Il modello francese nelle tragedie senecane di

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Il modello francese nelle tragedie senecane di
IL MODELLO FRANCESE NELLE TRAGEDIE SENECANE DI ALFIERI
Cenni cronologici e intertestuali
Nel Rendimento di conti da darsi al tribunal d‟Apollo in relazione all‟anno 1776, Alfieri registra
gli studi compiuti sulle tragedie di Seneca, che si interpongono alla lettura di altri classici latini e
italiani e alle proprie fatiche letterarie:
Nel Maggio e Giugno, in Pisa, ideato e steso l‟Antigone; ideate l‟Agamennone e l‟Oreste; verseggiato
il Polinice, e lettolo a quei barbassori; studiato assai sul Seneca tragico, principiato a ricopiar Dante, e
Petrarca, a guisa d‟estratti. Nel Luglio, Agosto e 7 bre in Firenze, riverseggiato il Filippo II, ideato il
Garzia, continuati gli estratti di Dante e Petrarca; altri di Seneca, traducendone molti squarci in versi
per mio esercizio;
Tali indicazioni risultano confermate dal ms. laurenziano Alfieri 4 che contiene gli estratti delle
tragedie senecane postillate e parzialmente corredate di traduzione 1 ed è datato dall‟autore stesso
che all‟interno della copertina del ms. incolla un foglio con la scritta Estratti, traduzioni e fatiche
diverse. Seneca tragedie 1776.
Se si considera che contemporaneamente Alfieri si stava occupando della prima versificazione del
Polinice, non stupisce che gli estratti siano inaugurati dalle Phoenissae – Thebais per l‟astigiano,
secondo il titolo dell‟edizione Gronovius 2 delle tragedie di Seneca – opera che per l‟appunto, come
la seconda tragedia alfieriana, rappresenta il terribile scontro fratricida che vede contrapposti i figli
di Edipo. Proprio per esercitarsi su un testo che poteva risultare immediatamente utile per la
propria tragedia, Alfieri trascrive le Phoenissae senecane, accantonando il Thyestes che pur le
precede nell‟edizione Gronovius, per recuperarlo in un secondo tempo. Non va dimenticato che
nello stesso periodo Alfieri si applica agli estratti dalla Tebaide staziana tradotta dal Bentivoglio la
cui lettura finalizzata alla tragica, secondo l‟ipotesi di Camporesi, risalirebbe verosimilmente alla
“ primavera del 1776 ” e sarebbe “ quasi contemporanea alla versificazione italiana 3 ” del Polinice.
La traduzione delle Phoenissae di Seneca, che si avvale di modi cesarottiani e bentivoglieschi (al
punto che spesso i tratti in cui Alfieri è meno aderente al dettato senecano possono spiegarsi con il
riecheggimento di precisi passi della Tebaide), andrebbe collocata tra gli estratti dal Bentivoglio e
la versificazione del Polinice, svolta tra il 14 maggio e il 9 giugno del 1776, non quindi nei mesi
che vanno dal luglio al settembre 1776, come la lettura del Rendimento di conti lascerebbe credere.
Tale datazione sembrerebbe supportata dalla Vita, in cui Alfieri, dopo aver dichiarato di aver
verseggiato il Polinice durante la permanenza pisana, scrive:
Nel soggiorno di Pisa tradussi anche la Poetica d‟Orazio in prosa con chiarezza e semplicità per
invasarmi que‟ suoi veridici e ingegnosi precetti. Mi diedi anche molto a leggere le tragedie di Seneca,
benchè in tutto ben mi avvedessi essere quelle il contrario dei precetti d‟Orazio. Ma alcuni tratti di
1 Per le postille agli estratti cfr. C. Domenici, Seneca nel giudizio di Alfieri: poeta magnus o declamator?, in AA. VV.,
Alfieri in Toscana, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Firenze ottobre 2000, Olschki, 2002, pp. 451-490; per la
traduzione alfieriana A. Traina, Alfieri traduttore di Seneca, in AA. VV., Seneca nella coscienza dell‟Europa,
Mondadori, Milano, 1999, pp. 235-261.
2 L. Annaei Senecae Tragoediae cum notis integris J. H. Gronovii, Delphis apud A. Beman, 1728.
3 P. Camporesi, Introduzione a V. Alfieri, Estratti d‟Ossian e da Stazio per la tragica, Asti, Casa d‟Alfieri, 1969.
Meno condivisibili mi sembrano le conclusioni di C. Calcaterra (Gli studi staziani dell‟Alfieri “ per la tragica ”, in
“Giornale Storico della Letteratura Italiana”, XCIV, 1929, pp. 1-66, poi in C. Calcaterra, Il Barocco in Arcadia e altri
scritti sul Settecento, Zanichelli, Bologna, 1950, pp. 237-290) che anticipa la compilazione degli estratti staziani al
1775.
1
sublime vero mi trasportavano, e cercava di renderli in versi sciolti per mio doppio studio di latino e
d‟italiano, di verseggiare e grandeggiare4.
La traduzione delle tragedie senecane, per quanto sicuramente non contemporanea alla
compilazione degli estratti, secondo l‟analisi basata su riscontri materiali di Clara Domenici, in
realtà non dovette essere molto successiva, almeno per le prime pagine. Nello specifico,
l‟anteriorità della versione delle Phoenissae rispetto al Polinice risulta manifesta dall‟immissione
di numerosi spunti senecani ed inserti della traduzione alfieriana nella prima versificazione della
tragedia, motivi ancora assenti nelle due stesure in prosa.
Se poi si considera che nella c. 14r del manoscritto, occupata dal Thyestes, figura la data “ Firenze
li 4 Febbrajo 1778 ”, e che la prima versificazione dell‟Agamennone, tragedia che si avvale molto
del Tieste senecano, è datata “ Firenze li 17 Febbraio 1778 ” emerge una strategia di elaborazione
ben precisa del giovane Alfieri, vale a dire la tendenza ad esercitarsi nella pratica del verso tragico
su testi affini alle opere che andava componendo, una volta giunto allo stadio della riduzione in
versi. Superate infatti la fase dell‟idea e della stesura in prosa, Alfieri riprende in mano i modelli (la
Tebaide e le Phoenissae per il Polinice, il Thyestes per l‟Agamennone) perché gli forniscano gli
strumenti per tessere una veste linguistica appropriata ai dialoghi già abbozzati in forma prosastica.
A tal proposito mi sembra che si possa prestar fede all‟affermazione di Alfieri di aver steso il suo
Agamennone “ senza più nemmeno aprire quello di Seneca, per non divenire plagiario 5 ”. Come è
noto, l‟autore dichiara di comporre il dittico argivo “ infiammato ” dalla “ lettura del pessimo
Agamennone di Seneca6 ”. L‟idea dell‟opera risale infatti al “ 19 maggio 1776. Pisa ”, nel periodo
dunque di più intenso studio delle opere del tragico latino; la stesura in prosa viene eseguita nel
luglio 1777 a Siena e bisogna credere che in questo lasso di tempo, proprio con l‟intenzione di
evitare un plagio involontario, Alfieri abbia interrotto il lavoro sugli estratti, per riprenderlo per
l‟appunto nel febbraio 1778, prima di iniziare la versificazione, secondo la data registrata nel
manoscritto7.
Solo dalla prima versificazione dell‟Agamennone compaiono infatti alcuni versi che rimandano alla
traduzione senecana, in particolare le prime battute del condottiero al ritorno in patria:
Riveggo alfin le sospirate mura
D‟Argo possente: il suol natale io premo,
E ne ringrazio i Numi8
che corrispondono esattamente alle parole di Tieste nel suo primo ingresso in scena (Phoenissae,
vv. 404-406) nella resa di Alfieri:
Riveggo alfin le sospirate mura
D‟Argo possente: il suol natale io premo
Agli esuli sì caro; i Patrii Numi
Se pur v‟ha Numi in Argo,
ecc. 9
4 V. Alfieri, Vita, a c. di L. Fassò, Asti, Casa d‟Alfieri, 1951, IV, 2, pp. 193-194.
5 V. Alfieri, Vita cit., IV, 5, p. 207.
6 V. Alfieri, Vita cit., IV, 5, p. 206.
7 Lo scrupolo di Alfieri nel datare la c. 14r del manoscritto si giustifica a mio parere solo postulando un‟interruzione
nello studio degli estratti; d‟altra parte l‟arco cronologico 1776-78 appare troppo esteso rispetto alla modesta quantità
delle traduzioni.
8 V. Alfieri, Agamennone, a c. di C. Jannaco e R. De Bello, Asti, Casa d‟Alfieri, 1967, I vers., II, 4, vv. 167-169.
9 Ms. Alfieri 4, c. 13v. Faccio notare che durante le successive fasi compositive, l‟aggettivo possente (che non ha un
preciso riscontro nel brano di Seneca, in cui si menzionano solo le Argolicas opes) sarà sostituito dal possessivo mia,
che evoca solo il profondo legame affettivo del condottiero con la propria terra, laddove possente poteva adombrare in
qualche modo orgoglio per la forza militare del regno, e il suol natale diventerà dolce suolo nella seconda
versificazione e suolo amato nella redazione definitiva, conquistandosi uno spazio di rilievo a fine verso, in accordo
2
Influssi senecani si registrano a partire dalla prima versificazione anche per l‟Oreste, tragedia
“ gemella ” dell‟Agamennone, la cui dipendenza da Seneca è accertata, come emerge dalle ricerche
di Ettore Paratore, dai vv. 15-29 della prima scena dell‟atto secondo, in cui il protagonista rievoca
le circostanze della fuga precipitosa dalla reggia la notte dell‟assassinio del padre, riallacciandosi
palesemente alle ultime scene dell‟Agamemnon senecano, in cui si mette in scena il salvataggio del
piccolo Oreste affidato da Elettra alle cure di Strofio. Lo studioso, dopo aver fatto il debito
confronto tra i due testi, conclude asserendo : “ Ora finalmente conquistiamo la prova più evidente
che la lettura dell‟Agamemnon di Seneca ha ispirato anche l‟Oreste dell‟Alfieri. Ed è sbalorditivo
che l‟Augugliaro trascuri del tutto questo fondamentale riscontro, tanto più valido, in quanto
nell‟Oreste di Voltaire non v‟è traccia di un simile ricordo, e quindi si deve supporre che l‟Alfieri
abbia tenuto presente solo il finale dell‟Agamemnon di Seneca10 ”.
La lettura, in relazione allo stesso passo, della stesura dell‟Oreste, datata “ Siena li 24 luglio
1777 ”, non conferma però la dipendenza senecana. Ecco infatti le parole che il giovane rivolge
all‟amico Pilade, dopo il fortunoso approdo alle spiagge argive:
Si Pilade questa è la Reggia Paterna; quì Regna il perfido Egisto. Ho presenti ancora alla memoria
questi luoghi, dove benchè fanciullo passai l‟ultima volta in quella notte funesta in cui risuonava la
Reggia de‟ gridi d‟Agamennone trucidato, e scorrea il sangue suo ad inondarla. Per queste stesse
solinghe vie mi trafugò il fido Menete dalla rabbia del Tiranno; ritorno alfine dopo trè lustri
vendicatore del Padre11.
Nel resoconto che il protagonista fa della notte funesta non ritroviamo nessun elemento di rimando
alle ultime scene dell‟Agamemnon: Elettra non viene neppure nominata e Strofio si vede
rimpiazzato da un banale servitore, e dato che Alfieri era alle prese con la versificazione
dell‟Antigone proprio nello stesso anno, non è difficile riconoscere nel fido Menete un prestito: il
fedel Menete che Argia nomina nel suo monologo d‟ingresso ad apertura di tragedia 12, precettore
che compare come personaggio sia nella Tebaide di Stazio sia nell‟Antigone di Rotrou, entrambi
fonti della tragedia alfieriana 13.
A quanto pare dunque, al tempo della stesura della propria tragedia Alfieri aveva così poco in
mente la struttura dell‟Agamemnon di Seneca da non sovvenirsi neppure di quell‟unica scena in cui
compare il piccolo Oreste e si prepara la vendetta. Solo dalla prima versificazione, come si è detto,
Alfieri riscrive la battuta del personaggio per renderne i ricordi compatibili con l‟episodio
rappresentato nel testo latino. Rivedendo la tesi di Paratore, potremmo sostenere che proprio
l‟assenza del passo senecano nella stesura dell‟Oreste conferma che l‟opera non fu inizialmente
inspirata dall‟Agamemnon, tanto più che questa tragedia, incentrata sulla morte del re argivo, non
offriva le informazioni necessarie per il seguito della saga atridica. Il modello più immediato per la
composizione dell‟Oreste va dunque individuato nell‟omonima tragedia di Voltaire, nonostante le
alla tendenza nelle varianti riscontrata da Vittore Branca (Alfieri e la ricerca dello stile con cinque nuovi studi,
Zanichelli, Bologna, 1981, pp. 191-200) ad amplificare gli elementi patetici insiti nel personaggio di Agamennone.
10 E. Paratore, L‟ “ Agamemnon ” di Seneca e l‟ “ Agamennone ” di Alfieri, in AA. VV., Letteratura e critica. Studi in
onore di Natalino Sapegno, vol. I, Bulzoni, Roma, 1974, pp. 517-56; ripubblicato in E. Paratore, Dal Petrarca
all‟Alfieri, Olschki, Firenze, 1975, pp. 441-500.
11 V. Alfieri, Oreste, a c. di R. De Bello, Asti, Casa d‟Alfieri, 1967, stes., II, 1.
12 V. Alfieri, Antigone, a c. di C. Jannaco, Asti ,Casa d‟Alfieri, 1953, I, 1, v. 4.
13 L‟aggettivo stesso fedel accompagnato al nome di Menete figura nella traduzione del Bentivoglio (La Tebaide di
Stazio, Utet, Torino, 1928, XII, v. 415), corrispondente a Stazio, Thebais, XII, vv. 278-279, “ fidus […] altor ”. Alfieri
aveva pensato inizialmente di includere Menete tra i personaggi della propria tragedia, ma poi lo elimina lasciandone
traccia solo nel suddetto monologo di Argia. Interessante notare come la sua assenza giustificata dalla donna con la
difficoltà dell‟anziano servitore a tenere il passo (Antigone, I, 1, vv. 3-4: “ Per troppa etade tardo,/ Mal mi seguiva il
mio fedel Menete ”), trovi riscontro con quanto si dice nella Tebaide, XII, vv. 353-354: “ Duolsi Menete di seguir più
lento,/ E dell‟imbelle Alunna ammira il corso ”.
3
affermazioni in senso contrario di Alfieri, che anzi si impegna in una “ gara ” col predecessore
francese, come emerge dalle ricerche di Guido Santato 14.
AGAMENNONE
Restando in ambito più a buon diritto senecano, si può notare come alcuni dettagli dell‟Oreste
volteriano si inseriscano anche nella prima tragedia del dittico di Alfieri: si tratta ad esempio di
richiami verbali, come l‟impiego del termine festin per designare la strage compiuta da
Clitennestra15 che invece Alfieri adatta al banchetto tiesteo, “ l‟orrendo festino d‟Atreo ”16 e
tematici, come l‟immagine di Elettra consolatrice della madre durante la lunga assenza di
Agamennone17. Non è escluso che la stessa caratterizzazione psicologica di Clitennestra si modelli
almeno in parte su quella della regina dell‟autore francese che, nell‟epistola alla duchessa du Maine
posta come prefazione all‟Oreste, motiva la propria dipendenza da Sofocle dicendo di aver ripreso
dal tragico greco “ sur-tout les remords de Clitemnestre ”, con la consapevolezza di comporre per
“ le peuple le plus judicieux et le plus sensible de la terre ”, che avrebbe storto il naso di fronte a
una regina armata di bipenne che incrudelisce contro il marito e non dà il minimo cenno di amore
materno:
Rien n‟est en effet plus dans la nature qu‟un femme, criminelle envers son époux, et qui se laisse
attendrir par ses enfants, qui reçoit la pitié dans son coeur altière et farouche, qui s‟irrite, qui reprend
la dureté de son caractére quand on lui fait des reproches trop violent, et qui s‟appaise ensuite par le
soumissions et par les larmes18.
Rispetto al precedente francese, il personaggio alfieriano appare più intimamente lacerato, e
dilaniato dal senso di colpa che le impedisce di prorompere in crudi accenti contro i propri figli,
senza le asprezze che ancora caratterizzano la Clitennestra di Voltaire.
La dimensione psicologica della protagonista alfieriana è però il risultato di una complessa
elaborazione che segna il progressivo distacco dal modello senecano, non senza la mediazione,
come si è detto, dell‟Oreste francese, testimone delle diverse esigenze della sensibilità moderna.
Vittore Branca, che si è occupato dell‟evoluzione dei caratteri della tragedia attraverso le varie fasi
compositive, riconosce nella Clitennestra dell‟idea una “ donna eschilea, autoritaria e decisa,
polemica e quasi crudele, implacabile furia vendicatrice19 ”, ma a ben guardare il modello sembra
essere più Seneca che Eschilo (fatte salve, come si vedrà, le scene relative all‟incontro con
Agamennone, in cui la donna finge un trasporto che non prova, senza però riuscire credibile agli
occhi del marito). Infatti i passi dell‟idea che il Branca indica, in cui la regina “ tacciando Elettra
d‟impostura ”, “ tenta di sollevare Elettra contro il padre ”, “ parte per dare Oreste nelle mani di
14 G. Santato, Alfieri e Voltaire dall‟imitazione alla contestazione, Olschki, Firenze, 1988. Sul rapporto tra l‟Oreste di
Alfieri e quello di Voltaire, cfr. anche E. Bertana, Vittorio Alfieri studiato nella Vita, nel Pensiero e nell‟Arte,
Loescher, Torino, 1902, pp. 408-443; G. G. Ferrero, La genesi dell‟ “ Oreste ”, in Id., Alfieri, Torino, 1945, pp. 353401; e, parzialmente, F. Vazzoler, Alfieri fra drammaturgia italiana e drammaturgia europea, in AA. VV., Alfieri e il
suo tempo, Atti del Convegno internazionale, Torino-Asti 29 novembre - 1 dicembre 2001, Olschki, Firenze, 2003.
15 Voltaire, Oreste, Paris, 1740, I, 2: Électre – “ Vos yeux ne virent point ce parricide impie,/ Les vêtements de mort,
ces apprêts, ce festin,/ Le festin détestable, où le fer à la main,/ Clytemnestre… ma mère… ah! cette horrible image/ Est
présente à mes yeux, présente à mon courage ”.
16 V. Alfieri, Agamennone cit., stes. I, 2.
17 In Voltaire è Clitennestra a dire: “ Et malgré la fureur de ses emportements,/ Électre, dont l‟enfance a consolé sa
mère/ Du sort d‟Iphigénie et des riguers d‟un père,/ Électre qui m‟outrage, et qui brave mes lois,/ Dans le fond de mon
coeur n‟a point perdu ses droits ”, in Alfieri si tratta invece del condottiero di ritorno ad Argo, in un passo che figura
durante tutto il percorso compositivo (Agamennone, II, 4, vv.231-237: “ Tu mi rimani, Elettra, e alla dolente/ Misera
madre rimanevi. Oh come/ Fida compagna, e solo suo conforto/ Nella mia lunga assenza, i lunghi pianti/ E le noie, e il
dolor con lei diviso/ Avrai, tenera figlia! Oh quanti giorni,/ Oh quante notti in rimembrarmi spese!… ”).
18 Voltaire, Épître à S. A. S. Madame la duchesse du Maine, in Oreste cit.
19 V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile cit.
4
Egisto20 ” rimandano al precedente senecano, dove Clitennestra alterca con la figlia alla fine della
tragedia e le chiede dove si trovi il fratello 21. Poiché Elettra si rifiuta di consegnarlo, la regina la
minaccia di morte (“ Morieris hodie22 ”) e la giovane si mostra impavida, chiedendo di morire per
sua mano (“ Dummodo hac moriar manu 23 ”), mentre Egisto propone una punizione a suo avviso
più crudele (“ Abstrusa caeco carcere et saxo exigat/ aevuum24 ”). Nell‟idea alfieriana (V, 4), una
volta commesso il delitto, nella prima redazione della stesura “ torna Clitennestra col pugnale
insanguinato: la siegue piangendo Elettra, e domanda la morte anch‟essa ”, mentre nella scena
successiva, parallelamente al passo senecano, “ Elettra ingiuria la Madre sul commesso delitto;
dice, che Oreste è già sottratto a‟ suoi furori, e riserbato alla vendetta25 ”. La seconda redazione
presenta delle varianti significative, perché l‟ira di Elettra si rivolge solo contro Egisto (V, 4:
“ Elettra riempie di maledizioni Egisto, che la minaccia, e corre per uccidere Oreste ”), al quale la
giovane dice di aver messo in salvo il fratello “ e per sé ritorna dentro a cercar la morte dalla
Madre26 ”, senza considerare che nella prima redazione della stesura (I, 3)27, sin dall‟inizio della
tragedia, la regina, indispettita dai rimproveri della figlia, le promette il castigo che nell‟opera
senecana sentenzia Egisto: “ Omai più non soffro l‟insolente tuo dire. Una prigione oscura ed
eterna sarà la ricompensa ben degna ”, anche se l‟autore si rivela subito insoddisfatto della battuta e
segna a margine, vicino al nome di Clitennestra, “ più dolce ”, mentre una postilla nella redazione c
recita: “ Clitennestra con Elettra minacci meno, ed osservi gradazione ”.
La stesura in prosa dell‟opera di fatto eredita la contraddittorietà del personaggio senecano: da un
lato una virago determinata e priva di scrupoli, predominante quantitativamente nel testo, dall‟altro
una donna insicura, che si abbandona al delitto cedendo alle sollecitazioni dell‟amante, soluzione
quest‟ultima che alla fine prevarrà nella tragedia alfieriana. Di fronte all‟arrendevolezza di Egisto
infatti Clitennestra, che in un primo tempo aveva manifestato la volontà di riconciliarsi con
Agamennone, cambia idea riconoscendo che “ quae iuncta peccat debet et culpae fidem28 ”. Alfieri
trascrive questi versi nei suoi estratti, mostrando perplessità per il brusco trapasso psicologico di
Clitennestra che rischia di apparire inverosimile perché inadeguatamente motivato: la scena si
svolge troppo rapidamente, “ Nimis cito29 ”, ed infatti nella propria tragedia l‟autore si impegna a
svilupparla prestando al proprio Egisto le capacità di manipolazione di uno Jago shakespeariano30.
Il punto di partenza resta comunque la scena latina, e la battuta rassegnata di Egisto, come osserva
Ettore Paratore, riemerge “ sminuzzata ” in vari punti della tragedia di Alfieri.
L‟Agamemnon presentava però una struttura difficilmente fruibile per il poeta piemontese:
Seneca rinuncia infatti a scene capitali come quella dell‟incontro tra Clitennestra e il marito, di cui
20 V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile cit.
21 L. A. Seneca, Agamemnon, in Tragédies, par F. R. Chaumartin, Les Belles Lettres, Paris, 1999, vv. 964-966:
“ Indomita posthac virginis verba impiae/ regina frangam; citius interea mihi/ edissere ubi sit natus, ubi frater tuus ”. Si
consideri anche la durezza con cui la Clitennestra di Alfieri si rivolge alla figlia nella stesura (I, 3), destinata ad
addolcirsi nel prosieguo dell‟opera: “ Figlia d‟Agamennone è giunta all‟ultimo segno la giusta mia rabbia ”.
22 L. A. Seneca, Agamemnon cit., v. 971.
23 L. A. Seneca, Agamemnon cit., v. 971.
24 L. A. Seneca, Agamemnon cit., vv. 988-989. La punizione è ribadita nell‟ordine dato ai servi (vv. 997-1000:
“ Abripite, famuli, monstrum et avectam procul/ ultra Mycenas ultimo in regni angulo/ vincite saeptam nocte tenebrosi
specus,/ ut inquietam virginem carcer domet ”).
25 Cfr. L. A. Seneca, Agamemnon, cit., vv. 969-970: “ ELECTRA: – Tuto quietus, regna non metuens nova:/ iustae
parenti satis, at iratae parum ”.
26 V. Alfieri, Agamennone cit., stes., V, 4.
27 In corrispondenza della stessa scena, nell‟idea, Alfieri aveva scritto: “ La madre stessa la minaccia d‟ogni pena se
ardisce contrastare ”.
28 L. A. Seneca, Agamemnon cit., v.307.
29 Ms. Alfieri 4, c. 28r.
30 Per l‟analisi dei dialoghi di Egisto e Clitennestra cfr. E. Rossi, “ Sull‟ “ Agamennone ” di Alfieri, in “Italica”,
XXVIII, 1998, pp. 19-33.
5
si dice soltanto che “ festa coniunx obvios illi tulit/ gressus reditque iuncta concordi gradu 31 ” e
riserva ad Agamennone una fugace apparizione, mentre è affidato un ruolo di sommo rilievo alla
figura di Cassandra, tanto che Tarrant può parlare di una bipartizione 32.
In ossequio ai propri principi, Alfieri taglia recisamente il personaggio della profetessa,
puntando ad una maggiore semplicità dell‟intreccio e soprattutto all‟unità d‟azione, che la
sovrapposizione del motivo troiano a quello della vendetta tiestea di certo non favoriva 33. È questa
la causa che spinge l‟autore ad intraprendere audacemente l‟innovazione di eliminare la profetessa
dal sistema dei personaggi e non riserve di valore per “ il modo non certo felice con cui Seneca
elaborò il grande personaggio eschileo ”, come suggerisce Paratore34.
Gli spunti per integrare la propria opera sono ricercati poi in Eschilo, letto però nel compendio
francese del Brumoy, che Alfieri riprende a volte alla lettera. Le raccomandazioni che
l‟Agamennone alfieriano fa a Clitennestra perché abbia riguardo di Cassandra, schiava sì ma di
condizione regale (“ Dell‟arsa Troia (il sai) fra noi divise/ Le opime spoglie, la donzella illustre,/
Cui patria e padre il ferro achivo tolse,/ Toccava a me. […]/ Io di Cassandra/ Ben compiango il
destino: ma te sola/ Amo. Nol credi? a te Cassandra io dono,/ Del vero in prova: agli occhi miei
sottrarla/ Tu puoi, tu farne il piacer tuo. Ti voglio/ Sol rimembrar, ch‟ella è di re possente/ Figlia
infelice; e che infierir contr‟essa/ D‟alma regal saria cosa non degna ”35) corrispondono a quanto il
condottiero riferisce nel riassunto del Brumoy: “ il exhorte la reine à bien recevoir et à traiter avec
douceur Cassandre sa captive. “Car les dieux, dit-il, jettent des regards favorables sur ceux qui
sçavent adoucir leur empire; et nul mortel ne souffre volontiers l‟esclavage”. Il rehausse le mérite
de cette princesse malheureuse, qui étoit fille de Priam, et qui lui avoit été donnée comme ce qu‟il
y avoit de plus distingué dans les dépouilles des Troyens 36 ”. In entrambi i passi il re ricorda le
origini regali della profetessa e le circostanze che l‟hanno posta sotto la sua protezione, solo che il
personaggio senecano non deve scongiurare la gelosia della moglie.
In realtà tutta la scena dell‟incontro tra Clitennestra ed Agamennone, assente, lo ricordiamo, dal
testo senecano, è mutuata dalla riduzione del Brumoy, che descrive il ritorno in patria del
condottiero:
“ Allon, cher époux, descendez de ce char. Mais non: ne profanez point vos pas sacrés, ces pas du
destructeur d‟Ilion. Ça, qu‟on apporte les tapis les plus precieux. Il sied bien que la pourpre soit soulée
aux pieds d‟un roi triomphant qui rentre dans ses états. Je vais tout préparer pour le recevoir comme il
convient ”.
Ce discours apprêté, et qui tient lien des transports de joie, si naturels aux femmes qui revoyent leurs
maris, marque bien le caractère dangereux de Clytemnestre prête à tuer son époux, et l‟art infini
d‟Eschyle à faire parler ses personnages conformément à leurs passions même cachées. Il est clair que
31 L. A. Seneca, Agamemnon, cit., vv.780-781.
32 “ the first two acts present Agamemnon‟s murder in a familial setting; the themes stressed, known to us from
Aeschylus, are the selfperpetuation of crime and the danger of high position. The second part of the play, from the
entrance of the Trojan chorus (589), places the murder against the background of Troy‟s fall, developing a Euripidean
equation of conqueror and conquered and so demonstrating the emptiness of power under another aspect. Between
these main sections comes the narrative of Eurybates describing Agamemnon‟s return from Troy to Greece (421-578) ”
(R. J. Tarrant, Introduction a Seneca, Agamemnon, Cambridge University Press, Cambridge, 1976, pp. 4-5).
33 Cfr. G. Velli, Ispirazione e allusività nell‟ “ Agamennone ” dell‟Alfieri, in Id., Tra lettura e creazione. Sannazzaro
– Alfieri – Foscolo, Padova, Antenore, 1983, pp. 73-91: “ L‟azione drammatica viene poi condensata con la
soppressione dei personaggi secondari ( e questo secondo una precisa e costante e più volte teoricamente dichiarata
esigenza della poetica alfieriana); non solo: ma quello che in Seneca finisce per essere un vero sdoppiamento del
dramma (per le necessità della tesi del filosofo) per cui accanto alla vicenda di Clitennestra, Agamennone, Elettra –
cioè il dramma familiare del vincitore – c‟è, ed ha non minore peso, la triste condizione dei vinti cantata con toni di alta
eloquenza da Cassandra, viene a mancare in Alfieri: il poeta ha sentito con profondo intuito che i due drammi, lungi dal
trovare una superiore, dialettica unità poetica rimangono retoricamente giustapposti ed è intervenuto a tagliare senza
pietà ”.
34 E. Paratore, L‟ “ Agamemnon ” di Seneca e l‟“ Agamennone ” dell‟Alfieri cit.
35 V. Alfieri, Agamennone cit., IV, 5, vv. 270 e sgg.
36 P. Brumoy, Le Père, Les théâtre des Grecs, Paris, 1763, tome 3.
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Clytemnestre, sur le point de commetre une action si noire, n‟a point dû parler comme les autres
femmes. Aussi Agamemnon, quoiqu‟il ignore cette horrible conspiration, s‟apperçoit-il de ces manières
étudiées. Il lui fait même sentir, en passant, que son discours à été long et convenable a une si longue
absence. “Non, répon-t-il, il n‟est pas question de tant de préparatifs. Ne me traitez point en étranger ni
en femme, et encore moins en dieu. Point de ces tapis de prix sur mon passage. Un mortel doit craindre
de les souler. Cet honneur est réservé aux dieux. Ma renommée d‟ailleurs n‟a pas besoin de ces
distinctions frivoles pour publier ma victoire”. On voit par là le contraste d‟une femme détestable, ou
plutôt d‟une furie avec un roi pieux et populaire. […] Après ce petit combat de politesse affectée, où la
reine dit qu‟il est beau, même aux vainqueurs, de se laisser vaincre, le roi se laisse ôter sa chaussure de
voyageur, et en prend une de pourpre, toutefois avec quelque sorte de crainte que quelque dieu jaloux ne
l‟apperçoive. Il témoigne en descendant de son char qu‟il a honte de souler aux pieds des richesses si
précieuses. […] Il passe donc dans son palais sur la pourpre, avec la répungnance qu‟il a marquée; et la
reine lui dit, avec son affectation ordinaire, que la mer est inépuisable de pourpre ”ecc.
Emerge con insistenza nel brano la falsità di Clitennestra, che copre di attenzioni e di onori il
marito, mentre ne ha già decretata la morte e per contro la moderazione di Agamennone, re pieux et
populaire, che percepisce l‟artificiosità della donna. Nel testo alfieriano il carattere di Clitennestra
è profondamente lontano da quello dell‟eroina eschilea determinata e feroce, eppure l‟incontro con
il condottiero reduce sembra svolgersi secondo parametri analoghi. Nella redazione ultima
dell‟opera, Agamennone confida le proprie perplessità alla figlia riguardo all‟accoglienza ricevuta:
Entro mia reggia
Nuova accoglienza io trovo; alla consorte
Quasi stranier son fatto; eppur tornata,
Parmi, or essere appieno in sé potrebbe.
Ogni suo detto, ogni suo sguardo, ogni atto,
Scolpito porta e il diffidare, e l‟arte37
e alla replica di Elettra che cerca di giustificare la madre adducendo il lungo dolore della
separazione, cui è impossibile rimediare in un giorno, Agamennone ribatte:
Oh quanto
Meno il silenzio mi stupia da prima,
Ch‟ora i composti studïati accenti!
Oh come mal si avvolge affetto vero
Fra pompose parole!38
E ancora nel colloquio con la moglie, egli la esorta a manifestare apertamente le proprie emozioni:
S‟anco tu m‟odj, a me tu ‟l di‟: più cara
L‟ira aperta mi fia, che il finto affetto39.
Gli studiati accenti di cui si lamenta Agamennone corrispondono esattamente alle manières
étudiées del riassunto del Brumoy, così come l‟eccessiva loquacità di Clitennestra, che mal
rimpiazza il “ tacer […]/ Figlio d‟amor, che tutto esprime ”40 è percepita anche dal personaggio
eschileo, che osserva che il discorso della moglie è stato long et convenable a une si long absence,
mentre la “ pomposità ” delle parole impiegate si riferisce agli onori che la regina prodiga al marito
riluttante, impedendogli di profanare i suoi pas sacrées a contatto col suolo, e pretendendo che
avanzi sui tessuti più preziosi.
Che il testo alfieriano presupponga l‟ipotesto eschileo traspare soprattutto dalla stesura in prosa che
offre altri inconfondibili dettagli. Innanzitutto all‟arrivo del marito Clitennestra è in grado di
37 V. Alfieri, Agamennone cit., III, 1, vv. 3-8.
38 V. Alfieri, Agamennone cit., III, 1, vv. 24-28.
39 V. Alfieri, Agamennone cit., IV, 5, vv. 262-263.
40 V. Alfieri, Agamennone cit., III, 1, vv. 28-29.
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rispondere alle sue domande con una prontezza di accenti che perderà in seguito, sopraffatta
dall‟imbarazzo. Mentre infatti nella redazione finale ad Agamennone che le chiede ragione della
sua strana accoglienza la regina dà una risposta rotta ed incerta 41, nella stesura in prosa le sue
parole suonano sicure42 fino alla più sfrontata ipocrisia:
Signor mi mancano i detti ad esprimerti ciò ch‟io sento nel core: esprimerti, ridirlo non può lingua
umana. Lascia che un cotal poco io mi riabbia, non si può dal dolore alla gioja passare in un punto.
Mille, e mille son le cose che dirti vorrei, eppur nessuna ne trovo onde principiare. Agli Dei fia
necessario di correr ben tosto a ringraziarli dell‟inaspettato tuo arrivo; a pregarli di concederne d‟or
innanzi più felici giorni; più stabil pace, più sicura quiete43.
Ad opera terminata per Clitennestra non sarà più possibile fare un intervento così articolato e
neppure pronunciare frasi intere di fronte al marito tradito, tanto che la battuta si ridurrà al
trasognato “ Io mesta?… ”44 che riecheggia le ultime parole del condottiero (“ e Clitennestra sola/
Al mesto aspetto, al lagrimoso ciglio,/ Più non ravviso ”45). Spariranno del tutto invece le battute
smaccatamente false:
che altro può far Clitennestra se non approvare quanto fai; se non contribuire per quanto è in sua possa
alla tua massima felicità?46
Tale gratuita ostentazione d‟affetto è propria del personaggio eschileo, ma non della debole
protagonista alfieriana, troppo tormentata dal senso di colpa e dalla vergogna che le fa dire, una
volta appresa la notizia del prossimo arrivo di Agamennone:
Tremar non potrei tanto,
Se a certa morte andassi. Oh fera vista!
Orribil punto! Ah! donde mai ritrarre
Tal coraggio poss‟io, che a lui davante
Non mi abbandoni? Ei m‟è signor: tradito
Bench‟io sol l‟abbia in mio pensier, vederlo
Pur con l‟occhio di prima, io no, nol posso.
Fingere amor, non so, né voglio… Oh giorno
Per me tremendo!47
La ripugnanza per la finzione accomuna Clitennestra ai magnanimi personaggi della galleria
tragica alfieriana che sdegnano i rimedi suggeriti dall‟ “ arte ”, e conferma in sostanza il passato
virtuoso della donna e la sua aspirazione all‟innocenza ormai perduta, anche se il tradimento è stato
consumato finora solo nel pensiero. I passi della stesura estranei e opposti a questa linea
caratteriale vanno attribuiti all‟influenza del modello eschileo, come confermano le circostanze in
41 V. Alfieri, Agamennone cit., II, 4, vv. 198-202: “ Signor;… vicenda in noi rapida troppo/ Oggi provammo… Or da
speranza a doglia/ Sospinte, or dal dolore risospinte/ A inaspettato gaudio… Il cor mal regge/ A sì diversi repentini
affetti ”.
42 V. Alfieri, Agamennone cit., stes., II, 4: “ In un giorno istesso per sì diverse vicende si trapassò; che istupidito in noi
ogni senso, male esprimer ci lascia i nostri affetti ”.
43 V. Alfieri, Agamennone cit., stes., II, 4.
44 V. Alfieri, Agamennone cit., II, 4, v. 247. Cfr. V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile cit., pp. 195-196. Il critico
osserva che “ al sempre più disperato brancolare psicologico di Clitennestra è dato rilievo dalla insistente riduzione
delle battute a brevi interrogazioni o esclamazioni, spesso anzi a monosillabi: e l‟ansia esitativa, l‟ambiguità fra dire e
non dire e tra finzione e realtà sono prolungate dai puntini di sospensione, quasi inesistenti nelle prime stesure ”.
45 V. Alfieri, Agamennone cit., II, 4, vv. 245-247. Così anche qualche verso più avanti, quando Agamennone nota che
Clitennestra non gli ha ancora parlato di Oreste, la donna riesce solo a dire: “ D‟Oreste?… ” (v. 252).
46 V. Alfieri, Agamennone cit., stes., III, 4.
47 V. Alfieri, Agamennone cit., II, 2, vv. 134-142.
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cui sono pronunciati, vale a dire l‟imminente trionfo di Agamennone, richiamato ai festeggiamenti
proprio dalla donna:
Sposo. Fumano di già sugli altari i sacri incensi; bramoso il popolo di rivederti; i sacerdoti di compiere
il sacro rito, tutti impazienti attendono di vedere il Vincitore di Troja in Trionfo: le vie sparse di fiori; il
carro trionfale; l‟armata arde di celebrare le tue vittorie, ed il ritorno di tutti48.
A dire la verità, le celebrazioni trionfali sono caratteristiche del mondo romano e non greco, ma il
passo del Brumoy che abbiamo citato, reinterpretando l‟accoglienza fastosa di Clitennestra al
marito nella tragedia eschilea, si prestava alla confusione presentando Agamennone “ sur un char
comme un triomphateur de retour dans sa patrie ”, ricoperto di onori, a cui la moglie lo invita a
prender parte (e si badi all‟appellativo sposo, destinato a tramutarsi nel più gerarchicamente
distanziato signor dalla prima versificazione in poi).
Di fronte agli onori tributatigli l‟atteggiamento del condottiero rimane in tutte e due le opere
schivo: in Eschilo, Agamennone cede alle insistenze di Clitennestra, continuando a ritenere però
inopportuno che un mortale goda delle prerogative divine; così nella stesura alfieriana il re precisa:
Al Trionfo dunque m‟avvio; ma non crediate già che Agamennone insuperbito per la vittoria obbliar
possa le umane vicende49.
Resta da ricordare che la conoscenza del testo eschileo può anche aver agito sulla scelta di Alfieri
di ambientare la tragedia ad Argo anziché a Micene: se infatti Eschilo “ avoids in the Oresteia all
mention of Mycenae and places the home of the Atreidae in Argos ”50, in Seneca “ of the two
Mycenae is the more common, but a degree of inconsistency is ineradicable ”. A proposito
l‟edizione Gronovius posseduta da Alfieri pone la scena “ Argiis, vel Mycenis; utrubi nihil refert ”
e rimanda al Thyestes per una spiegazione più esauriente, dove, parlando del coro dei vecchi
Micenei, precisa: “ Mycenaeos ita intellige, ut etiam Argivi esse possint. Quod poëtae Argos
Mycenis confundunt ”.
La tragedia in origine senecana risulta dunque profondamente rimaneggiata da Alfieri, che la
riscrive avvalendosi soprattutto della mediazione francese – altre influenze provengono dalla
lettura delle tragedie di Shakespeare – che interviene su due livelli: fornisce elementi necessari alla
struttura dell‟intreccio (riduzione del Brumoy) ed appresta un adattamento della materia antica al
gusto contemporaneo (è il caso di Voltaire).
POLINICE
Opposte considerazioni occorre fare per il Polinice, in cui l‟apporto senecano è successivo rispetto
a quello esercitato dalla Thébaïde di Racine. Alfieri stesso nella Vita pone l‟opera sotto l‟egida
francese51, salvo poi inclinare per Stazio nel Parere. Di fatto, come ha messo in luce Carlo
Calcaterra, le due fonti sono compresenti: quando l‟autore “ aveva disteso il canovaccio francese,
aveva preso ispirazione dal Racine e dal Brumoy e perciò con tutta schiettezza nella Vita egli poi
attestò che il Polinice era nato “gallo”; ma, quando egli diede forma italiana alla tragedia, attinse
assai più dal poema staziano del Bentivoglio che non alla tragedia francese ”52. Del rapporto
intercorrente tra il Polinice e le sue fonti francesi si è già occupato Roberto Salsano 53; non resta
48 V. Alfieri, Agamennone cit., stes., III, 4.
49 V. Alfieri, Agamennone cit., stes., III, 4.
50 L. A. Seneca, Agamemnon, a c. di R. J. Tarrant cit., p.160
51 V. Alfieri, Vita cit., IV, 2, p. 195.
52 C. Calcaterra, La questione staziana intorno al “ Polinice ” e all‟ “ Antigone ”, in “ Giornale Storico della
Letteratura Italiana ”, XCIII, 1928, pp. 69-100; ripubblicato, in C. Calcaterra, Il Barocco in Arcadia cit., pp. 209-235.
53 R. Salsano, Saggio sul Polinice alfieriano, Roma, 1979. Sul Polinice cfr. ancora N. Impallomeni, Il “ Polinice ”
dell‟Alfieri, in “ Giornale Storico della Letteratura Italiana ”, XXI, 1893, pp. 70-116; V. Lugli, La Thébaïde e Polinice
9
dunque che individuare gli spunti senecani dovuti alla compilazione degli estratti nel 1776, e
verificare come si innestino all‟interno della tragedia.
Il dato più manifesto sembra essere l‟insistenza ossessiva sull‟incesto di Edipo quale antecedente
dell‟odio tra i due fratelli. Già Racine aveva ripreso da Seneca il rapporto causale tra i due episodi
del mito tebano, ma nella sua opera l‟irrazionalità mitica dello scontro tra fratelli che si odiano
finiva per essere controbilanciata dal problema tutto politico e razionale della legittimità dinastica
dei contendenti. Alterando i dati della vicenda così come si era configurata nella tradizione, Racine
finge che Edipo muoia prima della lotta per il trono, stabilendo per testamento l‟alternanza al
potere dei due eredi, trasformati nella tragedia francese in gemelli: “ roi régnant, Étéocle a l‟appui
de son peuple pour décréter ce que lui paraît conforme à l‟intérêt de la continuité de la monarchie
[…]. Roi virtuel, selon le seul droit testamentaire du roi précédent, Polynice n‟a aucune légitimité
royale aux yeux d‟Étéocle, le roi régnant; il met désormais en péril la continuité monarchique, et ce
d‟autant plus qu‟il cherche à appuyer son droit en dévastant son propre pays appuyé par des armées
étrangères ”54 .
La questione politica però viene meno in Alfieri: prova ne sia il fatto che le parole con cui nella
Thébaïde Eteocle argomenta la subordinazione della propria volontà e finanche della propria
persona al benessere dello Stato55 si degradano nel Polinice sulle labbra di Creonte, che se ne
avvale per lusingare il sovrano e scongiurare qualsiasi possibilità di conciliazione del conflitto.
L‟intervento più esplicito ed articolato della stesura in prosa italiana (presente però anche in quella
francese), “ Ma tu Signor non pensi, che sono i giorni tuoi a noi preziosi, utili, anzi necessarj allo
stato, e che pertanto tu stesso non ne sei l‟arbitro 56 ”, si contrae durante le versificazioni fino alla
redazione definitiva: “ Tua vita? oh! nol sai tu? nostra è tua vita57 ”. Bisogna poi dire che sia
Eteocle che Polinice nella tragedia alfieriana sembrano più interessati alla “ maestà ” del trono che
al trono stesso58: Eteocle non vuole abbandonare che con la vita la posizione regale, che sancisce la
sua superiorità, dovuta a una tensione vitalistica straordinaria; e, da parte propria, Polinice non
vuole subire un sopruso, che interpreta come un‟offesa alla sua dignità.
Rinunciando dunque alla dimensione politica del testo raciniano, Alfieri analizza le problematiche
inerenti all‟eredità di colpe del sangue di Edipo, ma quel che ci importa sottolineare è che questa
operazione viene eseguita grazie all‟apporto delle Phoenissae di Seneca, la cui immissione nella
struttura dell‟opera alfieriana già tracciata nelle stesure, lungi dal rivelarsi neutra, contribuisce a
modificare il sostrato ideologico della tragedia e consente un recupero di toni più accesi e di una
drammaticità esibita nei risvolti più torbidi, che l‟arte classicamente misurata di Racine si era
impegnata ad armonizzare.
Rispetto alla stesura in prosa infatti, la prima versificazione si arricchisce di numerose
aggiunte atte a rievocare la confusione generazionale prodotta dall‟involontario delitto di Edipo:
GIOCASTA: – Madre d‟Edippo,
E insiem d‟Edippo sposa, io soglio al nome
in Id., La cortigiana innamorata e altri saggi, Einaudi, Torino, 1972, pp. 36-48; F. Spera, Lettura del Polinice di
Vittorio Alfieri, in AA. VV., Studi vari di lingua e letteratura in onore di Giuseppe Velli, Bologna 2000, pp. 617-634.
54 G. Forestier, La Thébaïde ou les Frères ennemis. Notice, in Racine, Oeuvres complètes, edition présentée, établie et
annotée par G. Forestier, I, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, 1999, p. 1245.
55 J. Racine, La Thébaïde cit., I, 3, vv. 119-122, ET – “ D‟abord que sur sa tête il reçoit la Couronne,/ Un Roi sort à
l‟istant de sa propre personne,/ L‟intérêt du public doit devenir le sien,/ Il doit tout à l‟État, et ne se doit plus rien ”; I,
4, vv. 145-146, ET – “ Il la faut accuser si je manque de Foi,/ Et je suis son Captif, je ne suis pas son Roi ”. Va
aggiunto inoltre che Alfieri non adotta la modifica raciniana relativa alla morte di Edipo, mantenendosi fedele al testo
staziano che lo raffigura rinchiuso nelle “ sue oscure grotte ”, per cui cfr. C. Calcaterra, La questione staziana intorno
al “ Polinice ” e all‟ “ Antigone ” cit.
56 V. Alfieri, Polinice a c. di C. Jannaco, Asti, Casa d‟Alfieri, 1953, stes. I, 4.
57 V. Alfieri, Polinice cit., I, 4, v. 245.
58 V. Alfieri, Polinice cit., III, 2, vv. 66-72, GIO – “ Eppur, mostran suoi detti/ Che più di re la maestà gli (sc. ad
Eteocle) cale,/ Che il regno ”; II, 4, vv. 243-245, POL – “ Adrasto in Argo/ Scettro m‟offre: se regno io sol volessi,/
Già regnerei ”.
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Inorridir di Madre […]59
GIOCASTA: – Per lor forz‟è che doppio orrore ei senta
D‟esser de‟ proprii suoi Fratelli il Padre60
Nel testo senecano, che molto insiste sulle conseguenze dell‟incesto, il passo in cui Edipo dispiega
in sommo grado l‟orribile viluppo familiare è il seguente, riportato nella traduzione alfieriana:
EDIPPO: – Genero all‟avo, al padre suo rivale,
Padre de‟ suoi Fratei, Fratel de‟ Figlj
Cui l‟avola in un punto Figli diede
Ch‟erano a lei nipoti: […]61
Nella c. 3r il re tebano prosegue:
EDIPPO: – Uccisi il Padre, è ver, ma chi la madre
al par d‟Edippo amò?
Tinto, e fumante del paterno sangue, del Padre entrai nel letto; e d‟un delitto n‟ebbi
In prezzo un maggior-------------né ciò bastò,
Ch‟affin che fosse intera la scelleranza
A me Figlj la madre purtroppo diè------Odii, guerra, ed incendj, e stragi, e morti
Sovrastan lor, e se v‟ha peggio ancor[a]
Che giusto è ben, che sappia il mondo inter[o]
Che v‟ha figli d‟Edippo.
L‟immagine di Edipo che usurpa il talamo paterno “ tinto e fumante ” del sangue del genitore62
riaffiora nelle ultime parole di Giocasta in preda al delirio. Se nella stesura francese la donna
vedeva l‟ombra di Laio accoglierla nelle sue braccia insanguinate, in seguito alla ferita prodotta dal
figlio (“ par qui[?] par ton propre fils; et ce fils fut mon époux 63 ”), e nella traduzione italiana
l‟impiego del verbo “ contaminare ” conferiva una sfumatura sacrilega alla vicenda (“ Chi ti ferì;
oihmè, fosti dal proprio tuo figliuolo ucciso; e quel scelerato figlio contaminò da poi il tuo letto, e a
me fù sposo64 ”), è solo dalla prima versificazione che l‟immagine giunge a una più nitida
definizione, per cui, come nel testo senecano (“ in patrios toros/ tuli paterno sanguine aspersas
manus65 ”), la scansione in due tempi è annullata dalla compresenza iconica dei due delitti nel
simbolismo del sangue e del letto:
GIOCASTA: – Che ti piagò? Chi fu, se non Edippo
Quel tuo stesso Figliuol, che caldo ancora
Del sangue tuo, dentro al tuo letto accolsi[?]66.
59 V. Alfieri, Polinice cit., I vers. I, 1, vv. 5-7.
60 V. Alfieri, Polinice cit., I vers. I, 1, vv. 35-36.
61 Ms. Alfieri 4, c. 2v.
62 Questa espressione, impiegata da Alfieri nella traduzione di Seneca, deriva in realtà dal VII libro della Tebaide di
Stazio tradotta dal Bentivoglio cit., affine anche da un punto di vista contenutistico ai passi presi in considerazione. A
parlare è Giove che argomenta di fronte a Bacco la necessità di distruggere i discendenti di Labdaco, macchiatisi di
colpe contro natura (vv. 316-320): “ Penteo però le scelerate mani/ non avea tinte del paterno sangue,/ né compressa la
madre, e a sé i fratelli/ procreato nel talamo nefando,/ e pur fra gli orgii tuoi lacero cadde ”.
63 V. Alfieri, Polinice cit., stes., V, 3.
64 V. Alfieri, Polinice cit., stes., V, 3.
65 L. A. Seneca, Phoenissae, in Tragédies cit., vv. 267-268.
66 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., V, 3, vv. 229-231.
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Nella seconda versificazione l‟aggettivo “ caldo ” è sostituito da “ fumante ”67 e tale resta anche
nella redazione definitiva.
La traduzione considerata delle parole di Edipo pone inoltre l‟accento sulla continuità tra il padre e
i figli (“ Che giusto è ben, che sappia il mondo inter[o]/ Che v‟ha figli d‟Edippo ”) con
un‟espressione che verrà ripresa e glossata da Alfieri, presente solo nella prima versificazione,
nelle parole che Giocasta rivolge a Polinice:
Temi tu forse, che non sappia il mondo
Che v‟ha Figlj d‟Edippo? a render chiaro
Un tanto nome, ancor forse fà d‟uopo
Che sian fra lor nemici?68
L‟inizio stesso di questa battuta, a sua volta destinato a rimanere senza sviluppo, (“ Tu parli di
virtù, tu che prepari/ Nuovo delitto a Tebe? a Tebe avezza/ Già da tanti anni a rimirar delitti? ”) è
mutuato nondimeno dalla tragedia senecana (“ fratresque, (facinus quod novum, et Thebis fuit) / in
se ruentes ”69), che Alfieri traduce:
(Nuovo delitto a Tebe istessa), io veggio il Fratel
Al Fratel scagliarsi addosso70.
Sempre alla funesta eredità di Edipo vanno ricondotte le parole con cui Giocasta conclude
un‟accorata invocazione ai figli, invitandoli a colpire non il fratello ma la madre. La regina si
interpone tra Eteocle e Polinice con simili accenti anche in Racine, ma la domanda con cui la
propensione dei figli al delitto viene ricondotta ad Edipo (“ Non è maggior delitto, e non più degno/
Di voi Figli d‟Edippo 71? ”) deriva dal testo senecano:
Paterno amor, amor del giusto in loro
Più non rimane: in lor d‟armi, di sangue
E d‟inganni, e di Regno avidi solo
In lor crudeli, scellerati, e insomma
Per tutto in breve dir, miei degni Figlj72.
Essere “ degno figlio ” di Edipo significa proseguire lungo il sentiero criminale tracciato dal padre,
rendendosi colpevoli di più gravi infrazioni compiute in piena consapevolezza: è ciò che intende
Giocasta quando completa le parole di Eteocle che dichiara a un Polinice inferocito:
ETEOCLE: – Or dalla furie tue ben ti ravviso
Per mio fratello
GIOCASTA: – E per Figliuol d‟Edippo73.
Lo stesso Creonte, in un monologo alla fine dell‟atto II, eliminato fin dalla seconda versificazione,
prima di svelare le proprie mire sul trono tebano, rivolgendosi a Polinice che ha da poco
abbandonato la scena, dice:
Fà pompa di virtù: figliuol d‟Edippo
So che al par d‟Eteocle ancor tu sei;
67 V. Alfieri, Polinice cit., II vers., V, 3, v. 231.
68 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., II, 4, vv. 262-265.
69 L. A. Seneca, Phoenissae cit., vv. 549-550.
70 Ms. Alfieri 4, c. 4r.
71 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., II, 3, vv. 178-179.
72 Ms. Alfieri 4, c. 3r. Ancora, nella stessa carta, Edipo dichiara: “ Seguon l‟esempio mio i Figlj miei ”.
73 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., IV, 1, vv. 229- 230, p. 322. Nella redazione definitiva (IV, 1, vv. 200-201) si legge:
“ D‟Edippo or figli/ Veraci siete, e figli miei ”.
12
E da un tal nome ogni delitto io spero74.
La condanna degli eredi di Edipo a un destino criminale stabilito fin dalla nascita affiora nel testo
senecano nelle parole di Giocasta con cui nella versione degli estratti è segnato l‟ingresso della
donna in scena: Peperi nocentes75, tradotto dall‟astigiano “ Gli misi al mondo rei ”76.
Evidentemente Alfieri dovette molto apprezzare il fatalismo e l‟estrema concisione della battuta,
che riaffiora nella prima versificazione del Polinice. Già nella sc. 1 del I atto Antigone dichiara alla
madre:
Stavamo ancor nel tuo materno fianco,
Ed eravam già rei:
ed all‟affermazione perentoria vengono fatti seguire dei versi esplicatori, secondo quanto si è
osservato per un esempio precedente:
scritta ne‟ fati
Stà la nostra condanna, i mali nostri
Hanno principio appena77
mentre nella redazione definitiva è raggiunto un effetto di maggiore stringatezza ed elaborazione
stilistica grazie alla dolorosa enfasi dell‟anafora e alla simmetria della costruzione:
Noi, figli rei già dal materno fianco;
Noi, dannati gran tempo anzi che nati...78
Ancora nell‟atto IV, nella scena di falsa riconciliazione dei fratelli che prelude allo scontro mortale,
Giocasta chiede che le sia consegnata la coppa avvelenata:
Empi Fratelli;
Io son più rea di voi, quantunque iniqui
Siate dacchè nasceste79
L‟espressione, modificata nella successiva rielaborazione dei versi, non figurerà nell‟edizione
definitiva.
Anche i due protagonisti si rivelano consapevoli della condanna che grava su di loro, come si
evince dalle parole che Eteocle rivolge alla madre:
Madre, del Fato
Convien l‟ordin seguir: noi del delitto
Siam Figli entrambi: entro alle vene nostre
Serpe l‟orror col sangue80
nonché da quelle di Polinice, specie nel famoso brano in cui la Reggia viene assimilata a un
“ laberinto infame ”, dove i legami familiari finiscono con l‟essere stravolti fino al completo
sovvertimento, brano che dalla prima versificazione si arricchisce di nuovi accenti, in cui si può
74 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., II, 6, vv. 407-409, pp. 260-262.
75 L. A. Seneca, Phoenissae, cit., v. 369.
76 Ms. Alfieri 4, c. 3r.
77 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., I, 1, vv. 17-20.
78 V. Alfieri, Polinice cit., I, 1, vv. 16-17.
79 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., IV, 1, vv. 196-198.
80 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., IV, 1, vv. 239-242.
13
individuare lo sviluppo di un‟aspirazione dell‟Edipo delle Phoenissae (“ Io m‟affretto/ A morir
finchè de‟ miei, sono il più scellera[to] ”81):
E sol perchè finor più reo del Padre
Non mi seppi mostrar, voi dall‟averno
Respingetemi pur, finch‟io d‟Edippo,
Con delitti maggior la fama oscuri82.
La dimensione oltranzistica che spinge i figli a superare nelle colpe il padre li rende anche rivali tra
di loro, per cui l‟Edipo senecano può dire: Certant in omne facinus83 (nella traduzione alfieriana:
“ Gareggian ne‟ delitti ”84), non diversamente dalla Giocasta del Polinice:
qual di delitti
Scellerata contesa è mai codesta?85
Oltre al tema dell‟incesto posto all‟origine dell‟odio fratricida, la tragedia di Alfieri si avvale di
altri elementi desunti dal testo di Seneca. Consideriamo per esempio le parole che Giocasta rivolge
al figlio, che contende ad Eteocle il trono:
Ah di‟ piuttosto,
Ambizion funesta. Il Trono è dunque
De‟ tuoi voti l‟oggetto? e tu non sai
Quale infortunio è „l Trono? agli avi tuoi
Volgi „l pensier: senza delitti in Tebe
Un sol di lor Regnò? per quanto apprezzi
La tua virtù, la fama tua, deh lascia,
Lascia il trono a‟ spergiuri. Infame troppo
Il titol è di successor d‟Edippo.
Se vendicarti del Fratel tu brami,
Se vuoi che in odio a Tebe, a Grecia, al Mondo
Egli divenga un dì, lascia ch‟ei Regni86 .
L‟influenza delle parole della Giocasta senecana è piuttosto evidente: infatti nella scena in cui la
donna si confronta con Polinice, gli chiede di punire il fratello proprio permettendogli di continuare
a regnare: “ No non temer, che dura e grave pena/ Sarà dei suoi delitti il Regno istesso 87 ”. La
traduzione di questo verso è ritentata da Alfieri nella forma più concisa “ Avrà ben dura pena/ Ei
regnerà ”, con cui egli prova ad avvicinarsi maggiormente al lapidario Regnabit88 della tragedia
latina, operazione riservata negli estratti solo ai versi che più incontrano l‟apprezzamento del poeta.
Di contro allo stupore di Polinice, che pone in ben diversa considerazione il regno, la madre ribatte:
81 Ms. Alfieri 4, c. 3r. Nel brano senecano, non riprodotto integralmente da Alfieri negli estratti, Edipo esorta i figli a
superarlo nel delitto (Phoenissae cit., vv. 332-339: “ me nunc secuntur; laudo et agnosco libens,/ exhortor aliquid ut
patre hoc dignum gerant./ Agite, o propago clara, generosam indolem/ probate factis, gloriam ac laudes meas/ superate
et aliquid facite propter quod patrem/ adhuc iuvet vixisse. Facietis, scio:/ sic estis orti. scelere defungi haut levi, haut
usitato tanta nobilitas potest ”).
82 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., III, 3, vv. 188-191. Nella redazione definitiva (III, 3, vv. 189-191): “ Oh! forse/ Me
dall‟Averno respingete, o Erinni,/ Perch‟io finor men empio son di Edippo? ”.
83 L. A. Seneca, Phoenissae cit., v. 298.
84 Ms. Alfieri 4, c. 3r.
85 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., III, 3, vv. 262-263.
86 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., II, 4, vv. 207-218. Nella redazione ultima, Alfieri sposta all‟interno della battuta di
Giocasta un ulteriore inserto senecano, di cui si è già discusso, che in un primo tempo aveva introdotto in un punto
differente (II, 4, vv. 222-223: “ Temi tu forse,/ Non sappia il mondo ch‟ebbe figli Edippo? ”).
87 Ms. Alfieri 4, c. 4v.
88 L. A. Seneca, Phoenissae cit.,v. 646.
14
“ Nol credi? all‟avo, al Padre/ Rivolgi il tuo pensier, di Tebe il trono/ Impunemente qual di loro
ascese? ”89. Racine nella sua tragedia si era ugualmente servito del passo senecano, ma alterandolo
in maniera che non lascia dubbi sul recupero alfieriano del modello originario 90.
Nella stessa scena, la madre si rivolge a Polinice rinfacciandogli i legami stretti con Argo a danno
della propria città:
Ma que‟ legami che con Argo hai stretti
Parlan contro di te. Funesta dote
Tu richiedesti al suocero: la guerra91
in termini assai prossimi a quelli della Giocasta delle Phoenissae, “ Sol per aver/ Funesta guerra in
dote, genero dei nemici,/ Ospite loro, Immemore de‟ tuoi, tu divenisti92 ”. E quando il figlio si
rifiuta di riprendere la via dell‟esilio dopo esser stato oltraggiato, la regina ribatte:
Se non alle preghiere, al pianto almeno
D‟una misera Madre, a quel t‟arrendi
Dell‟infelice Patria tua: vuoi forse
Pria ch‟in Tebe regnar, distrugger Tebe?
Vuoi che augurio diventi al nuovo Regno,
Per te l‟odio di tutti?93
riprendendo le considerazioni della Giocasta senecana:
quella che
Regger vuoi Tebe, non struggi-----Ripatria[r]
Ti vuoi, la Patria perdi; per farla tua, annichilarla è d‟uopo?94
Gli scrupoli che Polinice manifesta nel far valere con le armi e a danno della sua patria le proprie
ragioni
Di Tiranno purtroppo il primo passo
Ho fatto già, nel violar con l‟armi
I più sacri diritti. Iniquo mezzo,
Per cui la giusta mia ragione, ingiusta
Forse n‟appar95
gli sono forse suggeriti dalle Phoenissae, in cui Giocasta afferma:
Giusta è la causa di colui, che „l Regno
Ripete dal Fratello: ingiusto è il modo.----96
89 Ms. Alfieri 4, c. 4v.
90 J. Racine, La Thébaïde cit., IV, 3, vv. 1281-1286: JOCASTE: – “ Si vous lui souhaitez en effet tant de mal,/ Élevezle vous même à ce trône fatal. / Ce trône fut toujours un dangereux abîme,/ La foudre l‟environne aussi bien que le
crime,/ Votre Père et les Rois qui vous ont devancés,/ Sitôt qu‟ils y montaient s‟en sont vus renversés ”.
91 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., II, 4, vv. 241-243.
92 Ms. Alfieri 4, c.3v, che traduce i vv. 510-511 delle Phoenissae, “ dotale bellum est. Hostium est factus gener,/ patria
remotus, hospes alieni laris ”.
93 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., II, 4, vv. 270-275.
94 Ms. Alfieri 4, c. 4r. Ma cfr. anche Racine, La Thébaïde cit., IV, 3, vv. 1144-1145: JOCASTE: – “ Voulez-vous sans
pitié désoler cette terre,/ Détruire cet Empire afin de le gagner? ”.
95 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., II, 5, vv. 311-315. Nella redazione definitiva (II, 6, vv. 281-282): “ E sia che può:
mezzo non voglio iniquo/ A ragion giusta ”.
96 Ms. Alfieri 4, c. 3r.
15
come sulla lezione della Medea, in cui Giasone invita la maga ad interrompere la conversazione
che si è protratta già troppo (“ Tronca il longo parlar, forse è sospetto ”97) sembrerebbero
modellarsi le cautele di Creonte che decide di rivelare a Polinice solo in un luogo sicuro l‟insidia
tesagli dal fratello:
Questa è la Reggia d‟Eteocle: a lungo
Troppo teco parlai: di già sospetto
Forse io sono al Tiranno: in altra parte
Forz‟è ch‟io ti favelli98
Ulteriori spunti derivati dalla lettura delle Phoenissae senecane non giungeranno fino alla
redazione ultima dell‟opera: è il caso dell‟espressione impiegata da Antigone per descrivere la
cecità del padre, non priva di suggestioni dantesche
il dolce lume
A sè, crudel ritolse99
cui si può accostare la traduzione alfieriana dell‟appello di Giocasta al figlio reduce dall‟esilio:
Pregoti per la vasta, e cieca fronte
Del Padre a sé crudele100.
così come della concessione della regina ai figli:
Io, che per farvi entrambi appien felici
Potrei viver perfin101
che ricorda l‟analogo cedimento dell‟Edipo delle Phoenissae di fronte alle preghiere di Antigone
(in un brano omesso negli estratti):
hic Oedipus Aegaea transnabit freta
iubente te flammasque quas Siculo vomit
de monte tellus igneos volvens globos,
excipiet ore seque serpenti offeret
quae saeva furto nemoris Herculeo furit;
iubente te praebebit alitibus iecur,
iubente te vel vivet102.
L‟analisi delle trascrizioni delle tragedie senecane fatte da Alfieri ci offre un altro interessante
dettaglio per il Polinice. Alla c. 4r del manoscritto infatti l‟esule respinge le richieste della madre,
rifiutandosi di pagare per la slealtà del fratello, tanto più che è privo di una dimora, per quanto
modesta:
liceat exiguo lare
pensare regnum. [Coniugi donum datus
97 Ms. Alfieri 4, c. 8v.
98 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., II, 3, vv. 395-398.
99 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., I, 1, vv. 38-39.
100 Ms. Alfieri 4, c. 4r. Il nesso “ cieca fronte ” deriva dal Bentivoglio (Tebaide cit., I, v. 59 “ le vuote cave de la cieca
fronte ”).
101 V. Alfieri, Polinice cit., I vers., I, 3, vv. 195-196.
102 L. A. Seneca, Phoenissae cit., vv. 313-319.
16
arbitria thalami dura felicis feram
humilisque socerum lixa dominantem sequar?]
In servitutem cadere de regno grave est103
Ho inserito tra parentesi i versi omessi da Alfieri, che andavano contro il suo gusto probabilmente
perché sminuivano la grandezza dell‟eroe. L‟autore ritrovava lo stesso concetto espresso dal
Polinice raciniano il quale, rispondendo alle parole di Hémon che pone sullo stesso piano un trono
ereditato per diritto di sangue ed uno acquisito tramite nozze regali, osserva:
Hémon, la différence est trop grande pour moi,
L‟un me ferait esclave, e l‟autre me fait Roi.
Quoi ma grandeur serait l‟ouvrage d‟une femme?
D‟un éclat si honteux je rougirai dans l‟âme.
Le Trône sans l‟amour me serait donc fermé?
Je ne régnerais pas si l‟on ne m‟eût aimé?104
Nell‟opera alfieriana si verifica una rimotivazione delle aspirazioni al trono di Polinice: se la
parentela recentemente contratta interviene ancora nelle argomentazioni esposte dal figlio di Edipo,
ben diverso è il ruolo che svolge:
Duro mio stato! Il cor squarcianmi a gara
Quindi la sposa, e il fanciul mio, piangenti,
Che amaramente dolgonsi del loro
Tolto retaggio105.
MIRRA
Un simile raffronto permette di compiere la Mirra alfieriana, la cui ispirazione deriva dalle
Metamorfosi di Ovidio, secondo quanto dichiara Alfieri nella Vita106 e nel Parere, ma viene
corroborata dall‟apporto di altre tragedie francesi, come gli studi al riguardo hanno già
sufficientemente dimostrato107, specie della Phédre di Racine che “ dava il modello più vicino e
suggestivo di una passione incestuosa portata sulla scena 108 ”. Significativo in proposito è il
confronto che lo stesso Alfieri stabilisce tra gli argomenti delle due opere all‟interno del Parere:
E certo, se Mirra facesse all‟amore col padre, e cercasse, come Fedra fa col figliastro, di
trarlo ad amarla, Mirra farebbe nausea e raccapriccio: ma, quanta sia la modestia,
l‟innocenza di cuore, e la forza di carattere in questa Mirra, ciascuno potrà giudicarne
per se stesso, vedendola109.
103 L. A. Seneca, Phoenissae cit., vv. 594-598.
104 J. Racine, La Thébaïde cit., IV, 3, vv. 1249-1254.
105 V. Alfieri, Polinice cit., II, 4, vv. 193-196.
106 V. Alfieri, Vita cit., IV, 14, pp. 258-259.
107 Sulle fonti della Mirra cfr. A. Illiano, Da scelus a innocenza: osservazioni sulla genesi e problematicità della
Mirra di Alfieri, in “Studi Piemontesi”, I, 1972, pp. 74-80; N. Impallomeni, La “ Mirra ” di Vittorio Alfieri, in “Rivista
d‟Italia”, VI, 1903, pp. 619-636; R. Mele, Illato lumine Dalle incendiate tenebre di Ovidio al silenzio bianco della
Mirra di Alfieri, in AA. VV., Ovidio: da Roma all‟Europa a c. di I. Gallo e P. Esposito, Napoli 1998, pp. 159-166.
108 A. Fabrizi, Mirra, in Id., Le scintille del vulcano, Mucchi, Modena, 1993, pp. 275-299; poi confluito in V. Alfieri,
Mirra, a c. di A. Fabrizi, Mucchi, Modena, 1996.
109 V. Alfieri, Parere sulle tragedie, in Parere sulle tragedie e altre prose critiche a c. di M. Pagliai, Asti, Casa
d‟Alfieri, 1978, p. 130.
17
La Mirra alfieriana, con la sua “ modestia ” ed “ innocenza di cuore ” si contrappone dunque a
Fedra che, invece di combattere il sentimento colpevole che nutre nei confronti del figliastro, gli
cede e se ne lascia travolgere fino alla catastrofe conclusiva.
L‟opposizione più netta tra innocenza e colpa si stabilisce però tra la Mirra e la Phaedra senecana,
rispetto alle quali il capolavoro di Racine svolge un ruolo di obbligata mediazione, come mi
appresto a dimostrare.
Negli estratti senecani del manoscritto laurenziano, Alfieri trascrive la Phaedra indugiando anche
sulla grande scena di confessione in cui la protagonista in persona rivela la sua passione ad
Ippolito; giunti al punto in cui la donna cade ai piedi dell‟amato e cerca di abbracciarlo nonostante
le sue ripulse, Alfieri scorcia la battuta del giovane:
Procul impudicos corpore a casto amove
tactus [: – quid hoc est? Etiam in amplexus ruit?]110
Il motivo di questa omissione si ricava dalle postille alfieriane alla tragedia senecana apposte venti
anni dopo la compilazione degli estratti, nell‟edizione Farnabius custodita a Montpellier 111, in cui,
giunti al verso incriminato, l‟astigiano scrive: “ Si amplexum hunc Messalinicum expuas, ut optime
Racine fecit, et si hiatus claudas, haec fere tota Scoena admirabilis est 112 ”. Sempre nelle postille
del 1796, Alfieri riconosce il merito dell‟originalità a Seneca per la creazione della scena assente
nella tragedia euripidea, ma loda al tempo stesso Racine per averla inserita nella propria Phédre
ripulendola delle parti meno poetiche: “ Gallus Racine perfectam et admirabilem Scoenam suam
hinc maximo cum criterio hausit, optima retinens et augens, mala tollens, frigida aut turgida
mutans. Sed inventor Scoenae hujus Seneca: non enim ab Euripide mutuavit ”.
E di fatto la protagonista raciniana, intimamente combattuta, pur rivelando il suo amore ad Ippolito,
non ne ricercherà (ma nemmeno ne eviterà) gli abbracci. Nell‟opera alfieriana un equivalente della
scena di confessione di Fedra si ha solo nell‟ultimo atto, in cui la protagonista si lascia sfuggire suo
malgrado il segreto che ha cercato di comprimere dentro di sé dall‟inizio dell‟opera. Prima che la
rivelazione avvenga, il padre, intenerito dallo stato di profondo turbamento della figlia, le si
avvicina per serrarla tra le braccia, ma la giovane reagisce in maniera imprevista:
O figlia
Unica amata; oh! che di‟ tu? Deh! vieni
Fra le paterne braccia. – Oh cielo! in atto
Di forsennata or mi respingi? Il padre
Dunque abborrisci?113
110 L. A. Seneca, Phaedra, in Tragédies cit., vv. 704-705; ms. Alfieri 4, c. 48r.
111 Senecae Tragoediae cum notis Th. Farnabii, Amsterdami apud Iohannem Blaeu, 1665. Sui volumi della biblioteca
alfieriana, cfr. C. Del Vento, “ Io dunque ridomando alla plebe francese i miei libri, carte ed effetti qualunque ”.
Alfieri émigré a Firenze, in AA. VV., Alfieri in Toscana cit., pp. 491-578.
112 C. Domenici, Seneca nel giudizio di Alfieri cit., p. 479.
113 V. Alfieri, Mirra, a c. di M. Capucci, Asti, Casa d‟Alfieri, 1974, V, 2, vv. 160-164. Anche nel resoconto della
vicenda di Mirra presente nelle Metamorfosi di Ovidio (par G. Lafaye, Les Belles Lettres, Paris, 1961, X, vv. 361-366),
il padre consola la figlia in lacrime, le asciuga le guance e la bacia, e “ Myrrha datis nimium gaudet ”. Credo però che il
contesto dell‟ultimo atto dell‟opera alfieriana si modelli piuttosto sulla scena di confessione di Fedra presente in
Seneca e Racine: come nell‟opera latina la regina ateniese rifiuta l‟appellativo di mater per invitare Ippolito a
chiamarla soror o meglio famula, eliminando col primo termine la distanza verticale – generazionale e gerarchica al
tempo stesso – col figliastro (ribaltata anzi in famula) e velando col secondo l‟incesto, nella Mirra la protagonista attua
un‟ambigua divaricazione tra il padre e Ciniro; inoltre come Fedra supplica il giovane di ucciderla con la sua spada,
Mirra, che aveva espresso lo stesso desiderio al padre dopo l‟interruzione della cerimonia nuziale (IV, 5, vv. 217-228),
riesce ora a suicidarsi strappandogli l‟arma dal fianco.
18
Si viene così ad instaurare una gradualità ben precisa tra la Fedra-Messalina di Seneca, la Phédre
“ ni tout à fait coupable, ni tout à fait innocente ”114 di Racine e la Mirra “ più innocente assai che
colpevole ”115 di Alfieri.
Ulteriore conferma giunge dal fatto che mentre nella tragedia di Seneca la nutrice è fin dall‟inizio
informata della passione della regina e nell‟opera francese Oenone riesce a farsi rivelare il segreto
solo dopo molte insistenze, nella Mirra alfieriana Euriclea rimarrà ignara fino alla catastrofe
conclusiva116. Trapela dal confronto l‟atteggiamento agonistico di Alfieri di fronte ai modelli:
scelto infatti come argomento della propria tragedia un amore incestuoso più ardito rispetto a
quello di Fedra per il figliastro, e di conseguenza più raccapricciante e nefasto, l‟autore riesce
tuttavia a fare della sua eroina un personaggio intimamente puro e degno di compassione, in quanto
“ quel che in essa è di reo non è per così dir niente suo, in vece che tutta la virtù e forza per
nascondere estirpare e incrudelire contra la sua illecita passione anco a costo della propria vita, non
può negarsi che ciò sia tutto ben suo 117 ”.
Il ruolo intermediario dell‟esperienza raciniana emerge in modo assai evidente anche dalle critiche
convergenti che i due autori moderni rivolgono alla tragedia antica: nella Préface alla Phédre
infatti Racine, a proposito dell‟accusa di stupro che la protagonista fa ricadere su Ippolito, osserva
che “ la Calomnie avait quelque chose de trop bas et de trop noir pour la mettre dans la bouche
d‟une Princesse, qui a d‟ailleurs des sentiments si nobles et si vertueux ”, pertanto “ corregge ” il
modello lasciando alla nutrice il compito di calunniare il giovane, mentre Fedra “ n‟y donne les
mains que parce qu‟elle est dans une agitation d‟esprit qui la met hors d‟elle-même ”. Da parte sua,
nelle postille agli estratti dell‟Alfieri 4, l‟autore piemontese giudica “ lupanarii digna118 ” la scena
in cui la nutrice chiama soccorso contro Ippolito per assicurarsi dei testimoni all‟interno della
reggia che confermino le sue accuse; e critica la dichiarazione che la regina fa a Teseo di aver
subito violenza da parte del figliastro: “ hoc vere impudentissime ait 119 ”.
Ancora Racine giustifica un‟ulteriore modifica ai modelli originari nella sua opera: “ Hippolyte est
accusé dans Euripide et dans Sénèque d‟avoir en effet violé sa Belle-Mère. Vim corpus tulit. Mais
il n‟est ici accusé que d‟en avoir eu le dessein ”. Non diversamente – come osserva la Domenici –
“ Alfieri avrebbe almeno preferito che, per diminuire la portata della sua menzogna, Fedra avesse
aggiunto “Et stuprum non perficiens” 120 ”. La scelta di Racine si deve alla volontà di “ épargner à
Thésée une confusion qui l‟aurait pu rendre moins agréable aux Spectateurs ”; dando il bando agli
eufemismi, Alfieri bolla il Teseo senecano come “ corniger121 ” e intento a dolersi “ nimium laesae
frontis122 ”.
Per il resto, il soggetto della Phédre possiede per Racine “ toutes les qualités qu‟Aristote demande
dans les Héros de la Tragédie, et qui sont propres à exciter la Compassion et la Terreur. […]
Phédre […] est engagée par sa destinée, et par la colère des Dieux, dans une passion illégitime dont
114 J. Racine, Préface alla Phédre, in Id. Oeuvres complètes cit., p. 817.
115 V. Alfieri, Parere sulle tragedie cit., p. 131.
116 Cfr. A. Fabrizi, Introduzione a V. Alfieri, Mirra cit., p. 19: “ Che la Mirra alfieriana non sveli a Euriclea il suo
segreto nasce, spiega giustamente il Parere, dalla necessità di conservare per tutta la tragedia l‟“innocenza” di Mirra.
In tal modo veniva modificata radicalmente, rispetto al testo ovidiano, che la definiva in Met. X 438 male sedula, e alla
tradizione, che la giudicava “infame” […] anche la figura della nutrice, cui si attribuiva una “virtù” e una sincera
preoccupazione aliena da ogni riprovevole complicità. Sul rapporto tra innocenza e colpevolezza in Mirra, cfr. A. Di
Benedetto, L‟“orrendo a un tempo ed innocente amore” di Mirra, in Id., Il dandy e il sublime. Nuovi studi su Vittorio
Alfieri, Olschki, Firenze, 2003, pp. 39-53; A. Franceschetti, Il tema dell‟incesto e la Mirra, in AA. VV., Critica e
linguistica tra „700 e „900. Studi in onore di Mario Puppo, Tiegher-Genova, 1989, pp. 23-48; Id., Mirra “empia” e
“innocente”, in AA. VV., Les innovations théâtrales et musicales italiennes en Europe aux XVIII e et XIXe siècles, cur.
I. Mamczarz, Paris, 1991, pp. 121-133; G. Semola, Alle radici della Mirra, “Critica letteraria” 28, 2000, pp. 589-606.
117 V. Alfieri, Parere sulle tragedie cit., p. 131.
118 Ms. Alfieri 4, c. 48r.
119 Ms. Alfieri 4, c. 49r.
120 C. Domenici, Seneca nel giudizio di Alfieri cit., p. 471.
121 Ms. Alfieri 4, c. 49r.
122 Ms. Alfieri 4, c. 49v.
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elle a horreur toute la première ”. Nondimeno per Alfieri, “ se lo spettatore vorrà pur concedere
alquanto a quella imperiosa forza del Fato, a cui concedeano pur tanto gli antichi, […] egli perverrà
a compatire, amare, ed appassionarsi non poco per Mirra ”, anzi è difficile trovare “ un personaggio
più tragico di questo per noi, né più continuamente atto a rattemprare sempre con la pietà l‟orror
ch‟ella inspira ”.
OTTAVIA
Alcune convergenze tra gli scritti di Alfieri e le Préfaces di Racine si possono individuare anche
per l‟Ottavia, tragedia di ispirazione tacitiana, come il Britannicus dell‟autore francese. Entrambi
gli autori, mentre esibiscono la fonte storica, relegano nel silenzio quella drammatica a cui
nondimeno attingono, vale a dire l‟Octavia pseudo-senecana, la cui autenticità non era ancora però
messa in discussione.
Nella seconda prefazione al Britannicus, scritta quando ormai il successo era raggiunto e si era
pacato l‟animoso dibattito sorto in seguito alla prima rappresentazione, Racine dichiara di aver
ritagliato il carattere dei suoi personaggi su quello fissato nelle pagine dell‟autore latino: “ J‟avais
copié mes Personnages d‟après le plus grand Peintre de l‟Antiquité, je veux dire d‟après Tacite. Et
j‟étais alors si rempli de la lecture de cet excellent Historien, qu‟il n‟y a presque pas un trait
éclatant dans ma Tragédie dont il ne m‟ait donné l‟idée 123 ”, come Alfieri non manca di fare nel
Parere, in cui ammette che “ questi caratteri tutti, se hanno qualche verità bellezza e grandiosità, è
tutta dovuta a Tacito. Io gli ho piuttosto tradotti e parafrasati, che creati ”.
In entrambi i passi a Tacito è riservato il merito della riuscita dei personaggi posti in scena, e
l‟intervento dei poeti è limitato alla sola drammatizzazione del resoconto storico: se Racine era
allora rempli de la lecture de cet excellent Historien, Alfieri, leggeva e rileggeva con trasporto gli
Annales124 ed ancora, se Racine considera Tacito le plus grand Peintre de l‟Antiquité, per
l‟astigiano egli è quell‟alto conoscitore degli uomini125, in un brano che attesta l‟apprezzamento
dell‟introspezione psicologica condotta dallo storico nelle sue opere. Mentre Alfieri, rinunciando
addirittura a ogni pretesa di originalità, mostra così la deferenza nutrita nei riguardi di uno dei suoi
autori preferiti, per Racine il nome di Tacito costituisce quasi un suggello di garanzia, che testifica
l‟autenticità della ricostruzione storica attuata nella tragedia. Accusato infatti dalla critica
contemporanea di aver alterato nelle precedenti pièces il carattere dei personaggi, facendo
sottomettere un Alessandro Magno e un Pirro ai dettami della passione, “ le tendre Monsieur
Racine ” decide di cimentarsi in un‟opera estranea alla sua consueta ispirazione, una tragedia per i
connaisseurs, per provare al tempo stesso la sua capacità di “ égaler le grand Corneille, le dépasser
peut-être, dans le domaine de la tragédie historique et politique où la gloire de son rival restait
solidement établie126 ”. Ma se davvero nella tragedia Tacito costituisce la più importante fonte, un
ruolo di tutto rilievo ha pure l‟Octavia pseudo-senecana, come ha evidenziato Herrmann127. Il
debito nei confronti dell‟autore latino è taciuto da Racine anche nel caso della Thébaïde, per cui
egli sfrutta ampiamente le Phoenissae. Tale atteggiamento si spiega con la deliberata volontà di
prendere le distanze da Seneca, classico “ anticlassico ” potremmo dire, eccentrico rispetto al
canone, come ben delucida Paratore, asserendo che “ col Racine ci troviamo in presenza di una
coscienza, o meglio di una tendenzialità critica che, a differenza dal Corneille, ha orrore o
vergogna di confessare di dovere un tributo all‟arte di Seneca, l‟autore caro al gusto barocco, a
123 J. Racine, Préface de “ Britannicus ”, in Id., Oeuvres complètes cit., p. 443.
124 V. Alfieri, Vita cit., IV, 7, p. 221.
125 V. Alfieri, Della Tirannide, in Id., Scritti politici e morali, a c. di P. Cazzani, Asti, Casa d‟Alfieri, 1951, vol. I, II,
4, p. 91.
126 M.-O. Sweetser, Racine rival de Corneille: “ innutrition ” et innovation dans Britannicus, in “Romanic Review”
LXVI, 1975, pp. 13-31.
127 L. Herrmann, Octavie source de Britannicus, in “Bullettin de l‟Association Guillaume Budé”, 7, avril 1925, pp.
15-28.
20
quello che la battagliera generazione degli anni sessanta riteneva appendice dell‟aborrito gotico,
giudicando solo i tragici greci come modelli da seguire e da riconoscere espressamente128 ”.
L‟ispirazione tacitiana convive a sua volta nella tragedia di Alfieri con quella senecana, che
fornisce un contributo decisivo per la realizzazione della figura del tiranno, un mostro sanguinario
che non possiede la complessità del personaggio degli Annales, “ in cui si fondono verità storica ed
elementi derivanti dal diffuso topos del tiranno 129 ”.
È possibile però che Alfieri si sia sentito invogliato a scrivere una tragedia sulla sorte dell‟infelice
figlia di Claudio per sviluppare un nucleo poetico potenziale venuto meno nella composizione
raciniana prima di essere adeguatamente sfruttato: mi riferisco alla presenza/assenza nel
Britannicus del personaggio della triste Octavie, che non compare mai in scena. Se Albine nella
tragedia osserva che “ à peine parle-t-on de la triste Octavie130 ”, ha però ragione Herrmann a
controbattere che “ il est en réalité fort souvent question de la soeur de Britannicus 131 ”, infatti la
giovane viene spesso nominata, in contesti che ne evidenziano la sofferenza e il pianto, senza
considerare che si potrebbero forse individuare delle affinità tra Giunia, la giovane innamorata di
Britannico e l‟Ottavia alfieriana, la quale potrebbe dire a sua volta di aver visto “ presque en
naissant éteindre sa Famille ”, vivendo ritirata e nel dolore (“ Qui dans l‟obscurité nourissant sa
douleur/ S‟est fait une vertu conforme à son malheur 132 ”).
L‟analisi della tragedia permette inoltre di rintracciare alcuni spunti raciniani: il primo atto si apre
infatti con una formula di allocuzione, “ Signor del mondo133 ”, che costituisce un calco del
francese “ Maître du monde ”, con cui è chiamato Nerone134 nel Britannicus, mentre un‟altra spia
verbale che collega le due opere è data dall‟autodefinizione del personaggio di Giunia, “ seul reste
du débris d‟une illustre Famille 135 ”, come Ottavia risulta in Alfieri “ de‟ Claudi ultimo
avanzo136 ”. Se è pur vero che l‟espressione deriva dalla praetexta, in cui l‟eroina parla di sé come
ombra del nome di una grande famiglia (“ magni resto nominis umbra137 ”), la dipendenza
alfieriana da Racine è confermata dalla prima versificazione dell‟opera, in cui Seneca si rivolge alla
giovane chiamandola “ o d‟infelice/ Non men che illustre sangue ultimo avanzo 138 ”, in cui
l‟aggettivo illustre ripete da vicino il modello francese.
128 E. Paratore, Seneca tragico e la poesia tragica francese del siècle d‟or, in Id., Dal Petrarca all‟Alfieri cit., pp.
313-350. Lo studioso ipotizza a buon diritto che “ il Britannicus sia debitore all‟Octavia della sua struttura
complessiva. In entrambe le tragedie il giovane autocrate romano compie un delitto sotto lo stimolo di una insana
passione amorosa; nella tragedia romana manda a morte la moglie che è anche la sua sorellastra, in quella francese fa
morire il fratellastro, il fratello di Ottavia, sua vittima nell‟altra tragedia; e in entrambi i casi le vittime sono gli ostacoli
al trionfo della sua passione. […] Come nell‟Octavia il dominio sullo spirito di Nerone è conteso fra il moralista
Seneca, che tenta di guarirlo dalla malefica inclinazione, e il praefectus (indubbiamente Tigellino) che lo asseconda,
così il Racine ha fatto combattere fra loro, per conquistare lo spirito dell‟imperatore, l‟austero Burro e il malvagio
Narcisso, il pedagogo di Britannico che lo tradisce per ingraziarsi l‟imperatore ”.
129 L. A. Seneca, Ottavia, a c. di E. Barbera, Argo, Lecce, 2000, p. 186.
130 J. Racine, Britannicus cit., I, 1, v. 83.
131 L. Herrmann, Octavie source de Britannicus cit. Lo studioso accosta anche il nesso “ triste Octavie ” a “ tristis
alumnae ” dell‟Octavia, in Tragédies cit., v. 73.
132 J. Racine, Britannicus cit., II, 3, vv. 612-614.
133 V. Alfieri, Ottavia, a c. di A. Fabrizi, Asti, Casa d‟Alfieri, 1973, I, 1, v. 1. Ma cfr. anche l‟Octavia cit., v. 250,
“ orbis tyrannus ” cui sembra contrapporsi la definizione di Britannico quale “ sidus orbis ” (v. 168).
134 Cfr. J. Racine, Britannicus cit., I, 2, v. 180.
135 J. Racine, Britannicus cit., II, 3, v. 556.
136 V. Alfieri, Ottavia cit., I, 3, v. 160.
137 L. A. Seneca, Octavia cit., v. 71. Va aggiunto che negli Annales (XIII, 17) Britannico viene definito da Tacito
“ supremum Claudiorum sanguine ”, tradotto da Alfieri, con ripresa della formula impiegata nella tragedia,
“ quell‟ultimo avanzo de‟ Claudi ” (cfr. V. Alfieri, Appunti di lingua e traduzionaccie prime, a c. di C. Jannaco,
Torino, 1946).
138 V. Alfieri, Ottavia cit., I vers., III, 1, vv. 1-2. La II vers. (III, 1, vv. 2-4) presenta delle modifiche: “ O Donna,/ Di
sangue illustre, non men ch‟infelice,/ Ultimo avanzo ”, mentre nella redazione finale questi versi risultano eliminati.
21
Un caso analogo di sovrapposizione di fonti si ha ai vv. 199-203, che aprono la sc. VI del secondo
atto, in cui Ottavia, rientrata a Roma, si rivolge a Nerone:
Tra ‟l fero orror di tenebrosa notte,
Cinta d‟armate guardie, trar mi veggo
In questa reggia stessa, onde, ha due lune,
Sveller mi vidi a viva forza.
Ora, l‟immagine della fragile principessa attorniata dalle guardie figura nella narrazione tacitiana
(“ Ac puella vicesimo aetatis anno, inter centuriones et milites ”… ecc. 139), nel punto in cui si
approssima la sua uccisione, ed è implicita nelle scene finali della praetexta, in cui l‟eroina chiede
dove la trascinino140, perdendo ben presto la speranza che il tiranno acconsenta a lasciarla in vita.
Secondo Herrmann la scena della tragedia latina potrebbe aver ispirato il famoso enlèvement di
Giunia141 nel Britannicus, descritto da un Nerone amoureux:
Excité d‟un désir curieux
Cette nuit je l‟ai vue arriver en ces lieux,
Triste, levant au Ciel ses yeux mouillés de larmes,
Qui brillaient au travers des flambeaux et des armes,
Belle, sans ornement, dans le simple appareil
D‟une Beauté qu‟on vient d‟arracher au sommeil.
Que veux-tu? Je ne sais si cette négligence,
Les ombres, les flambeaux, les cris, et le silence,
Et le farouche aspect de ses fiers ravisseurs
Relevaient de ses yeux les timides douceurs142.
I versi raciniani di mirabile fattura che sembrano fissare l‟immagine di un quadro di Rembrandt 143
sono a mio avviso quelli cui Alfieri si ispira per la sua tragedia: a parte la similarità delle
circostanze (l‟eroina è in entrambi i casi rapita per essere presentata al cospetto di Nerone e non per
essere allontanata da Roma in vista della sua morte, come nelle fonti latine), perché Ottavia
verrebbe richiamata alla corte di notte – e in una notte le cui tenebre contrastano coloristicamente
con i bagliori di fiamma del brano raciniano – se non perché proprio di notte era stata rapita
Giunia?
Passando ad analizzare i personaggi secondari, risulta interessante osservare come Seneca nel
Britannicus non venga escluso solo dalle riflessioni critiche con cui Racine accompagna la sua
produzione artistica, ma risulti persino bandito dalla tragedia stessa, in cui il ruolo che gli sarebbe
spettato di diritto viene occupato da Burro e ciò non senza alterazione della verità storica
tramandata da Tacito, cui pure l‟autore cercava di attenersi più fedelmente possibile 144: in
139 P. C. Tacitus, Annales, par P. Wuilleumier, Les Belles Lettres, Paris, XIV, 64.
140 L. A. Seneca, Octavia cit., vv. 899 e sgg.
141 L. Herrmann, Octavie source de Britannicus, cit.: “ D‟autre part l‟enlèvement de Junie a pu être inspiré par les
scènes finales d‟Octavie, où l‟on voit la femme de Néron environnée elle aussi de „mille affreux soldats‟ ”. Il
riferimento è alle parole di Britannico (I, 3, vv. 291-292): “ De mille affreux Soldats Junie environnée/ S‟est vue en ce
Palais indignement traînée ”. Cfr. anche R. W. Tobin, Néron et Junie: fantasme et tragédie, in AA. VV., Racine
Britannicus, a c. di P. Ronzeaud, Klincksieck, 1995, pp. 177-188.
142 J. Racine, Britannicus cit., II, 1, vv. 385-394. Ben diverso è il tono del Nerone alfieriano che desidera vedere la
moglie “ qui di mie guardie cinta ” (V. Alfieri, Ottavia, I, 3, v. 241).
143 Cfr. E. M. Zimmermann, La lumière et la voix. Étude sur l‟unité de Britannicus, in AA. VV., Racine Britannicus
cit., pp. 71-83; S. Doubrovsky, L‟arrivée de Junie dans Britannicus: la tragédie d‟une scène à l‟autre, in AA. VV.,
Racine Britannicus cit., pp. 105-129
144 Cfr. L. Herrmann, Octavie source de Britannicus cit.: “ Il est intéressant de remarquer que c‟est une fois de plus
sur Tacite (Annales, XIII, 2; XIV, 51) que Racine prétend s‟appuyer pour motiver le remplacement de Sénèque par
Burrhus. Or Racine fait dire par Burrhus (III, 2, v. 805-806): Sénèque, dont les soins me devraient soulager/ Occupé
loin de Rome ignore ce danger, alors que Tacite indique que Sénèque était présent lors de l‟attentat ”.
22
contrasto con essa, infatti, il filosofo è immaginato assente da Roma (“ Sénèque, dont le soins me
devraient soulager,/ Occupé loin de Rome ignore ce danger ”).
Sembra che l‟opera possa reggere a un lavoro di riscrittura che poco muterebbe se al personaggio
di Burro si sostituisse il filosofo, di cui anzi il prefetto del pretorio assume battute e atteggiamenti,
avvalendosi dell‟apporto del Seneca “ storico ”, quale appare tratteggiato da Tacito, e
“ drammatico ”, quale personaggio della praetexta, per cui i critici si sono spesso interrogati sulle
ragioni di questa sostituzione 145 che Racine indica nella seconda prefazione alla tragedia, in cui
contrappone il personaggio di Burro allo scellerato Narcisso, servitore corrotto di Britannico:
J‟ai choisi Burrhus por opposer un honnête homme à cette Peste de Cour. Et je l‟ai choisi plutôt que
Sénèque. En voici la raison. “ Ils étaient tous deux Gouverneurs de la jeunesse de Néron, l‟un pour les
armes, l‟autre pour les Lettres. Et ils étaient fameux, Burrhus pour son expérience dans les armes et pour
la sévérité de ses moeurs ”, militaribus curis et severitate morum, “ Sénèque pour son éloquence et le tour
agréable de son esprit ”, Seneca praeceptis eloquentiae et comitate honesta. “ Burrhus après sa mort fut
extrêmement regretté à cause de sa vertu ”, Civitati grande desiderium ejus mansit per memoriam virtutis.
Come si vede, Racine, riprende degli squarci degli Annales tacitiani (XIII, 2; XIV, 51), senza però
pronunciarsi esplicitamente sulla ragione della preferenza accordata a Burro, tanto da aver lasciato
adito alle più varie interpretazioni. Mi sembra però che si possano considerare definitive le
conclusioni di V. Schröder146, secondo cui la virtù del prefetto del pretorio appariva più solida di
145 Cfr. R. Barthes, Sur Racine, Paris, 1963, p. 87: “ Comme conseiller vertueux, l‟Histoire suggérait plutôt Sénèque.
Racine a craint que l‟intellectuel ne s‟opposât pas suffisamment au cynique, il lui a substitué un militaire qui ne sait pas
parler ”; R. Pommier, Etudes sur Britannicus, Sedes, Paris, 1995, p. 90: “ Racine a choisi Burrhus parce qu‟il lui fallait
une figure qui incarnât la vertu, et il a choisi Burrhus plutôt que Sénèque parce que celui-ci avait la réputation de parler
admirablement de la vertu, mais de la pratiquer beaucoup moins bien ”; diversamente L. Herrmann, Octavie source de
Britannicus cit., considerando che il personaggio di Burro risulta idealizzato nella tragedia (e quindi simile
idealizzazione poteva subire anche Seneca, delle cui colpe Racine si fa scudo per giustificare la sua assenza nell‟opera),
scrive che l‟autore “ a cru devoir substituer Burrhus à Sénèque parce que ce dernier était un des personnages d‟Octavie
et parce qu‟il jouet dans cette tragédie un rôle de second plan indigne de lui. Là encore l‟influence de la pièce latine a
été négative en ce sens qu‟Octavie a indiqué à Racine un défaut à éviter. Mais elle a été aussi positive, car le Burrhus
racinien réunit certains traits de caractère du Sénèque d‟Octavie à ceux du préfet qui résiste aussi avec une vertu et un
courage dignes d‟un meilleur sort aux volontés criminelles de Néron (cf. Octavie v. 849, etc., v. 856, v. 864) ”; si
presenta ardua la tesi di R. W. Tobin, Jean Racine revisited, New York, 1999, p.75: “ if history names both Burrhus
and Seneca as the emperor‟s guides, Racine preferred to present only Burrhus because the public would expect Seneca
to be censorious whereas Racine needed a complacent and “flexible” figure – a former soldier used to taking orders ”;
E. Paratore, Seneca tragico e la poesia tragica francese del siècle d‟or cit.: “ E sarebbe interessante tema d‟indagine
studiare la sostituzione di Burro a Seneca operata dal Racine nel compito di tutore della virtù: sostituzione tanto più
inattesa in quanto è stato sempre ben noto che Agrippina aveva collocato proprio Seneca accanto a Nerone per educarlo
e consigliarlo. Effetto della programmatica tendenza del Racine a mostrarsi indipendente da Seneca o influsso di
Tacito, che presenta Burro forse più coerente e saldo di Seneca nel preservare i boni mores nell‟intricata situazione
politica in cui l‟inframmettenza di Agrippina gettava Nerone, che in Annal. XIV, 7 aveva fatto proporre da Seneca an
militi imperanda caedes esset ai danni di Agrippina, e aveva fatto respingere la proposta di Burro, e in XIV, 52 afferma
che mors Burri infregit Senecae potentiam, quia nec bonis artibus idem virium erat altero velut duce amoto, influsso
cioè dello storico che aveva rappresentato quella corrente poco tenera per Seneca, di cui il Racine era ben lieto di
raccogliere l‟eredità per non farsi accusare di eccessiva simpatia verso l‟autore biasimato dai classicisti per la sua
tenebrosa gonfiezza? ”.
146 V. Schröder, La tragédie du sang d‟Auguste. Politique et intertextualité dans Britannicus, Tübingen, 1999, pp. 137
e sgg. Tra le altre considerazioni, lo studioso osserva che, nella prefazione raciniana citata, “ le tour agréable de son
esprit est une traduction bien étrange de comitas honesta: cette expression désigne chez Tacite une „amabilité sans
compromission‟, „un agrément mêlé de noblesse […] Sénèque sait plaire tout en restant dans l‟honneur‟. Dans la
version tendencieuse de Racine rien ne subsiste de cette qualité honorable – l‟adjectif honnête est décerné à Burrhus.
Comme l‟a montré Roger Zuber, la seconde préface de Britannicus reprend en grande partie les tournures de Perrot
d‟Ablancourt: ainsi, la première phrase sur Burrhus et Sénèque (“ Ils étaient tous deux… ”), aussi bien que l‟éloge de la
vertu de Burrhus sont directement empruntés au traducteur des Annales. Mais pour opposer le caractère de deux
gouverneurs de Néron, Racine préfère donner une traduction personelle qui, dans le cas de Sénèque, est en effet une
belle infidèle: elle crée une image nettement moins vertueuse du philosophe que ne le fait la formule équilibrée de la
comitas honesta. La manière dont Racine fait figurer Sénèque dans ses préfaces – citation de l‟Apocoloquintose, accent
mis sur son ingenium amoenum plutôt que sur sa comitas honesta – me semble ainsi exprimer des réserves, aussi
23
quella del filosofo 147, quindi “ le dramaturge exclut l‟homme, mais il inclut ses paroles 148 ”
affidandole al più austero collega, anche se l‟idealizzazione di Burro presenta inevitabilmente dei
limiti149.
Il Seneca dell‟Ottavia assume alcuni tratti di questo personaggio 150, ma gli si oppone per una più
partecipe collaborazione al governo neroniano che lo coinvolge fino alla complicità nei crimini
dell‟imperatore: mentre infatti nella tragedia raciniana il prefetto risponde ad Agrippina “ avec la
liberté/ D‟un Soldat, qui sait mal farder la vérité 151 ”, in Alfieri, Nerone pretende che Seneca alteri
la verità dei fatti, azione di cui in passato si è già reso colpevole, per poter compiere ogni delitto
senza incorrere nel biasimo popolare:
Me già scolpasti dei passati falli;
Prosiegui; lauda, e l‟opre mie colora;
Ch‟è di alcun peso il parer tuo152
il verbo colorare trova precisa corrispondenza nel farder della tragedia francese, che figura in
entrambe le opere nel primo atto, con il risultato di sottolineare sin dall‟inizio da una parte
l‟integrità di Burro, dall‟altra la compromissione di Seneca 153, e la corrispondenza risulta
rafforzata dalle parole che Racine scrive nella seconda prefazione, in cui, nel presentare Nerone, lo
descrive come “ un Monstre naissant, mais qui n‟ose encore se déclarer, et qui cherche des couleurs
à ses méchantes actions, Hactenus Nero flagitiis et sceleribus velamenta quaesivit ”.
La maggiore stima per Burro, che Alfieri condivideva con Racine, emerge da un passo dell‟Ottavia
in cui il prefetto è contrapposto a Seneca nelle parole di Poppea:
Col suo rigor del taciturno aspetto
Burro tremar nol fea? non l‟atterrisce
Perfin talvolta ancor, garrulo, e vuoto
D‟ogni poter, col magistral suo grido
discrètes que sérieuses, sur la moralité de cet écrivain vaniteux, opportuniste, richissime, bien éloigné de cette sévérité
des moeurs qui est le privilège de l‟honnête homme Burrhus ”. Si può osservare per inciso come, nella traduzione dello
stesso passo, Alfieri renderà il nesso comitas honesta con il solo aggettivo urbano, sottolineando a sua volta la
politesse di Seneca nei rapporti sociali (cfr. V. Alfieri, Appunti di lingua e traduzionaccie prime cit.).
147 Sempre Schröder, op. cit., p. 135, informa che nel frontespizio delle Maximes di La Rochefoucauld “ l‟Amour de
la vérité retire au buste de Sénèque le masque et les lauriers ”.
148 V. Schröder, La tragédie du sang d‟Auguste. Politique et intertextualité dans Britannicus cit., p. 140. Altre
motivazioni di carattere contingente avrebbero inoltre potuto spingere Racine a confermare la scelta di Burro, come lo
studioso sostiene nelle pp. 108 e sgg. del suo saggio: “ le septembre 1668, Louis XIV a pour son fils élu un gouverneur,
le duc de Montausier, réputé pour ses exploits militaires et son austérité morale ”, che dunque poteva trovare una
corrispondenza in Burro, piuttosto che in Seneca, tenendo conto anche della separazione dei ruoli di gouverneur e
précepteur nell‟educazione del principe, l‟uno preposto alla “ formation militaire, politique et morale ”, l‟altro
“ responsable de l‟education historique et littéraire ”.
149 Riserve sul Burro di Racine che la critica contemporanea aveva mostrato di apprezzare, sono avanzate da J. Rohou,
Étude d‟un personnage racinien: le complaisances du vertueux Burrhus, in AA. VV., Racine Britannicus, a c. di P.
Ronzeaud, Klincksieck, 1995, pp. 163-175, oltre che dallo stesso Schröder, op. cit., pp. 140-141.
150 Si consideri come, dopo l‟uccisione di Britannico, l‟esclamazione del prefetto del pretorio (Britannicus, V, 8, v.
1722): “ Ah Madame, por moi j‟ai vecu trop d‟un jour ”, corrisponda a quella del filosofo che, di fronte alla necessità
del suicidio di Ottavia, dice (Ottavia, V, 4, v. 129): “ …Oh giorno infausto! Or perché vissi io tanto? ”; mentre poi la
tragedia francese si chiude con l‟augurio di Burrhus (Britannicus, V, scène derniére, v. 1788: “ Plût aux Dieux que ce
fût le dernier de ses crimes! ”) che l‟assassinio del figlio di Claudio sia l‟ultimo crimine di Nerone, la prima scena del
primo atto dell‟Ottavia, vv. 65-67 mostra Seneca disilluso: “ Ahi stolto,/ Ch‟io allor credetti, che Neron potria/ Por fine
al sangue col sangue materno! ”.
151 J. Racine, Britannicus cit., I, 2, vv. 173-174.
152 V. Alfieri, Ottavia cit.,I, 1, vv. 87-89. Cfr. anche II, 6, vv. 309-310, in cui Ottavia dice a Nerone: “ già in colorar le
tue vendette/ Roma è dotta ”.
153 Il filosofo stesso riconosce la propria colpa e, a Nerone che gli ricorda (IV, 2, vv. 99-101) di essersi spesso servito
in passato del suo aiuto per ingannare il popolo, ribatte: “ Colpevol spesso/ Anch‟io: ma in corte di Nerone io stava ”.
24
Seneca stesso?154
L‟espressione magistral suo grido traduce chiaramente la professoria lingua degli Annales155 di
Tacito, in un brano in cui Agrippina denigra i due precettori del figlio. Nei versi della tragedia
comunque l‟antitesi tra i due personaggi non potrebbe essere più netta, e tutta a svantaggio del
filosofo: mentre Burro induce a rispetto con il suo atteggiamento dignitoso e grave, improntato a
una certa austerità soldatesca, Seneca risulta sguarnito di un reale potere e garrulo, in
contrapposizione al taciturno aspetto del collega.
In definitiva Alfieri condivide il giudizio negativo di Racine sulla figura di Seneca, tanto più che
per lui era impossibile separare il personaggio biografico dall‟opera, è il giudizio sull‟uomo a
determinare quello sugli scritti: nel Principe156 il tragico, dopo aver spiegato come sommi possano
essere solo coloro che possiedono l‟impulso naturale, differenziandolo dall‟artificiale, osserva che
“ a voler conoscere quale dei due impulsi movesse un dato scrittore, molte volte basta, senza quasi
leggere il libro, il saper chi fosse lo scrittore, cioè in quali circostanze, tempi e luoghi ei scrivesse ”.
È per questo che non riesce ad apprezzare fino in fondo neanche il più grande dei poeti latini,
Virgilio, vissuto alla corte di Augusto, considerando la sua produzione caratterizzata da “ vil
sublimità ”, per quanto nella Vita non esiti a lodarne lo stile, fino a riconoscersene debitore157.
A differenza di Virgilio, Seneca non si era limitato a godere della protezione dell‟imperatore per
dedicarsi all‟attività poetica privo di preoccupazioni materiali, ma aveva svolto un ruolo più
attivo presso Nerone, divenendone il precettore, guidandolo nei primi anni di regno,
compromettendosi con la gestione del potere e facendo venire a patti due entità irriducibilmente
estranee e nemiche: il principe e il letterato. Sull‟impossibilità di una collaborazione e persino di
un qualsiasi positivo rapporto tra i due, l‟astigiano è molto perentorio nel Principe, ideato nel
1777 e steso a più riprese fino al 1780, dunque testimone della maturazione del pensiero politico
del tragico nel periodo in cui si dedicava alla composizione dell‟Ottavia, la cui idea risale al
1779. Partendo dal presupposto che “ ogni buon libro dée necessariamente in quasi tutti i suoi
principi offendere l‟autorità illimitata158 ”, Alfieri mostra un atteggiamento duro e inflessibile nel
condannare quei letterati che “ si sono spesse volte imbrattati fra il lezzo delle corti159 ”,
scegliendo di sacrificare la verità e venir meno al loro dovere , prostituendo le lettere, per avere
in cambio vantaggi materiali. Sembra proprio che faccia riferimento a Seneca, laddove si
sofferma a descrivere come “ i premi principeschi ” avviliscano l‟uomo di lettere160 (Ott. I, 6971, Seneca: – Ogni nuova tua strage a me novelli/doni odiosi arreca, onde mi hai carco;/ né so
perché….; I, 120-123, Nerone: – E con te pur la tua virtù mentita, / altero Stoico, abbatterò.
Punirti/ seppi finor coi doni: al dì, ch‟io t‟abbia/ dispregievole reso a ogni uom più vile, / serbo a
te poi la scure.).
A questi passi è opportuno affiancare anche quanto appare in Ann. XIII, 18, dove, dopo la morte
di Britannico,Tacito scrive:
Exin largitione potissimos amicorum auxit. Nec defuere qui arguerent viros gravitatem adseverantes,
quod domos, villas id temporis quasi praedam divisissent. Alii necessitatem adhibitam credebant a
principe, sceleris sibi conscio et veniam sperante, si largitionibus validissimum quemque abstrinxisset.
154 V. Alfieri, Ottavia cit., II, 1, vv. 23-27.
155 P. C. Tacitus, Annales cit., XIII, 14.
156 V. Alfieri, Del Principe e delle Lettere, in Id., Scritti politici e morali cit., vol. I, III, 7, p. 229.
157 V. Alfieri, Vita cit., IV, 7, p. 221: “ Che se il leggere, studiare, gustare, e discernere, e sviscerare le bellezze ed i
modi del Dante e Petrarca mi poterono infonder forse la capacità di rimare sufficientemente e con qualche sapore;
l‟arte del verso sciolto tragico (ove ch‟io mi trovassi poi d‟averla o avuta o accennata) non la ripeterò da altri che da
Virgilio, dal Cesarotti, e da me medesimo ”.
158 V. Alfieri, Del Principe e delle Lettere cit., I, 10, p. 131.
159 V. Alfieri, Del Principe e delle Lettere cit., I, 5, p. 125.
160 V. Alfieri, Del Principe e delle Lettere cit., II, 11, pp. 189 e sgg.
25
Questo brano è tradotto da Alfieri stesso 161:
Quindi largamente donò a‟ suoi intimi; né mancò, chi tacciasse quei falsi Filosofi d‟essersi divise le
ville, e palagi dell‟ucciso, come loro preda. Altri credeanli sforzati dal Principe, cui rimordendo la
sceleraggine, sperava comprarne coi doni il perdono dai Potenti.
Oltre l‟evidente affinità con i passi della tragedia, che conferma l‟utilizzo dello storico come
fonte, mi sembra utile richiamare all‟attenzione come nella traduzione fatta da Alfieri, “ viros
gravitatem adseverantes ” venga reso con “ falsi Filosofi ”, in tal maniera il riferimento ancora
indeterminato degli Annales si restringe fino ad alludere chiaramente a Seneca, filosofo per
eccellenza alla corte di Nerone162. A ulteriore conferma di ciò, sovviene anche l‟abbozzo di
commedia “ Il buon marito163 ”, dove Seneca è per l‟appunto designato come “ falso Filosofo ” e
solo Britannico ed Ottavia compaiono con la positiva qualifica di “ buoni ”.
Certo Alfieri non era indulgente nei riguardi dello stoico, ma il giudizio sulla sua figura si
inserisce pienamente nella svalutazione dell‟operato e della coerenza di Seneca, proseguita nel
secolo dei Lumi, per cui l‟immagine che il cordovese aveva trasmesso di sé risultava al tempo
stesso affascinante e scomoda perché sembrava anticipare quella del philosophe consigliere al
servizio del sovrano illuminato e, dato l‟esito fallimentare del rapporto con Nerone, gettava
un‟ombra inquieta, quasi un amaro presagio sulle effettive possibilità di collaborazione tra
l‟intellettuale e il potere.
A tal proposito Canfora ritiene che “ l‟elusione sistematica del suo [sc. di Seneca] nome
nell‟Encyclopédie, la voce assente dal Dictionnaire, nascono probabilmente dalla difficoltà di
prendere posizione di fronte all‟ingombrante e straordinariamente attuale figura del filosofo nella
politica, uscito soccombente dalla politica 164 ”.
Né si riesce a sbarazzarsi del tutto dell‟antica accusa di tyrannodidaskalos, risalente a Dione
Cassio, pertanto “ l‟ufficio di precettore del principe mette in dubbio l‟autorità della filosofia,
l‟onestà morale di un saggio che viene ora considerato come se fosse divenuto lo schiavo del
mondo165 ”. Eppure nelle famosissime pagine dell‟Enciclopedia alla voce philosophe, il termine
viene connotato in una prospettiva tutta rivolta all‟azione e all‟impegno sociale: “ ce n‟est pas
l‟esprit seul que le philosophe cultive, il porte plus loin son attention et ses soins. L‟homme n‟est
point un monstre qui ne doive vivre que dans les abymes de la mer, ou dans le fond d‟une forêt
[…]. Notre philosophe ne se croit pas en exil dans ce monde; il ne croit point être en pays
ennemi; […] La société civile est, pour ainsi dire, une divinité pour lui sur la terre; il l‟encense, il
l‟honore par la probité, par un‟attention exacte à ses devoirs, et par un desir sincere de n‟être pas
un membre inutile ou embarassant 166 ”.
Proprio queste considerazioni, avrebbero permesso una rivalutazione al termine dell‟Illuminismo,
quando l‟ottimismo trascolora in disillusione e la figura di Seneca può diventare un “ emblema
dei rapporti, difficili e irrisolti, tra la filosofia e il potere167 ”. Dalla posizione di D‟Alembert, che
considerava Seneca un cortigiano corrotto dal potere, a Rousseau, che ne deprecava la mondanità,
all‟ammirazione di Saint-Évremond rivolta provocatoriamente a “ le précepteur de Néron,
161 V. Alfieri, Appunti di lingua e traduzionaccie prime cit., pp. 166-167.
162 Che comunque Tacito intendesse alludere specialmente a Seneca, è giudizio comunemente accettato nei commenti.
Cfr. The Annals of Tacitus, ed. by H. Furneaux, Oxford at the Claredon Press, 1951, ad l. e Cornelius Tacitus Annalen.
Erläutert und mit einer Einleitung versehen von E. Koestermann, Heidelberg, 1968, ad l.
163 V. Alfieri, Primissimi pensieri comici, II, in Commedie, I, a c. di F. Forti, Asti, Casa d‟Alfieri, 1953.
164 L. Canfora, introduzione a D. Diderot Saggio sui regni di Claudio e Nerone, e sui costumi e gli scritti di Seneca,
trad. it., Sellerio, Palermo, 1987.
165 J. M. André, Arti liberali e pedagogia: l‟eredità di Seneca in Francia, in AA. VV., Seneca nella coscienza
dell‟Europa cit., pp. 172-180.
166 Voce Philosophe, in D. Diderot, D‟Alembert, Encyclopédie, Geneve, 1776-78.
167 W. Tega, Tra libero pensiero e dispotismo illuminato: Seneca e il XVIII secolo, in AA. VV., Seneca nella
coscienza dell‟Europa cit., pp. 215-234.
26
l‟amant d‟Agrippine, l‟ambitieux qui prétendait à l‟empire168 ”, si arriva fino a Diderot, che pure
in gioventù con l‟Essai sur le mérite et la vertu del 1745 figurava tra i più aspri accusatori di
Seneca, e che nel Saggio sui regni di Claudio e Nerone del 1778, si assume il compito di
prenderne le difese, ritornando sui propri passi. Anche Diderot aveva una profonda ammirazione
per Tacito, per cui basa la sua apologia su brani degli Annales interpretati tutti in senso
favorevole a Seneca.
Sicuramente la posizione dello storico latino nei riguardi del filosofo è più sfumata e
problematica, tanto da lasciar adito ancora oggi a letture diverse e contrastanti. Tuttavia si deve
almeno riconoscere come Tacito in fondo scagioni Seneca dalle accuse più gravi che troviamo
riportate da altre fonti169: su di lui ricade parte della responsabilità dei delitti efferati di Nerone,
ma non poteva fare a meno di compromettersi, se voleva intervenire attivamente nella gestione
dell‟impero “ per essere utile ai più ”. E questo se Tacito doveva capirlo, visto che anche lui era
stato coinvolto nei meccanismi del potere170, Diderot non poteva non apprezzarlo, specie dopo la
sua personale esperienza al servizio di Caterina di Russia, dato l‟assunto basilare che “ il filosofo
che prescrive le regole di comportamento, ma non dà l‟esempio, assolve solo a metà al suo
compito171 ”. Egli, calatosi appieno nei panni del cordovese e anzi, rilettane la figura
implicitamente in chiave autobiografica, giunge perfino alla giustificazione e all‟accettazione
senza residui del compromesso, quando non ci sono alternative ed esso appare come il minore dei
mali. Riguardo alla necessità di Seneca di assecondare l‟inclinazione di Nerone per Atte, Diderot
scrive che “ tentare di ricondurre l‟imperatore a Ottavia era un atto onesto, ma inutile; approvare
quella passione per Atte era contrario sia al suo carattere sia alle sue funzioni. Tuttavia il
precettore, più prudente della madre, considerò l‟amore di Nerone per Atte come un freno che,
almeno per un certo periodo, avrebbe potuto moderare la focosa incontinenza del giovane 172 ”.
Si badi: atto onesto, ma inutile, l‟alto valore morale di un gesto viene annullato dalla sua
inefficacia pratica.
E ancora, la presenza di Seneca alla corte di Nerone viene approvata non solo riguardo al
primo periodo di regno, il quinquennio felice, quando sembrava che davvero il progetto
educativo del filosofo funzionasse, ma a maggior ragione in seguito, quando anche le ultime
speranze di guidare l‟imperatore erano crollate, perfino dopo i delitti e il matricidio: “ agli uomini
politici ho detto e continuerò a dire, allorché siano sopraffatti dal disgusto, che non devono
andarsene, ma devono essere cacciati. L‟uomo onesto non è mai totalmente inutile e muore
sempre troppo presto173 ”. Il politico che mira all‟utile pubblico deve essere prudente, disposto a
168 Saint-Évremond, Jugement sur Sénèque, Plutarque et Pétrone, in Oeuvres choisies, Paris, 1852, pp. 122-135.
169 Cfr. G. Bellardi, Gli exitus illustrium virorum e il l. XVI degli Annali tacitiani, in “Atene e Roma”, XIX, 1974, pp.
129-137: “ mai la figura di Seneca, prima della morte nobilissima, è avvolta dall‟odiosità che ha invece in Dione
Cassio (cfr. specialmente 61, 10). T. ha attinto ad altra fonte più favorevole, si è detto, mentre Dione ha continuato a
servirsi di quella che si è chiamata la „fonte principale‟ per il principato neroniano, cioè Plinio il Vecchio. Orbene, se
T. ha tenuto presente per Seneca Fabio Rustico invece di continuare a servirsi soltanto della fonte precedente, questa
scelta non indica già una presa di posizione, determinata sì da motivi d‟ordine metodologico, dal desiderio, cioè, di
voler meglio distinguere tra una tradizione ostile e un‟altra di esaltazione, ma anche dal fatto che sentiva che anch‟egli
non avrebbe potuto resistere al naufragio di ogni valore spirituale, né accondiscendere alla condanna aprioristica di tutti
quei sapientes che si fossero venuti a trovare a contatto con la tirannide neroniana? ”.
170 Cfr. W. H. Alexander, The tacitean “ non liquet ” on Seneca, University of California Publications in Classical
Philology 14, 1952, pp. 269-386: “ Nor is this occasional compromising with the saeculum a sign of weakness, not
necessarily so at all events; it is a recognition that human life is at best a compromise. At no point does Tacitus inveigh
against the moralworth of Seneca; he connects him with certain unpleasant events, but Tacitus, who had been officially
connected with some very unpleasant events himself, knew better than out and out to condemn compromise in
Seneca ”.
171 D. Diderot, Saggio sui regni di Claudio e Nerone, e sui costumi e gli scritti di Seneca cit., p. 88.
172 D. Diderot, Saggio sui regni di Claudio e Nerone e sui costumi e gli scritti di Seneca cit., p. 95.
173 D. Diderot, Saggio sui regni di Claudio e Nerone e sui costumi e gli scritti di Seneca cit., pagg. 89-90, e ancora a
pag. 88: “ Io scorgo l‟uomo onesto e sensibile rammaricarsi, allontanarsi, volgere indietro lo sguardo, arrestarsi,
ritornare sui suoi passi, nel timore di essersi ritirato troppo presto. L‟uomo acuto avverte che la sua presenza e i suoi
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piegarsi, se necessario e a fare violenza al proprio carattere, tra il filosofo e il cortigiano rimane
comunque una differenza: “ l‟uno rifugge da ogni occasione per adulare, l‟altro la cerca, l‟uno
soffre e prova vergogna per il dissimulare e se lo rimprovera, l‟altro ne va fiero 174 ”; e sono
guardati con scetticismo episodi come quello della fermezza del giurista Papiniano di fronte a
Caracalla, che gli chiedeva di legittimare l‟assassinio del fratello Geta: si tratta di una scena
d‟effetto “ per il teatro ”, non di una “ pagina di storia, e noi avremmo udito Papiniano esprimersi
in modo così eloquente solo qualche anno dopo la sua morte175 ”.
Diderot non indietreggia di fronte alle difficoltà, neppure di carattere etico: chi lotta per sottrarre
un ideale astratto dal cielo puro della speculazione e renderne possibile la reificazione in terra è
sempre costretto a pagarne il prezzo, in termini di contaminazione dell‟ideale stesso.
Ci troviamo agli antipodi rispetto ad Alfieri, lui sì “ uomo di teatro ”, autore e personaggio delle
proprie tragedie, fine esaminatore della realtà interiore di fronte a quella esteriore, propugnatore
della “ maggior verità del voler essere rispetto all‟essere, dell‟ideale rispetto alla realtà 176 ”.
Nei suoi trattati politici, come ho accennato in precedenza, Alfieri nega recisamente la possibilità
di collaborazione tra il principe e il letterato, l‟uno annientatore, l‟altro maestro di libertà: opposti
e contrastanti sono i fini che si propongono, pertanto i loro rapporti non possono che essere di
reciproca ostilità; e se è difficilissimo definire le lettere, “ per certo elle sono una cosa contraria
affatto alla indole, ingegno, capacità, occupazioni, e desiderj del principe 177 ”. Il consiglio rivolto
all‟uomo onesto costretto a vivere sotto un regime tirannico non è affatto quello di impegnarsi
nella gestione politica a corte per limitare i danni, ma di “ star sempre lontano dal tiranno, da‟
suoi satelliti, dagli infami suoi onori, dalle inique sue cariche, dai vizj, lusinghe e corruzioni sue,
dalle mura terreno ed aria perfino, che egli respira, e che lo circondano 178 ”. E se nemmeno con
questa vita ritirata riesce ad evitare il contatto con il tiranno, allora l‟atteggiamento suggerito è di
sfida: “ arditamente si mostrino tali ch‟ei sono; e basti per loro discolpa il poter dire, che non
hanno essi ricercato i pericoli; ma che, trovatili, non debbono, né vogliono, né sanno
sfuggirli179 ”.
A riscattare Seneca almeno in parte, sembra però intervenire la sua nobile morte, descritta
magistralmente da Tacito in uno dei passi più famosi dei suoi Annales, una vera morte da
filosofo, opposta a quella da gaudente di Petronio 180; Alfieri ne subisce il fascino e nel cap. 4 del
consigli sono importuni; l‟uomo inflessibile rimane al suo posto per sfidare la rovina che vede avvicinarsi. Questo fece
Seneca. Mettetevi al posto del filosofo, del precettore, del ministro, e cercate di comportarvi meglio di lui ”.
174 D. Diderot, Saggio sui regni di Claudio e Nerone e sui costumi e gli scritti di Seneca cit., p. 144; cfr. anche i
framm. XIX e XX Haase di Seneca tradotti da I. Lana nell‟articolo Introduzione a Seneca, in AA. VV., Seneca Letture
critiche, a c. di A. Traina, Mursia, 1976, pp. 25-38: “ Fa, il sapiente, anche ciò che non approverà, per trovare anche un
passaggio verso realtà più grandi, né abbandonerà i propri costumi ma li adatterà ai tempi, e di ciò, di cui altri si
servono per la gloria o per il piacere, egli si servirà per poter agire. Tutto quello che fanno i lussuriosi o gli stolti, farà
anche il sapiente ma non allo stesso modo né con lo stesso scopo ”; nell‟articolo lo studioso si occupa dei rapporti di
Seneca con il potere arrivando alla conclusione: “ è a noi facile, oggi, giudicare che Seneca, proponendo questa teoria
del potere regale [sc. la teoria esposta nel De clementia], era un ingenuo oppure uno scettico; che si illudeva sulla vera
natura di Nerone, che non credeva a quanto diceva, e così via. Chi si ponga tuttavia di fronte al problema politico che
Seneca affrontò, alla necessità, cioè, di accettare il principato e, contemporaneamente, di elaborare una teoria che
offrisse garanzie ai cittadini nei confronti del principe, che in qualche modo ne limitasse i poteri, riconoscerà la
positività dell‟azione del filosofo: certo Seneca fu l‟unico tra gli intellettuali romani del tempo del principato ad
elaborare una soluzione per il problema politico fondamentale dei rapporti fra il principe ed i sudditi ”.
175 D. Diderot, Saggio sui regni di Claudio e Nerone e sui costumi e gli scritti di Seneca cit., p. 133.
176 G. Tellini, Storia e romanzo dell‟io nella “ bizzarra mistura ” della Vita, in AA. VV., Alfieri in Toscana cit., pp.
203-219.
177 V. Alfieri, Del Principe e delle Lettere cit., I, 3, p. 120.
178 V. Alfieri, Della Tirannide, in Id. Scritti politici e morali cit., vol. I, II, 3, pp. 89-90.
179 V. Alfieri, Della Tirannide cit., II, 3, p. 91.
180 Cfr. a proposito A. Ronconi, Gli exitus illustrium virorum e il libro XVI degli Annales tacitiani, in Id. Da Lucrezio
a Tacito, Firenze, 1968, pp. 129-137, che individua il modello socratico alla base della descrizione della morte stoica di
Seneca per spiegare la sovrapposizione del motivo del veleno a quello della recisione delle vene: “ Il doppione è
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libro II del trattato Della Tirannide scrive che “ alla eroica morte di Trasea, di Seneca, di
Cremuzio Cordo, e di molti altri Romani proscritti dai loro primi tiranni, altro in fatti non
mancava, che una più spontanea cagione, per agguagliar la virtù di costoro a quella dei Curzj, dei
Decj, e dei Regoli ”. Tre famosi politici e scrittori romani vissuti in età imperiale vengono
dunque affiancati a tre nomi di altri personaggi romani appartenenti all‟età repubblicana ed
entrati nella leggenda per aver sacrificato eroicamente la loro vita per la salvezza di Roma.
Senza porsi i problemi che i filologi sollevano sui rapporti tra Tacito e i campioni dello
Stoicismo 181, accusati da alcuni di forme di opposizione sterili ed esibizionistiche, Alfieri non
esita ad attribuire allo storico lo stesso suo giudizio e, se individua differenze tra il suicidio
“ privato ” dei Trasea e il sacrificio “ pubblico ” dei Deci, le colloca solo nella spontaneità del
gesto, non nei suoi riflessi e nelle sue conseguenze.
Contrastante, come si può prevedere, sarebbe il giudizio di Diderot che, di fronte alla “ virtù che
sfida la morte ”, si chiede: “ e come sarebbe possibile ornare di questo sacro nome [sc. di virtù], il
cui autentico significato è connesso alla nozione di utilità pubblica, un entusiasmo fuori posto
capace solo di provocare una lunga catena di delitti? ”. È da questa diversità di presupposti
ideologici che deriva l‟opposta valutazione della figura di Seneca.
Vincenza Perdichizzi
introdotto qui soltanto per saldare due versioni sul modo di morte: quella storica, e conforme all‟uso di allora, del
taglio delle vene, e l‟altra letteraria, che vuole avvicinare la morte del filosofo stoico a quella di Socrate ”. Le analogie
non si fermano qui perché “ mentre a Socrate nel Fedone si irrigidiscono gli arti sì da costringerlo a giacere, quelli di
Seneca sono già freddi e impediscono al veleno di circolare nell‟organismo. Nonostante questo, Seneca ha ancora la
forza di entrare nel bagno, solo perché c‟era entrato Socrate prima di prendere il veleno. Sembra abbia ritrovato il
vigore: per farglielo perdere di nuovo, ci vorrà un‟altra duplicazione, un secondo bagno, e questo a vapore. Mentre
spruzza dell‟acqua, dice di libare a Giove Liberatore. Anche Socrate chiede se si può libare a qualcuno ”. E se “ Tacito
non è personalmente un ammiratore degli stoici né del loro atteggiamento di fronte ai Cesari ” e ai suoi occhi “ mors
ambitiosa era certo […] quella di Trasea ” indugia a narrarne le modalità in chiave idealizzante “ mirando più
all‟atteggiamento anticesareo che all‟apologia stoica ”. Di tutt‟altro genere è la morte di Petronio “ non filosofo, […] in
antitesi alla morte stoica e socratica, quasi a riprova di quella superficialità spregiudicata di cui Petronio fu esempio ”.
Insieme a lui “ l‟Asiatico e Scevino rappresentano […] tipi di ricchi ed eleganti uomini, amanti in vita del fasto e di
ogni delicatezza […]; sono cioè in contrasto con quel tipo di vita, con quel disprezzo della ricchezza e del piacere
predicato dagli stoici: così anche la loro morte è rappresentata come antitesi della morte stoica ”. Di diverso avviso S.
L. Dyson, The portrait of Seneca in Tacitus, in “ Arethusa ”, III, 1970, pp. 71-83. Cfr. anche P. Treves, Il giorno della
morte di Seneca, in AA. VV, Studia Florentina A. Ronconi oblata, Roma, 1970, pp. 507-524; D. Henry and B. Walker,
Tacitus and Seneca, in “Greece and Rome”, 10, 1963, pp. 98-110; R. Fabbri, La pagina „senecana‟ di Tacito (Ann. 15,
60-65), in “Atti dell‟Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti”, CXXXVII, 1978-79, pp. 409-427.
181 Cfr. A. Grilli, Gli eroi stoici di Tacito, in AA. VV, Storia letteratura e arte a Roma nel secondo secolo d. C., Atti
del convegno: Mantova 1992, Olschki, Firenze, 1995, pp. 61-67: “ Tacito non ama gli eroi stoici che fanno politica;
potrei anche dire che non ama i politici che s‟avvolgono nel manto dello stoicismo. Se la va male, li copre di ridicolo,
com‟è con Musonio Rufo; negli altri casi sottolinea l‟inutilità dei loro atteggiamenti, rigidi come la loro dottrina; ora,
in politica, guai a chi non ha, entro certi limiti, della flessibilità ”. Riguardo a Trasea Peto lo studioso osserva che
Tacito “ di lui ha un profondo rispetto; rispetto che è per la persona, non per il politico: quando Trasea esce dal senato
alla incresciosa conclusione della seduta per la morte di Agrippina, il commento è appunto di ammirazione per l‟uomo,
ma solo per l‟uomo. […] È la prima volta che qualcuno agisce contro quello che è l‟atteggiamento servile del senato e,
direi, è logico che Tacito sottolinei il fatto; ma il giudizio non ci presenta in Trasea un eroe di libertà. Non è certo
Tacito a disconoscere la libertas di Peto: termine che – sia chiaro – vale „indipendenza‟ di giudizio o di atteggiamento;
egli anche sottolinea come il suo esempio, in altra occasione, servitium aliorum rupit (ann. 14, 49, 1). Il giudizio finale
è però ambiguo: Trasea non mutò di parere sueta firmitudine animi et ne gloria intercideret ”.
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