La mostra fotografica Orio Vergani fotografo. Immagini d`Africa 1934

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La mostra fotografica Orio Vergani fotografo. Immagini d`Africa 1934
LA MOSTRA FOTOGRAFICA ORIO VERGANI FOTOGRAFO. IMMAGINI D’AFRICA 1934-38
La mostra fotografica Orio Vergani fotografo. Immagini d’Africa 1934-38, presentata lo scorso gennaio dalla
Fondazione Bergamo nella storia - Museo storico di Bergamo, a cura di Guido Vergani1 e Marco Buscarino, ha
voluto proporre al pubblico il ricordo di Orio Vergani e raccontare una delle sue passioni, quella di fotografo.
Orio Vergani fu infatti un intellettuale eclettico. Drammaturgo, allievo prediletto di Luigi Pirandello, fu l’unico ad
avere libero accesso nello studio del grande maestro durante la stesura dei suoi testi. Scrittore, maestro di
giornalismo colto, fu definito da Indro Montanelli «il migliore di tutti».
Dotato di una memoria sorprendente, nel corso della stesura di un ‘pezzo’, come testimoniato dal figlio Guido,
non fu mai visto consultare un dizionario o altro genere di pubblicazione.
Il suo lavoro di fotografo si sviluppò fra il 1934 e il 1938. Fu di questi anni la pubblicazione di quattro volumi
sull’Africa presso Treves e Hoepli, in cui apparvero i suoi scatti accanto ai suoi elzeviri di viaggio scritti per il
“Corriere della sera” di cui fu all’epoca redattore viaggiante di terza pagina. Opere originali e tutte presenti in
mostra a Bergamo, che testimoniano un’esperienza fotografica e al contempo giornalistica e letteraria, calata
nel pieno del ventennio fascista e della guerra coloniale d’Africa, ma di cui le fotografie scattate da Vergani non
ne subiscono l’influenza. Anzi il taglio delle sue immagini è di così alto livello fotografico da farle risultare
naturali, immediate e a tratti poetiche. Esse documentano le persone e i paesaggi d’Africa ripresi da Vergani
all’interno di scene di vita quotidiana, da cui emerge la bellezza, ma anche la povera condizione di vita della
gran parte della gente. Vergani si recò in Africa diverse volte e la attraversò quasi tutta. Da Città del Capo al
Lago Tanganika e su fino al Cairo. In mostra oltre alle immagini di questo viaggio, è stato esposto anche il
prezioso taccuino di Orio, sul quale lui disegnò, fra l’altro, i vari percorsi africani e i ritratti delle donne e degli
uomini incontrati.
Le cinquantacinque fotografie in bianco e nero, che hanno costituito la mostra presso il Museo storico di
Bergamo, furono scattate da Vergani con le due Leica 35 mm che era solito portare con sé lungo i suoi viaggi.
Esse gli vennero sequestrate a Barcellona, nel 1936, nel corso della guerra civile spagnola, a seguito del suo
arresto nel pieno della notte presso l’hotel in cui alloggiava e culminato con il suo rilascio in Italia. E delle
Leica dello stesso tipo, che lui usò dopo il 1936, non se ne sa più nulla.
Anche i negativi delle sue fotografie subirono la medesima sorte, alcuni anni più tardi. Il baule che li conteneva
stette per diverso tempo in casa Vergani sino a che venne trasferito in soffitta e andò perduto durante la
seconda guerra mondiale. Il relegare in soffitta il baule costituì per Orio il tentativo di tagliare in qualche modo
con il passato, un po’ troppo ingombrante per quelli della sua generazione e a maggior ragione per un
intellettuale sensibile come lui.
Nel 1979 il critico Carlo Bertelli, nella Storia d’Italia-Annali 2. L’immagine fotografica 1845-1945, pubblicato da
Einaudi, definì le fotografie di Vergani «fra le testimonianze più alte del fotogiornalismo internazionale di
quegli anni». A seguito di questo studio di Bertelli sulle fotografie di Orio Vergani, il figlio Guido iniziò un lavoro
di riordino delle opere fotografiche del padre. Grazie alle moderne tecniche di scannerizzazione digitale il
recupero delle fotografie di Orio avvenne direttamente dalle opere originali. L’operazione consentì di ottenere
immagini di ottima qualità che vennero utilizzate per pubbliche esposizioni.
Le fotografie di Orio Vergani danno un’ idea esauriente ed obiettiva della situazione d’Africa di quegli anni e la
sua visuale è immune dalla censura che il regime fascista era solito imporre ai servizi giornalistici. Come sia
potuto succedere è una fortuna tutt’ora inspiegabile.
FONDAZIONE BERGAMO NELLA STORIA
Piazza Mercato del fieno, 6/a - 24129 Bergamo Italy - Tel. +39 035 24 71 16 ; +39 035 22 63 32 - Fax 035 21 91 28
P. Iva 02995900160 - [email protected]
Questo è quello che dà valore storico ancor oggi alle sue immagini, accanto al taglio e all’originalità dei
soggetti e alla sintesi usata per rappresentarli e descriverli.
A Maurizio Buscarino, ospite all’inaugurazione della mostra, ho chiesto un commento intorno all’arte di Orio
Vergani.
Cosa pensi dell’uso che Vergani fece della Leica 35 mm?
Penso alla qualità perduta delle stampe originali del tempo.
Si è detto della brevità del periodo da lui dedicato alla fotografia, perché così testimoniano i documenti
disponibili, e perciò c’è una nota di meraviglia nel vedere oggi il suo lavoro come se si fosse materializzato
all’improvviso. Credo invece che le sue immagini siano il risultato di una maestria che non può nascere dalla
improvvisazione, ma da un lungo e concentrato esercizio, quello, probabilmente, dei suoi anni giovanili e del
suo cercare la strada del giornalismo. Vergani conosceva le più lente macchine fotografiche che si usavano
prima della Leica, perché nel suo senso dell’inquadratura e dei piani ci sono una precisione, una
corrispondenza di intenti e risultati e anche una ponderazione che vengono prima delle sue fotografie d’Africa.
La comparsa della Leica, in quegli anni, avrebbe dato anche a Vergani un fortissimo impulso al
fotogiornalismo, ma anche lui proveniva dai decenni precedenti, nei quali la fotografia, con le sue ‘vedute’, era
stata strumento della scoperta della meraviglia del mondo, con i viaggi di istruzione e l’ampliamento degli
orizzonti culturali e tradizionali del Grande Tour. Non dimentichiamoci che, proprio negli anni Trenta e proprio
con la Leica 35 mm. - la macchina che usava la pellicola dell’industria cinematografica - si dava inizio
all’industria della cultura dell’informazione, con i grandi reportages della scoperta ‘sociale’ del mondo.
Ritengo che a Orio Vergani sia accaduto fin da giovanissimo di scrivere e insieme di fotografare, ma anche
che lungo il percorso abbia dovuto scegliere. Il suo talento per la scrittura era piuttosto grande ed era molto
difficile fare le due cose insieme: gli sarebbero servite due vite contemporaneamente.
Maurizio, che cosa vedi nelle fotografie di Orio Vergani?
Prima di tutto le guardo pensando alle fotografie d’Africa di mio padre, ma da qui il discorso mi porterebbe
troppo lontano, o forse troppo vicino a me. Mentre le osservo leggo nel catalogo della mostra qualche stralcio
degli scritti di Vergani: «ero andato in Libia e avevo visto un colono dare una curbasciata sulle spalle di un
negro sudanese. Quella curbasciata fu per me una profonda lezione… a reagire contro un’ingiustizia razziale».
Allora ascolto suo figlio Guido, anche lui giornalista, anziano e malato. È qui a spiegarci che suo padre «non
era fortunatamente un uomo d’azione, o un epigone dannunziano». Ci racconta che, suo padre, di fronte alla
vita non era certo un ardito, ma dentro di sé, pur «vorace del vivere», nascondeva la «piega della
depressione»: così l’ha chiamata suo figlio, e questa forse è la chiave di lettura. Allora mi pare di comprendere
lo sguardo che ha generato queste fotografie, e vedo che quella «piega» è piuttosto una inclinazione costante
a vedere nell’uomo, in quell’uomo che era prima di tutto dentro lui stesso, la bellezza unita alla dignità, che non
poteva essere guardata e riconosciuta se non attraverso una forma di pietà.
Le sue fotografie si scostano da tante altre dell’epoca e ci mostrano, con un certo pudore, l’uomo nero d’Africa
degli anni trenta come non era assolutamente nella norma razzista del tempo, soprattutto in Europa e in
particolare nella fotografia dominante della cultura tedesca. Credo che questa capacità di vedere
semplicemente degli esseri umani, con meraviglia ma nella quotidiana verità dei loro luoghi, del loro lavoro,
delle loro relazioni, dei loro sentimenti - senza cadere nei cliché di astratte sculture algidamente erotiche o
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nella classificazione etno-coloniale - gli venisse dal cuore della sua «depressione», grazie alla quale, pur
aderendo al regime e al nazionalismo comune del tempo, non si nutrì mai profondamente degli ingredienti più
ignobili del fascismo.
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Quando il pezzo è andato in stampa è arrivata la notizia della morte di Guido Vergani.
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