magica di un
nuovo mondo nell’atto di voltare una pagina.
I have a recurring fantasy that one more article has been added to the Bill of Rights:
the right to free access to imagination. I have come to believe that genuine
democracy cannot exist without the freedom to imagine and the right to use
imaginative works without any restrictions. To have a whole life, one must have the
possibility of publicly shaping and expressing private worlds, dreams, thoughts and
desires, of constantly having access to a dialogue between the public and private
worlds. How else do we know we have existed, felt, desired, hated, feared? (RLT,
pp. 338-339)
CONCLUSIONI
Tutte le opere delle autrici analizzare in questo lavoro hanno in comune una
dinamica interazione tra spazio aperto e spazio chiuso, dove nel chiuso si ricerca
lo spazio aperto.
Lo spazio della narrazione si configura come uno spazio interno, inscritto
nello spazio chiuso dell’harem (Mernissi, Djebar), della famiglia (Mokeddem),
del regime oppressivo (Nafisi, Satrapi), ma che grazie all’immaginazione, si
allarga e supera le barriere fisiche e le frontiere socio-politiche e culturali. Grazie
alla via di fuga rappresentata dall’immaginazione, queste donne trovano uno
spazio interno allo spazio chiuso, nel quale sono padrone di se stesse e sfuggono
ai controlli degli uomini. Si tratta di uno spazio di un esilio temporaneo, poiché,
una volta concluso il tempo della narrazione del racconto (Mernissi), della lettura
(Mokeddem) o della lettura seguita dalla discussione di gruppo (Nafisi), sono
costrette a ritornare alla realtà, a far rientro dall’evasione immaginaria.
Il rientro nello spazio chiuso della condizione femminile si carica, però, di
una maggiore consapevolezza del proprio mondo, visto attraverso occhi che hanno
conosciuto anche una realtà diversa. La lettura di romanzi appartenenti alla
letteratura occidentale, degli Stati Uniti come di quella francese, si trasforma in
esperienza quasi in prima persona di quei luoghi e di quella società e culture. In
questo, si può paragonare la lettura ad una forma non di evasione ma di auto-esilio
e di esplorazione alla fine del quale avviene il ritorno dell’esule in patria. Come si
evince dai discorsi teorici di vari autori, come ad esempio Rushdie, Said, Trinh T.
Minh-Ha e Linhartova, l’esilio come condizione racchiude elementi utopici e
distopici. Da tutti emerge l’idea che, sebbene l’esilio da un lato sia una condizione
di sofferenza e tristezza, dall’altro rappresenta una straordinaria apertura alla
pluralità di visione, creatività, originalità data dall’opportunità di attraversare
frontiere e calpestare nuove terre. Nell’esilio è presente, quindi, la distanza che
permette di vedere attraverso una doppia prospettiva, quella di un individuo che,
allo stesso tempo, si trova all’interno e all’esterno della società. Se il ritorno alla
realtà corrisponde al rientro dell’esule, il tempo della lettura e della narrazione
corrispondono al tempo passato in esilio. La lettura e la narrazione sono dunque,
esse stesse, forme dell’esilio.
Un esilio di questo tipo è molto diverso da quello che Rushdie chiama
“internal exile” o “ghetto mentality”. Non si tratta, nel caso delle scrittrici, di
un’ulteriore chiusura in uno spazio già di per sé limitato e senza apertura
all’esterno, bensì di un ritagliarsi uno spazio interno da cui poi evadere in un’altra
dimensione.
Si è vista l’importanza dell’oggetto libro per le scrittrici Mokeddem e
Nafisi. Il libro, per loro, è un concentrato di democrazia e libertà. È lo spazio dove
potersi esprimere e realizzare se stesse. Il libro come oggetto di lettura è l’unico
spazio possibile per una donna in Algeria o in Iran, paesi dominati da un regime
che opprime e relega le donne ad una condizione di silenzio e invisibilità. La
lettura, come afferma Mokeddem, è la prima forma di esilio per sottrarsi,
attraverso l’immaginazione, ai controlli dei guardiani del paese. I libri per
Mokeddem e il seminario di Nafisi e delle ragazze rappresentano lo spazio
occidentale che penetra nel loro paese attraverso frontiere clandestine, le frontiere
dell’immaginazione, che si concretizzano nelle metafore di finestre aperte, crepe e
fessure sui muri. Attraverso quelle stesse crepe, le donne riescono a sfuggire ai
controlli e ad esiliarsi, per quanto temporaneamente, in un altro mondo. Siamo in
presenza, quindi, di un doppio movimento: il libro si fa veicolo, da un lato,
dell’evasione clandestina e, dall’altro, del contrabbando di idee e visioni di una
società diversa.
Quando anche questo spazio della lettura non è più sufficiente, l’unica
opzione che resta è l’esilio in un altro paese. Sia Mokeddem che Nafisi (e
qualcuna delle ragazze che partecipavano al seminario) hanno scelto di lasciare il
proprio paese per andare a vivere in Francia o negli Stati Uniti, optando quindi per
l’auto-esilio. Solo una volta arrivate sul suolo straniero occidentale, possono
avvicinarsi di nuovo al libro, questa volta attraverso la scrittura. Questa
rappresenta un altro spazio e il libro si fa, questa volta, veicolo per una
rivisitazione della patria abbandonata, per ripercorrerne le strade e le vicende. Si
scrive per ritrovare lo spazio di origine, per colmare il vuoto e guarire la nostalgia
lasciata dalla partenza. Come Nafisi, anche Satrapi, rientra in Iran attraverso il
discorso fatto di parole e disegni del fumetto, e può farlo solo dall’esilio parigino,
solo, cioè, dopo aver messo una distanza tra sé e il paese, distanza che le permette
di rientrare a modo suo, con un linguaggio che, come dice Djebar, è finalmente il
suo.
La rivisitazione del proprio paese attraverso la scrittura è un punto in
comune di tutte le scrittrici analizzate in questo lavoro, con l’eccezione di Fatima
Mernissi, che è rimasta a vivere in Marocco, e di Abinader che, nel brano qui
analizzato, parla piuttosto della propria esperienza nel nuovo mondo. Dall’esilio
riempiono l’assenza della propria terra sostituendola con la scrittura, che la
racconta e la rielabora.
Se Mokeddem e Nafisi sono accomunate dal libro come spazio della libertà
e della democrazia e veicolo per l’attraversamento delle frontiere, Mokeddem ha
in comune con Djebar la fede nella scuola come primo luogo di liberazione della
donna. Scuola è sinonimo di uscita e di movimento: dai primi passi lungo la via
che conduce all’edificio scolastico, l’istruzione diventa via via il cammino verso
l’auto-consapevolezza e l’acquisizione di quelle libertà che solo una donna istruita
può ottenere. “Esce perché legge”, cioè perché studia, diceva la madre di Assia
della figlia. Per Mokeddem e Djebar, la condizione femminile può essere
rappresentata con la metafora dello spazio chiuso, caratterizzato dall’imposizione
dell’immobilità e del silenzio. L’istruzione equivale, per le donne algerine, alla
possibilità di uscire dalla casa, dal controllo familiare e, letteralmente, di muoversi
camminando per la strada e in città da sole, senza la costante scorta di un uomo.
Anche per Mernissi è fondamentale la dinamica tra lo spazio chiuso e
squadrato dell’harem e lo spazio aperto della fantasia della narrazione. Questo
spazio aperto è innanzitutto lo spazio del sogno creato dall’immaginazione, il
dreams del titolo. In secondo luogo questo spazio permette letteralmente di
immaginare, cioè vedere con gli occhi della mente la possibilità di oltrepassare le
frontiere. Il terzo passo si attua nel realizzare quello che si è immaginato, cioè
concretizzare questo passaggio di frontiere (trespass).
Come lo spazio del seminario in Nafisi, il momento della narrazione e delle
rappresentazioni teatrali in Mernissi rappresentano l’esilio delle donne, il
momento e lo spazio in cui possono vivere secondo regole e leggi differenti da
quelle del Marocco degli anni cinquanta in cui si trovano a vivere. Il racconto
equivale al viaggio e all’incontro di stranieri, a comunicare con individui che
portano in sé un’altra visione del mondo.
L’esilio, dunque, per queste donne e scrittrici equivale alla via per l’autoliberazione, per uscire dallo spazio chiuso della tradizione, della società e delle
leggi statali che reprimono la parte femminile dalla società. L’istruzione e
l’apprendimento di una lingua occidentale e della cultura di libertà che questa
veicola sono in questo strumentali.
L’esilio non comporta un voltare le spalle al paese natio e ciò è dimostrato
dalle continue rivisitazioni della patria attraverso la scrittura. Si tratta, però, di una
rivisitazione fatta dalla prospettiva dell’altrove, poiché si scrive da un paese altro
e in una lingua altra/dell’altro. La doppia prospettiva dell’“insider outside”
permette di parlare con profonda conoscenza della realtà interna del paese di
origine, avendo allo stesso tempo la prospettiva dell’altrove.
Raccontare la patria con e attraverso la lingua inglese o francese significa
guardare, letteralmente, ‘attraverso’ la cultura dell’altro. Solo dopo essersi
allontanate dallo spazio chiuso, aver conquistato la libertà di movimento e la
lingua dell’altro, queste scrittrici possono tornare nel proprio paese. E’ la lingua
dell’altro che permette loro di ritornare a rivisitare i luoghi e le voci della terra
d’origine e recuperarne gli elementi positivi. Solo a questo punto, la narrazione
diventa veramente loro, “enfin mien”, prendendo in prestito le parole di Djebar
(CVQA, p. 29).
Nel testo di Abinader è la cultura materiale della tradizione che si fa luogo
della narrazione. Gli odori della cucina libanese e i dolci suoni della lingua araba
non costituiscono un ostacolo, una barriera alla realizzazione personale. La
tradizione e la cultura del paese di origine viene rivalutata da Abinader grazie al
fatto che la donna può attraversare la soglia di casa ogni giorno e può uscire
liberamente. Riuscire ad apprezzare la tradizione e la cultura di origine deriva
dalla consapevolezza di vivere nell’“hyphen”, nella condizione di transito che
permette di vivere in un costante attraversamento di frontiere culturali e
linguistiche.
BIBLIOGRAFIA
Testi primari
•
Abdolah, Khader, Il viaggio delle bottiglie vuote, Iperborea, Milano, 2001.
•
Abinader, Elmaz, Children of the Roojme. A Family's Journey from Lebanon
(1991), University of Winsconsin Press, Madison (WI), 1997.
•
_______, Just Off the Main Street, in Writers on America,
WWW URL: http://usinfo.state.gov/products/pubs/writers/abinader.htm,
09/09/2004.
1
Abu Zayd, Nasr Hamid, Una vita con l’Islam, Il Mulino, Bologna, 2004.
•
Adnan, Etel, Of Cities and Women (Letters to Fawwaz), Post-Apollo Press,
Sausalito, CA, 1993.
•
_______, To Write in a Foreign Language, WWW URL:
http://www.poetry.org/issues/issue1/alltext.esadn.htm, 02.01.2005.
•
Alvarez, Julia, How the Garcia Girls Lost Their Accents, Bloomsbury, London,
1994.
•
Amrouche, Fadhma Aït Mansour, Histoire de ma vie, Bouchène, Alger, 1990.
•
Anzaldùa, Gloria, Borderlands/La Frontera—The New Mestiza, Aunt Lute Books,
San Francisco, 1987, trad. it. di Paola Zaccaria, Terre di confine/La Frontera,
Palomar, Bari, 2000.
•
Blixen, Karen, Out of Africa, Putnam, 1937, trad. it. La mia Africa, Feltrinelli,
Milano, 1996.
•
Brodskij, Iosif, Dall’esilio, Adelphi, Milano, 1987.
•
Cixous, Hélène, Les rêveries de la femme sauvage. Scènes primitives, Galilée, Paris,
2000, trad. it. di Nadia Setti, Le fantasticherie della donna selvaggia, Bollati
Boringhieri, Torino, 2005.
•
Cioran, Emil Michel, Syllogismes de l’amertume, Gallimard, Paris,1952, trad. it di
Cristina Rognoni, Sillogismi dell’amarezza, Adelphi, Milano, 1993.
•
Colombo, Valentina, a cura di, Parola di donna, corpo di donna. Antologia di
scrittrici arabe contemporanee, Mondadori, Milano, 2005.
•
Djebar, Assia, Femmes d’Alger dans leur appartement, Albin Michel, Paris, 1980,
trad. it. di Gianfrancesco Turano, Donne d’Algeri nei loro appartamenti, Giunti,
Firenze, 1988.
•
_______, Loin de Médine. Filles d’Ismaël, Albin Michel, Paris, 1991, trad. it. di
Claudia Maria Tresso, Lontano da Medina. Figlie di Ismaele, Giunti, Firenze,
2001.
•
_______, L’Amour, la fantasia, Albin Michel, Paris, 1995, trad. it di D. Marin e E.
Salvadori, L’amore, la guerra, Ibis, Como, 1995.
•
_______, Le Blanc de l’Algérie, Albin Michel, Paris, 1995, trad. it. di R. Salvadori,
Bianco d’Algeria, Il Saggiatore, Milano, 1998.
•
_______, Ces voix qui m’assiègent… en marge de ma francophonie, Albin Michel,
Paris, 1999, trad. it. di Roberto Salvadori, Queste voci che mi assediano. Scrivere
nella lingua dell’Altro, Il Saggiatore, Milano, 2004.
•
_______, Oran, Langue Morte, Actes Sud, Paris, 1999, trad. it. di Claudia Maria
Tresso e Marco Rivalta, Nel cuore della notte algerina, Giunti, Firenze, 1998.
•
_______, La femme sans sépulture, Albin Michel, Paris, 2002, trad. it. di Francesco
Bruno, La donna senza sepoltura, Il Saggiatore, Milano, 2002.
•
_______, La Disparition de la langue française, Albin Michel, Paris, 2003.
•
_______, Idiome de l’exil et langue de l’irréductibilité, in « Remue.net Littérature »,
http://www.remue.net/cont/Djebar01.html, 11.09.2004.
•
Hoffman, Eva, Lost in Translation: A Life in a New Language, Penguin, London,
1990.
•
Huston, Nancy e Sebbar, Leïla, Lettres parisiennes. Histoires d’exil, J’ai lu, Paris,
1986.
• Huston, Nancy, Nord Perdu, Actes Sud, Paris, 1999.
• Kahf, Mohja, E-Mails from Scheherazad, University Press of Florida, Gainesville,
2003.
•
Khatibi, Abdelkebir, Amour bilingue, Fata Morgana, Montpellier, 1983.
•
_______, Du bilinguisme, Denoël, Paris, 1985.
•
Kristof, Agota, L’Analphabète. Récit autobiographique, Éditions Zoè, CarougeGenève, 2004.
•
Koltès, Bernard-Marie, Le Retour au désert, Les Éditions de Minuit, Paris, 1988.
•
Lakhous, Amara, “Elegia dell’esilio compiuto”, in Kùma, WWW URL:
http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/sezioni/narrativa/Amara_Lakhous.html,
26.11.2005.
•
Le Guin, Ursula K., “Towards an Archaeology of the Future”, in Always Coming
Home, Harper and Row, New York, 1985.
•
Mehran, Marsha, Pomegranate Soup, Random House, New York, 2005.
•
Mernissi, Fatema, Le harem politique. Le Prophète et les femmes, Albin Michel,
Paris, 1987, trad. it. di G.M. Del Re, Donne del profeta: la condizione femminile
nell'Islam, Edizioni Culturali Internazionali Genova, Genova, 1992.
•
_______, Chahrazad n'est pas marocaine, Le Fennec, Casablanca, 1988, trad. it. di
S. Scagliotti, Chahrazad non è marocchina, Torino, Sonda, 1993.
•
_______, La peur-modernité. Conflit Islam démocratie, Albin Michel, Paris, 1992,
trad. it. di Emanuela Chiappo e Giulia Micciché, Islam e democrazia. La paura
della modernità, Giunti, Firenze, 2002.
•
_______, Dreams of Trespass. Tales of a Harem Girlhood, Addison Wesley,
Reading, MA, 1995, trad. it. di Rosa Rita D’Acquarica, La terrazza proibita. Vita
nell’harem, Giunti, Firenze, 1996.
•
_______, Scheherazade goes West, or: The European Harem, Washington Square
Press, Washington, 2000, trad. it. di Rosa Rita D’Acquarica, L’Harem e
l’Occidente, Giunti, Firenze, 2000.
•
_______, Les Sindbads Marocaines. Voyage dans le Maroc Civique, Édition
Marsam, Rabat, 2004, trad. it. di E. Bartuli, Karavan. Dal deserto al web, Firenze,
Giunti, 2004.
•
Moï, Anna, Espéranto, désespéranto. La francophonie sans les Français,
Gallimard, Paris, 2006.
•
Mokeddem, Malika, Les hommes qui marchent, Grasset, Paris, 1990, trad. it. di
Claudia Maria Tresso, Gente in cammino, Giunti, Firenze, 2004.
•
_______, Le Siècle des sauterelles, Ramsay, Paris, 1992
•
_______, L’interdite, Grasset, Paris, 1993.
•
_______, Des rêves et des assassins, Grasset & Fasquelle, Paris, 1995, trad. it. di
Claudia Maria Tresso, Storia di sogni e di assassini, Giunti, Firenze, 1997.
•
_______, N’zid, Editions du Seuil, Paris, 2001.
•
_______, La transe des insoumis, Grasset, Paris, 2003.
•
_______, “Langue, ô ma langue”, Le Monde, mardi 2 juin 1991, p. 2.
•
Nafisi, Azar, Reading Lolita in Teheran. A Memoir in Books, Random House, New
York, 2003, trad. it. di Roberto Serrai, Leggere Lolita a Teheran, Adelphi,
Milano, 2004.
•
Rushdie, Salman, Imaginary Homelands. Essays and Criticism 1981-91, Granta
Books, London, 1991.
•
_______, The Satanic Verses, Vintage, London, 1998 (1988), trad. it. di Ettore
Capriolo, I versi satanici, Arnoldo Mondadori, Milano, 1989.
•
Said, Edward, Out of Place: A Memoir, Knopf, New York, 2000.
•
Salih, al-Tayyib (Tayeb Salih), Saison de la migration vers le Nord, Sindbad, Paris,
1983 (1969).
•
Satrapi, Marjan, Persepolis (2000-2003), L’Association, Paris, 2007.
•
Sebbar, Leila, Je ne parle pas la langue de mon père, Julliard, Paris, 2003.
•
Ugrešić, Dubravka, The Culture of Lies. Antipolitical Essays, Phoenix, London,
1998 (1995).
•
_______, Muzej bezuvjetne predaje, Lijepa književnost, Zagreb, 2002 (scritto 1996),
trad. it di Lara Cerruti, Il museo della resa incondizionata, Bompiani, Milano,
2002.
•
_______, Zabranjeno čitanje, Geopoetika, Beograd, 2001 (scritto 2000), trad. it. di
Milena Djoković, Vietato Leggere, Nottetempo, Roma, 2005.
•
_______, Ministarstvo Boli, Fabrika Knjiga, Beograd, 2004, trad. it. di Lara Cerruti,
Il ministero del dolore, Garzanti, Milano, 2007.
•
_______, Nikog nema doma, Devedeset stupnjeva, Zagreb, 2005.
•
Woolf, Virginia, A Room of One’s Own, Oxford University Press, Oxford, 2000
(1929).
•
_______, Three Guineas, Oxford University Press, Oxford, 2000.
•
Zouari, Fawzia, Ce pays dont je meurs, Ramsay, Paris, 1999.
•
_______, La Retournée, Ramsay, Paris, 2002.
Testi critici e teorici
•
Agacinski, Sylviane, Politique des sexes, Editions du Seuil, Paris, 1998.
•
Agar-Mendousse, Trudy, Violence et créativité: de l'écriture algérienne au féminin,
l'Harmattan, Paris, 2006.
•
Albano, Maria, Voci dall’Islam. Saggi di letteratura araba contemporanea,
Campanotto, Pasian di Prato (UD), 2005.
•
Alexander, Meena, “Alphabets of Flesh”, in Ella Shohat, a cura di, Talking Visions:
Multicultural Feminism in a Transnational Age, MIT Press, Cambridge (MA),
1998, pp. 143-154.
•
Allen, Paul, Through the Veil. “Reading Lolita in Teheran”: A Story of Love, Books
and revolution, in The Guardian, 13 September 2003, WWW URL:
http://books.guardian.co.uk/print/0,3858,4751320-99942,00.html 23.08.2004.
•
Anderson, Benedict, Imagined communities: reflections on the origin and spread of
nationalism, Verso, London, 1991.
•
Ashcroft, Bill, Gareth Griffiths e Helen Tiffin, The Empire Writes Back, Routledge,
London, 2002 (1989).
•
Bachelard, Gaston, La poétique de l’espace, Presses Universitaires de France, 1978,
trad. it. di Giovannini M., La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 1996.
•
Badie, Bertrand e Marc Sadoun, L’autre. Études réunies pour Alfred Grosser,
Presses de Sciences Politiques, Paris, 1996.
•
Barbour, Stephen e Carmicheal, Cathie, Language and Nationalism in Europe,
Oxford University Press, Oxford, 2000.
•
Beaude, Pierre-Marie, Jacques Fantino et Marie-Anne Vannier, a cura di, La trace:
entre absence et présence : actes du colloque international de Metz [7-9 juin
2001], Ed. du Cerf, Paris, 2004.
•
Ben Jelloun, Tahar, “L’imaginaire dans les sociétés maghrébines”, in Marie-A.
Roque, Les cultures du Maghreb, L’Harmattan, Paris, 1996, pp. 133-145.
•
Benchina, Hocine, L’esilio nella lingua straniera: la letteratura maghrebina di
espressione francese, in Mediatori culturali – DIDAweb, WWW URL:
http://www.didaweb.net/mediatori/articolo.php?id_vol=215 10.09.2004.
•
Berger, Anne-Emmanuelle, a cura di, Algeria in Others’ Languages, Cornell
University Press, Ithaca and London, 2002.
•
Bernabé Jean, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, Éloge de la créolité,
Gallimard, Paris, 1989.
•
Bhabha, Homi K., “The Third Space”, in J. Rutherford, Identity, Community,
Culture, Difference, Lawrence and Wishort, London, 1990, pp. 207-222.
•
________, The location of Culture, Routledge, London, 1994.
•
________, a cura di, Nation and Narration, Routledge, London, 1995.
•
Birnbaum, Robert, Interview. Azar Nafisi, in Identitytheory.com. A literary website,
sort of, WWW URL: http://www.identitytheory.com/interviews/birnbaum139.php
15.08.2004.
•
Bon, François, “Assia Djebar, langue de l’irréductible”, in Remue.net Littérature,
WWW URL: http://www.remue.net/cont/djebar_FB.html 11.09.2004.
•
Bonn, Charles, Le roman algérien de langue française, L’Harmattan, Paris, 1985.
•
Brah, Avtar, Cartographies of Diaspora: Contesting Identities, Routledge, New
York, 1996.
•
Braidotti, Rosi, Nomadic Subjects. Embodiment and Sexual Difference in
Contemporary Feminist Theory, Columbia Univrsity Press, New York, 1994.
•
Broe, Mary Lynn, Angela Ingram (eds), Women's Writing in Exile, Chapel Hill
and London, University of North Carolina Press, 1989.
•
Bruckner, Pascal, Le Vertige de Babel. Cosmopolitisme ou mondialisme, Arléa,
Paris, 1994.
•
Calle-Gruber, Mireille, a cura di, Algérie à plus d'une langue. Études Littéraires,
théories, analyses et débats, Université Laval, automne 2001, pp. 1-262.
•
_______, Assia Djebar ou la résistance de l’écriture. Regards d’un écrivain
d’Algérie, Maisonneuve & Larose, Paris, 2001.
•
_______, a cura di, Assia Djebar, nomade entre les murs. Pour une poétique
transfrontalière, Maisonneuve & Larose, Paris, 2005.
•
Camboni, Marina, Volo a Oriente. Le opere di Toni Maraini, in E. Zolla, a cura di,
L’esotismo nelle letterature moderne, Liguori, Napoli, 1987, pp. 208-213.
•
_______, “Networking women: A research project and a relational model of the
cultural sphere”, in Marina Camboni, a cura di, Networking Women: Subjects,
Places, Links Europe-America. Towards a re-writing of cultural history, 18901939, Ed. di Storia e Letteratura, Roma, 2004, pp. 1-26.
•
Camboni, Marina e Morresi Renata, a cura di, Incontri Transnazionali, Le Monnier,
Firenze, 2005.
•
Camera D’Afflitto, Isabella, Letteratura Araba Contemporanea. Dalla nahdah a
oggi, Carocci, Roma, 2004.
•
Campari, Maria Grazia, Un’altra Europa è possibile. Una cittadinanza per soggetti
differenti, in Raccontar(si). Laboratorio di mediazione interculturale 4. Interventi
e Discorsi, Settembre 2004, WWW URL:
http://xoomer.virgilio.it/raccontarsi/interventi_Campari.pdf 10.09.2004
•
Cavarero, Adriana, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione,
Feltrinelli, Milano, 2003 (1997).
•
Chambers, Iain, Migrancy, Culture, Identity, Routledge, London & New York,
1994.
•
Cixous, Hélène e Clement, Catherine, La jeune née, 10/18, Paris, 1975.
•
Cixous, Hélène, “Sorties: Out and out: Attacks/ways out/forays”, in C. Belsey and J.
Moore (eds), The Feminist Reader: Essays in Gender and the Politics of Literary
Criticism, Blackwell, MA, Cambridge, 1989.
•
________, Three Steps on the Ladder of Writing, Columbia University Press, New
York, 1994, trad. it. di Silvana Carotenuto, Tre passi sulla scala della scrittura,
postfazione di Nadia Setti, Bulzoni, Roma, 2002.
•
Clifford, James, The Predicament of Culture. Twentieth-Century Etnography,
Literature and Art, University of California Press, (1988), trad. it. di Mario
Marchetti, I frutti puri impazziscono. Etnografia, cultura e arte nel XX secolo,
Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
•
________, Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Harvard
University Press, Cambridge (Massachusetts) & London (England), 1999.
•
Cohen, Robin, Global Diasporas. An Introduction, UCL Press, London, 1997.
•
Curti, Lidia, a cura di, La nuova Shahrazad. Donne e multiculturalismo, Liguori
editore, Napoli, 2004.
•
________, La voce dell'altra. Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale,
Meltemi, Roma, 2006.
•
Dejeux, Jean, Situation de la littérature maghrébine de langue française, Office des
Publications Universitaires, Alger, 1982.
•
_______, La littérature féminine de langue française au Maghreb, Khartala, Paris,
1994.
•
De Lauretis, Teresa, Sui Generis. Scritti di teoria femminista, Feltrinelli, Milano,
1996.
•
Derrida, Jacques, La dissémination, Seuil, Paris, 1972.
•
_______, L’Ecriture et la différence, Editions du Seuil, Paris, 1979
•
_______, Cosmopolites de tous les pays, encore un effort, Galilée, Paris, 1994.
•
_______, Le Monolinguisme de l’autre, ou La prothèse de l’origine, Galilée, Paris,
1996, trad. it. di Graziella Berto, Il monolinguismo dell’altro, o la protesi
dell’origine, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004.
•
_______, De l’hospitalité, collection Petite Bibliothèque des Idées, ed. CalmanLévy, 1997, trad. it. di Idolina Landolfi, Sull'ospitalità: le riflessioni di uno dei
massimi filosofi contemporanei sulle società multietniche, Baldini & Castoldi,
Milano, 2000.
•
Donadey, Anne, “Assia Djebar’s Poetics of Subversion”, in L’Esprit Créateur,
Summer 1993, Vol. XXXIII, No. 2, p. 107-117.
•
Drumbl Johann, “Soglie e frontiere”, in Letterature di frontiera, Bulzoni, Roma,
1991, pp. 139-145.
•
Eagleton, Terry, Fredric Jameson, Edward Said, Nationalism, Colonialism and
Literature, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1997.
•
Erickson, John, Islam and Postcolonial Narrative, Cambridge University Press,
Cambridge, 1998.
•
Even-Zohar, Itamar, “Polysystem studies”, Poetics Today. International Journal for
Theory and Analysis of Literature and Communication, Vol 11, n° 1, 1990.
•
_______, Language Conflict and National Identity, 1997, in Itamar Even-Zohar’s
Site, WWW URL: http://www.tau.ac.il/
~itamarez/works/papers/papers/lngconfl.htm, 08.01.2005.
•
_______, The Role of Literature in the Making of the Nations of Europe, in Itamar
Even-Zohar’s Site, WWW URL: http://www.tau.ac.il/~itamarez, 14.07.2004.
•
Friedman, Susan Stanford, Mappings. Feminism and the Cultural Geographies of
Encounter, Princeton University Press, Princeton, 1998.
•
________, “’Border Talk’, Hybridity, and Performativity. Cultural Theory and
Identity in the Spaces between Difference”, Revista Crìtica de Ciências Sociaias,
07.06.2002, WWW URL http://www.eurozine.com/article/2002-06-07-fridmanen.html, 15.03.2005.
•
________, “Bodies in Motion: A Poetics of Home and Diaspora”, Tulsa Studies in
Women’s Literature 23 (2), Fall 2004, pp. 189-212.
•
________, “Networking Women on a Transnational Landscape: Globalism,
Modernism, and Gender”, in Modernist Women Race Nation: Networking Women
1890-1950. Circumatlantic Connections, a cura di Giovanna Covi, Mango Press,
London, 2005, pp. 32-44.
•
________, “Migrations, Diasporas, and Borders”, in Introduction to Scholarship in
the Modern Languages and Literatures, a cura di David Nicholls, MLA
Publications, New York, 2007, pp. 260-293.
•
________, “Unthinking Manifest Destiny: Muslim Modernities in Three
Continents”, in American Solitudes: Individual, National, Transnational, a cura di
Donatella Izzo, Giorgio Mariani, Paola Zaccaria, Carocci, Roma, 2007, pp. 51-67.
•
Gellner, Ernest, Nations and Nationalism, Cornell University Press, Ithaca, NY,
1983.
•
Ghaussy, Soheila, “A Stepmother Tongue: ‘Feminine Writing’ in Assia Djebar’s
Fantasia: An Algerian Calvacade”, in World Literature Today, 68:3, Summer
1994, University of Oklahoma, pp. 457-462.
•
Gibney, Matthew J., a cura di, La debolezza del più forte. Globalizzazione e diritti
umani, Arnoldo Mondatori, Milano, 2004.
•
Giolfo, Manuela, Attraverso il velo. La donna nel Corano e nella società islamica,
Ananke, Torino, 1999.
•
Glissant, Edouard, Introduction à une poétique du divers, Gallimard, Paris, 1996.
•
________, Poétique de la relation. Poétique III, Gallimard, Paris, 1990.
•
Gnisci Armando e Franca Sinopoli, Manuale storico di letteratura comparata,
Meltemi, Roma, 2000.
•
Gnisci, Armando, a cura di, Letteratura comparata, Bruno Mondadori, Milano,
2002.
•
________, Creolizzare l’Europa, Meltemi, Roma, 2003.
•
Grandguillaume, Gilbert, Arabisation et politique linguistique au Maghreb,
Maisonneuve & Larose, Paris, 1983.
•
Griffin, Gabriele e Rosi Braidotti, Thinking Differently. A Reader in European
Women’s Studies, Zed Books, London and New York, 2002.
•
Guardi Benchina, Jolanda, “La letteratura araba femminile contemporanea”, in Da
Qui. Rivista di letteratura arte e società fra le regioni e le culture mediterranee,
Poiesis, Bari, 5/1999, pp. 263-277.
•
Guibernau, Monserrat, e Hutchinson, John, Understanding Nationalism, Polity
Press, Cambridge, 2001.
•
Haddad, Malek, Les Zéros tournent en rond, Maspéro, Paris, 1961.
•
Haraway, Donna, Simians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature,
Routledge, London, 1991.
•
________, How Like a Leaf, Routledge, New York, 2000.
•
Hawking, Stephen, Dal Big Bang ai buchi neri, Euroclub, Milano, 1989.
•
Helm, Yolande Aline, Malika Mokeddem: envers et contre tout, L'Harmattan, Paris,
2000.
•
Henderson, Mae G. (ed), Borders, Boundaries and Frames, Routledge, New York
and London, 1995.
•
Hobsbawm, Eric e Terence Ranger, a cura di, The Invention of Tradition,
Cambridge University Press, Cambridge, 1999.
•
hooks, bell, Feminist Theory: From Margin to Center, South End Press, Boston,
1984.
•
Huntington, Samuel “The Clash of Civilizations?”, Foreign Affairs, Summer 1993.
•
________, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon and
Schuster, New York, 1996.
•
Hutchinson, John e Anthony Smith, Nationalism, Oxford University Press, Oxford,
1995.
•
________, Ethnicity, Oxford University Press, Oxford, 1995.
•
Huughe, Laurence, Ecrits sous le voile, romancières Algériennes francophones,
écriture & identité, Publisud, Paris, 2001.
•
Irigaray, Luce e Bers, Rachel, Sexes et genres à travers les langues, Grasset, Paris,
1990.
•
Israel, Nico, Outlandish. Writing between Exile and Diaspora, Stanford University
Press, Stanford, 2000.
•
Iveković, Rada, Le sexe de la nation, Léo Scheer, Paris, 2003.
•
Joseph, John Earl, Language and Identity: National, Ethnic, Religious, Palgrave
Macmillan, Basingstoke, 2004.
•
Jouanny, Robert, Singularités francophones ou Choisir d'écrire en français, Presses
universitaires de France, Paris, 2000.
•
Kaplan, Caren, “Deterritorialization: The Rewriting of Home and Exile in Western
Feminist Discourse”, Cultural Critique 6, Spring 1987.
•
________, a cura di, Scattered hegemonies: postmodernity and transnational
feminist practices, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1994.
•
________, Questions of Travel. Postmodern Discourses of Displacement, Durham
and London, Duke University Press, 1998.
•
Kassir, Samir, Considérations sur le malheur arabe, Actes Sud, Arles, 2004, trad. it
di Paola Lagossi, L’infelicità araba, Einaudi, Torino, 2006.
•
Kauffman, Jean-Claude, L’invention de soi. Une théorie de l’identité, Armand
Colin, Paris, 2004.
•
Kreisler, Harry, Between Memory and History. A Writer’s Voice. Conversation with
Eva Hoffman, Author, Institute of International Studies, UC Berkeley, 5 October
2000, WWW URL: http://globetrotter.berkeley.edu/people/Hoffman/hoffmancon0.html, 17.12.2004.
•
Kristeva, Julia, “Women’s Exile: Interview with Luce Irigaray”, Ideology and
Consciousness, 1 (1977), in Cameron, Deborah (ed), The Feminist Critique of
Language: A Reader, London, Routledge, 1990, pp. 80-96.
•
_______, “Women’s Time”, Signs 7, no. 1 (1981), pp. 13-35, reprinted in N.O.
Keohane, M. Z. Rosaldo e B. C. Gelpi, a cura di, Feminist Theory: A Critique of
Ideology, Chicago University Press, Chicago, 1982.
•
_______, Etrangers à nous-mêmes, Gallimard, Paris, 1988.
•
Le Magazine Littéraire, n° 451, Mars 2006, Magazine Expansion, Paris, 2006.
•
Linhartová, Vera, “Pour une ontologie de l’exil”, L’Atelier du roman, Arléa, Paris,
mai 1994, p. 127-132.
•
Lotman, Jurij M e Boris A. Uspenskij, Tipologia della cultura, Bompiani, Bologna,
2001 (1973).
•
Lotman, Jurij M., Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, Laterza,
Bari, 1980.
•
_______, La semiosfera, Marsilio, Venezia, 1985.
•
Makouta-Mboukou, Jean-Pierre, Littératures de l’exil. Des textes sacrés aux œuvres
profanes. Etude comparative, L’Harmattan, Paris, 1993.
•
Mamdouh, Alya, Relazione tenuta al convegno Scritture svelate. Parole e donne dal
Maghreb all’Iran, Torino, 19-20-21 gennaio 2006, WWW URL:
http://www.grinzane.it/default3aspx?cID=2078&ch=3.4&sa=detail.
•
Maraini, Toni, L’esotico e l’esilio. Dialogo con Marina Camboni, in E. Zolla, a
cura di, L’esotismo nelle letterature moderne, Liguori, Napoli, 1987, pp. 214-227.
•
_______, Maghreb e modernità,
http://www.comune.pisa.it/casadonna/htm/doc/Toni_Maraini.doc, 06.11.2005.
•
Massey, Doreen, Space, Place and Gender, Cambridge, MA, Polity Press, 1994.
•
Matvejević, Predrag, Mondo “ex” e tempo del dopo. Identità, ideologie, nazioni
nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano, 2006.
•
Mehrez, Samia, “Translation and the Postcolonial Experience. The Francophone
North African Text”, in Rethinking Translation. Discourse, Subjectivity, Ideology
a cura di Lawrence Venuti, Routledge, London&New York, 1992, pp. 120-138.
•
Minh-Ha, Trinh T., Framer Framed, Routledge, New York, 1991.
•
Mortimer, M., “Assia Djebar’s Algerian Quartet: A Study in Fragmented
Autobiographie”, WWW URL http://www.indiana.edu/%7Eiupress/
journals/ral/ral28-2.html, 14/10/2003.
•
Papastergiadis, Nikos, The Turbulence of Migration: Globalization,
Deterritorialization and Hybridity, Polity Press, Oxford, 2000.
•
Phillips, Caryl, A New World Order: Essays, Vintage International, New York,
2001.
•
Pratt, Mary Louise, Imperial Eyes: Travel Writing and Transculturation, Routledge,
London, 1992.
•
Pratt Ewing, Katherine, “Crossing Borders and Transgressing Boundaries:
Metaphors for Negotiating Multiple Identities”, in Ethos. Communicating Multiple
Identities in Muslim Communities Vol 26, no. 2, June 1996, pp. 262-267. WWW
URL http://links.jstor.org/sici?sici=0091-2131%28199806%2926%3A2%
3C262%3ACBATBM%3E2.0.CO%3B2-%23.
•
Rao, Eleonora, Heart of a Stranger. Contemporary Women Writers and the
Metaphor of Exile, Liguori, Napoli, 2002.
•
Redouane, Najib, Yvette Bénayoun-Szmidt e Robert Elbaz, Malika Mokeddem,
L'Harmattan, Paris, 2003.
•
Rencontres internationales des écritures de l'exil (03 ; 2003 ; Paris), D'encre et d'exil
3 [Texte imprimé] / Troisièmes rencontres internationales des écritures de l'exil ;
organisées par la BPI, du 5 au 7 décembre 2003, dans la Petite Salle du Centre
Pompidou à Paris (2004).
•
Ricœur, Paul, Soi-même comme un autre, Editions du Seuil, Paris, 1990.
•
Ristović, Ana, “Biti Izvan”, intervista con Dubravka Ugrešić, in Rec, 60/5, 2000,
WWW URL http://www.b92.net/casopis_rec/60.6/pdf/111-122.pdf, 26.11.2006.
•
Robertson, George, Melinda Mash, Lisa Tickner, Jon Bird, Barry Curtis e Tim
Putnam, a cura di, Travellers’ Tales: Narratives of Home and Displacement,
Routledge, London, 1994.
•
Robin, Régine, Le Deuil de l’origine. Une langue en trop, la langue en moins,
Éditions Kimé, Paris, 2003.
•
Rocca, Anna, “Père-fille: ècriture et interdit dans l’autobiographie d’Assia Djebar”,
in Peuplesmonde.com, WWW URL : http://www.peuplesmonde.com
/article.php3?id_article=54, 23.08.2004.
•
Said, Edward, Orientalism, Penguin, London, 1995.
•
________, Culture and Imperialism, Vintage, London, 1997.
•
________, Reflections on Exile and Other Essays, Harvard University Press,
Cambridge (Mass), 2000.
•
Salih, Ruba, Muslims and Europe. Navigating across secular and religious fields, in
Raccontar(si). Laboratorio di mediazione interculturale 4. Interventi e Discorsi,
Settembre 2004, WWW URL:
http://xoomer.virgilio.it/raccontarsi/interventi_Salih.pdf, 10.09.2004.
•
Sen, Amartya, Identity and Violence. The Illusion of Destiny, Norton&Co., New
York&London, 2006.
•
Seyhan, Azade, Writing Outside the Nation, University of Princeton Press,
Princeton, 2001.
•
Smith, A. Anthony, The Ethnic Origins of Nations, Blackwell Publishers, Oxford,
1986.
•
________, Nationalism and Modernism: A Critical Survey of Recent Theories of
Nations and Nationalism, Routledge, London, 1998.
•
________, National Identity, Penguin, London, 1991.
•
Spivak, Gayatri Chakravorty, The Postcolonial Critic. Interviews, Strategies,
Dialogue, a cura di S. Harasym, Routledge, London-New York, 1990.
•
________, Death of a Discipline, Columbia University Press, New York, 2003, trad.
it. di Lucia Gunella, Morte di una disciplina, Meltemi, Roma, 2003.
•
Stora, Benjamin, Algérie: Formation d’une Nation, Atlantica, Biarritz, 1998.
•
Tabori, Paul, The Anatomy of Exile, Harrap, London, 1972.
•
Taraghi, Goli, Relazione tenuta al convegno Scritture svelate. Parole e donne dal
Maghreb all’Iran, Torino, 19-20-21 gennaio 2006, WWW URL:
http://www.grinzane.it/default3aspx?cID=2078&ch=3.4&sa=detail.
•
Tariq, Ali, The Clash of Fundamentalisms. Crusades, Jihads and Modernity, Verso,
London-New York, 2002.
•
Vertovec, Stephen, Transnational challenges to the “New” Multiculturalism,
Transnational Community Working Papers, 1999, WWW URL:
http://transcomm.ox.ac.uk/working%20papers/WPTC-2K-06%20Vertovec.pdf,
28.08.2004.
•
Vološinov, Valentin N., e Michail M., Bachtin, Marxismo e filosofia del linguaggio.
Problemi fondamentali del metodo sociologico nella scienza de linguaggio
(1929), Piero Nanni, Lecce, 1999.
•
Zaccaria, Paola, Mappe senza frontiere. Cartografie letterarie dal Modernismo al
Transnazionalismo, Palomar, Bari, 1999.
•
_______, La lingua che ospita, Meltemi, Roma, 2004.
•
Zein, Ramy, Dictionnaire de la littérature libanaise de langue française,
L’Harmattan, Paris, 1998.
•
Zirem, Youcef, « Malika Mokeddem : “Le désert est mon enfance” », in Le
Quotidien de l’Algérie, dimanche 28 juin 1992, p. 20.
•
Zouari, Fawzia, Pour en finir avec Shahrazad, Cérès, Tunis, 1996.
SITOGRAFIA
Siti di scrittori
1
Sito ufficiale di Assia Djebar URL: http://www.assiadjebar.net
2
Sito ufficiale di Tahar Ben Jelloun URL: http://www.taharbenjelloun.org
3
Sito ufficiale di Laila Lalami URL: http://www.lailalalami.com
4
Sito officiale di Fatima Mernissi URL: www.mernissi.net
6
Sito ufficiale del film Persepolis, di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud Sito
ufficiale di Dubravka Ugrešić URL: http://www.dubravkaugresic.com
7
http://www.myspace.com/persepolislefilm
8
Sito dell’artista messicano Giullermo Gòmez-Peña http://www.pochanostra.com
Riviste letterarie online
1
Afriche e Orienti. Rivista di studi ai confini tra Africa Mediterraneo e Medio
Oriente URL: http://www.comune.bologna.it/iperbole/africheorienti/index.html
2
El Ghibli Rivista online di letteratura della migrazione URL: http://www.elghibli.provincia.bologna.it
3
Exiled Writers Ink! URL: http://www.exiledwriters.co.uk
4
Incontri. Videoteca di autori contemporanei URL:
http://www.rainews24.it/ran24/rubriche/incontri/archivio.asp
5
Kùma. Creolizzare l’Europa, URL:
http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/kuma.html
6
Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale
URL: http://www.juragentium.unifi.it/it/index.htm
7
Osservatorio Balcani URL: http://www.osservatoriobalcani.org
8
Pagina Zero. Letterature di frontiera ULR:
http://www.rivistapaginazero.net/home.htm
9
Sagarana URL: http://www.sagarana.net
10 Souffles. Revue culturelle arabe du Maghreb URL :
http://www.seattleu.edu/souffles
Altri
Hyper Atlas de la Francophonie http://www.unites.uqam.ca/vilmonde/index_f.html