Citochine e immunomodulatori nell`artrite reumatoide: dalla

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Citochine e immunomodulatori nell`artrite reumatoide: dalla
5-6/2005
Anno 8 - Maggio-Giugno
Citochine e immunomodulatori
nell’artrite reumatoide:
dalla patogenesi alla terapia.
Manuela Catuogno
Daniela Bompane
La brucellosi dei mammiferi marini
Guglielmo Gargani
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associata ad infezione da HIV
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dalla patogenesi alla terapia.
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riguardo ad abitudini di vita e di trattamento della cute,
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Citochine e immunomodulatori nell’artrite
reumatoide: dalla patogenesi alla terapia.
Manuela Catuogno, Daniela Bompane
Patogenesi
dell’artrite reumatoide
L’artrite reumatoide (AR) è una patologia
cronica articolare a carattere infiammatorio,
caratterizzata istologicamente da infiltrazione macrofagica e linfo-monocitaria e da
fenomeni d’intensa angiogenesi e proliferazione tissutale. Le prime fasi sono caratterizzate da un’intensa flogosi a carico della sinovia, successivamente, nelle fasi avanzate di
malattia, la proliferazione del panno sinoviale e l’aberrante attivazione delle cellule del
metabolismo osseo provocano la formazione
di erosioni dell’osso subcondrale, determinando la distruzione dei capi ossei e l’anchilosi. A tutt’oggi non è stato ancora identificato un unico fattore eziologico quale causa
dell’AR, tuttavia lo sviluppo delle conoscenze in campo immunologico hanno permesso
di interpretare una grande parte dei meccanismi patogenetici. La storia naturale dell’AR
si può sintetizzare in 3 distinte fasi: quella
iniziale o di induzione della malattia (initiation), quella di mantenimento della medesima (perpetuation) ed infine quella di distruzione tissutale (terminal destruction) (1).
Negli ultimi anni, l’identificazione del sistema
dei Toll-like receptors (TLRs) responsabili dell’immunità naturale o non-antigene specifica
(2), ha portato al riconoscimento di una serie
di fenomeni coinvolti nell’iper-attivazione
aspecifica delle cellule sinoviali in risposta a
diversi fattori che, pur non essendo identici,
condividono ligandi simili (3, 4), in grado di
stimolare la stessa classe di TLRs. Questi
recettori hanno una struttura omologa ad una
Cattedra e Divisione di Reumatologia
Università “La Sapienza”, Roma
Direttore: Prof. Guido Valesini
proteina della Drosophila chiamata Toll ed
hanno la capacità di attivare i fagociti in risposta a differenti componenti microbici.
L’identificazione di questo sistema consente di
spiegare le correlazioni tra l’attivazione del
sistema dell’immunità innata e di quella
acquisita, fornendo anche una solida alternativa alla teoria, non sempre applicabile, del
mimetismo molecolare.
Il riconoscimento dei PAMPs (pathogen associated molecular patterns) attiva nelle cellule
che esprimono i TLRs una cascata intra-cellulare che, tramite l’attivazione del fattore di trascrizione NF-kB (nuclear factor kB) determina
la produzione di anticorpi polireattivi, citochine e chemochine infiammatorie (5, 6).
Questo tipo di risposta, fisiologicamente finalizzata ad un’efficace eliminazione dei patogeni (7) potrebbe determinare, in un soggetto
geneticamente predisposto, il primum movens
per l’instaurarsi di meccanismi di richiamo ed
attivazione cellulare che esitano nella perpetuazione del processo infiammatorio.
L’identificazione su fibroblasti sinoviali di
soggetti con AR, di specifici TLRs e l’aumentata espressione di integrine, metalloproteinasi e citochine pro-infiammatorie (IL-6 e IL-8)
a seguito della loro stimolazione, supporta
ulteriormente questa teoria (8).
Lo studio degli aspetti istologici della sinovia
reumatoide ha focalizzato l’attenzione su una
serie di sistemi più complessi, legati specificamente all’attivazione dell’immunità acquisita
(interazione specifica tra cellule helper e cellule antigene specifiche). La sinovia reumatoide
presenta, infatti, a livello istologico una componente linfocitaria preponderante, che è presente peraltro anche nei modelli murini di
artrite collageno-indotta e di artrite da adiuvante (9). Tra le molecole fisiologicamente
Scripta
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coinvolte nella linfoneogenesi, ne rientrano
alcune usate oggi come target molecolari nel
trattamento dell’AR: il TNF (tumor necrosis
factor) α e β. Entrambi appartenenti alla famiglia del TNF, queste due molecole svolgono in
realtà ruoli molto diversi nella maturazione
del tessuto linfoide e si sono dimostrate efficaci bersagli terapeutici, in modelli sperimentali e nel trattamento clinico di pazienti affetti
da AR (10-12). Il TNFα sembra essere maggiormente coinvolto nei processi di maturazione delle cellule follicolari dendritiche, nei
fenomeni di amplificazione e mantenimento
della struttura linfoide.
Il TNFβ o Linfotossina-α (LT-α), al contrario,
svolge un ruolo chiave nei fenomeni di amplificazione dei segnali implicati nella produzione di chemochine ritenute fondamentali per
lo sviluppo delle strutture linfatiche (13). Lo
specifico ruolo di queste due molecole nella
dinamica di sviluppo degli infiltrati infiammatori che si formano in corso di AR è tuttora
affascinante oggetto di studio.
IL TNFα è in grado stimolare il rilascio di
citochine infiammatorie (IL-1, IL-6, IL-8 e
GM-CSF o granulocyte-macrophage colony stimulating factor) (14) e fattori angiogenetici
(15); di mediare l’induzione di molecole di
adesione quali ICAM-1 (intercellular adhesion
molecule -1) e VCAM-1 (vascular adhesion
molecule-1); di indurre il rilascio di metalloproteinasi bloccando quello dei loro inibitori (16); sembra infine capace di regolare,
direttamente o tramite l’attivazione del sistema RANK/RANKL (receptor activator of NFκB/receptor activator of NF-κB ligand), la differenziazione degli osteoclasti che è alla base
del processo erosivo (17). Non ci sono invece dati circa il ruolo specifico della LT-α
nell’AR, è interessante però notare come
case-report sul successo terapeutico di etanercept (in grado di bloccare sia il TNFα che
la LT-α) in pazienti resistenti al trattamento
con infliximab (che agisce inibendo solo il
TNFα), suggeriscono la possibilità che la LTα possa svolgere un ruolo specifico nella
patogenesi della sinovite o di alcune sue
forme, indipendente dal TNFα ma comunque importante per lo sviluppo e la perpetuazione del processo infiammatorio.
A fianco di queste limitate osservazioni clini-
che, ci sono evidenze sperimentali che indicano come nella sinovia reumatoide, l’espressione di RANKL, coinvolta con il suo
recettore RANK nella realizzazione del
danno erosivo, sembri colocalizzare preferenzialmente con un subset di linfociti T
CD3+/CD4+ disposti in aggregati con organizzazione di tipo follicolare (18,19), suggerendo un’elegante spiegazione molecolare all’associazione clinica tra le forme più severe di
AR (maggiormente erosive) e il pattern istologico di tipo follicolare (20). La sinovite
reumatoide è caratterizzata da un punto di
vista istologico dall’ispessimento del lining,
dall’infiltrazione cellulare e da una spiccata
neoangiogenesi necessaria per la formazione
del panno sinoviale. Diverse molecole risultano coinvolte nella proliferazione vascolare,
tra queste l’E-selectina, l’integrina alfaVbeta3 (direttamente coinvolta nella formazione delle erosioni ossee), citochine proinfiammatorie e molecole regolatorie quali
l’Angiopoietina-1 e il VEGF (vascular
endothelial growth factor) (21).
L’ipotesi della patogenesi T-mediata dell’AR si
basa sulla dimostrazione di uno specifico
richiamo nelle articolazioni di un certo
numero di linfociti T, cui verrebbe presentato un antigene di origine sconosciuta da
parte di cellule dendritiche o antigen presenting cells (APC).
Le prime osservazioni a sostegno di questa
teoria furono quelle relative alla presenza a
livello sinoviale di linfociti con fenotipo
memory/helper (CD3+CD4+CD45RO+) (22)
cui seguirono gli studi sul ruolo delle molecole di homing nella migrazione specifica
nella sinovia e sul ruolo degli stessi linfociti
T nello stimolo osteoclastogenico (23).
In questa visione la persistenza dell’infiammazione sarebbe legata ad un fenomeno
denominato spreading antigenico che consiste nel coinvolgimento di un numero via via
crescente di epitopi verso cui si orienta la
risposta immune.
Numerose molecole sono state proposte
quali possibili autoantigeni dell’AR e tra queste merita di essere menzionata la chaperonina BiP (immunoglobulin binding protein), proteina espressa nel reticolo endoplasmatico
cellulare, dimostratasi capace di stimolare
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MEDICA
Citochine e immunomodulatori nell’artrite reumatoide
85
specificamente la risposta immune di linfociti T presenti nel liquido sinoviale dei malati
(24). I linfociti CD3+/CD4+, attivati dal contatto con l’antigene e da molecole di costimolazione espresse dalle APC determinerebbero, tramite il rilascio di molecole solubili e
l’interazione cellulare diretta, l’attivazione
dell’endotelio, di macrofagi e di sinoviociti
simil-fibroblasti, con il successivo richiamo
di cellule immunitarie e la strutturazione
dell’infiltrato sinoviale con l’aggregazione e
proliferazione dei linfociti B. Il concetto dell’homing o ricircolo selettivo di cellule
infiammatorie, ed in particolar modo dei
linfociti T, nei tessuti dai quali è stato loro
presentato originariamente l’antigene, ha trovato nelle patologie infiammatorie articolari
notevoli applicazioni. Numerosi dati sperimentali hanno infatti dimostrato a livello
sinoviale la presenza di linfociti attivati e stimolati in altri distretti anatomici, sedi di
infiammazione cronica nello stesso organismo. (25). Le chemochine, molecole appartenenti alla famiglia delle citochine con prevalenti proprietà chemotattiche, sono state
considerate in numerosi lavori come le molecole maggiormente coinvolte nel selettivo
recruitment a livello tissutale. Questo fenomeno si realizza in realtà tramite un complesso sistema d’interazione con specifici
recettori espressi dai diversi subset cellulari e
le chemochine sembrano essere coinvolte
non solo nel fenomeno della migrazione ma
anche in quello della strutturazione stessa
dell’infiltrato e nello switch delle risposte
immuni in senso Th1/Th2 (26).
Per ciò che concerne le cellule B è stato identificato un potente fattore regolatorio denominato BAFF (B cell activating factor of the
TNF family) o BLyS; si tratta di una proteina
di 285 amminoacidi, appartenente alla famiglia del TNF, presente in forma transmembrana sulla superficie di cellule della linea
monocitaria. Tale proteina sembra essere
implicata nell’iperproduzione anticorpale in
corso di Sindrome di Sjögren e LES. Topi
transgenici che presentano un’aumentata
produzione di BLyS sviluppano una sindrome che può considerarsi un modello sperimentale di LES; al contrario, l‘inibizione
della produzione di BLyS, in animali norma-
li, determina un’incapacità maturativa delle
cellule B cui consegue una ridotta produzione immunoglobulinica. Elevati livelli di BLyS
sono stati inoltre rilevati nel liquido sinoviale di soggetti affetti da AR rispetto a soggetti
sani o con lesioni traumatiche (27).
L’inibizione di tale molecola potrebbe rappresentare una valida strategia terapeutica
nell’AR. Al momento sono in corso trial clinici che ultilizzano sia anticorpi umanizzati
anti-BLyS sia recettori solubili
Introduzione alla terapia
Negli ultimi anni, la ricerca scientifica ha portato alla nascita di nuove terapie per la cura
dell’artrite reumatoide; tutto ciò è stato dettato
da diversi fattori: i progressi nella comprensione della fisiopatologia e della storia naturale
della malattia, la miglior conoscenza della biologia delle citochine, la necessità di un trattamento sempre più precoce ed aggressivo ed i
recenti sviluppi della biotecnologia.
Oltre ai farmaci di fondo tradizionali, cosiddetti DMARDs (disease-modifying anti-rheumatic drugs), utilizzati da molti anni nella terapia
delle malattie reumatiche, sono oggi disponibili farmaci biologici, capaci di bloccare singoli target molecolari sia solubili che di superficie. Al fine di valutare la risposta ai vari farmaci usati nella cura dell’AR, la maggior parte
degli studi clinici utilizza i criteri ACR
(American College of Rheumatology). Tali criteri
indicano la percentuale di riduzione rispettivamente del 20%, del 50% e del 70%, del numero di articolazioni dolenti e tumefatte e di
almento tre dei seguenti parametri: la valutazione globale da parte del paziente della attività di malattia, del dolore, la capacità funzionale (HAQ); la valutazione da parte del medico dell’attività di malattia ed il livello della
Proteina C reattiva (28).
Anti-TNFα
nell'artrite reumatoide
Il TNFα è una citochina prodotta da monociti attivati, macrofagi e linfociti T che si lega
a 2 recettori: tipo 1 (p55) e tipo 2 (p75)
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
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espressi su molti tipi cellulari, giocando,
come già detto, un ruolo chiave nel processo
infiammatorio. Nei pazienti con AR i livelli di
TNFα nel liquido sinoviale risultano 4-5
volte più elevati rispetto a quelli riscontrati
nel sangue periferico, tale discrepanza non è
riscontrabile nei controlli. (29). La neutralizzazione del TNFα può quindi determinare
un’importante soppressione dell’infiammazione a livello sinoviale, rendendo i farmaci
anti-TNFα un attraente target per un’immunoterapia mirata nei pazienti con AR. D’altra
parte, il fenomeno della cosidetta TNF-resistenza suggerisce che, perlomeno in alcuni
pazienti, altri pathway molecolari permangano attivi nel corso della patologia ed assumano un ruolo nella progressione del processo
infiammatorio in assenza del TNF. Tra gli
effetti collaterali più frequentemente descritti
in letteratura meritano di essere citati: le infezioni (soprattutto quella tubercolare), le reazioni di ipersensibilità immediata e ritardata,
l’insorgenza di disordini demielinizzanti
simil-sclerosi multipla, la comparsa di
autoanticorpi sierici (in particolare anticorpi
anti-nucleo, anti-dsDNA e anti-cardiolipina)
con possibile sviluppo di sindromi lupus-like
ed un aumento degli indici di funzionalità
epatica (30). Il ruolo di questi farmaci sul-
l’aumentato rischio d’insorgenza delle neoplasie e l’insufficienza cardiaca risulta essere
ancora un tema controverso. Attualmente
sono disponibili in commercio 3 farmaci
anti-TNFα: due anticorpi monoclonali di cui
uno chimerico e uno interamente umano
(rispettivamente infliximab e adalimumab) e
un recettore solubile (etanercept). Il tasso di
risposta al trattamento dei diversi farmaci
anti-TNFα in monoterapia e in associazione
al methotrexate dei pazienti con AR sulla
base dell’ACR 20, 50 e 70 è riportato nella
Tabella 1. I dati presentati si riferiscono al
dosaggio dei farmaci usati nella pratica clinica per il trattamento dell’AR (infliximab 3
mg/kg per via endovenosa ogni 8 settimane,
etanercept 25 mg per via sottocutanea 2
volte a settimane e adalimumab 40 mg per
via sottocutanea a settimane alterne).
Infliximab
L’infliximab è un’IgG1 chimerica anti-TNFα
contenente la porzione legante l’antigene
murina e la regione costante umana. Esso
lega il TNFα solubile e di membrana con
elevata affinità, riducendo il legame del
TNFα al suo recettore. L’infliximab è in
grado di provocare la lisi delle cellule che
esprimono il TNFα essenzialmente attraver-
Tabella 1.
Tasso di risposta agli anti-TNFα in monoterapia o in combinazione con methotrexate.
Studio
Terapia
N° pazienti
ACR 20
(% pazienti)
ACR 50
(% pazienti)
ACR 70
(% pazienti)
Moreland et al.
Placebo
80
11
5
1
Etanercept
78
59
40
15
Placebo+Methotrexate
30
27
3
0
Etanercept+Methotrexate
59
71
39
15
Placebo+ Methotrexate
84
20
5
0
Infliximab+ Methotrexate
83
50
27
8
Placebo
110
19
8
2
Adalimumab
113
46
22
12
Placebo+ Methotrexate
62
15
8
5
Adalimumab+Methotrexate
67
67
55
27
Weinblatt et al.
Maini et al.
Abbott Laboratories
Weinblatt et al.
Modificata da Olsen NJ et al., NEJM 2004
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MEDICA
Citochine e immunomodulatori nell’artrite reumatoide
87
so 2 meccanismi: uno anticorpo-mediato e
uno complemento-mediato. (31) Il suo utilizzo è attualmente approvato per il trattamento dell’AR e del morbo di Crohn, anche
se viene utilizzato con successo anche in
altre patologie autoimmuni quali le spondiloartropatie, le vasculiti e la malattia di
Behçet.
Il dosaggio è di 3 mg/kg al tempo 0, 2, 6 e
successivamente ogni 8 settimane per l’AR,
mentre per le spondiloartropatie è di 5
mg/kg al tempo 0, 2, 4 e successivamente
ogni 6 settimane per via endovenosa. Per le
risposte incomplete la dose di mantenimento può essere progressivamente aumentata
fino a 10 mg/kg. L’emivita è di circa 9 giorni.
C’è una notevole variabilità individuale per
quanto attiene alla farmacocinetica dell’infliximab. Si è visto che, riducendo l’intervallo tra le infusioni, ad es. ogni 6 settimane,
aumentano i livelli del farmaco più efficacemente rispetto ad un aumento del dosaggio.
(32) L’utilizzo in monoterapia del farmaco si
è rivelato nettamente più efficace rispetto al
placebo, sebbene in questi pazienti è più frequente lo sviluppo di autoanticorpi antiinfliximab, ragione che ha portato all’associazione con methotrexate. (33).
L’efficacia e la risposta dose-correlata dell’infliximab è stata valutata in un ampio studio
coinvolgente 428 pazienti che ricevevano il
farmaco al dosaggio di 3 o 10 mg/kg ogni 4
o 8 settimane in associazione al methotrexate. È interessante notare come il tasso di
risposta ACR 50 sia simile dopo 24 settimane di trattamento in tutti i gruppi, mentre
risulti significativamente più basso dopo 54
settimane nel gruppo ricevente 3 mg/kg ogni
8 settimane (21%) rispetto a quelli trattati
con 10 mg/kg ogni 8 e 4 settimane (39% e
38% rispettivamente) (Tabella 1). (34, 35)
Etanercept
L’etanercept è una proteina di fusione formata dal dominio extracellulare del recettore
tipo 2 del TNFα (p75) e dalla porzione Fc di
un’IgG1 umana. Questa proteina dimerica è
in grado di legare sia il TNFα che il TNFβ
impedendo l’interazione con i rispettivi
recettori.
L’etanercept è registrato per la terapia
dell’AR, dell’artrite cronica giovanile, dell’artrite psoriasica, della spondilite anchilosante
e della psoriasi. Il dosaggio è di 25 mg 2
volte alla settimana o 50 mg una volta alla
settimana per via sottocutanea. L’emivita è di
circa 4 giorni (36).
Per quanto riguarda i pazienti con incompleta risposta al methotrexate, si osserva un
significativo miglioramento associando a tale
monoterapia l’etanercept rispetto al placebo
(Tabella 1). (37).
Adalimumab
L’adalimumab è un anticorpo monoclonale
ricombinante anti-TNFα completamente
umano, strutturalmente indistinguibile da
un’IgG1k umana (38). È in grado di legare il
TNFα con elevata affinità riducendo il legame di questo con i suoi recettori e determinando la lisi delle cellule che lo esprimono
sulla loro superficie. L’adalimumab viene utilizzato per il trattamento dell’AR multiresistente. Il dosaggio è di 40 mg a settimane
alterne per via sottocutanea. L’emivita varia
dai 6 ai 13.7 giorni.
L’adalimumab sembra avere un effetto additivo quando somministrato in associazione al
methotrexate, determinando un significativo
aumento della risposta ACR 20 rispetto ai
pazienti che ricevono solamente methotrexate più placebo (Tabella 1). (39)
Anakinra
L’interleuchina 1 (IL1), prodotta dai monociti, dai macrofagi e da cellule del lining sinoviale, possiede effetti anti-infiammatori tra
cui l’induzione dell’interleuchina 6 e della
ciclo-ossigenasi 2. L’azione dell’IL1 è downregolata dall’antagonista del suo recettore
che è un inibitore naturale che compete per
il legame ai recettori dell’IL1. Nei topi knockout per tale antagonista, si sviluppa un’artrite cronica con caratteri simili all’AR (40).
Anakinra è un prodotto ricombinante dell’antagonista del recettore di tipo I dell’IL1,
espresso in una varietà di tessuti; nei pazienti con AR vi sono bassi livelli di questo antagonista a livello dello spazio articolare,
rispetto alla quota di IL1 (41). Questo farmaco possiede una struttura identica alla
forma non glicosilata della proteina endoge-
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
88
Tabella 2.
Percentuali di risposta a 24 settimane alla terapia con anakinra.
Livello di risposta*
Placebo*
Anakinra
150 mg*
Placebo**
Anakinra
Anakinra
1 mg/kg+MTX** 2 mg/kg+MTX**
ACR 20
27%
43%
23%
42%
35%
ACR 50
8%
23%
4%
24%
17%
ACR 70
4%
9%
0%
10%
7%
Modificata da Olsen NJ et al, NEJM 2004;
*Bresnihan et al. Arthritis Rheum 1998; **Cohen et al. Arthritis Rheum 2002
na eccetto che per l’aggiunta di una metionina N-terminale; data la sua breve emivita, è
necessaria la somministrazione sc giornaliera
(100 mg/die). In trials randomizzati controllati coinvolgenti più di 900 pazienti con AR,
anakinra, da solo o in combinazione con il
methotrexate, si è dimostrato più efficace
rispetto al placebo ed in grado di rallentare il
danno radiologico (42, 43) (Tabella 2).
Sembra essere aumentato il rischio di infezioni, soprattutto batteriche; in uno studio
su 1000 pazienti, la percentuale di infezioni
serie è risultato pari al 2,1% nel gruppo ricevente il biologico,rispetto allo 0,4% del
gruppo del placebo (44).
midollari e viene perso quando avviene la
differenziazione in plasmacellule. Vi sono
quattro possibili meccanismi d’azione con i
quali potrebbe agire l’anti-CD20: dopo il
legame alla porzione extracellulare del
CD20, potrebbe attivare il complemento e
provocare la lisi della cellula bersaglio;
potrebbe permettere la citotossicità cellulare
anticorpo-dipendente attraverso il riconoscimento della porzione Fc da parte dei recettori presenti sulle cellule citotossiche;
potrebbe alterare la capacità della cellula B di
rispondere all’antigene o ad altri stimoli;
potrrebbe innescare l’apoptosi (45). In un
trial randomizzato controllato multicentrico
(46), una breve somministrazione di rituximab (1000 mg al giorno 1 e al giorno 15),
sia da solo sia in combinazione con il methotrexate e con la ciclofosfamide, ha portato ad
un miglioramento significativo dei sintomi
della malattia (Tabella 3). Gli eventi avversi
si sono verificati soprattutto durante la
prima infusione. Nei gruppi riceventi il
rituximab vi era una prolungata deplezione
delle cellule B periferiche; tuttavia, a 24 e a
Rituximab
Il ruolo delle cellule B nella patogenesi
dell’AR non è ancora stato chiarito a pieno;
esse producono autoanticorpi, nella fattispecie il Fattore Reumatoide; si comportano da
cellule presentanti l’antigene nei confronti
dei linfociti T; producono citochine (IL6 e
l’IL10) che possono alterare la funzione di
altre cellule del sistema immunitario. Appare
quindi razionale l’utilizzo del rituximab, anticorpo monoclonale chiTabella 3.
merico anti-CD20, apRituximab: percentuale di risposta a 24 settimane.
provato per il trattaLivello
MTX
Ritux
Ritux+Cyclo
Ritux+MTX
mento del linfoma nondi risposta (n=40)
(n=40)
(n=41)
(n=40)
Hodgkin a basso grado
ACR 20
38%
65%
76%
73%
o follicolare a cellule B.
Il CD20 è in antigene di
ACR 50
13%
33%
41%
43%
superficie espresso sulle
ACR 70
5%
15%
15%
23%
cellule pre-B e sulle cellule B mature; non è
Modificata da Edwards JCW, NEJM 2004
espresso sui precursori
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MEDICA
Citochine e immunomodulatori nell’artrite reumatoide
89
Tabella 4.
Efficacia del CTLA4Ig a sei mesi.
Livello
di risposta
Placebo
+ MTX
(n=119)
CTLA4Ig 2 mg/kg
+ MTX
(n=105)
CTLA4Ig 10 mg/kg
+ MTX
(n=115)
ACR 20
35,3%
41,9%
60%
ACR 50
11,8%
22,9%
36,5%
ACR 70
1,7%
10,5%
16,5%
Modificata da Kremer JM, NEJM 2003
48 settimane, l’incidenza delle infezioni era
simile al gruppo del placebo; i livelli di
immunoglobuline risultavano soltanto minimamente ridotti, mentre il titolo anticorpale
antitetanico (misura dell’immunità acquisita)
non risultava influenzato.
CTLA4Ig
Le cellule T hanno bisogno di due segnali
per essere attivate: il primo segnale è antigene-specifico ed è mediato dal legame del
TCR con una molecola MHC presente sulla
cellula presentante l’antigene; il secondo
segnale è mediato da molecole di costimolazione, in particolare il CD28 presente sui
linfociti T e il CD80 o il CD86 presente sulle
APC; in presenza di questo segnale le cellule
T proliferano e producono citochine in
grado di attivare altre cellule infiammatorie,
come i macrofagi. Il CTLA4 (cytotoxic Tlymphocyte-associated antigen 4) è espresso
sulle cellule T dopo la loro attivazione, possiede un’alta avidità di legame sia con il
CD80 che con il CD86, dalle 500 alle 2500
volte maggiore rispetto al CD28. Il CTLA4Ig
è una proteina di fusione che comprende il
dominio extracellulare del CTLA4 umano e
la regione costante della catena pesante di
una IgG1 umana. Questo farmaco si lega al
CD80 e CD86 presenti sulle APC, impedendone il legame con il CD28: viene così meno
il secondo segnale necessario per un’attivazione ottimale dei linfociti T. Uno studio randomizzato controllato (47) ha mostrato l’efficacia di questa molecola, in combinazione
con il methotrexate, nel migliorare in maniera significativa segni e sintomi di pazienti
con AR e la loro qualità
di vita; ciò si osservava
soprattutto ai dosaggi
più elevati del farmaco
(Tabella 4).
Inoltre, tale molecola è
stata ben tollerata e la
percentuale di sospensione della terapia dovuta ad eventi avversi è
risultata sovrapponibile
al gruppo del placebo.
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Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
93
La brucellosi dei mammiferi marini
Guglielmo Gargani
La brucellosi
dei mammiferi marini
Un’indagine sierologica di Jepson e coll. (1)
su campioni di siero prelevati da mammiferi
marini fra il 1989 e il 1995 lungo le coste
inglesi e gallesi mise in evidenza la presenza
di anticorpi specifici anti-brucella nel campione prelevato nel 1990 da un delfino
comune (Delphinus delphis). Queste ricerche
dimostrarono l’esistenza di infezione brucellare nei mammiferi marini in un periodo
precedente alle osservazioni che l’avevano
provocata, quelle di Ross e coll. (2), che nel
1994 riferirono di avere coltivato, in Scozia,
da foche, delfini, focene, per lo più rinvenuti morenti sulle spiagge, e da una lontra
investita da un veicolo, coccobacilli immobili, Gram negativi, a lento sviluppo: il sospetto immediato, che si trattasse di microbi del
genere Brucella, fu ben presto confermato da
indagini sia batteriologiche convenzionali,
sia biomolecolari.
Quasi contemporaneamente Ewalt e coll. (3)
isolarono microrganismi simili da un feto
abortito di delfino tursiope (Tursiops truncato) cresciuto in cattività sulle coste della
California e, poco dopo, nel gennaio febbraio 1995, Forbes e coll. (4) da linfonodi di
4 foche degli anelli (Phoca hispida) all’isola di
Baffin e nel marzo del 1996 da una foca della
Professore emerito di Microbiologia
Università degli Studi di Firenze
E.mail guglielmo@gargani
Groenlandia (Phoca groenlandica) alle isole
Magdalen (golfo di San Lorenzo, Canada).
Nel 1998 Claverau e coll. (5) e nel 1999
Tryland e coll. (6) riportano l’isolamento dello
stesso microrganismo da fegato e milza di due
diversi esemplari di balenottera minore
(Balaenoptera acutorostrata). Fu così completato il campo di ospite di queste brucelle, che
si estende in due ordini Cetacea (delfini focene e balene) Pinnipeda (foche). L’isolamento
da un animale prevalentemente terrestre, ma
con abitudini legate agli specchi d’acqua, la
lontra (Lutea lutea famiglia Mustelidae) è rimasto finora unico (Tabella 1).
Caratteri ed inquadramento
tassonomico
I microrganismi hanno la tipica forma coccobacillare, sono immobili, privi di capsula,
Gram negativi; si sviluppano sui terreni
comunemente usati per le brucelle, ma più
lentamente degli isolati terresti (fino a 8-10
giorni); quelli dalle foche, e l’unico da una
lontra, sono dipendenti, almeno in coltura
primaria, dal CO2. Le colonie su mezzo solidificato sono convesse, lucide, di colore
simile a quello del miele, a margini regolari;
quelle dalle foche sono più piccole rispetto a
quelle dai cetacei. Tutti gli isolati producono
ureasi, ma non H2S, crescono sui terreni con
fucsina basica, tionina, safranina, alle concentrazioni standard indicate per i test di
identificazione. L’antigene A (saggiato mediante agglutinazione su vetrino contro sieri
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
94
Animale
Dipendenza
da CO2
Produzione Sviluppo
di H2S
su fucsina
Sviluppo
su tionina
Lisi
da fago Bk2*
Antigene
prevalente
Foche
+
–
+
+
+
A
Lontra
+
–
+
+
+
A
Delfino
–
–
+
+
+
A**
Focena
–
–
+
+
+
A
Tabella 1.
Caratteri
“tradizionali”
degli stipiti.
Da Foster et al.
(modificato).
* Il comportamento nei confronti del fago Tb non è riportato perché irregolare
**L’isolato da un delfino in cattività di Ewalt e coll aveva antigene M prevalente.
monospecifici) è predominante secondo
Foster e coll. (7), mentre l’isolato di Ewalt
(1) avrebbe M predominante (Tabella 1).
D’altra parte lo studio antigene del lipolisaccaride con anticorpi monoclonali, secondo
Baucheron e coll. (8) ha confermato la prevalenza dell’antigene A, sia pure con un profilo
non esattamente sovrapponibile a quello dello
stipite tipo 544.
Gli stipiti di Foster (7) sono tutti lisati dal
fago BK2 ed hanno un comportamento
variabile rispetto a Iz e Tb. Il profilo metabolico, secondo Foster e coll. (7) valutato con il
metodo al tetrazolio di Broughton e Jahans
(9), differenzia tutti questi isolati da quelli
analoghi da animali terrestri, dimostrando
comunque l’appartenenza al genere Brucella.
A partire dal 1998 vari studi molecolari
hanno confermato questa classificazione;
Clavereau e coll. (1998) (5), studiando il
genoma dall’isolato da una balenottera
minore, mise in evidenza l’alto grado di
omologia delle sequenze con quelle note
delle altre Brucella sp. e, dalla combinazione
dei risultati PCR-RFLP con un probe specifico IS6501, un profilo caratteristico ai geni
OMP2, che codificano una porina. Nel 2000
Bricker e coll. (10) dimostrarono in 27 isolati una specifica IS711. L’ anno successivo
Cloeckaert, Verger ed altri (11) confermarono la stretta relazione fra stipiti terrestri e stipiti marini, ma con una divergenza maggiore, 77% contro 90% di omologia DNA/DNA
delle specie terresti fra loro.
Nomen specie
Ospiti principali
Area geografica
Br. melitensis
Uomo, caprini,
ovini (bovini)
Mediterraneo, Medio Oriente,
Arabia Saudita, Sud America
Br. abortus
Bovini (uomo)
Ubiquitaria
Br. suis
Maiali, roditori (uomo)
Nord America, Nord Europa ex U.R.S.S.
(stati meridionali)
Br. canis
Cane (uomo)
Nord America, Europa, Giappone, Cina
Br. ovis
Ovini (caprini)
Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa
Br. neotomae
Ratti
Deserti nord americani
Aree caucasiche
Br. pinnipedae
Foche, lontre
Nord America, Nord Europa
Br. cetaceae
Delfini, balene
Nord America, Nord Europa
Oceano Pacifico
Tra parentesi: isolamenti infrequenti
Tabella 2.
Br. melitensis:
nomenspecie,
animali principali
ospiti e
prevalente area
geografica.
Scripta
MEDICA
La brucellosi dei mammiferi marini
95
Caratteri distintivi sono in evidenza nel locus
omp2: in 5 delle 6 specie di origine terrestre
si trova una copia di omp2a ed una di
omp2b; fa eccezione la Br. ovis con due copie
di omp2a e non omp2b; gli stipiti da delfini,
balene focene hanno due copie di omp2b,
mentre quelli dalle foche e l’unico da una
lontra hanno una copia di omp2a ed una di
omp2b; tutti gli stipiti di origine marina
hanno comunque un marcatore particolare a
livello di omp2b.
I due gruppi, uno formato da stipiti di animali che passano parte dell’anno sulla terra
ferma, l’altro da stipiti di mammiferi esclusivamente marini, possono venir considerati nomenspecie: Br. pinnipidae e Br. cetaceae, con soppressione della Br. maris o Br.
delphini di Miller (12), confermate nel 2004
da Vizcaino e coll. (13) che hanno identificato un ulteriore marcatore di Br. cetaceae a
livello del gene omp2b. Queste nomenspecie, che comunque hanno, a mio parere, un
Tabella 3.
Specie di mammiferi marini ed aree
geografiche di
isolamento delle
due nomenspecie
Br pinnipedae e
Br. cetaceae
maggior livello di differenziazione rispetto
alle specie terrestri, che non di queste fra
loro, non sono da considerare tassonomiche ma, come queste, utili per l’epidemiologia della brucellosi.
Un esempio recente di questa utilizzazione
è stata la identificazione in U.S.A: di due
stipiti marini in casi di neuro-brucellosi in
pazienti provenienti dal Perù (14), che ha
fatto ipotizzare una particolare catena epidemiologica.
Nella Tabella 2 sono presentate le attuali
nomenspecie, incluse le due dai mammiferi marini, della singola tassonomica Br.
melitensis, in rapporto ai rispettivi ospiti ed
aree geografiche di diffusione, incluse le
due nuove da mammiferi marini.
L’ isolato di Ewalt e coll. (3), con antigene
dominante M potrebbe essere una ulteriore nomenspecie, definita finora da questo
solo carattere fenotipico e comprendente
questo solo stipite.
Famiglia
Specie
Nome italiano
Area geografica
Autore
Pinnipedae
Phoca vitulina
Foca comune
Coste scozzesi
Coste N. Inghilterra
Foster et al. (7)
Maratea et al. (17)
Halichocerus
gripsus
Foca grigia
Coste scozzesi
Foster et al. (7)
Cystophora
cristata
Foca
dal cappuccio
Coste scozzesi
Foster et al. (7)
Phoca ispida
Foca degli anelli
Canada
Forbes et al. (4)
Phoca
groenlandica
Foca
della Groenlandia
Canada
Forbes et al. (4)
Tursiopsis
truncato
Tursiope *
California
Ewalt et al. (2)
Lagenorhincus
acutus
Lagenorinco
acuto
Scozia
Foster et al. (7)
Stenella
coeruleoalba
Stenella striata
Scozia
Foster et al. (7)
Balaenoptera
acutorostrata
Balenottera
minore
Norvegia
Atlantico, Canada
Claverau et al. (5)
Odontocetes
Phocoena
Focena
Scozia
Foster et al. (7)
Mustelidae
Lutea lutea**
Lontra
Scozia
Foster et al. (7)
Cetaceae
*Animale in cattività; **Caso unico
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
96
Famiglia
Specie
Nome italiano
Area geografica
Autore
Pinnipideae
Cystophora
crestata
Foca
dal cappucio
Nord Atlantico
Tryland et al. (6)
Phoca
groenlandica
Foca della
Greoenlandia
Nord Atlantico
New England
Maratea et al. (17)
Phoca hispida
Foca degli anelli
Nord Atlantico
Tryland et al. (6)
Pinnipedi ?
Nord Atlantico
Pacifico, Artico
Nielsen et al. (16)
Phoca vitulina
Foca comune
New England
Inghilterra, Galles
Maratea et al. (23)
Foster et al. (7)
Jepson et al. (1)
Halichoerus
grypsus
Foca grigia
Inghilterra, Galles
Jepson et al. (1)
Stenella
coeruleoalba
Stenella
striata
Inghilterra
Galles
Mediterraneo
Jepson et al. (1)
Van Bressem
et al. (18)
Delphinus
delphi
Delfino
comune
Inghilterra
Galles
Jepson et al. (1)
Tursiops
truncatus
Tursiope
Inghilterra, Galles
Mediterraneo
Sud Pacifico
Jepson et al. (1)
Van Bressem
et al. (18)
Lagenorhincus
obscurus
Peru
Sud Pacifico
Van Bressem
et al. (18)
Delphinus
capensis
Perù
Sud Pacifico
Van Bressem
et al. (18)
Nord Atlantico
Nord Est Pacifico
Tryland et al. (6)
Ohishi et al. (15)
Van Bressem et al. (18)
Nord Atlantico
Tryland et al. (6)
Nord Atlantico
Tryland et al. (6)
Cetacea
Delfininae
Misticeti
Balaenoptera
acutorostrata
Balenottera
minore
Balaenoptera
physalis
Balaenoptera
borealis
Balenottera
boreale
Orcinus orca
Odontocetes
Phoceninae
Inghilterra, Galles
Jepson et al. (1)
Globicefala
melas
Balena pilota?
Inghilterra, Galles
Nord est Pacifico
Jepson et al. (1)
Orcinus orca
Balenottera
di Edel
Nord est Pacifico
Ohishi et al. (15)
Phocoena
phocoena
Focena comune
Nord Atlantico
Foster (7)
Phocoena
pinnipennis
Focena
del Pacifico
Coste peruviane
Van Bressem
et al. (18)
Ursus
maritimus
Orso bianco
Svalbard,
mare di Barents
Tryland et al. (23)
Specchio tassonomico mammiferi marini
Ordine Pinnipedi Famiglia Focili Famiglia Obenidi (trichechi) Famiglia Otarie Ordine Cetacei sottordine
Misticeti: famiglie Balenii, Balenotteridi (Balenottera). Rachianettidi sottordine Odontoceti Famiglie
Focenidi, Delfinidi Altre.
Specchio del sito OMP 2 nelle brucelle
Br. melitensis Br. abortus Br. suis Br. canis Br. neotomae omp2a omp2b
Br. ovis 2 siti omp2a
Br. pinnipidae omp2a e omp2b
Br. cetaceae 2 siti omp2b
Tabella 4.
Specie di animali
sierologicamente
positivi
Scripta
MEDICA
La brucellosi dei mammiferi marini
97
Varietà di ospite
e distribuzione geografica
Le specie animale e le aree geografiche da cui
sono state isolate Brucella e quelle con positività sierologica sono presentate rispettivamente nelle Tabelle 3 e 4
Le brucelle sono state identificate in 4 specie di
foche, 3 di delfini, quattro di balene, una di
focena ed in una singola lontra, tutte del nord
Atlantico o dell’Artico; il caso californiano
riguardava infatti un delfino in cattività. Oltre
questi esistono i risultati di Ohishi e coll. (15),
che, mediante sonde molecolari hanno individuato in lesioni delle gonadi di Balenottera
minore nel Nord Pacifico sequenze caratteristiche delle brucelle dei mammiferi marini.
Ampie indagini sierologiche dimostrarono una
diffusione ancor maggiore dell’infezione fra i
mammiferi marini: nel 1999 ricerche eseguite
da Tryland e coll. (6) su 1386 campioni di siero
da 4 specie di foche e 3 di balene raccolti fra il
1983 ed il 1996 nell’Atlantico settentrionale
(Islanda, Norvegia, penisola di Kola, Svalbard
mare di Barents e area del “pack”, misero in evidenza anticorpi specifici in tutte le specie ad
eccezione della foca barbuta (Erignatus barbatus). Altre indagini sierologiche (2001) ne
dimostrarono presenza in campioni da 33 cetacei e 61 pinnipedi su 2780 campioni da 8 specie dei primi e 6 dei secondi, raccolti fra il 1984
e il 1997 negli Oceani Atlantico, Artico
Pacifico. Benché non vi fossero indagini batteriologiche, un test competitivo ( C-ELISA) con
anticorpi monoclonali, suggerì, per la diversità
di titolo, la effettiva presenza di due biovar antigenicamente distinte (16). Fra il 1998 ed il
2000 Maratea e coll. (17) isolarono, lungo le
coste della Nuova Inghilterra Brucella sp. da
due esemplari di Foca comune (Phoca vitulinica) su 4 e da 3 di Foca groenlandica (Phoca
groenlandica) su 9 esaminati e dimostrarono
anticorpi specifici in vari esemplari delle medesime, in assenza di lesioni anatomiche evidenti
.I mammiferi marini portatori di brucella si
trovano prevalentemente nei mari freddi attorno al circolo polare artico, fino alle coste inglesi e gallesi in Europa e a quelle della Nuova
Inghilterra in America. Nel Pacifico meridionale positività sierologica di alcuni cetacei è
stata dimostrata sulle coste peruviane e nel
Mediterraneo sulle coste spagnole (18) L’infezione brucellare dei mammiferi marini non è
limitata all’emisfero settentrionale: nel 2000 è
stato comunicato che anticorpi brucellari sono
dimostrati in 5 di 16 foche nell’Antartico e si
suppone che l’infezione si stia diffondendo,
anche se finora non risulta alcun effetto patologico conclamato (19).
Manifestazioni patologiche
Le espressioni patologiche di questa infezione
sembrano infrequenti: aborti, con perdita del
feto in seguito a placentite, sono stati osservati
sulle coste californiane nel 1999 in due “bottlenose dolphins” (Tursiops truncatus) (12), con isolamenti dai materiali patologici di microrganismi che gli Autori attribuiscono ad una nuova
specie B. delphini, probabilmente sovrapponibile alla Br. pinnipidae di Cloeckaert e coll. (11);
fenomeni neuropatologici sono recentemente
(2002) descritti da Gonzales e coll. (20) in tre
esemplari di delfini Stenella coeruleoalba, nei
quali fu identifica meningoencefalite non suppurativa, con coltura positiva di brucelle e anticorpi specifici. Nel 2003 lesioni negli organi
sessuali furono riscontrate da Ohishi e coll.
(21) in balene del Pacifico Nord Occidentale.
Nel medesimo anno Sohn e coll. (14) hanno
descritto neurobrucellosi in due pazienti (casi
del tutto indipendenti fra loro) provenienti dal
Perù dai quali furono isolate brucelle, su base
biomolecolare strettamente correlate con Br.
pinnipidae.
Considerazioni
Le brucelle da mammiferi marini sono potenzialmente patogene per i mammiferi terrestri:
un caso di infezione di laboratorio è riportato
da Brew et al. (22), ma i soli casi di infezione
umana sono finora quelli di Sohn e coll. (14)
mentre nessun caso è segnalato in individui
che per varie ragioni hanno contatti più o
meno stretti con i delfini. L’infezione sperimentale di vacche in gravidanza fu comunque
ottenuta da Rhiyan e coll. (2001) (23).
La sola osservazione epidemiologica di un possibile passaggio di infezione da mammiferi
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
98
marini a mammiferi terrestri è di Tryland e coll.
(23) che rilevano presenza di anticorpi brucellari in orsi polari delle isole del mare di Barents
(senza alcun cenno di patologia riproduttiva),
prospettando una infezione per via alimentare,
in quanto la principale fonte di nutrimento di
questi animali è costituita da foche (Phoca
groenlandica e Phoca hispida), nei quali è stata
più volte dimostrata l’infezione brucellare.
Non vi sono state ricerche colturali e quindi, in
mancanza di isolati, la catena infettiva da
mammiferi marini a mammiferi terrestri è del
tutto ipotetica. La possibilità di aborti con la
conseguente liberazione di brucelle con il
liquido placentale, come avviene nei mammiferi domestici, potrebbe diffondere l’infezione e
provocare danni alla già depauperata fauna
marina, ma per quanto riguarda la medicina
umana la brucellosi dei pinnipedi e dei cetacei
è al momento attuale solo una curiosità scientifica, interessante per illustrare le possibili
selezioni di linee genetiche del genere Brucella,
con specificità per le più varie specie animali,
al di là del campo tradizionale dei ruminanti.
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Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
99
Nutrizione e neurotrasmissione
Antonio D’Alessandro1, Annalisa Aggio2
Introduzione
ni dipendenti dalla dieta, nella sintesi di
neurotrasmettitori e nel loro rilascio possono
La trasmissione dell’impulso nervoso avviene
essere associate a modificazioni funzionali e
attraverso la sintesi ed il rilascio di sostanze
comportamentali. Appurato, quindi, che la
definite “neurotrasmettitori”.
dieta può modificare il comportamento, è
Sono stati identificati numerosi composti
importante individuare le basi biochimiche
chimici a possibile azione neurotrasmettitridi questa relazione.
ce. La capacità della cellula neuronale nel
Le modificazioni nella sintesi di neurotrasintetizzare questi composti è in parte dipensmettitori sono legate all’apporto di precursodente dalla disponibilità dei precursori nella
ri con la dieta, all’introduzione alimentare di
dieta; infatti, per alcune sostanze neurotrasostanze ad azione coenzimatica (vitamine e
smettitrici, la sintesi è influenzata dalle consali minerali) o all’ingestione di sostanze sitocentrazioni eattive contenute
matiche dei renegli alimenti.
Proteine alimentari
lativi precursori
Tra i nutrienti conassunti con gli
tenuti negli alialimenti.
menti assunti con
Aminoacidi
È logico pensala dieta, le proteine
re, quindi, che
rivestono, in tal
Aminoacidi
Neurotrasmettitori
Neuropeptidi
l’apporto alisenso, un ruolo
neurotrasmettitori
derivati
a basso pm
mentare possa
primario, agendo
da aminoacidi
influenzare in
sulla sintesi dei
maniera signifineurotrasmettitori,
Glicina
Catecolamine
Encefaline
cativa la capain quanto contenGlutamato
Serotonina
Angiotensina I
cità della cellugono precursori
Aspartato
Istamina
Sostanza P
la nervosa nel
disponibili.
GABA
Acetilcolina
sintetizzare una
Come illustrato
quantità ottinella Figura 1 le
Figura 1.
male di neuroproteine assunte
Proteine alimentari come
trasmettitori.
con la dieta vengoprecursori di neurotrasmettitori.
Le modificaziono scisse ad aminoacidi che fungono da precursori per:
Specialista in Scienza dell’Alimentazione
a. neurotrasmettitori derivati da aminoacidi;
(Indirizzo Dietetico), L’Aquila
b. aminoacidi neurotrasmettitori;
Specialista in Scienza dell’Alimentazione
c. peptidi a basso peso molecolare.
(Indirizzo Nutrizionistico), L’Aquila
1
2
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
100
Figura 2.
Rapporti tra dieta,
barriera ematoencefalica e metabolismo cerebrale.
Proteine alimentari
Aminoacidi precursori
Barriera ematoencefalica
Aminoacidi precursori
Enzimi
Sintesi neurotrasmettitori
Funzione cellula nervosa
La sintesi dei neurotrasmettitori avviene grazie all’opera di enzimi specifici, i quali presentano una affinità per il loro substrato relativamente bassa, operando quindi con efficienza inferiore all’optimum, non essendo
questo mai completamente saturato.
Non esiste, inoltre, un rigido sistema di feedback tra l’interno del neurone ed il torrente
circolatorio, capace di mantenere costanti i
livelli di mediatore.
Esiste, pertanto, una stretta dipendenza tra la
quantità di precursori presenti nel torrente
circolatorio, che varia a seconda dell’apporto
alimentare, e la quantità di neurotrasmettitori sintetizzati (Figura 2).
È stato, però, evidenziato come sia importante che i diversi aminoacidi disponibili
siano tra loro in rapporto quantitativo ben
preciso per un corretto funzionamento dei
sistemi di trasporto a livello della barriera
ematoencefalica.
Ciò è legato al fatto che i carriers presenti a
livello delle cellule endoteliali della membrana ematoencefalica sono comuni per molti
aminoacidi, per cui l’uptake di carriers è
regolato non solo dalla quantità degli aminoacidi disponibili, ma anche dai rapporti
quantitativi dei diversi aminoacidi. Dalla
scelta degli alimenti di natura proteica può,
dunque, dipendere l’entità della trasmissione
dell’impulso nervoso. È importante, pertanto, analizzare a fondo il contributo delle proteine alimentari alla sintesi di neurotrasmettitori.
Nella Figura 3 sono indicati i principali neuromediatori proteico dipendenti.
Le normali variazioni nella disponibilità di
triptofano, tirosina o colina conseguenti
all’assunzione di alimenti, esercitano una
notevole influenza sulla sintesi neuronale di
serotonina, catecolamine e acetilcolina.
Il triptofano, precursore della serotonina
cerebrale, è un aminoacido essenziale e,
come tale, non viene sintetizzato dall’organismo, ma proviene dalla quota proteica introdotta con la dieta. È assorbito a livello inteFigura 3.
Neuromediatori
dieta-dipendenti.
Precursori
Tirosina
Neurotrasmettitori
Dopamina, catecolamine
Triptofano
Serotonina
Colina
Acetilcolina
H-tyr-gly-gly-phe-met-OH
Encefaline
Scripta
MEDICA
Nutrizione e neurotrasmissione
101
Figura 4.
Sintesi della
serotonina
H
H
C C
N
H
NH2
TH
H H
L-triptofano
H H
C C
NH2
N
AADD
H COOH
5-idrossitriptofano
H H
OH
C C
H
N
NH2
H
Serotonina
stinale e circola nel sangue in parte (10-20%)
come quota libera, in parte legato ad un trasportatore di aminoacidi neutro(80-90%). La
somministrazione di triptofano nell’animale
da esperimento, anche a piccole dosi, determina un evidente aumento della produzione
Figura 5.
Effetti delle diete
a diverso
contenuto
aminoacidico
sulla sintesi di
serotonina
cerebrale.
di serotonina. Il meccanismo biochimico
della sintesi di serotonina è illustrato in
Figura 4. L’enzima triptofanoidrossilasi catalizza la trasformazione del triptofano in 5OH triptofano; quest’ultimo viene rapidamente decarbossilato in presenza dell’enzima AAAD (aromatic aminoacid decarboxilase) in serotonina. Si potrebbe pensare che,
maggiore è l’apporto proteico alimentare,
maggiore sarà la sintesi di serotonina: al contrario, un pasto ricco di proteine deprime la
sintesi cerebrale di serotonina.
La spiegazione è nel fatto che un pasto ricco
di proteine ha un notevole contenuto di aminoacidi elettricamente neutri (tirosina, fenilalanina, leucina, isoleucina e valina), che agiscono in competizione con il triptofano vs il
carrier della barriera ematoencefalica.
Pertanto, paradossalmente, un pasto altamente proteico ritarda l’uptake del triptofano
a livello cerebrale, poiché aumenta la concentrazione plasmatica degli aminoacidi che
competono con esso (Figura 5).
Triptofano plasmatico (µg/ml)
30
25
20
10
5
0
x
0
x
0
0
x
Triptofano cerebrale (µg/g)
30
25
20
10
5
0
x
0
0
x
x
0
Triptofano cerebrale (µg/g)
x
x
Dieta proteica mista
0
0
Dieta con proteine
prive di aminoacidi
neutri
0.9
0.8
0.7
0.6
0.5
0
x
x
0
x
0
0
1
ore dopo i pasti
0
2
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
102
Proteine alimentari
(aminoacidi)
++
Carboidrati
(secrezione insulinica)
–
+
+
Tir, Fen, Leu, Isoleu,
Valori ematici
Triptofano
ematico
Quota ematica
Triptofano
Tir, Fen, Leu, Isoleu, Val
+
–
Triptofano
cerebrale
Serotonina
cerebrale
Se si somministra insulina, che ha l’effetto di
potenziare il passaggio di aminoacidi neutri
attraverso la membrana delle cellule, con
conseguente riduzione dei corrispondenti
livelli sierici, si ha un’aumentata sintesi di
serotonina. Ne deriva che un pasto ricco di
carboidrati, inducendo la dismissione di
insulina e riducendo, quindi, la concentrazione sierica degli aminoacidi neutri, modifica il rapporto triptofano/aminoacidi neutri
a favore del primo (Figura 6); a questo
punto sarà maggiore la quantità di triptofano
disponibile ad essere trasformato in serotonina, che passerà la barriera ematoencefalica.
Il ricorso a frequenti spuntini a base di carboidrati potrebbe essere dovuto ad un fisiologico “bisogno” di mantenere elevati i livelli di serotonina cerebrale.
Attraverso la sintesi di serotonina, il triptofano alimentare può essere responsabile di
modificazioni comportamentali.
La letteratura a riguardo è notevole ed evidenzia come vi sia una relazione tra livelli di
serotonina cerebrali ed attività locomotoria,
comportamento aggressivo, disturbi del
sonno e della percezione sensoriale.
Esperienze condotte su ratti Sprague-Dawley
hanno evidenziato come una dieta priva di
triptofano, somministrata per poche settimane, induce in ratti giovani un comportamento aggressivo, contrariamente ad osservazioni di altri Autori nelle quali tale azione non
si manifesta in così breve tempo in animali
adulti, a probabile dimostrazione che il sistema nervoso in età adulta è meno sensibile,
rispetto ai primi anni di vita, a restrizioni o
variazioni dietetiche.
Le cellule nervose ricavano la noradrenalina
e la DOPA a partire dalla tirosina e l’acetilcolina a partire dalla colina; la velocità con cui
gli enzimi tirosina idrossilasi e colina acetiltransferasi producono rispettivamente DOPA e acetilcolina può essere modulata modificando i livelli cerebrali di precursori.
La quantità di tirosina cerebrale, al pari della
serotonina, aumenta notevolmente dopo
ingestione di sola tirosina o di tirosina asso-
Figura 6.
Influenza della
dieta sulla sintesi
di serotonina
cerebrale.
Scripta
MEDICA
Nutrizione e neurotrasmissione
103
ciata a carboidrati; un pasto ad alto contenuto proteico aumenta, infatti, la tirosina plasmatica, senza modificare la sintesi delle
catecolamine. I livelli encefalici di colina
aumentano, invece, in corrispondenza dell’aumento plasmatico di colina successivo
all’ingestione di lecitina; l’uptake di colina nel
cervello è, infatti, catalizzato da un sistema
di trasporto macromolecolare che ha una
elevata affinità per la colina.
Tuttavia, se un neurone catecolaminergico o
colinergico non è stimolato frequentemente,
esso risponde scarsamente all’aumento di
tirosina o colina disponibile; se, invece, il
neurone è fisiologicamente attivo, un incremento dei livelli dei precursori determina
un’ aumentata sintesi di DOPA e acetilcolina.
Per tali motivi, composti contenenti tirosina
o colina sono stati utilizzati per il trattamento di malattie neurologiche.
I neurotrasmettitori peptidici entrano in
gioco in sistemi comportamentali di vitale
importanza, quali quelli implicati nei meccanismi di trasmissione e modulazione del
dolore e nei processi neuronali che stanno
alla base dell’umore, della memoria, dell’apprendimento, dell’appetito, della regolazione
della pressione arteriosa e della temperatura
corporea. Sono tutti peptidi a basso peso
molecolare che intervengono nella regolazione dell’omeostasi in modo diverso e, di
norma, interagendo con altri peptidi o neurotrasmettitori.
Non solo le proteine e gli aminoacidi, ma
anche i lipidi possono esercitare degli effetti
sul meccanismo della neurotrasmissione.
Una prolungata carenza dei PUFA della serie
n-3 nella dieta, infatti, puo’ indurre disturbi
neurologici clinicamente rilevabili, a causa di
disturbi della trasmissione dopaminergica a
livello dell’ ippocampo.
Esperimenti in vivo su modelli animali hanno
evidenziato un incremento dei livelli basali
di DOPA ed un decremento nei livelli basali
dei suoi metaboliti DOPAC (acido 3,4-diidrossifenilacetico) e HVA (acido omovanillico) in ratti nutriti con dieta carente di acido
α-linolenico rispetto ai controlli.
Il rilascio di DOPA dai siti di deposito vescicolari, dopo stimolazione con tiramina, era
inferiore del 90% nei ratti carenti rispetto ai
controlli. Studi radiografici effettuati nelle
medesime regioni cerebrali hanno evidenziato una riduzione del 60% dei siti vescicolari
contenenti carriers di monoamine, negli animali a dieta carente.
Nell’ ippocampo, inoltre, sono stati rilevati
livelli di cAMP significativamente più elevati
nei ratti carenti rispetto ai controlli.
Queste osservazioni dimostrano come vari
siano i fattori in grado di modificare la trasmissione dopaminergica e, quindi, il comportamento, in caso di carenza prolungata di
PUFA della serie n-3 nella dieta.
Anche l’esposizione all’etanolo si è rivelata in
grado di interferire nel meccanismo della
neurotrasmissione dopaminergica.
Nei ratti esposti cronicamente all’alcol etilico, infatti, è stato evidenziato un incremento
della risposta dei recettori D1 sia da un
punto di vista biochimico che comportamentale.
L’esposizione all’ alcol in epoca prenatale,
inoltre, induce nella prole di animali da
esperimento una riduzione del legame del
3H-glutammato con i propri recettori ippocampali, con una conseguente minore trasmissione nervosa glutammato - mediata.
Parimenti, l’esposizione prenatale ad alcol
può indurre nella prole di animali da esperimento alterazioni nella neuromodulazione
dei recettori di GABA (acido gammaaminobutirrico), cui si associa anche una differente risposta alle benzodiazepine; può, inoltre,
alterare la neurotrasmissione mediata da
serotonina in diverse regioni dell’encefalo, in
maniera irreversibile.
Tale alterazione, inoltre, potrebbe indurre
disturbi del comportamento alimentare in
individui geneticamente predisposti.
Fino a che punto, allora, l’alimentazione può
modulare la sintesi di neurotrasmettitori?
È un campo di indagine ancora poco esplorato, sul quale si va man mano focalizzando
l’attenzione di molti ricercatori ed esperti.
Basta solo segnalare, ad esempio, come in
alcuni testi di algologia vengano indicati i
principi alimentari ad effetto antalgico.
Vi figura al primo posto il triptofano, capace
di aumentare la concentrazione cerebrale di
endorfine; la D-fenilalanina e la D-leucina in
associazione potrebbero inoltre risultare utili
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
104
in alcune forme dolorose (osteoartrosi,
nevralgia post-erpetiche), in quanto i due
amminoacidi contribuiscono all’inibizione
della carbossipeptidasi, l’enzima che degrada encefalina ed endorfina.
La direzione è, dunque, quella giusta: bisogna soltanto rimuovere completamente l’antica nozione della “insensibilità” delle strutture nervose alle variazioni quantitative e
qualitative della razione alimentare assunta,
al fine di appurare se e come sia possibile
coadiuvare le attuali terapie neurologiche e
psichiatriche con un uso mirato dei vari
nutrienti.
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M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
107
Orlistat: non solo obesità
Francesco Morelli
La sindrome
metabolica
L’esperienza clinica e gli studi epidemiologici hanno evidenziato
che sovente più fattori di rischio
cardiovascolare sono presenti in
uno stesso individuo e che tale
condizione accelera lo sviluppo
dell’aterosclerosi e delle sue complicanze.
Da un’analisi prospettica dei dati
dello studio PROCAM (Prospective Cardiovascular Munster) è infatti emerso che per gli uomini di età
compresa tra 40 e 65 anni la presenza di diabete o di ipertensione
aumenta di 2,5 volte l’incidenza di
infarto miocardico, mentre tale
incremento è di 8 volte quando
essi si associano tra loro, e di 19
volte quando si aggiunge qualche
alterazione del profilo lipidico (1).
La co-esistenza nello stesso soggetto di differenti anomalie metaboliche (dislipidemia, ipertensione, insulino-resistenza, obesità e
stato pro-trombotico) è stata, nel
corso degli anni, variamente
denominata dai diversi Autori
(“sindrome X”, “sindrome dell’insulino-resistenza”, “sindrome del quartetto mortale”), ma attualmente il
termine più utilizzato è quello di
“sindrome metabolica” (2-6).
Diabetologia e Malattie Metaboliche
Ospedale Campostaggia Poggibonsi
ASL 7 Area Senese
Recentemente l’IDF (International
Diabetes Federation) ha indicato i
criteri per identificare i pazienti con
questa sindrome (7) (Tabella 1).
Come si può facilmente notare
l’obesità centrale è considerata
una componente essenziale della
sindrome metabolica.
L’elemento patogenetico comune
delle alterazioni della sindrome
metabolica è ritenuta essere l’insulino-resistenza (8).
Obesità ed insulino-resistenza
sono due condizioni che sono
spesso associate nello stesso
paziente, ma non esiste concordanza sui loro rapporti causali,
cioè se l’obesità concorra all’insorgenza dell’insulino-resistenza,
oppure se l’incremento ponderale
possa essere un epifenomeno dell’insulino-resistenza.
Tuttavia, qualunque sia il meccanismo che lega tra loro le varie
componenti della sindrome metabolica è noto che l’obesità viscera-
Tabella 1.
Diagnosi clinica di sindrome metabolica
secondo le linee guida dell’IDF (7).
SINDROME METABOLICA
Obesità centrale (definita come circonferenza vita)
Uomini Europei
≥ 94 cm
Donne Europee ≥ 80 cm
Più due dei seguenti quattro fattori:
Aumento trigliceridi
Riduzione colesterolo HDL
Uomini
Donne
≥ 150 mg/dL (≥ 1,7 mmol/L)
o specifico trattamento
per questa alterazione lipidica
< 40 mg/dL (< 1,03 mmol/L)
< 50 mg/dL (< 1,29 mmol/L)
o specifico trattamento
per questa alterazione lipidica
Aumento pressione arteriosa
≥ 130/≥ 85 mm Hg
o trattamento per ipertensione
precedentemente diagnosticata
Aumento glicemia a digiuno
≥ 100 mg/dL (≥ 6,1 mmol/L)
o diabete di tipo 2
precedentemente diagnosticato
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
108
le (indicata dal valore della circonferenza vita) promuove l’intolleranza glucidica, l’ipertensione e
la dislipidemia (9). È quindi da
ritenere che l’obesità viscerale
abbia effetti metabolici multipli
che contribuiscono ad aumentare
il rischio cardiovascolare: ciò ha
indotto alcuni Autori a suggerire
che la sindrome metabolica
potrebbe essere denominata anche
“sindrome del grasso viscerale” (10).
Degna di nota è l’osservazione
che recenti indagini hanno evidenziato che nei soggetti a basso
rischio di cardiopatia ischemica
(< 10% a 10 anni secondo l’equazione di Framingham) l’obesità
viscerale si associa ad una maggiore progressione dell’aterosclerosi coronarica subclinica, indicando la necessita anche in questi
individui di un intervento terapeutico precoce (11).
Il tessuto adiposo
come organo
endocrino
In passato al tessuto adiposo venivano assegnati un ruolo di depo-
sito passivo del grasso ed una
funzione meccanica di sostegno.
Oggi è invece noto che esso è un
componente importante del sistema endocrino producendo varie
proteine secretorie denominate,
nel complesso, adipocitochine
(9).
Quest’ultime comprendono l’adiponectina, il sistema angiotensinogeno/angiotensina II, il tumor
necrosis factor-α (TNF-α), l’interleuchina-6 (IL-6), l’inibitore di
tipo 1 dell’attivatore del plasminogeno (9).
Come è facile notare, si tratta di
elementi che possono contribuire
tutti allo sviluppo della cardiopatia coronarica (12-16).
In aggiunta a ciò occorre ricordare che nei soggetti obesi è spesso
elevata la concentrazione plasmatica di acidi grassi liberi, reperto
che sovente è osservabile nelle
prime fasi di sviluppo dell’insulino-resistenza (9).
Occorre inoltre sottolineare che
per il tessuto adiposo sono state
evidenziate differenti attività
metaboliche a seconda delle sedi
corporee: ciò potrebbe spiegare il
maggior contributo dell’obesità
viscerale allo sviluppo del rischio
coronarico (17).
Orlistat
per il trattamento
dell’obesità e degli
altri fattori di rischio
cardiovascolare
ad essa associati
Molti studi hanno evidenziato
che il calo ponderale (in particolare quello determinato da una
modificazione dello stile di vita)
sembra essere efficace nel migliorare il quadro metabolico complessivo e nel ridurre la morbilità
cardiaca nei soggetti obesi o affetti da intolleranza glicemica, ad
alto rischio di eventi cardiovascolari (18-22).
Tuttavia, la riduzione del peso
corporeo ed il suo mantenimento
a lungo termine sono spesso difficili da raggiungere e sono pochi
i pazienti che riescono a mantenere il calo ponderale ottenuto in
breve tempo grazie ad una dieta
ipocalorica (23-25).
Il trattamento farmacologico con
orlistat, un inibitore delle lipasi
Tabella 2.
Prevalenza della sindrome metabolica e dei suoi componeti al termine dello studio ORLICARDIA (28).
Pazienti a dieta
n = 32
Diabete mellito (%)
Obesità centrale (%)
Ipertensione (%)
Ipertrigliceridemia
Bassi livelli di HDL-C (%)
Sindrome metabolica (%)
Sindrome metabolica a 4-5 componenti (%)
100
97
56
41
66
91
53
Pazienti trattati
con orlistat + dieta
n = 94
Valore di p
100
81
32
46
52
65
41
1,0
0,0001
0,0001
0,2036
0,0072
<0,00O1
0,0173
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
Orlistat: non solo obesità
109
Tabella 3.
Variazioni dei lipidi plasmatici negli studi a un anno con orlistat (29).
Pazienti obesi
a basso rischio
Parametro
Colesterolo tot.
N. studi
(dimensione
campione)
WMD, OR - PL
(95% IC)
Pazienti diabetici
N. studi
(dimensione
campione)
Pazienti obesi
ad alto rischio
N. studi
(dimensione
campione)
WMD, OR - PL
(95% IC)
WMD, OR - PL
(95% IC)
5 (2679)
–0,32 (–0,39, –0,25)*
4 (1729)
–0,37 (–0,47, –0,26)*
2 (908)
–0,24 (–0,41, –0,07)*
5 (2679)
–0,25 (–0,31, –0,19)*
4 (1729)
–0,25 (–0,35, –0,15)*
2 (908)
–0,19 (–0,30, –0,09)*
4 (1799)
–0,03 (–0,06, 0,01)
4 (1729)
–0,03 (-–0,05,–0,01)*
1 (376)
0,02 (–0,06, 0,02)
LDL/HDL
4 (1799)
–0,18 (–0,26, –0,11)*
4 (1729)
–0,14 (–030, 0,02)
1 (532)
–0,15 (–0,30, 0,00)*
Trigliceridi
3 (1581)
0,00 (–0,17, 0,16)
4 (1729)
–0,20 (-–0,35, –0,05)*
1 (376)
(mmol/L)
LDL colesterolo
(mmol/L)
HDL colesterolo
(mmol/L)
0,11 (–0,1, 0,32)
(mmol/L)
OR = orlistat; PL = placebo; WMD = differenza media riscontrata
* = effetto significativo a favore di orlistat, p ≤ 0,05
gastriche e pancreatiche, si è rivelato efficace nell’indurre una
significativa perdita del peso corporeo, tuttavia finora non erano
completamente noti i suoi effetti
sugli altri componenti della sindrome metabolica (26, 27).
Una recente indagine, lo studio
ORLICARDIA (The ORLIstat and
CArdiovascular Risk profile in
patient with metabolic syndrome
and type 2 DIAbetes study), condotta su 134 pazienti con sindrome metabolica e diabete di tipo 2
ha evidenziato che il trattamento
con orlistat (120 mg tre volte/die
per 6 mesi) abbinato ad una dieta
ipocalorica ha determinato, rispetto alla sola dieta, la modificazione di molti fattori di rischio
cardiovascolare (28) (Tabella 2).
In particolare, al termine del 6°
mese di follow up, il 35% dei
pazienti trattati con orlistat non
soddisfaceva più i criteri di defini-
zione della sindrome metabolica,
rispetto al 9% dei pazienti sottoposti alla sola dieta ipocalorica (p
<0,0001). Il risultato più importante di questo studio è stato tuttavia una significativa riduzione
(p<0,0001) di eventi cardiovascolari a 10 anni nel gruppo orlistat
(–50%) rispetto al gruppo dieta
ipocalorica (–4,5%).
Gli effetti di orlistat sul profilo
lipidico sono stati oggetto di
un’ampia meta-analisi in cui sono
stati presi in considerazione 28
trials clinici controllati (29).
Questa indagine ha messo in luce
che il trattamento con orlistat migliora significativamente le concentrazioni lipidiche plasmatiche in
tutti i pazienti obesi, indipendentemente dalle comorbidità (Tabella
3). Pertanto i dati emersi dagli
studi clinici controllati indicano
chiaramente che l’effetto terapeutico di orlistat non si limita al calo
ponderale, ma si estende anche al
miglioramento degli altri componenti della sindrome metabolica.
Tuttavia quando si analizzano i
risultati degli studi clinici controllati esiste sempre la possibilità che
essi, essendo conseguiti in gruppi
di pazienti selezionati, si possano
discostare da quanto si verifica
nella pratica clinica quotidiana, in
cui i farmaci vengono prescritti
senza limitazioni di protocollo.
Per quanto riguarda orlistat questo dubbio è stato fugato dallo
studio XXL (30).
Lo studio XXL è uno studio di
sorveglianza post marketing condotto in Germania su 11.131
donne e 4.418 uomini (età media
48 anni, BMI 34, kg/m2, durata
media dell’obesità 13,7 anni) a
cui è stata raccomandata, da parte
di medici di Medicina Generale,
l’assunzione di 120 mg di orlistat
tre volte al giorno.
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
110
Tutti i pazienti
Pazienti non dislipidemici
15
12,6
Pazienti dislipidemici
11,1
9,4
10
Variazione (%)
5
Colesterolo
totale
Trigliceridi
Colesterolo
LDL
0
Colesterolo
HDL
–5
–8,1
–8,8
–10
–11,1
–10,6
–11,6
–13,5
–15
–14,4
–14,4
–18,3
–20
Pressione arteriosa
sistolica
Pressione arteriosa
diastolica
0
–3,3
–5
–5,1
–5,9
–7,6
–10
–8,7
–12,9
Variazione della glicemia (%)
Variazione (mmHg)
0
–5
–5,1
–7,5
–10
–15
–15
–15,0
Tutti i pazienti
Tutti i pazienti
Pazienti non ipertesi
Pazienti non diabetici
Pazienti ipertesi
Pazienti diabetici
Tabella 3.
Studio XXL: effetto del trattamento con orlistat sui lipidi plasmatici, sulla pressione arteriosa e sulla glicemia (30).
Dopo una media di 7,1 mesi di
trattamento, tanto gli uomini
quanto le donne hanno perso il
10,7% del loro peso iniziale ed è
stato osservato un notevole
miglioramento degli altri fattori di
rischio cardiovascolare (Figura 1).
Entrando nel dettaglio:
si sono si ridotti del 13,5% e del
14,4%, i trigliceridi del 18,3%,
mentre i livelli di colesterolo
HDL sono aumentati del 12,6%;
nei pazienti dislipidemici il colesterolo totale e il colesterolo LDL
nei pazienti diabetici la glicemia si è ridotta del 15%.
nei pazienti ipertesi la pressione sistolica media si è ridotta di
12,9 mmHg e la diastolica di
7,6 mmHg;
I miglioramenti dei fattori di
rischio cardiovascolare hanno
comportato anche una diminuzione dei farmaci necessari a trattare le malattie concomitanti:
circa 1/6 dei pazienti obesi ipertesi o diabetici ha interrotto l’assunzione, rispettivamente, degli antiipertensivi o degli antidiabetici
orali ed 1/3 dei pazienti dislipidemici ha interrotto l’assunzione
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005
Orlistat: non solo obesità
111
degli ipolipemizzanti. Questi
risultati confermano pertanto
quanto già osservato negli studi
clinici controllati ed indicano che
l’efficacia di orlistat non si limita
all’obesità, ma si estende anche
agli altri fattori di rischio cardiovascolare.
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Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 5-6, 2005
113
International-Italian Society of Plastic-Aesthetic and Oncologic Dermatology
L
e patologie dermatologiche e tutte le problematiche legate ad un corretto
mantenimento della pelle sana sono argomenti di quotidiana importanza
ed interesse per ogni medico.
Un aggiornamento sulle ultime ricerche e terapie dermatologiche sarà
sicuramente molto apprezzato tra chi deve essere sempre pronto a dare risposte
concrete e scientifiche ai pazienti. Con impegno ed entusiasmo ho accolto l’invito
dell’editore ad instaurare un collegamento diretto tra il mondo della dermatologia
e il medico di famiglia, coinvolgendo in questa iniziativa l’ISPLAD.
L’ ISPLAD è un’associazione che raccoglie oltre 1.800 dermatologi italiani
e stranieri, essa è stata fondata in Italia cinque anni fa con l’intento
di approfondire la conoscenza sui processi dell’invecchiamento cutaneo e tutte
le patologie legate ad esso. Si prediligono e si studiano tutte le terapie
non chirurgiche, ragione per cui si è coniato il termine di “Dermatologia Plastica”.
La “plastica dermatologica” assume così il significato di “plasmare” e migliorare
la pelle senza ricorrere a resezione dei piani profondi ma utilizzando mezzi
dermatologici come i peeling, filler, laser, farmaci, ecc; cioè tutto ciò che è
alternativo alla chirurgia.
Ma su queste pagine si parlerà non solo di Dermatologia Plastica, ma di
tutti i possibili problemi cutanei, in maniera utile alla pratica quotidiana
di un medico.
Si favorirà anche uno scambio di esperienze e si risponderà ad ogni richiesta
di approfondimento su particolari patologie o terapie dermatologiche.
Invito tutti i colleghi a collegarsi al sito www.isplad.org per instaurare un
contatto diretto con l’ ISPLAD e partecipare ad iniziative di interesse generale.
Sul sito è già attiva la sezione “Osservatorio Dermoplastico” ove si possono
segnalare tutte le reazioni avverse che si osservano su pazienti sottoposti
a terapie estetiche.
Sono sicuro che queste pagine diventeranno un interessante e concreto momento
di aggiornamento “sull’organo cute”, per questo non mancherà l’impegno
e l’entusiasmo che sosterrà questo nuovo appuntamento mensile.
Antonino Di Pietro
Presidente ISPLAD
Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 5-6, 2005
114
“Pelle sana”: uno studio italiano sulla popolazione sana
riguardo ad abitudini di vita e di trattamento della cute,
con particolare attenzione al fenomeno della “pelle sensibile”
ntroduzione
I
Negli ultimi anni, l’offerta del
mercato di nuovi prodotti cosmetici, di
trattamenti estetici, medici e chirurgici,
ha avuto un forte incremento.
Coerentemente all’aumentato numero di
persone che si reputano “esperte” in
questo campo, i dermatologi rappresentano il “primo livello” professionale per
fornire i più appropriati consigli terapeutici, anche in assenza di malattie.
Allo scopo di sensibilizzare l’opinione
pubblica a questo importante concetto,
l’International-Italian Society of PlasticAesthetic Dermatology (ISPLAD), ha
deciso di promuovere la campagna
“Pelle sana”.
La campagna, descritta in questo lavoro, ha lo scopo di sensibilizzare la
popolazione a consultare il dermatologo, anche in assenza di malattia, allo
scopo di ricevere i consigli terapeutici
più idonei per avere una pelle sana.
Questo tipo d’atteggiamento permette
spesso di formulare diagnosi precoci di
malattie cutanee. I dati epidemiologici
raccolti erano riferiti ad una vasta parte
della popolazione italiana.
La pelle sensibile (per alcuni autori
“reattiva”), è stata definita come una
condizione caratterizzata da una ridotta tolleranza cutanea a fattori esogeni
come il freddo, il caldo, il vento e/o a
frequenti e prolungate applicazioni di
prodotti cosmetici topici.
Le manifestazioni cliniche consistono
prevalentemente in sintomi neurosensoriali come prurito, pizzicore e bruciore.
Si può associare eritema e desquamazione. Poiché non sono presenti segni clinici evidenti sulla pelle, le manifestazioni
non presentano le caratteristiche della
Adele Sparavigna1
Michele Setaro1
Antonino Di Pietro2
La ricerca si è basata sui risultati ottenuti dal test all’acido lattico.
Materiali e metodi
dermatite da contatto. La sede del corpo
più frequentemente colpita è il viso, specialmente le pieghe nasolabiali (1).
Lo “stinging test” consiste nell’applicazione di una soluzione al 10% di acido
lattico nella piega nasolabiale.
È generalmente accettato come test per
la sensibilità cutanea (2).
La patogenesi della sensibilità cutanea
non è ancora perfettamente spiegata.
Alcuni studi hanno suggerito che essa è
dovuta ad un danno della barriera
cutanea, che assume una tendenza a
“iperreagire” ad agenti topici, associati
ad un’aumentata risposta neurosensoriale (3).
Sono in numero estremamente esiguo
gli studi epidemiologici effettuati sulla
sensibilità cutanea. Uno studio epidemiologico effettuato in Gran Bretagna,
con un’autovalutazione per mezzo di
un questionario, suggeriva che circa la
metà della popolazione aveva la pelle
sensibile (4).
Tuttavia l’autovalutazione, non rappresenta un parametro attendibile per un
corretto giudizio sulle pelle sensibile (3).
L’obiettivo del nostro studio era di raccogliere, nel territorio italiano, i dati
epidemiologici in adulti sani, senza evidenti patologie.
1
Derming, Clinical Research and Bioengineering Institute
Monza (Milano)
2
Dipartimento di Dermatologia, Ospedale L. Marchesi
Inzago, (Milano)
Lo studio era contrassegnato
dalla sigla “Pelle sana 2003”, promossa
dalla International-Italian Society of
Plastic-Aesthetic Dermatology (ISPLAD),
iniziato dall’Italia.
Al pubblico veniva offerta una visita
gratuita presso uno dei 462 dermatologi aderenti alla campagna, su tutto il
territorio italiano.
L’iniziativa era stata pubblicizzata a
partire dai due mesi precedenti attraverso i media.
L’utente interessato poteva fissare un
appuntamento per una visita, per
telefono o attraverso il sito ISPLAD
(www.isplad.org).
Soggetti. Erano inclusi nello
studio, soggetti adulti con un range di
età compreso fra i 18 e gli 80 anni, di
entrambi i sessi, senza evidenti affezioni dermatologiche, provvisti del
“Consenso Informato”.
I criteri d’esclusione erano i seguenti:
gravidanza, allattamento; scarsa collaborazione; alterazioni cutanee del viso,
come cicatrici, ferite, malformazioni;
malattie sistemiche; tutte le patologie
dermatologiche; interventi chirurgici
pregressi; trattamenti cosmetici (peeling, impianti, laser), effettuati nell’ultimo anno; trattamenti farmacologici.
Esame clinico. Tutti i dermatologi che aderivano alla campagna,
erano forniti del protocollo di ricerca,
moduli e un kit diagnostico con il test
Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 5-6, 2005
115
all’acido lattico al 10%. In tutti i casi
esaminati, venivano raccolte le informazioni ottenute dall’anamnesi: lo stile
di vita e l’uso abituale di cosmetici, il
livello di esposizione solare del volto.
Inoltre veniva eseguito un esame obiettivo del volto con registrazione sulla
relativa scheda.
Stinging test. L’acido lattico
veniva applicato in soluzione, sulle pieghe nasolabiali, domandando ai soggetti se accusavano una reazione locale
dopo 3 minuti, secondo il metodo pubblicato da Issachar et al. (2).
Soggetti che non riportavano alcuna
reazione locale erano classificati come“non stingers”, coloro i quali accusavano disturbi del tipo bruciore o pizzicore venivano definiti come “stingers”.
L’intensità dei sintomi veniva quantificata con una scala da 0 (= assente) a 3
(= molto intenso).
Analisi statistica. La statistica relativa (media ±SD) ai principali
risultati era così organizzata.
La comparazione veniva effettuta in un
numero dei seguenti sottogruppi:
maschi e femmine; non fumatori e
fumatori; “stingers” e “non stingers”;
l’intera popolazione ed i pazienti portatori di una pelle non sensibile, sensibile, affetti da dermatite atopica, allergia,
storia di reazioni cutanee ai cosmetici,
storia di malattie dermatologiche, eritemi provocati da svariate cause (vino e
freddo, sbalzi di temperatura, detergenti, acqua, cosmetici, traumi o emozioni), e nei confronti di soggetti con segni
clinici evidenti: xerosi, desquamazione,
eritema, lesioni acneiche, iper- e ipopigmetazioni, iperseborrea.
La correlazione tra l’età dei soggetti ed
il test di provocazione (stinging), veniva calcolata mediante il coefficiente di
Spearman.
Risultati
Soggetti. Il sito internet ha
registrato un numero di 6.164 contatti
e di 8.193 telefonate. Un numero di
4.865 soggetti riceveva una visita dermatologica gratuita. Sono stati registrati nelle apposite schede un totale di
2.101 casi, inviati dagli stessi dermatologi per uno studio statistico dei risultati ottenuti. Come richiesto dal protocollo, i casi riguardavano persone in
buona salute, prive di alcuna patologia
dermatologica apparente.
La maggior parte delle visite furono
effettuate nel nord (50,4%) e al centro
Italia (42,1%). La maggior parte dei soggetti era rappresentato da donne
(88,5%) e più della metà avevano un’età
compresa fra 26 e 45 anni (51,7%).
Erano poco rappresentati i soggetti
molto giovani (18-25 anni = 11.5%) ed
esiguo era il numero degli anziani
(5,4%). L’età più rappresentata era di
42 ± 14,0 anni.
Il loro fototipo (secondo la classificazione di Fitzpatrick), era generalmente III
(54%) o II (28%); i fototipi IV e I erano
meno frequenti, rispettivamente 12% e
5%. Gli altri fototipi erano rari (1%).
All’incirca metà dei soggetti non erano
fumatori (44,8%); soltanto 11.6%
erano fumatori. I rimanenti soggetti
erano ex fumatori o non avevano
meglio specificato il loro rapporto con
il fumo. Per quanto concerneva lo stile
di vita e le abitudini, la maggior parte
dei pazienti (60%), trascorreva il proprio tempo libero all’aria aperta e circa
la metà praticava sport (44,2%).
Alcuni pazienti lavoravano all’aria
aperta (16,8%) o si esponevano a lampade UV (15,6%).
Circa la metà dei pazienti riferiva che la
propria pelle era sensibile al vino, al
freddo, agli sbalzi di temperatura,
micro-traumi o lamentavano arrossamenti legati all’emozione. Il 16,9%
erano sensibili alla sola acqua. La maggior parte dei soggetti facevano uso di
cosmetici. Circa il 60% utilizzava
creme idratanti e la metà applicava
creme schermanti dal sole, trucchi e
latte detergente. Più di un terzo dei
pazienti usava prodotti anti-aging.
In circa un terzo dei pazienti erano
state riscontrate aree iperpigmentate,
eritema e/o iperseborrea e circa un
quarto aveva delle aree ruvide e lesioni
acneiche nel volto.
Le lesioni desquamanti e ipopigmentate
erano meno frequenti (rispettivamente
19,1% e 7,1%).
Più di metà dei soggetti riferivano di
avere una pelle sensibile (56%); 30,5%
aveva una storia di reazione avversa ai
cosmetici ed il 30,1% aveva avuto delle
dermopatie; 19,6% aveva accusato reazioni allergiche e 4,4% aveva sofferto di
dermatite atopica.
Tutte la patologie dermatologiche
riscontrate erano più comuni nei soggetti che avevano riferito di avere una
pelle sensibile, rispetto a coloro i quali
non avevano riportato alcuna reattività
cutanea.
La differenza dell’eritema era particolarmente marcata (25% contro 8,9%),
così come era diversa la storia clinica di
patologie (19% contro 10,5%), nella
Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 5-6, 2005
116
xerosi (17,9% contro 8,2%) e nelle
desquamazioni (13,3%, contro 5,8%).
Stinging test. La percentuale
degli “stingers” era del 54,9%. Questo
dato era leggermente più alto nei
pazienti con pelle sensibile (59%),
rispetto ai soggetti con pelle non-sensibile (48,4%).
Non è stata riscontrata una differenza
significativa tra i pazienti atopici
(54%), allergici (49,5%), reattivi ai
cosmetici (53,2%) o con una storia di
malattie dermatologiche (55,5%).
L’intensità dello “stinging” era inversamente proporzionale all’età dei soggetti
esaminati (rs=0,91, p <0,001).
Discussione
L’analisi dei dati demografici e
lo stile di vita dei soggetti coinvolti
nella campagna, mostrano che solo una
parte della popolazione italiana ha un
interesse nel mantenere la propria pelle
sana, principalmente le giovani donne
che avevano già una vita sana e che avevano cura per la propria pelle. Soltanto
l’11,6% erano fumatrici e solamente il
15,6% utlizzava lampade ad UV, due
dei fattori più dannosi per la pelle.
Per di più, la maggioranza (60%)di esse
trascorreva il proprio tempo libero
all’aria aperta e usava regolarmente
creme cosmetiche o altri prodotti per la
cura della pelle o per la fotoprotezione.
Nei soggetti più anziani (5,4%) per un
terzo, si notava, anche in relazione al
loro stile di vita, delle aree iperpigmentate. Questi dati possono essere ascritti
al fototipo degli italiani e alle condizioni
climatiche del meridione italiano, dove
l’esposizione solare ed il danno che ne
consegue, sono molto più intensi.
Questo studio mostra altresì che la prevalenza della pelle sensibile, definita
come reazione positiva all’acido lattico
nella popolazione italiana è alta, essendo
sopra il 54,9%.
Questa prevalenza, particolarmente
elevata negli “stingers”, non sembra
riflettere la reale situazione nella popolazione, poiché, verosimilmente, la
campagna di informazione attira l’attenzione soprattutto di persone che già
soffrono di pelle sensibile.
La prevalenza di soggetti che riferivano
di avere una pelle sensibile era senz’altro più alta (59,9%). Questo risultato è
stato riscontrato principalmente nelle
donne, che rappresentano circa il 90%
del nostro studio.
Questo dato è in accordo con i risultati
già raccolti da precedenti studi epidemiologici, senza l’ausilio del test all’acido lattico.
In uno studio epidemiologico condotto
in Gran Bretagna, basato su questionari, 51,4% delle donne e 38,2% degli
uomini, riportavano una pelle sensibile
(4), in un altro studio condotto negli
USA, basato su interviste telefoniche, il
52% delle persone contattate riferivano
di avere una pelle sensibile indipendentemente dalla razza (5).
Questa prima esperienza, che coinvolge
il dermatologo italiano, può essere considerata positiva per quanto concerne la
logistica della campagna e le numerose
adesioni degli specialisti dermatologi.
Per le campagne future, faremo tesoro di
questa esperienza, cercando di perfezionare i protocolli, per una più efficace
collaborazione degli utenti.
Per concludere, lo studio ci ha dato il
modo e l’occasione di “monitorare” in
modo soddisfacente la salute e la sensibilità della pelle nella popolazione italiana.
Ringraziamenti
Questo progetto è stato realizzato grazie alla collaborazione ed al
supporto dei Laboratori Vichy Italia.
Speciali ringraziamenti vanno rivolti ai
dermatologi che hanno aderito al progetto. Essi sono menzionati nel sito:
www.isplad.org
Bibliografia
1. Draelos ZD. Sensitive skin: perceptions, evaluation and treatment. Am J Contact
Dermat 1997; 8:67
2. Issachar N, Gall Y, Borell MT, Poelman MC.
pH measurements during lactic acid stinging test
in normal and sensitive skin. Contact Dermat
1997; 36:152
3. Muizzuddin N, Marenus KD, Maes DH.
Factors defining sensitive skin and its treatment.
Am J Contact Dermatol 1998; 9:170
4. Willis CM, Shaw S, De Lacharriere O,
Baverel M, Reiche L, Jourdain R, Bastien P,
Wilkinson JD. Sensitive skin: an epidemiological
study. Br J Dermatol 2001; 145: 258
5. Jourdain R, De Lacharriere O, Bastein P,
Maibach HI. Ethnic variations in self-perceived
sensitive skin: epidemiological survey. Contact
Dermatitis 2002; 46:162
Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 5-6, 2005
117
Valutazione dell’affidabilità e dell’efficacia dell’acido polilattico
per il trattamento della lipoatrofia facciale associata ad infezione da HIV
A cura di Francesco Bruno*
Quest’articolo dimostra come la dermatologia plastica non
rappresenti soltanto un importante ausilio in estetica, nei
cosiddetti pazienti non affetti da alcuna patologia (come la
cura delle rughe e dell’invecchiamento cutaneo), ma in casi
più gravi come in pazienti affetti da AIDS i quali, curati con
terapia anti-retrovirus (HAART), soffrono di sindrome lipodistrofica. Questi interventi contribuiscono a migliorare la qualità di vita di questi pazienti, già molto provati per la grave
malattia di base.
Prima
Dopo
Introduzione. La sindrome lipodistrofica è associata
esclusivamente alla HAART, contenente inibitori della proteasi o inibitori della trascrittasi inversa. Dei pazienti trattati con
HAART, tra il 15% e l’80%, sviluppano una lipoatrofia facciale entro i 10 mesi dall’inizio del trattamento. Attualmente non
esistono terapie ideali per i pazienti affetti da AIDS, nonostante lo stress psico-sociale, l’isolamento e la depressione che accompagnano la malattia.
La maggior parte dei filler sembrano ben tollerati; tuttavia sono sempre possibili reazioni allergiche, infezioni, noduli, granulomi infiammatori e/o da corpo estraneo.
L’acido polilattico (PLA; New-Fill, Biotech Industry SA, Luxembourg) è largamente impiegato in Europa e approvato dalla Food and Drug Administration (FDA), negli Stati
Uniti, per l’aumento dei tessuti molli nella lipoatrofia facciale in pazienti infettati
dall’HIV. L’obiettivo principale è quello di determinare l’affidabilità e l’efficacia del PLA
per il potenziamento dermico della lipoatrofia facciale nei pazienti immunocompromessi, infettati dall’HIV, trattati con HAART.
Metodi. Sessantuno pazienti immunodepressi infettati dall’HIV (52 bianchi,
7 afroamericani, 1 latino-americano ed 1 asiatico), erano sottoposti a trattamenti con
PLA per più di 5 mesi, per lipoatrofia facciale. La severità della lipoatrofia era documentata e fotografata prima di ogni trattamento (ved. figura). Il monitoraggio delle possibili reazioni avverse ed il grado di miglioramento, era condotto dal paziente stesso,
dal medico operatore e da un altro medico non operatore.
Risultati. Al “follow up” del sesto mese, tutti i 61 pazienti HIV immunodepressi, notavano un netto miglioramento, con un “livellamento” del tegumento, una
netta diminuzione delle concavità o delle depressioni e un complessivo, migliorato,
aspetto estetico del viso, in media dopo 3 sedute di trattamento (ved. figura). Sebbene
tutti i pazienti fossero molto soddisfatti dei risultati ottenuti, due di essi svilupparono
delle papule intradermiche, palpabili, asintomatiche, nella regione infraorbitaria.
Nel “follow-up” a lungo termine (18 mesi), 48 pazienti su 61 (79%), necessitavano una
media di 3 visite per il potenziamento e 13 su 61 (21%), richiedevano dei trattamenti aggiuntivi dopo le 3 sessioni iniziali. Sebbene il giudizio del medico e del paziente
fosse eccellente, il desiderio di ulteriori potenziamenti dermici era puramente soggettivo. In generale, le procedure erano ben tollerate, senza evoluzioni cliniche o reazioni avverse.
* Dermatologo, Palermo
Conclusioni. L’uso del PLA per trattare la lipoatrofia facciale risultava efficace, e con miglioramenti prolungati, nei pazienti infetti da HIV. L’effetto era di lunga
durata, per un periodo maggiore di due anni. Non sono mai stati riportati casi di infezioni, allergie o serie reazioni avverse ed il trattamento è stato sempre ben tollerato.
Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 5-6, 2005
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www.isplad.org
Il sito ISPLAD nasce dall’esigenza di un’informarzione corretta e completa sulla Dermatologia Plastica.
Esso, in breve tempo, è diventato un vero e proprio punto di riferimento non solo per i dermatologi, ma anche per altre categorie professionali: giornalisti che si collegano per avere informazioni aggiornate per le loro testate, manager delle più importanti aziende del
settore che guardano con interesse alle iniziative dell’ISPLAD per intraprendere nuove strategie di marketing, e tantissimi utenti “comuni” che si collegano per avere le ultime notizie in tema di bellezza, di prevenzione e di salute.
I dati parlano da soli perché il sito dell’ISPLAD registra ogni mese nuovi successi con una media dei visitatori di circa 22.000/mese.
Risultati straordinari, frutto del grandissimo lavoro di aggiornamento e di continuo sviluppo.
Tra le iniziative già presenti nel sito, meritano di essere ricordate:
- L’esperto: un esperto risponde immediatamente on line alle domande ed alle problematiche poste dagli utenti.
- Le convenzioni per i soci: è presente un elenco di tutte le convenzioni, stipulate con aziende di settori diversi,
riservate agli associati ISPLAD.
- Il consenso informato: si tratta di una sezione dedicata a questo importante tema con lo scopo di realizzare un documento
utile e condiviso da tutti i dermatologi (sul sito dal mese di Ottobre, e su questa rivista nel numero di Settembre,
sarà disponibile il “Modulo per il consenso informato in Dermatologia Plastica”).
- I corsi di aggiornamento: è possibile iscriversi on line ai corsi organizzati in tutta Italia dall’ISPLAD (tali corsi partecipano
ai progetti ECM del Ministero della Salute).
- Le campagne di prevenzione: in questa sezione si trovano informazioni dettagliate sulle iniziative di prevenzione
con la possibilità di aderirvi on line compilando un semplice modulo.
REGISTRATEVI E NAVIGATE !!!!
Tra le molteplici iniziative dell’ISPLAD l’ Osservatorio Dermoplastico rappresenta certamente il fiore all’occhiello, in quanto
si tratta di una vera e propria mission che pone il dermatologo ai vertici delle categorie più deontologicamente e socialmente impegnate.
Infatti l’ISPLAD, in collaborazione
con il Dipartimento di Farmacologia
dell’Università di Milano, ha istituito
il primo Centro italiano per
le reazioni avverse da trattamenti
estetici. L’obiettivo è quello di
raccogliere ed elaborare tutte
le segnalazioni di eventi avversi
provenienti dai pazienti
e dai dermatologi italiani, in modo da
redigere un registro che consentirà
di far luce sui rapporti causa/effetto
di tutti i trattamenti a fini estetici
(filler, peelings, laser, ecc.).
Lo scopo finale è quello di aiutare
i medici a scegliere per i loro pazienti
trattamenti più sicuri.
Con questa iniziativa l’ISPLAD vuole
sottolineare il suo impegno per
lo sviluppo della professionalità
dei suoi associati e, soprattutto,
per la tutela dei pazienti.
Antonio Di Maio
Scripta
MEDICA
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119
Meetings Gallery
Milano 25 Giugno 2005
Incontro di Aggiornamento
in Dermatologia Plastica
Sede congressuale: Hotel Michelangelo
Via Scarlatti, 33 - Milano
Il Corso è rivolto ai primi 150 Medici Chirurghi
PUNTI ECM: 6
Tirrenia (PI) 24 Settembre 2005
Sede congressuale: Green Park resorte
Via delle Magnolie, 4 - Tirrenia (Pisa)
Il Corso è rivolto ai primi 100 Medici Chirurghi
PUNTI ECM: in fase di accreditamento
Cagliari 1 Ottobre 2005
Incontro di Dermocosmetologia
Sede congressuale: in fase di definizione
Il Corso è rivolto ai primi 100 Medici Chirurghi
PUNTI ECM: in fase di accreditamento
6th World Conference
on Melanoma
September 6-10, 2005
Vancouver Covention & Exhibition Centre
Vancouver, BC
Canada
Congress Secretariat
Venue West Conference Services Ltd.
645-375 Water Street
Vancouver, BC, Canada - V6B 5C6
Tel: 1-604-681-5226
Fax: 1-604-681-2503
[email protected]
Info: www.worldmelanoma.com