Continua a leggere il testo di Martina Corgnati

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Continua a leggere il testo di Martina Corgnati
<<Partito dal post-informale degli anni ’55-’60, attratto anche da effetti di fenomeni naturali
(temporali, fulmini), a poco a poco ho cercato di eliminare dalla tessitura dell’opera la trama del
gesto aggressivo creandone volontariamente uno ex-novo>>. È Vittore Frattini stesso a parlare di sé
con queste parole piuttosto sintetiche e rivelatrici pronunciate ormai quasi trent’anni fa, nel 1977.
Talmente sintetiche e rivelatrici che è proprio da loro che voglio partire in questo itinerario critico
attraverso la sua opera, i suoi materiali, le sue strutture e il suo segno/lumen, un segno che nel
panorama dell’arte italiana degli ultimi decenni si ha l’ardire di definire unico.
Continua: <<da tre anni a questa parte, la convinzione che le poetiche che contano consistono nello
sviluppo decisivo che si dà al “mezzo” e che la vera novità dei linguaggi consiste appunto in questo
rinnovamento, mi ha sempre più sostenuto. Artisti americani: Kennet Noland, Barnett Newman e
Morris Louis, usando tele grezze mi hanno aiutato a concepire una materia più fresca;
successivamente, quasi per gioco, provai dei colori acrilici luminescenti e ne risultò così una
visione anche notturna dell’opera: i LUMEN appunto. Non sono mancate, ovviamente, le
inquietudini, i dubbi, la fatica del cercare, ma il superamento di una concezione esistenziale
negativa dell’uomo e il recupero di esperienze essenziali sia di fenomeni naturali sia di quelli
forniti, tanto per esemplificare, da apparecchiature elettroniche che consentono di tradurre
graficamente le vibrazioni stesse del nostro cuore che si fanno linee-luce, può forse costituire un
esito non banale>>.
Il discorso, dunque, che si prefigura non è affatto semplice e non è per niente banale. D’altronde
salta all’occhio come le questioni fondamentali che guideranno Frattini attraverso la lunga
elaborazione della sua opera, siano in fondo già tutte lì, già poste tutte insieme in queste poche righe
fondamentali nel 1977. Frattini, potremmo anche dire, non ha cambiato idea e continua a coltivare
lo stesso campo, ottenendo da quella semina antica fiori sempre più colorati, magnifici e attuali. Ma
cominciamo dall’inizio. Generazionalmente, l’artista varesotto si affaccia all’arte dall’osservatorio
piuttosto privilegiato delle aule dell’Accademia di Brera, quando l’informale sta consumando le sue
ultime risorse linguistiche e culturali. È figlio d’arte: suo padre Angelo, è uno scultore di qualità e
talento che lo educa allo studio e alla conoscenza amorosa dei materiali. Benché esordisca da
pittore, con una serie di paesaggi dallo spiccato andamento orizzontale, Frattini coltiva così anche
altre pratiche, la terracotta per esempio, di cui si espongono in questa occasione alcune fra le prove
più antiche, il Pugile del 1957, un Paesaggio e Dall’Alto, degli anni Sessanta. In particolare, il
rilievo colpisce, per l’aperta drammaticità, l’intimità, per così dire, di contatto con la materia che
ricorda il Burri dei Cretti ma anche lo straordinario e poco noto Milani delle sculture orizzontali,
quegli affronti a qualunque monumentalità ordinaria dilaganti a terra come macchie d’olio
insofferenti di definizione. Frattini è più giovane, abbraccia in un solo sguardo la fine tutto
sommato non troppo decorosa che sta facendo l’informale italiano, poco capace di scelte radicali,
ripiegato troppo spesso su se stesso in un’attitudine di autocompiacimento un po’ crepuscolare.
Difficile inventare, e forse anche inutile: perché aggiungere ancora altre pulsioni, altra soggettività
ai dieci anni e più di emozioni forti, di scelte personali, soggettive, irripetibili, di scontri spettacolari
con la propria, famosa condizione umana… l’artista parla (male) di gesto aggressivo e di
concezione esistenziale negativa; limiti, entrambi, malattie infantili da cui vaccinarsi una volta per
tutte. Ma cosa significa questo ? è lui stesso a offrirci la risposta, sviluppo decisivo che si dà al
mezzo. Superficiale, cioè, pensare a qualcosa di nuovo da mettere ancora una volta sopra al quadro,
inutile attribuire alla scultura tradizionale un altro possibile soggetto, quello che va rivoltato come
un guanto è lo stesso oggetto-quadro nella sua presenza fondamentale, lo stesso oggetto-scultura,
anche se l’operazione comporta un sovvertimento radicale delle apparenze dell’arte e anche delle
distinzioni fra generi tradizionali.
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L’esigenza di rinnovamento che Frattini avverte così fortemente fra gli anni Sessanta e primissimi
Settanta, è stata condivisa e in parte è anche scaturita dalle proposizioni di Piero Manzoni (Libera
dimensione in Azimuth 2, 1959), di tutti i gruppi cinetici e programmatici italiani e non (T, Enne,
Zero…), disposti a servirsi di qualsiasi mezzo per agitare le acque stagnanti di un linguaggio
artistico che sta perdendo il treno nei confronti della storia e della tecnica; e più profondamente
ancora attinge all’esperienza del Mac con cui Frattini condivide ben più di una risorsa e un
interesse: la dedizione alla didattica e all’insegnamento (ha diretto il Liceo Artistico Statale di
Varese fino al 1976), l’apertura verso una forma d’arte totale, il gusto per la sperimentazione dei
materiali concreta e vissuta, l’attenzione alle innovazioni tecniche. Per cominciare, l’artista prende
l’abitudine di considerare le cose dall’alto, in modo che in questi ambigui paesaggi dei primissimi
anni Settanta, non sia più rintracciabile una direzione certa, un alto, un basso, un orizzonte, uno
spazio prospetticamente definito. Pianta e prospetti del visibile si sovrappongono e si confondono in
una sensazione visiva unitaria, restituita, spesso, in semplici appunti ad acquarello, piccole carte
minute e discrete, rapide come l’impressione che le ha prodotte. La pittura sta diventando, in un
certo senso, diaristica, progressiva, collezioni di appunti, modi per andare continuamente al di là.
Concepire una materia più fresca. Questo comporta fare il vuoto, ammettere la tela in quanto tale, il
segno nella sua concentrazione assoluta, decantata di tutto, non più funzionale a nulla, nessuna
espressività, stato d’animo, altro. Lo diceva già Manzoni (<<perché non liberare questa superficie
dalle illimitate possibilità?>>, ma la lezione più determinante arriva a Frattini attraverso il logic
colorfield americano, Morris Louis, appunto, Noland e Newman. Importante, forse, un precoce
viaggio a Washington nel 1964. Una materia più fresca, una materia che possa essere direttamente
opera, direttamente sito, significante e referente.
La svolta decisiva avviene nel 1975, con la comparsa dei primi segni puri su tele intitolate, non a
caso, Lineare. Accompagna l’evento un sollecito e tempestivo intervento di Roberto Sanesi, finché
ha vissuto instancabilmente al fianco dei migliori artisti attivi a Milano e dintorni: <<…viene a
rilevarsi l’importanza del segno come supporto anche mentale e di ripartizione stilistica di una
materia che parrebbe, altrimenti, affidarsi unicamente a una sorta di flusso lirico tradotto in luce. Se
valica i confini di una realtà catalogabile, nello stesso tempo ne fissa gli elementi portanti, ne rivela
la struttura essenziale – che attiene ancora alla natura ma senza limitazioni fittizie… si è insinuata
un’esigenza di razionalizzazione. Da cui, per esempio, la nettezza tecnica e espressiva. Il paesaggio
era già un pretesto>>. A Vittore Frattini non importa giustamente un bel niente di essere classificato
figurativo, o astratto. Sono problemi, di non eccessivo interesse, che riguardano i critici italiani, che
in quel momento faticano a lasciarsi alle spalle diatribe piuttosto provinciali e limitate. Dice bene
Sanesi, che di questa compagnia non fa assolutamente parte: natura senza limitazioni fittizie, oltre i
confini di una realtà catalogabile. Giunge sempre a proposito una massima folgorante di Paul Klee:
“l’arte non rappresenta il visibile, rende visibile”. È proprio questo il passaggio, non logico soltanto
ma pratico, di Frattini: penetrare con strumenti naturali in un altro ordine del visibile. D’altronde,
l’idea di paesaggio, non è mai stata così radicalmente sconvolta dalle nuove possibilità di visione
che la tecnica ha raggiunto: paesaggi cosmici si offrono sulle pagine di semplici riviste e giornali
all’ammirazione diffusa; paesaggi dell’infinitamente piccolo, del mondo cellulare o batterico, si
rivelano attraverso le ottiche dei microscopi elettronici. La natura presenta tanti livelli, tanti scenari,
completamente imprevisti e inimmaginabili fino a pochissimo tempo fa. Gli anni Settanta,
veicolano, fra le altre cose, un certo entusiasmo nei confronti della tecnica, delle sue risorse e
innovazioni, cui subentrerà, più tardi, soltanto una fruizione tanto frenetica quanto inebetita. Vi
siamo talmente immersi ormai, ne abbiamo talmente impregnato i nostri rituali quotidiani da non
essere nemmeno più in grado di parlarne. Quelli, invece, erano momenti votati all’analisi: cosa si
può vedere grazie a un segno semplicissimo, colorato, luminoso, rarefatto. Vittore Frattini si
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esercita fino a mettere a punto una tecnica estremamente pulita e preziosa, sensibile al
perfezionismo della calligrafia orientale così come all’impersonalità tecnica dei logic colorfield
painters. Le sue stesure piatte acquistano una levità straordinaria; linee, luce e ritmo, traduzioni,
forse, di eventi biologici, di fasi circadiane monitorate con occhio attento, o forse semplici
astrazioni e riduzioni del fare pittura alle sue componenti più costitutive, più essenziali. Non si tratta
di un giochetto estetizzante, come l’artista sembra temere, si tratta di un processo liberatorio e di
assumersi tutte le volte un nuovo rischio radicale: in queste opere, infatti, non c’è pentimento né
correzione possibile, tutto è in piena luce, l’equilibrio sempre instabile della composizione,
l’intensità del gesto, l’impulso della mano, gli accordi cromatici. Non c’è menzogna possibile, né
margine di errore.
Ma non si tratta solo di pittura: Frattini lotta con i limiti della propria immaginazione per liberare il
segno dalle costrizioni inevitabili del dipingere “propriamente detto”. Limiti di superficie: perché il
segno non dovrebbe invece dispiegarsi in tutta la propria potenza nello spazio a tre dimensioni ? E
poi il tempo, la quarta dimensione: perché il segno non dovrebbe farsi entità autonoma e pura,
suscettibile di mutamento temporale ?
Nascono così, un po’ sperimentalmente se vogliamo, le prime strutture tridimensionali (siamo
intorno al 1977), in legno colorato, smaltato e animato dal segno; ma anche in terracotta incisa,
graffiata e dipinta, e presto in metallo, rame per esempio, poi acciaio e zinco e vetroresina e
alluminio, che, fra tutti i materiali, è presto il prediletto perché consente maggiore libertà, è più
leggero, versatile e resistente di qualunque altra sostanza, si presta alla realizzazione di lastre, come
di rilievi ondulati, come di elementi lineari, strutture pure, definite esteticamente solo dalla propria
libera articolazione spaziale.
Chiamare questi oggetti sculture è riduttivo. Essi hanno liquidato, infatti, tutte le tecniche e le
modalità tradizionali del fare scultura, eludono qualunque ricordo di soggetto, spazzano via persino
valenze quasi obbligate per la plastica contemporanea, come il volume, la patina, l’interno e
l’esterno. Queste opere non hanno volume, non hanno patina e non hanno né interno né esterno.
Occupano una specie di nicchia concettuale che confina da una parte con la scultura tradizionale,
dall’altra col design ma non è né l’una né l’altra di queste cose. Si tratta di pure forme che alludono
alla perfezione della geometria senza identificarsi per questo con alcun paradigma concretista o
razionalista. Postulando rigore, infatti, Vittore Frattini già lo infrange con il libero e fluido scorrere
di questo suo segno colorato e mosso, vero trait d’union di tutta la sua produzione e la sua ricerca.
Un segno che in questa fase diventa anche notturno, acquistando così la capacità di trasformarsi nel
tempo, di risuonare in rapporto alla luce e all’ombra, di mostrare, in circostanze differenti, differenti
aspetti di sé. Quasi per gioco provai dei colori acrilici luminescenti… ma, ancora una volta, non è
un gioco. È l’espediente più drastico per escludere dalla visione il supporto, annullarlo, facendo
respirare nel vuoto soltanto questa flebile traccia di luce colorata.
Scultura e pittura non avevano quasi mai raggiunto, forse, un grado così alto di smaterializzazione
senza ricorrere a parafrasi hi tech e mantenendosi invece in un ambito operativo tutto sommato
tradizionale. Facciamo un passo indietro: fra il ‘29 e il ’30, Julio Gonzales, all’epoca assistente
nello studio di Picasso, o qualcosa del genere, fa tesoro della sua esperienza di fonditore e tecnico di
varie metallurgie per mettere a punto una nuova dimensione della scultura, destinata a superare d’un
balzo tutti i vincoli della statuaria tradizionale tanto lamentati da Arturo Martini per vent’anni
ancora. Nell’opera sua e naturalmente in quella del suo geniale datore di lavoro appaiono così
gabbie saldate di semplici elementi lineari, bacchette metalliche che, senza riempire nulla, senza
occupare alcun spazio significano con straordinaria capacità evocativa aurighi, donne arcigne,
donne procaci, contadinelle dell’Estremadura. Oppure non significano niente, solo segni, appunto
segni nel vuoto.
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Il dado è tratto e da quella geniale esperienza scaturisce una lunga catena di dirompenti
conseguenze. Il lavoro “scultoreo” (ma preferirei definirlo “lavoro nello spazio”) di Vittore Frattini
è un anello di quella catena ininterrotta. A provarlo ci sono soprattutto le realizzazioni ultime e in
particolare alcune delle grandi sculture monumentali che l’artista ha collocato in diversi luoghi di
notevole interesse: penso naturalmente al Monumento a Giovanni Borghi e alla Grande V, alla
dinamica invenzione d’acciaio realizzata presso l’autostrada di accesso all’aeroporto di Malpensa;
ma penso soprattutto a Artocarpus, presentato nel 2004 a Venezia in occasione di OpenAsia, e alla
Fontana installata all’interno dell’impianto di depurazione di Sant’Antonino Ticino. Opere, queste
ultime due, realizzate con elementi tubolari in acciaio colorato, fibre flessibili e aeree, senza peso,
senza profondità, senza ingombro, strutture leggerissime che si muovono nello spazio con la stessa
elegante maestria del segno sulla carta. Artificio, certo, nessuna pretesa di mimesis, nessuna
convenzione naturalistica; dopo Picasso, la Pop Art ha fatto scuola col suo atteggiamento ludico e
le sue invenzioni tutte da godere. Ma quel che più importa è che proprio nelle opere maggiori e più
ufficiali, Frattini insista sulla propria ben sperimentata “via di levare”, invece di irrigidirsi sulle
convenzioni monumentali più usuali, sottragga corpo all’insieme e lascia che il vuoto, il colore e
l’aria si insinuino liberamente, giochino con flessioni e tensioni, con slanci e raccoglimenti del
segno, del segno ancora. <<E’ impossibile che l’uomo non passi all’immagine aerea, universale,
sospesa…>> vaticinava Lucio Fontana in uno dei manifesti dello Spazialismo. Vittore Frattini l’ha
fatto. A modo suo. E non è indifferente neanche il luogo dove ha portato il suo messaggio di
bellezza, un impianto di depurazione, per esempio, non una piscina privata, un luogo dove le risorse
del pianeta, ogni giorno più scarse e più preziose, si proteggono e si riciclano; è lì che l’artista vuole
essere presente con un lavoro intensamente dinamico e simbolico, costituito di elementi dislocati in
punti diversi della superficie di vasche inutilizzate; elementi che, pur senza rappresentare nulla, si
rispondono e si rimandano l’uno flessuosamente ed elegantemente nell’altro. D’altronde l’artista
non ha mai rinunciato all’immagine, ancora meglio, alla natura ma ne ricerca attentamente e
infaticabilmente il senso più profondo, l’essenza al di là dell’apparenza. Non a caso in uno dei suoi
provvidenziali e interessanti quaderni di appunti, quaderni di testi e immagini, incontriamo una
straordinaria citazione di Frank Lloyd Wright: <<quanto più un cavallo è un cavallo; un uccello
uccello; un uomo uomo; una donna donna; tanto meglio è… migliore progetto sarà quel progetto
che più profusamente riveli la verità dell’intimo essere>>. È accanto aggiunge Frattini:
l’asemanticità è una forma di libertà. Al segno, allora, non spetta più significazione alcuna ma
l’intenzione resta quella di addentrarsi nell’intimo, anzi nella verità delle cose, del segno stesso e
della natura della nostra percezione. La libertà creativa e sperimentale a questo punto non ha più
limiti: si è già detto di legni, tele incastonate in rilievo, terrecotte, mosaici, ma bisogna dire ancora
di leggerissime lastre metalliche fuori asse e lievemente ondulate, sulla cui luce fredda il segno
indugia morbido; e poi di mosaici, di superfici metalliche questa volta smaltate e traslucide, dove il
segno non è più colore ma incisione, taglio, sezione, quindi animata enunciazione di uno spazio
ulteriore; e poi ancora vetri, carte, tondini metallici colorati che si librano agili e sottili nel vuoto.
Spesso lo stesso segno migra da un foglio di carta, dove è enunciato con la stessa levità e
insormontabile maestria di un esercizio di calligrafia giapponese, a una scultura. Il pensiero
probabilmente si forma così, sulla carta, dove si snoda già virtualmente nelle tre dimensioni, poi si
raccoglie in una disciplina più ferma, in un progetto più definitivo, e riappare infine, identico ma
diverso, nella scultura.
Non c’è da stupirsi che percorrendo e ripercorrendo infaticabilmente questo tipo di itinerario,
sondando e risondando tutte le possibili metamorfosi e tutte le possibili morfologie del proprio
elemento primo e fondamentale, appunto il segno, Vittore Frattini si sia spinto così oltre. Proprio
questo, probabilmente, era l’implicito compito e la sfida dei linguaggi di confine nella seconda metà
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del Novecento, quei linguaggi che hanno assorbito per osmosi le ultime notizie e le sollecitazioni
del mondo, senza mai perdere di vista se stessi e senza preoccuparsi dei turbamenti che venivano
prodotti a codificazioni e paradigmi, a abitudini e convenzioni operative e commerciali.
È da loro che bisogna partire per ripensare un’arte non più semplicemente moderna, ma
comprensiva, trasgressiva eppure lungimirante: l’arte più adatta per il secolo appena cominciato.
Martina Corgnati
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