Catalogo della mostra

Transcript

Catalogo della mostra
San Fedele Arte
Galleria San Fedele
Via Hoepli 3 a-b
20121 Milano
Premio Arti Visive San Fedele 2008/2009
27 maggio - 10 luglio 2009
mostra a cura di
Andrea Dall’Asta S.I., Angela Madesani,
Daniele Astrologo, Luca Barnabé, Ilaria Bignotti, Chiara Canali, Matteo Galbiati,
Chiara Gatti, Massimo Marchetti, Barbara Sorrentini, Michele Tavola, Fabio Vittorini,
Francesco Zanot, Giuseppe Zito S.I.
opere giovani artisti
Luca BONFANTI, Chiara BONIARDI, Giuseppe BUFFOLI, Elena BUGADA,
Paolo CAVINATO, Marco FERRARIS, Ettore FRANI, Cesare GALLUZZO,
Tamas JOVANOVICS, Giovanni MANTOVANI, Marco MENGHI, Daniela NOVELLO,
Patrizia NOVELLO, Fabrizio POZZOLI, Giulia RONCUCCI, Alessandro SANNA,
Natalia SAURIN, Gaia SCARAMELLA, Carlo Michele SCHIRINZI, Serena VESTRUCCI
opere giovani filmmakers
Francesco AZZINI, Tommaso MELIDEO, HOTEL NUCLEAR
testi in catalogo
Daniele Astrologo, Luca Barnabé, Ilaria Bignotti, Chiara Canali,
Giovanni Chiaramonte, Daniela Cristofori, Andrea Dall’Asta S.I., Matteo Galbiati,
Gabriella Gilli, Giuseppe Guzzetti, Chiara Gatti, Angela Madesani, Massimo Marchetti,
Silvano Petrosino, Barbara Sorrentini, Michele Tavola, Francesco Zanot, Giuseppe Zito S.I.
giuria Premio Arti Visive San Fedele Giovani Artisti
Daniela Annaro, Tullio Brunone, Giuseppina Caccia Dominioni Panza,
Cristina Chiavarino e Lorenza Gazzerro, Andrea Dall’Asta S.I.,
Rosella Ghezzi, Paolo Lamberti, Matteo Lorenzelli,
Angela Madesani, Giovanni Pelloso, Dario Trento
e
Daniele Astrologo, Ilaria Bignotti, Chiara Canali, Matteo Galbiati, Chiara Gatti,
Massimo Marchetti, Michele Tavola e Francesco Zanot
giuria Premio Arti Visive San Fedele Giovani Filmmakers
Marco Bechis, Andrea Dall’Asta S.I.,
Giancarlo Grossini, Marina Spada, Stefano Zara, Giuseppe Zito S.I.
e
Luca Barnabé, Barbara Sorrentini, Fabio Vittorini
giuria Premio Rigamonti
Giorgio Braghieri, Gabriele Caccia Dominioni, Claudio Composti,
Andrea Dall’Asta S.I., Manuela Gandini, Alberto Pellegatta
Emilio, Maria Teresa e Michele Rigamonti
conferenze di
Letizia Battaglia, Luisito Bianchi,
Nella Magen Cassouto, Erri De Luca, Paula Luttringer
Segreteria organizzativa
M. Chiara Cardini
redazione catalogo
Matteo Galbiati, Simone Saibene
Progetto grafico
Donatello Occhibianco
Allestimento
Umberto Dirai
Ringraziamenti
Dario Bolis, Cristina Chiavarino,
Lorenza Gazzerro, Bianca Longoni
L’UOMO E IL SUO DESTINO
Ogni edizione del Premio San Fedele mette al centro della riflessione temi “pesanti”. Impegno che viene
assolto anche quest’anno con “L’uomo e il suo destino”. Una tematica affrontata efficacemente da
Dall’Asta e Petrosino, in questa pubblicazione, alla quale mi permetto di aggiungere una personalissima
riflessione, distante dagli aspetti filosofici, ma che intercetta la domanda rispetto a quale futuro ci
attende e la gira ai giovani artisti in concorso.
Già perché se ci astraiamo dal concetto di destino per focalizzarci su quello di futuro, dobbiamo porci la
domanda di come le giovani generazioni vivano quest’epoca difficile; i ragazzi di oggi hanno potenziaGiuseppe Guzzetti
lità e strumenti probabilmente superiori a quelli di cui disponevano i giovani di generazioni precedenti,
Presidente Fondazione Cariplo
ma pagano il peso di un contesto sfavorevole, di incertezza.
Eppure è proprio in questo che devono trovare la capacità di reagire: solo i giovani, con la loro forza,
il loro impeto, il loro trascendente entusiasmo possono cambiare lo stato delle cose in cui vivono,
mutando le insicurezze in scelte coraggiose.
Quello che non possono attendersi è che siano gli altri a prendersi il fardello per conto loro; gli altri,
quelli che probabilmente hanno la responsabilità di aver portato il sistema fino a questo punto, devono
affiancarsi e sostenerli. Allora il destino diverrà futuro chiaro e florido.
La via d’uscita esiste. La strada è in salita, ma c’è.
L’uomo e il suo destino
L’uomo e il suo destino
La mostra che conclude il percorso 2008/2009 del Premio San Fedele compiuto dai giovani artisti e
dai giovani filmmakers riflette bene le incertezze e le inquietudini, le speranze e i desideri del mondo
giovanile di oggi. In questo senso, luci e ombre sembrano intrecciarsi nelle opere dei giovani senza
soluzione di continuità. Il tema è stato sviluppato nelle più diverse modalità.
Andrea Dall’Asta S.I.
Giovani artisti
Direttore Galleria San Fedele
Daniela Novello, vincitrice del concorso per la seconda volta consecutiva, presenta la scultura
Tols_Child’s first birthday, costituita da quattro scatole di tufo alle quali sono sovrapposte quattro
scatole di piombo. Il lavoro trae spunto da un rito religioso che si svolge in Corea e chiamato “Tol”,
vale a dire “il primo compleanno”. All’età di un anno, il bimbo, posto di fronte a quattro oggetti
racchiusi nelle scatole di piombo (libro, ago e filo, riso, arco e freccia) ne sceglie istintivamente uno
che deciderà il senso della sua vita (saggezza, longevità, abbondanza e coraggio). Se ciascuno di noi
nasce dalla terra, luogo che accomuna ogni uomo, il destino prende strade singolari. Paolo Cavinato,
secondo classificato, in Viandante propone la metafora del viaggio attraverso un’installazione che
gioca sul contrasto tra esterno, costruito come una sorta di città/specchio, fatta di antri, porte,
passaggi, una sorta di castello labirintico in cui l’occhio si perde nell’osservazione dei continui scarti
visuali, e interno concepito come una lunga strada, una via interiore che siamo chiamati a riconoscere. Alla complessità dell’esterno corrisponde una via di luci e di ombre in cui siamo chiamati a
vivere la definitività delle nostre scelte.
Fabrizio Pozzoli, terzo classificato, concepisce un’opera, Everyone - no one, costituita da una figura
in piedi sull’ultimo gradino di una scala in legno, circondata da un numero imprecisato di sedie,
chiara allusione al fatto che ogni uomo è chiamato a uscire dalla propria solitudine per vivere in
una comunità, “scendendo” dalla scala sulla quale si è collocato. La figura, in filo di ferro, è collegata
con un filo di rame a una sfera, simbolo originario di un caos da cui ciascuno di noi nasce e verso
il quale approda.
Tamas Jovanovics, menzione speciale dei giovani curatori-tutors, in Nonostante, presenta invece
un’installazione di diciotto quadri solo apparentemente uguali, attraversati da centinaia di righe
colorate. Se la struttura esterna dell’opera è variabile, la posizione dei quadri non obbedisce a regole
precise. La struttura interna resta infatti intatta, coerente. Come se il destino dell’uomo, malgrado
le differenze di ciascuno, fosse accomunato da una solidarietà e da una unità che superano le
differenze individuali.
Alessandro Sanna, vincitore del Premio Paolo Rigamonti, presenta invece cinque disegni realizzati
a inchiostro di china che, attraverso una rielaborazione digitale, diventano un libro dal titolo Hop,
Hop, Hope. Il protagonista è un omino dai semplici tratti, colto nell’istante di saltare. Attraverso il
salto che ciascun uomo compie verso il proprio destino, l’uomo può intraprendere due strade. Può
accedere a una libertà che lo porta in cielo, vibrando nell’aria e trasformandosi in uccello leggero, o
precipitare nell’abisso dei propri fallimenti, trasformandosi questa volta in serpente.
Altri lavori giocano sul filo di un destino, concepito come riconoscimento, attesa, sorpresa, impossibilità, inevitabilità…
Giovanni Mantovani, in Mutamenti di luce, ci fa partecipi del fatto che per riconoscere le presenze
della nostra vita occorre uno sguardo attento alle discontinuità provocate dalla luce, che rivela e
nasconde realtà che ci proiettano verso l’infinito. Simona Vestrucci in Pensi di continuare? fotografa il volto di un giovane colto mentre ruota il proprio volto in un atteggiamento tra la sorpresa e
l’inquietudine di chi si interroga sul senso della propria vita. Se Marco Menghi, in Metrò Praga, ci fa
intuire un destino dell’uomo nell’ambiente sotterraneo di una metropolitana come in una sospensione dello spazio e del tempo, Luca Bonfanti, in Sul destino, riflette sulle possibilità dell’uomo di
fronte alla vita: dove andare? Quali sono i criteri delle nostre scelte? Lo stato di inquietudine di fronte alla vita emerge ancora in numerose opere, come nel lavoro di Carlo Michele Schirinzi, Ballata
Naufraga, che medita sulla vita dell’uomo come a un perenne pellegrinaggio, a partire dal diluvio
universale alle moderne e drammatiche “arche” che solcano il Mediterraneo. O ancora nel lavoro di
Chiara Boniardi, in L’uomo e il suo destino, una scultura in ferro e acciaio in cui un tubolare inserito
all’interno di una lastra piegata in corten ha una libertà incerta di movimento-roteazione che fa
supporre l’incertezza dell’uomo di determinare il suo destino. Gaia Scaramella compone un’opera
di undici incisioni, riflettendo sul tema della Via Crucis e cercando di cogliere il nesso tra il dolore
di Cristo e la sofferenza dell’uomo di oggi, rivisitato attraverso l’esperienza personale dell’autrice.
Patrizia Novello in Senza titolo riporta una frase tratta dal libro di Anders Nilsen Don’t go where I
can’t follow e riflette sul divenire incessante e immutabile di un tempo che si ripete senza che nulla
cambi sotto il sole, come direbbe il libro di Qoelet. Se Giuseppe Buffoli, in Hai mai pensato che un
bambino non beve, perché per lui non esiste la morte, tiolo tratto da una citazione dal libro Dialoghi
con Leucò di Cesare Pavese, riflette sul destino della vita e su quanto resta alla fine del suo cammino
– è forse l’anima? – Ettore Frani presenta un dittico, Audi, filia, in cui rappresenta il germinare della
vita da uno stato indifferenziato e indistinto di caos. Cesare Galluzzo, invece, compone un trittico Ciò che non si vede è eterno - in cui rappresenta una sorta di dialettica tra Destino intimo-Destino
indecifrabile-Destino eterno: il destino appare come l’inevitabile, ciò da cui non si può sfuggire.
Destino come ripetizione del medesimo, dell’uomo che non fa che ripetere il proprio cammino,
appare nella fotografia di Marco Ferraris dal titolo Ritorno a Versailles. Omaggio a Luigi Ghirri.
In un trittico concepito come video installazione interattiva, Giulia Roncucci in Dilated Pupil
affronta il tema dell’identità e del rapporto con l’alterità. Il lavoro si propone di riflettere sul proprio
destino inteso come successione di visioni di sogno, sequenze di immagini che affiorano dal nostro
inconscio. Le immagini sono circolari come le pupille dei nostri occhi, che non sono altro che pozzi
profondi la cui superficie d’acqua è come la retina sulla quale vengono impresse le immagini.
Infine i video. Se Elena Bugada, in Il destino dell’uomo, riflette sulla dialettica dell’uomo che scrive
il proprio destino e del destino che scrive sull’uomo - il destino appare come parola scritta sul volto
dell’uomo che inesorabilmente invecchia fino a morire - Natalia Saurin, in Dance dance dance,
racconta la storia di un’anziana signora che nel silenzio della sua cucina si trova a dialogare con i
propri ricordi che invadono la quotidianità. Realtà e sogno in questo modo si fondono in un istante
generando una danza primordiale che mette in relazione la vita dell’uomo con i moti del firmamento
del cielo. Il destino dell’uomo è quello di concludersi in una danza, che imita quella delle stelle, che
da sempre si svolge nell’universo.
Premio Paolo Rigamonti
Quest’anno, per la prima volta, al premio per giovani artisti e giovani filmmakers, oltre ai selezionati dai
giovani curatori e dai critici cinematografici, si aggiunge il Premio Rigamonti, in ricordo del giovane
artista Paolo Rigamonti, tragicamente scomparso alcuni anni fa. Per il Premio sarà donata una statua
appositamente realizzata da Hidetoshi Nagasawa.
La statua che Nagasawa ha realizzato per il premio Rigamonti rappresenta una barca dalla quale
“nasce” un albero. La barca è il simbolo del viaggio che ciascuno compie all’interno di una comunità.
L’albero è il simbolo della vita che ogni uomo coltiva, perché sia fecondo e porti frutti.
Un grazie sincero al giovane artista Paolo che ricordiamo con affetto e amicizia. Grazie per la sua
generosa vitalità, per il suo appassionato e sincero amore per l’arte, ben lontano dalle troppo facili
strumentalizzazioni commerciali che contaminano il mondo artistico.
Grazie alla famiglia Rigamonti che con questa iniziativa vuole premiare quei giovani che ricercano
nell’espressione estetica il luogo di una verità che non viene da noi ma che da sempre vive in noi. È la
verità di chi, come Paolo, ha scoperto nell’espressione artistica il luogo della propria vocazione di uomo.
Il tema del Premio San Fedele di quest’anno è complesso, carico di implicazioni. E i giovani artisti o aspiranti
L’uomo e il suo destino
tali, che ad esso hanno partecipato hanno realizzato lavori diversi tra loro. Nonostante le differenze, in molti
di questi lavori è possibile scorgere un filo rosso.
Questo filo rosso è un profondo senso di humanitas nella sua accezione classica. Così nell’opera di Paolo
Cavinato (II classificato) in cui è una sorta di strumento prospettico, che si può guardare dall’interno e
dall’esterno. Nell’opera è un piccolo essere umano, un viandante che si inoltra. Sembra una metafora dell’esistenza. Solo ciò che è vicino ci è noto, oltre non si sa.
Anche il lavoro di Marco Menghi ruota intorno a una riflessione sulla prospettiva e sulla percezione dell’uomo.
È ambientato nella metropolitana, luogo sotterraneo, terra di studio di etnologi e filosofi.
Un percorso è anche quello del lavoro di Fabrizio Pozzoli (III classificato). Qui l’uomo è come su un palcoscenico al quale è arrivato tramite una scala, è il percorso esistenziale, attraverso vari stadi. L’essere umano è a
metà del percorso. In basso è un gomitolo: il caos esistenziale, al quale l’uomo è collegato da un filo. La sua è
un’opera metaforica, anche semplice, se si vuole, che riesce, tuttavia, a offrire un’idea molto chiara delle posizioni dell’artista in tal senso. Le sedie sono poste come in una spirale, una forma che racchiude in sé, per usare
le sue stesse parole, le immagini di espansione-restringimento, crescita-regresso, sviluppo-decadimento.
TOL_ Child’s first birthday è il titolo del lavoro di Daniela Novello, anche quest’anno vincitrice del Premio. Ha
realizzato quattro scatole di piombo, soltanto simili fra loro. Il punto di partenza è un rito coreano: Tol o Il
primo compleanno. Qui Novello, virtuosa dei materiali, che riesce, però, a non esserne mai compiaciuta, mette
a fuoco la terza fase del rito, che prevede che il bambino di un anno, messo di fronte a quattro oggetti, ne
scelga istintivamente uno. Si tratta di libro (saggezza), ago e filo (longevità), riso (abbondanza di cibo), arco
e frecce (coraggio e carattere da guerriero). In una situazione di questo tipo, il bambino è fautore del suo
stesso destino.
A partire da questo spunto ha creato un’installazione composta da quattro scatole di piombo uguali tra di
loro e su ogni coperchio ho scritto il nome di uno degli oggetti sopra citati.
Quello di Giuseppe Buffoli è un lavoro di matrice esistenziale sul tempo e la memoria, in cui vari elementi si
combinano: una lastra di ferro con le misure del suo corpo, lasciata ad arrugginire, legna arsa del suo stesso
peso, dalla quale si ricava cenere. È quello che resta del nostro corpo dopo la morte, unica certezza della
nostra esistenza. La cenere, quindi, è stata impastata e dall’impasto è stata ricavata una livella di 68 cm. È
come un percorso tra vita e morte. La traccia del suo corpo, è stata stampata a secco su carta, lasciando una
sorta di sindone.
Quello di Patrizia Novello è un riferimento letterario, ma prima di tutto esistenziale sul destino dell’uomo. La
sua è una pittura in cui sono le lettere scritte da una vecchia macchina da scrivere. Una storia d’amore con
un triste destino. Di matrice letteraria e poetica è anche il lavoro pittorico sulla perdita di Ettore Frani. «È
l’uomo a scrivere il proprio destino. Ed è il destino a scrivere sull’uomo», scrive Elena Bugada nel suo testo di
accompagnato al video. Una mano scrive sulla pelle del volto di un uomo: tra Greenaway e Ketty La Rocca.
Angela Madesani
Storico e critico dell’arte
Nessun furto di idee, piuttosto la consapevolezza di porsi su un cammino. E la storia dell’arte è anche il punto
di partenza del lavoro di Carlo Michele Schirinzi, un artista che opera con diversi mezzi: dalla fotografia al
video. Qui è una koiné linguistica in cui la cronaca si srotola tra profezie e storie bibliche. È una riflessione sul
tempo della storia dell’arte, in cui espressioni diverse si fondono in un insieme, quasi disturbato dalle ferite
inferte dall’artista alla pellicola. Qui sono l’affresco della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina e
il mosaico pavimentale della Cattedrale dei Martiri ad Otranto: due rappresentazioni del Diluvio Universale.
Elementi, spunti tornano nel corso del tempo in luoghi diversi. Si pensi, in tal senso, allo storico dell’arte lituano Jurgis Baltrusaitis. In tutto questo Schirinzi non perde di vista il soggetto del lavoro: l’uomo e la speranza,
forse utopica, di un destino di gioia.
Mi piace leggere un riferimento ai temi della storia dell’arte, anche classica, con il Giano bifronte nell’opera
fotografica di Serena Vestrucci, in cui si riflette sulla ciclicità dell’esistenza.
Natalia Saurin, che in altre occasioni avevamo trovato in un agrodolce gastronomico tra cucina e psicodrammi da coppie frustrate, qui affronta il tema del destino attraverso l’esperienza di una vecchia, quanto saggia
signora, che rappresenta l’ineluttabilità della vita.
Il linguaggio è completamente diverso, fortemente legato alla tradizione della scultura, ma la riflessione alla
quale si giunge non è poi così lontana nell’opera di ferro di Chiara Boniardi, in cui la vita-tubolare - e la forzalastra - si congiungono e interagiscono.
Il lavoro di Giovanni Mantovani nasce da un frangente casuale. La scoperta di una diversità all’interno di
una situazione nota. Microstorie, piccoli mutamenti, ai quali il più delle volte non facciamo caso, in grado di
determinare scelte e percorsi distinti. Mantovani è un uomo schivo, riservato, la sua è un’osservazione attenta
dei minimi, dei dettagli che offrono, però una risposta diversa alla nostra esistenza.
Quella di Giulia Roncucci è un’installazione complessa in cui il ricordo, la memoria sono poste in relazione con
il concetto di interattività. Qui sta la forza e l’intelligenza del suo lavoro, che non si limita a un’indagine del
passato, attraverso i documenti, ma si pone in relazione con chi guarda, chiedendone un intervento attivo e
in tal modo condizionando il destino degli eventi e dunque dell’uomo.
“La vita è come una scatola di cioccolatini – diceva Forrest Gump – non sai mai quello che ti capita”. Tutto sta
La vita è una scatola
alla scelta di un momento. Quella stuzzicata dalla bellezza di piccole praline ben confezionate, allineate sotto
strati di veline, avvolte dentro carte luccicanti che, a scartarle, svelano decorazioni di glasse e ripieni cremosi
o croccanti. Piaceri del palato, dal sapore a volte dolce altre più amaro. Come i gusti della vita, appunto.
Imprevedibili, pronti a rivelarsi solo dopo averli sciolti in bocca. Una visione fatalista del destino, la visione di
Forrest, il celebre personaggio uscito dalla macchina da presa di Spielberg. Fatalista… ma voluttuosa.
Bene, anche Daniela Novello ci avverte che la vita è una scatola. Ma nel suo caso a fare la differenza non è la
tentazione fortuita affidata a un godimento innescato dagli occhi, ma una preferenza forse più consapevole
Chiara Gatti
che qui ha il gusto della predestinazione. Il destino per Daniela Novello non ha nulla a che fare con la finezza
Critico d’arte
del cioccolato fondente, ma con il potere semantico di un solo semplice oggetto. Un oggetto emblematico
che, come una carta dei tarocchi, attende nell’ombra d’essere estratto dal mazzo, prima mossa di una partita
con la vita. Per dirla con Schopenhauer “Il destino mescola le carte e noi giochiamo”.
Ispirato a un antico rito religioso, tipico della Corea del Sud, il lavoro di Daniela Novello ha proprio il retrogusto dei culti iniziatici. Il rito, allestito in occasione del primo compleanno di ogni bambino, prevede, infatti,
che il bambino debba compiere una scelta fra quattro oggetti, ognuno dei quali foriero di un destino diverso
per il suo futuro. C’è il libro, immagine per eccellenza della saggezza, e ci sono l’ago e il filo, simboli eterni di
longevità; c’è il riso in segno d’abbondanza e, ancora, un arco con le frecce, elemento profetico del guerriero.
Quattro oggetti, apparentemente insignificanti, ma che, toccati dalla predilezione di una mano innocente,
diventano sigilli di un fato ineluttabile.
Daniela Novello, forte dei suoi materiali da “scultrice-scultrice” (avrebbe detto Testori) – dalla pietra, il tufo
color caramello ruvido e scavato dall’effetto tattile, al piombo che le sue mani piegano e stendono come fosse
pasta sfoglia – ha dato vita a un’opera che è un condensato di simbologia e carica espressiva. Ha ricostruito
per noi l’antico rito di iniziazione, immaginando l’altare sacro di una cerimonia tribale e ponendoci davanti a
quattro fatidiche scatole, ognuna delle quali contiene idealmente proprio uno dei quattro gingilli allegorici.
E allora eccoci tutti davanti alla scelta dell’iniziato. Tutti nel ruolo del bambino eletto. Tutti in fila davanti a
un bivio. Ma, attenzione a bendarsi gli occhi prima di allungare la mano verso il futuro che ci tocca. Prima di
accarezzare i coperchi ben sagomati delle scatole di Daniela Novello e affondarci le dita dentro, come Harry
Potter nel sacchetto del drago spinato. Un pescaggio a occhi chiusi, insomma. Scelta fatale!
Già perché, posti di fronte agli oggetti premonitori, solo ai puri di cuori potrà essere mostrato il vero cammino. Cieco dinanzi all’esperienza, mondato delle sovrastrutture stratificate nel tempo dalla vita, anche l’adulto
può forse recuperare ciò che di genuino conserva ancora nel profondo. Quella parte di sé non corrotta come
l’animo dei bambini che, sul filo dell’istinto, gli indichi un destino ancora possibile. Non è mai troppo tardi per
una scelta come questa. Il destino, si sa, è capriccioso fino alla morte. E sul fondo della scatola di cioccolatini
c’è ancora un gusto da scartare.
Il viandante
Il Viandante di Paolo Cavinato è un’opera che funziona secondo due meccanismi diversi, producendo significato nel dialogo tra le differenti fruizioni di superfici e spazi.
All’esterno, l’incastro neoplasticista di elementi cubici specchianti con cui Cavinato articola il parallelepipedo
genera una tensione nello sguardo. Su di una sequenza di forme definite e date una volta per tutte nel tempo
e nello spazio, come quelle minimaliste di Judd o Morris, Cavinato imprime una forza drammatica che produce
slittamenti, compressioni, squarci, come se la razionalità del progetto fosse stata sconvolta dal subentrare
di logiche contraddittorie e imprevedibili. Il fatto che tra queste pieghe si sviluppino dettagli illusionistici
Massimo Marchetti
a disegnare una città stilizzata, non è meno rilevante del modo in cui le nostre fattezze si riflettono sulle
Critico d’arte
superfici di questo corpo disteso, per cui noi stessi diventiamo la struttura che stiamo osservando, qualcosa
che sta tra un pezzo meccanico e un glaciale progetto architettonico. È chiaro che quest’aggregato è la “città
dell’Uomo”, ma aggiornata al XXI secolo, conformata ad un luogo a più livelli dove la nostra immagine viene
incessantemente piegata e liquefatta, rilanciandoci un’identità sempre più flessibile che si plasma nelle nicchie
di geografie parallele, dalla famiglia alle macrocomunità dei social network. È una meditazione plastica sulle
complicazioni e sulle incognite che sorgono quando ci interfacciamo col mondo.
Ma l’opera prevede che dall’esplorazione di un lato aperto della struttura scopriamo uno spazio nascosto sotto
la superficie. Nell’architettura dell’interno, la resistenza e l’impenetrabilità delle forme esteriori si smaterializzano in una dimensione atemporale e assoluta dove campeggia la piccola figura dell’Uomo di fronte al tragitto
della vita. Innanzitutto si può osservare come in questa profondità torni quell’ordine che era stato sconvolto al
di fuori. La percezione di un difficile confronto con noi stessi nel mondo lascia quindi spazio a una silenziosa
contemplazione che si sottrae al mondo, in una radicale intimità rischiarata da luce propria. L’Uomo si osserva
all’orizzonte riflesso in uno specchio, quello è il suo destino: se stesso, e immaginiamo come avvicinandosi
scorgerà sempre più chiaramente ciò che egli è già. È un dettaglio importante questo del riflesso: la sagoma
che osserviamo e in cui ci identifichiamo si trova in una situazione molto simile alla nostra quando esperiamo
la superficie dell’opera, ma con il beneficio di avere un’immagine finalmente intera di sé. Non si tratta più di
una scultura, ma di una scena: il cannocchiale prospettico restituisce un punto di vista sulla verità di quello
che siamo. È una dimensione, quella spirituale, che si può considerare solo “in prospettiva”, restituendo all’esistenza la profondità e la complessità di un percorso, a differenza della transitorietà del riflesso delle nostre
fattezze nella dimensione mondana. Ma allo stesso tempo l’espediente scenico obbliga la nostra posizione,
torniamo ad essere padroni di un’immagine uniforme solo perché ne siamo irrimediabilmente separati. È
l’esperienza di una distanza che si potrà ricomporre solo “dopo”, al vertice di quel destino.
Con l’opera Everyone-no one di Fabrizio Pozzoli si è di fronte a un’installazione plastica. Il senso della plasticità
Everyone-no one
non va inteso nella sua accezione etimologica, in quanto proprietà della materia di farsi duttile sotto la pressione delle mani, ma va letto nella capacità fisica della scultura di occupare un volume nello spazio. Nel caso
di Pozzoli il volume è così articolato ed esteso da rompere lo schema univoco della statuaria. Everyone-no one
schiude una dimensione ambientale che ricorre a certi impianti scenografici per inquadrare in termini teatrali
l’intera installazione. Un’esigenza dettata dal desiderio di argomentare il tema dell’uomo e del suo destino con
mezzi che non siano solo di pertinenza della tradizione scultorea. Un’apertura verso un approccio polimaterico
e multimediale portato a livello ambientale, per fare emergere il valore simbolico della rappresentazione e
Daniele Astrologo
toccare così il nodo dell’esistenza. Ciò detto va precisato che il significato ultimo del lavoro ruota attorno alla
Critico d’arte
figura centrale della composizione, l’uomo stante sulla sommità della scala. Il suo atteggiamento è di colui che
osserva e medita sull’avvenire, sul proprio destino e così facendo pensa anche al passato, alla propria origine
perché il gomitolo posto al suolo, ai piedi della scala, è a un tempo la sorgente e la foce del corso della vita,
della sua vita. Dalla sfera parte un filo che va a congiungersi con l’uomo all’altezza del ventre. Il riferimento
al cordone ombelicale è d’obbligo e porta a riflettere sulla funzione nutritiva esercitata dalla matassa la cui
massa sostanzia, a forza d’intrecci, la struttura dell’uomo, anch’essa costituita dalla tessitura dei fili. Si è di
fronte a un processo in atto, a uno sviluppo senza soluzione di continuità perché l’intreccio avviene nel segno
della vita e della morte: l’uomo tende a quel gomitolo e da esso proviene. In questo modo la forma sferica,
oltre a contenere la dimensione originaria chiusa nel suo mistero, enuclea quel fine ultimo che dà senso al sentiero percorso. Ma non è tutto, perché attorno a questi punti estremi ruotano altri elementi che confermano
ed articolano l’analisi fino ad ora svolta. Tutto attorno sono numerose sedie disposte a spirale. In questo modo
si imprime un andamento biunivoco perché può essere letto in termini esplosivi o implosivi. Detto altrimenti
la spirale racchiude in sé più tensioni che assumono di volta in volta l’identità di evoluzione/involuzione,
espansione/restringimento, progressione/regressione, insomma qualcosa che si fa o si disfa, si avvolge o si
svolge, comunque in atto secondo un divenire irreversibile perché presieduto da un tempo escatologico. Le
sedie, così collocate in circolo attorno al divenire dell’essere umano che si appresta a discendere i gradini della
scala, stabiliscono una pausa di riflessione e di giudizio rispetto alla via intrapresa. La diversità dei momenti
con i rispettivi giudizi trova conferma nella diversità delle singole sedie ciascuna delle quali è caratterizzata
da un proprio vissuto. La figura centrale, l’uomo, nell’intraprendere il proprio corso, passa attraverso degli
stadi segnati da riflessioni e da giudizi espressi da se stesso e dagli altri. In questo modo la vita non rischia di
implodere in un solipsismo ego-referenziato ma neanche di disperdersi tra i diversi punti di vista degli astanti
assisi. L’uomo tende al proprio destino in nome dell’equilibrio interiore ben simboleggiato dal rapporto tra la
figura centrale della composizione e la sfera, inizio e fine di ogni cosa.
L’ineffabilità del Destino
nonostante tutto…
La sostanza e la severità della pittura di Tamas Jovanovics – non di meno da tutta la sua ricerca artistica – si
mantiene anche in quest’opera nell’alveo di un lessico concentrato su asserzioni astratte a sottolineare la sua
dichiarata vocazione al minimalismo concettuale. L’apparenza, come la definisce l’artista stesso, di una pittura
così concisa e disciplinata, mai da lui tradita, non deve però assolutamente distrarre, né allontanare, dal suo
essere voce di un osservante rispetto di contenuti profondi che ad essa associa. Una pittura che é sempre
occhio attento e vigile sull’esperienza umana; una riflessione costantemente aperta al pensare e al riflettere.
Quel velo di materia colorata, che si esterna sul supporto della tela quale manifestazione di un evento visivo
Matteo Galbiati
carico di contenuti e ricco di suggestioni, nel pur essenziale rigore del linguaggio formale, districato attra-
Critico d’arte
verso un congetturare ribollente prima e una composizione disciplinata poi, trova voce per parlare ora anche
dell’Uomo, del Destino e del loro reciproco compenetrarsi e influenzarsi.
Diciotto piccole tele, icone simbolo della variabilità dell’azione umana, si disseminano sulla parete in un’impaginazione che lentamente cede il proprio ordine ad un caos incipiente. Il campo limitante della tela diventa
lo spazio circoscritto dell’uomo e del suo agire, indice della sua determinazione al farsi da sé e al desiderio
di autocontrollo e autogoverno. Diciotto tele sono esempi di altrettante possibili storie umane. L’una naturalmente differente da ciascuna delle altre. Guardando con attenzione, però, nell’intimo del loro corpo, nel
profondo della loro anima, nel tempo a scadenza della loro esistenza, le vediamo solcate, marcate e dominate dai segni dell’infinita, inalterabile e intoccabile volontà di un magister superiore. Il Destino, come più
generalmente lo si chiama. L’errare e il decidere liberi dell’uomo inevitabilmente devono fare, più o meno
consapevolmente, i conti con l’esperienza di incidenti-avvenimenti accadibili ed evenutali, il cui verificarsi
solo marginalmente si imputa all’influenza di proprie autonome scelte.
Le frequenze colorate, le rigorose sottolineature di rette infinite e pluricromaticamente definite, procedono
ordinate ed imperturbabili in casualità predefinite che, per destino, inviolabili si rendono tangenti o penetranti
alle vicende umane. Il loro movimento resta trascendente rispetto al variare delle storie in cui le riscontriamo.
La loro incombenza sovrasta quindi l’umano divenire. Il destino superiore, già stato scritto e determinato, si
ritrova come evento costante ed immutabile. L’uomo può solo minimamente muoversi senza intaccare e condizionare una volontà interna che é stata per lui, in qualche modo, misteriosamente predeterminata.
Il destino emerge da quelle vibrazioni cromatiche nelle linee parallelamente disposte in spettri cangianti,
metafora evidente dei suoi infiniti accadimenti, circostanze ed eventi che oltrepassano la limitatezza della
sorte umana e del suo circoscritto luogo di possibilità.
L’uomo e la coerente azione del (suo) destino si fanno parte e quantità di un infinito più grande. Là dove il
Destino si origina e genera per poi passare oltre, imperturbabile, il pulsare vitale dell’uomo e del suo tempospazio delimitato. Continua nel senza tempo e nel senza luogo che si carica di un mistero ancora più profondo,
incomprensibile e impensabile. Continua là dove tutto pare finire o, magari, ineffabilmente iniziare di nuovo.
Salta, salta... e spera! Che la speranza, si sa, è l’ultima a morire. Salta, salta! Che è per questo che sei venuto
al mondo e non ti resta che saltare e sperare. Salta, salta! Che la vita è guerra che tutti dobbiamo fare. Salta,
HOP, HOP, HOPE
(salta, salta e spera)
salta! Che la vita è una battaglia e cade pure chi non sbaglia. Salta, salta! Che la vita è una scommessa e
appena fatta l’hai già persa. Salta, salta! E soprattutto spera.
L’omino stilizzato di Sanna, realizzato con eleganti quanto semplici tratti neri, che si contrae e si distende,
per contrarsi di nuovo e distendersi un’altra volta, ancora e ancora, nel continuo atto di saltare, senza sapere
se riuscirà a spiccare il volo o si schianterà ingloriosamente a terra, sembra parafrasare una celebre storiella
africana. Ogni giorno, nella savana, al levare del sole, un leone si sveglia e spera di riuscire a correre più veloce
Michele Tavola
della gazzella per sfamarsi e sopravvivere. Ogni giorno, nella savana, una gazzella si sveglia e spera di riuscire
Critico d’arte
a correre più veloce del leone per salvarsi e sopravvivere. Ogni giorno, nella savana, che tu sia leone o gazzella, devi correre e sperare di farlo abbastanza velocemente. La vita è una savana o, per usare un’immagine
più usata, una giungla. E ti tocca correre o, se preferisci, saltare. E sperare. Perché per quanto ci si affanni, la
fatica fatta potrebbe non bastare.
L’opera si dipana come la striscia di un fumetto: in tre mosse l’uomo si prepara, flette le ginocchia e spicca il
salto, inevitabile e incerto, verso il suo destino. A questo punto le strade si dividono e le possibilità sono due.
Una, verso l’alto, che porta in cielo e alla fortuna, lo vede trasformarsi in uccello leggero che si libra nell’aria
e si perde all’orizzonte. L’altra, verso il basso, che porta agli abissi e al fallimento, ha come esito la spiacevole
metamorfosi in serpente. A Sanna bastano pochi segni per creare immagini forti, poetiche ed evocative, immediatamente intelligibili. Con il minimo indispensabile, con l’essenziale, arriva diretto al cuore del problema.
Senza fronzoli, con uno stile sobrio ed efficace, e senza retorica, con un linguaggio chiaro e ben calibrato.
Ma non è tutto. L’omino che salta diventa anche il personaggio di un piccolo libro senza parole. Solo un sedicesimo, pieno di tratti neri sintetici e veloci che riempiono le pagine di uomini che saltano e sperano, pronti
a trasformarsi in uccelli o serpenti. E una volta arrivati all’ultima pagina, seguendo le istruzioni, lo si deve
capovolgere e ripercorrere la strada a ritroso. Sanna ci tiene a mostrare e dimostrare che è sempre e comunque
un illustratore (non chiamatelo artista, per carità, lui che si sente artigiano ed è visceralmente legato al suo
mestiere, potrebbe offendersi) e le sue invenzioni, le sue immagini, in qualche modo sono destinate a diventare
una storia. Il risultato è un libro d’artista originale e innovativo, che per ora esiste in sei soli esemplari ma che
attende le attenzioni di un editore intelligente e intraprendente.
Ciò che non si vede
è eterno
Ricostruire un’idea, attraverso la sua frantumazione.
O meglio, la sua precisa, chirurgica frammentazione in tre parti.
Realizzare un’opera, anelando alla sua scomparsa: dichiarando la sua presenza mediante la sospensione del
giudizio, l’assenza della soluzione.
Perchè è eterno solo – necessariamente – ciò che non si mostra alla vista.
Il lavoro di Cesare Galluzzo realizzato per quest’edizione del Premio Arti Visive San Fedele è semplice, nella
sua complessa tripartizione.
Ilaria Bignotti
Crudele, nella sua innocente dichiarazione d’intenti.
Critico d’arte
Come il Destino, in relazione all’Uomo: così il giovane artista pare spiegare – o meglio, lasciar intendere! –
attraverso il trittico presentato, che si compone di un plico di grandi fogli bianchi (una sorta di album ancora
da scrivere?), di una tavola di legno dipinto di bianco e protetto da plexiglas, di un sacchetto di plastica contenente cenere e collocato su un supporto.
Sono tre le forme del Destino affidate alle parti che idealmente (s)compongono il tutto: così, il “destino intimo”, ovvero il plico di carte piegate stretto in una morsa, nel suo bianco ripetersi di fogli in paziente attesa, è
in realtà già tutto scritto; benché invisibile è predestinato; è pubblico e al contempo privato, come il tokonoma1; è il segreto celato, l’invisibilità e l’indescrivibilità del presente, ciò che non si conosce, ma non per questo
è necessariamente inesistente.
Il profilo ligneo, che si mostra bianco e nudo (o mostra un mistero trattenendolo), è “destino indecifrabile”:
come indecifrabile ci appare la privazione di ogni riferimento, il pensiero orientale del vuoto, l’idea dello spazio
tra le cose, l’essere liberi, la segretezza di ciò che non esiste, e quindi esiste nella sua segretezza.
“Destino eterno” è il supporto contenente cenere: punto d’arrivo, fine e inizio, morte e nuova vita nel tempo,
inafferrabilità incorporea che, come corpo, si rigenera disperdendosi nel tempo.
Se il risultato proviene da più opere, confluite in un unico progetto, ciò è dovuto, come precisa l’artista, dalla
necessità di “procedere togliendo”, ovvero di ridurre, concettualmente, una serie di considerazioni ben più
complesse attorno alla vastità del tema proposto dal Premio.
Galluzzo arriva a questo attraverso un percorso composito: da un lato, culturalmente, decide di misurare la
sua visione del mondo, per naturale discendenza occidentale, con la filosofia ed il pensiero orientali, non tanto
per “scegliere una direzione”, quanto per far scaturire il conflitto che genera creazione. Dall’altro, purifica e al
contempo contagia la pittura con l’architettura, la superficie con la profondità, verificando nello spazio e con
lo spazio il valore del linguaggio visivo bidimensionale. Da qui la scelta di un’opera che è in relazione, ovvero
si struttura, con consapevole chiarezza, in relazione alla verticalità della parete-supporto, alla profondità
dell’ambiente-contenitore, all’incidenza e presenza del fruitore.
Un’opera come corpo in relazione ad altri corpi.
Un’opera come attesa rivelante di attese successive.
Nulla di più semplice, nulla di più complesso.
Semplice, propriamente “piegato una sola volta”. Eppure, come scrisse un filosofo2, basta una piega per generare una duplice direzione. Così, semplice e complesso hanno un punto in comune.
sem
esso
pl
com
ice
Essi si incrociano e divergono attraverso una flessione, che è riflessione.
Essere e Nulla accolgono in sé la medesima contraddizione: l’impossibilità di una luce senza ombra; ma l’ombra che circonda la luce non può essere Nulla.
Come un foglio bianco, quando attende la scrittura, è scrittura; come la cenere, quando attende di diventare
forma, è vita e morte assieme; così il legno bianco, opaco, attende la trasparenza del vetro, che concede lo
sguardo al di là, oltre.
Il Destino, per dichiararsi, aspetta l’Uomo. E viceversa.
Nulla di più semplice, nulla di più complesso.
Nella casa tradizionale giapponese è una sala privata e, allo stesso tempo, pubblica – è usata per l’accoglienza degli ospiti – nella quale si
1
conserva, su una o più mensole, una pergamena il cui contenuto cela un segreto.
I. Valent, “Del Semplice”, in “Linguaggi della psicosi. Linguaggi della complessità”, a cura di G. Valent, Métis Editrice 1991, pp. 119-128.
2
Elogio della polvere
Ora la perdita, per crudele che sia, non può nulla contro il possesso: lo completa, se volete, lo afferma: non è,
in fondo, che una seconda acquisizione - questa volta tutta interiore - e altrettanto intensa.
Rilke
Molti cercarono invano di dire gioiosamente il più gioioso; qui, finalmente, nel lutto esso si esprime.
Hölderlin
Chiara Canali
La pittura di Ettore Frani non è gridata, sfacciata, vistosa, ma si risolve sulle note dell’invisibile, della mancanza,
Critico d’arte
dell’assenza che diventa presenza come icona dell’irriproducibile.
Ettore Frani appartiene alla categoria degli artisti che considerano la pittura una sorta di ierofania dell’insondabile, di rivelazione di una dimensione altra, nascosta all’apparenza delle cose reali. Proprio per questo è così
evidente una consonanza con la poetica dell’ineffabile, che come la parola del Poeta, e del Vate per eccellenza
(Dante), non trova i giusti strumenti per rapportarsi con un’entità assoluta.
Nel costruire le sue opere, realizzate ad olio su mdf e allestite in dittici, trittici, polittici, secondo una scansione
che rimanda agli allestimenti sacri delle teche, delle predelle e delle pale d’altare, l’artista si ricollega all’esperienza
del primo cristianesimo quale forma di azzeramento e tabula rasa, quale ricerca del vuoto come “necessità di
deserto entro il quale sia ancora possibile domandare con voce di silenzio”.
La pittura di Frani si colloca nel tentativo di ricostruire una perdita, nello sforzo di colmare una frattura tramite
pigmento e olio, dove la polvere che si deposita sulla superficie dell’opera vela e ri-vela un simulacro di realtà.
La metafora della polvere è antichissima, e si lega all’origine, alla materia e al tempo. La polvere ha una doppia
appartenenza, come si evince nelle opere di Frani, di materia inerte per antonomasia, scarto privo di vita che
si deposita cadendo per forza di gravità, e granello tanto leggero da volteggiare nell’aria come un essere in
volo, opaca e luminosa, impenetrabile e rifrangente, aderente e libera. Per questa via la polvere può spingersi
a rappresentare la materia dello spirito stesso, sostanza ultrasottile, superraffinata, subliminale, imprendibile,
irrefrenabile. “Un passaggio al limite” come lo definisce Gaston Bachelard, che sotto la cifra della perdita e della
mancanza, accoglie le tracce di un continuo errare tra presenza ed assenza.
Il dittico Audi, filia si ricollega a un classico della spiritualità del Cinquecento del mistico S. Giovanni d’Avila,
consigliere di santa Teresa d’Avila, di sant’Ignazio di Loyola e di san Pietro d’Alcantara, che istruisce sul modo
di udire Dio e sfuggire i linguaggi del mondo, della carne e del demonio. In un inesauribile grido di silenzio la
pittura della polvere si sforza di rivelarsi e manifestarsi, mentre attesta il destino di quel frutto malato che è
l’uomo. Il passaggio è determinante perché sulla soglia di una modernità che esce dalla metafora e assume le
vesti della metonimia, prende la polvere per polvere e la rappresenta prima in quanto tale per poi simularla fino
all’indicibilità, in attesa di un’impossibile rivelazione che ci mostri il vero più vero del vero.
“Un quieto altare del nulla”, dice Ettore Frani, “dove l’ascolto si appresta al colloquium muto-spezzato tra l’uomo
e il suo destino; tra il frutto e l’albero che l’ha custodito”.
La fotografia è uno strumento di misurazione. Affiancando immagini in cui l’inquadratura rimane invariata,
Mutamenti di Luce
attraverso uno schema operativo e compositivo tipico del suo mezzo, con questa serie Giovanni Mantovani
sottopone a una valutazione quantitativa due elementi fondamentali della grammatica del proprio linguaggio:
il tempo e la luce. Il tempo, in queste immagini, non riguarda soltanto la durata della posa che ha consentito
a ognuna di imprimersi sulla pellicola, ma anche l’intervallo che separa ciascun fotogramma da quello successivo. In una delle sue Verifiche, Ugo Mulas descriveva lo scorrere del tempo semplicemente osservando il
progredire della serie numerica stampata sulla pellicola. Nelle fotografie di Mantovani la medesima funzione è
svolta dalla luce che disegna sul pavimento una forma geometrica di cui si documenta l’inesorabile trasforma-
Francesco Zanot
zione. Il destino della fotografia corrisponde a quello del suo autore: entrambi sono inevitabilmente sottoposti
Storico e critico della fotografia
all’azione del tempo. Per ciò che riguarda la fotografia, questo processo prende avvio e si sviluppa ogni volta
per mezzo della luce, soggetto principale del lavoro di Mantovani sottoforma di proiezione.
Come accade all’interno degli Skyspace di James Turrell, straordinarie macchine per guardare al pari della
camera oscura o della macchina fotografica, l’opera si genera automaticamente a partire da una struttura
rigorosamente definita (le pareti delle installazioni di Turrell corrispondono ai margini invariabili del campo
di ripresa di Mantovani).
A differenza degli interventi dell’artista americano, qui si delinea una chiara scansione narrativa (incongruente
con la fotografia quando viene presentata singolarmente): da sinistra a destra, il poligono individuato dal
fascio di luce muta impercettibilmente e si sposta verso destra. Il climax corrisponde al terzo fotogramma, nel
quale compare, emergendo dall’ombra sulla sinistra del quadro, la punta di una matita rossa.
Questa matita, ancora più evidente nello scatto successivo, è l’indicatore che descrive il rapporto che la fotografia intrattiene con la realtà. Presente nello stesso punto anche nelle due immagini precedenti, non vi poteva
essere distinta a causa dell’oscurità entro cui era avvolta.
Era lì, di fronte all’obiettivo, che tuttavia non ha potuto documentarla. La fotografia è rivelazione: prima di
tutto di se stessa e delle modalità del suo funzionamento. Il suo destino è la discriminazione (fra ciò che si
vede e ciò che non si può vedere).
Il Premio Giovani Filmmakers, giunto alla sua seconda edizione, ha selezionato quest’anno tre lavori. La maggior
L’uomo e il suo destino
parte degli artisti partecipanti ha messo in rilievo l’importanza del rapporto uomo-natura nella ricerca sul tema:
L’uomo e il suo destino.
Végétation Colonisatrice, del gruppo Hotel Nuclear (Mathilde Marie Neri Poirier e Giancarlo Bianchini), vincitore
del Premio, accostando un sofisticato montaggio audio a suggestive immagini dal sapore post-apocalittico, ha
ricercato il destino dell’uomo in un ponte sospeso tra tecnologia e natura, residuati post-bellici e vegetazione,
oblio e risveglio.
Gli autori hanno avuto il coraggio di porsi domande di senso circa il destino dell’uomo, non cercando risposte
assolute, ma basate su un dialogo, sulla curiosità, su una relazione difficile ma possibile, simboleggiata da
una caratteristica animazione delle immagini, che sfuma e rende vivi confini e fessure degli oggetti ripresi.
Protagonista del video è il paesaggio, costituito da rovine belliche e vegetazione sullo sfondo dell’oceano
Atlantico. È un paesaggio interiore disabitato ma non deserto, perché visitato in quanto luogo di ricerca interiore. Le rovine di un passato bellico sono brandelli di una storia che non riesce ancora a trovare il proprio senso,
ma che non rinuncia a cercare. “L’architettura del paesaggio utilizzato, in questo caso il muro sull’Atlantico in
Normandia, mostra una profonda ferita - scrivono gli autori - destinata per vie naturali a cicatrizzarsi grazie a un
lento riassorbimento operato da parte dell’Oceano e dall’azione del tempo, che sempre finisce per vincere.”
Francesco Azzini, secondo classificato e menzione speciale dei critici-tutors (Barbara Sorrentini, Luca Barnabé
e Fabio Vittorini), con il documentario Noi ci siamo già, ha anch’egli toccato da vicino il tema di un rapporto
rispettoso dell’uomo con la natura, necessario al compimento del destino umano. All’interno degli eloquenti
silenzi dell’Appennino tosco-emiliano ha inserito le interviste a una coppia che quasi trent’anni fa aveva già
intuito la necessità di un’inversione di tendenza nello sviluppo dell’umanità, adottando uno stile di vita sostenibile in armonia con la natura. Stile di vita che però oggi rischia paradossalmente di essere spazzato via proprio
dall’istallazione in quella zona di una centrale eolica.
“Se Dio ha fatto il Paradiso, noi ci siamo già” - dice Jimmi Della Greta della sua vita in mezzo ai boschi insieme
alla compagna, Simona, e ai due figli. Prima che arrivasse la strada che li collega al resto del mondo (bisogna
però percorrerla con un 4x4) camminavano ogni giorno 9 km. Ora si prospetta l’arrivo di 14 pale eoliche alte
quanto un grattacielo di 20 piani (150 metri) e ciascuna rumorosa come una sega elettrica. Cosa pensano di fare
Jimmy e Simona? Forse dovranno rivedere quella scelta radicale che fecero insieme ventisette anni fa venendo
a vivere tra i lupi e le capre. L’eolico è veramente un’energia “pulita”? Che interessi commerciali e speculativi ci
sono dietro le famose pale eoliche?
Hand Code, di Tommaso Melideo, giunto terzo classificato, ricerca il destino dell’uomo nel suo modo di usare
quell’interfaccia col mondo che è il corpo, soprattutto gli occhi, il naso, la bocca e le mani, passando per la
Giuseppe Zito
Filmmaker
possibilità di un uso distruttivo delle cose e arrivando alla conclusione che il destino dell’uomo è nel palmo delle
sue mani. Si tratta di un cortometraggio che unisce videografia, animazione e stop motion. “L’iride del corpo è
una sorta di spettro della nostra identità - scrive l’autore - la mano una mappa delle nostre fatiche e dei nostri
sbagli, la bocca il mezzo con cui si possono dare ordini deprecabili. [...] Mi sono soffermato su questi elementi,
immaginandomi, attraverso un’animazione scarna, le paure e le prove che attendono due bambini di mondi
opposti. Non c’è storia. Ci sono sensazioni che voglio sussurrare oppure urlare.”
Un ronzio elettronico. Dal nero emergono le lettere bianche VC. L’acronimo in doppia consonante rimanda
Végétation colonisatrice
a VC(-1), usato tra i film maker per indicare la compressione dei filmati video in alta definizione, al Venture
Capital dell’inglese business e, ancora più prosaicamente, raddoppiando idealmente la prima lettera, al cesso.
In realtà, le immagini schiudono in sette minuti una V(égétation) C(olonisatrice), vegetazione colonizzatrice,
sospesa tra realtà ferita e cupa, sogno asettico, fumetto metafisico, fantascienza. Il fascino dei lavori del collettivo Hotel Nuclear sta proprio nel lasciare aperta ogni possibile porta di senso, nel moltiplicare il significato
probabile di un solo segno iconico-sonoro. Il dettaglio di un’inquadratura amplificata dai rumori, spesso,
ha la potenza di un quadro vivente. Un frammento di pochi secondi - disturbato da frequenze radio - ha il
Luca Barnabé
respiro di una sequenza (ambigua). La prima immagine di VC mostra una piantina che si muove al vento. È
Critico cinematografico
sorta tra le macerie del bunker “muro sull’Atlantico”, in Normandia. Ora sembra l’unica creatura animata della
Storia. La schiuma dell’Oceano, lontana, pare immobile, come le nuvole nere del cielo, quasi uno specchio
rovesciato delle macerie postbelliche. In animazione digitale si agitano solo alcuni frammenti degli edifici, i
muri, le ombre. Perfino il corpo femminile che vediamo tagliare le macerie e la spiaggia, diretta verso il mare
e risucchiata dall’orizzonte, si muove in maniera irreale. Al ralenti o a scatti ritmati di montaggio. Silhouette
scura con un cappuccetto nero stretto sul capo, affascinante corpo di morte, Esther Williams sulla Luna,
fantasma dell’umanità. L’unico gabbiano sembra uno sfregio sul cielo. Vibrano solo i corpi inanimati. Alcuni
cartelli di dialogo, da film muto, ritmano VC in una rilettura distorta, drogata e asettica del Piccolo principe.
Ultime squame di poesia. “Sono curioso, come vedi. Se vuoi dialogare perché no?”. Chi sta parlando senza
emettere alcun suono? A chi? I rumori di fondo si rivelano residui di una conoscenza aliena, brusii lontani che
parevano sepolti e ora riecheggiano lugubri. Cinema stratificato, racconto di deriva, commiato. Riascoltiamo:
le voci americane da radio news, coretti di bambini, un commentatore da cinegiornale Luce che celebra enfatico un evento sportivo. Infine si leva il canto del Campo Testaccio, coro dei tifosi romanisti dei primi anni
Trenta: “Quanno che incomincia la partita, ogni tifosetta se fa’ ardita, grida Forza Roma! A tutto spiano co’ la
bandieretta in mano…”. Il messaggio ormai è chiaro: il mondo in pieno (s)fascio. L’uomo e la guerra lasciano
macerie su un paesaggio lunare ai confini del mondo. Cattedrali in rovina nel deserto, voci vuote e classi
morte. Végétation colonisatrice come mater domina dalla lingua verde che fende le mura del tempo. Il tempo
e la natura colonizzatrice ci risucchieranno.
HAND CODE
In primissimo piano si vede un occhio in movimento rotatorio, prima su un volto bianco e poi su un volto nero.
Nella sequenza dopo c’è un naso, che sembra di pongo e ancora in primissimo piano una bocca, con dei baffi
che spazzolano il labbro superiore. Si intravedono i denti un po’ scuri, forse di un fumatore. L’autore Tommaso
Melideo sostiene che i codici del nostro corpo raccontano chi siamo, che l’iride dell’occhio è una sorta di
spettro della nostra identità e che la mano è una mappa delle nostre fatiche e dei nostri sbagli. Attraverso un
occhio si può carpire la storia di una persona e dalla sua mano che lavoro fa o che vita conduce. Da una stretta
di mano, continua Melideo per spiegare il senso del suo lavoro, si apprendono molte cose, da uno sguardo
Barbara Sorrentini
ancor di più. La bocca, invece, è il mezzo con cui si danno ordini, spesso deprecabili. L’aspetto più interessante,
Critico cinematografico
e forse cinematografico di questo lavoro difficile da definire, è il contrasto tra il volto nero e quello bianco
che si intuisce intorno all’occhio. Quelle immagini accostate, anche se per pochi secondi, dicono molto. Per
esempio spiegano quel dualismo, di cui parla Melideo, che fatica a convivere e che ancora è oggetto di scontri
e disparità. Suggeriscono dei mondi differenti e delle culture, che pur essendo distanti, hanno lo stesso punto
di osservazione. Dai dettagli dei volti in movimento, all’improvviso si passa a un’animazione trasparente come
l’acqua, che poi diventa grigia per mostrare disegni di guerra, di progresso, di fuga. Per l’autore si tratta di
un’animazione scarna che rappresenta le paure e le prove che attendono due bambini di due mondi opposti.
Ed è lì che arriva la stretta di mano, metaforica e riparatrice.
Ma quello che resta più impresso è un senso di angoscia per quell’occhio in gabbia, che si agita freneticamente
nel tentativo di volare via.
La vita si risveglia all’improvviso, si ricorda di questo o di quell’individuo che l’ha vissuta silenziosamente per
Noi ci siamo già
anni, immaginando per sé un certo destino, piomba su di lui con la rapidità e la ferocia un uccello predatore. Di
colpo quel destino cambia, smette di essere quello che era, deve essere ripensato: la sua elaborazione è lenta e
difficile come quella di un trauma. Nel suo terso racconto per immagini Noi ci siamo già, un po’ documentario
un po’ poesia percettiva, Francesco Azzini sottopone alla nostra attenzione la storia di un gruppo di famiglie
che vivono da venticinque anni sulle montagne del Falterona, dove ha origine l’Arno che bagna Firenze e Pisa,
in mezzo a una natura incontaminata con la quale hanno stipulato un patto di reciproco rispetto. La loro scelta di vita è stata fin dall’inizio impegnativa e radicale: in assenza di collegamenti alla rete nazionale dell’elet-
Fabio Vittorini
tricità e del gas, hanno deciso di mantenersi autosufficienti per quanto riguarda l’energia e il riscaldamento.
Critico cinematografico
La loro giornata è austera: si svegliano presto la mattina, danno da mangiare agli animali da cortile, lavorano
Docente di Letteratura Comparata
la terra, fanno il bucato utilizzando una lavatrice a pedali da loro inventata. Vivono dei frutti della loro terra
Università IULM, Milano
e in perfetta armonia con essa e fra di loro. Un bel giorno di pochi mesi fa, però, scoprono che il Comune di
San Godenzo ha approvato il piano energetico di una ditta del Nord Italia che fa parte delle Grandi Opere e
prevede la costruzione ai margini dei loro terreni di quattordici pale eoliche di 105 metri di altezza per 40 di
larghezza. Uno scempio che mette in discussione la loro quasi trentennale scelta di vita maturata sul Falterona
incontaminato e le spinge a mobilitarsi per scongiurare la realizzazione di questo progetto faraonico… Il lavoro
di Azzini parte dai suoni che producono queste persone lavorando nel loro territorio per arrivare ai suoni delle
pale eoliche già costruite in Secchieta/Pratomagno e alte solo (!!) 25 metri: nel frattempo le immagini ci hanno
accompagnato, con un’austerità che ricorda certi documenti di Ermanno Olmi, in un mondo a lungo risparmiato dalle minacce/seduzioni del progresso e che ora, malgrado la sua integrità mai venuta meno, si trova
sull’orlo di un precipizio. Il destino scelto di distanza dall’umanità e dai suoi affari si trova di colpo trasformato
in un destino in cui la distanza è stata violata e subito irrimediabilmente perduta.
Premio Arti Visive
San Fedele
Statuetta realizzata
da Lucio Fontana
nel 1951 per i premi
del Centro Culturale
San Fedele Giuria premio giovani artisti
Daniela Annaro
Tullio Brunone
Giuseppina Caccia Dominioni Panza
Cristina Chiavarino e Lorenza Gazzerro
Andrea Dall’Asta S.I.
Rosella Ghezzi
Paolo Lamberti
Matteo Lorenzelli
Angela Madesani
Giovanni Pelloso
Dario Trento
e
Daniele Astrologo
Ilaria Bignotti
Chiara Canali
Matteo Galbiati
Chiara Gatti
Massimo Marchetti
Michele Tavola
Francesco Zanot
i
t
s
i
t
ar
i
n
a
v
o
i
g
o
i
o
l
l
e
prem
v
o
N
a
l
e
i
n
o
t
1. Da
a
n
i
v
a
C
o
l
o
a
i
l
2. P
o
z
z
o
P
o
i
z
i
r
b
3. Fa
vic
o
n
a
v
a
mas J
a
T
e
l
a
peci
S
e
n
o
i
Menz
s
DANIELA NOVELLO
TOLS_ Child’s first birthday
2009
piombo e tufo
installazione 4 elementi
31x20x20 cm cad
Photo courtesy: Jurgen Becker
Paolo CAVINATO
Il Viandante
2009
cartoncino, carta, specchi, luci con timer, ferro
175x60x330 cm
Fabrizio POZZOLI
everyone - no one
2009
filo di ferro, legno, sedie, filo di rame
350x600x600 cm circa
Tamas JOVANOVICS
Nonostante
2009
matita colorata fissata e verniciata su tela, telai in alluminio
18 quadri ciascuno di 30 cm x 30 cm x 3.4 cm,
dimensioni totali 116 cm x 236 cm x 3.4 cm
Premio Paolo Rigamonti
Statuetta realizzata
da Hidetoshi Nagasawa
nel 2008 per il
Premio Paolo Rigamonti
della Galleria San Fedele Giuria Premio Paolo Rigamonti 2008/2009
Giorgio Braghieri
Gabriele Caccia Dominioni
Claudio Composti
Andrea Dall’Asta S.I.
Manuela Gandini
Rosella Ghezzi
Alberto Pellegatta
Emilio, maria teresa e michele Rigamonti
i
t
n
o
rigam
o
l
o
a
p
premio
SANNA
o
r
d
n
a
s
Ales
Alessandro SANNA
HOP, HOP, HOPE
2008
disegni a inchiostro di china su carta
5 tavole, 25x35 cm cad, 2 tavole, 25x17,5 cm cad
libro (in 6 copie firmate e numerate)
prototipo realizzato digitalmente con rilegatura metallica
i
t
a
n
o
i
selez
BUFFOLI
e
p
p
e
s
DI Giu
Cesare
ONIAR
B
a
r
a
RANI
i
F
h
Ettore
ANTI C
F
ON
GHI
B
ERRARIS
MEN
F
Luca
o
o
c
c
Mar
DA Mar
A
G
U
aia
B
G
MANTOVANI
Elena
atalia SAURIN CCI
N
Giovanni
I
C
C
U
C
GALLUZZO
Giulia RON
erena VESTRU
S
IRINZI
Patrizia NOVELLOarlo Michele SCH
C
SCARAMELLA
Luca BONFANTI
Sul Destino
2008
stampa lambda
70x100 cm
Chiara BONIARDI
l’uomo e il suo destino
2009
acciaio CorTen invecchiato naturalmente,
acciaio Inox satinato
150x57x23 cm
Giuseppe BUFFOLI
Hai mai pensato che un bambino non beve,
perché per lui non esiste la morte?
2009
ferro, carta, cenere, livelle
dimensioni variabili, lastra di ferro 171,5x45,5,
stampa calcografica 200x70 cm, livella 68 cm
Elena BUGADA
Il destino dell’uomo
2009
Dvd b/n sonoro
durata 2’27”
Marco FERRARIS
Ritorno a Versailles - omaggio a Luigi Ghirri
2008
stampa fotografica digitale
montata su forex e plexiglass
50x70 cm
Ettore FRANI
Audi, filia
2009
olio su MDF laccato bianco
dittico composto da tavola 30x30 cm
e da tavola 120x100 cm; allestimento 120x160 cm
Cesare GALLUZZO
Ciò che non si vede è eterno
2009
legno dipinto, carta, plexiglass e cenere
3 elementi, 53x50x5 cm, 120x52x5 cm, 3x18x28 cm
Giovanni MANTOVANI
Mutamenti di Luce
2009
fotografie, stampe da negativo in medio formato
50x50 cm cad
Marco MENGHI
senza titolo
2008
fotografia
50x70 cm
Patrizia NOVELLO
Again
2009
tempera e pastello a olio su tela
120x90 cm
Photo courtesy: Jurgen Becker
Giulia RONCUCCI
l’uomo e il suo destino (dilated pupil)
2009
video-installazione interattiva (3 monitor)
dimensioni variabili
Natalia SAURIN
dance dance dance
2009
video (4:3), Dvd
durata 4’20”
Gaia SCARAMELLA
via crucis
2009
polittico di 11 tavole
bulino, puntasecca, acquaforte,
acquatinta, ceramolle, maniera nera, incisore elettrico
52x5,20x5 cm
Carlo Michele SCHIRINZI
Ballata naufraga
2009
polittico di 7 elementi
lambda da negativo trattato manualmente
carta brilliant montata su forex, legno e vetro
23x245x4 cm
Serena VESTRUCCI
Pensi di continuare?
2009
fotografia a colori stampata su banner
178x150 cm
Premio Arti Visive
San Fedele
Statuetta realizzata
da Lucio Fontana
nel 1951 per i premi
del Centro Culturale
San Fedele Giuria premio giovani filmmakers
Marco Bechis
Andrea Dall’Asta S.I.
Giancarlo Grossini
Marina Spada
Stefano Zara (AIAF)
Giuseppe Zito S.I.
e
Luca Barnabé
Barbara Sorrentini
Fabio Vittorini
s
r
e
k
a
m
m
l
i
f
i
n
a
v
o
i
g
r
a
o
i
e
l
m
c
e
pr
l Nu
e
t
o
H
1.
AZZINI
o
c
s
e
c
n
2. Fra so Melideo
a
m
m
o
T
3.
ciale
e
p
S
e
n
Menzio
ini
z
z
A
o
c
Frances
HOTEL NUCLEAR
VC – Végétation Colonisatrice
2008
video colore
durata 7’46”
FRANCESCO AZZINI
Noi ci siamo già
2009
hdv
durata 20’50”
distribuzione HULOT
TOMMASO MELIDEO
hand code
2009
stop motion, animazione, digital video mini dv
durata 3’43”
GIOVANI ARTISTI
sezione didattica nel Museo della
sua attività professionale nell’ambito
dell’Università di Nyiregyhaza ed
Scienza e della Tecnologia Leonardo
del reportage e del ritratto. Nel 2008
è composta di tre strutture
Luca Bonfanti
da Vinci a Milano.
viene selezionato da Luca Beatrice per
tridimensionali in acciaio e alluminio.
Nasce a Desio, Milano, nel 1973,
Ha preso parte a varie collettive
la rivista Arte fra le giovani promesse
Nel 2009 è stato selezionato per
dove vive e lavora.
tra le quali si ricordano: Naturarte,
liguri. Ad aprile dello stesso anno
un Artist in Residence di tre mesi a
S’appassiona alla fotografia che per
Modus Operandi, Menotrenta presso
espone per Filippo Fettucciari Arte e a
New york presso l’Harlem Studio
un periodo costituirà la sua attività
lo Spazio Hajech di Milano; Nuove
Maggio viene selezionato da Fabrizio
Fellowship by Montrasio Arte.
professionale principale. È oggi
proposte 2 presso la Galleria Cortina.
Boggiano per la sezione giovani alla
Vive e lavora a Londra.
titolare di un’agenzia di pubblicità
Vive e lavora a Milano.
Biennale di Fotografia di Alessandria.
Vive e lavora a Madrid.
“Bimage Communication”.
Giovanni Mantovani
È inoltre presidente dell’associazione
Elena Bugada
artistica “ART.LAB” e membro degli
Nata nel 1976, consegue il diploma
Ettore Frani
la Cattedra di Arti Visive con indirizzo
artisti del Museo della permanente
di Restauro di Tele Tavole e Sculture
Nasce nel 1978 a Termoli (CB).
Fotografia alla Libera Accademia di
di Milano, dell’associazione nazionale
lignee presso gli Istituti S. Paola
Consegue il diploma di Pittura presso
Belle Arti di Brescia, dove dal 2008
fotografi professionisti Tau Visual
di Mantova nel 1999.
l’Accademia di Belle Arti di Urbino
è assistente al corso di Tecniche
e dell’associazione International
Si diploma in Arti Visive (Accademia
nel 2002. Completa gli studi con il
fotografiche.
Advertising Association “IAA”. Vince
L.A.B.A., Brescia) nel 2007 e ottiene
biennio di specializzazione in Pittura
Dal 2004 espone in mostre collettive.
alcuni premi. Tra le segnalazioni:
la specializzazione in Fotografia
all’Accademia di Belle Arti di Bologna
Vive a Manerbio.
premiofotografico.org, organizzato
nel 2009. Dal 2002 espone in
dove si laurea nel 2007. Dal 1997
dall’associazione italiana fotografi
collettive in varie gallerie italiane
espone in personali e collettive in
Marco Menghi
professionisti, presentato presso la
e nel 2005 presso l’Università statale
numerose gallerie e musei italiani.
Nasce a Milano nel 1986.
Triennale di Milano.
di Barcellona.
Vive e lavora Roma.
Frequenta il Liceo artistico “Umberto
Nato nel 1976, è laureando presso
Vive e lavora in provincia di Mantova.
Chiara Boniardi
Boccioni”. Nel 2005 vince il Premio
Cesare Galluzzo
Boccioni e nel 2006 partecipa alla
Nasce a Milano nel 1974.
Paolo Cavinato
Nato nel 1987, consegue il diploma
mostra Il Viaggio presso la Galleria
Frequenta l’Accademia di Belle Arti di
Nato nel 1975, è diplomato in
di maturità artistica al Liceo Umberto
San Fedele.
Brera dove, dopo aver vinto più borse
Scenografia presso l’Accademia di
Boccioni nel 2006. Dallo stesso anno,
Vive e studia e lavora a Milano.
di studio nel 1995, 1996 e nel 1997,
Brera a Milano. Ha presentato video e
espone in collettive e personali.
si diploma in Scultura nel 1999 con
installazioni in alcuni spazi espositivi
Frequenta ora i Corsi in Architettura
Daniela Novello
lode. Nel 2004 si laurea al Biennio
milanesi (Palazzo della Triennale,
Ambientale al Politecnico a Milano.
Nata a Milano nel 1978, si diploma
Specialistico di secondo livello
PAC, Smau, C/O Care of). Nel 2005,
Vive e lavora a Milano.
in Pittura presso l’Accademia di
all’Accademia di Belle Arti di Brera.
partecipa alla mostra Home, curata
Contemporaneamente svolge attività
da Charles Esche e Vasif Kortun,
Tamas Jovanovics
2003. Attualmente collabora con
di insegnamento. Ha partecipato a
evento speciale della Biennale
Nato nel 1974, consegue la laurea
la Cattedra di Tecniche del marmo
numerose mostre collettive.
d’Istanbul. Nel 2006 è invitato in
e il PhD in Fine Art all’Accademia
e delle pietre dure all’Accademia di
Vive e lavora tra Milano e Verona.
Cina, per BigScreen Italia e partecipa
di Budapest (1997 e 2004) e la
Belle Arti di Brera. Espone in mostre
alla mostra Intimate Spaces a New
laurea e il PhD all’Università di
personali e collettive dal 1999. Nel
Giuseppe Buffoli
york. Nel 2008 vince il Terzo Premio
Aix Marsiglia in Francia (1999 e
2008 vince il Premio Artivisive
Nasce a Chiari (BS) nel 1979.
del Premio Fondazione Arnaldo
2004). Dal 1999 partecipa a mostre
San Fedele. Vive e lavora a Milano.
Frequenta Scultura presso
Pomodoro. Vive e lavora a Mantova.
collettive in numerose gallerie e
Belle Arti di Brera di Milano nel
musei d’Europa. Dal 2003 espone
Patrizia Novello
Milano. Nel 2006 vince il secondo
Marco Ferraris
in personali a Budapest, Londra,
Nata a Milano nel 1978, consegue
premio al Concorso d’Incisione
Nato a Genova nel 1978, fotografa
Milano e New york. Nel 2007 vince
il Diploma di Laurea presso l’Accademia
Sandro e Marialuisa Angelini
da sempre per passione e desiderio
un concorso per la realizzazione di
di Belle Arti di Brera di Milano,
organizzato dall’Accademia Carrara
di conoscenza. Dopo la laurea in
un Public Art Project in Ungheria.
nel corso di Restauro dell’Arte
di Bergamo. Nel 2009 realizza una
psicologia nel 2005 con una tesi
L’opera site specific (compiuta nel
Contemporanea nel 2003.
scultura permanente per la nuova
sulla percezione visiva, comincia la
2008) è stata collocata su tre facciate
Nel 2008 viene invitata da R. Bedarida
l’Accademia di Belle Arti di Brera di
Biografie degli artisti
a New york nel progetto di residenza
Lavora come illustratore per
retrospettive (Torino Film Festival,
Milano. Inizia da subito a collaborare
d’artista Harlem Studio Fellowship
Il Sole24ore. Ha esposto in importati
Pesaro Film Festival, Taranto Film
come scultore teatrale con i grandi
by Montrasio Arte. Dal 2002 espone
mostre colletive e personali in Italia
Festival, Festival del Cinema Europeo).
cantieri di scenografia di Milano.
in personali e collettive in numerose
e all’estero. Vince il Premio Andersen
Vive e lavora ad Acquarica
Collabora con Oloart, Koine’, Quinte di
gallerie in Italia e all’estero.
come migliore illustratore nel 2009.
del Capo, Lecce.
Carta, Centro Multimedia Provincia di
Natalia Saurin
Serena Vestrucci
Loescher Editore Torino.
Fabrizio Pozzoli
Nata nel 1976, consegue la laurea in
Nata nel 1986, consegue la laurea
Dal 1999 espone in personali e
Nato a Milano nel 1973. Conseguito
Architettura al Politecnico di Milano
in Pittura presso l’Accademia di
collettive in Italia, fa parte dal 2000
il diploma di maturità scientifica,
nel 2003, in parallelo frequenta per
Brera di Milano nel 2009. Nello
del gruppo artistico Koinè. Vive e
compie stages negli Stati Uniti e in
un anno Bellas Artes in Spagna
stesso anno inizia a lavorare per la
lavora a Missaglia (Lecco).
Inghilterra. Tra il 1995 e il 1996 lavora
(Salamanca). Nel 2000 riceve una
ArtistsAnonymous Gallery,
come aiuto scenografo. Nel 1999
Borsa di Studio da parte di Zone
a Berlino, e la Galerie Ron Mandos,
Hotel Nuclear
si iscrive alla Scuola del Fumetto
Attive per un workshop TPW con
ad Amsterdam. Sempre nel 2009
Mathilde Marie Madeleine Neri
di Milano. Del 2000 sono le prime
Amy Arbus, e una borsa di studio per
partecipa alla mostra collettiva presso
Poirier nasce a Noyon (Francia) nel
opere in filo di ferro. Tra il 2000 e il
frequentare l’Università dell’Immagine
la Hochschule fur Bildende Kunste di
1982. Consegue il diploma di Arte
2009 espone in mostre personali e
a Milano. Nel 2001 entra a far parte
Dresda e all’esposizione Salon Primo,
della Decorazione Pittorica all’istituto
collettive in Europa, Asia e Stati Uniti.
del gruppo musicale performativo
a Milano. Vive e lavora a Berlino.
statale d’ arte Morgagni di Forlì
Vive e scolpisce a Milano.
Allun. Dal 2005 oltre alla fotografia
Vive e lavora a Milano.
Lecco. Nel 2005 scrive e disegna per
nel 2004. Nello stesso anno con
Giancarlo Bianchini è fondatrice del
inizia a realizzare opere video, espone
Giulia Roncucci
in personali e collettive in Italia e
Si laurea in “Nuove Tecnologie
all’Estero. Vive e lavora a Milano.
dell’Arte” presso l’Accademia di
GIOVANI FILMMAKERS
collettivo artistico Hotel Nuclear con
il quale ricerca e struttura azioni
Francesco Azzini
performative, video installazioni e
Belle Arti di Brera di Milano, dove
Gaia Scaramella
Nasce nel 1974 a Firenze. Dopo
ambientazioni sonore articolate in
attualmente frequenta il biennio
Nasce a Roma il 18 Febbraio 1979.
la maturità artistica si iscrive alla
svariate discipline artistiche tra cui
specialistico. Partecipa a numerose
Si ricordano nel 2007 Dio ed io,
facoltà di Architettura. Nel 1994
cinema, video arte e teatro.
iniziative ed esposizioni. Con la
a cura di Marco Tonelli, presso la
partecipa al Concorso universitario
Dal 2005 con il collettivo Hotel
sceneggiatura per il cortometraggio
Galleria Z2O-Sara Zanin, Roma,
L’Autoprodotto appassionandosi al
Nuclear collabora con diverse
“I fiori Blu” ha vinto nel 2001
Gaia Scaramella, mostra di grafica,
mondo del video creativo.
formazioni di ricerca teatrale in Italia
il concorso promosso da Comunità
presso il Castello dei Da Peraga,
Nel 1998 lavora nel film americano
e all’estero, attualmente è iscritta alla
Nuova in collaborazione con Tele+
Vigonza, Padova.
Up at the villa, reparto del suono.
Facoltà di Lettere e Filosofia nel corso
e con il Comune di Milano.
Nello stesso anno vince il Primo
Nel 2001 prima esperienza come
di Tecniche e Culture del Costume e
premio grafica italiana 2007 a
microfonista nel film italiano
della Moda, polo di Rimini.
Vigonza. Vive e lavora a Roma.
Né terra né cielo. Lavora come fonico
Vive e lavora a Roncofreddo (FC).
Alessandro Sanna
e microfonista per il cinema e la
Nato nel 1975, vive e lavora a Ostiglia
in provincia di Mantova.
Carlo Michele Schirinzi
televisione. Firenze: dall’immobilismo
Ha illustrato libri scritti da David
Nato nel 1974, consegue la laurea
all’immobiliarismo è uno dei suoi
Grossman, Italo Calvino, Roberto
in Scenografia all’Accademia di Belle
numerosi corti che riceve menzioni
Piumini, Gianni Rodari, Vivian
Arti di Bari nel 1999. I suoi lavori
speciali e segnalazioni internazionali
Lamarque. Nel 2006 vince il Premio
fotografici, esposti in personali e
da diversi Festival Europei.
Andersen nella categoria “miglior
collettive presso gallerie e musei, sono
Nel 2006 Azzini inventa Cortomobile,
libro fatto ad arte” con il libro “Hai
realizzati con graffi ed asportazioni
il cinema più piccolo del mondo!
mai visto Mondrian?”. Lavora con le
manuali direttamente praticati sulla
(www.cortomobile.it)
case editrici più importanti europee.
pellicola analogica. I suoi video,
Nel 2007 realizza il libro interattivo
selezionati da festival internazionali
Tommaso Melideo
“Mostra di pittura” con la coedizione
dedicati alla sperimentazione digitale,
Nato nel 1975, consegue la laurea in
Corraini - Centre Pompidou.
hanno ricevuto riconoscimenti e
scenografia all’Accademia di Brera a
Altre opere
Giovani artisti
Maria Rebecca Ballestra
Alex Bombardieri
Marco Bongiorni
ATLANTIS
Noi fummo quello che voi siete
Beijn John Titor
stampa Lambda
e siamo quello che voi sarete
inchiostro e stampa inkjet su carta
9 fotografie 20x20 cm cad
ferro, bronzo, polimetilmetacrilato, gomma, carta
38x31 cm
48x120x40 cm
Daniele Bordoni
Luca Casonato
Daniela Cavallo
Grande Generatore
Caorle, Italia, 2008
Terra
tecnica mista su carta
stampa a getto di pigmento montata
stampa fotografica su plexiglass
275x150 cm
su alluminio e fissata su telaio in legno
80x100 cm
120x100x5 cm
Pablo Chiereghin
Orsola Clerici
Giacomo Colosi
L’uomo e il suo destino
Radici
Cartoncini
performance - trittico, dett
acrilico, gesso, matita su tela
video
80x60 cm cad
130x120 cm
3’56’’
Michela Comisso
Matteo Confalonieri
Davide Corona
Fuori i secondi. Tra un respiro e l’altro
Baraka
La strada non presa
slideshow + audio
acrilico e argento su lino
olio su tela
6’16’’
90x90 cm
30x60 cm
Matteo Cremonesi
Gabriele Croppi
Mauro De Carli
Le grand jeu
Fughe n°1
PORT@LPARADISO
stampa inkjet su carta fotografica applicata su alluminio
stampa Lambda e acrilico
installazione. Scultura in gesso, volantini,
120x124 cm
80x120 cm
banner pubblicitario, sito web
180x250x150 cm
Katia Dilella
Donato Faruolo
Fiorese Cinzia
Angolo di città
Il fastidio di esserci
La Creazione
acrilico su tela
fotografie digitali su bilaminato
intaglio su legno di pioppo, inchiostro,
100x150 cm
20x20 cm cad
acrilico su multistrato
158x37x3 cm
Matteo Fossati
Matteo Gianmarinaro
Alessandra Giotto
Vaso di Pandora: origine di un suono
Dal cuore di zucchero
Transitions
scultura in legno di cedro
cera, zucchero e video
video
50x50x120 cm
14x74x116 cm
6’22’’
3’44’’
Luca Lo Coco
Eleonora Magnani
Renzo Marasca
Ormai si chatta fra componenti della stessa famiglia…
Metamorfosi
The same day
Domine quo vadimus?
gomma siliconica
olio spray collage su tela
stampa digitale su pannello di alluminio fra lastre di perspex,
180x90 cm circa
150x120 cm
viti, cerniere e cavi in acciaio inox
70x140 cm variabili
Massimiliano Alessio Miglierina
Franco Napoli
Andrea Mori
Nuvole in viaggio
Silenzi dentro e fuori di noi
L’uomo e il suo destino
stampa a getto d’inchiostro di frame da web cam
acrilico su tela e tavola + registrazione sonora
2 cumuli di terra, fogli di cellulosa e terra
60x90 cm
80x80x6,5
350x100x60 cm
Diego Parolini
Michele Ravasio
Denise Sampietro
Tuo per sempre (Virtual Death)
Qui la tua casa:tra la vecchia Fiera e Citylife
What are you thinking about?
stampa digitale su dibond e metacrilato
6 fotografie bianco e nero
specchi, stampe digitali, fototessere,
45x30 cm
30x40 cm cad
bendaggio, carta da lucido adesiva
92x110 cm
Giovani filmmakers
SUITECASE
Rita Casdia
Giulia Forgione
Destinazioni
White sex
IMAGINE
performance musicale - casse stereo
dvd
Animazione
amplificatore, lettore cd
2’
Dvd
dimensioni variabili
3’30”
Catrina Zanirato
Giumarnic (G. Nocera, M. Cerrato, N. Merlino)
Antonello Novellino
Anno 2115, missione Luna-Terra rapporto esplorativo
dESTINO
GUERRA
3 stampe digitali
video animazione
Unico comandamento: ammazza tutti i deboli
33x50 cm, 48x50 cm, 33x50 cm
Dvd
dvd
11’
12’
Premio Arti Visive
San Fedele 2008/2009
l’uomo e il suo destino
Interventi di:
Letizia Battaglia
Don Luisito Bianchi
Nella Magen Cassouto
Giovanni Chiaramonte
Daniela Cristofori
Erri De Luca
Gabriella Gilli
Paula Luttringer
Silvano Petrosino
Da ottobre 2008 a marzo 2009
si è svolto un ciclo di seminari e di
reading dal titolo
“(Ri)cercando germogli di compassione”.
I testi che compaiono in questo catalogo
sono trascrizioni degli interventi,
non riviste dagli autori
se non per l’apporto delle note.
La figura del «destino» sembra essere
caratterizzata da due tratti fondamentali;
da una parte essa allude al tutto,
all’idea di intero e di totalità: si parla
per l’appunto del «destino dell’uomo»,
del «destino di una vita», del «destino
del mondo», e con questo si vuole
indicare non un aspetto o un momento
particolare di un’esistenza, ma il suo
senso globale, complessivo. Dall’altra
parte nell’idea di «destino» si esprime
anche il rinvio ad un compimento, al
giungere al termine di una traiettoria, di
un percorso. Di fronte a questi due tratti,
quello della «completezza» e quello del
«compimento», non c’è uomo che non
resti profondamente coinvolto (come non
interrogarsi sul senso, sulla direzione, della
propria vita e dell’esistenza in generale?
Come non cercare un legame tra tutti
gli esistenti e tra i diversi momenti
della propria esistenza?), ma anche
irrimediabilmente spiazzato (come è
possibile parlare di un «tutto»? E chi è mai
in grado di individuare con chiarezza il
senso che la propria vita ha assunto o sta
assumendo?).
L’inquietudine che accompagna tali
interrogativi ha spesso portato a
due atteggiamenti opposti eppure in
qualche modo connessi tra di loro;
c’è chi ha sostenuto che non ha alcun
senso parlare di «destino» poiché tutto
è in divenire, tutto è coinvolto in una
continua trasformazione o, come
oggi spesso si afferma soprattutto il
riferimento al carattere postmoderno
della società del nostro primo mondo,
tutto è «liquido», «fluido». All’opposto
vi è chi ha sottolineato la futilità di
ogni interrogazione su questo tema
osservando che il destino, se esiste, allude
precisamente ad una struttura fissa,
immobile, a qualcosa di immodificabile
che sfugge alla libera decisione dei
singoli. È all’interno di questa seconda
prospettiva che si è spesso stabilito un
nesso d’essenza tra l’idea di «destino» e
il concetto di «natura»: «era nella natura
delle cose», «era destino che accadesse»,
il che significa che non si poteva fare
altrimenti, che non si poteva evitare ciò
che è accaduto, che le cose sono andate
proprio come dovevano andare. In
conclusione, non vale la pena pensare al
destino dato che il pensiero non ha alcun
potere su di esso; come ricorda Seneca:
Qualcuno dirà: «Che mi giova la filosofia,
se c’è un destino immutabile? Che giova,
se c’è un dio che ci governa? Che giova,
se è il caso che comanda? Ciò che è stato
preordinato non può essere mutato e
niente si può fare contro gli eventi fortuiti.
O c’è un dio che ha prevenuto ogni mia
decisione e ha stabilito che cosa debbo
fare, oppure c’è la fortuna che nulla
concede alle mie decisioni»1.
La riflessione intorno al destino sarebbe
dunque inutile, sarebbe una riflessione
destinata ad interrompersi ancor prima di
cominciare. Eppure bisogna riconoscere
che una simile conclusione rischia
sempre di lasciarsi sfuggire qualcosa
di essenziale della questione qui in
oggetto. In effetti, coloro che insistono
su quella che considerano e presentano
sempre come una pura e semplice
evidenza – ripeto: non c’è alcun destino,
e se ci fosse non sarebbe conoscibile, e
se anche fosse conoscibile non sarebbe
in alcun modo modificabile – non si
fermano mai a questa constatazione, a
questa presa d’atto, ma proseguono con
determinazione nel loro ragionamento
traendo da una tale supposta evidenza
delle precise e spesso gravi conseguenze.
In tal senso è come se il tema del destino
ogni volta attivasse una riflessione molto
più ampia di quella relativa all’eventuale
conoscenza ed individuazione di un
lontano e misterioso disegno finale,
coinvolgendo così – ecco il punto che a
me sembra essenziale – non tanto le cose
future quanto piuttosto quelle presenti.
Da questo punto di vista si deve avere
l’onestà di affermare che la riflessione
sul destino è sempre una riflessione sul
presente, così come si deve affermare che
la riflessione sul presente implica sempre
un qualche riferimento alla figura del
destino, soprattutto quanto quest’ultima
viene negata o concepita come una mera
illusione. Per tentare di chiarire questo
snodo essenziale del nostro tema citerò
qui di seguito una celebre ode di Orazio
ed un passo tratto dal libro della Sapienza.
Scrive Orazio:
Non indagare (non si può), Leuconoe, la
nostra sorte,
lascia stare i calcoli babilonesi,
accetta quel che capita,
che tu viva altri inverni
o che sia l’ultimo questo che fiacca il mare
contro gli argini.
Sii saggia, pensa a bere e non illuderti.
Mentre parliamo il tempo ingorda scivola:
goditi l’oggi e del domani infischiati2.
Nel secondo capitolo della Sapienza si
dice:
La nostra vita è breve e triste; non c’è
rimedio, quando l’uomo muore, e non si
conosce nessuno che liberi dagli inferi.
Siamo nati per caso e dopo saremo come
1 L.A. Seneca, Lettere a Lucilio, trad. it. di G. Monti,
2 Orazio, Tutte le opere, trad. it. di R. Ghiotto e M.
Rizzoli, Milano 2000, lettera 16, p. 139.
Scaffidi Abbate, Newton Compton, Roma 1992, p. 51.
Natura e destino
Silvano Petrosino
Docente di Semiotica e Filosofia Morale
Università Cattolica, Milano
se non fossimo stati. È un fumo il soffio
nelle nostre narici, il pensiero è una
scintilla nel palpito del nostro cuore. Una
volta spentasi questa, il corpo diventerà
cenere e lo spirito si dissiperà come aria
leggera. Il nostro nome sarà dimenticato e
nessuno si ricorderà delle nostre opere. La
nostra vita passerà come le tracce di una
nube, si disperderà come nebbia scacciata
dai raggi del sole e disciolta dal calore. La
nostra esistenza è il passare di un’ombra
e non c’è ritorno alla nostra morte, poiché
il sigillo è posto e nessuno torna indietro.
Su, godiamoci i beni presenti, facciamo
uso delle creature con ardore giovanile!
Inebriamoci di vino squisito e di profumo,
non lasciamo sfuggire il fiore della
primavera (…) Lasciamo dovunque i segni
della nostra gioia perché questo ci spetta,
questa è la nostra parte. Spadroneggiamo
sul giusto povero, non risparmiamo le
vedove, nessun riguardo per la canizie
ricca d’anni del vecchio. La nostra forza sia
regola della giustizia, perché la debolezza
risulta inutile3.
Ecco lo snodo a cui ho fatto cenno e sul
quale vorrei richiamare l’attenzione: non
ci si limita mai ad affermare «non si può
indagare la sorte, è impossibile prevedere
ciò che avverrà», oppure «la vita è breve e
triste, si è nati per caso e presto si verrà
dimenticati, la nostra esistenza è il passare
di un’ombra», ma subito, proprio a partire
e in forza di una simile descrizione, si
prosegue e si afferma – come se anche
questa fosse una semplice evidenza,
quella che conseguirebbe logicamente
dalla precedente descrizione – quindi «su,
godiamoci i beni presenti, non lasciamoci
sfuggire il fiore della primavera, la nostra
forza sia regola della giustizia perché la
debolezza risulta inutile», oppure «accetta
3 Sapienza, 2, 1-11.
quel che capita, sii saggio, goditi l’oggi
e del domani infischiati (carpe diem,
quam minimum credula postero)». Ma
in questo modo, nell’istante stesso in
cui si suggerisce di tagliar corto e di
non perdere tempo in inutili riflessioni
(«lascia stare i calcoli babilonesi»), in
verità si rilancia inevitabilmente e forse
inavvertitamente quell’interrogazione
che invece si voleva chiudere: infatti,
che cosa mai potrà significare per
l’uomo «godi oggi»? Come è possibile, ad
esempio, godere l’oggi infischiandosi del
domani, non tenendo conto del domani?
Il godimento dell’oggi non implica forse,
proprio per essere dell’«oggi» e per essere
«godimento», il rinvio all’ieri e al domani?
Che tipo di saggezza (sapias) è quella che
pensa all’oggi riuscendo a non pensare al
domani? Un tale pensiero, e la saggezza
ch’esso genera, è in verità possibile, o
invece il pensiero – cioè ancora una volta
l’umano –, proprio in quanto pensiero, è
sempre la scena dell’intrecciarsi di una
trama che lega e collega, il «qui» ed il
«là», l’«ora» e l’«allora»? E ancora: in che
senso il «godere» è un «diritto», qualcosa
che «spetta» come se fosse un dovuto,
e per godere non si rischia forse di fare
«uso» dell’altro, delle altre creature?
Infine, che nesso sussiste tra il concetto
di «godimento» e quell’idea di «forza»
che il testo della Sapienza introduce,
inquietantemente, come «regola della
giustizia»?
È di fronte a queste domande, e al fondo
drammatico ch’esse rivelano, che la figura
del «destino» si impone e non cessa di
interrogare il soggetto con un’insistenza
che, come accennavo, è riconducibile non
tanto alla curiosità relativa ad un «come
finirà questa storia?», quanto piuttosto
alla ricerca di un punto di osservazione
e di interpretazione relativi all’azione
presente; in altre parole si potrebbe anche
dire che ogniqualvolta l’uomo si interroga
sul suo «destino», fosse anche per negarne
l’esistenza o per rifiutarne il concetto,
in verità si sta interrogando sul suo
«presente» cercando così di rispondere ad
un’esigenza che non attende certamente
il futuro per investirlo con tutta la
sua inquietudine. A tale riguardo, per
riprendere i temi e il lessico dei due brani
citati, si potrebbero forse riassumere nel
seguente modo i molti interrogativi sopra
ricordati: che cosa significa cogliere/
godere l’attimo/oggi (e più precisamente:
che cos’è l’«oggi» e che cosa è il
«godimento»)? E poi, la ricerca del proprio
godimento descrive adeguatamente
il modo d’essere dell’uomo? Volendo
spingere ancora oltre la sintesi ci si
potrebbe forse limitare a chiedere: può
l’uomo vivere da uomo, e dunque anche
godere, senza «spadroneggiare» e senza
compiere il male?
Senza avere in alcun modo la pur minima
pretesa di rispondere a questioni così
complesse, vorrei tuttavia indicare la
direzione verso la quale è necessario
guardare, a mio avviso, per confrontarsi
con simili tematiche. Mi permetto a tale
riguardo di riprendere alcuni passaggi di
un’analisi che ho tentato di articolare più
ampiamente in un’altra occasione4.
Mi sembra che si debba distinguere il
modo d’essere del «vivente» dal modo
d’essere dell’«uomo»; per chiarire una
simile differenza (il modo d’essere
dell’uomo non si risolve mai in quello del
semplice vivente) è necessario passare
da due ulteriori distinzioni: quella tra
«intelligenza» e «ragione», e quella tra
«bisogno» e «desiderio». In breve: la
4 S. Petrosino, Capovolgimenti. La casa non è una
tana, l’economia non è il business, Jaca Book, Milano
2008, si vedano in particolare le pp. 9-71
ragione deve essere distinta dalla semplice
intelligenza; quest’ultima può essere
interpretata in relazione alla capacità di
concentrarsi su un determinato qualcosa
allo scopo, in particolare, di superare la
difficoltà che lo affligge; tale difficoltà
sta di fronte all’intelligenza come il problema rispetto al quale essa ha sempre
una sapere chiaro e distinto: infatti,
benché non sempre l’intelligenza sia
in grado di risolvere tutti i problemi in
cui si imbatte, ogni problema è di per
sé risolvibile dal sapere di cui essa si
dimostra e, soprattutto, si dimostrerà
capace (l’intelligenza è per sua natura
problem solving). La ragione invece, più
originariamente ancora che dall’attenzione
verso quel qualcosa e verso la difficoltà
che l’accompagna, è caratterizzata
dall’attenzione che si rivolge o si apre
alla totalità all’interno della quale quelle
singolarità emergono. In questa apertura
la ragione si rivela massimamente come
logos: la ragione è logos proprio perché in
essa il gesto del legare e del collegare (di
cui anche l’intelligenza si dimostra capace)
si esaspera e si perfeziona muovendosi,
in linea di principio, verso la totalità dei
legami e verso il legame stesso come
totalità. Tuttavia – ed è questo il suo
secondo carattere essenziale – la ragione
apre alla totalità sempre e solo come a ciò
che manca, come a quell’alterità radicale
ch’essa stessa non è mai in grado di
circoscrivere e determinare totalmente. In
tal senso la ragione, più che dalla capacità
di risolvere un problema, si rivela nella
capacità di riconoscere una questione,
e quest’ultima è proprio ciò rispetto alla
quale il soggetto non è mai in grado di
avere un sapere chiaro e distinto; infatti, a
differenza del problema che sta sempre di
fronte a colui che lo riconosce allo scopo
di risolverlo, la questione opera come la
scena irriducibilmente aperta che avvolge
il soggetto rilanciando di continuo la
sua interrogazione. È in questo senso
che il culmine del sapere della ragione,
o se si preferisce l’espressione più alta
dell’intelligenza umana in quanto ragione,
coincide con un non sapere: essa sa
di non sapere, e ha tale sapere proprio
perché è certa di non ingannarsi a
proposito di ciò a cui con insistenza apre:
la totalità.
Analogamente il desiderio deve essere
letto sempre in rapporto con il bisogno.
L’uomo è un vivente; la forza primordiale
che spinge ogni vivente all’apertura e
alla relazione, forza rispetto alla quale
egli non può far altro che obbedire, è
il conatus stesso della vita, è lo slancio
incontenibile generato dai propri bisogni,
dalle esigenze della nutrizione e della
riproduzione, e dall’istanza di godimento
che non a caso è ad essi sempre connessa.
Anche l’uomo, come ogni altro vivente,
è definito dai bisogni, la sua vita, come
ogni altra vita, si raccoglie attorno ad
un insieme di bisogni che esigono con
forza di essere soddisfatti; il godimento
è il frutto della soddisfazione dei bisogni:
l’uomo, in quanto vivente, si muove, cioè
vive, andando alla ricerca del proprio
godimento. Tuttavia – ecco l’ipotesi sulla
quale non si finirà mai di discutere – a
differenza di ogni altro vivente, l’uomo
non si esaurisce nei suoi bisogni, i suoi
bisogni non lo definisco mai totalmente,
poiché egli è anche abitato dal desiderio.
Ciò che accomuna il bisogno e il desiderio
sono l’evidenza di una mancanza e la
tensione che quest’ultima puntualmente
genera; ma mentre nel bisogno il
soggetto ha sempre un sapere chiaro e
distinto a proposito di ciò di cui sente la
mancanza (e di conseguenza il mancante
fin dall’inizio gli appartiene, sebbene non
ancora nella forma del posseduto ma
solo in quella del possedibile), così come
ha sempre la certezza che la tensione
generata dalla mancanza si esaurirà una
volta che il mancante sarà posseduto,
nel desiderio il soggetto manca di ciò
che non sa o anche non sa di che cosa
manca, e l’unica certezza di fronte alla
quale la sua esperienza con insistenza
lo pone è quella relativa al rilancio
stesso che il desiderio riceverà da parte
di tutto ciò che in un primo momento
prometteva di soddisfarlo. Il soggetto sa
che desidera, ma non sa mai che cosa
desidera, e ogni qualvolta crede o sogna
di avere individuato l’oggetto del proprio
desiderio, ecco che quest’ultimo, l’oggetto,
con rigore fallisce, puntualmente non
mantiene le promesse, e il desiderio si
acuisce. Il possesso di un oggetto mette
così fine al bisogno corrispondente, ma
non soddisfa mai il desiderio, esso fallisce
rispetto al desiderio poiché sempre lo
esaspera invece di placarlo, e ciò avviene
non perché quell’oggetto sia mancante
di qualcosa, ma perché il desiderio non è
mai relativo alla mancanza di qualcosa,
ma al soggetto stesso che è mancanza (da
non confondere con una pura e semplice
assenza). Si deve quindi affermare che il
soggetto desidera sempre ciò di cui non
ha bisogno, così come si deve riconoscere
che è proprio dalla sua esperienza ch’egli
è destinato ad eccedere, con assoluto
rigore, la legge dei bisogni e della loro
soddisfazione: rispetto ad una simile
legge, il desiderio è sempre fuorilegge,
esso non può che essere trasgressione.
L’uomo, dunque, non è semplicemente
un vivente perché, oltre ad essere un
organismo caratterizzato da bisogni
e dalla pulsione a godere, è anche e
soprattutto aperto alla ragione e soggetto
al desiderio. Certo, anche l’uomo, come
ogni altro vivente, deve lottare per
vivere, e la pulsione a godere è la più
sorprendente sollecitazione verso questa
lotta, tuttavia il riferimento alla lotta e
la pulsione a godere non sono in grado,
da soli, di leggere ed interpretare il modo
d’essere proprio dell’uomo. In conclusione,
la ragione e il desiderio travagliano il
soggetto con un’inquietudine che non è
più quella che accompagna la lotta per la
sopravvivenza a cui ogni vivente si vede
costretto dai propri bisogni, ma è quella di
un’apertura che, al di là di ogni ambiente
ed indifferente ad ogni oggetto, è
destinata a restare essenzialmente aperta
dato che rispetto ai modi e ai contenuti di
una sua eventuale chiusura egli sa di non
avere alcun sapere.
Perché questa lunga digressione che forse
ci ha distratto dal tema qui in oggetto,
quello del destino? Inoltre, le ultime
considerazioni sviluppate non rischiano di
tradire una concezione utopica dell’uomo
del tutto estranea alle sue reali condizioni
di vita? Infatti, si potrebbe sostenere,
l’uomo, come ogni altro vivente, non
è forse sempre inchiodato al proprio
godimento, destinato, per l’appunto, dalla
vita stessa alla ricerca ostinata del proprio
godimento? Eccoci così giunti di fronte
a quello che a me sembra essere il punto
focale della nostra riflessione.
Ritorniamo al destino e decliniamolo
nel senso della destinazione, di un
movimento sempre orientato. Tale
dinamismo, in verità, non coinvolge
affatto solo l’uomo, ma, come ho già
accennato, tutto ciò che vive; esso è la
vita stessa. Da questo punto di vista si
deve affermare che tutto ciò che vive ha
evidentemente un destino, ha una sua
intima destinazione; quale? Mi sembra
che la risposta ad un simile interrogativo
non sia difficile: ogni vivente è mosso
da una forza che lo spinge a permanere
e a svilupparsi; si tratta di ciò che gli
stoici chiamavano ormé (la tendenza di
ogni ente alla propria conservazione), e
che Spinoza, ad esempio, ha chiamato
conatus essendi (l’essenza stessa, essenza
attuale, di ogni cosa). Il filosofo olandese
ha anche precisato il significato di questa
tendenza a perseverare nel proprio
essere descrivendola anche in termini
di «appetito». Ora, è proprio in relazione
all’idea di «appetito» che a me sembra
legittimo introdurre il riferimento al
«godimento»; in tal senso, come ho già
ricordato, si potrebbe sostenere che la vita
in generale, e dunque anche l’uomo, non
ha altro destino se non quello di godere:
tutto ciò che vive, compreso l’uomo, si
muoverebbe andando alla ricerca, sempre
e solo, del proprio godimento.
Tuttavia al realismo di questa analisi
si è sempre opposta un’altra ipotesi;
come ho brevemente accennato più
sopra, l’uomo, a differenza di ogni
altro vivente, è definito non solo
dall’intelligenza ma anche dalla ragione
(luogo dell’apertura alla totalità), così
come non solo è agitato da bisogni che
esigono con forza di essere soddisfatti,
ma è anche abitato da un desiderio che
non si sa mai come soddisfare (si tratta
dell’inquietudine su cui ha così tanto
insistito Agostino). All’interno di una tale
ipotesi non si nega affatto la rilevanza
dell’appetito, non si censura ciò che ho
anche definito la «pulsione a godere»,
ma si sostiene che questa innegabile
dimensione della vita non permettere
mai di descrivere adeguatamente il
modo d’essere dell’uomo. Questo modo
d’essere rappresenterebbe dunque una
sorta di pietra d’inciampo, di salto o di
complicazione all’interno del mero fluire
della «nuda vita», come se l’uomo fosse
l’unico vivente in grado – non per una
sorta di masochismo ma proprio per
restare fedele alla specificità del proprio
modo d’essere (ragione e desiderio) – di
ridimensionare e talvolta addirittura
di rinunciare al proprio godimento.
L’insistenza di Heidegger sulla necessità
di distinguere il modo d’essere delle cose
e degli altri viventi (riconducibile a quella
ch’egli definisce la «semplice presenza»)
dal modo d’essere dell’uomo deve essere
accolta e letta anche in questo senso:
l’uomo, in quanto uomo, non è mai
definito solo dalla ricerca del proprio
godimento, nel suo modo d’essere si
rivela dell’altro, l’uomo è sempre aperto
all’altro del godimento. In estrema
sintesi si potrebbe forse dire che ciò
che definisce lo specifico modo d’essere
dell’uomo, determinando di conseguenza
il suo eccentrico modo di vivere e di
comportarsi, è di essere sempre abitato
da un’alterità che sfugge, inquietandola,
alla legge del godimento; come già
sottolineavo, rispetto a questa legge (che
senza alcun dubbio ordina e domina
la nuda vita) il desiderio dell’uomo (e il
desiderio è solo dell’uomo) si configura
come un evento eccentrico, come
quell’eccedenza che è sempre fuorilegge,
che è sempre una forma di trasgressione
(e questo, bisogna riconoscerlo, sia nel
senso del male che in quello del bene).
Ma allora quale sarebbe il destino
dell’uomo? Se la ricerca del proprio
godimento non è mai in grado di leggere
ed interpretare la totalità dell’umano, se
la legge del godimento non riesce mai
ad ordinare la scena aperta dal modo
d’essere dell’uomo, se questa scena è
sempre più ampia, più profonda e più
complessa di quella in cui il semplice
vivente si trova coinvolto, allora in quali
termini si potrà mai parlare del destino
dell’uomo? Verso che cosa l’uomo, in
quanto uomo, si muove? Giunti a questo
punto, tento, nei termini più sintetici, la
seguente risposta: l’uomo è in cammino
verso il suo stesso essere uomo, o anche:
il destino dell’uomo non è nient’altro
che quello di diventare uomo. Tale
risposta si fonda su questa premessa:
non si nasce uomo, ma lo si diventa, che
è poi un altro modo per sottolineare lo
scarto rappresentato dal modo d’essere
dell’uomo rispetto al modo d’essere del
semplice vivente: l’uomo nasce come
ogni altro vivente, e da un certo punto
di vista vive come ogni altro vivente (si
nutre e si riproduce), ma a differenza
di ogni altro vivente egli è anche
chiamato a vivere secondo il modo che
gli è proprio, e questo modo è abitato
dalla chiamata a diventare uomo. In tal
senso, per ritornare al titolo di questo
intervento, si può affermare che la
natura dell’uomo è quella di avere un
destino diverso da quello che segna la
nuda vita: se l’uomo «deve» qualcosa,
se vi è un «dovere» che intimamente
lo riguarda, questo non è innanzitutto
quello del godere, ma essenzialmente
quello di diventare uomo, o meglio,
è quello di diventare se stesso come
uomo, se stesso e dunque uomo. È
ciò che Nicodemo, uno studioso, un
intellettuale, un maestro, un sapiente,
dura fatica a comprendere: si nasce
sempre due volte, o più precisamente:
l’uomo è chiamato sempre a rinascere,
a nascere una seconda volta, e questa
«seconda nascita» coincide con il
compiersi stesso del suo destino di
uomo:
C’era tra i farisei un uomo chiamato
Nicodemo, un capo dei Giudei. Egli andò
da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbi,
sappiamo che sei un maestro venuto da
Dio; nessuno infatti può fare i segni che
tu fai, se Dio non è con lui». Gli rispose
Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno
non rinasce dall’alto, non può vedere
il regno di Dio». Gli disse Nicodemo:
«Come può un uomo nascere quando è
vecchio? Può forse entrare una seconda
volta nel grembo di sua madre per
rinascere?». Gli rispose Gesù: «In verità,
in verità ti dico, se uno non nasce da
acqua e da Spirito, non può entrare
nel regno di Dio. Quel che è nato dalla
carene è carne e quel che è nato dallo
Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se
t’ho detto: dovete rinascere dall’alto.
Il vento soffia dove vuole e ne senti
la voce, ma non sai di dove viene e
dove va: così è chiunque nato dallo
Spirito». Replicò Nicodemo: «Come può
accadere questo?». Gli rispose Gesù: «Tu
sei maestro in Israele e non sai queste
cose? (…)5
Per l’appunto, come si può nascere
un seconda volta, come può questa
altra nascita essere ciò che ancora ci
attende come un destino, come può una
nascita appartenere al futuro, «come
può accadere tutto questo»? Una tale
ipotesi non è forse frutto della pura
fantasia, di una mera illusione? Ritorna
il «realismo» del brano della Sapienza
citato in apertura; ma così ritorna anche
e sempre l’altra grande possibilità, quella
di sperare in una promessa, quella di
vivere la vita stessa come una promessa.
Ora, come può l’uomo vivere da uomo,
secondo la sua dignità di uomo, senza
scegliere tra queste due idee «sorelle»:
l’illusione e la promessa? Come può egli
vivere nel presente, cioè nella sua «ora»
e nel suo «qui» di uomo, senza scegliere
5 Giovanni, 3, 1-10.
tra queste due ultime possibilità: «la
vita è illusione», «la vita è promessa»? La
chiamata a questa scelta non si rivolge
forse solo uomo, al cuore dell’uomo,
come se la natura stessa dell’uomo fosse
destinata a questo appello e da subito
abitata dall’urgenza di rispondere ad
esso?
Questo comando che oggi ti ordino
non è troppo alto per te, né troppo
lontano da te. Non è nel cielo, perché
tu dica: «Chi salirà per noi in cielo, per
prendercelo e farcelo udire sì che lo
possiamo eseguire?». Non è al di là del
mare, perché tu dica: «Chi attraverserà
per noi il mare per prendercelo e farcelo
udire sì che lo possiamo eseguire?».
Anzi, questa parola è molto vicina a te, è
nella tua bocca e nel tuo cuore, perché
tu la metta in pratica (…) io ti ho posto
davanti la vita e la morte, la benedizione
e la maledizione; scegli dunque la vita,
perché viva tu e la tua discendenza6.
C’è qualcuno che desidera la vita e
brama lunghi giorni per gustare il
bene?7.
6 Deuteronomio, 30, 11-19.
7 Salmi, 33, 13.
L’Infinito nell’uomo
Giovanni Chiaramonte
Fotografo e storico della fotografia
Prologo berlinese
Io sono fotografo: sono quindi un uomo
la cui identità è scrivere con la luce grazie
ad una macchina; un uomo il cui compito
è rappresentare il mondo, e il modo in
cui l’uomo abita il mondo, attraverso
un’immagine sindonicamente impressa
dall’energia primigenia della natura stessa
che la scienza, la tecnica, l’industria in
secoli di elaborazione e di evoluzione mi
consentono oggi di utilizzare in piena
libertà creativa.
Lo strumento della mia arte mi ha fatto
così diventare testimone e complice del
Moderno, perché la scrittura della luce
che è la fotografia è stata resa possibile
soltanto a partire dalla messa a punto
dell’obbiettivo e del metodo scientifico
fatti da Galileo. L’obbiettivo è infatti lo
strumento che, confermando attraverso
la visione l’ipotesi di Copernico e facendo
scoprire la posizione fisica della terra
e dell’uomo nello spazio e nel tempo
dell’universo, ha aperto alla modernità la
via della conoscenza e del dominio sulla
natura.
La mia visione dell’architettura scaturisce
dalle ragioni del Razionalismo milanese,
il quale ha insegnato a progettare e a
costruire secondo l’interpretazione italiana
del Moderno, in cui la forma come dato
della storia diviene momento costitutivo
dell’invenzione del nuovo.
Una interpretazione polemicamente
contestata nel corso del dibattito
critico, come fa ancora recentemente
Oriol Bohigas, il quale afferma di non
credere “in un’ideologia architettonica
mediterranea, e, ove questa possa essere
individuata, si tratta comunque di
un’ideologia reazionaria… Ogni qualvolta
si faccia un riferimento al Mediterraneo
si fa un riferimento antimoderno, perché
la modernità non è mediterranea, ma
centroeuropea: i mediterranei hanno
semplicemente imitato l’architettura
moderna elaborandone una propria
variante, essenzialmente climatologica,
adatta alla struttura geologica e ambientale
tipica di certe zone, ma nel momento
in cui la mediterraneità ha assunto
connotazioni ideologiche, queste sono state
assolutamente antimoderne, o, riferendomi
agli ultimi anni, postmoderne”1.
Io invece ho considerato la mia fotografia
come opera del Moderno, secondo la
declinazione iconica del Realismo, la quale,
per quanto mi riguarda, è l’esperienza e
la rappresentazione dell’infinito nel non
determinato e nel non determinabile che è
l’esistenza del mondo e dell’uomo nel suo
essere evento, avvenimento, storia.
Posso indicare col nome di realismo
infinito2 il percorso della mia fotografia,
perché l’atto in cui l’immagine viene alla
luce si genera in questa esperienza e con
questa modalità di visione. Il realismo
infinito è l’accoglienza dell’oggetto da parte
del soggetto, è la comprensione dell’Altro
da parte dell’io in una relazione che lascia
entrambi nella loro irriducibile differenza
e identità, ed è la trascrizione di ciò che è
dato nel mondo davanti agli occhi e dentro
gli occhi dell’uomo in immagine che lo
rappresenta.
Io credo che solo nella referenzialità
dell’immagine al Reale come dato, si riesca
ad evitare alla cultura del Moderno la
riduzione a Ismo, la caduta in quel pensiero
negativo, distruttore e iconoclasta, in
azione nel secolo breve in maniera così
tragica da far scrivere ad Alain Finkielkraut:
“il Moderno è colui a cui il passato pesa.
2 G. Chiaramonte, Dolce è la luce, p. 10, Edizioni della
Il Sopravvissuto è colui a cui il passato
manca”3. Nella mia esistenza il passato non
è mai stato giudicato e rifiutato come un
peso, ma è stato accolto con la gioia e con
la responsabilità dell’erede di un dono ed
il tempo che passa è stato vissuto come
una novità senza fine, perché il passato
non è mai venuto meno nell’atto creativo
del presente. La frase di Finkielkraut indica
forse il giusto significato alla provocatoria
affermazione di Aldo Rossi, da me sempre
condivisa, in cui l’architetto milanese rifiuta
di essere considerato un postmoderno per
il semplice fatto di non essere mai stato un
moderno.
Il riconoscimento attribuito alla mia
fotografia dal mondo dell’architettura viene
quindi nel segno dell’opera dell’uomo intesa
come dono della memoria e del ricordo,
compresa come vocazione singolare
dell’io e vissuta come libertà della persona
nella risposta alla chiamata di un altro
che indica un altrove sconosciuto da
raggiungere, un percorso imprevedibile e
inatteso da perseguire lungo il cammino
della conoscenza e della creazione. Un altro
che nella mia esistenza ha avuto il nome
dell’architetto Pierluigi Nicolin il quale,
nella primavera del 1983, mi chiese di
collaborare alla rivista «Lotus International»,
dopo aver visto allo Studio Marconi di
Milano Giardini e paesaggi, un’opera in
due sezioni: una in bianconero dedicata ai
giardini in Sicilia nelle perdute campagne
dell’infanzia, un’altra a colori tracciata nei
viaggi della giovinezza attraverso le figure
del paesaggio italiano. Certo una piccola
opera, maturata però in otto anni di lavoro
nella scelta di praticare la fotografia come
arte del contemporaneo e come immagine
di vita contemplativa, nella genealogia di
Alfred Stieglitz e Paul Strand sino a Minor
White, escludendo qualsiasi declinazione
Meridiana, Firenze 2003
3 A. Finkielkraut, Nous autres modernes, Parigi 2005
1 O. Bohigas, Milano Italia, in «Archphoto broadcast»,
maggio 2002
professionale o commerciale.
Dopo un primo servizio su Piazza della
Vittoria a Brescia di Marcello Piacentini, mi
ritrovai a Berlino, pieno di dubbi rispetto
all’incarico di dare immagine significativa
e ragione formale al nuovo aspetto che
stava assumendo la città tedesca, grazie ai
progetti dell’IBA, diretta da Josef Kleihues.
Vittorio Magnago Lampugnani e Marco
De Michelis mi aiutarono nel corso delle
riprese e, nell’onda di accese discussioni
sulla condizione umana tra Moderno e
Postmoderno, mi suggerirono di visitare
quanto rimaneva ancora in piedi di Karl F.
Schinkel. Così, dopo i cantieri di Aldo Rossi,
Rob Krier, Oswald M. Ungers sovrastati
dall’angelo di Tiergarten, attraverso le
rovine di Anhalter Bahnhof e il vuoto di
Potsdamer Platz solcato dall’avveniristica
metropolitana magnetica che terminava
con la stazione di Andreas Brandt, mi
sono inoltrato sino a Glienicke. Qui mi
sono inaspettatamente trovato dentro
la scena sublime del paesaggio italiano
innalzata con marmi e busti di imperatori
romani esiliati sulle acque dell’Havel dal
lontano Mediterraneo. Nel cuore del Nord
dove era sorta la parabola del Moderno,
in una rinnovata e paradossale unità di
tempo e luogo propria della drammaturgia
occidentale, tra le costruzioni del passato
e del presente che mettevano in posa
davanti all’obbiettivo figure di città
diverse e segnate da destini opposti,
eppure chiamate con l’identico nome di
Berlino, ho compreso che la mia visione
poteva restituire un’immagine attendibile
dell’edificazione in corso, soltanto a partire
dalle tracce delle demolizioni e delle
cancellazioni inferte al corpo e al suolo vivo
della città dagli ismi del Moderno, nelle
ideologie dei partiti politici, delle guerre tra
opposti imperialismi e, più semplicemente,
in quelle delle pianificazioni urbanistiche
dell’architettura.
Paesaggio
Importante nella maturazione della mia
coscienza civile sono state le immagini
e le riflessioni dell’architetto, poi regista,
Alberto Lattuada nel volumetto Occhio
Quadrato, pubblicato nel 1941 grazie a
Ernesto Treccani nelle Edizioni Corrente.
Nelle ventisei fotografie i luoghi del riposo
dell’uomo non rispecchiano splendore né
solennità alcuna e la breve sequenza di
immagini inizia con architetture fatiscenti,
immerse negli spazi che si aprono poco
oltre gli archi delle porte sopravvissute
alle demolizioni dell’antica cerchia dei
bastioni, e chiude con industrie in rovina
abbandonate tra le distese che si allargano
a perdita d’occhio al di là della figura
ancora compatta e lineare della città di
Milano. Con queste immagini di Lattuada
compaiono nella fotografia italiana gli
spazi desolati e le distese informi cui è
stato dato il nome di periferia; in essa,
per davvero e non solo metaforicamente,
l’occhio dell’uomo si perde nel disagio
del cuore, incapace di riconoscere
memorie del passato in cui dimorare, e si
smarrisce nell’inquietudine della coscienza,
impossibilitata a trovare aspetti del
presente in grado di generare identità e
appartenenza.
Occhio quadrato segna una svolta
importante per la cultura dell’Italia, essendo
a tutti gli effetti la prima opera della grande
stagione del Neorealismo. Nella lezione di
American Photographs di Walker Evans,
che proprio la rivista “Corrente” aveva
recensito nel 1939, Lattuada comprende
che nell’epoca moderna l’acme del dramma
dell’uomo, il problema dell’abitare il mondo,
si situa nello sguardo, ovvero all’interno
del tema dell’immagine. Dall’invenzione
di Galileo nella dilatazione dello sguardo
data dall’obbiettivo tra microscopio e
telescopio, l’uomo si è scoperto nella
solitudine della sua finitezza, al limite
dei due abissi insondabili del vicino e del
lontano, del piccolo e del grande, sospeso
con testimonia Blaise Pascal tra due infiniti;
ma se è l’infinito la forma propria della
realtà come può l’immagine, nella finitezza
insuperabile della sua rappresentazione
rivelare con verità la forma reale del
mondo? Di fronte a questa domanda,
che pone il problema fondamentale della
coscienza moderna, Lattuada segue le
ragioni del cuore di Pascal e, con Walker
Evans fa propria la consapevolezza
dell’infinito inteso come il senso che genera
e trascende ogni figura finita riaffermando
sia la centralità dell’uomo e del suo
sguardo, sia la necessità del realismo nella
visone fotografica che deve fissare con
fedeltà obbiettiva le apparenze del visibile.
Scrive Lattuada: “L’assenza dell’amore ha
generato agli uomini molte calamità che
si sarebbero potute evitare. Invece che
la pioggia d’oro dell’amore è scesa sugli
uomini la cappa nera dell’indifferenza.
Ed ecco che gli uomini hanno perduto
gli occhi dell’amore e non sanno più
distinguere alcuna cosa, brancolano in
una oscurità di morte (…) Quanto siano
grandi in questa faccenda le colpe degli
spiriti eletti, degli artisti, dei sacerdoti della
poesia, è difficile dire. Assenze, fughe,
ritorni, polemiche, confusioni di ogni specie
(…) Invece io credo che sia proprio questo
il necessario momento di tornare a esporsi
in posizioni indifese, di abbandonare,
sia pure per breve tempo, il lavoro della
spietata analisi e delle troppo pedantesche
ricerche di stile, di rompere il guscio che
fa da custodia ad un preteso determinato
modernismo e rinnovare il flusso d’amore
che muove gli uomini verso l’unità (…) Nel
fotografare ho cercato di tenere sempre
vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La
presenza dell’uomo è continua; e anche là
dove son rappresentati oggetti materiali
il punto di vista non è quello della pura
forma, ma è quello dell’assidua memoria
della nostra vita e dei segni che la fatica
di vivere lascia sugli oggetti che ci sono
compagni.”4
Altrettanto importante è la vicenda di
Giuseppe Pagano: il suo vedere nella
normalità della casa rurale italiana, e non
nella eccezionalità del monumento urbano,
un possibile fondamento del Moderno,
realizzando lui stesso le fotografie per la
mostra in Triennale e il suo conseguente
prendere atto che lui, architetto, si
sarebbe procurato “forse un giorno il pane
quotidiano come illustratore fotografico,
quando Interlandi, Pensabene, Ojetti e
Dalla Porta avranno partita vinta contro
l’architettura moderna e soffocheranno
le arti ufficiali italiane nel sudario delle
care memorie e delle false tradizioni”5.
Importante per me soprattutto la
testimonianza resa da Pagano nel giorno
della sua cattura da parte della banda
nazifascista Kock quando confessa: “Io
cerco i segni veri, i più sicuri:/ quel sorriso
dell’amico che torna,/ la mano tesa di chi
pesa il bene/ nello sguardo dell’uomo che
si affida,/ la forza vera che vince e perdona/
come il vento che scorda la sua forza./ Sia
questo amore il premio a tanto sangue”6.
Decisiva nella messa a fuoco della mia
visione è stata l’opera di Paul Strand, il
vero iniziatore del Moderno in fotografia:
nel suo rifiuto della Nuova Trinità creata
4 A. Lattuada, Occhio quadrato, p. XIII-XIV, Milano
1941
5 C. De Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo,
p. 156, Milano 1979
6 M. Gramigni (a cura di), Giuseppe Pagano Architetto.
Poesie, p. 19, Milano 2002
dall’idolatria e dall’ideologia del Novecento,
“la Macchina come Dio, l’Empirismo
Materialista come Figlio, la Scienza come
Spirito Santo”, egli comprende che “ il
fotografo ha unito le vie dei veri ricercatori
della conoscenza, la via intuitiva ed
estetica, la via concettuale e scientifica.
Nello stabilire il controllo intellettuale su
una macchina, il fotografo ha svelato il
muro distruttivo e fittizio di antagonismo
eretto tra queste due vie”7. Ed anche questo
americano di New York deve percorrere,
con l’amico Cesare Zavattini, le vie del
paesaggio italiano per realizzare a Luzzara il
suo volume più celebre, Un Paese8, ispirato
dalla trama poetica di Edgar Lee Masters
nell’ Antologia di Spoon River.
Il senso della mia opera è emerso
lentamente, nel comprendere il modo e
il nome in cui la labirintica complessità
del paesaggio italiano dona forma ad
ogni sguardo che lo guarda. I termini
paese e paesaggio derivano dalla radice
indoeuropea pak, che ha il duplice
significato di seppellire e piantare, e
la forma della penisola italiana è stata
plasmata, come noi oggi la vediamo,
secondo un’evoluzione antropologica
in cui il gesto dello scavare il perimetro
geometrico della tomba in cui si seppellisce
il cadavere precede di quasi mezzo milione
di anni il gesto del piantare il seme di
un vegetale. Al tumulo, forma artificiale
eretta nel visibile della natura originaria,
e all’albero, piantato con ordine nel caos
dell’esterno, corrispondono nella natura
invisibile del mondo interiore le immagini
della memoria e del ricordo come elementi
di quella dimensione in cui si costituisce
l’identità dell’uomo come persona.
Nello sguardo trascendente dell’uomo
7 P. Strand, Photography and the New God, in Broom,
1922
8 P. Strand, Un Paese, Torino 1955
attraverso l’inerte e ostile materia della
natura, la coscienza crea, proietta e plasma
nell’esterno un’immagine nuova e viva del
mondo. E, nella mia esperienza, l’immagine
è propriamente la coscienza che l’uomo
ha di non poter coincidere con la realtà
della natura data, neppure con quella
realtà che lui stesso è, nella consapevolezza
della propria vita come di una dimensione
irriducibile alla morte.
L’atto creativo del fotografare passa così
attraverso l’atto del ricordo. Mosso dalla
volontà cosciente e consapevole dell’io,
l’atto del ricordo è infatti una rievocazione
personale messa in opera nel dinamismo
della libertà: esso permette di affrontare
la realtà nella totalità dei suoi aspetti e,
quindi, nella totalità dei sentimenti, dei
pensieri, delle decisioni che essa suscita nel
cuore dell’uomo. L’atto del ricordo pone l’io
di fronte al dramma della libertà, alla scelta
tra il male e il bene, e dona la possibilità di
volgere all’edificazione della vita e non alla
desolazione e alla distruzione della morte,
il fluire delle azioni. Come testimonia il
giardino esoterico di Bomarzo9, il ricordo è
decisione d’amore e di misericordia, rischio
di fede e di speranza che riporta il cuore
dal dolore per un evento ormai trascorso,
morto e definitivamente chiuso in se
stesso, all’apertura di una nuova vita in una
diversa forma, espressione del presente.
Il movimento del cuore innescato dal
ricordo, attraverso il dato obbiettivo della
memoria, consente agli occhi di vedere
oltre il confine euclideo dell’apparenza e
di guardare, nell’uomo e nel mondo, alla
verità del destino mettendo finalmente a
fuoco un immagine compiuta e definitiva
della realtà: un’immagine visibilmente viva
e profonda come l’infinito e l’eternità che
si rispecchiano in essa. Un’immagine che
9 Accanto alla casa inclinata, in un cippo di pietra vi è la
seguente epigrafe: Sol per sfogar il core
scaturendo dal cuore più profondo della
libertà della persona, si illumina dall’interno
come il fondamento stesso dell’identità
dell’uomo. L’immagine allora genera,
comprende e accomuna in un unico piano
spazio temporale il suo creatore, il soggetto
rappresentato e colui che la guarderà nel
corso del tempo.
In una tomba etrusca del centro Italia, alla
porta reale che permette di scendere nella
dimora sotterranea dei morti corrisponde,
in asse ottico perfetto, la porta virtuale di
un affresco che fa risalire lo sguardo alla
superficie, verso la dimora dei vivi sotto il
cielo. In questo doppio movimento della
visione che, nel mistero dell’immagine,
unisce natura e cultura, io penso sia sorta
la concezione del mondo come dato reale
e la conseguente dimensione speculare
e mimetica della rappresentazione: in
quell’incessante approfondimento teorico
che, lungo i secoli e le diverse civiltà
succedutesi sulla penisola, ha portato
all’invenzione della prospettiva a Firenze e
all’invenzione dell’obbiettivo a Venezia.
In questa trama della storia vive e si compie
l’opera della mia fotografia.
Deserto
“Da quando un bimbo nacque in una
mangiatoia c’è da dubitare che sia
accaduto qualcosa di così grande con
così poco clamore”10. Con queste parole
tratte da Alfred Whithead, Hannah Arendt
“introduce Galileo e la scoperta del
telescopio sulla scena del mondo moderno”.
Per la filosofa tedesca, naturalizzata
americana, l’invenzione di Galileo genera
“l’alienazione della terra che accompagna
l’intero sviluppo delle scienze naturali
nell’età moderna e l’allontanamento
10 A. Whitehead, La scienza e il mondo moderno, Milano
1945
dalla prossimità terrestre promosso dalla
scoperta del globo come totalità”11.
La corretta distinzione metodologica che
Galileo aveva posto tra la sapienza della
Rivelazione biblica e neotestamentaria
e la conoscenza scientifica, espressa
nell’affermazione che “l’intenzione dello
Spirito Santo... (è) d’insegnarci come si
vadia al cielo e non come vadia il cielo”12, si
è infatti andata via via smarrendo lungo il
percorso della modernità; o meglio lungo
gli itinerari culturali ed esistenziali di artisti
e di movimenti che hanno via via ritenuto
di essere i soli interpreti della modernità
e dei suoi processi. In questi ambiti di
riferimento e di egemonia culturali si sono
abbandonate assai presto le ragioni del
simbolo e non si sono più comprese né la
realtà dell’immagine speculare-prospettica,
né la verità della sua dimensione poetica,
realtà e verità che sono state alla base delle
scoperte di Galileo13. La non visibilità e
degli angeli e dei demoni e di Dio sulle lenti
degli strumenti di osservazione umana è
stata così intesa, o meglio fraintesa, come
la non realtà delle apparizioni attestate
nelle tradizioni pagane, da quelle etrusche
a quelle greche e romane, e come la non
esistenza del Dio di Abramo e della sua
corte celeste, testimoniata nella tradizione
ebraica e cristiana, dal libro della Genesi
sino ai Vangeli della Resurrezione.
Le gesta delle figure divine nei poemi di
Omero e Virgilio, le azioni degli angeli delle
gerarchie celesti di Dionigi Areopagita e
Dante Alighieri14, come pure tutte le storie
dei santi costellate di miracoli e visioni, nei
modi e nei mondi osservati dall’obbiettivo
della modernità, diventano così leggende
11 H. Arendt, Vita activa, p. 195, Milano 2003
12 G. Galilei, Lettera a Madama Cristina , in Opere,
Firenze 1968
13 A. Parronchi, Studi sulla dolce prospettiva, Milano
1964
14 R. Guardini, Studi su Dante, Brescia 1986
senza alcuna credibilità e senza alcuna
forza di consolazione nel dramma delle
vicende umane.
In Clarel, che è sinora il primo e unico
poema tentato nella modernità, Herman
Melville esprime una disperata nostalgia
per “Quelle leggende che, va confessato,/
Li portavano più vicino al cielo/ Più vicino
lo univano alla loro speranza/ Verso quello
che santi e veggenti testimoniavano/ Più
vicino di quanto il telescopio di Galileo/
Possa avvicinarlo ora alla prosaica
Scienza”.15.
In un paradossale rovesciamento delle
parti, là dove la Chiesa Cattolica comprende
assai presto il proprio errore e riconosce di
fatto la giustezza della ragione di Galileo
e del suo metodo fondando la Specola
Vaticana e promuovendo in ogni modo
gli studi e le osservazioni astronomiche,
il laico e gnostico Melville al culmine del
Positivismo ottocentesco, si riconosce
invece nella ragione della condanna
pronunciata due secoli prima dalla Curia
Romana: “Scienza e Fede possono unirsi?/
O è giusto quell’istinto clericale/... il cui
strenuo volere/ Fece recitare al pallido
Galileo/ I Salmi Penitenziali vestito di/
Sacco; che oggi vorrebbe spegnere/ Quelle
potenti energie adesso create nei laboratori
d’Occidente?”16. Con amara consapevolezza,
io constato con Melville come l’immagine
del deserto silenzioso e infinito, messa
a fuoco dalla lente di Galileo, si sia
degradata a immagine di un nichilismo
deicida e iconoclasta, e osservo come
quest’immagine devastante si sia riversata
da lì sin dentro il cuore dell’uomo e come,
attraverso di esso, sia travalicata nelle sue
azioni, cominciando a far diventare vuota
come un deserto l’immagine della sua vita
interiore, rischiando di far cadere in rovina
15 H. Melville, Clarel, p. 115, Torino 1999
16 H. Melville, op. cit., pp. 285-286
l’immagine del suo mondo esteriore.
Credo sia questa la ragione del fascino
perverso che le rovine, a partire da
Piranesi e dal primo Romanticismo, hanno
esercitato su tanta cultura dell’Occidente:
dalle false rovine nell’Isola dei Pavoni a
Berlino o nel Giardino Inglese a Caserta,
sino alle vere rovine di intere città come
Palermo o Venezia.
“Gettando lo guardo/ sulla landa lunare
dell’angoscia”, molti sulla via di questa
modernità finiscono inevitabilmente per
esclamare con Melville: “L’uomo fiorì
dai deserti; nella ferita del dolore o della
prova soverchiante/ Ai deserti egli torna
per necessità;/ Sì, questi, come vuota casa
abbandonata/ Allora chiamano...”17.
I deserti di acqua e di sabbia che da allora
diventano scena ed, ancora più spesso,
tema necessario e decisivo nell’arte del
Novecento: negli scritti di Wystan Auden e
Antoine de Saint-Exupery, nelle fotografie
di Edward Weston ed Ansel Adams, come
nei film di Michelangelo Antonioni e
Wim Wenders sino al Lightning Fields di
Walter De Maria in New Mexico. Solo la
rappresentazione del deserto, nell’apertura
dell’immagine alla contemplazione
della realtà senza definizione e senza
determinazione che è l’infinito, può
ormai alzare lo sguardo dell’uomo al
compimento del suo destino e distogliere
il suo cuore dall’istinto che lo rinserra
e lo chiude nel falso e cieco orizzonte
dell’immobile finitezza. Basta immaginare
l’arco della traiettoria tracciata dalle opere
di questi autori per comprendere come il
dramma esistenziale dell’epoca moderna
sia stato in gran parte causato proprio
da quel dinamismo sempre operante
nella cultura e definito, da Melville, istinto
clericale, ovvero animale: istinto che
corrompe e perverte non solo il versante
17 H. Melville, op. cit., p. 191
religioso del pensiero e dell’agire dell’uomo
ma anche il suo versante laico, sia esso
ideologico, sia esso estetico, sia esso
filosofico o scientifico.
Animale
Spesso in questi anni ho interrotto le mie
lezioni, o le mie conferenze, chiedendo
all’improvviso ad uno degli ascoltatori
che avevo di fronte una definizione sulla
natura dell’uomo. Come risposta ho avuto
per lo più imbarazzati silenzi, mentre solo
qualcuno ha avuto il coraggio e l’onestà
intellettuale di dichiarare la definizione che
giaceva nascosta, non detta e non dicibile,
nell’intimo del pensiero: “L’uomo è un
Animale”; un animale non solo per genere
e specie, ma anche per natura e destino,
un animale superiore e complesso giunto
in cima alla scala evolutiva naturale, e
magari all’inizio di una nuova evoluzione
artificiale permessa dall’ingegneria
genetica nel cyborg, ma pur sempre un
animale ontologicamente uguale a tutti gli
altri animali apparsi e scomparsi sulla Terra
nel corso degli eoni e delle ere.
Senza la presenza di quel Vivente che è
Dio, e che è Dio perché Verbo e Parola
incarnati, l’uomo è solo. E l’uomo rimane
solo un animale che appare in un universo
deserto e che scompare in un silenzio
perenne dove non si può pronunciare
né ascoltare parola alcuna dotata di
senso: un universo la cui forma è puro
meccanismo, universo in cui ogni forma
è pura funzione che l’uomo può riuscire a
replicare, ma che, in quanto meccanismo e
funzione, rimane un simulacro alla ricerca
del proprio destino in quanto originale
perduto18, come il Pinocchio di Collodi
o i replicanti di Ridley Scott in Blade
18 P. Costantini - G. Chiaramonte, Luigi Ghirri. Niente di
antico sotto il sole, p. 47, Torino 1997
Runner. Un simulacro drammaticamente
consapevole della propria identità di
creatura e per questo motivo tutto teso
alla ricerca di un padre in grado di dare
senso e ragione all’esistenza, finalmente
capace di poter dischiudere la porta
della vita oltre ogni cancellazione e ogni
chiusura portate dalla morte.
L’arco di questa traiettoria culturale si
conclude quindi nella morte dell’arte
profetizzata da Hegel e compiutasi tra
Duchamp e Warhol nel “grado Xerox della
cultura” contemporanea registrato da Jean
Baudrillard, il grado in cui la proliferazione
assoluta delle immagini “corrisponde al
grado zero dell’arte”. “Questa è la strada
dell’arte moderna da tempo”, dice il
pensatore francese, “a differenza dell’arte
classica non esercita il dominio simbolico
della presenza e della trascendenza,
esercita solo il dominio simbolico della
sparizione”19.
A questo punto il discorso sarebbe finito,
ma così non può essere, perché c’è un’altra
traiettoria della modernità. O meglio, vi
è la stessa traiettoria ma che deve essere
semplicemente osservata da un punto
di vista opposto; cercando, trovando
e mettendo a fuoco, da questo nuovo
punto d’osservazione, un punto diverso
dall’infinito celeste scrutato sinora, un
punto nel finito terrestre che diventa
visibile anche in un semplice specchio:
l’uomo, che, nella tradizione dell’Occidente,
diventa visibile e reale solo attraverso la
propria immagine riflessa nello specchio20.
19 J. Baudrillard, La sparizione dell’Arte, p. 18, Milano
1988
20 J. Baltrusaitis, Lo specchio, Milano 1981, Paris 1979.
AA.VV., Lo Specchio e il Doppio. Dallo stagno di Narciso
allo specchio televisivo, Milano 1987
A. Nava (a cura di), Las Meninas, Milano 1997
Jane Boyd-Philip F. Ester, Visuality and Biblical Text.
Interpreting Velazquez “Christ with Martha and Mary” as
a Test Case, Firenze 2004
Un punto opposto a quello denunciato
dalla Harendt nella sua critica al Moderno:
“manipoliamo sempre la natura da un
punto dell’universo che si trova fuori della
terra. Senza risiedere realmente dove
Archimede desiderava risiedere... ancora
legati alla terra dalla condizione umana,
abbiamo trovato un modo di agire sulla
terra e dentro la natura terrestre come se
ne disponessimo dall’esterno, dal punto di
Archimede. E anche a rischio di mettere
a repentaglio i processi naturali della vita,
esponiamo la terra alle forze cosmiche
universali estranee alla sua natura”21.
Gettato nella vita della natura, l’animale,
in maniera conforme all’istinto, ne
accetta ogni forma e ogni figura e ogni
limite, anche quel limite apparentemente
invalicabile che è la morte: non così l’uomo.
Dalle industrie litiche di due milioni di
anni fa lungo il fiume Olduvai nel cuore
dell’Africa, sino all’industria informatica
dei giorni nostri nella Silicon Valley in
California, l’uomo può, e deve, essere
definito come l’essere vivente che per sua
natura modifica, transforma, transfigura,
trascende ogni forma, ogni figura, ogni
limite della natura, anche la forma, la figura
e il limite della morte: nella parola e nella
memoria, nell’atto della sepoltura e nel rito
religioso22 e, sopra tutto, nella creazione
dell’arte, l’unica invenzione che definisce
con certezza l’uomo come tale, ben oltre
e ben al di là dell’invenzione di qualsiasi
strumento, di qualsiasi tecnica, di qualsiasi
scienza, di qualsiasi filosofia. “Il male si fa
senza sforzo, naturalmente, per fatalità”,
afferma Charles Baudelaire, “ma il bene è
sempre il prodotto di un’arte”23 che supera
e vince ogni dinamismo dell’istinto animale.
21 H. Arendt, op. cit., p. 194
22 F. Facchini e P. Magnani (a cura di), Miti e Riti della
Preistoria, Milano 2000
23 C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna , in Opere, p.
1309, Milano 1996
“Insomma, perché ogni modernità acquisti
il diritto di diventare antichità, occorre che
ne sia tratta fuori la bellezza misteriosa che
vi immette, inconsapevole, la vita umana”24.
Con geniale consapevolezza, Stanley
Kubrick in 2001 Odissea nello spazio
mette in evidente connessione gli occhi
luminosi del ghepardo che sbrana i primi
ominidi, con gli occhi-oblò luminescenti
dell’antropomorfa navetta spaziale che
scende sulla luna, e con gli obbiettivi delle
telecamere attraverso cui Hal 9000, “il
calcolatore algoritmico euristicamente
programmato”25, scruta l’equipaggio
umano del Discovery fino a prendere
la decisione di ucciderlo per garantire il
felice esito della missione scientificamente
pianificata. Il comportamento della belva, il
movimento dell’astronave, la decisione del
computer sono rispettivamente governati
dall’istinto animale, dal meccanismo
tecnologico, dall’intelligenza artificiale, ed
essi sono quindi intrinsecamente diversi
ed ultimamente avversi alla vita dell’uomo,
contrari alla vera natura della sua identità
che è apertura imprevista e imprevedibile
all’infinito del possibile e della libertà.
Quell’infinito, quel possibile, quella libertà
che la vita dell’uomo rispecchia e rivela nel
mistero dell’arte, nell’enigma di un’opera
che riesce a superare ogni limite del tempo,
della distanza, della morte: nelle parole
di Omero e di Shakespeare che lette e
rilette hanno ancora qualcosa da dire di
nuovo sulla condizione contemporanea,
nelle pitture delle grotte di Lascaux o della
Cappella Sistina che viste e riviste hanno
sempre qualcosa di diverso da mostrarci tra
le dimensioni del presente, nelle musiche
di Vivaldi e dei Beatles che ascoltate e
riascoltate animano emozioni e sentimenti
24 C. Baudelaire, op. cit., p. 1286
25 A. Clarke, 2001: Odissea nello spazio, p. 101, Milano
1987
mai prima esperimentati.
Angelo
“Mi son ripromesso di sentire Fritz Lang
che dice la mort n’est pas une solution”26,
confessa in un breve scritto del 1977
Wim Wenders che, sin dall’inizio della
sua opera, ha coniugato la creazione
artistica con la ricerca esistenziale del
senso e del destino nella vita dell’uomo.
“Sono semplicemente cristiano”, dichiara il
regista tedesco, “è stata una lunga ricerca,
attraverso le scienze, attraverso le altre
fedi. E ho scoperto che l’unica posizione
che rispondeva alle mie domande, l’unica
soluzione decente alle mie inquietudini,
l’unica risposta agli interrogativi dei
miei film era la religione, era la fiducia
nell’esistenza di Dio... Ho ritrovato questo
sentimento religioso durante la lavorazione
di Così lontanto così vicino. Il cielo sopra
Berlino era una fiaba. Nel mio secondo film
sugli angeli, gli angeli non rappresentano
più una metafora, ma qualcosa per me
molto reale. Perché ci sono gli angeli, ci
sono gli esseri che ti impediscono di cadere,
tutti hanno sperimentato l’intervento di
un angelo. Io sono stato salvato dalla
morte...”27.Questa dichiarazione, fatta da
Wenders al quotidiano “La Repubblica”
il 10 luglio 1994, ci spinge così a
concentrare la nostra attenzione verso Il
cielo sopra Berlino. Proprio nel suo porsi
consapevolmente come fiaba, proprio
nel suo concepire la figura dell’angelo
come semplice metafora, questo film del
1987 rende visibile e inequivocabile che la
verità e la realtà scaturiscono nell’opera e
dall’opera, a prescindere dall’esperienza o
26 W. Wenders, Stanotte vorrei parlare con l’angelo, p.
106, Milano 1989, Frankfurt a.M. 1986
27 I. Bignardi, Wenders, i mille volti del cinema totale, in
La Repubblica, 10 luglio 1994
dal pensiero dell’artista stesso perché, con
Italo Calvino, ogni artista di ogni luogo e di
ogni tempo può solo affermare “... questo:
le fiabe sono vere”28.
Wenders realizza il suo film a Berlino, dopo
Paris, Texas e la prima lunga permanenza
americana, in un momento decisivo
dell’architettura europea che aveva nel
programma berlinese dell’IBA, diretto
da Josef Kleihues, il suo punto forte.
Un momento in cui a Berlino stavano
progettando e costruendo sia i riconosciuti
maestri, sia i più giovani protagonisti, da
James Sterling e Vittorio Gregotti a Léon e
Rob Krier, da Alvaro Siza a Mario Botta, in
un laboratorio assolutamente unico di idee,
ipotesi, realizzazioni.
Quasi al termine del mandato dell’IBA, e
due anni dopo l’uscita del film di Wenders,
Berlino diventa la scena dell’ultimo atto in
cui si chiude la tragedia del secolo breve e
delle sue guerre tra le nazioni d’occidente
e d’oriente per l’egemonia sul mondo:
come tra le rovine del Reichstag del
1945 si era dissolta nel sangue l’ideologia
nazifascista, così nella caduta del muro di
Berlino nel novembre del 1989 s’infrange
definitivamente, e senza vittime apparenti,
l’altra ideologia portante della modernità,
quella dell’utopia marxista-leninista. Nel
prologo del film la prima immagine che
s’illumina è quella di un foglio e sopra
il vuoto di questa superficie una mano
traccia un segno che si fa parola da
ascoltare e scrittura da leggere: sul bianco
assoluto della carta, sul totalmente altro
della luce, il gesto dell’uomo appare come
oscura linea d’ombra, come esile opacità
di cenere. Il prologo situa di fatto Il cielo
sopra Berlino dentro il millenario tema della
tradizione mistica occidentale secondo cui
soltanto la luce eterna e infinita del Verbo
28 Fiabe italiane raccolte e trascritte da Italo Calvino,
Torino 1956
che è Dio, e che risuona nella parola viva,
può illuminare di senso l’uomo e il corpo
mortale della sua esistenza e della sua
opera.
Dopo i titoli di testa che seguono al
prologo, tra le grigie nuvole delle immagini
in bianco e nero traspare per un istante
il sole che, in dissolvenza, si trasforma
in occhio singolare che guarda il mondo
dall’alto; e in un lento movimento di
discesa, dagli squarci tra le nubi, vediamo
quindi la città come il condensarsi e il farsi
materia della luce e della visione celeste.
Sulla cupola della Gedaechtniskirche in
Europaplatz, emblematica rovina della
storia tedesca e della vicenda umana,
l’angelo in figura d’uomo alato contempla
dall’alto di quel tragico punto il mondo e
viene scorto dal basso unicamente nello
sguardo tra spesse lenti d’occhiale di
una bimba che lo indica con gioia, tra la
cecità e l’indifferenza della gente che le
passa accanto. Nei successivi fotogrammi
di questa lenta e maestosa sequenza, le
immagini fanno librare ancora il nostro
sguardo nel cielo sconfinato, per farlo poi
dolcemente inclinare e quindi rapidamente
precipitare verso i palazzi e, attraverso le
finestre, dentro le stanze, e, attraverso i
muri e le porte verso i corpi delle persone,
fin dentro il cuore dei loro nascosti pensieri
e sentimenti.
Dall’esterno celeste che sovrasta la città,
grazie alle immagini di Wenders, noi
entriamo all’interno delle case, nel centro di
quella dimensione esistenziale e personale
che ogni abitazione di muratura davvero
è: scena di un dramma in cui ogni uomo
è protagonista, luogo di un destino in cui
ognuno di noi in ogni istante può perdersi
nella propria solitudine o ritrovarsi in
compagnia del bene di un altro. “Il tratto
fondamentale che caratterizza la casa...
deve essere identificato senza esitazioni
nell’apertura, o se si vuole nell’accoglienza,
o se si vuole ancora nell’ospitalità; in tal
senso, se da un certo punto di vista la
casa è sempre costituita da un edificio
che chiude e in cui ci si rinchiude, da un
altro punto di vista è anche ciò nella cui
chiusura viene sempre accolta e ospitata
un’apertura: la casa è una chiusura che
opera come accoglienza e ospitalità di
un’apertura”29.
L’angelo che attraversa Il cielo sopra
Berlino non è l’angelo terribile dell’infinito
e dell’indicibile che, nelle Elegie Duinesi30 di
Rainer Maria Rilke, trascende ogni figura e
che attraverso la dissoluzione della morte
riporta ogni vivente al grembo dell’eterno
che è non-luogo, ovvero dimenticanza e
silenzio, dimensione di nessuna memoria,
di nessuna parola, di nessuna immagine.
Nell’angelo, l’occhio di Wenders diventa
invece occhio che penetra la superficie
del mondo, entra in ogni corpo e materia
e rende visibile e dicibile ogni nascosto
pensiero e ogni non detta parola d’amore
di ognuno verso l’altro, custodendoli e
salvandoli.
L’angelo di Wenders è quindi l’angelo
della visione e dell’ascolto, figura
drammaticamente sospesa tra il bianconero
dello spirito e il colore della carne, figura
la cui identità è percezione pura che
trapassa ogni confine, ogni istinto, ogni
meccanismo, ogni legge, e che, per ciò,
redime il cuore di ogni uomo e dona senso
ad ogni cosa nel mondo. Percezione che
supera la soglia del già visto e del già detto
e che si muove per indicare, nella realtà
e nella verità del visibile e del dicibile, la
possibilità e la libertà verso il non ancora
visto, verso il non ancora detto, ovvero
29 S. Petrosino, Economia non è businesss. L’ordine
della casa e il senso filosofico della differenza, p. 25, in
Colloqui, n. 1-2/2003
30 R. Guardini, Rainer Maria Rilke, Brescia 1974
verso la vita. Nella Descrizione di un film
indescrivibile del 1986, Wenders rivendica
giustamente che il suo film non vuole
“affatto narrare una STORIA DI UNITà
bensì, la cosa più difficile: UNA storia della
DUALITA’...”31. Così, oltre ogni intenzione
iniziale e oltre ogni consapevolezza,
egli finisce per narrare la storia di Dio
e dell’uomo, la storia dell’io e dell’Altro,
arrivando ad accogliere il mistero della
Trinità. È a partire da questa storia, e dentro
questa storia, che l’uomo può abitare il
mondo, ritrovando in ogni luogo se stesso.
Immagine
Per Oswald Mathias Ungers, che in
quegli anni aveva edificato a Berlino
alcuni dei suoi progetti più significativi,
nella traiettoria della modernità che si è
posta fuori da questa storia, l’architettura
è diventata “soltanto una parte del
generale processo di produzione... le si è
negato persino il diritto di un suo proprio
linguaggio, di una possibilità di espressione
artistica. Il suo ruolo si è ridotto ad un
puro funzionalismo, al soddisfacimento
di bisogni basati sull’utilità, sull’aderenza
allo scopo e sull’economicità”32. Anche per
Ungers il principio della transformazione
e della transfigurazione è il principio
fondamentale dell’architettura e dell’abitare,
ma “ciò presuppone in primo luogo il
riconoscimento del fatto che le realtà
spirituali, materiali e naturali possono
assumere non un’unica condizione,
bensì si possono presentare in forme
differenziate... “, infatti, “ognuno di questi
concetti descrive una qualità specifica
della differenziazione ...”33 che si ottiene
31 W. Wenders, op. cit., p. 148
32 O.M. Ungers, Architettura come tema, in Quaderni di
Lotus, p. 9, Milano 1982
33 O.M. Ungers, op. cit., p. 13
“... grazie all’immaginazione creativa”34.
È l’immaginazione creativa dell’uomo a
discernere e a salvare le qualità specifiche
ed essenziali delle forme e delle figure che
fondano lo stupore e la meraviglia del
mondo. “Quando Schopenhauer scrive che
il mondo è rappresentazione”, continua
l’architetto tedesco, “egli intende dire
che non esiste alcun oggetto in sé, ma
soltanto un soggetto che vede e percepisce
l’oggetto. Il mondo è dunque un oggetto
soltanto in relazione al soggetto ed al
punto di vista di chi guarda o, per dirla
con Schopenhauer, è rappresentazione...
Senza una rappresentazione della realtà
essa si presenta come una massa insensata
e amorfa di fatti che esistono senza un
rapporto reciproco; essa appare priva di
ordine, incomprensibile e perciò caotica
... Se invece il processo di progettazione
prende le mosse da un’immagine
rappresentativa che si pone alla base come
principio di organizzazione del tutto, allora
è possibile sviluppare all’interno di questa
immagine tutta la ricchezza della fantasia”.
Così, conclude Ungers, “progettare per
immagini rappresentative rende possibile
il passaggio dal pensiero pragmatico al
pensiero creativo, dallo spazio metrico dei
numeri allo spazio visionario dei sistemi
coerenti”35. L’organo che rende possibile la
costruzione non è la mano, l’organo che
rende possibile la rappresentazione non è il
cervello, come l’organo che rende possibile
la visione non è l’occhio, ma il cuore dove,
attraverso la mano, attraverso il cervello,
attraverso l’occhio, l’io dell’uomo incontra
il tu dell’altro e di Dio. Qui nel cuore, dove
il pensiero diviene sentimento, volontà,
azione, qui l’angelo veglia e illumina come
atrio della presenza che ha creato il mondo
e l’uomo, come prima stanza di ogni casa e
34 O.M. Ungers, op. cit., p. 15
35 O.M. Ungers, op. cit., p. 107
come prima casa di ogni città. Qui soltanto
l’uomo può ritrovare se stesso, perché
soltanto qui egli può dire, come Dylan
Thomas: “Io sono ritrovato”36.
Nella nitida e luminosa messa a fuoco
dell’obbiettivo, nella cristallina precisione
di una profondità di campo che si
estende dal primo piano sino all’infinito,
si deve salvaguardare nell’immagine
la verosimiglianza della scena solo per
dare al mondo una nuova possibilità,
solo per dare un nuovo ancora a quel
mondo che è l’uomo e a quell’uomo che
sono io e a quell’io che, insieme e nello
stesso momento, è un noi. Attraverso lo
sguardo, attraverso la visione, soltanto
l’immagine può salvare l’uomo riflettendo
la totalità e l’infinito della vita eterna di cui
è somiglianza; come soltanto l’immagine
può perdere l’uomo, riflettendo la maschera
mortale del suo voler essere solo se stesso.
Nella marea di immagini che inondano e
appiattiscono il mondo nell’epoca della
globalizzazione, bisogna allora distinguere
con coraggio la verità dell’immagine
dalla falsità del simulacro. Affermare
che l’uomo è immagine “non vuole dire
automaticamente assolvere qualsiasi tipo
di rappresentazione”, scrive Jean-Jacques
Wunenburger, “vuol dire solo scommettere
sulla promessa che l’immagine, meglio
forse della sensazione e del concetto, sia,
sotto certi aspetti e in certe occasioni, la
promessa di un pensiero profondo. Può così
accadere che quanto vi sia di più esteriore
possa familiarizzarci con quanto vi sia di
più intimo. L’immagine, in questo senso,
costituisce lo specchio privilegiato della vita
dello spirito”37.
36 D. Thomas, Poesie, p. 143, Torino 1970
37 J.J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, pp. 402403, Torino 1999
Il Colombre
Daniela Cristofori
Gabriella Gilli
Università Cattolica, Milano
17 gennaio 2009 - Giornata di
formazione
Ai partecipanti al Premio San Fedele 2009,
sia Giovani Artisti che Giovani Registi, è
stata offerta la possibilità di partecipare
a una giornata di formazione, sabato 17
gennaio 2009, sul tema dell’anno in corso,
ovvero “Il destino dell’uomo”.
L’obiettivo della Giornata di Formazione
è stato quello di offrire ai partecipanti
del Premio San Fedele un’occasione di
coinvolgimento attivo in dinamiche
di gruppo, al fine di riflettere
congiuntamente sul tema proposto.
Un’iniziativa di questo genere è stata
una novità nelle proposte formative
e informative che tradizionalmente
accompagnano il percorso del Premio San
Fedele, con la conduzione della giornata
da parte di Daniela Cristofori e di Padre
Andrea Dall’Asta, sotto la supervisione di
Gabriella Gilli.
Il metodo della proposta è stato un
metodo dialogico, co-costruttivo,
che utilizza tecniche attive, tese al
coinvolgimento diretto dei partecipanti e
alla loro sollecitazione nella costruzione
di una conoscenza considerata come
frutto di una partecipazione di tutti
(lontana, quindi, dalla concezione di
una conoscenza di cui solo alcuni sono i
detentori).
Caratteristica metodologica cruciale è
l’utilizzo del gruppo inteso sia come
veicolo della riflessione e dell’esperienza
sia come destinatario di dinamiche tese a
rinsaldare i legami tra i partecipanti.
Le fasi della proposta sono state le
seguenti:
- alle ore 14.30: Apertura e saluto ai
partecipanti. Introduzione al lavoro in
gruppo e sul gruppo e spiegazione degli
obiettivi della proposta.
- In dettaglio, è stato comunicato che
la proposta intende offrire uno spazio
esperienziale accanto alle altre iniziative
offerte dal Centro San Fedele nel corso
dell’iter del Premio Giovani Artisti.
- Illustrazione degli obiettivi generali
della proposta. La proposta ha inteso
favorire la riflessione sul tema del destino
dell’uomo, a partire da un’esperienza e,
in particolare, un’esperienza di gruppo
(il gruppo dei partecipanti al Premio).
Infatti, il fatto di essere partecipanti a
un premio d’arte non necessariamente
implica l’attenzione alla dimensione
“gruppale”; invece, la proposta formativa
vuole porre l’attenzione proprio al gruppo
come dimensione ineludibile e foriera
di creatività, come contesto entro cui
si snodano le esperienze e il percorso
del Premio Giovani Artisti. D’altra parte,
quasi tutte le esperienze di ciascuno di
noi avvengono all’interno di un gruppo, o
in relazione - concreta o pensata - a un
gruppo. Mettere a fuoco la potenza del
contesto gruppale può anche far riflettere
sui modi e le condizioni in cui il gruppo
può influenzare la creatività artistica,
favorendola o inibendola.
- breve premessa teorica. Molto in
sintesi sono stati enunciati alcuni concetti
fondamentali dello studio psicosociale
sui gruppi. È stato ricordata la nozione
di Kurt Lewin di gruppo come totalità
dinamica, che sottolinea il legame di
interdipendenza dei partecipanti al
gruppo; il concetto di confini del gruppo,
che ne preserva l’identità; la nozione
di famiglia come gruppo specifico e
sui generis, e quella delle funzioni dei
vari gruppi: scolastici, sportivi, ecc.
che costellano lo sviluppo e la vita di
ciascuno di noi. Il gruppo è, che ne
siamo consapevoli o no, un luogo di
relazioni profonde. È più della somma
delle sue parti; richiede impegno, fatica,
a volte dolore e sofferenza. Eppure non
ci possiamo sottrarre, forse è nel destino
dell’uomo il fatto di essere inserito nel
sociale, di appartenere, volente o nolente,
a uno, o più, gruppi. Il gruppo risponde
in maniera potente alle aspettative
umane. Gli esseri umani ricercano nel
gruppo una base sicura, un’appartenenza,
una risposta ai propri bisogni di base e
di socializzazione. È l’intermediario tra
l’individuo e la società. È un luogo dove
si confrontano le diversità, un laboratorio
dove ci si può esercitare nel confronto
con gli altri. È una risorsa preziosa. È un
luogo di cambiamento.
- Noi, quindi, nasciamo in un contesto,
un contesto fatto di relazioni, spesso
organizzate in modo da creare gruppi.
Queste relazioni sono alla base
del processo creativo e portano al
cambiamento e il gruppo è un luogo di
cambiamento.
- In gruppo si scambiano e si cambiano
idee.
- Inoltre si crea sempre sotto lo sguardo
di un altro, sguardo da intendersi
sia concretamente (quando si lavora
effettivamente insieme, in gruppo),
sia metaforicamente; in effetti, la
creazione artistica è, in qualche modo,
anche inconsapevolmente, “dedicata” a
qualcuno, a un altro-da-sé (o una parte di
sé) a cui si chiede di fungere da pubblico,
da destinatario della creazione. Questa
premessa costituisce la spiegazione del
motivo per cui è stata proposta l’attività
formativa.
Presentazioni metaforiche dei
partecipanti.
Ai partecipanti è stato chiesto di
presentarsi agli altri membri del gruppo,
con modalità creative, scegliendo:
1 animale e 1 colore che
rappresentassero al meglio ciascuna
persona. Lo scopo di questa modalità di
presentazione è stato quello di sollecitare
le persone a utilizzare il pensiero
associativo e proiettivo.
Illustrazione della esercitazione “Il
Colombre” e consegne.
È stata presentata l’esercitazione scelta
per l’attività formativa. Si tratta di un
testo narrativo, un breve racconto di Dino
Buzzati intitolato “Il Colombre”.
Tale testo è stato scelto perché attinente
al tema che ha ispirato l’edizione 2009
del Premio Giovani Artisti, vale a dire “Il
destino dell’uomo”. I conduttori hanno
suddiviso il gruppo in tre sottogruppi.
Quindi hanno letto il testo (in circa 12
minuti), omettendo il finale. Hanno poi
esplicitato la consegna, che prevedeva,
per ogni sottogruppo, l’individuazione
di un possibile finale della storia.
In seguito, ogni sottogruppo avrebbe
presentato agli altri sottogruppi il finale
che aveva elaborato. La modalità di tale
presentazione non sarebbe stata verbale,
bensì costituita da un mezzo espressivo
non verbale - una foto/scultura animata
- rappresentativo del finale della storia.
I conduttori hanno sottolineato
che le attività dei partecipanti non
avrebbero previsto in alcun modo
giudizi, valutazioni, attribuzioni di valore
comparato, né da parte dei conduttori
stessi né da parte di nessun altro.
Inoltre, i conduttori sono rimasti a
disposizione dei sottogruppi, nella fase
di elaborazione del finale del racconto,
offrendo, nel caso, suggerimenti e consigli
per la realizzazione scenica della foto/
scultura.
Al termine della elaborazione del finale
da parte di tutti i sottogruppi, e dopo
una breve pausa, ciascun sottogruppo ha
messo in scena il finale prescelto.
I conduttori hanno aiutato il “regista” del
gruppo a comporre o ultimare la foto.
Gli altri hanno osservato e, ad opera
ultimata, sono intervenuti con commenti
e osservazioni.
Le varie “sculture” sottolineavano un
aspetto comune all’interpretazione del
finale del racconto: l’impossibilità di
sottrarsi al proprio destino in termini di
“incontro”. In questo senso, il destino è
apparso come un “incontro” che nessuno
può evitare. E questo incontro dice la
verità della nostra vita.
Alle 17.30 l’esperienza è terminata.
Una breve valutazione è stata poi
compiuta dagli animatori e da
alcuni giovani, considerando come
effettivamente l’utilizzo di esercitazioni
attive e di gruppo come quella del
Colombre:
- facilita l’utilizzo di modalità espressive di
comunicazione,
- rappresenta una occasione di “gioco” e
di novità sia individuale sia relazionale,
- sollecita una dinamica di gruppo più
libera, ludica e inconsueta,
- costituisce, grazie al testo prescelto, una
modalità esperienziale per riflettere sul
tema del destino dell’uomo, contribuendo
pertanto al percorso formativo proposto
dalla Galleria San Fedele in relazione al
Premio Giovani Artisti e Filmmakers.
Donne e impegno politico
LETIZIA BATTAGLIA
Dal 1972 al 1974 ho vissuto a Milano.
Ho cominciato a fare fotografia per
accompagnare i miei articoli e poterli
così vendere meglio. Appena riuscì a fare
qualcosa qui a Milano mi chiamarono
da Palermo e mi offrirono una cosa
meravigliosa. Cioè di organizzare e
dirigere il servizio fotografico del
quotidiano “L’Ora”, un mestiere che in
genere non veniva affidato a una donna,
specialmente in una terra del sud. Quindi
sono ritornata in Sicilia, a Palermo. Non
avevo una coscienza antimafia, ero solo
una persona onesta. Volevo soltanto
lavorare, guadagnare il pane, potermi
rendere autonoma. Avevo anche tre figli
da mantenere. Sono ritornata a Palermo
credendo che avrei fatto un brillante
lavoro come cronista, fotografa…
Fotoreporter a tempo pieno all’interno di
un quotidiano non ce n’erano -forse non
ce ne sono neanche ora- perché è un
lavoro molto duro, stancante che quasi
non ti permette di vivere. Comunque
ho iniziato questo lavoro per mestiere.
Ricordo il primo servizio che feci: mi
mandarono a fotografare una famiglia
povera senza marito con dei bambini. Poi
andai alla partita di calcio, all’elezione
della miss… Poi ci fu il primo omicidio
e io tremando, con un senso di nausea,
di vomito, di dolore e di incredulità,
cominciai a fotografare il mio primo
morto di mafia.
Le fotografie che scattai erano quasi
tutte mosse, orribili. Però ce n’era una
buona, al giornale andava bene e così
la pubblicarono. Senza che io potessi
saperlo era cominciata una vera e propria
guerra tra mafiosi e contro lo stato. Per
cui giorno dopo giorno aumentavano
le tragedie di povertà, di corruzione,
e i morti ammazzati. Qualche volta
arrestavano qualcuno e lo processavano
ma in genere poi veniva liberato. Non
c’era molta volontà di fermare il sistema
mafioso come non ce n’è neanche ora.
Ed è successo che, siccome avevo la
camera oscura vicino alla cucina, trovavo
tutto questo dolore nella mia casa: nel
mio mangiare, nel mio dormire, nel mio
vedere la televisione… Il mio privato era
pieno di immagini che anche ora guardo
continuando a stare male. Non riesco
ad accompagnare qualcuno a guardare
queste fotografie perché non potete
immaginare cosa significa incontrare
una persona che non si muove più,
che è ferma. Non perché sia diventata
vecchia ma perché una mano violenta
ha deciso che la sua giovane vita o che
la sua vecchia vita doveva finire così. E
allora queste fotografie riempirono la
mia casa. Non si può vivere felicemente
se sai che stanno avvenendo queste cose
nella tua città. E tra i morti, tantissimi,
cominciarono ad ammazzare anche
gente che stimavo. Poliziotti bravi come
Boris Giuliano che voglio ricordare.
Era il capo della squadra mobile. Era
meraviglioso, era veramente per la città,
non faceva politica nel suo lottare contro
la mafia. E lo ammazzarono. Prendeva
il caffé ogni mattina in un bar e lo
uccisero. Quando lo vidi a terra come
una piccola cosa, una pezza vicino alla
cassa, fui contenta che non me lo fecero
fotografare. Tanti giornalisti, giudici e
poliziotti furono ammazzati. Ma anche
donne, bambini, tutti ammazzati perché
avevano visto. Ho una foto che non ho
ancora voluto mostrare ed è quella di
un bambino ammazzato vicino a una
pompa di benzina, ucciso perché aveva
visto qualcosa. In quel periodo capii che
queste fotografie non potevano essere
pubblicate solo sui giornali. Altri fotografi
come me Incominciavano a prendere
coscienza. Non pensavamo in realtà
che veramente sarebbe scoppiata una
guerra civile perché c’era troppo dolore,
troppa miseria e donne che piangevano
–indimenticabile il dolore delle madri o
dei figli. Volevamo scioccare la gente.
Il mio gruppo di lavoro accettò la mia
proposta, altri fotografi no. E così
esponemmo queste foto in piazza, nel
pieno centro di Palermo. E la gente
corse, si radunò per vedere le facce degli
assassini -anche quando sapevano chi
erano gli assassini-, le facce del dolore
e della morte. Così è cominciata questa
storia. Abbiamo pensato ingenuamente
che con le fotografie potevamo
raccontare che c’era una parte del
popolo siciliano che non voleva la mafia,
una parte della Sicilia che lotta contro la
mafia e che magari non lo sa fare perché
tutti i governi che si sono succeduti non
hanno voluto debellare la mafia. Perché
la mafia è servita anche a mantenere
intatto il potere politico.
PAULA LUTTRINGER
Sono nata in Argentina nel 1955, a
La Plata, e sono stata vittima della
dittatura militare. Nel 1977, dopo cinque
mesi di detenzione clandestina, sono
emigrata in Brasile e poi in Francia. Ho
cominciato a dedicarmi interamente
alla fotografia nel 1992 quando sono
ritornata nel mio Paese. Dal 2000 sono
legata al progetto El lamento de los
muros. Sono fotografie di dettagli delle
prigioni clandestine accompagnate
da testi e cioè dai ricordi delle donne
che hanno vissuto l’esperienza della
prigionia durante le persecuzioni militari
del regime. Attraverso le immagini e la
scrittura ho voluto ricostruire la storia di
donne che hanno vissuto la mia stessa
esperienza: ritrovare la mia esperienza
attraverso il racconto di queste donne e
poi, attraverso le immagini, comunicare
queste emozioni agli altri. Durante il
mio lavoro ho dovuto ricercare i centri
di detenzione clandestini. E spesso sono
state le donne che di volta in volta mi
hanno dato il nominativo di altre donne
e di altri prigioni. Si è creata una sorta
di catena per ricostruire una storia
cancellata. Il mio progetto quindi non
è mai concluso ma continua ad andare
avanti perché si realizza in una ricerca
continua. Il mio intento non è tanto
quello di raccontare la Storia ma di
comunicare i piccoli dettagli, le emozioni,
le sensazioni, gli odori legati a questo
vissuto terribile.
Nei confronti della dittatura militare
in Argentina, in questi anni i governi
hanno emanato una serie di amnistie e
indulti. Non sono io che devo perdonare,
ma quelli che hanno commesso le
torture, gli omicidi. La società argentina
non cerca vendetta ma rimangono
una serie di problemi grandi e irrisolti.
Per esempio quello dei bambini figli di
persone desaparecidas, adottati poi dai
militari. C’è un processo, ancora in atto,
per far sì che questi bambini possano
ritrovare le loro vere famiglie. Bisogna
che questo processo non si arresti. Dopo
trent’anni bisogna che una serie di
processi riguardanti quel periodo storico
vadano avanti e che le persone coinvolte,
i torturatori, i militari, chiedano perdono,
cosa che non è ancora stato fatto.
Personalmente mi sembra importante
creare un dialogo. Non tanto esigere
il perdono, ma creare un dialogo,
affinché si possa partecipare al dolore
dell’altro. Per questo è necessario saper
ascoltare. Spesso accade che quando
qualcuno ha vissuto una situazione di
dolore, gli altri lo vogliano rimuovere.
Per questo c’è bisogno di attenzione,
di compartecipazione al dolore degli
altri e, naturalmente, chi ha provato
esperienze di questo tipo le deve
poter comunicare. Anche se è difficile
vedere le cicatrici, queste continuano
a sopravvivere nella vita delle persone.
Persone che continuano ad aver bisogno
di essere guarite. Ricordare è importante
per qualsiasi democrazia, non solo in
Argentina.
NELLA MAGEN CASSOUTO
17 settembre 1971 era la vigilia del
capodanno ebraico ed ero a casa con i
miei due bambini, di due anni e di un
mese. Qualcuno ha bussato alla porta.
Quando ho aperto trovato davanti a
me un ufficiale dell’esercito che non
conoscevo. Non mi ricordo esattamente
come ha messo in parole il suo pensiero,
ma ho capito che mio marito era morto.
Nell’ebraismo abbiamo una cosa che si
chiama shivà: è un modo di salutare
il defunto. Si sta insieme per sette
giorni, si guardano vecchie foto e si
parla molto. Quindi nei giorni seguenti
a quella notizia è venuta mia madre, la
famiglia di mio marito… Nella settimana
successiva però mi sono ritrovata da
sola. Ed è stato in quel momento che
ho avuto piena conoscenza della mia
nuova vita da vivere. Avevo 23 anni. Mi
chiedevo continuamente “cosa faccio
della mia vita?”. Negli anni successivi la
cosa sulla quale mi ero completamente
concentrata era crescere i miei figli nel
miglior modo possibile. Più tardi mi
sono risposata. Ho messo al mondo un
altro figlio e mi sono separata. Quando
i bambini sono cresciuti sono uscita da
questo trauma. Mi sono trovata di fronte
a due possibilità: la vendetta o un’altra
strada. La tendenza di voler vendicare
è un po’ ciclica. In Israele si ripete
continuamente. Sempre si troverà una
ragione per giustificare una vendetta. Per
questo ho deciso di andare in tutt’altra
direzione. Sono entrata a far parte del
gruppo Parent Circle che ha come scopo
il dialogo, il perdono, la misericordia. Si
partecipa alle sofferenze dell’altro con
approfondimenti sulla storia e la cultura
di ognuno dei partecipanti, imparando a
conoscersi meglio. Ad esempio uno degli
esercizi che si fa è quello di mettersi uno
di fronte all’altro, un palestinese di fronte
a un ebreo. Uno racconta la sua storia. E
poi si scambiano i ruoli. E colui che fino
a quel momento ha ascoltato racconta
di nuovo la storia, per comprendere
quanto realmente ha capito, quanto ha
davvero ascoltato. Penso che solo se
ognuno di noi è disposto a rinunciare di
vedere l’altro in maniera prevenuta può
esserci un cambiamento. Solo attraverso
la conoscenza della storia e della cultura
dell’altro avremo la possibilità di vivere
uno al fianco dell’altro, in serenità.
La messa
dell’uomo disarmato
Don Luisito Bianchi
Avevo dieci anni quando un prete
di ottanta mi domandò: “Vieni in
seminario?”. Gli risposi che mio padre
non sarebbe stato d’accordo. Così
lui disse: “Proverò io a parlargli”. E
andammo da mio padre nel colorificio
dove lavorava. Lui era all’avanguardia
nel desiderio di volermi far crescere in
totale libertà di scelta, disse soltanto:
“O quest’anno o mai più”. Mio padre
sapeva che avrei dovuto sostenere
degli esami di ammissione importanti e
io avevo soltanto la quarta elementare.
Era il mese di agosto quando il
seminarista anziano aveva parlato
con mio padre e nell’ottobre di quello
stesso anno ero già in seminario. Ero
il più giovane. Sono stati gli anni più
difficili. Ci fu la guerra, mi ammalai,
ma ebbi la grazia e la fortuna di
passare gli anni della giovinezza,
gli anni più turbolenti, a casa mia,
nella scelta di quella che poteva
essere la mia strada. M’imbattei nel
grande avvenimento, quello che ha
determinato il corso della mia vita:
la Resistenza. Gente che rischiava la
propria vita. Sangue gratuitamente
versato che sarebbe dovuto servire
a creare le premesse di un mondo
migliore. Questo avvenimento è stato
determinante nella mia scelta, perché
decisi di farmi prete per la sofferenza
degli umili e il gemito dei poveri. Era
un pensiero poco ortodosso perché
c’era la salvezza delle anime anche
allora. Però non ci badai. In seminario
avevo tutte le premesse di diventare
un prete borghese. Però, dopo alcuni
anni trascorsi all’Università Cattolica
di Milano, chiesi al vescovo di essere
mandato in veste di prete diocesano
in quei territori dove Cristo non era
conosciuto. A Viboldone, dove c’era
un distaccamento delle monache,
avevano bisogno di un prete. Lì
incontrai una priora gentilissima,
di sangue bolognese, Margherita
Marchi. Diventammo depositari dei
nostri pensieri più profondi e grandi
quanto era il suo cuore. Terminai gli
studi nel 1956 e ritornai in diocesi
rimettendomi a disposizione del
vescovo. Lui mi mandò a Pizzighettone,
zona industriale. Il mio mandato era
comprendeva il compito di occuparmi
della fabbrica di Biella e dei giovani
che vi lavoravano. Nel 1964 mi arrivò
una lettera del vescovo dal Concilio
e dovetti andare a Roma, dove feci
tre anni nell’ufficio formazione delle
Acli. Terminati i tre anni ho riflettuto
sulla mia futura destinazione. Erano
dieci anni che parlavo di lavoro, però
senza sapere che cosa fosse in realtà.
Chiesi al vescovo se, per onestà, mi
fosse consentito di andare in fabbrica.
Lui ci pensò e dopo una settimana,
mi rispose: “Trovati un vescovo”.
Così andai a finire ad Alessandria. Mi
presentai anche a un altro sacerdote
che voleva condividere con me il
lavoro. Trovai Spinetta Marengo a
Montecatini. E il 5 febbraio incontrai
il direttore di fabbrica. Fu il momento
decisivo.
In fabbrica mi resi conto cosa
poteva significare questo mondo
nuovo. Entrando in fabbrica vidi
quest’umanità e potei condividerla.
Cominciai a scrivere un diario. Era un
testo che non doveva essere letto da
altri. Era pieno di slanci verso l’alto e
verso il basso. Conteneva il desiderio
di trasmettere la dignità dell’uomo
donata nell’affetto e nella fede di un
Dio che si era fatto uomo: la dignità
dell’uomo era il recipiente della dignità
del figlio di Dio che si era fatto uomo.
Il grande ostacolo di quei giorni era
trasmettere questo messaggio ai miei
amici. Perché la Chiesa si presentava
come una potenza, come un potere.
La fabbrica era fatta da persone
senza potere. E in certi momenti
era importante che il potere facesse
harakiri se voleva diventare rispettoso
della dignità dell’uomo. Questa
mancanza di evangelizzazione della
mia Chiesa era infatti di impedimento
all’evangelizzazione del mondo. Di
questo parlo nel mio diario. Giurai a
me stesso che da quel giorno avrei
studiato a partire dalla gratuità del
Ministero. E da lì che nacque l’esigenza
della gratuità come fatto ecclesiale,
non come fatto personale. Era questo
che a me importava.
La messa dell’uomo disarmato è un
libro sulla resistenza che prende
il via l’8 settembre 1943. Mi sono
frantumato in tanti personaggi
all’interno di questo romanzo, e mi
ritrovo ad esempio nel novizio Franco
che, all’inizio del libro, si chiede se
deve rimanere ancora in seminario o
invece è chiamato all’esterno. Un altro
personaggio importante è Rondine,
il povero di Jahvé che impersona,
appunto, il gemito dei poveri. La Messa
dell’uomo disarmato è una rivisitazione
della mia vita attraverso il filtro della
memoria. Tutti i personaggi contenuti
nel romanzo erano il contatto con
la realtà quotidiana del mio paese.
Non sono uno scrittore e, mentre
scrivevo, appena un personaggio
entrava nella mia storia io dovevo
seguire il suo percorso. Così ho seguito
anche Rondine, fino al suo funerale.
Ho ripreso il funerale reale di un
giovane partigiano e l’ho dedicato
a Rondine perché il personaggio
di Rondine voleva così. Al giro di
boa de cinquant’anni ho rivissuto
la mia vita attraverso il filtro della
memoria, fino a quel momento. Ho
riflettuto su tutte le esperienze che
avevo vissuto per cogliere la parola
insita nell’avvenimento, convinto che
quest’ultimo contenga la parola che
non solo la sacra scrittura esprime.
Perché è un’immersione della storia
come fu per Cristo che comincia la sua
attraverso la discendenza di luce e di
tenebra finché raggiunge l’utero della
purissima per pura grazia: la gratuità
della ragazzina di Nazaret. Il dono che
dopo tanti anni di messa ricevetti fu
quest’insegnamento: “Fate questo in
memoria di me”. La mia esperienza è
stata quella di vivere senza rinunciare
a essere uomo, godendo anche delle
notizie dell’inizio di giornata, le quali
farebbero passare la voglia di essere
uomo. Però il mondo nuovo è già qui,
nel sangue che si rinnova. Finché ci
sarà qualcuno che lo pensa, ecco, il
mondo nuovo è già presente. Perché è
dichiarato possibile.
Le sante dello scandalo
Figure bibliche femminili
Erri De Luca
Scrittore e saggista
Itinerari verso la luce
Quando ero operaio, per molti anni ho
sfogliato le scritture sacre in antico
ebraico un’ora prima di uscire per il
lavoro: mi pareva così di afferrare
qualcosa di nuovo ogni giorno prima
di farmelo portare via dalla stanchezza.
Credo di essere stato tra i pochi operai
felici di svegliarsi presto. Quell’ora prima
di uscire di casa era la mia caparra.
Anche adesso che non faccio più quel
mestiere ho custodito l’usanza. Ogni
mattina accolgo le parole sacre. Capirle
per me non è afferrarle ma essere
raggiunto da loro, essere quieto e farmi
agitare da loro. Perciò desidero restituire
una parte minima del dono di poterle
frequentare.
Ho imparato l’ebraico antico perché
l’Antico Testamento è stato scritto in
quella lingua. L’originale che leggo io è lo
stesso usato dalla Conferenza Episcopale
Italiana. In ebraico c’è una differenza
marcata tra maschile e femminile. Nella
nostra lingua li si riconosce, maschile
e femminile, dal terminale delle parole,
dei sostantivi, degli aggettivi e anche dei
pronomi. In ebraico c’è una marcatura
maggiore di questa. Ce n’è una anche
nel verbo: esistono forme verbali per
il maschile e altre per il femminile. Da
questo sappiamo per esempio che tutti
i Comandamenti sono rivolti a un tu
maschile. Noi leggiamo i verbi all’infinito.
Non ammazzare, in ebraico è non
ammazzerai.
L’uomo è l’albero di trasmissione della
scrittura. Alla donna nella scrittura sacra
spetta invece l’albero di trasmissione
della vita. Il maschile in ebraico si
chiama zahar, che vuol dire il maschio,
ed è la stessa radice del verbo ricordare.
Questo è il maschio. E questo è il suo
compito: qualcuno che deve trasmettere,
ricordare, trattenere quella trasmissione
e passarla alla generazione successiva. Il
femminile in ebraico è invece molto più
brusco, fastidioso alle nostre orecchie,
nechebà, che vuol dire fessurata. Non è
la fessura dove entra il maschio, ma la
fessura da dove esce la vita. Può stupire
all’interno della nostra società patriarcale
che nell’ambito della maternità alle
donne spettavano delle prerogative
assolute, per esempio quella di dare il
nome ai figli. Il primo figlio della storia
è Caino ed è nominato da Eva. Sono le
donne che mettono al mondo i figli e a
loro spetta affibbiargli il nome. Sembra
strano leggere che le donne potevano
anche stabilire con chi il marito poteva
giacere la notte. Rachele, ad esempio,
stabilisce che per una notte suo marito
Giacobbe vada a giacere con sua sorella
Lea: quest’ultima era più fortunata e, a
differenza della moglie, aveva dato dei
figli a Giacobbe. Anche quando Sara non
riesce a rimanere incinta adotta quella
specie di inseminazione artificiale e la
sua schiava, Agar, partorisce al posto
suo. È Sara che decide che Abramo passi
delle notti con Agar per avere un figlio.
Perché lei non riusciva ad averne.
Ai maschi spettava l’albero di
trasmissione della legge della conoscenza
della storia, e di tutte le implicazioni
della scrittura sacra. Però tutte le lettere
della scrittura sacra sono femminili. E
quel testo conserva una vitalità che lo
rende nuovo, a ogni lettura, perlomeno a
me che lo continuo a leggere perché c’è
dentro la vitalità femminile delle lettere.
Una volta da giovane mi sono appuntato
una frase che ho trovato in un libro di
Hofmanstalle che diceva: “La profondità
va nascosta. Dove? In superficie”. Mi
piacque quella frase, la credevo giusta
senza sapere perché. Ora ne comprendo
il significato. La profondità dell’ebraico
sta nella superficialità delle sue lettere.
Le donne dello scandalo, le Sante dello
scandalo. La prima si veste da prostituta
per andare verso l’uomo che vuole
incontrare. La seconda fa la prostituta,
di professione e tradisce il suo popolo
deliberatamente. La terza si va a infilare
di notte dentro il giaciglio di un ricco
possidente per farsi sposare. La quarta,
peggio ancora, è sposata, ma tradisce il
marito e fa in modo, insieme all’amante
che il marito muoia. La quinta, pronta ad
essere sposa, si trova incinta di un altro.
Di queste cinque donne scandalose
parla la scrittura sacra. Il Vangelo di
Matteo, l’inizio, la prima pagina del
cristianesimo, del Nuovo Testamento,
inizia con un lungo elenco di nomi
maschili che da Abramo scendono
fino a Gesù. L’intenzione di Matteo è
questa: innestare la nuova notizia del
cristianesimo sul ceppo dell’antica,
mostrare la discendenza, collegare la
cristianità, la notizia di Cristo, a tutta
la storia ebraica precedente. Cristo sta
nella genealogia del Messia che passa
attraverso la linea di Davide. Inoltre
Matteo stabilisce che tra Abramo e
Gesù ci siano quarantadue generazioni.
La genealogia che troviamo scritta più
avanti nel Vangelo di Luca, curiosamente,
da Gesù risale fino ad Adamo. Tra
Gesù e Abramo, Luca inserisce molti
più nomi. Però Matteo vuole che siano
quarantadue. Tutto il vagabondaggio
di Israele e della storia di Israele
termina con Gesù. Questo dice Matteo.
Non ci sono due divinità, non c’è un
Dio dell’antico e un Dio del Nuovo
Testamento, non c’è una notizia del
prima e una notizia del dopo. Quel libro
è monoteista. Matteo esordisce come
inizia il libro dell’Esodo “questi sono i
nomi”, eliashmot, dice il libro. Dunque
Matteo vuole ribadire ancora di più
questo attaccamento. L’Esodo è il libro
di fondazione del popolo ebraico. È il
libro in cui quel popolo diventa popolo,
riceve la legge, diventa nazione. E il
cristianesimo per Matteo vuole essere
questo: una rifondazione di quella
notizia. Dunque onore a lui e a questa
pagine. Matteo inizia con un elenco di
nomi, una genealogia maschile nella
quale ci sono cinque nomi di donne.
Il primo che si incontra è quello di
Tamar, una Cananea. Il secondo nome
è quello di Rahav, una donna di Gerico.
La terza è il nome di Rut, mohabita. La
quarta è Batsheva, che è ebrea, sposa in
prime nozze di un ittita, Uria. La quinta
è Miriam Maria di Nazaret. Dunque ci
sono tre donne che non appartengono
al popolo di Israele: una cananea, una
di Gerico e una mohabita. Sono inserite
tre donne che apportano sangue misto.
Il Messia, persino lui, è meticcio. Questa
notizia poco risaputa e ripetuta è per
me invece importante e allegra. La storia
di Israele, dal momento dell’arrivo nella
Terra Promessa, da quando si esaurisce
la generazione che ha conosciuto il
deserto, la manna e tutte le tribolazioni,
ma anche i miracoli e continui prodigi,
comincia a sbandare, a passare di nuovo
al politeismo, a mischiarsi coi culti
idolatri dei popoli intorno, culti molto
meno esigenti, più allegri e festosi. E
tutte le volte che Israele si distoglie dalla
sua divinità, dal suo rapporto esclusivo
con quella divinità, patisce i rovesci
della storia: i popoli intorno diventano
più forti lo soggiogano e lo ributtano
in stato di schiavitù. In quello stato di
servitù risorgono delle guide chiamate
giudici, shoftim. I giudici riescono a
riportare Israele al monoteismo e a farlo
ritornare forte e saldo nel governo della
sua regione. Le donne, queste tre donne
straniere inserite dentro quell’elenco,
che appartengono alla genealogia più
pura, quella del Messia, queste tre donne
straniere sono invece la testimonianza
del contrario: vengono da altri popoli,
ma vogliono essere madri in Israele,
vogliono appartenere alla divinità unica
alla quale hanno deciso di aderire e nella
quale vogliono mettere a disposizione il
loro grembo. Dunque sono degli esempi
di fedeltà al contrario. Sono esempi di
fedeltà femminile dentro una storia
stracarica di infedeltà.
1. Tamar
Tamar sposa un figlio di Giuda, il quale
muore senza lasciare discendenza.
La legge vuole che un fratello debba
prendere il posto del morto per
assicurare una discendenza con lo stesso
nome del deceduto. Così Giuda da a
Tamar il suo secondo figlio, Onan. Però
Onan è uno che non vuole dare il suo
nome, quindi disperde il seme, non si
congiunge con Tamar. Quando Onan
muore, Tamar è vedova per la seconda
volta. Giuda ha un terzo figlio ma non
vuole che si sposi con Tamar, perché
è troppo giovane e vuole che passi un
po’ di tempo… Giuda naturalmente
non vuole rispettare quella promessa.
Allora Tamar ricorre a uno stratagemma,
forte, ardito, scandaloso: si veste da
prostituta e si fa trovare su una strada
che deve percorrere Giuda. A differenza
della prostituzione moderna che si
fa scoprendosi abbondantemente, la
prostituzione allora si faceva coprendosi,
le donne erano velate. Giuda non
può riconoscere la donna che gli si
offre. Siccome è di buon umore si
concede a quella donna di passaggio.
E siccome non ha niente con sé, le
lascia in pegno un paio di cosucce sue,
che verrà a prendere il giorno dopo il
servo, portando il pattuito. Il giorno
dopo il servo va a portare il pattuito
e a riprendersi i pegni, ma non trova
nessuna prostituta da quelle parti.
Giuda si scorda dell’accaduto, ma non
la natura. Tamar è incinta. Per quella
legge lei è ancora legata, è ancora sposa,
dunque è un’adultera. Dunque viene
condannata. Giuda stesso è il giudice
di quella comunità e la condanna a
morte – in quel caso la condanna a
morte che spetta a Tamar è di essere
bruciata. Mentre la donna si avvia al
luogo della sua esecuzione dice: “Sono
incinta di colui al quale appartengono
questi pegni”. Non lo ridicolizza davanti
agli altri, però gli fa sapere la verità. E
Giuda riconosce i suoi pegni. Si comporta
da uomo, non fa finta di niente, accetta
di fare una brutta figura di fronte alla
comunità dicendo : ”È stata più giusta
di me.” Riconosce addirittura a Tamar
una giustizia superiore alla legge che lui
voleva applicare e che è il motivo per
cui sta al mondo: lui è al mondo perché
appartiene a quel genere maschile
che deve trasmettere e applicare leggi.
Eppure Tamar è stata più giusta di lui.
Giuda lo riconosce, lo ammette. Tamar
è libera e partorirà due gemelli. Uno dei
due, Perez, è nella genealogia del Messia.
Perché la genealogia del Messia passa da
Giuda, via Davide.
2. Rahav
Rahav è una prostituta di Gerico. Non
come Tamar che finge di esserlo. Rahav
è una del mestiere. Abita a Gerico nel
momento in cui Israele ha attraversato
il Giordano ed è entrato nella Terra
Promessa. Promessa, ma nient’affatto
regalata. Perché si va a impiantare in
un posto già abitato e pieno di idoli
e di culti. La terra di Cana è un luogo
affollato di altri popoli e di altri culti.
Dunque si affaccia l’esercito d’Israele
nella piana di Gerico, e più lontano c’è
la città, Gerico, la città murata. Giosuè,
il più grande condottiero dell’antichità,
manda degli esploratori, infila delle
spie dentro Gerico. Rahav nasconde
queste spie, le protegge, le salva da
una perquisizione. In cambio vuole
appartenere a Israele. È certa, non per
profezia ma per convinzione, che la
sua città sarà distrutta. Così la donna
chiede alle spie di salvare la sua casa,
la sua famiglia insomma, in cambio di
quella salvezza che lei ha accordato loro.
Quando Gerico viene distrutta, Rahav e
la sua famiglia vengono salvate perché
fuori dalla sua finestra è appesa una
stoffa rossa che protegge quella casa.
Vuole la tradizione, non è scritto nella
scrittura sacra, ma vuole la tradizione
ebraica, che Rahav diventi moglie di
Giosuè. Dunque una prostituta sta
lì dentro quella genealogia perché è
una che ha riconosciuto la grandezza
superiore della divinità che stava
arrivando, e ha voluto aderire a quel
popolo con il suo corpo e con la sua
carne.
3. Ruth
Ruth è una donna della terra di Mohab.
La terra di Mohab è di là dal Giordano
mentre Isreaele sta tra il Giordano e il
mare. C’è una grande carestia in Israele e
una grande famiglia ebraica si trasferisce
in terra di Mohab, dove c’è un po’ di
cibo e la carestia è meno feroce. È il
primo esempio di diaspora, di storia di
abbandono della terra di Israele, quella
terra conquistata, raggiunta, ottenuta
quale Terra Promessa. Una piccola
famiglia se ne va di lì, abbandona quella
terra. E dunque passa un sacco di guai.
Questa famiglia è composta da marito,
moglie e due figli: il marito muore, i due
figli che hanno sposato due cananee, due
mohabite, muoiono tutti e due. Rimane
la suocera, Naomi, moglie dell’ebreo che
era andato in terra di Mohab e le due
nuore. Naomi vuole ritornare in terra
d’Israele, e a lei si attacca Ruth, sua
nuora Naomi accetta malvolentieri di
portarsi dietro Ruth, cerca di dissuaderla
in tutti i modi, ma Ruth insiste, è tenace
e va a lavorare nei campi al momento
del raccolto. Il raccolto allora era lungo,
partiva a maggio e finiva a settembre.
Dunque Ruth, mentre lavora, viene
notata dal proprietario, Boaz, che per
accidente è anche parente della famiglia,
e le concede, visto che lei sta facendo
un’opera meritoria nei confronti della
povera vedova Naomi, un po’ di spazio,
di agio nella raccolta. Questa preferenza
fa scattare a Naomi l’idea di far sposare
Ruth a Boaz. Naomi suggerisce quindi
a Ruth di andarsi nel letto notturno
all’aperto dell’uomo. Quest’ultimo si
sveglia di notte con quella ragazza
vicino e la protegge. E così Ruth diventa
sposa di Boaz, con questo gesto ardito
e notturno con il quale si è offerta a un
uomo potente e sconosciuto.
4. Batsheva
Batsheva, è sposa di Uria, ittita, un
soldato di Davide. Mentre Uria sta
combattendo nelle guerre di Davide,
quest’ultimo si incapriccia di Batsheva.
Viene commesso adulterio. Batsheva
rimane incinta. Quindi Davide adotta
questo sotterfugio: fa richiamare
dalla battaglia e dal posto dove sta
combattendo Uria per un’ambasceria che
gli voleva consegnare, lo fa richiamare
in modo che Uria possa stare qualche
notte in città, a dormire con la moglie e
coprire con la sua presenza la gravidanza
irregolare. Uria è un uomo tutto d’un
pezzo e dice: “I miei compagni stanno
combattendo, e io dovrei venire a fare
festa con mia moglie? No, io dormirò
fuori dalla casa di mia moglie”. Davide,
fallito questo sotterfugio, deve ricorrere
al peggiore dei mezzi: chiede al suo
comandante di lasciare isolato Uria nella
battaglia. Così Uria viene ucciso e Davide
può sposare Betsabea. Il figlio di questa
unione muore subito. È dannato. Ma
il secondo figlio è niente di meno che
Salomone, il più grande Re di Israele.
Colui che avrà l’onore di costruire il
primo tempio della divinità. Dunque c’è
una provvidenza che striscia come una
serpe, passa attraverso delle passioni, dei
corpi, dei corpi femminili, per compiersi.
Per far arrivare il seme a destinazione.
Questa è una storia dura ma che
illustra come il corpo femminile sia un
messaggero di una volontà della quale le
persone sono dei mezzi.
5. Miriam Maria
In queste storie la divinità non si
rivolge alle donne, non parla a loro. A
differenza di quello che succede con
il maschile, con la profezia maschile,
in cui la divinità dice, irrompe dentro
le vite di questi uomini scelti, e questi
uomini scelti dalla divinità vengono
completamente scombussolati e
sconvolti dall’avvento della notizia.
Molti uomini cercano addirittura una
via di fuga, una resistenza. Mosè dice
“io sono balbuziente” che era una bella
giustificazione. Isaia dice “io sono impuro
di labbra”. Così arriva subito un angelo
che con un tizzone ardente gli dà una
scottata alla bocca e così può ricevere la
sua profezia. Geremia dice “sono troppo
piccolo, come faccio, sono un bambino,
un ragazzino, come faccio ad andare
a parlare agli adulti?”. E anche quella
obiezione viene superata. Anche Giona
sente la notizia, quello che deve fare,
e s’imbarca per la direzione opposta.
A me è capitato di prendere il treno
per la direzione opposta ma sempre
per sbaglio. Alla fine anche se quella
divinità ti avvia verso lo sbaraglio quello
è l’unico indirizzo sicuro. Tutto il resto
è peggio. Nessuna di quelle donne, pur
non ricevendo nessuna notizia, si tira
indietro. Rispondono tutte quante. Con
una volontà fisica, forte, immediata, che
non ha bisogno di nessuna mediazione.
Per questo le chiamo le sante dello
scandalo. Sono scandalose. Gli uomini
sono mandati spesso contro dei poteri.
Isaia contro il Ree, Giona contro Ninive,
Mosé contro il faraone, vengono tutti
scagliati contro dei poteri. Le donne
vengono invece scagliate dentro e contro
la legge per applicarla meglio. Per darle
una forza e un significato. Sono tutte
delle interpreti, fanno delle mosse ardite,
eroiche, pazzesche. Ma fanno tutte delle
mosse uniche per poter meglio applicare
una legge che sta scritta nei loro cuori
ma non sta scritta da nessuna parte.
Appartengono tutte alla scrittura che
leggiamo noi. Sono belle. Certo che sono
belle. Però portano la loro bellezza con
uno “spirito di servizio”. Sono delle serve
di quella loro bellezza che è destinata
ad altro scopo. Non delle reginette della
loro bellezza. La bellezza è un mezzo
per raggiungere altre destinazioni e
aderiscono con una fedeltà che non si
smuove. Sono più grandi dei profeti che
si leggono nelle scritture sacre.
L’ultima storia che racconterò è
quella di Miriam Maria, dal Vangelo di
Marco. Maria è una sposa promessa,
improvvisamente incinta e non del
suo fidanzato. Per quella legge è
un’adultera. Faccio un passo indietro.
L’iconografia cristiana vuole che
Giuseppe sia anziano. Però né Matteo,
né Luca dicono che Giuseppe è anziano.
Dunque noi possiamo immaginarlo bello,
giovane e innamorato. Quest’ultima è
una caratteristica importante, che lo
contraddistingue, perché Giuseppe si
comporta molto da innamorato. Lui è
uno del sud, della Giudea che è andato a
lavorare al nord, a Nazaret. È un ragazzo
che lavora presso un falegname. Ha il
torto di essersi innamorato della più
giovane e bella ragazza della zona, cosa
che di solito dispiace agli autoctoni. E
gli capita questa tegola sulla testa: la
sua ragazza incinta di un altro. Ma lui la
protegge. Accetta di sposarla, di coprire
con il suo nome, con la sua onorabilità,
distrutta in quella circostanza, la sua
sposa, la sua innamorata. Giuseppe
deve essere stato innamorato cotto per
comportarsi così. Non può essere stato
altrimenti. Nell’iconografia cristiana
l’Annunciazione è un angelo che
precipita nella stanza di Maria con il
suo annuncio. Ma nella storia ebraica,
l’angelo, il messaggero, è uno qualunque.
Ha delle fattezze umane. Non è un
extraterrestre. Non vola. Cammina. Non
si riconosce fisicamente da un altro.
E per questo che l’adesione di Maria,
l’accettazione immediata di quella notizia
grandiosa è più grande di quella che
viene rappresentata con l’angelo che
irrompe dentro la sua stanza. Perché a
un angelo ubbidisce chiunque. Maria
invece ha sentito lo shalom di un
estraneo dentro la sua intimità, dentro
la sua camera. Maria appartiene a
quelle sante che si sono lanciate senza
nessuna obiezione a obbedire al compito
assegnatole. È una ragazzina e Giuseppe
è degno di lei. È uno che accetta di
essere padre secondo, marito secondo.
Josef dal verbo jasaf, colui che aggiunge,
dal verbo aggiungere. Giuseppe si
aggiunge a questa storia. Accetta questo
per amore di Maria. Il suo nome è
dentro la genealogia di Matteo, dentro la
genealogia di Davide. E Gesù è inscritto
in quella genealogia perché è figlio
di Giuseppe. In quella anagrafe viene
iscritto da Giuseppe come figlio suo. Se
non avesse fatto questa mossa il Messia
sarebbe stato figlio di nessuno, anche se
del più illustre dei nessuno. Ecco, ci sono
state delle donne in quella storia che
hanno cambiato i connotati alla legge,
investendola della loro forza di natività,
applicandola meglio e trasformandola.
Quindi onore a Matteo che mette i nomi
di queste cinque donne nella pagina di
inizio del cristianesimo, nella genealogia
più pura che è quella del Messia e dal
cui ceppo non è ancora uscita l’ultima
parola.