Inventario - Testo e Senso

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Inventario - Testo e Senso
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Era il giorno successive al ricevimento che Pertini aveva dato al Quirinale per Carlo Rubbia, l'aveva onorato
a modo suo, con il solito pranzo si, ma dopo uno
splendido concerto dell'Orchestra sinfonica di Roma
diretta da Massimo Pradella. Sotto le volte ariose délia
cappella avevo ascoltato Boccherini nella Prima sinfonia in re maggiore e Mendelssohn neWltaliana, avevo
sentito ancora una volta il calore délia verità nell'uomo
Pertini, con una sorta di tenerezza e di smarrimento
nel ritrovarlo immutato, scrupoloso nella forma corne
bisogna per un capo di stato, ma schietto, familiare,
attente all'altro singolarmente: una cerimonia senza
ufficialità, che si era prolungata oltre il consueto e io
navigavo leggera su quel suo saluto, caldo délie comuni memorie liguri, e insomma non riuscii a chiudere
occhio. L'indomani avrei incontrato Eisa Morante nella clinica di Villa Massimo. Corne Pertini, un antico
amore. Ma lei, persona, non l'avevo mai incontrata.
In carrozzella davanti a una grande porta a vetri
che dà su un giardino, una coperta sulle ginocchia, il
volto morbido, da bambina, incorniciato da un fazzoletto celestino legato sotto il mento, gli occhiali
inforcati, mi appare subito corne una di quelle babuske che m'incuriosivano a vent'anni nelle favole russe, quando ne tradussi un mazzetto estroso e colorato, insieme con Olga Lagermark.
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Mi è naturale sedermi ai suoi piedi su uno sgabellino, e lei mi saluta, dolcissima: «Sono contenta di
poterla finalmente ringraziare per la bella difesa di
Aracoeli». Le rispondo che le sono fedele da sempre e
lei, séria: «Ma io non amo le donne, perché non mi
sopportano. Mi sopportano solo quelle un po' lesbiche e lei non ne ha affatto l'aria». Ribatto che le voglio bene pur dal mio versante: corne una scolara alla sua maestra. Ride d'improwiso, con allegria,
corne una ragazzina: «Per carità, una donna forte e
libéra corne te... ti do del tu, non mi place il lei, non
Io so usare».
Parliamo di tante cose, lei sta leggendo, o rileggendo, classici di piccolo formato, facili da tenere fra
le mani. Non ricordo il titolo del romanzo giapponese che ha con se, ma ricordo la Iode che mi tesse dell'autore de La chiave, e che, subito, da Tanizaki passa
all'esaltazione di Carlo Cecchi, «il più grande regista
e attore italiano». Taccio, non condivido, ma mi
sembra che seguendo le associazioni dei suoi pensieri, lei sia a proprio agio, corne me d'altronde. Ma
d'improwiso, il faccino da vecchia bambina s'assottiglia e mi racconta la sua fallita prova "di eutanasia". Cade in un silenzio che non oso interrompere; è
lei che riprende a parlare: «Stanotte sono stata presa
dall'angoscia di morire, di non sapere e vedere più
niente... Di qui, davanti a questa vetrata, vedo tante
cose belle, alberi, fiori, gatti, bambini piccoli in braccio allé mamme, ragazzini che corrono. È la vita che
mi dispiace lasciare».
È di nuovo sorridente, affettuosa, corne mi carezzasse con gli occhi, e mi faccio coraggio, le chiedo se
posso telefonarle per tornare a trovarla quando verrô
a Roma. Mi risponde decisa: «No, non telefonarmi,
magari dovrei dirti di non venire e mi dispiacerebbe
per te: non voglio addolorarti. Poi, se tu mi cono123
scessi, non mi vorresti più bene... le donne con me
fanno tutte cosï; anche Natalia Ginzburg ama i miei
libri, ma non ama me».
Eppure, ai suoi piedi, io sto bene, le parlo in libertà. Non so se le piaccio, certo lei è piaciuta a me,
parliamo di libri e di gatti e mi nomina un giapponese che non conosco, il quale, dice, ne ha scritto con
finezza. E ancora mi ripete che délie donne ha paura. Foi mi chiede délia "mia" Roma, le rispondo brève e lei si abbandona a un ricordo felice: «Dopo lo
Strega mi ero comprata un'automobile e uscivo a vagabondare fuori Roma con un giovane amico», una
pausa, e: «ero bella allora» e io la interrompe per
dirle corne mi avessero sedotto i suoi occhi la prima
volta che l'avevo vista, a un tavolo dove c'era tanta
gente, e io ero lï per caso con il gruppo de «II Mondo», Pannunzio mi aveva appena accettato due pezzi, dopo ero andata a cena con Flaiano, Menzio, Fonzi e, nel ristorante, al lungo tavolo c'era anche lei,
Eisa, «gli occhi viola simili a quelli di Liz Taylor»; lei
si anima tutta: «È la donna più bella del mondo, l'ho
persino scritto quando ho risposto a un giornalista
che mi chiedeva le sette donne più belle del mondo.
Dopo Liz, Anna Magnani» e mi snocciola le altre che
ho dimenticato.
Prima del commiato - la bacio corne quando l'ho
salutata - ritorna alla sua paura di morire e una nuvola di malinconia le vêla gli occhi d'un tratto smarriti: «Ho patito tremendamente, per Eduardo. Era
un mio grande amico e io che non piango mai, quando ho saputo che era morto, ho pianto ho gridato,
corne fanno le donne del Sud. Gridavo, ero disperata...».
Mi avevano in tanti parlato di un'Elsa scostante,
che disprezzava tutti, e si abbandonava con cattiveria a imprevedibili scenate. Io ho incontrato una
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donna malata, dolce tuttavia e disponibile a un dialogo fraterno. Cosï la voglio ricordare e cosï la penso
quando riapro le sue opère. Dalle prime che mi innamorarono, aU'ultima che mi fece scattare a difesa
per l'ignobile attacco délia stampa.
Avevo amato Eisa nella sua "menzogna e sortilegio" di narratrice che segue un ritmo tutto suo, moderno, di antico cantare; l'avevo allora riconosciuta
in cuor mio corne un'italiana Shéhérazade, forse la
sola, ma fu L'isola di Arturo ad affascinarmi, con la
sua festa vitale di odori e di colori, un incanto labile
e mutevole che per grazia di scrittura faceva del romanzo una grande tela impressionista. E poi era arrivata La storia a suscitare le ire e i silenzi di tanti intellettuali malati di snobismo e di stipsi fantastica.
Ma io stetti accanto alla sua Ida e a Useppe, alla gatta Rossella e alla cagna Bella, corne si accompagna
in un viaggio doloroso ma vivificante un piccolo meraviglioso drappello di amici. E non mi disamorai
per l'ultima parte infelicemente predicatoria; nella libertà assoluta di Eisa che esalta la vita come Natura
disperatamente negando la Storia, sentivo la voce di
un talento solitario e grandissime: le insistite notazioni sugli eccessi stilistici o sulle zeppe storiche mi
sembravano paragonabili per pedanteria a quelle di
coloro che osservano nei dieci grandi quartetti per
archi di Mozart l'appannarsi qua e là dell'ispirazione. E pensavo, con stupore, come la tenerezza che
abbraccia in ogni momento il bambino Useppe, la
vittima pura che espia per tutti il mâle délia storia,
sia la più ricca di sentimento materno mai espressa
nella nostra letteratura; mi chiedevo perché proprio
lei, Eisa, che non aveva avuto figli, come la Banti che
in un altro romanzo dai critici mal giudicato, Le mosche d'oro, aveva scritto sulla maternité le pagine più
intense apparse prima dell'opera délia Morante. Ero
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stata trafitta di coinvolgimento emotivo per Useppe
e avevo concluso che la critica maschile non aveva
capito niente.
// mondo salvato dai ragazzini mi aveva catturato
solo quando volava in immagini celesti corne i suoi
protagonisti, non partecipavo all'ubriacatura ideologica collettiva di quegli anni e la prosa mi sembrava
ancora l'approdo più congeniale délia Morante. Si
dicevano intanto, e si scrivevano, cose tristi e umilianti, per lei e per chi le era amico: sofferenze fisiche, difficoltà finanziarie, collette: niente le fu risparmiato.
E arrivô il giorno in cui, sbalordita, lessi su «la Repubblica» un titolo che recitava cosi: «No, cara Eisa,
cosi non va». La pensavo in lotta con la malattia e
tuttavia inchiodata al suo tavolo di lavoro, il romanzo non era ancora in libreria e cosi ne veniva dato
l'annuncio! Mi prese una smania, un bisogno di fare
qualcosa, di oppormi a quell'offesa, volevo leggere
subito Aracoeli. Sapevo che Goffredo Fofi era uno
dei pochi amici di Eisa, non lo frequentavo, né più lo
rividi in seguito, ma lo cercai subito dopo aver letto
la stroncatura e lo trovai in casa; uscï con me, insieme andammo in cerca délie bozze, nella notte stessa
cominciai a leggere, le lessi ininterrottamente e ne
scrissi. La mia recensione apparve sui due quotidiani cui allora collaboravo, a Bologna e a Firenze, e allé due redazioni telefonai perché ci fosse una grande
fotografia délia scrittrice e si usasse un corpo grande
nel titolo. Cosi awenne, e Einaudi trasse dal mio
pezzo il giudizio per la prima pubblicità che apparve
sulla stampa. E un personaggio, molto noto e molto
caustico, mi scrisse il 4 dicembre 1982: «Ho letto il
suo articolo su Eisa Morante, e non potrei essere
d'accordo più di cosi. Forse è questa l'unica recensione del romanzo che (tra quelle a me note) sottoli126
nei l'altissima poesia che lo sorregge» e aggiunge a
proposito di un'altra critica: «vi si leggono cose che
denunciano la totale incomprensione del libro - o un
senso di malcelata invidia per chi ha saputo realizzare un taie capolavoro».
A rileggermi oggi che di nuovo ci si scontra in polemiche intorno al nome délia Morante, non cambierei nulla nella mia lettura di allora, se non qualche
aggettivo, troppo carico per eccesso di sdegno e di volontà di risarcimento di fronte al massacro critico cui
la vedevo sottoposta. Nella nostra narrativa «accartocciata su se stessa corne una foglia ingiallita» le davo un posto unico, corne il solo scrittore capace di restituire in una sua metafora letteraria l'umana
condizione. Ancora scriverei che nel romanzo di Aracoeli, la madré altare fra terra e cielo, scorre, a irrorare una materia talvolta di scostante ferocia, il fiume
sotterraneo del latte materno délia Morante, inesauribile e profonde corne il mare, grembo tana paradiso, dell7so/a di Arturo. (C'è qualcuno che voglia rileggere, non le pagine soffocanti di amaro suU'umiliata
omosessualità di Emanuele, ma quelle sulla "hermanita reginella"? Encarnâcion è un'apparizione brève,
ma cosi luminosa da risultare, io credo, un punto
d'arrivo délia Morante nella capacità trasfiguratrice
délia materia narrativa in poesia.)
Pensavo e penso ad Eisa, stanca e malata, al traguardo délia vecchiaia e délia morte, misurarsi con il
dicibile e l'ineffabile dell'umano esistere. Superbamente: con disperazione, ma con più grande pietà e
più alta solitudine.
Il genio disturba. Se il genio è donna disturba due
volte. Disturba perché non lo si capisce e allora è
conseguente, per i poveri di spirito o i mediocri tenutari del potere recensorio e accademico, muovere
fendenti critici a vanvera. Senza la minima eleganza
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spirituale. Che è fatta di misura, di rispetto di fronte
a quelle che, se ci sovrasta, non possiamo ignorare
fingendo che non ci sia, o peggio che ci sia, ma da rigettare, per eccesso o per difetto, seconde canoni
soggettivi.
Quando la Morante morl andai al suo funerale.
C'è tutto il mondo letterario nella chiesa di Santa
Maria Maggiore in Piazza del Popolo, e sono ancora
sul sagrato quando arriva Moravia, scicchissimo in
un abito blu che mette in risalto la candida cornice
di capelli al volto abbronzato; al suo braccio, rigorosamente in nero, la giovane Carmen. Hanno mandate due corone di fiori: la sorella di Eisa - chiara faccia onesta, capelli bianchi cortissimi - le rifiuta.
Arrivano in chiesa grandi vasi di limoni e di mandarini, gli alberi - oh cara! - che lei prediligeva; l'organo suona Bach e il prête, senza alzare la voce, pianamente, dice che ciascuno è unico, nella sua vita, e
resta unico nella sua morte. Mi basta e, dopo, non
saluto nessuno. Fra tante facce compunte, mi sento
fuori posto, straniera.
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Forse le stagioni del vivere hanno anche un loro sapore specifico: lo risento nelle papille dell'anima e
délia lingua, a ciascuna il suo, e non c'è caso che muti per quanto sia fortuito il ricordo che lo riporta alla
mente.
La memoria, questo fiume carsico che attraversa
la nostra vita guidandola anche quando pare inabissarsi nel tempo, Caronte conscio o inconscio, ci traghetta dal vivere al morire e ha di questi improwisi
sussulti in apparenza forniti dal caso, un odore portato dal vento, un tratto fisionomico colto per strada,
la casa intrawista in velocità, la frase che brilla tra
cento parole scialbe, l'inflessione di una voce, il volto
di un attore, la forma di una nuvola. Sono le brezze,
gli zefiri, i refoli che muovono il grande fiume délia
memoria, ma se voglio ricordare, se tento di mettere
in chiaro un tempo e un luogo, richiamandolo alla
mente con un ricordo sintetico, immediatamente un
sapore si annuncia: questa è l'infanzia, questo mi dice gioventù, cosi è la maturité. Perentorio, insostituibile, lui solo affidabile e accetto, sempre lo stesso.
Infanzia ha, è, quel sapore. Gioventù ha, è, quell'altro. E senza quel gusto tra lingua e cuore, corne posso illustrare a me stessa, nel mio privato album di famiglia, la mia maturità?
Ho passato tutte le villeggiature dell'infanzia, e an129