Letteratura latina - FDA Didattica per le materie letterarie

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Letteratura latina - FDA Didattica per le materie letterarie
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte V- Cenni di letteratura latina altomedievale
F. D'ALESSI
Letteratura latina
Parte V:
Dalla caduta dell'impero Romano di Occidente a Carlo Magno
Agosto 2002
F. D’Alessi © 2002
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte V- Cenni di letteratura latina altomedievale
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V- Cenni di letteratura latina altomedioevale
Quadro storico: dalla fine dell'impero romano di Occidente a Carlo
Magno
IL GOVERNO DI ODOACRE (dal 476 al 488 d.C.)
POLITICA DI ODOACRE CON LA CORTE DI COSTANTINOPOLI - IL TITOLO DI PATRIZIO - LA
DISTRIBUZIONE DEL TERZO DELLE TERRE AI BARBARI - IL GOVERNO DI ODOACRE - SUA POLITICA
RELIGIOSA - ELEZIONE DI PAPA FELICE - LA PERDITA DELLA PROVENZA E IL RIACQUISTO DELLA
SICILIA - LA CONQUISTA DELLA DALMAZIA - MORTE DI S. SEVERINO - LA INVASIONE DEL NORICO GUERRE CONTRO I RUGI - TRASFERIMENTO IN ITALIA DEI COLONI DEL NORICO
----------------------------------------------------------------GOVERNO DI ODOACRE
Anno 476, con questa data, che è l'anno della conquista di Odoacre, si fa coincidere convenzionalmente
l'inizio del Medioevo.
Il re degli Eruli disceso in Italia al comando delle sue milizie barbariche, deposto l'imperatore Romolo
Augustolo, mette di fatto fine all'impero d'Occidente. Ma pur acclamato dalle sue truppe governatore d'Italia,
a Ravenna Odoacre non si proclamò imperatore.
Era un barbaro e come tale (visti i precedenti sapeva che era pericoloso) non poteva vestire la porpora.
Avrebbe potuto creare un imperatore di sua fiducia e governare in sua vece come avevano fatto Ricimero e
Gundobado, ma questo presentava (altrettanti) pericoli e non dava al potere sicurezza e perennità; avrebbe
potuto metter da parte la legittimità e salire al trono con la forza delle armi, con quella stessa forza di cui si
era servito per abbatter Oreste e il figlio, ma significava mettersi contro le leggi, contro la tradizione, contro
la volontà di tutto un popolo sul quale doveva poi imperare, mettersi contro l' imperatore d'Oriente al quale di
diritto l'Occidente apparteneva.
Odoacre preferì prudentemente non comprometter la sua posizione con un gesto sconsiderato, preferì al
titolo di Augusto ed alle vane insegne imperiali l'effettivo dominio d' Italia, da presidiarsi in nome del legittimo
imperatore. Questo era l'intento di Odoacre: legalizzare con la corte di Costantinopoli la sua posizione e
ricevere il titolo di patrizio e il governo dell'Occidente.
Non istituzione dunque, come pensano alcuni, di un nuovo ordine di cose da parte di Odoacre, non
fondazione di un regno indipendente. L'Occidente è -di diritto se non di fatto - una provincia dell'imperatore,
la quale anziché da un Augusto, è governata da un luogotenente e il titolo di re che Odoacre ha assunto non
riguarda l'Italia. Di questa egli vuol considerarsi un funzionario imperiale, re invece è soltanto del suo
esercito e di quell' insieme di barbari che ha chiamati in Italia.
La politica che Odoacre usò con Costantinopoli non ebbe che un solo scopo: quello di dare alla sua
usurpazione un carattere e una veste di legittimità.
Regnava a Costantinopoli l'impertore ZENONE, che dopo di essere stato spodestato da Basilisco, aveva con
la forza, nel 477, riconquistato il trono.
A Zenone tra il 477 e il 478, andarono alcuni ambasciatori inviati dal deposto Romolo Augustolo e dal
Senato, i quali evidentemente (anche se non ufficialmente) ubbidivano ad ordini di Odoacre. Gli ambasciatori
dicevano che l'Occidente non aveva bisogno di un proprio imperatore, che uno solo era sufficiente per
difendere i confini dell'uno e dell'altro impero, che a difender l'Italia bastava Odoacre, uomo prode nelle armi
ed esperto nell'amministrazione, e pregavano l'imperatore che gli concedesse il titolo di Patrizio e il governo.
Contemporaneamente Zenone riceveva altri ambasciatori: quelli ufficiali di Odoacre, che per il loro re
chiedevano il patriziato e il riconoscimento del fatto compiuto in Italia e consegnavano le insegne imperiali,
gli ornamenti Palatii di cui Romolo Augustolo era stato spogliato.
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Lo storico Malco, autore di una Storia Bizantina, che ci dà queste notizie, ci informa che in quello stesso
tempo ambasciatori di Giulio Nepote giunsero a Zenone. Lo spodestato principe chiedeva all'imperatore aiuti
di uomini e di dinaro affinché potesse ricuperare il trono da cui era stato cacciato.
Se Zenone avesse potuto, avrebbe indubbiamente dato ascolto a quest'ultima ambasceria; ma non era in
quel momento (aveva appena recuperato il trono) in grado di competere con Odoacre. Seppe però togliersi
d'impaccio abilmente. Al Senato rispose ricordando di aver mandato due imperatori, Antemio e Nepote, dei
quali il primo era stato ucciso; il secondo cacciato. Non a lui, ma a Giulio Nepote, che era il sovrano
legittimo, dovevano esser mandati gli ambasciatori.
Mentre con i messi del barbaro l' imperatore di Costantinopoli tenne un altro linguaggio: consigliò Odoacre di
rimettere sul trono Giulio Nepote e di chiedere a questo ultimo il conferimento del patriziato, aggiungendo
che se Nepote avesse tardato a darglielo lo avrebbe conferito lui stesso.
Ad Odoacre inoltre inviava una lettera in cui ripeteva le cose già dette sopra ai messi ma accortamente lo
chiamava patrizio.
Odoacre si tenne pago di questo riconoscimento privato ed esercitò il governo d' Italia, in apparenza come
un funzionario di Costantinopoli, ma in realtà come un principe indipendente.
Del governo di Odoacre gli Italiani non ebbero a lagnarsi: un atto solo egli compi che non poteva essere
molto gradito: la distribuzione del terzo delle terre ai suoi soldati.
Ma era questa una promessa che lui ai suoi aveva fatto e andava mantenuta. Tale distribuzione del resto,
non dovette danneggiare gran che l'Italia. L'esercito barbarico non era numerosissimo né sparso, come
qualcuno crede, in tutta l'Italia. Probabilmente era stanziato quasi tutto presso Ravenna e poca cosa nella
Transpadana e il provvedimento dovette soltanto colpire i possessori di terre di queste regioni.
E forse nemmeno tutti i proprietari, perché non valeva la pena togliere il terzo a chi aveva appena quel tanto
da cui a stento traeva da vivere, ma i grandi latifondisti, ai quali - è da credere - vennero diminuite le
imposte. Se si pensa che, per la legge sugli acquartieramenti, questi proprietari terrieri erano obbligati a
pagare, e pagavano, il terzo del frutto delle loro terre, si concluderà che la cessione del terzo della res
frugifera in luogo del fructus non veniva a costituire di certo un danno molto più grande.
Qualcuno pensa che il provvedimento di Odoacre abbia dato rilevanti vantaggi economici all'Italia, derivati
dalla divisione delle proprietà, dall'accresciuta popolazione agricola o dall' incremento venutone
all'agricoltura. Ma è un giudizio che non possiamo condividere perché, se lo spezzettamento ci fu, non ci fu
però l'aumento di coltivatori diretti, preferendo i barbari far coltivare il suolo agli Italiani e, se anche i soldati di
Odoacre avessero direttamente coltivate le terre loro cedute, la breve durata di questo regno non avrebbe
potuto produrre quei benefici di cui qualcuno parla, benefici che non possono ammettersi neppure in misura
limitata se si pensi inoltre che la distribuzione dovette esser fatta con molta lentezza e dopo un lungo e
paziente lavoro.
La situazione dell' Italia dunque non mutò gran che sotto il governo di Odoacre: furono mantenute le antiche
istituzioni e l'amministrazione centrale e provinciale non subì alcuna modificazione. All'esercito, è vero, fu
dato un carattere spiccatamente germanico e ai barbari furono affidati i più alti comandi militari, ma le più
importanti cariche civili rimasero nelle mani dei Romani.
Fra i più alti funzionari dello stato troviamo infatti dei Romani: LIBERIO ha la direzione degli affari,
CASSIODOO e OPILIONE sono conti delle sacre largizioni, comes domesticorum è un PIERIO , PELAGIO e
BASILIO prefetti del Pretorio, SIMMACO console.
Odoacre era un barbaro ma sapeva l'arte del governare. Forse egli non era migliore di tanti altri condottieri
barbari, ma era uno dei più accorti. Sapendo che il suo governo non aveva una base nella legalità egli cercò
di accaparrarsi la simpatia delle popolazioni con atti di generosità e di moderazione. Accolse infatti i reclami
della popolazione della Liguria, desolata dal raddoppiamento dei tributi e mise sotto processo Pelagio,
governatore di quel paese; non fu insensibile di fronte alle condizioni miserevoll dei Pavesi, che gli ultimi
avvenimenti avevano enormemente danneggiati e li esonerò per un certo periodo di tempo dai tributi. In virtù
di questo provvedimento, provocato dall' interessamento del vescovo Epifanio, Pavia riuscì in breve a
risorgere.
Sebbene ariano, Odoacre fu di una grande tolleranza verso i Cattolici. Tuttavia non gli mancarono le
occasioni di schierarsi contro la Chiesa Romana favorendo quella di Costantinopoli. In Oriente erano
accanite le lotte tra Nestoriani e Monofisiti. I primi sostenevano la teoria di Nestorio - patriarca di
Costantinopoli, vissuto sotto Teodosio II -- secondo la quale la Vergine aveva generato Cristo Uomo e non
Dio; mentre gli altri sostenevano con Butichio la divinità e insieme l'umanità di Cristo.
Allo scopo di far cessare le dispute l'imperatore Zenone, tra il 482 e il 483, ispirato dal patriarca ACACIO
pubblicò un editto (Henoticon), che aggravò la tensione dei rapporti tra Roma e Costantinopoli e si ebbe la
condanna di papa SIMPLICIO.
Odoacre si guardò bene dall' intervenire in queste lotte, ma quando, morto Simplicio nel 483, si trattò di
eleggere il nuovo papa, il barbaro credette necessario il suo intervento. Non riuscendo l'assemblea che
doveva procedere all'elezione a mettersi d'accordo, intervenne - per ordine di Odoacre - il prefetto del
pretorio CECINA BASILIO, il quale, dopo di aver proibito con un decreto l'alienazione dei beni ecclesiastici,
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dichiarò che l'elezione, per riuscir valida, non poteva fare a meno della rappresentanza del re, al quale il
defunto papa aveva raccomandato l'elezione del successore.
Riuscì eletto FELICE II. L' intervento di Odoacre non rappresentava né una novità né un atto di violenza,
tuttavia fu così brusco che alienò dal re le simpatie del clero romano. Più tardi, nel 502, un sinodo cancellerà
difatti il decreto sull'alienazione dei beni ecclesiastici, che Odoacre, senza averne alcun diritto, aveva
accompagnato con la minaccia dell'anatema contro i trasgressori.
GUERRE DI ODOACRE
Se Odoacre fu accorto in politica interna non lo fu meno in quella estera. Egli però non fu animato dal
desiderio di ricostituire l'impero d'Occidente. Né, se lo avesse voluto, lo avrebbe potuto, che le sue forze non
erano tali da permettergli di competere con i Burgundi e i Visigoti della Gallia. Avrebbe potuto però
conservare e al ridottissimo impero la Provenza.
Non volle: e così quel territorio, con le importanti città di Arles e Marsiglia, cadde sotto il dominio visigotico.
Delle sorti della Sicilia Odoacre invece si curò moltissimo. L'isola era in potere dei Vandali e indubbiamente
costoro (i precedenti non mancavano) costituivano una seria minaccia per l'Italia. Odoacre non poteva
disinteressarsene e perciò, fin dall' inizio del suo regno, avviò trattative con Genserico, il quale cedette la
parte orientale dell'isola mantenendo l'occidentale con la piazzaforte di Lilibeo e ricevendo in compenso un
tributo annuo. Morto Genserico (477), Odoacre volse il pensiero al rimanente della Sicilia e, aiutato dalle
discordie interne da cui era travagliato il regno dei Vandali, riuscì, forse con le armi, a impadronirsene non
più tardi del 486.
Prima di rendersi padrone dell' intera Sicilia Odoacre venne in possesso della Dalmazia. Era stato
assassinato a Salona, nel 480, Giulio Nepote. Autori del delitto erano stati i cortigiani Viatore ed Ovida;
qualcuno sospettava come ispiratore Odoacre, altri credevano invece che fosse stato il vescovo Glicerio a
sbarazzarsi dell'antico rivale per togliergli il governo della Dalnazia.
Della morte di Nepote approfittò Odoacre per ingrandire il suo regno: tra il 481 e il 482 passò con un esercito
sull'altra sponda del l'Adriatico, vinse Ovida e s'impadronì della Dalmazia.
Aveva appena Odoacre terminato di conquistar la Dalmazia, che lo metteva a contatto diretto con l'impero
d'Oriente, quando moriva (8 gennaio 482) nel suo eremo di Faviana S. Severino. La morte di quest'uomo fu
un colpo gravissimo per il Norico.
Di tutte le provincie dell' impero d'Occidente di là dalle Alpi era questa sola che rimanesse unita all'Italia; non
però per merito di Odoacre, ma per virtù del santo monaco, il quale con la sua autorità aveva saputo per
circa trenta anni tenere in rispetto i barbari, specialmente i Rugi che occupavano un tratto della Pannonia
sulla sinistra del Danubio.
Morto il Santo uomo, i Rugi, guidati da Ferderuco, fratello del re Feba o Feleteo, passarono questi il Danubio
e invasero il Norico, che fu saccheggiato e devastato. Il monastero della Faviana non venne rispettato:
Eugippio scrive che se avessero potuto avrebbero portato via anche le mura. I Rugi però non fecero un
insediamento nel Norico; dopo le devastazioni, carichi di bottino, se ne tornarono nel loro territorio, dove, un
mese dopo, Ferderuco, periva assassinato dal nipote Federico, figlio di Feba.
Qualche storico ha voluto sostenere che Odoacre, per trarre vendetta dal saccheggio del Norico, mosse
guerra ai Rugi; ma è opinione questa che va senz'altro scartata. La spedizione di Odoacre è del 487 e se
fosse stata provocata dal desiderio della vendetta noi non sapremmo spiegarci il ritardo di cinque anni,
quanti sono quelli che intcrcorrono fra l'invasione del Norico e la guerra.
Da altri motivi questa indubbiamente deve essere derivata e questi motivi vanno ricercati nelle relazioni tra
Odoacre e la corte di Costantinopoli. Queste relazioni non erano state in verità cordiali, ma non si può
affermare che fossero cattive. Zenone considerava sempre come un usurpatore Odoacre, non gli aveva mai
voluto ufficialmente conferire il titolo e la carica di patrizio e se non lo aveva combattuto era stato perché non
si era creduto abbastanza forte per muovergli guerra.
Odoacre, dal canto suo, aveva evitato qualsiasi azione che potesse suonare offesa alla corte di
Costantinopoli; per timore di una rottura con Zenone egli aveva lasciato indisturbato Giullo Nepote e,
soltanto dopo la morte di questo, aveva conquistato la Dalmazia.
Di questa conquista certo Zenone non poteva esser contento venendo egli a trovarsi a contatto con un vicino
pericoloso. Ma l'atteggiamento di Odoacre non era minaccioso: il barbaro non era uomo che amasse la
guerra e fosse animato dall' intenzione di tentare un'avventura rischiosa contro l' impero d'Oriente. Egli non
desiderava che di venire riconosciuto da Zenone governatore dell'Occidente e sperava sempre in un pacifico
accomodamento; sperava tanto che nel 484, essendo stato richiesto da ILLO - che si era ribellato a Zenone
- di allearsi con lui aveva rifiutato.
Ma l'ambasceria mandata da Illo ad Odoacre, sebbene con risultato negativo, aveva fatto crescere la
diffidenza dell'imperatore di Costantinopoli. Sia poi vero o no che Odoacre nel 486 preparasse armati contro
Zenone non sappiamo. È lo storico Giovanni Antiocheno che ce lo dice e noi non abbiamo ragioni per non
credergli. Lo stesso storico Odoci dice inoltre che Zenone spinse contro Odoacre i Rugi. Se così stanno
veramente le cose la guerra mossa da Odoacre ai Rugi fu guerra di difesa. E tale dovette essere perché
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Odoacre non aveva motivo nel 487 di muovere contro i Rugi, né aveva interesse di suscitare, con una
guerra voluta da lui, un intervento degli Ostrogoti il cui re era imparentato con la dinastia di Feba (Federico).
Tuttavia la guerra tra Odoacre e i Rugi ebbe inizio nella primavera del 487 ma non ebbe lunga durata.
L'esercito di Odoacre era in grandissima parte formato di barbari, ma non mancavano, come Paolo Diacono
afferma, gli Italiani (nec non Italiae populi). Con esso il re patrizio Odoacre entrò nel Norico, ne cacciò gli
invasori e, passato il Danubio, portò le armi nello stesso territorio nemico.
Feba si era preparato alla difesa, ma la sua resistenza fu inutile. I Rugi vennero sconfitti e lo stesso re con la
moglie Gisa caddero prigionieri. Tentò Teodorico, re degli Ostrogoti, di ottenere la liberazione dei suoi
parenti ma non vi riuscì: tornato nel novembre dello stesso anno in Italia, Odoacre celebrò il trionfo per la
vittoria riportata sul nemico, poi fece mettere a morte Feba e la moglie (il loro figlio Federico grida vendetta!)
Il Norico era stato salvato, ma l'uccisione del re dei Rugi fu causa di una nuova guerra. Era rimasto
FEDERICO, figlio di Feba. Più per vendicare i genitori che per rifarsi della sconfitta patita, egli invase nel 488
il Norico.
A respingere questa seconda invasione Odoacre mandò il fratello ONULFO ed anche questa volta i Rugi
vennero sconfitti e le loro terre oltre il Danubio devastate (altro odio di Federico).
Malgrado queste vittorie, la condizione dei coloni romani dell'Alto Norico (ripense) era delle più tristi: il paese
era stato ridotto peggio che un deserto e gli abitanti temevano ulteriori invasioni ed eccidi. Odoacre stabilì di
trasferirli in Italia e l'incarico di accompagnare i coloni fu dato a Piero, comes domesticorum. Insieme con i
coloni fu trasferito in Italia anche il corpo di S. Severino. Trasportato a Feltre, fu poi, per intercessione di una
pia vedova di nome Barbaria, mandato presso Napoli e custodito nel luogo dove ora sorge il Castello
dell'Ovo.
La guerra tra i Rugi e Odoacre diede origine ad alcuni spostamenti di popolazioni barbariche: il territorio sulla
sinistra del Danubio, che era stato dei Rugi, venne occupato dai LONGOBARDI; nel Norico ripense
abbandonato dai coloni romani presero stanza gli ERULI. Mentre i RUGI superstiti, guidati dal vendicativo
Federico, si trasferirono a Nova, nella Mesia, dove aveva sede TEODORICO, re degli Ostrogoti (e inizia
l'amicizia)
Di questo principe goto valoroso si servirà - come vedremo nel prossimo capitolo- l'imperatore Zenone per
due motivi; il primo per fiaccare la crescente potenza di Odoacre in Italia; e il secondo motivo per liberarsi nel
medesimo tempo dell'importuna vicinanza degli Ostrogoti che da tempo premevano su Costantinopoli.
A spingere TEODORICO all'impresa d'Italia, oltre che l' imperatore di Costantinopoli, ci saranno anche gli
incitamenti del vendicativo Federico re dei Rugi, ma anche l'ambizione che il giovane Teodorico bramava.
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
WACHER -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
Di Teodorico, degli Ostrogoti in Italia, e del lungo regno in Italia dello stesso Teodoricoce ne occuperemo nei
prossimi due capitoli il primo è quello che va dal 489 al 493
GLI OSTROGOTI IN ITALIA ( dal 489 AL 493 )
GLI OSTROGOTI NELLA PANNONIA E NELLA MESIA - TEODORICO E ZENONE - L'IMPERATORE DI
COSTANTINOPOLI E 1' IMPRESA DEGLI OSTROGOTI IN ITALIA - PARTENZA DI TEODORICO E DEL
SUO POPOLO - LA BATTAGLIA DELL'ULCA - LA SOSTA NEL TERRITORIO DEI GEPIDI - ARRIVO ALLE
ALPI - BATTAGLIE DELL' ISONZO E DI VERONA -- RESA DI MILANO - TUFA - ODOACRE ALLA
RISCOSSA - ODOACRE ASSEDIA TEODORICO A PAVIA - DISCESA DEI VISIGOTI - BATTAGLIA
DELL'ADDA - TEODORICO CHIEDE A COSTANTINOPOLI LE INSEGNE REGIE - ASSEDIO DI RAVENNA
- SORTITA DEL LUGLIO 491 - RIBELLIONE DEI RUGI - CADUTA DI RIMINI - TRATTATO DI PACE TRA
TEODORICO E ODOACRE - TEODORICO ENTRA A RAVENNA - MORTE DI ODOACRE
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GLI OSTROGOTI E L'IMPERO D'ORIENTE
Sfasciatosi, come abbiamo visto, l'impero unno, gli Ostrogoti, o meglio la maggior parte di essi, si erano
stanziati nella Pannonia, da dove, più tardi, spinti dal bisogno si erano spostati più ad Oriente. Sotto il regno
di Vinitario, della potente stirpe degli Amali, gli Ostrogoti stipularono con l'impero bizantino un trattato di
alleanza, obbligandosi, dietro compenso di un tributo annuo, a difendere dagli altri barbari le frontiere dell'
impero medesimo.
Morto Vinitario, gli seguirono i tre figli Velamiro, Vidimato, Teodimiro, i quali rinnovarono con Leone il trattato
di alleanza e gli diedero in ostaggio, Teodorico, figlio di Teodimiro, che allora contava appena otto anni
(463).
Dieci anni rimase Teodorico alla corte di Costantinopoli e questo soggiorno non fu senza efficacia
sull'educazione e sul temperamento del giovane principe, che crebbe alla scuola delle armi romane e della
scaltra politica bizantina; scuola mirabile per un barbaro pieno d'ingegno, di audacia e di ambizione che era
destinato ad un grande avvenire.
Durante il soggiorno di Teodorico a Costantinopoli cordiali rimasero i rapporti tra gli Ostrogoti e l'impero e
poiché magri arano gli stipendi che l' impero pagava a questi barbari, questi cercarono e trovarono altre
risorse in guerre frequenti contro popoli vicini, in una delle quali combattuta contro gli Sciri, trovò la morte il
maggiore dei tre fratelli: Velamiro.
Prese il titolo di re Teodimiro, il quale chiese ed ottenne la restituzione del figlio. Teodorico, partito da
Costantinopoli nel 472, all'età di diciott'anni, diede subito prova del suo valore, assalendo oltre il Danubio,
senza che il padre impegnato contro gli Svevi ne sapesse nulla, con seimila guerrieri i Sarmati,
sconfiggendoli ed uccidendo il loro re.
Teodorico iniziava brillantemente la carriera delle armi ma mostrava nel medesimo tempo il suo spirito
indipendente: difatti, volendo trarre dalla vittoria un vantaggio, teneva per sé Singinduno (Belgrado) che i
Sarmati avevano sottratto all'impero bizantino. Quest'atto del giovane Teodorico causò la rottura dei rapporti
tra gli Ostrogoti e Costantinopoli, che, sospendendo il pagamento del tributo, mise in grandi strettezze i
barbari.
Questo spiega perchè nel 373 una parte di Ostrogoti, sotto il comando di Vidimato, passò in cerca di altri
stanziamenti in Italia, ma dove Glicerio li indusse a trasferirsi in Gallia; l'altra con Teodimiro si spinse nella
Mesia e vi si stabili costringendo l'imperatore Leone a rinnovare l'alleanza e gli assegni.
L'anno dopo, nel 474 mori Teodimiro e gli successe al trono Teodorico. Varie vicende ebbero i suoi rapporti
con l' impero. Teodorico aveva un pericoloso concorrente in un principe dello stesso nome, Teodorico
STRABONE, capo di un ramo ostrogoto stabilitosi in Tracia dopo lo sfacelo degli Unni. Con i due principi
barbari ZENONE tenne una politica oscillante, molto ambigua, servendosi ora dell'uno ora dell'altro e
cercando pure, senza riuscirvi pienamente, di metterli l'uno contro l'altro.
Dei due il più pericoloso era Strabone con l'aiuto del quale BASILISCO riuscì a cacciare l'imperatore;
Teodorico, pur non avendo pretese minori dell'altro, non si mise mai in aperta rottura con Zenone e più di
una volta gli rese servigi preziosi, fra i quali è da ricordare l'aiuto prestatogli contro Basilisco che valse a
rimettere sul trono proprio l' imperatore Zenone.
La morte di Strabone, avvenuta nel 481 e il passaggio degli Ostrogoti della Tracia sotto le insegne del figlio
di Teodimiro, liberarono, sì, l'imperatore da un vicino avido e pericoloso, ma fecero crescere enormemente la
potenza e le pretese di Teodorico. Questi difatti, nel 483 riuscì ad ottenere il possesso della Dacia Ripensa e
della Mesia inferiore e il titolo e la carica di magister militiae praesentis, nel 484 il consolato. Nel 486, avendo
aiutato l' imperatore a sconfiggere i ribelli LEONZIO e ILLO, fu ammesso agli onori del trionfo; una statua
equestre gli venne innalzata nello stesso anno a Costantinopoli.
Teodorico era indubbiamente preziosissimo, come alleato nei momenti di bisogno, ma era anche erigente e
vendeva a caro prezzo i suoi servigi. Questo dipendeva, più che da uno smodato desiderio di ricchezze, dal
bisogno in cui si trovavano gli Ostrogoti, i quali, non essendo agricoltori e non vivendo di industrie o di
commerci né, d'altro canto, potendo procacciarsi sempre bottino da guerre mosse ad altri barbari, erano
costretti dall' insufficienza dei sussidi imperiali a fare scorrerie non infrequenti nello stesso territorio
dell'impero. In una di queste scorrerie noi troviamo Teodorico con il suo esercito sotto le mura di
Costantinopoli.
Correva l'anno 487. L'anno seguente, a Nova, insieme con la notizia della disfatta dei Rugi giungeva
FEDERICO. Se è vero che i Rugi erano stati spinti dalla corte di Costantinopoli ad invadere il Norico, la loro
disfatta rappresentava uno scacco per la politica di Zenone. Non delle più liete era la situazione di questo
imperatore: entro le frontiere dell'impero egli si trovava ad avere un potentissimo barbaro, Teodorico,
arrogante ed insaziabile che minacciava di diventare nell'Oriente quel che Ricimero era stato nell'Occidente.
Ai confini aveva un altro barbaro, non meno potente e pericoloso, ODOACRE, il quale aveva sempre
mostrato di voler governare come luogotenente imperiale ma ora annunziava a Zenone la vittoria sui Rugi
offrendogli parte del bottino, ed era pur sempre colui che aveva spodestato Nepote, aveva occupato la
Dalmazia, e forse si era preparato a muover contro l'Oriente.
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Erano due barbari, Teodorico ed Odoacre, egualmente pericolosi per Zenone, due principi di cui volentieri l'
imperatore si sarebbe sbarazzato con poco o nessun rischio. E tentò infatti di liberarsene mettendo in opera
la politica più semplice ma più efficace di cui altre volte con buon risultato si era servito, quella cioè di
mettere l'un barbaro contro con l'altro.
Il momento non poteva essere più propizio. Gli Ostrogoti non potevano più vivere sopra un territorio già
sfruttato, essi si dibattevano in una grave crisi economica ed erano desiderosi, oltre che spinti dalla
necessità, di trovarsi altre sedi meno disagiate e meno precarie. Quali territori migliori dell' Italia? Un'impresa
contro Odoacre risolveva definitivamente e vantaggiosamente il disagio economico degli Ostrogoti; esaudiva
il desiderio di vendetta di Federico; e rappresentava la migliore risposta al rifiuto dato da Odoacre a
Teodorico quando questi aveva chiesto la liberazione di Feba e di Gisa.
L'impresa d' Italia era quindi nell' interesse di Zenone e di Teodorico e ad entrambi premevano certamente di
compierla. È quindi ozioso indagare se dall' imperatore bizantino o dal re ostrogoto sia venuta l'iniziativa, e
solo per curiosità si possono citare le opinioni, in apparenza discordi ma concordi nella sostanza, dei più
autorevoli storici, Jordanis e Procopio. Secondo il primo, Teodorico avrebbe detto all'imperatore,
proponendogli l'impresa, che non sarebbe più stato a carico dell'impero se fosse stato disfatto e, se avesse
vinto, avrebbe governato in nome di Zenone; secondo Procopio sarebbe stato invece l'imperatore a proporre
al re la conquista d'Italia per liberarsi degli Ostrogoti.
Se tra Zenone e Teodorico, prima della partenza di quest'ultimo, sia intervenuto un accordo non si sa; ma
facilmente si può supporre che un accordo dovette essere avvenuto. Le parole di Jordanis, pur non parlando
di un trattato, lo fanno credere: Teodorico si impegnava di governare l'Italia in nome dell'impero (ego si
vicero vestro dono vestroque munere possidebo); Zenone manteneva, dal canto suo, i suoi diritti sull'
Occidente, che si riducevano -quella di Teodorico re- ad una sovranità puramente nominale.
GLI OSTROGOTI IN ITALIA
Tornato da Costantinopoli nella Mesia, Teodorico rivolse tutte le sue cure ai preparativi. Non un esercito
doveva partire, ma tutto un popolo e questo doveva trasportare tutte le sue cose nelle sedi da conquistare.
Né erano soltanto Ostrogoti quelli che Teodorico ai apprestava a condurre con sé; vi erano i Rugi superstiti,
vi erano gli Sciri, ma la maggioranza era composta di Goti. Fra questi c'era perfino un parente di Zenone,
Artemidoro, che non sappiamo se volesse partecipare all'impresa per desiderio di avventure o forse
espressamente incaricato dall'imperatore di sorvegliare Teodorico.
L'estate del 488 fu impiegata nei preparativi: le biade furono mietute e messe sui rozzi e pesanti carri su cui
furono poste anche le masserizie, da ogni parte della Mesia e dalla Dacia Ripense le popolazioni affluirono a
Nova e di qua ebbe inizio la spedizione.
Circa trecentomila individui, di ogni età e d'ogni sesso, si misero in marcia nell'autunno del 488. La via che
percorrevano era quella stessa che le legioni romane erano solite percorrere recandosi dall'Oriente
all'Occidente e viceversa, la via che Alarico coi suoi Visigoti aveva tenuto, che toccava Sirmio, attraversava
la Pannonia lungo la valle della Sava e per il Norico meridionale conduceva alle Alpi orientali.
Il freddo era intenso e il gelo irrigidiva i capelli e la barba. La cavalleria procedeva innanzi, ai fianchi e a
tergo della immensa colonna di pedoni e di quadrupedi; terminati presto i viveri, la caccia serviva ad
alimentare scarsamente il popolo in marcia, che la sera si arrestava presso grandi fuochi.
Passata la Sava, gli Ostrogoti penetrarono nel territorio dei Lepidi. Qualcuno ha pensato che i Lepidi si
fossero alleati con Odoacre per contrastare il passo agli invasori, ma non abbiamo prove per affermarlo. Si
sa però che i Lepidi si opposero al passaggio di Teodorico forse temendo il saccheggio del loro territorio;
essi si schierarono dietro un fiume chiamato Ulca e, richiesti, negarono risolutamente il passo agli Ostrogoti.
Questi allora si videro costretti a farsi strada con le armi e fu ingaggiata una battaglia accanita. Dalla
descrizione che Ennodio ne ha fatta, risulta che essa durò a lungo e che i Lepidi combatterono con
grandissimo valore. Essi avevano già sopraffatto gli Ostrogoti, quando Teodorico, raccogliendo i migliori
guerrieri intorno a sé e incoraggiando con la voce e con l'esempio gli altri che tentennavano, si slanciò
vigorosamente contro il nemico. Sfondato lo sbarramento e poi sbaragliati, i Lepidi si diedero alla fuga
inseguiti dai vincitori che ne fecero strage.
Nel territorio dei Lepidi fu fatta una lunga sosta. Gli Ostrogoti erano stanchi dal viaggio, dalle fatiche e dalla
battaglia; non pochi erano feriti, scarseggiavano le vettovaglie. Era necessario che si riposassero, che
facessero rimarginare le loro ferite, che si rifornissero di viveri; era necessario inoltre che si lasciasse
trascorrere l' inverno, non essendo prudente passare le alpi in quella stagione. Il riposo fu di alcuni mesi, il
bottino sottratto ai vinti servì a rimetter in forze i vincitori e quando questi, nella primavera del 489, si rimisero
in marcia forse non pochi Lepidi li seguirono.
Altre fatiche ed altri combattimenti gli Ostrogoti dovettero sostenere nella seconda parte del loro viaggio, ma
infine, nell'estate del 489 giunsero alle Alpi orientali.
L'impresa alla quale Teodorico si era accinto era difficilissima, e le difficoltà non erano certo finite con il
giungere alle porte d'Italia. Era questa una regione che doveva essere conquistata con la forza delle armi.
Odoacre aveva, è vero, in Italia dei nemici, perché non pochi dovevano essere i malcontenti, fra i quali in
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prima fila i grandi latifondisti, colpiti dalla confisca del terzo delle terre, e malconteno c'era in Senato; ma con
la sua prudente condotta Odoacre tuttavia si era acquistate molte simpatie e poteva contare sull'appoggio di
molti.
I Siciliani, che erano stati liberati dai Vandali, gli erano grati e fedeli; riconoscenti erano a lui le popolazioni
della Liguria, delle cui condizioni egli si era vivamente interessato; il clero, che tanto contava, non poteva
non essere favorevole ad Odoacre il quale, pur essendo ariano, nulla aveva fatto contro la Chiesa Cattolica.
Il clero anzi, dati i rapporti non buoni che correvano tra la Chiesa di Roma e la corte di Costantinopoli,
doveva vedere in Teodorico, in quanto veniva come luogotenente di Zenone, un pericoloso nemico.
Ma la forza maggiore di Odoacre era il suo esercito agguerrito e disciplinato, uscito vittorioso da due recenti
guerre, il quale avrebbe combattuto accanitamente per difendere il paese in cui si era stabilito e avrebbe
potuto ricevere aiuti non indifferenti dai popoli della stessa stirpe delle vicine frontiere.
Le difficoltà a cui andava incontro non dovevano essere ignote a Teodorico. Possiamo quindi credere che
prima di valicare le Alpi abbia iniziato trattative coi Visigoti, i cugini della Gallia, dai quali anni prima erano
stati cordialmente accolti gli Ostrogoti di Vidimero, e pertanto abbia avuto da essi promesso di aiuto.
Nell'agosto del 489 gli Ostrogoti si accamparono al ponte dell' Isonzo e, com'era da prevedersi, si trovarono
di fronte all'esercito di Odoacre.
La prima battaglia fu combattuta il 28 di agosto ed ebbe esito favorevole per gli Ostrogoti; ma non fu una
vittoria decisiva, tanto è vero che Teodorico ritenne opportuno di non molestare il nemico nella ritirata che
Odoacre fu costretto fare a Verona, nelle cui vicinanze egli s'accampò. Qui venne ad assalirlo Teodorico il
30 settembre del 489 e fu tutto merito del valoroso condottiero se gli Ostrogoti non subirono una irreparabile
sconfitta. Dopo lungo ed accanito combattimento, infatti, avevano cominciato a vacillare e molti avevano
voltato le spalle. Fu allora che Teodorico mostrò quanto grandi fossero il suo valore e il suo prestigio:
riannodate le schiere dei suoi, alla testa di esse si lanciò con estrema violenza contro il nemico e, come sulle
rive dell' Ulca così in quelle dell'Adige, la vittoria fu sua.
L'esercito di Odoacre subì perdite considerevoli; molti dei suoi soldati, fuggendo, trovarono la morte nelle
acque del fiume, e a stento il re riuscì a scampare; ma non meno gravi furono le perdite degli Ostrogoti, che,
anche questa volta, non poterono darsi all' inseguimento del nemico.
Non osando o non essendo in condizioni di passare il Po e scendere verso l' Italia centrale, Teodorico si
rivolse alla conquista della Transpadana. Questa non fu difficile: Milano gli aperse le porte per tradimento come sembra - di TUFA, magister militum, che con le milizie che comandava passò agli Ostrogoti. Dopo
Milano venne la volta di Pavia. Se si deve prestar fede ad Ennodio, Epifanio, vescovo di questa città, per
risparmiare agli abitanti gli orrori della guerra, pur non rompendo i rapporti con Odoacre, il prelato si recò a
Milano a fare atto di sottomissione in nome dei Pavesi.
Sconfitto sotto Verona, Odoacre passò il Po e con i resti del suo esercito mosse su Roma, ma la metropoli,
forse per ordine del Senato, gli chiuse le porte in faccia. Odoacre si vendicò devastando i dintorni della città,
poi richiamate probabilmente le guarnigioni dell' Italia meridionale e della Sicilia, si diresse a Ravenna, che
diventò la base delle sue operazioni e il luogo di raccolta delle sue forze.
Teodorico non si mosse dalla Transpadana, ma preoccupato della rinascita dell'esercito nemico, mandò alla
volta di Ravenna un corpo di Ostrogoti al comando di Tufa. Questi andò a Faenza poi marciò su Ravenna,
ma prima di giungervi fece ritorno a Faenza, dove lo raggiunse Odoacre.
Fra i due ebbe luogo un colloquio, e Tufa ritornò sotto l'obbedienza di Odoacre e gli consegnò gli Ostrogoti
che Teodorico gli aveva affidati i quali furono condotti prigionieri a Ravenna.
L'agire di Tufa fece credere che il suo tradimento fosse stato una finzione, un mezzo cioè per servir meglio il
suo signore. Sia o non sia stato simulato il tradimento del capo barbaro, dopo il suo ritorno cominciano a
rialzarsi le sorti dell'esercito di Odoacre.
Con l'esercito ricostituito lo ritroviamo ora a Cremona dove inizia l'offensiva. Milano, assalita, cade in suo
potere e gli abitanti pagano a caro prezzo la precedente sottomissione a Teodorico. Il re degli Ostrogoti è
costretto a chiudersi a Pavia e qui viene assediato da Odoacre. Pavia ha tali fortificazioni che non è cosa
facile prenderla d'assalto, e le vettovaglie a quanto sembra, non fanno difetto. Teodorico può quindi rimanere
ad aspettar gli aiuti dei Visigoti senza rischiare una battaglia in campo aperto che potrebbe riuscirgli fatale.
Per sua fortuna i cugini della Gallia passarono con numerose forze le Alpi. Il loro arrivo costituiva la salvezza
per Teodorico e gli dava la possibilità di riprendere 1'offensiva.
Era l'estate del 490. Odoacre, impotente a fronteggiare il nemico, più forte di lui per le nuove truppe
sopraggiunte, levò l'assedio e si diresse a Cremona, dove avrebbe potuto resister meglio. Ma Ostrogoti e
Visigoti, uniti insieme, non glie ne diedero il tempo: raggiuntolo sull'Adda, l'obbligarono alla battaglia che
venne combattuta l'11 agosto. Il combattimento fu lungo e aspro e le perdite furono gravissime da ambo le
parti. Fra i caduti dell'esercito di Odoacre ci fu Pierio, comes domesticorum.
La vittoria arrise a Teodorico: La Transpadana era perduta per Odoacre, né aveva più forze sufficienti per
difendere il resto dell'Italia. Cremona era vicina, ma, se era un'ottima base per un generale che potesse
disporre di un forte esercito, non rappresentava una piazzaforte per chi, come il vinto re, non aveva sotto di
sé che truppe scarse e provate dalla sconfitta.
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Non potendo ormai più fronteggiare il nemico in aperta campagna, Odoacre decise di chiudersi in una città
fortificata e scelse Ravenna, che gli offriva i più grandi vantaggi. Ravenna, difatti, per la vicinanza del mare e
per le fortissime opera di difesa di cui era munita, poteva sfidare un lunghissimo assedio; di là inoltre
Odoacre poteva comunicare con il rimanente della penisola e minacciare le spalle dell'esercito degli
Ostrogoti se si fosse spinto nella parte centrale e meridionale d' Italia.
A Ravenna Odoacre si ritirò con il resto delle sue truppe, ma lasciò presidi a Cesena, a Rimini e in qualche
altra città. Egli sperava di potere raccogliere intorno a sé nuove truppe, sperava nella fedeltà della Sicilia e
dell' Italia meridionale, sperava in una prossima partenza dei Visigoti e forse nell'aiuto di GUNDOBADO, re
dei Burgundi, che - come qualcuno crede - era stato sollecitato a scendere contro Teodorico.
Effettivamente Gundobado - non si sa se alla fine del 490 o l'anno dopo - passò le Alpi, ma, invece di
marciare contro gli Ostrogoti, invase e saccheggiò la Liguria e, carico di bottino, se ne ritornò nel suo regno
traendosi dietro un gran numero di prigionieri.
Chiuso in Ravenna, Odoacre rappresentava un pericolo non indifferente per Teodorico, ma questi, con
buona parte del suo esercito poteva, come aveva fatto Alarico una volta, scorazzare per l' Italia.
Dell' Italia anzi oramai Teodorico si considerava padrone, il Senato si era schierato dalla sua parte, il clero si
manteneva in una prudente neutralità, quelli che erano stati apertamente fautori di Odoacre, dopo averlo
visto in cattive acque, si erano subito pronunziati per Teodorico, il quale si imponeva per la forza delle sue
armi vittoriose e per quella che gli veniva dall'essere l' inviato del legittimo imperatore.
Dopo la battaglia dell'Adda -stando a quello che gli storici ci dicono - Teodorico mandò ambasciatori a
Zenone per annunziargli le vittorie che aveva riportate su Odoacre. Fra i messi spediti c'era FAUSTO,
principe del Senato. La presenza di questo ci fa conoscere che non soltanto per comunicare la notizia dei
successi militari era stata mandata l'ambasceria a Costantinopoli.
Le fatiche sostenute, le grandi difficoltà incontrate nella spedizione e le vittorie riportate avevano fatto
crescere gli appetiti di Teodorico. Egli era partito dalla Mesia in qualità di luogotenente dell'impero, per
cacciare dall'Italia Odoacre; ora invece desiderava prendere il posto del vinto e chiedeva di essere investito
della sovranità. Odoacre, dopo la deposizione di Romolo Augustolo, si era servito del Senato per chiedere il
patriziato, e così del Senato ora si serviva Teodorico per chiedere a Zenone le insegne della sovranità,
sperans se vestem induere regiam (Anonimo Valesiano).
Ma la mediazione di Fausto non ebbe l'effetto desiderato: Zenone non poteva rinnovare per l' Italia uno stato
di cose per distruggere il quale aveva mandato Teodorico. Egli oppose un rifiuto alle richieste del re.
Contegno uguale tenne il suo successore, NASTASIO, salito al trono dopo la morte di Zenone avvenuta il 9
aprile del 491, e tale contegno non doveva mutare neppure dopo la definitiva disfatta di Odoacre.
Infatti questi resisteva a Ravenna e pare che la sua posizione non fosse cattiva. Malgrado gli sforzi di
Cassiodoro i Siciliani gli si mantenevano fedeli; nella stessa Roma - come fa fede una lettera di papa
Gelasio - aveva ancora non pochi fautori; le città vicine di Cesena e di Rimini in mano delle guarnigioni di
Odoacre rendevano inefficace l'assedio di Ravenna; ed infine questa, aveva libere le comunicazioni con la
opposta sponda adriatica e con le coste italiane e riceveva viveri e rinforzi di armati con i quali Odoacre
riuscì a mettere insieme un esercito rispettabile.
Vari furono i tentativi di Odoacre di rompere l'assedio, e tutti condotti con grande energia. Uno di questi fu
fatto verso la metà del luglio del 491. Uscito di notte con la maggior parte delle sue forze, Odoacre assali
con grande impeto il nemico alla Pineta e al Ponte Caudiano. La battaglia fu oltremodo accanita e parve per
poco che dovesse finire con la vittoria degli assediati, ma ben presto le posizioni perdute furono
riconquistate dagli Ostrogoti e i guerrieri di Odoacre, decimati, dovettero rientrare in disordine a Ravenna.
Fra i morti ci fu il magister militum LEVITA, che, fuggendo, perì annegato nel Ronco.
La sconfitta e le perdite di questa battaglia notturna furono così gravi che Odoacre non osò più tentare altre
sortite. Non pare però che egli si sia rassegnato a subir passivamente l'assedio. Alcuni avvenimenti accaduti
nel 492 nella valle del Po ci autorizzano a sospettare che Odoacre abbia tentato di rivolgere l'attenzione di
Teodorico nell'alta Italia e di fare allentare la morsa in cui si era chiuso dalla parte di terra.
A Pavia era rimasto, coi suoi Rugi, FEDERICO, uomo violento e senza freno, il quale, mentre Teodorico era
impegnato nell'assedio di Ravenna, desolò da vero barbaro la città e il territorio. Federico era
ambiziosissimo e non poteva esser contento della parte secondaria che aveva nella guerra d' Italia; non si
peccherebbe quindi di audacia pensando che Odoacre possa aver tentato con promesse allettanti di trarlo
dalla sua.
Prove di trattative tra Federico ed Odoacre non si hanno, ma è certo che Federico, nel 492, si ribellò
apertamente a Teodorico e che Tufa con un corpo di armati comparve nella Transpadana a spalleggiare il
ribelle. Questo fatto ci conferma nel sospetto che un accordo fra Odoacre e Federico fosse intervenuto.
L'accordo però non durò a lungo. Ce ne dà notizia Ennodio, il quale scrive che tra il re dei Rugi e Tufa
sorsero dei gravi dissidi che provocarono la rottura ed una sanguinosa battaglia. Questa ebbe luogo nella
valle dell'Adige, fra Verona e Trento, e in essa Tufa trovò la morte.
Questi avvenimenti però non distrassero da Ravenna il grosso dell'esercito di Teodorico. L'assedio continuò
regolarmente; ma era un assedio senza efficacia essendo aperta agli assediati la via del mare da cui
traevano rifornimenti di viveri e di armati.
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La situazione cambiò quando, nell'estate del 492, Rimini cadde in potere degli Ostrogoti, perché Teodorico
riuscì a mettere insieme velocemente una flottiglia di piccole navi e con queste chiuse Ravenna anche dalla
parte del mare.
L'assedio entrava così nella fase risolutiva. Sebbene rigorosamente bloccato, Odoacre resistette, ancora sei
mesi e fu in questo periodo che la città soffri maggiormente. Al dir di un cronista ravennate, molti di quelli
che non erano periti di ferro morirono di fame, perché i viveri di giorno in giorno si facevano più scarsi e un
moggio di grano lo si pagava perfino sei solidi d'oro.
Ma alla fine Odoacre - secondo quel che riferiscono gli storici - comprese che non era più possibile
un'ulteriore resistenza ed avviò trattative con Teodorico per mezzo dell'arcivescovo di Ravenna, Giovanni. Il
25 febbraio del 493 TELANE, figlio di Odoacre, fu mandato come ostaggio al campo degli Ostrogoti; due
giorni dopo il trattato di pace era concluso.
Molti storici hanno discusso i termini di questo trattato. Quel che vi è di certo nelle notizie a noi pervenute è
che Odoacre ebbe promessa di aver salva la vita. Su questo sono concordi le fonti occidentali e le orientali.
Queste ultime però riferiscono condizioni del trattato che le altre tacciono e che a noi sembrare molto strane.
Secondo Procopio e Giovanni Antiocheno, Teodorico ed Odoacre si sarebbero obbligati a regnare insieme.
Senza dubbio, a prima vista, la condizione della pace sembra alquanto singolare perché non pare verosimile
che Teodorico, dopo tante vittorie, ridotto agli estremi il suo nemico, gli abbia concesso di averlo collega, a
parità di condizioni, nel regno.
Non avendo ragioni plausibili per rigettare le notizie di Procopio e dell' Antiocheno e non potendo ammettere
come dettate da generosità di Teodorìco le condizioni di cui i due storici fanno parola, dobbiamo cercarne la
spiegazione nelle condizioni in cui si trovavano i due principi nel momento delle trattative. Lo stato di
Odoacre non doveva essere così disperato come si vuol far credere. Se fosse stato proprio ridotto agli
estremi, Teodorico non avrebbe accettato di trattare o avrebbe imposto la capitolazione incondizionata.
Dobbiamo pensare che Odoacre non fosse ridotto ancora agli estremi, e che quindi premesse a Teodorico di
porre termine all'assedio. Di che cosa poteva temere il re degli Ostrogoti? Di una sortita disperata degli
assediati che poteva anche avere un esito favorevole? Che gli Eruli, come minacciavano, calassero dalle
frontiere in aiuto del nemico? Che l' imperatore di Costantinopoli, con cui Teodorico non era più in buoni
rapporti, approfittasse dell'assedio per disfarsi dell'uno e dell'altro principe? Non lo sappiamo con precisione.
Forse di tutto ciò che abbiamo detto temeva il re degli Ostrogoti. Il suo timore giustifica pienamente le
condizioni del trattato di pace. Che poi il trattato fosse concluso in buona fede dall'una parte e dall'altra non
possiamo credere. I fatti che seguirono autorizzano a credere che Teodorico, firmando il trattato, meditasse
il colpo che doveva costar la vita al suo rivale.
Tuttavia con la stipulazione del trattato aveva termine la guerra, che era durata tre anni e mezzo; la
guarnigione di Cesena posava le armi e Ravenna apriva le porte.
Il 5 marzo del 493 Teodorico fece il suo ingresso a Ravenna, accolto dall'arcivescovo e dal clero.
Alcuni giorni dopo Odoacre periva per mano di Teodorico. Qualche storico occidentale afferma che Odoacre
fu ucciso per aver tramato insidie contro il re degli Ostrogoti; gli storici orientali, non sospetti, non parlano
invece di insidie ed accusano Teodorico di tradimento.
Secondo essi, dieci giorni dopo l'accordo, Odoacre fu invitato dal rivale a banchetto nel palazzo del Laureto.
Appena giunto, fu avvicinato da due uomini, i quali, col pretesto di porgergli una supplica, gli afferrarono i
polsi. Era il segnale convenuto: alcune guardie armate accorsero, ma nessuno osò colpire il re.
Sì avanzò allora Teodorico, che, sordo alle proteste del nemico, gli menò con la spada un terribile fendente,
esclamando con truce e sarcastica compiacenza : « par che costui non abbia ossa ».
Così moriva, dopo diciassette anni di regno, Odoacre, che fu prode guerriero e politico accorto, che non
volle, come si pensò, fondare una signoria propria in Italia, ma desiderò governar questa in qualità di
patrizio, che non fu, come fu detto, un tiranno, ma un capo avveduto, un uomo di buona volontà, che ebbe il
solo torto, di fronte alla storia, qualche volta ingiusta, di non aver saputo evitar la sconfitta.
La sua salma venne tumulata nella sinagoga giudaica di Ravenna. Alla morte di Odoacre seguì quella dei
suoi familiari: il fratello Onulfo venne ucciso, la moglie Sunigilda fu messa in carcere e fatta perire di fame, il
figlio Telane relegato in Gallia fu più tardi messo a morte, e la morte trovarono pure i barbari seguaci di
Odoacre che erano dentro o fuori Ravenna.
Col tradimento e le stragi si chiudeva la guerra e si inaugurava la signoria degli Ostrogoti in Italia.
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
WACHER -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
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+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
Inizia la signoria degli Ostrogoti, ed è proprio il contenuto del successivo capitolo il periodo che va dal 493 al
526
IL REGNO OSTROGOTO DI TEODORICO ( dal 493 AL 526 )
IL PRIMO EDITTO DI TEODORICO - LA SOVRANITÀ DI TEODORICO - L'ORDINAMENTO ROMANO
CONSERVATO - LA DISTRIBUZIONE DEL TERZO DELLE TERRE AGLI OSTROGOTI - L'ESERCITO - L'
EDICTUM THEODORICI - POLITICA DI TEODORICO - OPERE PUBBLICHE - TEODORICO E LA
COLTURA - CASSIODORO - GLI STATI BARBARICI DELL'EUROPA OCCIDENTALE: VISIGOTI,
BURGUNDI, FRANCHI. - POLITICA ESTERA DI TEODORICO - LA GUERRA DI SIRMIO - GUERRA TRA
FRANCHI E VISIGOTI E MORTE DI ALARICO II - INTERVENTO DI TEODORICO - BATTAGLIA DI ARLES
- GESALICO - EUTARICO ED AMALASUNTA - POLITICA RELIGIOSA DI TEODORICO - L' HENOTICON LO SCISMA DI SIMMACO E LORENZO - FINE DEL DISSIDIO TRA LA CHIESA ROMANA E LA CORTE
BIZANTINA - FALLIMENTO DELLA POLITICA DI TEODORICO - ITALIANI ED OSTROGOTI - TUMULTO
ANTISEMITA DI RAVENNA - ALBINO E BOEZIO PROCESSATI - MORTE DI SEVERINO BOEZIO E DI
SIMMACO - - AMBASCERIA E MORTE DI PAPA GIOVANNI I - FINE DI TEODORICO E LEGGENDE
SULLA SUA MORTE
--------------------------------------------------------------------IL GOVERNO DI TEODORICO
Uno dei primi atti di Teodorico dopo la morte di Odoacre è un editto col quale il principe degli Ostrogoti
stabilisce per gli Italiani, i quali abbiano parteggiato per il morto re, la perdita dei diritti civili e politici. Per
intercessione però del vescovo di Pavia il provvedimento viene mitigato; è applicato cioè soltanto a tutti
coloro che abbiano fatto uso delle armi contro gli Ostrogoti.
Se si badi però che LIBERIO, lo strenuo difensore di Cesena, non patisce alcun male, anzi viene tenuto in
alta considerazione da Teodorico, è da credere che l'editto teodoriciano, così temperato, non abbia avuto
rigorosa applicazione. Nè poteva averla se si pensi alla situazione di Teodorico nei rapporti con l' impero
d'Oriente.
Teodorico appena entrato a Ravenna, è stato confermato re dai suoi Ostrogoti, ma per gli Italiani non è che
un patrizio. Soltanto nel 498 l'imperatore ANASTASIO conferisce a Teodorico l'autorità regia e gli manda - se
è vero -gli ornamenta Palatii inviati da Odoacre a Costantinopoli.
Ma non è da pensare che la nuova autorità di Teodorico non avesse dei limiti e che venisse ad acquistare la
medesima posizione che avevano avuto gl'imperatori d'Occidente. La sovranità di Teodorico era limitata alla
sola Italia e il potere regio non era ereditario. Teoricamente sussisteva ancora l'unità dell'impero romano, del
quale l'Italia faceva parte; questa però veniva governata da un re che doveva avere il riconoscimento
imperiale.
L' Italia era quindi come un regno vassallo dell'impero e Teodorico un collega minore di Anastasio. Egli non
era Augustus, ma Rex; batteva moneta, ma le monete portavano l' immagine dell'imperatore e del re solo il
monogramma; poteva nominare un console, ma questi doveva esser confermato da Costantinopoli. Inoltre
mentre all'imperatore era riservato il diritto di promulgare leggi in tutto l'impero, Teodorico poteva emanare
semplicemente editti e all' Italia soltanto.
Fra le limitazioni imposte alla sovranità di Teodorico c'era senza dubbio l'obbligo di mantenere immutati gli
antichi ordinamenti, e di lasciare l'amministrazione in mano ai Romani.
Queste clausole - noi pensiamo - sarebbero state applicate lo stesso anche se non fossero state imposte
dall' imperatore. I Goti erano dei barbari che non avrebbero saputo fare uso delle magistrature civili; d'altro
canto Teodorico non avrebbe saputo come modificare gli ordinamenti romani, né del resto era prudente
apportare modifiche a certe istituzioni secolari.
Inalterate pertanto rimasero a Roma e nelle province l'amministrazione e le magistrature, e Ravenna rimase
la capitale. Qui risiedeva il prefetto del pretorio; a Roma invece il vicarius urbis, da cui dipendevano le otto
province suburbicarie. Le province rimasero immutate di numero e sotto i Judices, di nomina regia, che
amministravano la giustizia, e tale quale come prima rimase l'ordinamento municipale, alla cui testa stavano
i duumviri con il curator che controllava l'amministrazione finanziaria e il defensor che sorvegliava
l'amministrazione cittadina.
II primo problema che si presentava a Teodorico e reclamava una pronta soluzione, era quello di assicurare
una stabile sede al suo popolo. Odoacre l'aveva risolto distribuendo ai suoi barbari il terzo delle terre:
Teodorico lo imitò. Con tatto politico nominò capo di un'apposita commissione (deputatio tertiarum)
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LIBERIO, prefetto del pretorio, il quale si ebbe le lodi di Cassiodoro per essersi comportato con grande
equità e con tale prudenza da non provocare malcontento fra gli Italiani.
In qual modo e dove fosse fatta l'assegnazione delle terre non sappiamo con sicurezza. Secondo Procopio,
furono distribuite agli Ostrogoti le terre che erano state prima date ai barbari di Odoacre. Che queste fossero
comprese fra quelle distribuite agli Ostrogoti non è da dubitare, ma che fossero queste soltanto non è
possibile credere, dato il numero maggiore degli Ostrogoti e la maggiore estensione dei lotti (sortes). Se
dobbiamo ritener sincere le lodi da Cassiodoro date a Liberio - e non c' è motivo di non ritenerle tali -la
spoliazione dovette colpire solo i grandi latifondisti e le terre incolte. Il maggiore stanziamento dei Goti ebbe
luogo nell' Italia settentrionale; dell' Italia centrale il Lazio e la Toscana meridionale non furono colpiti e lo
stesso si dica della Campania, della Lucania, del Bruzio e della Sicilia. Ma se una buona metà d'Italia rimase
esente da spoliazioni è da supporre che i proprietari non colpiti dal provvedimento fossero obbligati a pagare
al fisco il terzo dei frutti (illatio tertiarum). (dalla padella alla brace insomma).
Se l'amministrazione civile fu lasciata in mano ai Romani, l'uso delle armi invece fu riservato ai Goti. Ma ciò
non deve essere inteso in senso assoluto. Gli Italiani, sebbene in numero limitatissimo vi partecipassero,
non erano esclusi dall'esercito; la stessa cosa si può dire dei Goti per le cariche civili e politiche. Sappiamo
difatti che Goti erano non pochi dei consiglieri di Teodorico, fra i quali i maiores domus (maggiordomi), e Goti
quei funzionari, detti Saioni, che dipendevano dal maestro degli uffici ed avevano l' incarico di trasmettere gli
ordini del re.
Però la principale funzione che i Goti esplicavano nella vita dello stato era quella militare. Cittadini erano gli
Italiani e dovevano offrire le loro attività a favore del benessere della nazione; soldati erano gli altri che
questa nazione avevano il compito di proteggere e di difendere.
Comandante supremo dell'esercito era Teodorico, sebbene, dopo la presa di Ravenna, affidasse la direzione
delle guerre ai suoi generali e conti (comites).
I Goti vivevano con le loro famiglie nelle terre avute ma in caso di guerra o di esercitazioni avevano l'obbligo
di accorrere sotto le armi. Durante la pace guarnigioni più o meno numerose, che periodicamente si
avvicendavano, risiedevano in alcune città del regno. Presidi si trovavano a Palermo e a Siracusa, il cui
comes aveva il comando militare di tutta l'isola, presidi a Reggio Calabria, a Napoli, a Roma, a Norcia, a
Rieti, a Treviso, a Ravenna, a Verona, a Pavia, a Tortona, presidi nei castelli e nelle città di confine.
Un altro problema che si presentò a Teodorico dopo la morte di Odoacre fu quello della politica interna. Egli
si trovava signore di due popoli, Italiani e Goti, diversissimi gli uni dagli altri per origine, indole, costumi e
civiltà. Era necessario che questi due popoli vivessero in buona armonia tra loro e che fossero eliminate tutte
le possibili cause di dissidi. Con questo scopo Teodorico, verso il 500, pubblicò il famoso editto che porta il
suo nome (Edictum Theodorici), raccolta di centoncinquantaquattro articoli, basata sul diritto romano, cui
dovevano ubbidire Romani e Goti. Nei casi non contemplati dall'editto ciascun popolo si serviva del proprio
diritto nazionale. Ma se unico codice fondamentale di leggi prescrisse per entrambi i popoli, a ciascuno di
essi diede un tribunale proprio: i presidi delle province ai Romani, i Comites Ghotorum ai barbari. Nelle
cause miste il comes goto doveva essere assistito da un magistrato romano (prudens romanus).
"" ...Poiché i Goti con l'aiuto divino abitano fra voi, affinché non sorgano, come suole avvenire, liti, abbiamo
creduto necessario mandare in mezzo a voi, in qualità di comes, un uomo egregio e notoriamente integro.
Egli, secondo i nostri editti, giudicherà le liti per i Goti. Nel caso di liti fra Goti e Romani si aggregherà un
magistrato romano e giudicherà con equità. Nelle liti fra i Romani, questi ubbidiscano ai giudici da noi inviati
nelle province perché a ciascuno sia resa giustizia secondo un'unica legge. Così, con l'aiuto divino, tutti e
due i popoli godranno insieme i benefici della pace. E sappiate che noi amiamo tutti indistintamente, ma
prediligiamo coloro che più degli altri sono ossequenti alle leggi. Noi non tollereremo illegalità e
condanneremo i violatori della legge. Non saremo clementi coi violenti. Nelle liti deve trionfare non la forza,
ma il diritto. Chi ha il mezzo di dispensare la giustizia non può ricorrere alla violenza e appunto perché
vogliamo eliminare gli odi noi paghiamo i giudici e manteniamo tanti uffici. Come comune è il governo che vi
regge, così siano comuni i vostri sentimenti. E i vostri sentimenti siano quelli che noi desideriamo. Voi, Goti,
siate vicini ai Romani nell'amore come loro vicini siete nei beni e voi, Romani, amate molto i Goti che in pace
accrescono il vostro popolo e in guerra vi difendono. Perciò voi ubbidirete al giudice che vi è inviato e
osserverete le sentenze che secondo il diritto pronunzierà. Così comportandovi, ubbidirete a me e insieme
farete l'utile vostro "".
Così si esprimeva Teodorico nella formula (Comitiva Gothorum) indirizzata ai Romani in cui è
sommariamente ma chiaramente indicato il suo programma di governo.
Il fine a cui mirò Teodorico nella sua politica interna fu di poter governare pacificamente sopra l'uno e l'altro
popolo e di farli vivere in buona armonia sotto leggi comuni che peraltro non escludevano quelle tradizionali
di ciascuna nazione. Che sperasse Teodorico di poter fondere in uno i due popoli non crediamo. Egli
conosceva quanta differenza passasse tra l'uno e l'altro, conosceva i sentimenti degli Italiani verso i Goti, i
quali erano sempre degli stranieri e dei conquistatori per gli indigeni, sapeva che la tolleranza per mezzo di
una saggia amministrazione non la fusione poteva aver luogo. Né, d'altronde, che questa fusione egli
desiderasse noi non lo crediamo, perchè Teodorico non poteva ignorare che una fusione non poteva
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avvenire che a scapito della fisionomia dei Goti. Secondo noi sbagliano quelli che credono che Teodorico
mirasse alla romanizzazione dei suoi barbari. Ma semmai l'incontrario.
Egli si mostrava, è vero, ammiratore della romanità, ma non bisogna esagerare quest'ammirazione, che
forse, in parte, non è che l'eco dei sentimenti del suo segretario CASIODORO e, in parte, è un mezzo
politico adoperato per cattivarsi le simpatie degli Italiani e il favore ambitissimo della corte di Costantinopoli.
Per guadagnarsi le simpatie degli indigeni era necessaria una politica accorta che fosse basata sulla
giustizia e sul rispetto del culto cattolico, che tenesse conto delle condizioni economiche dell' Italia,
rimettesse in vigore certe consuetudini care al popolo romano e mostrasse l' interesse del re per le opere di
pubblica utilità e di ornamento.
Egli seppe cosi bene mettere in pratica la sua politica che riuscì ad acquistarsi fama di sovrano giusto e pio
e a dare per parecchi anni all' Italia pace e prosperità.
Le guerre e le altre calamità che si erano abbattute sull'Italia l'avevano spopolata e immiserita. Sotto il regno
di Teodorico la popolazione aumentò; molte migliaia di persone catturate dai Burgundi nella loro incursione
della Liguria vennero restituite, vennero prosciugate in parte le Paludi Pontine ed opere di bonifica furono
fatte nell'agro ravennate; fu dato impulso all'agricoltura, ribassarono i prezzi del grano e del vino e parte dei
prodotti del suolo - che prima non bastavano al sostentamento della popolazione - vennero perfino esportati.
Fu tanto il benessere che, a detta di un cronista del VI secolo, con un solido d'oro si potevano comperare
settanta moggia di frumento e trenta anfore di vino.
Roma, che tanto era stata trascurata dagli ultimi imperatori, fu oggetto di speciali cure da parte di Teodorico.
Le mura, il palazzo reale, il teatro di Pompeo e le cloache furono restaurate, fu riparato il portus Licini, fu
regolato l'uso delle acque pubbliche e il servizio dell'annona, vennero ripristinate le gratuite distribuzioni di
grano e rimessi in vigore, per godimento del popolo, gli spettacoli circensi.
Né soltanto Roma ebbe le cure del re: a Ravenna fece fabbricare un magnifico palazzo, un anfiteatro, la sua
tomba in stile romano e chiese bellissime tra le quali quella di S. Martino e quella di S. Apolinare famosa per
i mosaici, il tetto e le colonne; Verona ebbe un ricco palazzo ornato di un portico, la restaurazione
dell'acquedotto, una nuova cinta di mura ed ampie terme; mura, terme, palazzi e un anfiteatro furono
costruiti a Pavia, la quale, con Verona, acquistò una grande importanza; altre importanti opere furono fatte a
Parma, a Spoleto e a Terracina, e questa attività, veramente notevole in un principe barbaro, gli valse il titolo
di amator fabricarum et restaurator civitatum.
Questa attività costruttrice e la protezione accordata ai letterati fecero passare Teodorico per un re amante
delle arti e delle lettere. Ma tale egli non fu. I dieci anni trascorsi a Costantinopoli come ostaggio dell'impero,
che gli erano stati scuola utilissima di politica, lo avevano lasciato insensibile alla coltura e non gli avevano
forniti neppure i rudimenti della scrittura.
TEODORICO era un barbaro che considerava indegno di uomini liberi l'esercizio delle lettere e - se è vero
quello che scrive Procopio - proibì ai Goti di mandare i figli a scuola temendo che questi, abituandosi a
tremar della ferula, crescessero vili. Ma da barbaro accortissimo egli sapeva di non poter governare un
popolo come il romano con i suoi Goti incolti e sapeva anche che la letteratura poteva dar prestigio al suo
nome ed essere efficace strumento di governo.
Perciò egli fu largo di aiuti ai dotti e non pochi di essi chiamò alle più alte cariche. Il poeta ARATORE fu
creato conte dei domestici, SIMMACO fu fatto principe del Senato, SEVERINO BOEZIO, filosofo e poeta,
venne nominato console, ENNODIO, il panegirista del re, ottenne il vescovado di Pavia. E un letterato fu il
segretario di Teodorico: CASSIODORO. L'avo suo era stato tribuno e notaio alla corte di Valentiniano III; il
padre era stato, sotto Odoacre, conte delle sacre elargizioni e console della Sicilia, e sotto Teodorico aveva
avuto il governo del Bruzio e la prefettura del Pretorio. Cassiodoro, nato a Squillace intorno al 480, fu
questore, console o maestro degli uffici; impiegato devoto ed infaticabile, fu preziosissimo strumento di
governo in mano a Teodorico; ammiratore dei Goti, ne scrisse una storia e sperò nella loro romanizzazione;
segretario fedele del re, fu il propagatore e l'assertore della politica di Teodorico e al suo signore rese il
servizio più prezioso, quello di farlo apparire agli Italiani animato da sentimenti romani quando non era che
un Goto, il quale di romano non aveva che la porpora e le insegne regie.
POLITICA ESTERA E GUERRE DI TEODORICO
Teodorico non teneva gli sguardi soltanto entro i suoi domini a vigilare affinché non fosse turbata l'armonia
tra Italiani ed Ostrogoti, ma guardava, e forse con maggiore attenzione, nei vicini stati barbarici sorti sulle
vecchie provincia dell'impero d'Occidente.
L'Africa settentrionale, da Tripoli a Gibilterra, era dei Vandali, che possedevano anche la Sardegna, la
Corsica e le Baleari e che, se, dopo la morte di Genserico, a causa dell'odio tra i conquistatori e il popolo
soggetto e dei dissensi della famiglia regnante (i figli), non erano più potenti come una volta,
rappresentavano sempre una nazione temibilissima specialmente per la flotta cui era incontestato il dominio
del Mediterraneo Occidentale.
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Nazione più forte della Vandalica era senza dubbio quella dei Visigoti che avevano sotto di sé la penisola
iberica, eccettuata la Galizia abitata dagli Svevi, e le fertilissime terre della Gallia, tra i Pirenei, la Loira, le
Alpi e il Mediterraneo.
Capitale del regno visigotico era Tolosa, sovrano ALARICO II, succeduto nel 484, al padre Eurico, che con
una imprudente politica favorevole all'arianesimo contro il cattolicesimo dei Gallo-romani aveva suscitato
vivissimo odio tra le popolazioni indigene e i dominatori. Meno forte era il regno dei Burgundi, senza sbocchi
sul mare, travagliato anch'esso dal dissidio religioso tra conquistatori e conquistati, e diviso fra
GUNDOBADO e GODOGISELO, i due figli superstiti di Gundioc.
Il più potente dei regni barbarici d'Oltr'Alpe era quello dei FRANCHI-SALII. Questo popolo, sotto CLODIONE,
dalla riva destra del Reno inferiore era passato sulla sinistra conquistando tutto il paese fino alla Somma e
rimanendovi come federato dell'impero.
Morto nel 451 Clodione, il regno franco si era diviso in parecchie signorie, una delle quali aveva Tournay per
capitale e come principe MEROVEO, capostipite della dinastia merovingia, che aveva combattuto con Ezio
contro Attila e, dopo la morte di Valentiniano III, aveva esteso il suo dominio nella Belgica meridionale e
nella Gallia, settentrionale. A Meroveo era successo CHILDERICO, il quale aveva spinto le sue conquiste
fino alla Loira, ma venuto a battaglia con SIAGRIO, ultimo campione dell' indipendenza della Gallia romana,
era stato battuto ed aveva dovuto ritirarsi nei vecchi confini del suo stato.
Questi erano stati nuovamente varcati dal successore Clodoveo, il quale, conquistata nel 486 Soissons,
aveva costretto Siagrio a rifugiarsi alla corte del re Visigoto Alarico II. Da questa vittoria aveva avuto inizio la
fortuna di CLODOVEO; tutto il territorio dalla Senna alla Loira era caduto in suo potere, erano stati
sottomessi gli altri principati franchi sorti dopo la morte di Clodione, e la capitale da Tournay era stata
trasportata a Parigi. Più che sulla forza il regno di Clodoveo si basava sulla giustizia e sull'eguaglianza.
Non usurpazioni di terre, non vessazioni, non imposizione ai vinti della fede dei vincitori; non c'erano anzi né
vinti né vincitori, perchè tra i due popoli vigeva una assoluta parità di diritti, condizione questa che doveva
produrre la fusione delle varie stirpi e doveva fare della nazione dei Franchi la più forte e la più duratura delle
nazioni barbariche d'Occidente.
Ad accelerare questa fusione era valsa la conversione di Clodoveo al Cattolicesimo. Egli aveva sposato
Clotilde, una principessa cattolica dei Burgundi. Nel 496, minacciando gli Alemanni, che già si erano spinti
dentro il suo regno fino all'Alsazia, Clodoveo aveva mosso loro guerra e li aveva sconfitti in una grande
battaglia che si vuole avvenuta a Tolbiac. Stando i suoi soldati, durante il combattimento, per essere
sopraffatti, il re - secondo il racconto di Gregorio di Tours - aveva invocato il Dio della moglie, facendo voto
di abbracciarne la fede se gli avesse data la vittoria. Riuscito vittorioso, il 25 dicembre del 496 Clodoveo era
stato battezzato da REMIGIO, vescovo di Rheims e il suo esempio era stato presto seguito da molti dei suoi
guerrieri e più tardi doveva far convertire al Cattolicesimo l' intera nazione dei Franchi.
La vita dei popoli vicini non poteva non tener desta l'attenzione di Teodorico. Egli non aspirava a ingrandire i
suoi domini che, oltre l' Italia, comprendevano la Rezia, il Norico, la Pannonia e la Dalmazia, ma desiderava
che l'equilibrio dell' Europa occidentale non venisse turbato. Perchè la sua politica interna fosse coronata dal
successo occorreva che la pace tra le signorie vicine e tra queste e la sua fosse mantenuta. Né soltanto
l'equilibrio tra i regni barbarici d'Europa era la meta alla quale tendeva la sua politica estera.
Egli temeva un conflitto con l' impero d'Oriente, temeva che Costantinopoli facesse con lui quello che aveva
fatto con Odoacre, che gli aizzasse cioè contro altri barbari. Voleva perciò consolidare la sua posizione,
circondandosi di amici, formando quasi una confederazione di signorie barbariche dell'Europa occidentale
sulle quali in qualità di monarca della parte più antica e civile dell' Impero romano d' Occidente doveva
esercitare un'egemonia, se non materiale, il che non era facile.
Una rete di parentele (di re barbari) che facessero capo a lui fu il mezzo usato da Teodorico per raggiungere
il fine che la sua politica estera si proponeva. Nel 492 prese in moglie Audefleda, sorella di Clodoveo; ad
Alarico II, re dei Visigoti; maritò la figlia Teodogota, e l'altra figlia Ostrogota diede a Sigismondo, figlio di
Gundobado re dei Burgundi; a Trasimondo re dei Vandali sposò la sorella Amalafrida, che ebbe in dote il
Lilibeo e fu accompagnata in Africa da un numeroso e ricco seguito; infine diede in sposa ad Erminafrido, re
dei Turingi, la nipote Amalaberga e divenne, secondo un'antica consuetudine germanica, padre di armi del
re degli Eruli.
Un certo periodo di pace, di cui specialmente beneficiò 1' Italia, regnò nell' Europa, e in parte il merito va
dato a queste relazioni di parentela e all'ufficio di moderatore assunto da Teodorico; ma era un grave errore
pensare ad una pace duratura che fosse effetto dei mezzi politici usati dal re degli Ostrogoti. Vi erano in
Europa germi gravissimi di rivolgimento contro i quali nulla potevano le parentele fra dinastie. Il primo di
questi germi era la differenza di religione tra dominatori e soggetti che doveva essere fatale ai regni barbarici
dell'Occidente. Vi era poi il desiderio incontenibile di espansione di qualche popolo che rendeva vano ogni
proposito pacifico e, infine, il bisogno in qualche nazione di assicurare i propri confini che non poteva avere
altro sbocco che nella guerra.
Da questo bisogno era assillato lo stesso Teodorico, il cui regno, dalla parte del Danubio, era continuamente
esposto alle invasioni barbariche, e da questo bisogno nacque appunto la guerra di Sirmio. La realtà delle
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cose veniva pertanto ad ammazzare l' ideale della pace proprio per opera di colui che ne aveva fatto il
cardine e lo scopo di tutta la sua politica.
Dopo la. venuta degli Ostrogoti in Italia, la Pannonia era stata occupata dai Lepidi,che, sotto il re
TRASERICO, rappresentavano una continua minaccia per i domini di Teodorico. Pur appartenendo, fin dai
tempi di Valentiniano III, all'impero d'Oriente, Teodorico stabilì di scacciare i Lepidi dalla Pannonia ed
annettere questa provincia all' Italia.
Nel 504 egli mandò in Pannonia un esercito sotto il comando del generale PITZIA, che occupò Sirmio e,
liberata dai Lepidi la provincia, si mise a fortificarla.
L'occupazione della Pannonia era una violazione patente dei trattati con Costantinopoli ed ebbe per effetto la
rottura dei rapporti tra la corte di Ravenna e quella bizantina. La guerra non tardò ad essere dichiarata.
MUNDO, un capo barbaro che godeva il favore di Teodorico, alla testa di un'orda di Eruli, Unni e Goti, era
penetrato nella Mesia; ANASTASIO mandò contro di lui un esercito di diecimila bulgari comandato dal
magister militum SABINIANO.
In aiuto di Mundo accorse però Pitzia con duemila fanti e cinquecento cavalli e in una sanguinosa battaglia
combattutasi ad Horrea Margi, presso la Morava, Sabiniano fu battuto e costretto a mettersi in salvo con la
fuga.
Mentre questi fatti accadevano nell'Illirico, rumori di guerra echeggiavano oltre le Alpi: gli Alemanni incalzati
dai Franchi minacciavano di riversarsi in Italia. Teodorico parò la minaccia, accordando protezione agli
Alemanni e concedendo loro un insediamento in un territorio del Norico. Questo fatto non poteva piacere a
Clodoveo, il quale pare se ne lagnasse col cognato. Tuttavia le relazioni tra Franchi e Ostrogoti non furono
rotte: mentre motivi più gravi dovevano, di lì a qualche anno, far divampare la guerra tra Teodorico e
Clodoveo.
La differenza di religione costituiva un abisso incolmabile tra i cattolici Gallo-romani sottomessi ai Visigoti e i
loro dominatori ariani. Le speranze dei primi erano riposte nei Franchi cattolici e l'intolleranza del clero
trovava certamente eco nell'animo di Clodoveo, il quale agognava di rendersi padrone di tutta la Gallia.
Soffiava senza dubbio sul fuoco la corte di Costantinopoli, la quale, essendo in forte contrasto con
Teodorico, aveva tutto l' interesse di creare molestie agli ariani d'Occidente e perciò agli Ostrogoti,
spingendo CLODOVEO contro i Visigoti.
Il momento era delicatissimo; l'equilibrio a cui tanto teneva Teodorico stava per essere turbato. Tentò di
impedire un conflitto tra Visigoti e Franchi: prima rivolse ad Alarico consigli di prudenza ed esortò il cognato
alla pace, proponendo che la contesa venisse risolta per mezzo di un arbitrato, poi - visto che le maggiori
difficoltà al mantenimento della pace venivano da Clodoveo - cercò di riunire in lega i re degli Eruli, dei
Turingi, dei Varni e dei Burgundi per frenare gli ardori di Clodoveo o, se questo persisteva nel voler la
guerra, per volgergli contro la confederazione.
Ma gli sforzi di Teodorico riuscirono vani; l'alleanza da lui caldeggiata non ebbe luogo, anzi Sigismondo, re
dei Burgundi, passò dalla parte dei Franchi.
La guerra tanto temuta scoppiò nel 507. Passata la Loira, Clodoveo si scontrò con i Visigoti a Vouglè, presso
Poitiers e in una sanguinosa battaglia li sconfisse: Alarico II cadde in combattimento.
La sua morte portò conseguenze più gravi di quelle che poteva produrre la sconfitta. Egli lasciava un figlio in
tenera età, AMALARICO, e un bastardo, maggiore di anni, per nome GESALICO. Quest'ultimo riuscì a
salire sul trono, ma non salvò la situazione in cui si trovava il regno visigoto. Dopo la vittoria di Vouglé infatti
Clodoveo invase l'Aquitania ed occupò Tolosa, poi si spinse nella Guascogna e diede incarico al figlio ed agli
alleati Burgundi di assoggettare i territori orientali della Gallia. Aielate (Arles) venne assediata da Burgundi e
Franchi.
Reputando non necessaria la sua presenza sul teatro delle operazioni, Clodoveo si mise in viaggio per
ritornare a Parigi. A Tours gli andarono incontro alcuni messaggeri dell'imperatore Anastasio, che, a nome
del loro signore, gli conferirono il consolato onorario. Non sappiamo se per intercessione del papa - come
qualcuno ha pensato - fossero state dalla corte bizantina mandate le insegne di console a Clodoveo né
sappiamo se tra questi e l' imperatore ci fosse un' intesa.
Che un'intesa, se non una vera e propria alleanza, ci fosse possiamo supporlo dall' incursione navale
operata dai Bizantini nel 508 sulle coste dell' Italia meridionale. L' incursione fu ributtata, ma raggiunse lo
scopo che Anastasio forse si era prefisso: quello d'impedire che Teodorico distraesse forze dall'Italia per
mandarle in aiuto dei Visigoti.
Fu però impedimento di corta durata. Non una incursione, ma una grande spedizione poteva trattenere
l'esercito ostrogoto in Italia. Anastasio non volle o non riuscì a farla e Teodorico, prese le necessarie misure
per la difesa delle coste, riuscì lui invece al principio della estate del 508 chiamare a raccolta i suoi soldati e
fare i preparativi per una spedizione in Gallia.
Un primo esercito, nello stesso anno 508, comandato dal conte TULUIN, passò in Gallia ed occupò il
territorio che dalla Duranza si estende fino a Marsiglia. Più tardi un secondo esercito più numeroso del primo
per il colle di Susa passò in Provenza. Lo comandava il conte IBBA. Questi rimase con parte dell'esercito in
Provenza, l'altra parte l'affidò a MAMMO cui diede l' incarico di occupare il territorio a nord della Duranza.
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Compiute queste operazioni, i due eserciti si riunirono ad Avignone e marciarono alla volta di Arles, sotto le
cui mura fu combattuta una grande battaglia che finì con la vittoria degli Ostrogoti (509). Secondo Jordanis,
tra Franchi e Burgundi perirono trentamila uomini in questa giornata che decise le sorti della guerra.
Un accordo venne concluso coi Franchi, che abbandonarono i paesi conquistati ai Visigoti tranne il territorio
tra la Loira e la Garonna.
Non rimaneva a Teodorico che di combattere Gesalico per mettere sul trono il nipote Amalarico. Ibba fu
incaricato di condurre a termine questa guerra. Dopo avere occupata la Narbonese, il generale passò nella
Spagna e a Barcellona sconfisse Gesalico, che fuggì a Cartagine presso la corte del re vandalo Trasimondo.
Due anni dopo (511) il bastardo ritenterà la fortuna delle armi e si presenterà davanti a Barcellona, ma qui
verrà sconfitto per la seconda volta ed ucciso.
Nello stesso anno verrà a mancare Clodoveo e il suo regno fu diviso fra i quattro figli: TEODERICO,
CLODOMIRO, CHILDEBERTO e CLOTARIO.
L' intervento degli Ostrogoti aveva salvato dalla rovina il regno visigotico: finita la guerra Teodorico tenne per
sè la Provenza, che Odoacre aveva lasciato ai Visigoti, e le assegnò un vicario ed A un prefetto del pretorio;
degli altri territori del regno visigotico assunse il governo in nome del nipote Amalarico. Ma il suo fu più
governo nominale che effettivo. Il vero sovrano fu l'armigero TEUDIS, che, mandato in Spagna come
luogotenente del re, ne divenne il vero padrone e nel 536, morto Amalarico, si fece incoronare re dei Visigoti.
La guerra degli Ostrogoti contro i Franchi aveva turbato l'equilibrio dell'Europa occidentale, ma a tutto
beneficio di Teodorico. La sua politica pacifica, basata sulle parentele era fallita, tuttavia la guerra in un certo
senso fortunata gli aveva procurato, con l'accrescimento del territorio, un prestigio assai più grande di quello
che avrebbero potuto conferirgli i vincoli dinastici. Pareva che sotto di lui stesse per ricostituirsi l' impero
romano d'Occidente. Ma la potenza della signoria ostrogota non derivava dalla forza del popolo, bensì dalla
personale autorità del re. Sembra incredibile come un sovrano così accorto non si rendesse conto o non si
preoccupasse dei contrasti che formavano la debolezza del suo regno e si preoccupasse soltanto della
successione.
Teodorico non aveva prole maschile. Volendo ad ogni costo assicurarsi un erede, fece venire dalla Spagna
EUTARICO, della stirpe degli Amali, e nel 515 lo diede come marito alla figlia AMALASUNTA. Trovato
l'erede, era necessario aver per lui il riconoscimento dalla corte bizantina. Teodorico lo cercò
affannosamente, ma non lo ebbe da Anastasio. La ottenne soltanto da Giustino I, salito all'impero nel 518,
che l'anno dopo conferì ad Eutarico le insegne del consolato e mandò un suo rappresentante a Roma e a
Ravenna per le feste che vi si celebravano.
Il prezzo di quel riconoscimento non era lieve. Per ottenerlo si faceva mediatore della pace tra la Chiesa
romana e la corte bizantina, mutando l' indirizzo della sua politica religiosa che aveva fino allora seguito e
che era stata la colonna della sua politica interna.
Di questa politica religiosa di Teodorico che in un primo tempo fu per lui una gran forza e un elemento
importante di governo, ma che mutato indirizzo, divenne causa non ultima dello sfacelo del regno ostrogoto.
E necessario quindi ora accennare a questa politica.
LA POLITICA RELIGIOSA DI TEODORICO
Teodorico era ariano come tutto il suo popolo, ma non era un fanatico. La ragion di stato gli consigliava di
non esserlo né egli poteva desiderare o permettere che i contrasti religiosi turbassero l'armonia tra Italiani e
Ostrogoti che era la mèta della sua politica interna.
La politica religiosa di Teodorico ebbe per base la tolleranza e il rispetto degli altri culti. Parlando agli Ebrei,
egli ebbe a dire: ".....a nessuno possiamo imporre la religione perché nessuno può esser costretto a creder
suo malgrado » ("religionem imperare non possumus, quia nemo cogitur ut credat invitus").
Niente da lui ebbe a temere la Chiesa cattolica. Teodorico non solo rispettò scrupolosamente i privilegi e le
consuetudini, ma mantenne anche cordiali rapporti personali con i papi e con i vescovi e, fin quando fu in
grado di farlo, li favorì e accolse la loro mediazione. Noi sappiamo che non invano il vescovo Epifanio si
rivolse al re ostrogoto perché mitigasse l'editto contro i fautori di Odoacre e come si adoperasse presso i
Burgundi per liberare i Liguri prigionieri e come a questi concedesse il condono di due terzi dell'annuo
tributo.
Qualcuno pensa che la tolleranza religiosa sia stata a Teodorico consigliata dalla madre, la cattolica Ereleva.
Ammettiamo che la madre possa avere influito sulla condotta del figlio, ma si può essere del parere che la
tolleranza sia stata a lui dettata principalmente dai suoi disegni politici.
Perché fosse conseguito l'accordo tra la popolazione italiana e il popolo ostrogoto - ripetiamo - era
necessaria una politica che rispettasse le istituzioni civili e religiose dei Romani; perché avere l'appoggio del
clero gli conveniva favorire il papa nel conflitto religioso che aveva messo di fronte Roma e la corte
bizantina.
In questo conflitto la condotta di Teodorico non fu, in verità, del tutto rettilinea. Fin quando visse papa
GELASIO I, il fiero avversario dell' Henoticon, il re mostrò di favorire apertamente la Chiesa romana, ma
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quando a Gelasio successe ANASTASIO II, Teodorico pur di ottenere le insegne regie lasciò sperare
all'imperatore che avrebbe fatto piegare il papa sulla questione dell' Henoticon.
FESTO, presidente del Senato, fu l'ambasciatore del re a Costantinopoli, e Festo nei primi del 498 portò in
Italia le insegne regie e, probabilmente, i patti stabiliti con l' imperatore. Difatti, essendo nel novembre del
498 morto papa Anastasio II, mentre nella Chiesa di Laterano veniva eletto papa SIMMACO, diacono
originario della Sardegna, una parte del clero, ligia a Festo, eleggeva nella chiesa di S. Maria Maggiore
l'arciprete LORENZO, meno avverso all' Henoticon.
Roma si divise in due fazioni, e non poco sangue si sparse per le vie ed ebbero luogo saccheggi e incendi.
Alla fine i due partiti si accordarono di ricorrere all'arbitrato di Teodorico e questi dichiarò che doveva essere
riconosciuto papa chi era stato eletto per primo ed aveva riportato il maggior numero di voti (ut qui primus
ordinatus fuisset, vel ubi pars maxima cognosceretur, ipse sederet in sede apostolica). Forse senza volerlo
Teodorico faceva trionfare, con questo giudizio, la sua politica religiosa avversa a Costantinopoli, quella
politica il cui indirizzo, con l'ambasceria di Festo, per opportunità aveva cambiato o finto di cambiare.
Simmaco venne riconosciuto papa (498). Il 1 marzo del 499 questi, allo scopo di stabilire norme precise
intorno all'elezione dei pontefici, convocò in S. Pietro un concilio nel quale venne decretato che nelle future
elezioni doveva considerarsi eletto chi riportava la maggioranza dei suffragi.
L'anno dopo Teodorico si recò a Roma e fu accolto con grandi dimostrazioni di onore dal papa, dal Senato e
dal popolo. Sebbene ariano, il re visitò e adorò la tomba di S. Pietro nella basilica vaticana e al popolo
radunato nel Foro promise solennemente che avrebbe rispettate le leggi promulgate dagli imperatori.
Teodorico rimase sei mesi nella metropoli, acquistandosi con la celebrazione dei giuochi e la distribuzione di
grano il favor popolare ed assicurando con la sua presenza alla città la pace che il recente scisma aveva
turbata.
Ma la partenza di Teodorico fece rinascere subito i disordini. Li provocarono i partigiani di Lorenzo,
capitanati dal diacono Pascasio, che il popolo riteneva come santo, e dal patrizio Festo. Costoro accusarono
Simmaco presso il re di simonia e di adulterio e Teodorico chiamò a Rimini il papa per interrogarlo; ma non
riuscì perché Simmaco, avendo incontrate alcune donne, denunziate con lui come adultere, si rifiutò di
presentarsi al re e, ritornato segretamente a Roma, si rifugiò nella chiesa di S. Pietro.
La fuga del papa apparve come una confessione delle colpe addebitategli. Richiesto dai nemici di Simmaco,
Teodorico spedì a Roma PIETRO, vescovo di Altino, in qualità di visitatore, per fare una inchiesta,
amministrare la Chiesa romana temporaneamente e convocare un concilio che giudicasse il pontefice.
Il concilio, convocato dopo la Pasqua del 501, si tenne nella Basilica Julia. I vescovi dell'Italia settentrionale,
passando per Ravenna, protestarono presso il re per l'illegalità della convocazione che spettava al papa e
non a un semplice vescovo; ma Teodorico li assicurò dicendo di avere agito d'accordo con Simmaco. Questi,
presentatosi all'assemblea, dichiarò che non avrebbe risposto alle accuse dei suoi avversari se prima non
fosse stato reintegrato nei suoi diritti e non fosse stato allontanato il vescovo di Altino. Il re ordinò che
Simmaco rispondesse alle accuse, ma essendosi il papa ostinato nel rifiuto, il concilio si sciolse senza aver
deliberato nulla. Molti vescovi ritornarono alle loro sedi; altri però rimasero a Roma e di là pregarono il re che
convocasse un secondo concilio.
A costoro scrisse Teodorico l'8 di agosto comunicando che il concilio sarebbe stato tenuto il primo
settembre.
Con una seconda lettera, in data del 27 agosto, il re raccomandava ai vescovi di pronunciare una sentenza
qualsiasi; nello steso tempo inviava a Roma i suoi maiores domus Godila, Redulfo e Aligerno, che avevano il
compito di garantire a Simmaco l'incolumità personale.
Il 1° settembre del 501 i vescovi erano riuniti nella Basilica Sessoriana (S. Croce di Gerusalemme), quando
si sparse la notizia che Simmaco, mentre si recava all'assemblea, era stato per via assalito dai partigiani di
Lorenzo e a stento e malconcio aveva potuto rifugiarsi a S. Pietro. Il concilio invitò il papa a presentarsi, ma
Simmaco si rifiutò dichiarando la sua causa nelle mani di Dio e del re.
Non c'era altro da fare. I convenuti fecero sapere a Teodorico che avevano fatto tutto il possibile per
riconciliare gli animi senza riuscirvi, che il concilio non poteva essere tenuto senza la presenza del pontefice,
che solo il re con la sua autorità poteva far cessare il conflitto.
Teodorico prudentemente rispose che non voleva ingerirsi negli affari della Chiesa e che ai vescovi soltanto
spettava decidere. Vedessero pertanto se fosse o no necessario di fare un'inchiesta accurata sulla condotta
del papa, giudicassero imparzialmente e dessero, col papa legittimo, la pace alla Chiesa. Egli avrebbe
rispettato scrupolosamente la loro decisione (lettera del 1o ottobre del 501).
Il nuovo concilio (sinodo palmare) ebbe luogo il 23 ottobre. I vescovi si rifiutarono di giudicare l'operato del
pontefice e riconobbero Simmaco papa legittimo, minacciando di considerare scismatici tutti coloro che
avessero negato di tornare sotto la sua obbedienza. La decisione del concilio fu firmata da 76 vescovi, fra
cui figuravano quelli di Ravenna e di Milano.
Nel novembre del 502 un altro concilio fu tenuto dietro convocazione di Simmaco. La deliberazione più
importante di questa assemblea fu quella di annullare il decreto di Odoacre sull'alienazione dei beni
ecclesiastici e prescrivere che le rendite della Chiesa fossero impiegate nel mantenimento del clero e dei
pellegrini e nel riscatto dei prigionieri.
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Pareva che il sinodo palmare dell'ottobre 501 dovesse restituire la pace; i disordini invece continuarono per
parecchi anni ancora, cioè fino al 504, nel quale anno Lorenzo si ritirò in un suo podere a condurvi vita
ascetica. Nel 505 Teodorico intimò a Festo di fare restituire a Simmaco tutte le chiese tenute dai partigiani
del suo rivale; e perché l'ordine fosse completamente ristabilito mandò a Roma, come governatore,
Cassiodoro.
Se a Roma, tramite la politica prudente di Teodorico tornava la concordia nella Chiesa, tuttavia continuava il
dissidio tra questa e la corte bizantina. La vittoria di Simmaco era stato il trionfo sul partito che faceva capo
all'imperatore, la cui posizione anche a Costantinopoli si andava facendo sempre più debole. Qui difatti non
erano infrequenti i tumulti fra i seguaci dell' Henoticon e gli avversari, e questi ultimi diventarono sempre più
numerosi e più battaglieri, incoraggiando il papa a perseverare nella sua opposizione.
Perchè la lotta tra la Chiesa romana e la corte di Costantinopoli cessasse dovevano scomparire dalla scena
Simmaco ed Anastasio. Il primo morì nel 514, il secondo nel 518. A Simmaco successe ORMISDA, al trono
imperiale salì Giustino I, ortodosso in fatto di religione come il nipote Giustiniano che guidò (come
desiderava) la politica dello zio.
Tra Ormisda e Giustino furono intavolate trattative che miravano a risolvere il conflitto tra Roma e
Costantinopoli. Le trattative ebbero esito felice; nel 519 gli ambasciatori del Pontefice furono solennemente
ricevuti dal popolo, dal Senato e dall' imperatore e l' Heneticon, causa di tante discordie durate per un
trentennio, venne condannato.
Alle trattative aveva avuto parte importante Teodorico. Egli sperava di ingraziarsi il papa e l'imperatore e di
ricevere, come difatti ricevette, per il genero Eutarico il riconoscimento imperiale, ma non prevedeva che a
lungo andare la conciliazione tra Roma e Bisanzio si sarebbe rivolta a suo danno.
ULTIMI ANNI DI TEODORICO
Dai fatti che abbiamo finora narrati risulta chiaramente come quasi sempre agli ideali vagheggiati da
Teodorico si opponesse la realtà delle cose rendendo impossibile il conseguimento. Teodorico vuole
ottenere la supremazia morale su gli altri stati barbarici tramite la pacifica politica di parentele ed ottiene con
le armi il primato nell' Europa occidentale; sogna la pace ai confini ed è costretto dalla fatalità degli eventi
alla guerra; segue una politica basata sulle discordie di Roma e Costantinopoli e finisce col promuovere
l'accordo del papa con l'impero.
La fortuna non venute incontro completamente alla politica del re ostrogoto. Dopo il fallimento della politica
estera e di quella religiosa ora dobbiamo registrare il fallimento della sua politica interna.
Per amor della verità bisogna riconoscere che non era cosa facile fare trionfare quest'ultima: era quasi
impossibile riuscire a far vivere sopra un medesimo suolo e sotto uno stesso governo, pacificamente, due
popoli diversissimi di stirpe, di lingua e di civiltà, che professavano fedi diverse ed avverse.
Teodorico aveva fatto tutto quel che umanamente era possibile perché l'armonia tra i due popoli regnasse.
Aveva lasciato ai Romani le loro leggi e le loro istituzioni, aveva lasciato ad essi la cura dell'amministrazione
civile ed aveva mantenuti intatti gli ordinamenti; aveva costruito numerose opere dì pubblica utilità, abbellito
città, ripristinato giuochi, rimesso in vigore l'uso delle distribuzioni gratuite del grano, era stato tollerante in
materia di religione, aveva tenuto rapporti cordialissimi con i papi e con i vescovi, aveva lasciato, se non
accresciuti, i privilegi del clero, aveva infine solleticato l'amor proprio degli Italiani elogiandone le gloriose
tradizioni e mostrandosi animato da sentimenti di romanità.
Malgrado tutto ciò, l'armonia ira i due popoli non ci fu o fu solo apparente. Aveva un bel dire Teodorico ai
suoi barbari di rispettare gli Italiani: gli Ostrogoti erano e si consideravano conquistatori e padroni ed è da
credere che non tralasciassero le occasioni per far pesare il loro giogo.
Non pochi difatti presso gli storici sono gli accenni a violenze, a soprusi, a ingiustizie, a spoliazioni in danno
della popolazione italiana. Lo stesso Teodorico, lamentandosi della condotta dei Saioni, ci fornisce una
prova di questi abusi e nello stesso tempo ci fa capire come, con tutte le sue buone intenzioni, fosse
impotente a reprimerli.
D'altro canto come potevano gli Italiani vivere in buona armonia con i Goti, popolo conquistatore e,
naturalmente, prediletto dal re? Gli Ostrogoti erano dei barbari, degli stranieri, avevano contro ogni buon
diritto spogliato gli Italiani del terzo delle loro terre; i barbari erano esenti dai tributi; vivevano -si può dire- a
spese della popolazione indigena; essi formavano l'esercito e rappresentavano, perciò, la forza; i loro
comites, pur assistiti da un cittadino romano, giudicavano le contese tra Italiani e Goti.
C'erano come si vede troppi motivi per giustificare il malcontento degli Italiani e per rendere impossibile
quell'armonia che il re desiderava sinceramente; armonia che trovava un ostacolo insormontabile nella
differenza della fede.
Papa Gelasio I, condannando l' Henoticon, aveva scritto: « Come romano io dovrei esser sempre fedele
all'imperatore; ma la tolleranza degli eretici è più pericolosa delle devastazioni dei barbari ».
Il pensiero del papa era il pensiero della maggioranza degli Italiani: preferivano avere a che fare con i barbari
ariani piuttosto che con gli eretici.
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Questo spiega perché la diversità di fede tra dominati e dominatori, non produsse per tanto tempo un aperto
conflitto. Ma non è da credere che il dissidio tra la Chiesa romana e la corte bizantina facesse
completamente dimenticare agli Italiani la condizione in cui si trovavano di popolo soggetto a barbari di fede
ariana. Lo scisma di Lorenzo e le lotte che ne seguirono provano a sufficienza che fra gli Italiani, specie fra i
nobili e il clero, ci fosse una forte corrente orientata verso l' impero e non soltanto per dar pace alla Chiesa
ma per un legittimo desiderio di scuotere il giogo dei dominatori ariani.
L'avversione a Teodorico, che era poi il sentimento di una parte degli Italiani, divenne generale quando ebbe
luogo la conciliazione tra Roma e Costantinopoli. In Teodorico ora non si vedeva più il principe tollerante, ma
il re ariano che aveva, per giunta, designato come successore un uomo, Eutarico, del quale era notissima
l'intransigenza religiosa. Tutti, o quasi, ora guardavano all'imperatore bizantino come al liberatore d'Italia e
prima di tutti il papa, i cui segreti maneggi con Costantinopoli contro l'Arianesimo non sono più un mistero.
Mentre 1' Italia si orientava verso l' impero bizantino una serie di lutti colpiva Teodorico. Nel 522 veniva a
morte Eutarico, che lasciava un figlio, Atalarico, di cinque anni. Nel medesimo anno, per istigazione della
seconda moglie, Sigismondo re dei Burgundi faceva assassinare il figlio Sigerico avuto da Ostrogota figlia di
Teodorico. A questo assassinio seguiva da parte dei successori di Clodoveo, alleati del re ostrogoto,
l'invasione del regno dei Burundi, il, cui re veniva tratto prigioniero ed ucciso.
Teodorico, nel 523, mandava in Borgogna il conte TULUIN con un esercito che, impadronitosi del territorio a
nord della Duranza con le città di Charpentras, Orange e Vaison, veniva a trattative con il re Godemaro,
successore di Sigismondo.
Nell'anno medesimo in cui gli Ostrogoti allargavano i loro domini a spese dei Burgundi, moriva in Africa
TRASIMONDO, cui succedeva ILDERICO, favorevole al Cattolicesimo. Amalafrida, sorella di Teodorico e
vedova del morto re dei Vandali, costretta a rifugiarsi presso i Mauri, veniva più tardi presa ed uccisa.
Questi avvenimenti dovettero amareggiare grandemente l'anima di Teodorico. Il vecchio re vedeva crollare
la sua politica delle parentele; con la morte di Eutarico tornavano a preoccuparlo la sorte della monarchia e il
pensiero della successione; la guerra coi Burgundi aveva indebolito questo regno e rivelato nei Franchi il
proposito di estendere i loro domini; l'avvento al trono vandalico di Ilderico, togliendogli un alleato, ne aveva
procurato uno all'impero bizantino.
Nè queste erano le sole amarezze del gran re. Egli si era certamente accorto del nuovo orientamento degli
Italiani. Il fallimento del suo sogno, perseguito tenacemente per trent'anni, lo irritò, lo rese sospettoso.
Teodorico non fu più l'uomo generoso di una volta, sentì risorgere gli istinti del barbaro, volle difendere
l'edificio, con tanta perseveranza costruito, con ogni mezzo, con provvedimenti di rigore cui presto seguirono
atti di crudeltà.
Alcuni anni prima, forse intorno al 520, trovandosi egli a Verona, erano scoppiati gravi disordini a Ravenna
causati dall'odio tra Ebrei e Cattolici: questi ultimi avevano incendiate le sinagoghe giudaiche della città.
Teodorico aveva ordinato che i responsabili ricostruissero a loro spese gli edifici distrutti e che venissero
pubblicamente fustigati quelli che non potevano pagare. Inoltre aveva proibito che gli Italiani portassero armi
(ut nullus eorum arma usque ad cultellum uteretur).
Nel 523, uno di quegli italiani rinnegati che erano entrati al servizio del re e che per mostrarsi a lui più fedele
ed affezionato aveva perfino fatto educare nella lingua e nelle armi dei barbari i suoi figli, CIPRIANO, che
copriva alla corte l'ufficio di referendario, accusò il patrizio Albino, presidente del Senato di avere scritto
lettere all'imperatore Giustino per indurlo a muovere contro il re.
Non sappiamo se l'accusa fosse vera o falsa; certo essa era un tentativo di vendetta degli Italiani venduti al
re contro i più ragguardevoli Italiani che desideravano il ritorno della loro patria sotto il diretto potere dell'
imperatore; sappiamo però che a difendere coraggiosamente l'accusato sorse il più illustre uomo del tempo:
SEVERINO BOEZIO.
Boezio apparteneva alla famiglia Anicia e godeva la stima e l'amicizia di Teodorico e nel 510 era stato suo
console; nel 522, essendo stati i suoi giovani figli assunti alla dignità del consolato, aveva letto in Senato il
panegirico del re; in quello stesso anno era stato creato magister off'aciorum. Era uomo dottissimo, aveva
tradotto dal greco opere di matematica, era appassionato studioso di Platone, dei Neoplatonici e di Aristotile,
di cui aveva commentato la Logica, ed aveva scritto di filosofia e teologia.
Boezio, non richiesto, si recò a Verona e al cospetto di Teodorico sostenne l'innocenza di Albino. Nel calore
della difesa egli profferì parole che dovevano perderlo, disse cioè che i sentimenti di Albino erano gli stessi
suoi e quelli di tutto il Senato e che se Albino era colpevole allora anche lui e il Senato erano colpevoli.
Quella di Boezio era una generosa difesa non solo di Albino, ma di tutti i senatori, che indirettamente erano
colpiti dalla denuncia di Cipriano. Questi di fronte al contegno di Boezio, non poteva indietreggiare e
produsse falsi testimoni coinvolgendo nell'accusa anche il difensore.
Teodorico, divenuto ormai diffidente e sospettoso, fu convinto dalle parole del suo referendario ed ordinò
l'arresto di Albino e di Boezio. Della sorte del primo nulla conosciamo; ma la pena capitale non gli fu
certamente risparmiata. Boezio venne giudicato dal Senato, il quale, temendo di compromettersi, senza
neppure interrogarlo condannò l'illustre uomo a morte.
Durante la sua lunga prigionia, Boezio scrisse il De consolatione Philosophiae, l'eroico libro che doveva
rendere immortale il nome del suo autore. L'opera è importantissima non solo per i pregi letterari di cui è
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piena e per la nobiltà dell'animo dello scrittore che vi è rivelata, ma anche per certe preziose testimonianze
che illuminano lo storico sulla condotta dei Goti verso gli Italiani.
Egli scrive di essere stato accusato per «avere amato la libertà di Roma e difesa la dignità del Senato» dalle
false denunzie di uomini corrotti e ci rivela di esser vittima degli odi di tutti coloro che, opprimendo i
provinciali romani, avevano trovato in lui un ostacolo alle loro ingiustizie e violenze: «L'ingordigia dei barbari,
sempre impunita, si faceva di giorno in giorno più grande verso le terre dei provinciali, di cui volevano
disfarsi per prenderne i beni. Quante volte io ho protetto e difeso i miseri contro le molte calunnie dei
barbari!».
Una grande amarezza è nel libro di Boezio per la viltà del Senato, ma anche una grande forza, che deriva al
prigioniero dalla coscienza tranquilla e da tutta una vita spesa nelle opere di virtù.
«Fra i caratteri più singolari di un tal libro, che ebbe una prodigiosa popolarità in tutto il Medio Evo, e fu
tradotto in ogni lingua - scrive il Villari - c' è ancora questo, che, leggendolo senza conoscerne l'autore,
sarebbe difficile dire se esso fu l'opera di un Pagano o d'un Cristiano.
È di certo la manifestazione di un eroismo che potrebbe credersi pagano e cristiano ad un tempo. Non si può
affermare che vi sia nulla di sostanzialmente contrario al Cristianesimo, ma è strano davvero che un
credente della nuova fede, il quale si preparava alla morte, non accennasse una sola volta né al Paradiso,
né all' Inferno, né a Cristo, e ben poco anche alla speranza d'una vita futura.
Pare il linguaggio di uno stoico, tanto che per qualche tempo si giunse a dubitare se Boezio fosse stato
davvero cristiano e autore delle opere religiose a lui attribuite. Ma la grande popolarità che nel Medio Evo
godette il suo nome e anche il suo libro fra i Cristiani dimostra che il dubbio non c'era, ed oggi la critica
storica lo ha interamente eliminato.
Boezio fu messo a morte nel 524, forse a Pavia. I suoi carnefici gli strinsero il collo con una fune così
fortemente da fargli quasi schizzar gli occhi fuori dalle orbite, poi lo finirono a colpi di mazza.
Un anno dopo, il senatore Simmaco, suocero di Boezio, seguiva, per ordine di Teodorico, nel sepolcro il
genero. Non si ha notizia di accuse e di processo contro Simmaco. Secondo un cronista anonimo Teodorico
volle sbarazzarsene spinto dal timore che Simmaco vendicasse la morte di Boezio.
L'anno stesso in cui Albino e Boezio erano incarcerati, l' imperatore Giustino pubblicava un editto contro gli
eretici, primi fra i quali i Manichei. Era una conseguenza della conciliazione tra Roma e Costantinopoli ed era
anche, sebbene nell'editto la Chiesa gotica non venisse menzionata, un lontano annunzio di guerra contro
l'ariano Teodorico. Che così fosse lo prova il fatto che, qualche anno dopo, la persecuzione veniva estesa a
tutti gli eretici, compresi i Goti, molti dei quali furono costretti ad abiurare e a consegnare le loro chiese ai
Cattolici.
Teodorico non poteva non interessarsi della sorte dei suoi correligionari, e, poiché sospettava che la
persecuzione religiosa preludesse ad una spedizione armata dei bizantini in Italia, cercò di far cessare l'una
e di scongiurare l'altra, inviando una ambasceria all'imperatore. A capo della legazione mise papa
GIOVANNI I, che nel 523 era successo ad Ormisda, imponendogli di chiedere a Giustino la restituzione delle
chiese, la revoca dell'editto di persecuzione e il ritorno alla loro fede degli Ariani che erano stati costretti ad
abiurare.
Riluttante, nell'autunno del 525, in compagnia di cinque vescovi e quattro senatori papa Giovanni partì da
Ravenna. A Costantinopoli, che per la prima volta vedeva nelle sua mura il capo della Chiesa Cattolica, il
papa ebbe accoglienze trionfali; l' imperatore, con il clero e con il popolo, gli andò incontro a quindici miglia
dalla città e, prosternatosi davanti a lui, lo adorò.
GIOVANNI I si trattenne a Costantinopoli sei mesi, riaffermando il suo prestigio e quello della Chiesa
romana. Sebbene l'imperatore fosse stato coronato, salendo sul trono, dal patriarca bizantino, pare che il
papa tornasse ad incoronarlo, e la cerimonia, di così alto significato politico, si svolse con pompa magnifica.
Quanto al risultato dell'ambasceria pare che fosse favorevole alle richieste di Teodorico, se non a tutte
almeno alle prime due; riesce pertanto incomprensibile la condotta del re verso il papa. Forse Teodorico fu
fortemente impressionato dalle calorose accoglienze ricevute da Giovanni a Costantinopoli e, sospettoso
com'era, vide in lui un nemico pericoloso che era prudente non lasciarsi sfuggire di mano. Il papa, dopo la
celebrazione della Pasqua del 526, fece ritorno in Italia. Ma non doveva più rivedere Roma: giunto a
Ravenna vi fu imprigionato e pochi giorni dopo, il 18 maggio, morì.
La morte del papa aggravava la situazione di Teodorico di fronte agli Italiani e all'impero. Ma più che del
malcontento degli Italiani che egli cercò di far cessare, indicando come successore di Giovanni un fautore
del partito gotico che fu poi eletto con il nome di FELICE III, Teodorico temeva qualcosa dai Bizantini, i
quali, alleati con i Vandali, minacciavano di muovergli guerra.
Il maggior pericolo era dalla parte del mare; perciò il re ordinò che venisse prontamente allestita e raccolta
nel porto di Ravenna una flotta di mille navi; ma i preparativi non erano ancora terminati quando, all'età di
settant'anni, il 30 agosto del 526, TEODORICO cessò di vivere.
Sentendosi vicino a morire, Teodorico chiamò intorno al suo letto i più ragguardevoli personaggi fra i Goti;
alla loro presenza designò come suo successore il decenne nipote ATALARICO e raccomandò ad essi che
rispettassero il popolo romano, il Senato e si tenessero amico l'imperatore (principemque orientalem
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placatum semperque propitium haberent post Deum). Con queste sue ultime volontà metteva in discussione
tutta la sua politica.
La morte del gran re fu dalla tradizione ecclesiastica (ovviamente nata dall'odio religioso) attribuita alla
punizione divina; ma anche le leggende più stravaganti sorsero intorno alla fine di Teodorico. Un cronista
anonimo narra che il re fece pubblicare un editto col quale ordinava che fossero cedute agli Ariani tutte le
chiese cattoliche e che il giorno stesso in cui l'editto avrebbe dovuto avere esecuzione, Teodorico spirò.
Procopio racconta che durante un banchetto fu portato a Teodorico un grosso pesce che agli occhi
esterrefatti del principe assunse le minacciose sembianze di Simmaco e che impaurì talmente il re che di lì a
poco morì. Un'altra leggenda, riferita da Gregorio Magno, nei suoi Dialoghi, dice che l'eremita Calogero di
Lipari vide Simmaco e Giovanni I che trascinavano legato Teodorico e lo precipitavano nel cratere dello
Stromboli.
Quest'ultima leggenda forse è in relazione con la scomparsa del corpo di Teodorico. Si crede che i frati di un
convento, sorto presso il mausoleo del re a Ravenna, in odio all'eretico monarca ne portassero via la salma.
Dove la nascosero non si sa.
Ma nel 1854, praticando degli scavi presso il mausoleo, furono scoperti molti tumuli e in uno di essi furono
trovati i resti di un corpo attribuito al re ostrogoto e una corazza d'oro. Ma dei primi più nulla si seppe, mentre
della seconda poterono essere ricuperati solo alcuni frammenti, che ora si trovano nel museo bizantino di
Ravenna, .
Corrado Ricci in una nota storica pubblicata nel 1881 sostenne che la corazza appartenesse proprio a
Teodorico.
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
WACHER -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
La morte di Teodorico non mise certo fine alla disarmonia tra Italiani e Ostrogoti; anzi la concordia non
regnava nemmeno dentro gli eredi del dominatore andiamo appunto per questo al periodo che va dal 526 al
536
AMALASUNTA E TEODATO ( dal 526 AL 536 )
REGGENZA DI AMALASUNTA - SUA POLITICA INTERNA ED ESTERA - AMALASUNTA E GIUSTINIANO
- MORTE DI ATALARICO - TEODATO - POLITICA DI GIUSTINIANO - BELISARIO - FINE DEL REGNO DEI
VANDALI - DIFFICOLTÀ DI AMALASUNTA E MALCONTENTO DEI GOTI - TEODATO RE DEGLI
OSTROGOTI - FINE DI AMALASUNTA - SPEDIZIONE BIZANTINA NELLA DALMAZIA E NELLA SICILIA BELISARIO IN ITALIA - ASSEDIO DI NAPOLI - UCCISIONE DI TEODATO ED INNALZAMENTO AL
TRONO DI VITIGE
------------------------------------------------AMALASUNTA - GIUSTINIANO FINE DEL REGNO VANDALICO
Teodorico il re ostrogoto, prima di morire aveva designato come suo successore il nipote , ma data la tenera
età di ATALARICO (10 anni), assunse la reggenza, come tutrice sua figlia AMALASUNTA. Grave era la
situazione interna del regno e non meno grave quella l'esterna.
L'armonia tra Italiani ed Ostrogoti -lo abbiamo visto nel precedente capitolo- non esisteva che di nome, di
fatto sotto la cenere covava il fuoco, alimentato dagli ultimi avvenimenti che avevano funestato il regno di
Teodorico. Si aggiunga che neppure tra i dominatori regnava la concordia e pochi erano tra loro quelli che
volevano si seguisse la politica conciliante del defunto re, mentre la maggioranza era propensa - e
cominciavano a metterla in pratica - ad una politica di violenze e di rapine.
Fuori c'erano la guerra, ormai dichiarata con i Vandali, il contegno minaccioso dei Bizantini e dei Gepidi del
Danubio; e la pericolosa vicinanza dei Franchi che mostravano chiaramente il proposito di volere riprendere
la politica espansionistica di Clodoveo.
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In una situazione così grave era proprio pericoloso il governo di una donna. Amalasunta, che ci è
rappresentata bella di corpo e forte di animo, aveva avuta un'educazione romana, parlava, oltre la propria
lingua, il latino e i1 greco e aveva appreso molto, senza dubbio, alla scuola del padre, ma era una donna
che per giunta non godeva interamente la fiducia dei Goti, specie di quelli che non volevano una politica di
tolleranza e di conciliazione.
Per rafforzare e in certo qual modo legalizzare la posizione del figlio, che non aveva il riconoscimento
dell'imperatore, Amalasunta fece giurare dai Romani e dai Goti fedeltà ed obbedienza al nuovo re, il quale
dal canto suo giurò agli uni e agli altri di volerli governare seguendo le orme del nonno, mantenendo cioè ai
primi le proprie leggi ed istituzioni e ai barbari i loro privilegi e i loro capi.
Non fu un giuramento inutile. Memore del desiderio e delle raccomandazioni del padre, Amalasunta mostrò
fin dall'inizio della sua reggenza di voler seguire la politica di Teodorico, temperando gli abusi ed eliminando
fin dov'era possibile le cause di dissidio tra i due popoli. Il Senato ebbe assicurazioni che sarebbe stato
trattato con ogni riguardo, protezione fu promessa ai curiali dalle angherie dei potenti e disposizioni vennero
prese contro gli abusi dei Goti a danno dei provinciali.
Di Amalasunta scrisse Procopio che "...durante il suo governo, non inflisse mai pene pecunarie e corporali ai
Romani ed impedì ai Goti di commettere atti d'ingiustizia verso gl' Italiani"
Ed è verità; ma è vero che essa non ebbe il coraggio o la possibilità di punire chi era stato la causa dei
misfatti avvenuti negli ultimi anni di regno del padre pur mostrandosi giusta con i figli delle vittime. Infatti, se
furono restituiti ai figli di Boezio e di Simmaco i beni confiscati e furono messi in libertà i Romani imprigionati
da Teodorico perché insospettì di congiure, CIPRIANO fu innalzato al patriziato ed OPILIONE, un altro degli
accusatori, fu fatto conte delle sacre elargizioni.
Da questi atti risulta chiaramente che Amalasunta voleva tenere una via di mezzo, far dimenticare il passato,
proteggere gli oppressi, ingraziarsi gli Italiani e nello stesso tempo a non suscitare con una politica troppo
rigida il malcontento dei Goti intransigenti.
Anche con la Chiesa Amalasunta fece politica amichevole: sotto di lei la posizione dei vescovi anche nelle
faccende civili crebbe di autorità e fu reso obbligatorio ai laici di ricorrere al tribunale ecclesiastico prima che
a quello di stato nelle cause tanto civili che penali.
Se in un certo modo potè rendere meno grave la situazione interna, niente però Amalasunta riuscì a fare per
rialzare all'estero il prestigio del regno ostrogoto. Circondata da nemici, la reggente si vide costretta a fare
una politica molto prudente. Fu abbandonata l' idea di vendicare la morte di Amalafrida e solo a Dio fu
lasciata la cura di far giustizia, come fu detto al re Ilderico.
Nella Spagna e nella Gallia fu ricostituito il regno visigotico il cui trono venne dato ad AMALARICO; ma
questi non seppe difenderlo dall'attacco dei Franchi guidati da CHILDEBERTO; i1 giovane sovrano, in una
battaglia presso Narbona, fu sconfitto ed ucciso, e la corona dei visigoti passò all'armigero Teudis (531).
Mentre gli Ostrogoti perdevano il prestigio che Teodorico aveva acquistato ed erano costretti a cedere parte
del territorio gallico ai Burgundi e ai Franchi, questi ultimi crescevano in potenza. Teoderico, uno dei quattro
figli di Clodoveo, conquistava nel 530 il regno dei Turingi e alcuni anni dopo anche quello dei Burgundi,
disperatamente difeso da GODEMARO, ma cadeva sotto il potere dei Franchi, nelle cui mani ora passava
quel primato dell' Europa occidentale che per tanto tempo era stato degli Ostrogoti.
Crescendo i pericoli esterni, Amalasunta vide la salvezza del suo regno nella protezione di Costantinopoli.
Non le aveva detto, morendo, Teodorico di rendersi propizio l' imperatore? Ad Amalasunta importava
guadagnarsi il suo favore non per sè ma per il figlio. In nome di questo fece scrivere da Cassiodoro a
Giustino un'umilissima lettera in cui s' implorava di adottare Atalarico per arma filius, ma nulla ottenne.
Giustino anzi assunse un contegno così minaccioso che per impedire un attacco alle coste meridionali d'
Italia fu necessario mandare la flotta nelle acque del mezzogiorno della penisola, sotto il comando e a spese
di Cassiodoro.
Alle minacce dal sud seguirono quelle dal nord. I Lepidi, dal Dabubio, assalirono i confini del regno
ostrogoto. Non ebbero però fortuna: un esercito di Amalasunta inflisse loro una sanguinosa sconfitta e,
varcate le frontiere dell'impero bizantino, saccheggiò la città di Graziana.
Moriva intanto (estate del 527) Giustino e gli succedeva il nipote GIUSTINIANO che già nell'aprile era stato
dallo zio associato all'impero. Giustiniano, che meditava di ricostituire sotto di sé l' impero d'Occidente e
voleva cominciare con il cacciare i Vandali dall'Africa, allo scopo di servirsi per questa impresa dell'aiuto
degli Ostrogoti concluse con questi la pace e riconobbe la successione di Atalarico e la reggenza di
Amalasunta. Era questo un successo politico della figlia di Teodorico, ma nessun vantaggio essa ne
ricavava.
Intanto più accanita si faceva l'opposizione dei Goti alla politica della reggente. Se non tutti la maggior parte
erano malcontenti dei riguardi che venivano usati agli Italiani, disapprovavano il contegno troppo umile che
la corte di Ravenna teneva verso quella di Costantinopoli e rimproveravano ad Amalasunta che il figlio fosse
educato troppo alla cultura romana.
È da credere che fortissimo fosse il partito goto avverso ad Amalasunta se questa si vide costretta ad
affidare Atalarico alle cure dei capi militari. Ma questa concessione non giovò né a lei né al figlio. Passato
dagli studi alle armi, Atalarico si diede ad una vita dissoluta che in poco tempo ne minò la salute. Quanto alla
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posizione della reggente, essa non migliorò. I suoi oppositori crebbero di numero e i più accaniti tra loro
cominciarono a tramare congiure per abbatterla.
Fra questi era TEODATO, nato dal primo matrimonio di Amalafrida, sorella di Teodorico. A lui, come ultimo
rampollo della stirpe degli Amali, sarebbe toccata la successione se, come si temeva, fosse venuto a morte
Atalarico. Teodato non era ben visto né dai Goti né dai Romani, da quelli perché aveva ricevuta
un'educazione completamente romana e viveva tra i piaceri e gli studi della letteratura e filosofia latina, da
questi per la prepotenza e l'avidità con le quali egli aveva conseguito il possesso di tante terre in Toscana da
esser chiamato da un cronista Tusciae rex.
Tra Amalasunta e Teodato, malgrado i vincoli di parentela, non correvano buoni rapporti. Più di una volta
essa aveva dovuto fare uso della sua autorità per difendere i provinciali dalle spoliazioni del cugino e questi,
non sapendo come vendicarsi, si era messo in segreta corrispondenza con l'imperatore offrendogli il
possesso della Toscana dietro il compenso d'una forte somma e della dignità di senatore.
Giustiniano intanto si preparava alla guerra contro i Vandali e concludeva un trattato con Amalasunta nel
quale essa si obbligava di fornire vettovaglie all'armata bizantina.
Il grande imperatore era nato nella Dardania, a Tauresium, nel 482. Console nel 5121, era stato il consigliere
più prezioso dello zio, insieme con la moglie Teodora, una antica mima, dotata di grandissimo ingegno e di
coraggio, con la quale doveva dividere le cure dell'impero. Salito al trono, aveva saputo circondarsi dei
migliori ingegni e dei più abili generali; aveva profuso somme ingenti nella costruzione di fortezze e di
chiese, fra le quali è degna di menzione quella di S. Sofia, opera dei grandi architetti Isidoro di Mileto e
Antemio di Tralles; aveva voluto che si raccogliessero in un solo corpo (Corpus iuris civilis) le costituzioni dei
principi, da Adriano in poi (Codex constitutionum in dodici libri) e le sentenze degli antichi giuristi (Digesta o
Pandectae in cinquanta libri), affidandone la compilazione ad una commissione di dotti diretta da
TRIBONIANO; ed aveva vagheggiato l'ardito disegno, degno di un grande imperatore romano, di abbattere
le signorie d'Africa e d'Europa, restaurare l' impero d'Occidente e ridare all' impero l'antica unità e l'antico
splendore.
Come collaboratore nella sua grande impresa egli aveva chiamato un suo conterraneo, di ventitrè anni più
giovane di lui, BELISARIO, che grandi prove di valore aveva saputo dare nella guerra contro i Persiani e
prove ancora più grandi doveva fornire nelle future lotte in Africa e in Italia.
Giustiniano iniziò l'attuazione del suo vasto disegno nel 523. Egli usciva da una violenta rivolta che per poco
non gli era costata la vita e l'impero. Dopo essersi accaniti gli uni contro gli altri Monofisiti e Ortodossi (532),
questi due partiti avevano fatto causa comune contro Giustiniano, si erano abbandonati a disordini, avevano
provocato terribili incendi e innalzato un nuovo imperatore, IPAZIO.
Belisario aveva prontamente ed energicamente spenta nel sangue la rivolta ed a Belisario ora l'imperatore
affidava il comando della guerra vandalica.
Il regno dei Vandali era in piena decadenza. Nel 523 era salito sul trono Ilderico, nato da una figlia di
Valentiniano III, Eudocia, iniziando una politica favorevole all'elemento romano e cattolico e provocando
perciò una violenta reazione dei barbari ariani, favorita da Amalafrida. La rivolta era stata domata, la vedova
di Trasimondo messa in carcere, era stata poi uccisa e Ilderico aveva potuto regnare indisturbato fino al 531.
Ma in quest'anno una congiura di palazzo, capeggiata dal cugino Gelimero, lo aveva sbalzato dal trono.
I preparativi della spedizione bizantina furono fatti con tanta segretezza che i Vandali non ne seppero nulla.
Mentre Belisario navigava da Costantinopoli alla Sicilia il fratello dì Gelimero si trovava con un esercito in
Sardegna per domarvi una rivolta.
Belisario conduceva con sé una numerosa flotta ed un esercito di diecimila fanti e cinquemila cavalli ed era
accompagnato dalla moglie Antonina e da Procopio. Dopo due mesi di avventurosa e pericolosa
navigazione la flotta bizantina giunse a Catania: rifornitasi di vettovaglie, fece vela per l'Africa e giunse
felicemente nelle acque della Sirti Minore, a parecchie giornate di marcia da Cartagine. L'esercito, sbarcato,
pose il campo sul promontorio di Ras Khadigia. Le forze bizantine a quelle che potevano opporgli i nemici
erano numericamente inferiori ma Belisario contava sulla propria abilità, sulla disciplina, sull'organizzazione
e sulla combattività delle proprie truppe e sul favore delle popolazioni alle quali egli si presentava non come
un conquistatore, ma come un liberatore dal giogo dei barbari ariani.
E il favore delle popolazioni non gli mancò. La guerra non fu lunga e difficile: il 13 settembre del 533,
malgrado la loro superiorità numerica, i Vandali, venuti a battaglia coi Bizantini, furono sconfitti; il 15 dello
stesso mese la flotta imperiale penetrò senza incontrare difficoltà, nel porto di Cartagine e la città cadde in
potere di Belisario, che festeggiò la conquista pranzando coi suoi ufficiali nel palazzo stesso del re.
Ilderico non potò essere salvato: alla vista delle navi nemiche, il fratello di Gelimero, per impedire che la
popolazione lo liberasse e lo rimettesse sul trono, lo aveva ucciso.
Gelimero si ritirò nella Numidia con il fratello Ammata e di là ritentò le sorti delle armi: ma queste gli furono
avverse. Sconfitto una seconda volta e perduto il fratello, si rifugiò presso i Mauri, ma, abbattuto dalle
privazioni, nel marzo del 534 si arrese.
L'Africa, la Sardegna, la Corsica e le Baleari caddero in brevissimo tempo nelle mani del vincitore. Così
finiva, dopo poco più d'un secolo, il regno dei Vandali, di quei barbari che avevano saccheggiato Roma, fatto
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tremare l'impero d'Oriente e portata la devastazione sulle coste fiorenti d'Italia. La caduta del loro regno
segnò anche la caduta dell'intero popolo.
I Vandali che rimasero in Africa vennero spogliati dei loro beni e fatti schiavi, gli altri vennero mandati ai
confini dell' impero, verso la Persia. Un buon numero fu incorporato nell'esercito bizantino.
Accusato presso Giustiniano di voler tenere per sè il trono Vandalico e richiamato a Costantinopoli, Belisario
ritornò; il suo ingresso però non fu quello di un generale che la calunnia aveva colpito, ma quello d'un
trionfatore. Il ricco bottino, i numerosi prigionieri e lo stesso Gelimero furono gli ornamenti migliori del trionfo.
Con il vinto, Giustiniano fu generoso: lo spodestato re fu mandato in Galazia e qui si ebbe in dono terre e
case.
TEODATO - BELISARIO IN ITALIA
Al buon esito della vittoria sui Vandali molto aveva contribuito Amalasunta con il dare libero accesso nei porti
della Sicilia alla flotta e con le vettovaglie fornite all'esercito.
Sconfitto il nemico, lei aveva preso per sé il LILIBEO che era stato da Teodorico dato in dote ad Amalafrida
e l'aveva tenuto malgrado le pretese di Belisario. Ora Giustiniano tornava direttamente alla carica chiedendo
che il Lilibeo gli fosse ceduto, spettandogli di diritto dopo la vittoria sui Vandali. Amalasunta, alla quale non
rimaneva che la protezione dell' imperatore, l'avrebbe ceduto, ma essa temeva del malcontento che una
simile cessione avrebbe suscitato nei Goti e, non volendo rendere maggiormente difficile la sua situazione
politica, rifiutò.
Però, nonostante la fermezza dimostrata nell'affare del Lilibeo, la sua posizione personale rimase difficile. Il
figlio era ridotto agli estremi dagli stravizi, Teodato non cessava di osteggiarla e i Goti continuavano a
brigare contro di lei.
Per disfarsi di tre dei suoi più accaniti avversari Amalasunta, adducendo a pretesto che i Franchi
preparavano un'invasione, li mandò a difendere i confini delle Alpi, facendoli segretamente seguire da
persone di sua fiducia con l'incarico di trucidarli. Temendo però che il colpo non riuscisse e i tre Goti si
vendicassero, chiese all'imperatore che le concedesse asilo e spedì a Durazzo una nave con quarantamila
aurei che aveva sottratti dalle casse dello Stato.
Ma il colpo di far assassinare i tre invece riuscì pienamente ed Amalasunta, modificato progetto, richiamò la
nave e rimase in Italia, dove continuò a governare in nome del figlio, pur mantenendosi in segreti rapporti
con Giustiniano al quale, senza dubbio per tenerlo a bada, e non alienarsene la protezione, prometteva di
cedere il regno.
L'uccisione di quei tre Goti valse a rafforzare la posizione della reggente, ma di lì a poco, morto Atalarico il 2
ottobre del 534, divenne disperata. Con la morte del figlio aveva termine la reggenza. Amalasunta,
vietandole le leggi gotiche di assumere il titolo di regina, doveva abbandonare il potere; ma essa non voleva
lasciarlo e per mantenerlo ricorse ad un espediente che doveva riuscirle fatale.
TEODATO, come parente più vicino a Teodorico, era l'erede naturale del trono. Per impedire che il cugino
facesse valere i propri diritti e, nello stesso tempo, per ingraziarsi il suo più accanito avversario, Amalasunta
se lo associò nel regno, ma si fece promettere da lui che si sarebbe contentata del titolo regio e avrebbe
lasciate nelle mani di lei le redini dello stato.
Teodato promise, ma nel suo animo maturava un tristo disegno che non doveva tardare ad essere attuato. Il
30 aprile del 535, sette mesi dopo la morte di Atalarico, Amalalasunta veniva spogliata delle insegne reali e
relegata su un' isoletta del lago di Bolsena.
Compiuto il colpo e temendo l' ira di Giustiniano, Teodato costrinse la cugina a inviare lettere all'imperatore
assicurandolo che nessun male le era stato fatto e che era contenta della sua sorte, e nello stesso tempo
spedì a Costantinopoli due ambasciatori, Liberio ed Opilione, per mezzo dei quali annunziava al sovrano
bizantino che era stato costretto ad agire a quel modo da offese ricevute da Amalasunta.
Liberio ed Opilione, in viaggio verso Costantinopoli, incontravano ad Aulona, PIETRO di TESSALONICA,
mandato dall' imperatore in Italia per riprendere con Amalasunta e Teodato le trattative intorno alla cessione
dell' Italia, e lo informavano degli avvenimenti. Interrotto il viaggio, Pietro a sua volta informava Giustiniano
delle notizie apprese e chiedeva istruzioni. Non era più il caso di riannodare trattative circa la cessione, che
Teodato, venuto in possesso del regno, non avrebbe certamente più fatta. L'imperatore scrisse ad
Amalasunta assicurandole la sua protezione ed ordinò a Pietro di recarsi a Ravenna a dire a Teodato che si
guardasse bene dal recare offesa alla cugina.
Pietro partì, ma non giunse a tempo a salvare Amalasunta. I parenti di quei tre Goti che lei aveva fatto
trucidare, temendo che la regina sfuggisse alla loro vendetta, avevano strappato al re il decreto di morte e al
principio dell'estate di quell'anno lo avevano essi stessi eseguito, soffocando nel bagno l'infelice figlia di
Teodorico.
Questo ci narra Procopio nella sua Storia della Guerra gotica. Nella Storia arcana però lo stesso scrittore
dice che la morte di Amalasunta fu dovuta all'imperatrice Teodora, la quale, ingelosita dalla bellezza della
regina ostrogota, avrebbe commesso a Pietro di Tessalonica di ucciderla.
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L'uccisione di Amalasunta costituiva un ottimo pretesto per Giustiniano d' intervenire nelle faccende d' Italia
e fare il secondo passo verso l'attuazione del suo programma.
Pur continuando le trattative con Teodato, l' imperatore iniziò le operazioni di guerra contro gli Ostrogoti,
facendole precedere da un accordo con Teodeberto re dei Franchi.
Due eserciti furono mandati contro i Goti: uno di tre o quattromila uomini al comando del generale MUNDO
doveva operare in Dalmazia per attirare in quella regione parte delle forze ostrogote, l'altro, guidato da
BELISARIO, doveva, attaccare l'Italia cominciando dalla Sicilia. Poche erano le forze a disposizione del
valente generale: settemila e cinquecento uomini oltre la sua guardia personale; ma l'esercito, sebbene
piccolo, era ben equipaggiato ed armato, era comandato dai migliori ufficiali dell'impero, era sostenuto da
una forte flotta e fornito in gran parte di cavalleria. Si aggiunga che l'organizzazione e l'addestramento dei
Bizantini erano infinitamente superiori all' addestramento e all'organizzazione degli Ostrogoti e che Belisario,
oltre che sul valore, sulla disciplina, sull'educazione militare delle sue truppe e sulla propria abilità di
condottiero, contava sul favore delle popolazioni.
Belisario, sbarcato a Catania, in pochi mesi riuscì a impadronirsi di tutta la Sicilia, accolto come liberatore
dalla popolazione. Siracusa gli venne consegnata dallo stesso comandante la piazza, Sinderito. Palermo
invece oppose lunga resistenza, munita com'era di forti mura entro cui stava una numerosa guarnigione, e
Belisario dovette impiegare i suoi famosi arcieri collocati sugli alberi delle navi.
La notizia della conquista dell' isola da parte dell'esercito bizantino fu un grave colpo per Teodato, il quale
propose all'imperatore di cedere l' Italia dietro il compenso di un lauto stipendio. Le proposte furono accettate
da Giustiniano, ma di lì a poco Teodato ruppe le trattative e trattenne presso di sé gli ambasciatori imperiali.
La causa di questa rottura è da ricercarsi nella disfatta dell'esercito bizantino in Dalmazia, che costò la vita al
generale Mundo, e in un'improvvisa rivolta scoppiata in Africa, dove, approfittando del malgoverno imperiale
e del malcontento delle popolazioni, un certo SUZZA si era messo alla testa di circa ottomila ribelli e
marciava su Cartagine.
Questi avvenimenti avevano dato l' illusione a Teodato che la guerra dovesse prendere una piega a lui
favorevole; ma la delusione venne presto. L'esercito di Dalmazia, prontamente ricostituito e messo sotto il
comando di un abile generale, COSTANZIANO, tornò alla riscossa, occupò Salona e scacciò dall' Illiria le
guarnigioni ostrogote che dovettero riparare a Ravenna.
Eguale fortuna ebbero le armi bizantine in Afríca: Belisario, lasciata in Sicilia con gran parte delle sue truppe,
si recò rapidamente con duemila uomini a Cartagine, che stava per essere investita, e il suo arrivo
improvviso valse a far ritirare i ribelli a cinquanta miglia dalla città; ma, raggiunti ed attaccati, vennero
sconfitti e Belisario poté ritornare in Sicilia.
Qui un ordine dell' imperatore lo attendeva: passare in Italia e riprendere con maggior vigore l'offensiva
contro gli Ostrogoti.
Belisario non pose tempo in mezzo: lasciati esigui presidii a Siracusa e a Palermo, radunò il grosso delle sue
forze a Messina. Reggio era difesa da una guarnigione di Ostrogoti comandata da Obrimuzio, genero di
Teodato; la città però cadde senza colpo ferire in potere dei Bizantini, essendosi Obrimuzio arreso, e
Belisario fu in grado di iniziare la conquista della penisola.
Fu una marcia rapida e trionfale: i distaccamenti nemici si ritiravano verso il nord senza combattere e le
popolazioni del Bruzio e della Lucania accoglievano i Bizantini come liberatori.
A Napoli però la marcia di Belisario ebbe una sosta. La città era ben fornita di mura e difesa da una
guarnigione di ottocento Ostrogoti. Per costoro parteggiava la popolazione, specie gli Ebrei, contenti della
tolleranza religiosa dei Goti e ostili a Giustiniano, di cui era nota l' intransigenza in fatto di religione. Belisario
tentò di aver la città per assalto ma non vi riuscì malgrado i suoi ripetuti sforzi.
Da quasi tre settimane egli la teneva assediata ed aveva stabilito di abbandonare l' impresa e marciare su
Roma, quando uno dei tremila soldati isaurici che aveva con sé scoprì che si poteva penetrare nella città
attraverso un acquedotto. Belisario allora ordinò che seicento uomini entrassero di nascosto a Napoli per la
via sotterranea. Egli per distrarre l'attenzione degli assediati, finse di assalire un punto delle mura. Qui difatti
accorsero i difensori ma mentre questi respingevano l'assalto, i Bizantini, penetrati dall'acquedotto nella città,
aprivano le porte e Napoli fu di Belisario. Ci fu un principio di saccheggio. Belisario però prontamente lo fece
cessare con ordini severissimi impartiti ai suoi soldati. Il presidio ostrogoto cadde tutto in potere dell'esercito
imperiale (novembre del 536).
VITIGE
Ora la via di Roma era aperta, né Teodato si sarebbe risolto ad opporsi all'avanzata di Belisario se i soldati,
scontenti del contegno passivo del re di fronte all' invasione, non l'avessero costretto. Ma Teodato non era
uomo da mettersi alla testa dei suoi barbari e marciare contro gli invasori: egli radunò, sì, alcune schiere di
soldati, ma ne affidò il comando ad un valoroso guerriero, di nome VITIGE, cui diede l'ordine di andare verso
la Campania.
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Le schiere partirono, non soddisfatte certamente dalla codarda condotta del re; ma non andarono troppo
lontano. A Regeta, sulla via Appia, che distava da Roma trentacinque miglia, si fermarono, dichiararono
deposto Teodato e in sua vece acclamarono re Vitige.
All'annunzio della rivolta, Teodato fuggì verso Ravenna con il proposito di prendere il mare e rifugiarsi a
Costantinopoli ; ma non fece a tempo. Vitige aveva lanciato dietro di lui, all' inseguimento, un manipolo di
soldati tra i quali un certo OTTARI che aveva un conto personale da saldare con l'ex-sovrano che gli aveva
sedotta la fidanzata.
Teodato, raggiunto a metà strada tra Roma e Ravenna, fu catturato e venne trucidato (dicembre del 536).
Un suo figlio, per nome Teodigiselo, venne poco tempo dopo chiuso in carcere.
Con la fine di Teodato e l'acclamazione di VITIGE una nuova fase della guerra si apriva e il provato valore
del nuovo capo era segno non dubbio che la guerra da parte degli Ostrogoti sarebbe stata condotta con
grandissimo accanimento.
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
WACHER -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
Con la morte di Teodato, e con BELISARIO in Italia, la guerra sembrava quasi finita, invece la
proclamazione a re degli Ostrogoti di uno sconosciuto VITIGE, apre una nuovo capitolo. Ci aspetta la nuova
ostinata fase della guerra Gotico-Bizantina. E' il periodo che va dal 536 al 555
LA GUERRA GOTICO-BIZANTINA - FINO A BELISARIO ( dal 536 AL 540 )
VITIGE SPOSA AMALASUNTA E TRATTA CON I FRANCHI - BELISARIO ENTRA IN ROMA - SUOI
PROGRESSI NELL' ITALIA CENTRALE - VITIGE ASSEDIA ROMA - VICENDE DELL'ASSEDIO DEPOSIZIONE DI PAPA SILVERIO ED ELEZIONE DI VIGILIO - FINE DELL'ASSEDIO DI ROMA GIOVANNI E NARSETE - DISCORDIA TRA BELISARIO E NARSETE - DISTRUZIONE DI MILANO - I
FRANCHI NELL' ITALIA SETTENTRIONALE - TRATTATIVE TRA VITIGE E GIUSTINIANO - I GOTI
OFFRONO LA CORONA A BELISARIO - RESA DI RAVENNA - BELISARIO TORNA A COSTANTINOPOLI
- GLI OSTROGOTI ALLA RISCOSSA - ------------------------------------------------------VITIGE E BELISARIO - ASSEDIO DI ROMA E RESA DI RAVENNA
Vitige era un guerriero d'indiscutibile valore: si era distinto nella guerra di Sirmio contro i Gepidi e i Bulgari,
acquistandosi il titolo di armigero, aveva fornito ottime prove di sé nella guerra contro i Franchi e si era
segnalato ancora contro i Gepidi nella battaglia di Singidunum; ma non era un condottiero di eserciti né un
uomo politico. Eletto re, due compiti difficilissimi gli si presentavano: rafforzare la propria posizione e
difendere il regno dai Bizantini che già ne occupavano metà. Sebbene riscuotesse il favore dei soldati lui non
era di stirpe regia. Cassiodoro trovò una singolare formula che risolveva la questione dell'origine e in un
editto rivolto ai Goti fece dire al nuovo re che, parente di Teodorico doveva essere stimato chi ne imitasse le
opere (parens ipsius debet credi eius facta potuerit imitari). Ma ciò non bastava e Vitige, che ripudiata la
moglie, prese in sposa la riluttante Amalasunta, sorella di Atalarico.
Quanto alla difesa dell'Italia era necessario opporsi all'avanzata di Belisario e procurarsi alleanze.
Un'alleanza con i Franchi o per lo meno un accordo che assicurava la loro netraulità era indispensabile agli
Ostrogoti affinché le spalle fossero sicure da un attacco nemico dalla parte delle Alpi e perché non
rimanesse immobilizzata in Provenza una parte delle loro forze.
Vitige riprese le trattative che Teodato aveva iniziate con i Franchi e riuscì a concludere un trattato con il
quale Teodeberto s'impegnava a non assalire i Goti e prometteva anzi un aiuto di truppe borgognone.
Questo trattato dava agio a Vitige di ritirare dalla frontiera ed utilizzare le truppe che vi erano poste a difesa,
ma costava non indifferenti sacrifici di territori e di denaro. Infatti, duemila solidi d'oro furono pagati ai Franchi
e si cedeva loro la Provenza. Sacrificio doloroso, senza dubbio, ma richiesto dalle enormi difficoltà del
momento.
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Sebbene non era un uomo politico, le opere da lui compiute ci appaiono sagge, sia per rafforzar la sua
posizione personale sia per togliere dall'isolamento in cui si trovava, la nazione.
Non altrettanto sagge però furono le misure da lui prese per la condotta della guerra. Napoli aveva fornito
prova che si poteva resistere all'esiguo esercito bizantino e immobilizzarlo sotto le mura di una città.
L'esempio di Napoli avrebbe dovuto consigliarlo a fare di Roma il fulcro della resistenza. La difesa della
vecchia capitale d'Italia gli avrebbe fatto conseguire vantaggi materiali e morali non indifferenti, arrestando la
marcia nemica e impedendo che Belisario, impadronendosi di Roma, apparisse come il restauratore
dell'impero.
Vitige riteneva più opportuno mettere la base delle operazioni della guerra a Ravenna, consigliato forse dal
fatto che i più numerosi stanziamenti di Goti erano nell'Italia settentrionale e che da Ravenna si poteva
meglio difendere la porta orientale da un attacco bizantino proveniente dalla Dalmazia. Pur trasportando il
suo quartier generale a Ravenna, Vitige non abbandonò Roma al nemico. Dalla popolazione si fece prestare
giuramento di fedeltà e per essere maggiormente sicuro trasse con sé in ostaggio un certo numero di
senatori; inoltre vi lasciò una guarnigione di quattromila Ostrogoti al comando di Leuderi. Questi soldati
indubbiamente credeva che fossero sufficienti a difendere la città.
Sulla situazione politica di Roma Vitige non nutriva preoccupazioni sia perché i senatori che conduceva con
sé in ostaggio gli davano affidamento della fedeltà dei cittadini sia perché la maggiore autorità romana, il
papa, era un amico dei Goti. Era difatti pontefice SILVERIO, figlio di papa ORMISDA, successo ad
AGAPITO ch'era morto il 22 aprile del 536 a Costantinopoli, dove Teodato l'aveva mandato come
ambasciatore, e Silverio era stato imposto al clero e al popolo da Teodato.
Ma sull'amicizia del pontefice Vitige s'ingannò. Silverio era il capo della religione cattolica e, sebbene
dovesse la sua altissima carica alla prepotente volontà degli Ostrogoti, non poteva in una guerra tra Ariani e
Cattolici non desiderare e favorire la vittoria di questi ultimi. Si aggiunga che i Romani temevano che la città,
caduta in mano dei Bizantini dopo un assedio, fosse poi saccheggiata e che un assedio non era una lieta
prospettiva per i cittadini.
Non tenendo conto del giuramento della popolazione e degli ostaggi, papa Silverio invitò Belisario, per
mezzo del questore Fidelio, ad entrare in città. Belisario che nel frattempo si era reso padrone dell'Apulia,
accettò l' invito e lasciato a Napoli un presidio di trecento uomini, favorito dalle popolazioni e dalle diserzioni
dei Goti, avanzò attraverso la via di Cassino e il 9 dicembre fece il suo ingresso a Roma dalla porta Asinaria
mentre la guarnigione nemica usciva dalla porta Flaminia. Leuderi che era voluto restare in città, fedele alla
consegna del re, fu fatto prigioniero e mandato a Costantinopoli con le chiavi di Roma.
Con l'occupazione di Roma Belisario veniva a trovarsi padrone di metà dell'Italia.
La Calabria aveva fatto atto di sottomissione all'impero e il Sannio ne aveva seguito l'esempio. Prima di
rivolgersi all'Italia settentrionale il generale bizantino voleva assicurarsi i passi dell'Appennino e mettere
Roma in stato di difesa aspettandosi un attacco da parte di Vitige. Inviò pertanto alcune schiere, comandate
da Bessa e Costantino, verso l'Umbria e la Tuscia e ridusse in suo potere Narni, Spoleto e Perugia. In
quest'ultima città tentarono i Goti di rientrare ma subirono uno scacco sanguinoso.
Padrone di questi posti avanzati, Belisario si diede a rifornire di vettovaglie Roma e a riparare le mura che
dal tempo di Onorio non erano state più restaurate e non trascurò di chiedere rinforzi di truppe a
Costantinopoli prevedendo che la guerra sarebbe stata difficile, con le notizie, che a lui giungevano, dei
preparativi che faceva Vitige.
Questi difatti aveva radunato un esercito che si fa ascendere a centocinquantamila uomini. Senza aspettare
che gli giungessero le truppe dalla Provenza, il 24 febbraio del 537, partì da Ravenna, sicuro di schiacciare
con questo esercito poderosa che si traeva dietro l'esiguo numero dei guerrieri bizantini e di prendere
d'assalto Roma.
Il primo scontro tra le numerose avanguardie gotiche e i Bizantini avvenne a ponte Salario, difeso da uno
scarso presidio. Di fronte al numero preponderante dei nemici, alcune schiere, colte da panico, disertarono;
il resto della guarnigione tentò la difesa, ma fu travolto. In aiuto del presidio era accorso Belisario alla testa di
mille uomini, ma il suo soccorso non giunse a tempo per impedire che il nemico passasse sulla sinistra del
fiume.
La schiera che Belisario conduceva con sé era tutta di cavalieri. Il generale cavalcava un superbo sauro che
aveva in fronte una macchia bianca a guisa di stella e che perciò i Bizantini chiamavano "Phalion" e i Goti
"Balan". Appena i nemici lo riconobbero, lo presero di mira lanciandogli un nugolo di frecce, ma, come ci
narra Procopio, "nessuna, come per miracolo, colse il segno".
Il combattimento si svolse con accanimento e gli Ostrogoti, premuti dall'impeto dei cavalieri imperiali, furono
costretti a ceder terreno, ma, rinforzati da altre truppe, ritornarono all'assalto con maggior violenza di prima.
Visto inutile ogni tentativo di opporsi all'irrompere del nemico, Belisario con i suoi si ritirò verso le mura per
entrare in città, ma trovò porta Salaria chiusa. Invano cercò di farsi aprire da quelli che erano dentro i quali,
se da un canto non riconoscevano il loro generale trasfigurato dalla battaglia, dall'altro temevano che con i
cavalieri bizantini entrassero le orde barbariche. Il sole volgeva intanto al tramonto e la situazione di
Belisario si faceva tragica. Radunati intorno a sé i suoi, il generale bizantino caricò con estrema violenza gli
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Ostrogoti i quali, credendo che i nemici avessero ricevuti rinforzi, colti da sgomento, si ritirarono
precipitosamente.
Con questa sanguinosa fazione cominciava l'assedio di Roma, che doveva durare un anno e nove giorni, dal
marzo del 537 al marzo del 538.
Belisario disponeva di poco più che cinquemila uomini oltre la sua guardia personale, forze assolutamente
insufficienti a difendere una città, che aveva un circuito di dodici miglia, contro un esercito di
centocinquantamila soldati. Bisogna pertanto supporre che anche i Romani prendessero parte attiva alla
difesa e che senza il loro valido concorso non sarebbe stata possibile. Tutto il merito però
dell'organizzazione va dato a Belisario. Egli fece murare la porta Flaminia, assegnò la difesa delle altre porte
ai suoi migliori capitani, dei quali Costantino che difendeva porta Aurelia; siccome i Goti avevano tagliati gli
acquedotti, ne fece chiudere e custodire le estremità per impedire una sorpresa e, mancata l'acqua per i
mulini, fece costruire nuovi mulini presso il fiume proteggendone le ruote con catene di ferro.
I primi diciotto giorni d'assedio furono dagli Ostrogoti impiegati in febbrili preparativi. La città fu circondata da
sei campi, posti davanti alle principali porte; un settimo fu messo sulla destra del Tevere da cui si poteva
dominare il fiume e il ponte Milvio; numerose torri di legno furono fabbricate per l'assalto delle mura e furono
approntati i carri speciali che dovevano trasportarle.
Il diciannovesimo giorno Vitige ordinò che fosse dato contemporaneamente da sette punti l'assalto alla città,
dopo avere invano offerto a Belisario la libera uscita con tutte le sue truppe. Fu un assalto gigantesco che
durò una giornata intera e mostrò con quanto valore combattessero gli assediati. Un assalto di torri mobili
piene di armati e trascinate da bovi fu nettamente spezzato dagli arcieri di Belisario posti a guardia di porta
Pinciana, che, uccisi i bovi con tiro bene aggiustato di saette, immobilizzarono nell'aperta campagna le
potenti costruzioni gotiche.
Sorte migliore non ebbe il tentativo di conquistare la porta Prenestina, difesa da un muro in parte diroccato
(murus ruptus) e che rappresentava il punto più debole delle opere difensive romane. I Goti erano già riusciti
a penetrare nel Vivario quando Belisario, informato del pericolo che correva la città da quella parte, uscì
dalla porta con un agguerrito contingente di soldati e piombò alle spalle del nemico sgominandolo.
Sorse poi la leggenda che quel giorno sul muro rotta fosse apparso S. Pietro e, saettando gli assalitori, li
avesse messi in fuga. Più accanito di tutti gli altri, fu poi l'assalto che gli Ostrogoti sferrarono a Trastevere
contro la mole Adriana che, per mezzo di un muro, era collegata alla porta Aurelia.
Ributtati dalla porta Tiberina per il pronto accorrere di Costantino, i nemici diedero un assalto furioso alla
mole e vi giunsero sotto così rapidamente che i difensori non fecero a tempo a mettere in opera le baliste.
Posti a mal partito, fecero uso delle numerose statue che coronavano la Mole Adriana: ridotte in frammenti,
mandarono una pioggia di schegge marmoree sugli assalitori che furono costretti a ritirarsi con gravissime
perdite.
La giornata si chiuse con lo, scacco completo degli Ostrogoti, i quali, al dir di Procopio, che indubbiamente
esagera le cifre, lasciarono sotto le mura trentamila morti ed ebbero altrettanti feriti.
Vitige si vendicò della sconfitta mandando ordine a Ravenna di mettere a morte i senatori che aveva ricevuto
in ostaggio, poi occupò Porto tagliando da questa parte a Roma gli approvvigionamenti. Non gli riuscì però di
impadronirsi di Ostia e da quella parte Roma riuscì ancora, sebbene con molte difficoltà, a comunicare col
mare. Ma l'occupazione ostrogota di Porto era stata un grave colpo per i difensori, e Belisario, prevedendo la
lunga durata dell'assedio e le difficoltà del vettovagliamento, fece allontanare le donne e i fanciulli, che
furono trasferiti nella Sicilia e nella Campania, mise poi a mezza razione i soldati e si servì degli uomini più
validi per la difesa delle mura.
Vitige, reso prudente dall' infelice esito dell'assalto, si guardò bene dal rinnovarlo e stabilì di prendere Roma
per fame. Belisario invece aveva tutto l'interesse di impegnare il nemico con frequenti sortite per tenere in
esercizio le sue truppe, specie i cittadini, per stancare i Goti e dar modo, nel trambusto, di impegnare il
nemico da una parte mentre dall'altra permettere ai rifornimenti di entrare in città.
Verso i primi d'aprile del 537 giunse a Belisario un rinforzo di mille e seicento cavalieri, Unni e Schiavoni la
maggior parte. Era ben poca cosa, ma servì a far crescere l'ottimismo degli assediati, i quali credevano con
l'aiuto di questi di poter tentare un assalto in forza contro il nemico.
Belisario sapeva che un attacco alle posizioni nemiche con le poche schiere di cui disponeva e la massa non
bene addestrata alle armi degli abitanti non poteva avere buon esito, ma dovette cedere di fronte alle
pressioni dei suoi e della popolazione civile. Il piano d'azione da lui preparato avrebbe tuttavia dato risultati
soddisfacenti se il piano fosse stato scrupolosamente eseguito. Ordinò che i cittadini armati si schierassero
fuori porta Aurelia da dove alcune schiere bizantine dovevano muovere un attacco dimostrativo contro il
campo nemico alla destra del Tevere per impedire che i Goti di quel campo prestassero aiuti agli altri della
sinistra contro la quale doveva essere sferrato il vero assalto. Doveva quest'ultimo muovere da porta Salaria
a porta Pinciana, ed essere effettuato soltanto dalla cavalleria; la fanteria aveva l'ordine di stare ferma per
proteggere un'eventuale ritirata delle truppe a cavallo.
La prima fase della battaglia si svolse secondo gli ordini dati da Belisario. L'imponente massa di armati
uscita da porta Aurelia produsse tale sbigottimento sui Goti da metterli subito in fuga e la giornata da quella
parte si sarebbe chiusa con la completa vittoria degli assediati se questi avessero inseguito ordinatamente il
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nemico. Invece la popolazione civile si gettò sul campo abbandonato dai Goti e si diede a saccheggiarlo e i
nemici ebbero tutto il tempo di riordinarsi e di muovere alla riscossa.
Sulla sinistra del Tevere le cose non andarono meglio: in un primo tempo, sotto l' impeto della cavalleria di
Belisario, i Goti retrocedettero, poi venuti al contrattacco con tutte le loro forze, obbligarono i cavalieri
bizantini a ritirarsi. Toccava alla fanteria, secondo il piano prima stabilito, proteggere la ritirata; i fanti invece
si diedero alla fuga e si dovette al coraggio di alcuni ufficiali e di alcuni manipoli di soldati, che, facendo
sacrificio della propria vita, si opposero validamente all'irrompere delle soldatesche di Vitige, se la ritirata non
si fosse mutata in un gran disastro.
L'esito di questa battaglia, pur non avendo arrecato gravi perdite agli assediati, consigliò Belisario a non
ritentare assalti in forze. Si tornò perciò al sistema delle sortite che aveva in passato dato buoni risultati.
Sessantanove ne conta Procopio e tutte favorevoli ai Bizantini. Due di queste furono fatte nel giugno allo
scopo di permettere l'entrata in Roma a cento uomini giunti da Costantinopoli a Terracina con le paghe per
le truppe ed assunsero il carattere di vere e proprie battaglie nelle quali i guerrieri di Belisario fornirono prove
di grandissimo valore causando al nemico, fuori porta Aurelia e fuori porta Pinciana, perdite ingentissime.
A queste sortite vittoriose si doveva se Roma riusciva ad essere vettovagliata. Quello dei Goti sarebbe stato
un assedio infruttuoso fino a che la città non fosse stata completamente bloccata. Ma un blocco completo
era impossibile data l'estensione del circuito delle mura e la tattica di Belisario, il quale manovrando per linee
interne, poteva tutte le volte che gli era necessario distrarre, coi suoi attacchi, gli assedianti dai punti dove
dovevano passare i rifornimenti. Tuttavia Vitige cercò di ostacolare il più possibile il vettovagliamento e vi
riuscì istituendo un posto avanzato di settemila uomini a tre miglia dalla città. L'effetto fu che da allora i
rifornimenti si fecero più scarsi e la fame cominciò a Roma a farsi sentire. Il popolo rumoreggiava e insisteva
affinché si tentasse un altro assalto generale per porre termine all'assedio; ma Belisario questa volta non si
lasciò vincere dalle pressioni. Egli sapeva che i Goti non si trovavano in condizioni migliori delle sue, che il
territorio intorno a Roma non aveva più risorse per gli assedianti, che la stanchezza era subentrata ai primi
entusiasmi; sapeva inoltre che da Costantinopoli erano partiti rinforzi che non sarebbero tardati a giungere, e
non voleva compromettere il risultato finale della guerra con un'azione che poteva riuscire sfavorevole.
Non potendo però tener quieta la popolazione con le promesse soltanto, inviò a Napoli Procopio affinché vi
organizzasse la spedizione dei rifornimenti. L' invio di Procopio nella Campania si dimostrò utilissimo: lo
storico riuscì ad avviare verso Roma un convoglio di cinquecento uomini e mandare ad Ostia alcune navi
cariche di grano.
Coi rifornimenti giungeva nella città assediata ANTONINA, moglie di Belisario, che fino allora era rimasta a
Napoli, e forse con lei giungeva al generale anche l'ordine di deporre papa SILVERIO.
Come siano andate le cose non si sa con precisione né c' è accordo tra le fonti sulle date. Si vuole che
causa della deposizione del pontefice sia stata l'imperatrice TEODORA, la quale, irritata perché il papa si era
rifiutato di rimettere nella sede episcopale di Costantinopoli il patriarca ANTIMO, avrebbe, per mezzo di
Antonina, ordinato a Belisario di disfarsi del papa e di fare eleggere l'arcidiacono VIGILIO, compagno di
Agapito nell'ambasceria mandata da Teodato a Giustiniano. Si vuole ancora che Belisario in quella
circostanza sia stato dominato dalla volontà della moglie prestandosi agli intrighi dell'imperatrice.
Silverio fu accusato di segrete pratiche con i Goti; testimoni falsi confermarono l'accusa, e il pontefice,
deposto, fu relegato prima a Patara, nella Cilicia, poi nell' isola di Palmaria, presso Ponza, dove morì il 21
giugno del 538. VIGILIO fu eletto papa il 22 novembre del 537.
Ora la guerra da parte di Belisario riprendeva nuovo vigore. A Napoli era giunto da Costantinopoli un corpo
di milizie traciche e isauriche comandate da Giovanni; circa cinquemila uomini che per la via di Ostia si
diressero a Roma. Per favorire l'entrata dei rinforzi Belisario assalì i Goti da porta Pinciana e porta Flaminia
e il successo riportato dalle truppe bizantine finì con il togliere agli assedianti le poche speranze ch'erano
loro rimaste a impadronirsi della metropoli.
Allora Vitige iniziò trattative di pace dichiarandosi pronto a cedere la Sicilia e la Campania e pagare un
annuo tributo all'impero. Erano proposte inaccettabili da chi aveva mosso la guerra per togliere agli Ostrogoti
la signoria d'Italia. Belisario le rifiutò, ma accordò a Vitige una tregua di tre mesi perché potesse inviare
un'ambasceria a Costantinopoli.
Dalla tregua trasse profitto Belisario, il quale, non curandosi delle proteste di Vitige per la violazione dei patti
che vietavano ogni movimento di truppe e i rifornimenti, fece introdurre in Roma altre vettovaglie, riparò le
fortificazioni ed essendosi i Goti volontariamente ritirati da Porto, da Albano a da Centocelle, occupò queste
località.
Non contento di ciò, mandò Giovanni, alla testa di duemila cavalli, nel Piceno con l'ordine di scacciare i
coloni goti non appena la tregua fosse stata rotta.
Vitige, mal sopportando la violazione dei patti della tregua, tentò con un colpo di mano d'impadronirsi di
Roma. Fu respinto; e subito dopo Giovanni, aiutato dai provinciali romani, saccheggiò i territori che i Goti
possedevano nel Piceno, ne confiscò i beni e, lasciandosi alle spalle Osimo ed Urbino difese da presidi
nemici, si spinse fino a Rimini dove entrò e si fortificò.
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La presa di Rimini minacciava di tagliar le comunicazioni tra Ravenna e l'esercito gotico che assediava
Roma. Questa situazione pericolosa e la stanchezza delle sue truppe che ormai non avevano più fiducia in
sé stesse consigliarono Vitige a togliere l'assedio.
Questo fu levato il 12 marzo del 538. La ritirata dei Goti avrebbe potuto risolversi in un vero disastro se
Belisario avesse avuto truppe sufficienti per un inseguimento; pur nondimeno la partenza di Vitige non
accadde senza spargimento di sangue. Uscito dalla città con le sue milizie, Belisario diede addosso alla
retroguardia nemica nel momento in cui stava per passare il Tevere e ne menò strage.
Belisario aveva raggiunto quello che si era proposto: di tenere Roma. La prima fase della guerra era
terminata in vantaggio dei Bizantini; ora si presentava l'impresa più difficile: la conquista del resto dell'Italia
centrale e l' Italia settentrionale, per la quale Belisario contava molto sul concorso delle popolazioni, che anzi
gli avevano inviata un'ambasceria, capitanata dall'arcivescovo milanese Dazio, chiedendogli di mandar
truppe in Liguria.
Belisario mandò a Genova un distaccamento di mille uomini, comandati da MUNDILA, che in poco tempo si
rese padrone delle più importanti città dell'alta Italia, eccettuata Pavia. Altri mille uomini Belisario li inviò in
aiuto di Giovanni, il quale marciava verso Ravenna dove si trovava la regina AMATASUNTA con cui s'era
messo in segreti rapporti; avevano l'ordine di dire a Giovanni che lasciasse una guarnigione a Rimini e
raggiungesse a Roma con il resto delle truppe il generalissimo. I mille uomini spediti da Belisario riuscirono
arrivare - dopo di avere sconfitto una schiera di Goti al passo del Furlo - fino a Giovanni, ma dovettero
tornarsene senza di lui, che, disubbidendo agli ordini del suo capo, si chiuse in Rimini.
Qui Vitige venne ad assediarlo. Il suo esercito si era di molto assottigliato; forti presidi erano rimasti, lungo la
ritirata, ad Orvieto, a Chiusi e a Todi; una forte schiera, comandata da URAIA, nipote di Vitige, si era
staccata dal grosso per correre su Milano, insieme con diecimila Borgognoni inviati da Teodeberto, ed ora il
re non disponeva che di una trentina di migliaia di soldati, che però erano sempre sufficienti a tener testa alle
truppe bizantine.
Intanto Belisario, uscito da Roma ed espugnate Chiusi e Todi, era giunto nel Piceno, dove aveva trovato
nuovi rinforzi mandatigli da Costantinopoli. Erano settemila uomini comandati dall'eunuco NARSETE, che gli
sarebbero stati di grandissimo giovamento se il loro capo, che godeva il favore della corte e che era venuto
per tener d'occhio Belisario sul cui conto a Costantinopoli si nutrivano alcuni sospetti originati e alimentate
da interne gelosie, fosse andato d'accordo con il generalissimo.
Narsete invece mostrò, fin dal suo arrivo in Italia, di volersi considerare un pari in grado a Belisario e di voler
far prevalere il proprio pensiero sulla condotta della guerra, e tra i due capi nacque subito una discordia che
doveva recare gravissimi danni alle operazioni militari. I primi segni di questa discordia si ebbero a Fermo,
dove Belisario e Narsete si riunirono in consiglio per esaminare la situazione. Belisario era dell'avviso che si
dovesse investire Osimo, espugnatala, poi marciare su Rimini; Narsete al contrario sosteneva che si doveva
correre subito a Rimini, dove Giovanni correva pericolo di essere sopraffatto dall'esercito di Vitige. Prevalse
l'opinione di Narsete. Belisario mandò mille uomini contro Osimo, che era difesa da una guarnigione di
quattromila Goti, il resto delle sue truppe l'avviò, parte per via terra parte per via mare, verso Rimini. Lui e
Narsete con una colonna leggera precedettero l'esercito. Vitige non li aspettò: avendo saputo che una
flottiglia bizantina era comparsa davanti a Rimini ed avendo ricevute notizie esagerate sulle forze di Belisario
che avanzava, sbigottito lasciò l'assedio e si ritirò a Ravenna.
A Rimini la discordia tra Belisario e Narsete si fece più rabbiosa. Il primo voleva che parte dell'esercito fosse
impiegata nell'espugnazione delle città dell' Italia centrale ancora in potere dei Goti e parte fosse mandata in
soccorso di Milano, il secondo invece voleva l'occupazione dell' Emilia per poi al Vitige dargli battaglia a
Ravenna. Non riuscendo i due generali a mettersi d'accordo, Narsete con Giovanni si diresse verso l' Emilia,
mentre Belisario rivolse le sue forze contro Orvieto.
Le discordie dei comandanti bizantini causarono la rovina di Milano. I trecento uomini che ne formavano la
guarnigione dovettero capitolare ed ebbero salva la vita, ma la popolazione, in numero di trecentomila secondo le esagerate notizie di Procopio - fu trucidata, eccettuate le donne bellocce che furono regalate ai
Borgognoni. La città fu rasa al suolo (539).
Questo disastro e le proteste di Belisario, provocarono il richiamo di Narsete a Costantinopoli. Rimasto a
capo di tutte le forze bizantine in Italia, Belisario diede maggiore impulso all'assedio di Osimo, mandò alcune
schiere ad assediare Fiesole e stabili un campo trincerato a Tortona.
Fu in questo periodo che TEODEBERTO scese dalle Alpi con un esercito di centomila uomini e dal
momento che era alleato di Vitige ma nello stesso tempo di Giustiniano, sia i Goti che i Bizantini erano
convinti che fosse venuto in loro aiuto. Ma ben presto furono disingannati: il re franco era sceso né per gli
uni né per gli altri, ma solo per saccheggiare e forse per ridurre in suo potere quanta più parte dell'Italia
potesse, obbligando i Goti a chiudersi a Pavia e i Bizantini di Tortona a raggiungere Belisario ad Osimo o le
schiere che stringevano Fiesole.
Belisario che vedeva frustrata tutta la sua opera da quella invasione, scrisse a Teodeberto minacciandolo
della collera dell'imperatore, ma più che le minacce valse il clima a liberare l'Italia dalle razzie dei Franchi,
che, mietuti dalla dissenteria, se ne tornarono di là dalle Alpi.
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Correva l'anno 539. Fiesole cadeva in potere dei Bizantini ed Osimo, dopo sette mesi di assedio, capitolava,
e la guarnigione ostrogota passava al servizio di Belisario. Questi allora riuscì con quasi tutte le sue forze a
stringere Vitige dentro Ravenna.
La situazione degli Ostrogoti peggiorava di giorno in giorno. Le diserzioni si facevano sempre più numerose
e i viveri sempre più scarsi. A ciò si aggiunga un furioso incendio che bruciò i magazzini di grano, provocato
dalla caduta di un fulmine o - come si disse - dall' infedele moglie del re. Il quale, non potendo, con le sole
sue forze, sperare di salvarsi, cercò di migliorare la sua situazione con l'aiuto altrui.
Sollecitò pertanto l'alleanza con i Longobardi, che erano stanziati nei presso il Danubio; ma questo popolo,
per non alienarsi con Giustiniano con cui era in buoni rapporti, rifiutò la proposta. Allora Vitige inviò
ambasciatori al re di Persia Cosroe e riuscì con quest'abile mossa a spaventare l'imperatore il quale, non
potendo sostenere due guerre, ritenne opportuno di trattare la pace con gli Ostrogoti. Per mezzo di due
ambasciatori, DOMENICO e MASSIMINO, chiese che Vitige gli cedesse metà del tesoro e l' Italia a sud del
Po. A Vitige lasciava l'altra metà del tesoro, il titolo regio e la Transpadana. Erano condizioni umilianti,
eppure gli Ostrogoti, tormentati dalla fame e sfiduciati, le accettarono e - come aveva indicato Giustiniano- si
rivolsero a Belisario per la stipulazione del trattato.
Ma Belisario si rifiutò. Egli sapeva in che tristi condizioni si trovava il nemico, ed era sicuro che presto si
sarebbe arreso a discrezione, e quindi sognava di tornare vittorioso a Costantinopoli dopo aver riconquistata
tutta l'Italia. Belisario non s'ingannava sulla debolezza dei suoi avversari, ma non avrebbe mai pensato che i
Goti avrebbero deposte le armi offrendo proprio a lui la corona.
Così infatti fu. Vitige non aveva corrisposto alle speranze; sebbene valoroso soldato, non era stato un abile e
fortunato condottiero. Essi invidiavano ai Bizantini Belisario, il generale che tanti rapidi successi aveva
ottenuto, l'uomo che aveva conquistato il regno vandalico, che con un pugno di uomini aveva saputo
difendere Roma e ridurre agli estremi un popolo tanto potente. Sotto la guida di tale condottiero gli Ostrogoti
sarebbero risorti dalla rovina e sarebbero stati ancora una nazione forte e temuta. Chi meglio di lui dunque.
Gli Ostrogoti inviarono messi a Belisario, dichiarandosi pronti a cedere la città e a dargli la corona se
prometteva di rispettar la loro vita e i loro beni.
Belisario promise agli assediati quel che chiedevano; quanto ad accettar la corona affermò che ne avrebbe
parlato con Vitige. Allora Ravenna apri le porte (dicembre del 539) e Belisario occupò la città. Narra
Procopio che le donne gotiche vedendo lo scarso numero di Bizantini e la loro piccola statura, sdegnate,
sputarono contro i loro mariti accusandoli di viltà.
Belisario mantenne le promesse: con ordini severissimi impedì che la città fosse saccheggiata e il nemico
maltrattato; mandò liberi gli Ostrogoti, ma s'impadronì del tesoro regale e trasse prigionieri Vitige e i suoi
nobili. A prender le insegne regie non pensò neppure: egli era e volle rimanere un fedele soldato
dell'imperatore. Vedremo più tardi come la sua fedeltà e i suoi servizi segnalati furono ricompensati dal suo
ingrato sovrano.
Erano trascorsi pochi mesi da questa felice conclusione, quando nel 540 Belisario fu richiamato a
Costantinopoli per assumere il comando della guerra contro i Persiani e allora i Goti - non sapendo quali
intrighi si erano messi in moto a Ravenna - si accorsero di essere stati ingannati. Il generale lasciò Ravenna,
conducendo con sé VITIGE, AMATASUNTA e i nobili prigionieri. Ancor una volta Belisario - lui era convinto
di questo- tornava a Costantinopoli carico di gloria;anche se la sua vittoria non era stata completa; perché il
suo richiamo lasciava l' Italia settentrionale in potere dei Goti i quali, indignati dalla malafede del vincitore,
già, prima che lui partisse, avevano mostrato il deciso proposito di muovere alla riscossa. Ed è quello che
leggeremo nel prossimo capitolo
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
WACHER -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
LA GUERRA GOTICO-BIZANTINA - TOTILA - NARSETE ( dal 540 AL 567 )
TOTILA - SUOI ATTI DI GOVERNO - TOTILA RITOGLIE AI BIZANTINI L' ITALIA MERIDIONALE BELISARIO TORNA IN ITALIA - ROMA NUOVAMENTE ASSEDIATA DAI GOTI - BELISARIO AL
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SOCCORSO DI ROMA - ROMA PRESA DA TOTILA E RIPRESA DA BELISARIO - TOTILA IN SICILIA RICHIAMO DI BELISARIO - GERMANO - NARSETE IN ITALIA - BATTAGLIA DI TAGINA - MORTE DI
TOTILA - TEIA - BATTAGLIA DEL MONTE LATTARO E FINE EROICA DI TEIA - L' INVASIONE FRANCOALEMANNA - ORDINAMENTO MILITARE E CIVILE D'ITALIA - IL MONACHESIMO E S. BENEDETTO
---------------------------------------------------------TOTILA
Partito Belisario, rimase a capo delle poche milizie bizantine in Italia COSTANZIANO, giunto poco prima
dalla Dalmazia. Ma costui non era un uomo che sapesse tenere a freno le soldatesche. Queste dipendevano
soltanto di nome da lui, di fatto, dipendevano dai comandanti preposti ai distretti e si comportavano con
gl'Italiani come se questa fosse gente conquistata anziché liberata dal giogo dei barbari. Le truppe, non
pagate, si rifacevano sulla popolazione, che, immiserita dalla guerra, veniva ora non solo dissanguata dalla
voracità degli ufficiali bizantini, ma ridotta alle estrema miserie dall'avidità crudele dei riscuotitori delle
imposte. Le cose in pochissimo tempo erano arrivate a tal punto che gli Italiani rimpiangevano quasi il
dominio degli Ostrogoti.
Le sorti di questi intanto andavano rialzandosi. I capi goti dell'alta Italia, quando ancora non era partito
Belisario da Ravenna, avevano offerto la corona ad URAIA, il conquistatore di Milano, ma il capo goto
l'aveva rifiutata per riguardo allo zio prigioniero Vitige ed aveva consigliato di proclamare re ILDIBADO,
nipote di TEUDI, sovrano dei Visigoti.
Ildibado che allora comandava il presidio di Verona, aveva accettato e, radunato un piccolo esercito con i
Goti dell'Alta Italia e con quelli affluiti oltre il Po dopo la resa di Ravenna, aveva affrontato presso Treviso e
sconfitto VITALIO, comandante militare dell'Illirico e, con lui, un corpo di ausiliari eruli, comandato dal re
VISANDO che rimase ucciso.
La guerra di riscossa iniziava con un successo; ma di questo non riuscì a cogliere i frutti Ildibado. La gelosia
aveva reso nemiche la moglie di Uraia e la regina. Vittima ne fu Uraia che fu ucciso da Ildibado sotto
pretesto di cospirazione. La morte del valoroso capo goto provocò l'indignazione di quanti ne conoscevano
le virtù militari e sarebbe scoppiata una rivolta se non l'avesse prevenuta un gepido, di nome VILA, che, per
vendicarsi di un affronto patito, nella primavera del 541, uccise a tradimento il re mentre era a mensa.
Morto Ildibado, i Rugi gridando proclamarono re ERARICO, che la maggior parte dei Goti lì presenti accettò.
Mentre la guarnigione di Treviso, di cui era a capo BADUILA, nipote del morto re, soprannominato TOTILA,
non volle riconoscerlo. Questi anzi entrò in trattative con COSTANZIANO, offrendosi di passare nelle sue file
con i suoi e di consegnare Treviso; ma i patti, che Costanziano aveva accettato, non ebbero esecuzione.
Erarico, che non brillava per il suo coraggio, desideroso di formarsi un piccolo stato nell'Italia settentrionale e
di vivere in pace con i Franchi e con i Bizantini, fu ucciso dopo cinque mesi di regno e la corona fu offerta a
TOTILA, che, accettatala, non si curò più di eseguire i patti stipulati con Ravenna (autunno del 541).
Finalmente i Goti avevano un re capace di rialzare le loro sorti. Il suo soprannome, che vuol dire immortale,
attesta quanto fosse il valore di lui e in che conto lo tenesse il suo popolo. Egli non solo si mostrò soldato
coraggioso ed abilissimo condottiero, ma anche ottimo uomo politico con ottime intuizioni. Egli si rese subito
conto delle condizioni dell'Italia, crudelmente taglieggiata dai Bizantini, e volle trarne profitto.
I Bizantini erano venuti in Italia per liberarla dai barbari e si erano invece dati ad eccessi, a spoliazioni, a
tributi esosi, favorendo i latifondisti e premendo la mano sulle classi meno abbienti. Totila - che in questo
caso si dimostrò di essere meno "barbaro" dei bizantini- capì che per reggersi in Italia era necessario avere il
favore della popolazione e seguì una politica opposta a quella che avevano tenuta i Bizantini, gravando di
tributi i grossi proprietari, confiscandone spesso i beni, favorendo i contadini e i coloni ed accettando nel suo
esercito gli schiavi. Era la vecchia politica di Teodorico che, per opera di Totila, tornava in vigore e che la
cavalleresca generosità del re e il malgoverno bizantino rendeva più gradita.
Non meno abilità Totila dimostrò di possedere nel condurre la guerra contro i Bizantini. Egli non volle, come
Vitige, logorare le sue forze in assedi che davano buon giuoco al nemico, ma volle dominare le campagne,
isolare le città di difficile conquista in potere dei Bizantini, impadronirsi di quelle che erano scarsamente
difese e di quelle espugnate demolire le fortificazioni. Lui preferiva la guerra di attacco, di movimento, non
quella di difesa.
La ripresa della guerra bizantino-gotica cominciò con l'assalto di Verona da parte dell'esercito di Costanziano
forte di dodicimila uomini. Gli Ostrogoti si difesero con tanta bravura che i Bizantini furono costretti a ritirarsi
a Faenza ed allora Totila, che aveva potuto raccogliere intorno a sé cinquemila guerrieri, prese l'offensiva e
marciò risolutamente contro il nemico, che battuto in aperta campagna, nonostante la superiorità numerica
delle sue forze, dovette chiudersi nella città.
Avute, dopo questo successo, alcune città della Romagna, Totila valicò l'Appennino e passò in Toscana con
il proposito di portarsi nel mezzogiorno d'Italia dove poteva procurarsi maggiori quantità di vettovaglie. Nella
primavera del 542 sconfisse per la seconda volta il nemico nel Mugello, ma un tentativo di prender d'assalto
Firenze fallì. Lasciate in mano dei Bizantini Ravenna, Spoleto, Perugia e Roma, la cui conquista richiedeva
lungo tempo e forze maggiori di quelle di cui disponeva, il re ostrogoto si diresse verso la Campania e il
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Sannio, occupò Benevento le cui mura smantellò, poi si spinse nell'Apulia e nella Calabria mentre un parte
del suo esercito, che di giorno in giorno si faceva più numeroso, si fermava ad assediar Napoli, della quale
Totila intendeva fare la sua base per una futura operazioni contro Roma.
Napoli, difesa da mille uomini al comando di CONONE, aveva un'importanza grandissina per Bizantini.
Giustiniano, non volendo perderla, mandò in aiuto della piazza DEMETRIO e MASSIMINO; ma né l'uno né
l'altro riuscirono a soccorrere la città. La flotta, che il primo aveva potuto raccogliere nei porti della Sicilia,
cadde addirittura nelle mani degli Ostrogoti; e sorte peggiore ebbe quella di Massimino che, spinta sulla
costa da una furiosa tempesta, subì gravi danni e in gran parte dopo essere sbarcata in condizioni pietose,
fu catturata tutta dal nemico. Napoli, tormentata dalla fame, capitolò, probabilmente nell'aprile del 543.
La caduta di quasi tutta l'Italia meridionale in mano degli Ostrogoti, il pericolo che minacciava Roma e
l'impotenza dei comandanti bizantini che si trovavano nella penisola fecero sì che l'attenzione di
GIUSTINIANO si rivolgesse -una buona volta- su questa guerra.
Per far fronte al nemico occorreva mandare truppe in Italia con un generale di grande autorità e di provata
capacità.
La scelta cadde nuovamente su Belisario, ma il vincitore di Gelimero e di Vitige non era più l'uomo di una
volta. Di ritorno da Ravenna nel 540, gli era stato negato il trionfo; caduto in disgrazia dell'imperatore,
perseguitato dall'imperatrice, tradito dalla moglie Antonina che aveva fatto imprigionare per infedeltà e che
aveva dovuto rimettere in libertà per imposizione di Teodora (che ne era amica), aveva assunto il comando
della guerra persiana in tali condizioni di spirito che non gli avevano permesso di dedicarle serenamente
tutta la sua attività; accusato di essersi impadronito di metà del tesoro goto e richiamato a Costantinopoli,
aveva visto sciogliere la sua guardia, era stato privato di gran parte dei suoi beni, ed abbandonato dagli
amici. Non aveva ancora quarant'anni, ma le tristi vicende della vita e la nera ingratitudine degli uomini lo
avevano reso vecchio.
A quest'uomo, quando tutto parve perduto in Italia, ricorse ancora Giustiniano. Gli restituì parte dei beni e gli
diede la carica di generalissimo della guerra d'Italia, ma non lo fornì di truppe né di denari e gli permise di
reclutare solo soldati purché li mantenesse a sue spese.
Malgrado queste condizioni che non potevano fare sperare in un buon esito, Belisario accettò e,
dimenticando le offese ricevute, partì per la Dalmazia dove raccolse un corpo di quattromila Illirici che
condusse a Salona e poi a Pola.
Si trovava in questa città quando seppe che Totila marciava su Roma ed espugnava Tivoli facendo strage
della popolazione. Belisario avrebbe voluto correre in soccorso della metropoli ma era privo di denaro e non
aveva truppe sufficienti; si decise quindi ad andare a Ravenna, sperando di poter richiamare alcuni suoi
vecchi soldati. Perse invece quelli che aveva condotti da Pola: gl'Illirici, malcontenti perché le paghe non
erano state loro date, avendo saputo che gli Unni minacciavano d'invadere le loro terre, abbandonarono
Belisario e se ne tornarono al loro paese.
Rimasto a Ravenna, Belisario era costretto all'inazione. E intanto Totila si rendeva padrone di Assisi, di
Spoleto, la cui guarnigione passava al servizio dei Goti, di Chiusi, di Ascoli, di Fermo e di Osimo, faceva
occupare i passi dell'Appennino e alla fine dell'estate del 545 assediava Roma.
Comandava lo scarso presidio bizantino della metropoli un certo BESSA, ufficiale avidissimo, il quale,
approfittando della penuria dei viveri, vendeva per conto suo alla popolazione civile a prezzi favolosi il grano
dei magazzini militari. Molti cittadini, non potendo sopportare la fame e non avendo mezzi per acquistare
viveri da Bessa, erano stati costretti ad uscire dalla città e questa, stretta sempre più dai Goti, che avevano
occupato Ostia, si trovava in una situazione difficilissima.
Belisario non aveva mancato d'informare l'imperatore dello stato delle cose e perché gli fossero inviati aiuti
d'uomini e di denaro era stato costretto a richiederli per mezzo di quel GIOVANNI che aveva, nella prima
guerra, occupato Rimini e che, per le potenti relazioni che aveva alla corte, poteva molto ottenere da
Giustiniano.
Saputo che Giovanni aveva ottenuto rinforzi, Belisario gli corse incontro a Durazzo ma qui ricominciarono le
discordie tra i due generali. Belisario voleva che le truppe fossero per mare condotte alla foce del Tevere e
di là, lungo il fiume, al soccorso di Roma; Giovanni sosteneva ch'era meglio guerreggiare prima i Goti
nell'Italia meridionale da dove con più probabilità di successo si sarebbe potuto poi marciare in aiuto di
Roma.
L'accordo non poté essere raggiunto. Giovanni, presa terra a Brindisi, diede battaglia ai Goti, li sconfisse ed
occupò la città. In breve le Puglie e la Terra d'Otranto caddero in suo potere; la stessa sorte toccò alla
Lucania e il Bruzio; ma della Campania rimasero padroni i Goti, e Giovanni, che avrebbe dovuto risalire
verso Roma, giunto a Reggio scrisse all'imperatore di avere riconquistata tutta l'Italia meridionale.
Belisario invece, con le magre forze di cui disponeva, per la via di mare si recò a Porto e vi si rafforzò
aspettando il momento propizio per inviare vettovaglie e penetrare egli stesso in Roma. Non era però cosa
facile. Libera, non era la via del fiume, il cui passaggio era stato in un punto ostruito da Totila con una catena
e un ponte galleggiante difeso nelle opposte rive, da due torri di legno.
Deciso a soccorrere Roma, Belisario ideò un piano audace: bruciare le torri, togliere la catena, distruggere il
ponte, dar battaglia al nemico con l'aiuto di Bessa ed aprirsi la via per la metropoli. Congiunti due barconi per
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mezzo di tavole, vi fece costruire una torre che riempì di uomini muniti di materie infiammabili e, ordinato a
Bessa di uscire da Roma con una schiera per prestargli man forte, risalì con le barche la corrente del
Tevere. A Porto aveva lasciato la moglie Antonina e il grosso delle sue truppe comandate da ISAACE con
l'ordine assoluto di non muoversi. I barconi erano tirati con corde da uomini procedenti lungo le rive, scortati
da fanti e cavalieri; dietro veniva una flottiglia carica di vettovaglie.
L'impresa ebbe inizio felice: una delle due torri fu incendiata, il ponte rotto e la catena levata. Sorpreso da
una schiera di Goti mentre stava per dare l'assalto alla seconda torre, Belisario diede battaglia ed ebbe
ragione del nemico che fu respinto lasciando sul campo duecento dei suoi. La via di Roma era aperta e se
gli ordini di Belisario fossero stati eseguiti la metropoli avrebbe ricevuto i rinforzi e le vettovaglie. Ma Ressa
non si mosse, preferendo dedicarsi al suo illecito lucro; Isaace, quando seppe del successo iniziale della
spedizione, venendo meno alla consegna, traversata con cento cavalieri l'Isola sacra, si gettò su Ostia e se
ne impadronì. Sopraggiunti però numerosi Goti, fu sconfitto e catturato. La notizia ingrandita da questo fatto
troncò a mezzo l'impresa di Belisario. Credendo che Porto fosse caduta in potere del nemico e temendo di
essere assalito alle spalle, il generale fece ritorno e fu tale la sua disperazione, quando vide che le cose
erano diverse da quelle che gli erano state riferite, che fu preso da una violenta febbre, la quale gl'impedì di
ritentar la prova.
Poco tempo dopo, il 17 dicembre del 546, Roma cadeva in mano di Totila. Quattro Isaurici di guardia alla
porta Asinaria; indignati dalla condotta di Bessa che mentre si arricchiva alle spalle dei cittadini lasciava
senza paga la guarnigione, consegnarono per denaro la città al nemico. Il presidio fece appena a tempo ad
uscire da un'altra porta e Bessa dovette lasciare le grosse somme illecitamente accumulate. Appena entrati
in Roma i Goti, cominciarono le uccisioni e il saccheggio. Già ventisei soldati e sessanta cittadini erano stati
uccisi per le vie, quando Totila, pregato dal diacono PELAGIO, che sostituiva papa Vigilio, allora in viaggio
per Costantinopoli, impartì ordine che la vita e gli averi della popolazione dovevano esse rispettate; e la
strage cessò.
Presa Roma, Totila tentò di venire ad un accordo con Giustiniano e gl'inviò come ambasciatore Pelagio. Il
goto prometteva devozione ed ubbidienza e chiedeva di essere riconosciuto re d'Italia, minacciava però di
distruggere Roma se le proposte di pace non erano accettate.
Giustiniano gli rispose di rivolgersi a Belisario. Essendo questi per la guerra ad oltranza, la risposta
dell'imperatore equivaleva ad un rifiuto. Allora Totila si vide costretto a muovere verso l'Italia meridionale
contro i Bizantini, ma non avendo forze sufficienti per lasciare a Roma una guarnigione deliberò di abbattere
le mura. L'opera di demolizione era iniziata quando una lettera di Belisario aveva impedito che fosse
condotta a termine. Fra le altre cose il generale bizantino scriveva al re: "…Vuoi tu passare alla storia come
il distruttore piuttosto che come il preservatore della più grande e più bella città del mondo?…"
Impressionato da queste parole, Totila fece sospendere la demolizione delle mura, ordinò che gli abitanti
abbandonassero la città, lasciò sui monti Albani un piccolo presidio e, conducendo con se in ostaggio i
senatori, parti per il mezzogiorno d' Italia.
Per circa un mese e mezzo Roma rimase deserta, poi Belisario, approfittando dell'assenza di Totila, lasciati
a guardia di Porto alcuni manipoli, si spinse verso la città, sconfisse facilmente la guarnigione dei monti
Albani che, al suo avvicinarsi, era corsa a difendere la vuota metropoli, e se ne impadronì. Sua prima cura fu
di restaurare le mura e in quest'opera impiegò i soldati e i cittadini che si erano affrettati a ritornare (547).
Non fu un lavoro inutile, perché Totila, che nel frattempo era stato nella Lucania, marciò su Roma e tentò di
riconquistarla. Non vi riuscì: tre volte diede l'assalto alle mura e tre volte ne fu respinto con gravi perdite e
alla fine fu a ritirarsi a Tivoli.
Questa brillante difesa di Roma non migliorò però le condizioni di Belisario e dei Bizantini. A circa ventimila
uomini ascendevano i soldati che Giustiniano aveva in Italia; di questi una parte presidiava Ravenna,
Ancona, Perugia, Roma, Spoleto, e una parte era con Giovanni nel mezzogiorno. Mancava l'unità di
comando, non erano cessate le discordie tra i capi, il contegno delle truppe aveva suscitato il malcontento
delle popolazioni meridionali. Per tutte queste ragioni la guerra non poteva esser condotta seriamente né
dare buoni risultati. Cominciò anzi a volgere in favore dei Goti, che, penetrati nel Bruzio, posero l'assedio a
Rossano. Accorse in suo aiuto Belisario, ma la sua presenza, non valse a salvarla: costretta dalla fame, la
città capitolò (548).
Sconfortato dalle vicende di una guerra ingloriosa e dall'abbandono in cui era lasciato dall'imperatore,
Belisario tentò un'ultima volta di ottenere aiuti da Giustiniano e mandò a Costantinopoli la moglie. Questa
sperava molto dall'amicizia dell'imperatrice; ma Teodora era morta il primo di luglio del 548 e ad Antonina
non rimase che di chiedere il richiamo del marito.
L'uomo che tanti servizi aveva reso all'impero tornava, nel 549, nella capitale. Vittima della gelosia dei suoi
rivali e dell'ingratitudine del suo sovrano, si ritirava a vita privata per trovarvi quella pace che le vicende
politiche e militari non gli avevano data.
Ma il suo braccio pur ancora utile al suo imperatore, ancora una volta il suo animo doveva provar l'amarezza
dell'ingratitudine. Nel 559, minacciato da un'invasione di Unni, Giustiniano ricorreva a Belisario, e questi,
dimenticando generosamente tutto ciò che era stato fatto contro di lui, raccolte alcune schiere di veterani,
marciava contro il nemico e lo sconfiggeva. La vittoria però non gli procurava il meritato trionfo. L'imperatore
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vecchio e geloso del suo salvatore, lo richiamava, e prestando ascolto agli invidiosi, che accusavano il
generale di cospirazione, lo privava degli averi.
Glieli restituiva, pentito, alcuni mesi dopo (563); ma Belisario non doveva goderli per molto tempo. Nel 565,
affranto più dalle dolorose vicende che dagli anni - ne contava solo sessanta - moriva, precedendo di nove
mesi nella tomba il sovrano che con tanta fedeltà e tanto valore aveva servito e dal quale con tanta
ingratitudine era stato ricompensato.
NARSETE IN ITALIA - TEIA - FINE DEI. REGNO OSTROGOTO IL MONACHEISIMO E S. BENEDETTO
La partenza di Belisario dall'Italia, diede nuovamente Roma nelle mani di Totila. Nella città vi erano circa
tremila soldati bizantini sotto il comando di DIOGENE ch'era successo a CONONE, ucciso dalle milizie per la
sua ingordigia. Diogene era un valoroso capitano, ma fra i suoi soldati, non pagati ed affamati dopo che
Porto era stata presa dai Goti, serpeggiava un grande malcontento.
Come nel 546, così nel 549 alcune sentinelle isauriche consegnarono la città al nemico. Questa volta i Goti
entrarono per la porta S. Paolo; numerosi Bizantini caddero trafitti dalle armi nemiche, Diogene riuscì a
salvarsi con un certo numero dei suoi; quattrocento Bizantini, asserragliatisi nella Mole Adriana furono
costretti dalla fame ad arrendersi e passarono poi al servizio di Totila.
Essendo tornato in possesso di quasi tutta la penisola, eccettuate alcune città, fra cui Reggio, Centocelle,
Ancona e Ravenna, TOTILA decise di occupare la Sicilia. Riunite le navi catturate ai Bizantini e costruiti
quattrocento piccoli legni, passò lo stretto lasciando alcune schiere all'assedio di Reggio che non tardò a
capitolare. Messina oppose valida resistenza. Totila per non perdere tempo, bloccò la città per terra e per
mare e mandò il resto delle sue truppe nell'interno dell'isola che fu conquistata facilmente. I Siciliani,
colpevoli di aver consegnata l'isola a Belisario, furono trattati duramente dai Goti che ne saccheggiarono
senza pietà le città e le campagne.
La conquista della Sicilia e le continue pressioni degli esuli italiani e del papa Vigilio, che si trovavano a
Costantinopoli, spinsero GIUSTINIANO a riprendere con più determinazione la guerra gotica. Fu scelto un
nuovo generalissimo: GERMAMO, presunto erede al trono imperiale, che nel 542, morto VITIGE, aveva
sposato in seconde nozze la vedova AMATASUNTA.
Giustiniano si riprometteva di trarre non lievi vantaggi da questa scelta poiché sperava che il marito
dell'ultima principessa gotico-amala avrebbe influito molto sugli Ostrogoti.
I preparativi della spedizione furono fatti con alacrità e senza badare a spese, ma prima che fossero
terminati Germano morì a Sardica (550). Le truppe che fino allora erano state raccolte rimasero durante
l'attesa a Salona, in Dalmazia. La morte di Germano non interruppe i preparativi e di questi dovette
certamente aver sentore Totila, il quale tentò ancora un accordo con l'imperatore, prospettandogli il pericolo
dei Franchi che si erano affacciati sull'Italia settentrionale e dichiarandosi pronto a cedere la Sicilia e la
Dalmazia e a pagare un tributo. Ma Giustiniano non volle neppure ricevere gli ambasciatori e a sostituire
Germano chiamò l'eunuco NARSETE.
Allora TOTILA intensificò le operazioni di guerra: inviò una flotta contro la Sardegna e la Corsica che
caddero facilmente in potere dei Goti; per intimorire l'imperatore inviò un'altra flotta di trecento navi a Corfù e
sulle coste dell'Epiro che furono devastate; infine si recò ad assediare Ancona. In aiuto di questa città
corsero da Ravenna VALERIANO e dalla Dalmazia GIOVANNI con un buon numero di navi, le quali,
scontratesi nelle acque di Senigaglia con la flotta gotica, la sconfissero catturando la maggior parte dei legni.
Questa battaglia aveva luogo nel 552; nello stesso anno Narsete, dopo di avere sconfitto a Filippopoli
un'orda di Unni, raggiungeva a Salona le soldatesche in questa città raccolte da Germano.
Narsete conduceva con sé un forte contingente di milizie composte da Traci, Illirici, Eruli, Gepidi, Persiani,
Unni e una schiera di duemilacinquecento Longobardi comandati da AUDOINO. Non volendo affrontare il
mare per timore di cadere in qualche insidia che le navi gotiche avrebbero potuto tendergli, Narsete prese la
via di terra; ma Verona fortemente presidiata dai Goti comandati dal prode TEIA e dai Franchi che
occupavano alcune città venete, mandò a dire che avrebbe rifiutato il passaggio alle truppe bizantine, con le
quali erano i Longobardi loro fieri nemici. A quel punto Narsete prese la via mare, costeggiò l'Adriatico e
indisturbato giunse a Ravenna.
Qui Narsete si fermò nove giorni per dar riposo all'esercito; il decimo si mise in marcia verso Rimini sotto le
cui mura sconfisse la guarnigione ostrogota uccidendone il comandante USDRILA. Da Rimini proseguì il
cammino per la via Flaminia, ma saputo che il passo del Furlo, fortezza naturale inespugnabile, era difeso
dal nemico, passò l'Appennino in un altro punto e si fermò nel piano tra "Busta Gallorum" (presso Scheggia)
e Tagina (Gualdo Tadino) dove Totila, venuto da Roma e raggiunto da una parte della truppe di Teia,
l'aspettava.
In questa pianura ebbe luogo la prima grande battaglia tra l'esercito di Narsete e quello di Totila. II
generalissimo bizantino fece occupare da cinquanta uomini, che per tutta la giornata lo tennero eroicamente
contro i ripetuti assalti nemici, un piccolo colle al quale appoggiò l'ala sinistra del suo schieramento formata
da cinquecento cavalieri e quattromila arcieri appiedati. Altrettanti arcieri pose all'ala destra e nel centro le
milizie barbariche fiancheggiate dalle truppe romane; mille cavalieri lasciò in riserva dietro le linee.
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I primi ad attaccare furono i Goti. Riconoscendo la grande importanza del colle, Totila cercò
d'impadronirsene e lanciò all'assalto di quella posizione parte della sua cavalleria, ma non fu possibile
vincere l'ostinato eroismo del manipolo che ne teneva la cima. Non miglior fortuna ebbero al piano le fanterie
e il resto della cavalleria di Totila, cui gli arcieri di Narsete inflissero gravissime perdite.
L'entrata in azione dei Longobardi e degli Eruli decise le sorti della. battaglia. Il loro impeto fu così grande
che la cavalleria gotica volse le spalle e si desse a precipitosa fuga travolgendo i fanti. Lo stesso re TOTILA,
che aveva combattuto da prode, trascinato dalla furia dei fuggiaschi, fu ferito gravemente e, trasportato nella
capanna di un villaggio detto Caprae (forse Caprara) vi morì (luglio del 552).
I Longobardi, durante il combattimento, avevano dato prova di grandissima bravura; dopo la battaglia si
fecero notare per la loro ferocia che si abbatté sulle innocenti popolazioni. Furono tali e tanti gli atti di
barbarie che commisero sugli averi e sulle persone che Narsete pensò di sbarazzarsene e, dopo averli
pagati generosamente, li rimandò oltre le Alpi sotto una buona scorta al comando di Valeriano.
Dopo la battaglia di Gualdo Tadino gli Ostrogoti superstiti si radunarono a Pavia che ora era diventata la più
importante città del loro regno, e qui acclamarono re TEIA, il più valoroso dei loro capitani.
A fronteggiare i Goti dell'alta Italia e a impedire loro che scendessero nel centro della penisola, Narsete inviò
Valeriano; che con parte del suo esercito si rivolse contro le città dell'Italia centrale occupate dai Goti e
distaccò alcune schiere nel mezzogiorno perché scacciassero da questi territori il nemico.
Ben presto caddero in potere dei Bizantini: Narni, Spoleto, Perugia, il passo del Farlo, Nepi e Porto. Roma fu
investita e dopo una serie di piccoli assalti fu conquistata di sorpresa: l'esiguo presidio gotico, ridottosi entro
la Mole Adriana, dopo breve e vana resistenza, si arrese.
La presa di Roma fu seguita da feroci atti di rappresaglia da parte degli Ostrogoti un ragguardevole numero
di nobili e senatori romani, che dalla Campania ritornavano alla città loro, sorpresi durante il viaggio, furono
trucidati e trecento giovinetti, che erano in ostaggio nell'Italia settentrionale, subirono, per ordine di Teia, la
medesima sorte.
TEIA intanto riorganizzava il suo esercito e, tentato invano di procurarsi l'alleanza dei Franchi, se ne
assicurava la neutralità, cedendo loro quella parte del tesoro regio razziato a Pavia. Quando seppe che i
Bizantini assediavano Cuma, dove si trovava suo fratello ALIGERNO, con il resto del tesoro, nell'autunno del
552 lasciò Pavia ed, eludendo abilmente la vigilanza di Valeriano, attraverso il Piceno e il Sannio, con una
marcia rapida e ardita non ostacolata dal nemico, giunse nella Campania. Sua mèta era Cuma, dove egli
intendeva riunirsi al fratello, ma, essendogli andato incontro Narsete, fu costretto a fermarsi, e si accampò
presso Nocera, sulle rive del Sarno, guardato dalle truppe bizantine accampate a poca distanza da lui.
Qui TEIA rimase circa due mesi. A vettovagliare le sue schiere pensava una flottiglia gota. Teia non aveva
fretta né interesse di assalire il nemico. Rifornito com'era di viveri e protetto dal fiume sulle cui rive, a
protezione del ponte, aveva fatto costruire due torri di legno, il re ostrogoto poteva comodamente aspettare
che i Bizantini gli dessero battaglia o meglio, nell'attesa, si logorassero. Ma la sua posizione si trovò ad un
tratto compromessa quando l'ufficiale che comandava la flottiglia consegnò le navi agli imperiali. Privo di
vettovaglie, Teia si vide costretto a sloggiare e si trasferì sulle falde del vicino monte Lattario, ma, non
trovando neppure qui da vivere, decise di venire ad una risoluzione per mezzo delle armi.
La battaglia fu combattuta nel marzo del 553 e in questa i Goti si comportarono eroicamente. Fu l'ultimo,
disperato sforzo di un popolo ridotto agli estremi, ma anche uno sforzo davvero epico che degnamente
chiudeva la storia di una nazione di guerrieri.
TEIA, dopo la cattiva prova fatta a Gualdo Tadino, lasciò indietro i cavalli e sul far dell'alba assalì
impetuosamente con tutte le sue forze i Bizantini, i quali, colti all'improvviso, non ebbero il tempo di ordinarsi.
La battaglia perciò fu affidata alla bravura personale dei soldati e la bravura dei capi non vi ebbe alcuna
parte.
I Goti combattevano per la loro salvezza; e i Bizantini per il proprio onore, che - al dir di Procopio - si
vergognavano di cedere di fronte ad un nemico di gran lunga inferiore di numero. I n prima. fila, fulgido
esempio di coraggio e di tenacia, TEIA diede prove mirabili del suo valore. Lui era il bersaglio degli imperiali
e nugoli di dardi si abbattevano su di lui, che li riceveva sull'ampio scudo: e quando questo era carico di
saette il re lo cambiava con un altro che un soldato era sollecito a porgergli. Per parecchie ore TEIA
combatté coraggiosamente, ma verso la fine del giorno, rimasto per un istante scoperto mentre cambiava lo
scudo, cadde mortalmente ferito e i Bizantini gli tagliarono la testa e, conficcatala sulla punta di una lancia, la
portarono in giro pel campo.
La notte divise i combattenti, ma il giorno dopo i Goti ritornarono all'assalto, e la battaglia si accese di nuovo
con grande violenza. Nonostante fossero rimasti senza capo, i Goti anche il secondo giorno si batterono
valorosamente, ma nulla poté il loro disperato eroismo contro il numero preponderante del nemico. Perduta
ogni speranza di vittoria, per mezzo di alcuni loro ufficiali chiesero ai Bizantini che li lasciassero liberamente
andare dalle loro mogli e nelle loro cose; Narsete concesse quanto chiedevano, ma volle che prima
giurassero che non avrebbero mai più riprese le armi contro l'impero.
Solo una schiera di mille Goti, comandata da INDULFO, si rifiutò di giurare e si ritirò a Pavia; degli altri non
tutti mantennero fede al giuramento: molti, invece di allontanarsi dall'Italia, si ritirarono in alcune città della
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Toscana e dell'Italia settentrionale, da dove poi chiesero a Teodebaldo, re dei Franchi, successore di
Teudeberto, di unirsi a loro per muover guerra ai Bizantini.
TEODEBALDO si rifiutò ma non volle o non poté impedire che l'impresa fosse fatta da due nobili fratelli
alemanni a lui soggetti, LEUTARI e BUCCELLINO, i quali raccolto, tra Franchi e Alemanni, un esercito di
settantacinquemila uomini calarono nello stesso anno 553 in Italia dove si unirono a parecchie migliaia di
Goti superstiti.
Narsete, lasciato un corpo di saldati ad assediare Cuma, in cui Aligerno faceva accanita resistenza, e
spedito verso Parma un altro corpo di milizie per opporsi all'avanzata dei nuovi nemici, con i resto delle sue
truppe si recò in Toscana, tolse ai Goti, Firenze, Volterra e Pisa e pose l'assedio a Lucca. Si trovava sotto le
mura di questa città quando le schiere mandate a Parma, scontratesi con i Franco-Alemanni, furono battute
e si ritirarono a Faenza.
La posizione di Narsete si faceva difficile, potendo egli essere colto all'improvviso dai Franco-Alemanni, sul
cui arrivo i Lucchesi contavano; ma il vecchio generale non si perse d'animo e rimase sotto le mura di Lucca
che, alla fine, dovette arrendersi.
Dalla Toscana Narsete si recò a Classe di Ravenna per sorvegliare le mosse del nemico e qui venne a fargli
atto di sottomissione ALIGERNO, il quale, sicuro di dover prima o poi cedere di fronte ai Franco-Alemanni o
ai Bizantini, preferì darsi a questi ultimi e passò al servizio dell'impero.
Intanto le orde franco-alemanne si avanzavano. Narsete non ritenne opportuno di contendere loro il passo: i
nemici erano numerosi e una sconfitta avrebbe gravemente compromessa la situazione dei Bizantini. Egli
sapeva, del resto, che i barbari erano scesi in Italia più per predare che per rimanervi; decise perciò di
restare inoperoso nell'attesa che i nemici partissero o che gli si presentasse il destro di infliggere loro una
disfatta. Fu costretto però a venire a battaglia presso Ravenna con un corpo di duemila nemici e li sconfisse;
poi si ritirò verso Roma.
Giunti nel Sannio, i Franco-Alemanni si divisero: una parte con Buccellino si spinse, attraverso la Campania
e la Lucania, fino al Bruzio, l'altra con Leutari invase, saccheggiandola, l'Apulia e avanzò fino ad Otranto.
Nell'estate del 554, volendo mettere in salvo il bottino fatto, Leutari prese la via del ritorno; ma giunto a
Pesaro dovette difendersi da un esercito bizantino e, sconfitto, lasciò la preda in mano ai vincitori e si affrettò
a riparare nel Veneto, dove l'orda fu orribilmente decimata da una grave pestilenza. La sorte che toccò a
Buccellino non fu migliore. Messosi sulla via del ritorno anche lui saputo che Narsete gli veniva contro, si
fermò sul Volturno e vi si rafforzò. Secondo lo storico Agazia, a trentamila uomini ascendeva il suo esercito e
a diciottomila quello dei Bizantini. La battaglia, che avvenne nell'autunno del 554, fu lunga e accanita.
Iniziatasi con buona fortuna per i Franco-Alemanni, terminò con la loro sconfitta grazie all'impetuoso assalto
degli Eruli, che erano al servizio di Narsete, comandati da Sindualdo.
BUCCELLINO cadde in combattimento; dei suoi uomini fu fatta strage. Settemila Goti che erano con lui,
scampati, si rifugiarono nel castello di Conza, a cinquanta miglia da Napoli, e lì tennero testa a Narsete per
circa un anno, ma alla fine del 555, si arresero con la promessa di aver salva la vita; furono fatti prigionieri e
mandati a Costantinopoli.
Con la resa di Conza i Goti scompaiono dalla storia come nazione; un certo numero, quelli che si erano dati
alla fuga, rimase sparso in Italia, e furono ben presto assorbiti dalla popolazione indigena, altri si unirono ai
Franchi dell'alta Italia e seguirono la sorte di questi ultimi.
La guerra gotico-bizantina, durata venti anni, finisce nel 555 e in questo stesso anno i Franchi, dopo qualche
successo sulle armi imperiali, furono da Narsete scacciati dalla Liguria e dalla Venezia. L'Italia è finalmente
riconquistata all'impero e può, dopo tante lotte, vivere in una relativa pace per circa undici anni.
Ma questa pace tra il 566 e il 567 sarà turbata ai suoi confini dalla rivolta degli Eruli posti da Narsete a
guardia delle Alpi Occidentali e nel 568 altri barbari, i Longobardi, caleranno alla conquista d'Italia. Finita, la
guerra si pensò a mantenere la conquista e a dare assetto all'Italia che rimase affidata a Narsete, con il titolo
di patrizio, e per l'amministrazione civile a un prefetto del pretorio. Nell'Italia settentrionale furono costituiti
dei distretti militari di frontiera, ognuno dei quali era retto da un dux e da ufficiali in sottordine detti tribuni ed
era custodito da truppe di confine (limitanei) formate da milizie regolari e da abitanti del paese.
Nel resto della penisola fu mantenuta l'antica divisione in province, con un comandante militare ("dux) di
nomina imperiale ed un governatore civile ("iudex) eletto dal vescovo e dai notabili. Le città continuarono ad
essere amministrate dalle curie sotto la direzione del "defensor, che aveva l'amministrazione della giustizia
civile e penale, e del "pater civitatis cui era affidato il pubblico patrimonio. Roma mantenne il prefetto di città
e il senato; Ravenna ebbe una costituzione propria; la Sicilia ebbe un governatore civile ("praetor) e un
comandante militare ("dux), dipendenti da Costantinopoli; la Sardegna e la Corsica furono poste alle
dipendenze del prefetto del pretorio d'Africa.
All'Italia furono applicate le leggi dell'impero oltre alcune particolari disposizioni, il cui compendio giunse sino
a noi sotto il nome di Prammatica sanzione. Questa, riconfermando gli editti dei primi re Ostrogoti, abrogava
tutti quelli di Totila perché non riconosciuto dall'imperatore. Furono perciò annullati tutti i provvedimenti presi
a favore dei piccoli proprietari e dei contadini, le proprietà confiscate ai latifondisti furono loro restituite e gli
schiavi ebbero ordine di tornare ai loro padroni. Agli antichi proprietari però non tornò il terzo delle terre che
era stato dai Goti sottratto agli Italiani, servì in parte al mantenimento dell'esercito, il resto fu ceduto alle
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chiese e dato in enfiteusi. Qualche provvedimento per alleviare la tristissima condizione economica degli
Italiani, prodotta dalla crisi monetaria, non mancò di esser preso: furono condonati gl'interessi dei debiti
contratti prima e durante l'invasione franca e fu concessa una proroga di cinque anni per il pagamento del
capitale. Ma questi furono provvedimenti che non migliorarono affatto le condizioni della popolazione su cui
gravava in non lieve parte il mantenimento delle truppe e il peso delle imposte, reso maggiore dall'avidità dei
giunti da Costantinopoli.
In nessun tempo l'Italia si era trovata in condizioni così misere. Venti anni di guerra l'avevano desolata. La
popolazione era spaventosamente diminuita a causa delle stragi, degli assedi, delle carestie e delle
pestilenze; parecchie città avevano terribilmente sofferto, Milano specialmente che era stata distrutta da
Uraia e che Narsete aveva in parte riedificata; Roma, provata dagli assedi e dai saccheggi, era quasi vuota
di abitanti e i suoi edifici cadevano in rovina; la rete stradale era in uno stato deplorevole, i ponti rovinavano,
i fiumi, lasciati senza argini, straripavano formando vaste paludi, scomparivano le piccole proprietà inghiottite
dalle chiese o dai latifondisti, immensi tratti di campagna erano deserti, campi un giorno rigogliosi e colline
verdeggianti di vigne si coprivano di boscaglie.
IL MONACHESIMO
Guerre, pestilenze, terremoti, inondazioni avevano riempito di costernazione e di spavento gli animi. Pareva
che dovesse venire presto la fine del mondo. Non deve quindi recar meraviglia che il pensiero si rivolgesse a
Dio, che molti cercassero un conforto a tanti malanni nella preghiera, e che molti altri fuggissero la vita delle
città e andassero in cerca di quiete e di sicurezza nei boschi e sui monti o si ritirassero nei chiostri.
Il monachismo, penetrato in Italia nel secolo V, vi ebbe una rapida diffusione nel secolo successivo. Gli
stanchi, gli sfiduciati, i paurosi, si diedero alla vita contemplativa e andarono a popolare i monasteri.
Ritiratosi dalla vita pubblica ed abbandonata la corte, all' età di sessant'anni, poco prima della caduta di
Vitige, anche CASSIODORO sentì il bisogno di un asilo sicuro e solitario
. Il suo sogno di una pacifica fusione dei Goti e dei Romani era tramontato; la politica non esercitava più per
lui nessun fascino, rappresentava anzi un pericolo e una distrazione degli studi, cui ora egli voleva dedicare
la vecchiaia. Rifugiatosi nella sua natia Squillace, fondò un eremitaggio sulla cima di un vicino colle e, a
Vivarium, presso il fiume Pellena, un convento. Qui visse a lungo e, mentre sulle contrade d'Italia
imperversava la guerra, Cassiodoro, nella solitudine del chiostro, scriveva libri e assicurava ai posteri,
facendoli trascrivere, altri monumenti letterari dell'antichità.
Quando Cassiodoro si dava alla vita contemplativa il monachesimo occidentale era nella sua più grande
fioritura per opera di un uomo che gli aveva data una regola ed una forte organizzazione: BENEDETTO DA
NORCIA. Di questo grande monaco, che la Chiesa poi santificò, Gregorio Magno scrisse la vita. Lasciata
Roma, dove si era recato a studiare dalla natia Norcia, si ritirò verso le sorgenti dell'Arno e qui presto venne
in fama di santità e fu circondato da un gran numero di proseliti.
Trasferitosi a Subiaco, vestì l'abito monacale, poi si ritirò in una grotta solitaria, dove i monaci e i pastori gli
portavano il cibo per mezzo di una fune. Egli viveva nella preghiera, nella contemplazione, nella volontaria
privazione dei beni mondani, e, - questo è quanto si narra nelle leggende- quando i desideri del senso lo
tentavano, il santo si tormentava le carni sulle spine dei rovi della boscaglia, che, fecondate dal suo sangue,
dispensarono una miracolosa fioritura di rose.
Essendo cresciuta la sua fama, fu chiamato come abate nel convento di Vicovaro, ma venuto presto in uggia
ai monaci per la sua rigidità e miracolosamente scampato al veleno, S. Benedetto si ritirò di nuovo nel suo
eremo. Sorgevano intorno al luogo del suo ritiro i conventi, da lui i monaci accettavano regole e capi, e così
numerosi erano diventati i suoi seguaci e tanto prestigio si era acquistato che contro il Santo si scatenò la
gelosia del clero regolare, costringendolo ad abbandonare il territorio di Subiaco e a rifugiarsi sulla cima del
Monte Cassino. Qui già vi era un antichissimo santuario, con una statua e un'ara dedicate ad Apollo, S.
Benedetto la fece abbattere e al posto suo fece erigere un convento, dove ci campò quattordici anni, dal 529
al 543.
Nel convento di Monte Cassino il Santo nel 542, un anno prima di morire, aveva ricevuto una visita di Totila
ed è anche questo nella leggenda che al re dei Goti il gran monaco rimproverò severamente i danni da cui
era afflitta l'Italia e gli predicesse prossima la fine.
Del monachesimo di Occidente S. Benedetto fu il riformatore. Egli tolse gli eccessi alla vita conventuale e,
pur mantenendo il rigore dell'obbedienza, rese più umana la vita claustrale; volle che i conventi non fossero
un luogo di ozio e stabilì che alla preghiera si associasse il lavoro, fonte di benessere e mezzo per
conseguire la perfezione morale. Per opera sua, in mezzo alla desolazione delle campagne, i conventi e le
terre che ai conventi appartenevano, questi divennero oasi di feconda attività agricola ed industriale.
Più tardi gli stessi conventi saranno operose e provvidenziali fucine di lavoro intellettuale, un prezioso rifugio
delle lettere e delle arti, fari perenni di cultura nella tenebrosa barbarie medievale.
Per sette secoli, fino cioè a S. Francesco ed a S. Domenico, - scrive il Villari - i Benedettini furono quasi i soli
monaci del mondo occidentale, e si diffusero dalla Calabria alla Gran Bretagna, dalla Polonia al Portogallo,
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obbedendo tutti al loro capo di Monte Cassino, che fu come la nuova Roma, la nuova Gerusalemme, la
Mecca dei Cristiani.
La leggenda, la poesia, la pittura italiana hanno in mille modi illustrato la vita del Santo e dei suoi discepoli.
Dalle mura dei chiostri, dagli affreschi, dalle tele dei pittori, dai versi dei poeti, che furono ispirati da questi
monaci, i quali vissero in tempi di feroci passioni, in mezzo agli orrori di una guerra che faceva scorrere il
sangue a fiumi, discende ancora oggi su di noi il loro spirito di pace, di fede, di carità, di tranquillo e costante
lavoro, che in tutto il Medio Evo fu sorgente perenne d'arte, di poesia e di civiltà.
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
WACHER -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
I LONGOBARDI IN ITALIA (Da Alboino ad Autari) ( dal 568 AL 590 )
I LONGOBARDI PRIMA DELLA VENUTA IN ITALIA: GUERRE CON GLI ERULI E CON I GEPIDI;
UCCISIONE DI TORRISMONDO E CUNIMONDO; ROSMUNDA - LE CONDIZIONI DELL'ITALIA PRIMA
DELL'INVASIONE LONGOBARDA - LA LEGGENDA DI NARSETE CHE INVITA I LONGOBARDI ALBOINO NELLA VENEZIA -ASSEDIO E PRESA DI PAVIA -ALBOINO E ROSMUNDA - UCCISIONE DI
ALBOINO - MORTE DI ELMICHI E ROSMUNDA - IL REGNO DI CLEFI - INTERREGNO E FEDERAZIONE
DEI DUCATI LONGOBARDI - BIZANTINI E LONGOBARDI - SPEDIZIONI CONTRO I FRANCHI - I
SASSONI LASCIANO L' ITALIA - CHILDEBERTO IN ITALIA - INNALZAMENTO DI AUTARI AL TRONO SUA POLITICA - SUE GUERRE COI BIZANTINI E I FRANCHI - TEODOLINDA SPOSA AUTARI - PACE
CON I FRANCHI - MORTE DI AUTARI
------------------------------------------------------L' INVASIONE LONGOBARDA - ALBOINO - ROSMUNDA
Un nuovo popolo compare ora nella storia d'Italia: quello dei Longobardi.
Sulla loro origine notizie leggendarie dobbiamo quasi tutti rifarci a Paolo Diacono, il loro storico, che ci narra
essere oriundi della Scandinavia.
Da VELLEIO PATERCOLO, che li chiama più feroci della ferocia germanica, sappiamo che essi abitavano
anticamente presso il corso inferiore dell' Elba e che, sotto Augusto (anno 5), furono guerreggiati da Tiberio.
Più tardi furono confederati dei Marcomanni; nella guerra tra Maraboduo ed Arminio combatterono accanto
ai CHERUSCHI; nel 47 aiutarono Italico, nipote di Arminio, per riconquistare il trono cherusco; nel 125 con i
MARCOMANNI e gli UBI invasero la Pannonia, ma furono sconfitti e respinti oltre il Danubio; fecero parte
forse dell' impero unno e, quando, verso il 490, i RUGI sconfitti da Odoacre abbandonarono il loro territorio, i
Longobardi, guidati dal re GODEOC, vi si stabilirono e abbracciarono l'arianesimo.
Da allora noi vediamo i Longobardi crescere in potenza. Venuti a guerra con gli ERULI, li sconfissero intorno
al 508, ne uccisero in battaglia il re Rodolfo ed occuparono le loro sedi. Era allora re dei Longobardi
TATONE, figlio di CLAFFO e nipote di GODEOC. Nel 510 Tatone fu sbalzato dal trono da VACONE e sotto
di lui, che regnò fino al 540, i Longobardi ebbero un periodo di intensa attività guerresca: sottomisero gli
Svevi, si allearono con i Bizantini e con i Turingi, furono richiesti di alleanza da VITIGE e strinsero legami di
amicizia con i GEPIDI, la figlia dei cui re andò in sposa a VACONE, che più tardi diede in matrimonio due
sue figliole ai re Franchi Teodeberto e Teodebaldo.
A VACONE successe il figlio VALTARI, che regnò fino al 546 sotto la tutela di AUDONIO, il quale, divenuto a
sua volta re dopo la morte di quello, condusse il suo popolo nella Pannonia, che Giustiniano aveva ceduto ai
Longobardi per contrapporli ai turbolenti e pericolosi GEPIDI.
Tra i due popoli vicini - com'era da prevedersi - presto scoppiò la guerra, che, dopo parecchi anni e varie
vicende, doveva finire con la rovina dei Gepidi. Nel 551 i Longobardi, sostenuti da un corpo di milizie
bizantine comandate da AMALAFRIDO, invasero il territorio dei Gepidi e li sconfissero in una grande
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battaglia nella quale TORRISMONDO, figlio del re gepido TORISINDO, trovò la morte per mano di
ALBOINO, che era il figlio di re AUDOINO.
Secondo una leggenda, dopo la battaglia, ALBOINO si recò al campo dei Gepidi per ricevere da
TORISINDO le armi del figlio che gli aveva ucciso e, cavallerescamente invitato, sedette alla mensa del
nemico, e a suo figlio CUNIBONDO con accanto a sua volta la figlia.
Fu in questa occasione che ALBOINO vide la bellissima nipote del re, ROSMUNDA, e se ne innamorò.
Divenuto re nel 565, sposò CLOTSUINDA, figlia di CLOTARIO I, re dei Franchi, ma, morta questa dopo aver
dato alla luce ABSUINDA, tentato invano di ottenere in sposa Rosmunda, la fece rapire, o la rapì lui stesso.
Questo fatto di carattere familiare, diede origine ad una nuova guerra tra Longobardi e Gepidi: Alboino,
sconfitto, dovette restituire Rosmunda al padre Cunibondo.
Moriva intanto GIUSTINIANO, e GIUSTINO II, suo successore, iniziava una nuova politica disdicendo le
alleanze e togliendo alle vicine popolazioni barbariche i sussidi che l' impero aveva in precedenza sempre
dati. Una di queste popolazioni era quella degli AVARI, che, venuti nella seconda metà del secolo V dalle
regioni del Caspio, avevano formato un forte regno nel basso Danubio.
Desideroso di vendicarsi dei Gepidi, ALBOINO chiese l'alleanza di BAIANO; re degli Avari, e l'ottenne. I
Longobardi - questi erano i patti - in compenso dell'aiuto degli Avari avrebbero ceduto a questi la decima
parte del loro bestiame, metà del bottino e il territorio tolto ai Gepidi.
Dall'alleanza alla guerra corse breve tempo. Cunimondo, figlio di Torisindo che alla morte del padre era
diventato re dei Gepidi, chiesti invano aiuti all'imperatore, assalì vigorosamente i Longobardi sperando di
vincerli e di gettarsi poi contro gli Avari, ma la sorte gli fu avversa. Egli stesso cadde in combattimento per
mano di Alboino che gli tagliò la testa e del teschio fece una tazza per bervi nei fastosi banchetti, secondo il
loro costume barbarico.
La confitta dei Lepidi fu completa: quarantamila uomini perirono sul campo, grandissimo fu il numero dei
prigionieri e ingente la preda. Fra i prigionieri fu Rosmunda, la quale, sebbene, dopo la morte del padre,
nutrisse odio contro Alboino sempre invaghito com'era di lei, fu costretta a sposarlo.
Conseguenza della disfatta fu la fine del regno gepido. Al pari degli Eruli e di altri popoli germanici, i Lepidi
non formarono più una nazione e di loro la storia non fa più menzione: parte di loro si unirono ai Longobardi,
parte divennero sudditi degli Avari, che ne occuparono il territorio secondo i patti stipulati con Alboino.
Ma se la sconfitta fu fatale ai Lepidi, la vittoria non recò gran vantaggio ai Longobardi. Questi venivano a
trovarsi accanto ad un popolo potentissimo, gli AVARI, che dalla rovina della nazione gepida avevano
ricavato alla fine i maggiori benefici. Né con loro era possibile una buona vicinanza, come si poté rilevare
dalle dure condizioni imposte per l'alleanza. Forse quel vicinato cominciò a rendersi impossibile fin dai primi
giorni che seguirono la fine della guerra e determinò nei Longobardi il proposito di cercarsi una nuova sede.
Questa non poteva essere che l'Italia, regione a pochissima distanza dalla Pannonia, mèta costante delle
migrazioni barbariche, di cui di certo Alboino aveva sentito più d'una volta parlare dal padre e dagli altri
Longobardi che nel 552 vi erano stati con Narsete. E forse lo stesso Alboino durante le operazioni di guerra
che Narsete utilizzò in Alta Italia. ("circa 2500 feroci guerrieri, con al seguito altri 3000 uomini armati, a
cavallo")
La conquista dell' Italia non offriva serie difficoltà. Per le guerre e le altre calamità sofferte essa era stremata
di forze; la popolazione non avrebbe aiutato di certo i Bizantini di cui non era contenta; le milizie dell'impero
sparse nelle varie città non avrebbero potuto validamente opporsi ad un'invasione; salvo Pavia, dotata di una
ragguardevole guarnigione, le altre città non avrebbero resistito a lungo; i Goti superstiti all'apparire dei
Longobardi si sarebbero certamente pronunziati per loro; infine mancava in Italia un generale che potesse
contrastare con successo l'avanzata di un invasore.
C'era, è vero, NARSETE; ma il vecchio patrizio era stato esonerato dal comando per la nuova politica di
economie inaugurata da GIUSTINO II e per il malcontento delle popolazioni che aveva provocato
un'ambasciata di nobili romani a Costantinopoli, il richiamo di Narsete e l' invio di un successore, LONGINO,
che giunto a Ravenna con scarse truppe non aveva di certo un esercito da opporre, né del resto aveva
l'indole di predisporre una valida difesa.
Si diffuse piú tardi, la leggenda che a chiamare i Longobardi in Italia sia stato lo stesso Narsete. Secondo
questa leggenda Narsete si sarebbe rifiutato di partire dall' Italia e l' imperatrice Sofia avrebbe esclamato: "…
Farò chiudere io questo vecchio eunuco nel gineceo a filar lana con le donne…".
E il generale di rimando: ".. Ed io filerò tale matassa che lei in tutta la sua vita non sarà capace di
dipanarla…".
Per vendicarsi delle ingiuriose parole dell' imperatrice e del richiamo, - dopo tutto quello che aveva fatto in
Italia- Narsete avrebbe invitato Alboino a passare le Alpi mandandogli per allettarlo alcuni dei meravigliosi
frutti che l'Italia produceva. II generale, che si era ritirato a Napoli, convinto di aver fatto male e invitato da
Papa GIOVANNI III a difendere l'Italia, si sarebbe recato a Roma dove fu colto dalla morte.
Così la leggenda che ha trovato sostenitori anche fra gli storici moderni, ma che non regge all'esame della
critica. Le fonti contemporanee, ne fanno poca parola ed è strano che i cronisti greci non facciano cenno
dell'accusa mossa a Narsete. A sfatare la leggenda c'è anche il fatto che alla salma del generale, portata a
Costantinopoli, furono tributate solenni onoranze e che il tempo che intercede tra il richiamo di Narsete e la
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partenza dei Longobardi dalla Pannonia è così breve da rendere impossibili i preparativi della spedizione. Si
aggiunga la storiella davvero amena delle frutta le quali - come acutamente osserva il Villari - "… se spedite
da Napoli, si può ben immaginare in quali condizioni sarebbe arrivate in Pannonia".
Prima di partire Alboino concluse un patto con gli Avari. A questi erano cedute le terre dei Longobardi; però
gli Avari le avrebbero restituite se gli antichi padroni se entro un dato numero d'anni ritornavano sul territorio.
Anche con i Sassoni, Alboino trattò, invitandoli ad unirsi a lui nella spedizione, ed accettarono; quindi i
Sassoni parteciparono a questa invasione con circa ventimila uomini.
A quanto ascendesse il numero dei Longobardi che si recarono in Italia non è possibile dire. Forse non
erano meno di cinquantamila veri combattenti" (WINNILI = cioè "guerrieri" - così erano conosciuti come
popolo, prima di assumere il nome Longobardi), fra i quali bisogna mettere anche quei Gepidi che dopo la
disfatta si erano uniti ai vincitori, e i ventimila Sassoni. Alcuni dicono che erano in tutto 200.000, altri ancora
500.000. Di certo sappiamo che era un popolo intero. E con gli uomini, guerrieri e no, e con donne e
bambini, e schiavi, forse il numero dovrebbe essere quello in mezzo: quindi circa 300.000. Attendibile se
prendiamo attendibile anche il numero di animali che avevano al seguito.
Essi vestivano abiti di tela, portavano calzari bianchi, avevano l'occipite rasato e i capelli divisi sulla fronte e
cadenti lungo le orecchie sulle spalle; erano rozzi e feroci, in parte ariani in parte ancora pagani, non
curavano l'agricoltura ed erano dediti all'allevamento del bestiame ed alla guerra. Portavano con sé, come
già accennato le donne, i figli, gli schiavi, le masserizie di casa su pesanti carri e si traevano dietro gli
armenti.
Circa 100.000 doveva essere questa popolazione al seguito, con una mandria di bestiame di circa 30.000
capi di bovini, 10.000 maiali, e 10.000 fra pecore e capre.
Divisi in "fare" o "farae" - un "insieme" (un "clan") con i capi di queste "fare" (36) che erano anche i capi
guerrieri dei "gruppi" che erano a fianco di Alboino, e che in seguito diventeranno i vari "duc", assegnatari dei
territori conquistati; cioè i vari duchi del regno longobardo.
La data della partenza dalla Pannonia si fa comunemente cadere il 1° aprile del 568; incerta però è la via
ch'essi presero per arrivare in Italia. Forse, attraversata la valle della Sava, giunsero alle Alpi Giulie e
scesero nel Veneto dal Passo di Predil, attraverso la Valle del Vipacco; la leggenda narra che ALBOINO si
sia soffermato a guardare il panorama del territorio che si accingeva a conquistare dalla vetta di un monte
che da allora, fino alla metà del XX secolo fu chiamato Monte del Re, o Monte Re, oggi noto come Nanos,
nella accezione slovena.
Rifacciamoci a quel passo che (Paolo Varnefrido) conosciuto come Paolo Diacono ci ha lasciato:
"…Habitaverunt autem in Pannonia annis quadraginta duobus. De qua egressi sunt mense Aprili, per
indictionem primam alio die post sanctum pascha, cuius festivitas eo anno iuxta calculi rationem ipsis
Kalendis Aprilibus fuit, cum iam a Domini incarnatione anni quingenti sexaginta octo essent evoluti. ("Erano
rimasti in Pannonia per quarantadue anni. La lasciarono il giorno dopo la Pasqua, che in quell'anno, secondo
il calcolo, era caduta il 1 aprile, nell'anno 568 dall'incarnazione del Signore, indizione prima…".
Il primo punto da loro occupato e fortificato fu Forum Julii (Cividale). Qui Alboino lasciò un certo numero di
famiglie (fare) a guardia del confine e ne diede il comando al cugino GISULFO. "Forum Julii" costituì quindi il
primo ducato longobardo in Italia.
Per tutta la primavera, l'estate e l'autunno di quell'anno, Alboino si limitò ad occupare territori della Venezia.
Gli abitanti delle campagne fuggivano, come al tempo di Attila, verso la laguna e i Longobardi non
incontravano resistenza nella loro marcia, anche perché evitavano le città fortificate che, come Monselice,
Mantova e Padova, potevano agevolmente difendersi. Grado offrì rifugio a moltissimi fuggiaschi: fra questi il
patriarca di Aquileia. Il vescovo di Treviso, invece, avendo saputo che Alboino non era un ariano fanatico, si
presentò a lui e, ottenuta garanzia per i beni della sua chiesa, gli aprì le porte della città. Anche Vicenza e
Verona si arresero.
Padrone di quasi tutto il Veneto, Alboino vi svernò, e nella primavera del 569 estese la sua invasione
occupando Mantova e Trento e spingendosi fino a Brescia e a Bergamo. Il 3 di settembre, essendo il
vescovo ONORATO fuggito a Genova, anche Milano si arrese. Pavia però chiuse le porte e si apprestò a
fare, imitata da Piacenza e da Cremona, un'accanita resistenza, che doveva durare tre anni. Pavia, che era
una delle più importanti città dell'Alta Italia, non poteva esser lasciata indietro nella marcia d'invasione.
Alboino vi lasciò all'assedio una parte delle sue forze, con l'altra scese verso l'Italia centrale. Quella dei
Longobardi non era un'occupazione sistematica; era più un'avanzata di predoni che di un esercito e i
Bizantini avrebbero potuto avere non difficilmente ragione del nemico se fossero stati comandati da un
generale più abile dell'esarca Longino e se avessero avuto a disposizione un buon contingente di truppe.
I Longobardi procedevano senza un disegno prestabilito di conquista; mancava loro anche l'unità di
comando. Divisi in varie schiere si gettavano sulle città indifese; presero Parma, Modena, Bologna, Imola, si
spinsero fino ad Urbino, occuparono il Passo del Furlo; ma - come Padova, Monselice, Cremona e Piacenza
- rimasero in potere dei Bizantini Genova e le due riviere, Ravenna, Rimini, Pesaro, Fano, Senigaglia,
Ancona, Perugia e Roma e quasi tutta l' Italia meridionale dove più tardi una schiera di Longobardi doveva
istituire il ducato di Benevento che, insieme con quello di Spoleto, doveva diventare indipendente, e l'unico -il
primo- a sopravvivere all'invasione carolingia.
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Nel 572, dopo circa tre anni di assedio, Pavia si arrese ed Alboino fece il suo ingresso trionfale nella città per
la porta di S. Giovanni, sopra un superbo cavallo.
Sebbene avesse espresso il desiderio di punire Pavia della lunga resistenza che aveva fatto, Alboino si
mostrò umano con il popolo di una città che forse, fin da quando la teneva stretta d'assedio, aveva pensato
di farne la capitale del suo nuovo regno. Sua sede preferita fino allora era stata Verona e qui egli nello
stesso anno 572 o --- come altri vogliono - nel 573 trovò la morte, il cui racconto è giunto sino a noi, nelle
pagine degli storici, nei più minuti particolari.
Secondo la narrazione di Paolo Diacono, verso la fine di un banchetto, cui avevano partecipato i suoi
generali, Alboino, riempita di vino una tazza formata col teschio di CUNIMONDO, la porse alla moglie
ROSMUNDA invitandola a bere "in compagnia di suo padre". Rosmunda bevve, ma giurò in cuor suo
un'atroce vendetta.
Accordatasi con ELMICHI, di cui era l' amante, decise di uccidere il marito. Elmichi era fratello di latte del re
e, non volendo macchiarsi di sangue fraterno o non avendo il coraggio di trucidare Alboino, consigliò alla
regina di rivolgersi a un sicario, a PEREDEO, prode guerriero di stirpe gepida, che era a sua volta l'amante
d'un'ancella di Rosmunda. Ma neppure questi volle accettare. La regina lo costrinse al delitto mediante un
audacissimo stratagemma. Preso il posto dell'ancella, diede convegno a Peredeo, poi, fattasi riconoscere lo
minacciò di svelare al re quanto era avvenuto tra loro. Soltanto allora Peredeo cedette; e il piano criminoso
fu stabilito.
Un pomeriggio, essendosi Alboino, dopo copiose libagioni, addormentato, Rosmunda legò la spada che
stava appesa al capezzale, in modo da non potersi sfoderare, poi fece entrare furtivamente nella camera
Peredeo, il quale, avventatosi sul re che, svegliatosi tentava di difendersi, lo uccise.
Diversamente narrano altri storici la fine di Alboino. Secondo Mario Aventicese, il delitto fu conseguenza di
una congiura più vasta, capeggiata da Elmichi, e Rosmunda non vi ebbe altra parte che quella di aver dato il
consenso. Nell' "Origo gentis langobardorum" è detto che Alboino fu ucciso da Elmichi e Rosmunda per
istigazione di Peredeo.
Forse in quest' ultima versione sta il vero, pur non volendo ritenere leggendario il racconto di Paolo Diacono.
Peredeo era un Gepido, era forre uno dei più influenti capi di quei Gepidi che si erano uniti, dopo la sconfitta,
ai Longobardi e che probabilmente non si erano rassegnati ad avere una parte secondaria nella conquista
dell'Italia. Per togliere di mezzo Alboino egli sfruttò l'odio che contro il marito nutriva Rosmunda e la fece
partecipe della congiura e autrice, forse, del delitto.
Dal momento che, ucciso il re, sarebbe stato difficile alla minoranza gepida avere il sopravvento, Peredeo
scelse come complice principale il longobardo Elmichi che, essendo un uomo debole, solo in apparenza
sarebbe divenuto re: in sostanza avrebbe regnato Rosmunda, sorretta e guidata da Peredeo e dagli altri
Gepidi.
ROSMUNDA difatti sposò l'ex amante ELMICHI e tenne il regno per circa due mesi, ma non riuscì a far
riconoscere re il nuovo marito a capi guerrieri longobardi; dovette anzi con lui salvarsi, fuggendo, dalla
reazione violentissima dei duchi longobardi, che forse erano venuti a conoscenza della criminale tresca. In
compagnia di pochi fidati e della giovane figlia di Alboino, Albsuinda, portando con se il tesoro regio, per
mezzo di una nave lungo il Po, si rifugiò a Ravenna presso l'esarca LONGINO che aveva fornito
l'imbarcazione per la fuga, e forse era stato lui uno degli istigatori del delitto, o per il potere o per una segreta
passione, visto che cosa accadde subito dopo.
Infatti, dopo che si era svolta la tragedia di Verona un'altra se ne svolse a Ravenna. Elmichi (e forse era
stato solo utilizzato) era diventato un inutile peso per Rosmunda, di cui si era invaghito lo stesso Longino.
Per riuscire a sposare l'esarca la regina tentò di sbarazzarsi del secondo marito. Mentre questi era nel
bagno gli offrì una bevanda in cui aveva posto del veleno, ma, essendosi Elmichi accorto che la bevanda, di
cui aveva ingerito una parte, era avvelenata, obbligò la donna, minacciandola con la spada, a bere il resto. E
così entrambi morirono, la prima subito, il secondo fra atroci spasimi. Longino a quel punto per non sporcarsi
ulteriormente le mani, inviò a Costantinopoli la giovane Albsuinda e il tesoro portato da Rosmunda.
AUTARI
Dopo la morte di Alboino la capitale del regno -com'era desiderio del re morto, offrendo la città alta garanzie
di difesa- divenne Pavia e qui si radunarono i capi longobardi per eleggere il successore. Fu scelto CLEFI,
della nobile famiglia dei Beleo, sotto il regno del quale, non durato neppure due anni, molto dovette soffrire
la popolazione italiana, specie i nobili e i ricchi, dei quali, al dir di Paolo Diacono, alcuni furono spogliati dei
beni, altri furono uccisi, altri cacciati in esilio. Fu forse sotto il suo regno che una schiera di Longobardi - con
qualche capo non abbastanza accontentato nelle spartizioni dei territori già conquistati- si spinse nell'Italia,
meridionale, verso Benevento, e un'altra nel territorio di Spoleto.
CLEFI, nel 574, fu ucciso da uno schiavo, lasciando un figlioletto di nome Autari. Non potendosi mettere
d'accordo nella scelta del nuovo re o non volendo, come pare, dipendere da un sovrano, i duchi lasciarono
che ciascuno di loro governasse il proprio ducato e così lo stato longobardo, al quale, anche sotto Alboino e
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Clefi, aveva sempre fatto difetto l'unità di comando, divenne quasi una confederazione politico-militare di
ducati che faceva capo a quello di Pavia retto da ZABANO.
Paolo Diacono fa ascendere a 36 i ducati longobardi, ma di molti di loro non si sanno con precisione i nomi e
della maggior parte si ignora chi fossero i duchi (gli ex capi "fare"). Citiamo come certi quelli di Pavia,
Brescia, Trento, Forum Julii, Milano, Spoleto, Benevento. Altri ducati dovettero essere Bergamo, Torino, Asti,
Ivrea, Isola di S. Giuliano, Verona, Vicenza, Treviso, Ceneda, Parma, Piacenza, Chiusi, Lucca, Firenze,
Fermo, Rimini, Brescello, Istria, Reggio, alcuni dei quali furono forse istituiti più tardi.
La mancanza di un potere accentratore tornò a tutto svantaggio della popolazione italiana, che invece di un
solo padrone ne ebbe così trentasei, tutti avidi, e che uccisero non pochi latifondisti per impadronirsi delle
loro terre, ridussero alla condizione di tributari gli altri, spogliarono dei loro beni le chiese e trucidarono
perfino parecchi sacerdoti.
In breve gli Italiani si trovarono in tali condizioni da rimpiangere la signoria degli Ostrogoti e il mal governo
stesso dei Bizantini. Questi non facevano nulla per cacciare dalla penisola gli invasori. Avevano creduto che
l'invasione longobarda, come quella dei Franco-Alemanni, fosse una scorreria e, chiusi nelle turrite città,
avevano aspettato che i barbari se ne ritornassero con il bottino razziato - com'era sempre avvenuto prima di
allora- oltre le frontiere; quando s'accorsero che era una conquista, i Longobardi si erano troppo rafforzati ed
occorrevano, per cacciarli, una guerra lunga e forze ragguardevoli.
Ma di forze da mandare in Italia l' impero non disponeva, impegnato come era contro i Persiani e gli Avari.
Conclusa la pace con questi ultimi, GIUSTINO nel 575 spedì il proprio genero BADUARIO in Italia, ma
questi, scontratosi nella Campania con il nemico, fu battuto ed ucciso. La sconfitta ebbe per conseguenza il
peggioramento delle condizioni di quella parte della penisola non ancora occupata dai Longobardi. Roma si
vide interrotte le comunicazioni con Ravenna: morto nel luglio del 575 papa GIOVANNI III, il suo successore
BENEDETTO I dovette aspettare dieci mesi per esser consacrato non potendo ottenere prima la sanzione
imperiale e nel 579 PELAGIO II fu costretto a fare a meno della conferma dell'imperatore.
Soltanto Perugia resisteva tra Roma e Ravenna, ma il suo territorio era percorso e continuamente
saccheggiato dai Longobardi e l'audacia di questi era cresciuta così tanto che nel 579 una schiera,
comandata dal duca di Spoleto FAROALDO, poteva spingerci fin presso Ravenna ed occupare Classe.
In questo stato di cose le speranze degli Italiani erano riposte solo su Costantinopoli. Soltanto l'imperatore
poteva alleviare tanti mali iniziando una seria lotta contro i Longobardi. A lui perciò fu inviata un'ambasceria
di senatori e di sacerdoti, che portava con sé tremila libbre d'oro e pregava che fossero mandate truppe a
difendere Roma, il papa e la Chiesa dai barbari ariani. Ma GIUSTINO II era allora gravemente ammalato e
TIBERIO II, che con il titolo di "Cesare" lo sostituiva, pensava più alla guerra contro i Persiani che a mandare
aiuti in Italia. Egli consigliò agli ambasciatori di comprare con l'oro qualche schiera di Longobardi e, se il
tentativo di disgregare con il denaro il nemico falliva, di rivolgersi per aiuti ai Franchi.
Buoni rapporti di vicinanza non esistevano tra i Longobardi e i Franchi, che si trovavano allora sotto la
signoria dei tre figli di CLOTARIO I, GONTRANO, CHILPERICO e SIGEBERTO, il primo dei quali regnava in
Borgogna, il secondo nella Neustria e il terzo nell'Austrasia. Anzi i due popoli più di una volta erano venuti
alle armi: nel 569, un anno appena dopo la venuta di Alboino in Italia, alcune schiere di Longobardi,
operando per proprio conto, erano penetrate in Borgogna, dove avevano subito una sanguinosa disfatta;
l'anno dopo avevano ritentata la prova nella Provenza ed erano riusciti a sconfiggere i Borgognoni
comandati dal patrizio Amato ch'era caduto in battaglia e a ritornare in Italia con ricco buttino.
Una terza invasione l'avevano fatta nel 571, ma con esito infelice: sbucati dal Monginevro, nella valle della
Duranza, erano stati assaliti presso Embrun da MUMMOLO, figlio di Amato, ed erano stati messi in rotta con
gravissime perdite. Esito migliore non aveva ottenuto, poco dopo, un'incursione dei Sassoni giunti in Italia
con i Longobardi. Questi - se si deve credere a Paolo Diacono - erano malcontenti dei Longobardi perché
non era permesso loro di vivere secondo le proprie antiche consuetudini. Desiderosi di tornarsene alle loro
terre, avevano cercato di aprirsi la via tra i Franchi e, dopo essere stati sconfitti da Mummolo, tra il 572 e il
573 l'unica cosa che ottennero fu quella di poter tornare nella Svevia passando per la Gallia. Ma le loro terre
nel frattempo erano state occupate da altri barbari e, venuti con questi alle armi, i Sassoni erano stati
sterminati.
A queste invasioni altre due avevano tentato i longobardi, nel 574 e nel 575. Nella PRIMA, ZABANO, duca di
Pavia, dopo avere saccheggiata l'alta valle del Rodano, era stato sconfitto a Beg dai Borgognoni e costretto
a ripassare le Alpi, nella seconda lo stesso Zabano con il concorso dei duchi RODANO e AMONE, aveva
tentato un audace colpo nella Narbonese, ma dopo alcuni successi era stato battuto dal solito MUMMOLO.
Il consiglio dell'imperatore fu seguito dal Papa PELAGIO II che nel 580 o nel 581 scriveva al vescovo di
Augerre perché convincesse i Franchi a difendere Roma e l' Italia dai Longobardi. Agli incitamenti del
Pontefice si aggiunsero quelli del successore di Tiberio, Maurizio di Cappadocia, il quale, spinta
dall'apocrisario Gregorio che doveva più tardi diventar papa, inviò a CHILDEBERTO, re d'Austrasia,
cinquantamila solidi d'oro per indurlo ad assalire i Longobardi.
CHILDEBERTO che allora era un 18enne giovanissimo re, spinto anche dalla madre (Brunechilde, di cui
parleremo ancora), passò con un forte esercito le Alpi nel 584 e costrinse i duchi a chiudersi nelle loro città;
ma la sua venuta in Italia non produsse gli effetti che si aspettava l'imperatore, perché il re franco, vinto dai
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ricchi donativi dei duchi e dalle loro promesse di sudditanza, se ne tornò nel suo regno. Si può anzi dire che
la discesa dei Franchi tornò di utilità ai Longobardi: i duchi, infatti, dopo il pericolo, solo allora si accorsero
che la debolezza della loro nazione era un prodotto dell'autonomia dei ducati e decisero di ridare l'unità e,
con questa, la forza al regno eleggendo un sovrano.
Tra la fine del 584 e il principio del 585 il congresso dei duchi tenutosi a Pavia proclamò re AUTARI, figlio di
Clefi e per costituire al monarca un patrimonio stabilì che ogni duca cedesse al re metà delle proprie terre,
non pensando forse che questo provvedimento veniva a conferire una grande forza all'autorità del sovrano il
quale al potere che gli derivava dal titolo aggiungeva quello, non meno grande, che gli veniva dalla proprietà
terriera acquisita in ciascun ducato.
Con AUTARI lo stato longobardo comincia a consolidarsi ed esce dall'anarchia in cui dieci anni di interregno
l'hanno gettato. Quasi per legittimare il suo dominio, Autari egli prende il titolo di "Flavio". "…Di fronte
all'opposizione dell' Impero e della Chiesa romana - osserva il Tamassia - il re longobardo prende il nome
già portato dall'imperatore romano e dai visigoti ed ostrogoti, quasi per indicare che incomincia una nuova
era per la monarchia longobarda, che risuscitò così le memorie non lontane della dominazione ostrogota,
tanto devota alla romanità…"
Il consolidamento dello stato, oltre che dalla restaurazione monarchica, è prodotto dall'azione personale del
re. Egli dà un nuovo indirizzo alla politica estera: osteggiato dai Franchi e dai Bizantini, cerca di avviare
trattative di pace con i primi per poter meglio rafforzarsi all'interno e parare i colpi dei secondi. Il tentativo
però non gli riesce, ed allora Autari si difende con efficienza con le armi e stringe parentele che possano
essergli di aiuto contro i nemici esterni.
Quando lui sale al trono longobardo, un trattato di alleanza esiste tra l'imperatore MAURIZIO e il re franco
CHILDEBERTO. Questi, invitato dall'alleato a restituire i cinquantamila solidi o a muover guerra ai
Longobardi, ritorna in Italia nel 585, ma subito dopo ripassa le Alpi, essendo sorte discordie fra i suoi
generali. Nello stesso anno giunge a Ravenna da Costantinopoli, con un buon contingente di truppe, l'esarca
SMARAGDO: Brescello, per il tradimento del longobardo DROTTONE comprato dall'oro imperiale,fu
occupata dai Bizantini e Classe riconquistata.
La partenza dei Franchi dà buon giuoco ad Autari: si rivolge subito contro Brescello, se ne impadronisce e
costringe Smaragdo a firmare una tregua di tre anni. Questo successo non gli basta; egli ha sempre in
mente una pace con i Franchi. Con la pace cerca di trovare una sposa e di procacciarsi una preziosa
alleanza. Chiede pertanto in moglie CLOTSUINDA, sorella di Childeberto. Questi è disposto a concederla,
ma la madre BRUNECHILDE, fervente cattolica, si oppone alle nozze della figlia con un ariano, e induce
Childeberto a sposare la sorella con il re visigoto RECAREDO, convertitosi al cattolicesimo.
Nel 587 la guerra tra i Franchi e i Longobardi ha una violenta ripresa: Childeberto scende nuovamente in
Italia, ma affrontato da Autari, subisce gravissime perdite ed è costretto a ripassare le Alpi, con l proposito di
ritornare con forze più numerose. Autari accortamente svia il pericolo e manda ambasciatori al re franco,
offrendogli un annuo tributo e truppe ausiliarie, che Childeberto accetta.
Finalmente Autari aveva un po' di respiro e poteva pensare a rafforzare la sua posizione personale e lo
stato. A conseguire questo duplice scopo un buon matrimonio era il mezzo migliore per quei tempi. Autari
fece una buona scelta: TEODOLINDA, figlia del duca GARIBALDO di Baviera (che prima ancora
dell'invasione longobarda in Italia venti anni prima aveva sposato una figlia del re longobardo Vacone).
Teodolinda era cattolica ed era stata richiesta in moglie già da CHILDEBERTO che poi aveva mandato a
monte il matrimonio. Forse perciò Garibaldo odiava il re franco di cui era vassallo (relativamente, perchè era
fortemente autonomista). Con queste nozze Autari si sarebbe procacciato l'aiuto della Baviera, e il duca
bavarese l'aiuto dei Longobardi, che avrebbe avuto peso non indifferente in una temuta futura guerra tra
Franchi e Longobardi al primo, o Franchi e Bavaresi il secondo.
Ma oltre a questa unione, fu pure assicurata la devozione del duca longobardo Evino, che fin dall'arrivo di
Alboino in Italia, da Verona, risalita la Val d'Adige si era spinto fino a Trento, e ne aveva fatto un suo ducato,
bramando però di spingersi oltre Lavis (a nord di Trento) e a Salorno, cioè nel territorio bavarese. Ora
contemporaneamente a quello di Autari il re bavarese Garibaldo diede al duca EVINO in sposa un'altra figlia,
la sorella di Teodolinda. Era un'unione che univa e avrebbe unito in futuro nella sua duplice discendenza
dinastica, il Trentino e l'Alto Adige Bavarese in un unico regno.
Purtroppo nel secondo "caos" che provocò poi Carlo Magno, la discendenza dinastica longobarda
scomparve, e rimase solo più quella bavarese, che eccetto quel brevissimo periodo napoleonico (quando fu
unito al Regno d'Italia) fino al 1914 Bavarese rimase sotto gli Asburgo.
Dobbiamo qui ricordare che la Bavaria (conosciuta poi come Tirolo), dopo la caduta dell'Impero Romano, e il
"caos" che ne era seguito, con le valli dell'Alto Adige lasciate al loro destino (e anche poco disturbate dalle
guerre della penisola) scendendo dal Passo Resia e dal Passo del Brennero i bavaresi avevano occupato,
quello che in seguito prenderà il nome di Sud Tirolo (l'attuale Alto Adige), l'espansione quasi indisturbata era
arrivata fino a Salorno, dove la Valle dell'Adige si restringe, fino a formare con la gola una naturale baluardo
(allora e in seguito fino all'ultima guerra mondiale). Trento del resto allora era soltanto un ex piccolo castro
romano, di "passaggio", e il territorio circostante piuttosto infido. Ben altre prospettive invece offrivano la
piana che va da Merano a Bolzano e che prosegue appunto fino a Salorno.
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Ritorniamo a questo matrimonio di Autari, che suggerito da ragioni politiche, si trasformò invece in un
matrimonio d'amore. Alla storia ora s'innesta la leggenda che ha profumo di romanzo e di poesia.
Narra Paolo Diacono: "il re Longobardo Flavio Autari mandò ambasciatori in Baviera a chiedere al duca
Garibaldo la mano della figlia. Avuta risposta affermativa, ebbe desiderio di conoscere la futura sposa.
Pertanto preparò una seconda ambasceria, alla testa della quale mise un uomo di sua fiducia, e,
partecipandovi egli stesso in incognita al seguito dell'ambasciatore composta da uomini che non avevano
mai conosciuto il re di persona, partì per la Baviera. Dopo che furono ammessi alla presenza di Garibaldo e
dal capo dell'ambasceria furono offerti i doni, Autari, non riconosciuto da nessuno, si avvicinò al duca di
Baviera e gli disse di essere stato incaricato dal suo re di vedere la futura regina dei Longobardi per
informarlo poi della sua bellezza. Davanti a questa richiesta, Garibaldo fece subito venire la figlia.
AUTARI stupefatto ammirò silenzioso la bellezza e la grazia di Teodolinda, ed essendogli piaciuta in tutto
disse al duca "Poichè tua figlia è così bella da farci veramente desiderare di averla per nostra regina, noi
vorremmo, se tu ce lo concedi, ricevere dalla sua mano una coppa di vino da bere insieme". Fu concesso.
La fanciulla prese la tazza, la porse prima a chi si era presentato come capo dell'ambasceria, poi l'offerse ad
Autari che bevve e, nel restituirgliela, le toccò la mano con un dito che poi portò alla fronte e poi sulle labbra
come adorandolo. La giovane, che non gli era sfuggito quel gesto, imbarazzata raccontò il fatto perfino
arrossendo alla sua nutrice. Questa le rispose: "Chi ha osato toccarti non può essere che il tuo promesso
sposo. Non dir nulla a tuo padre; quel longobardo è degno di averti e gli starebbe bene anche una corona
sul capo". Del resto Autari era allora nel fior della gioventù, aveva un nobile l'aspetto, i capelli ricci e biondi,
ed era pieno di dolcezza il suo sguardo. Quando l'ambasceria prese commiato dal duca bavarese, questi
ordinò che fosse accompagnata da una scorta d'onore.
Giunto al confine; prima che la scorta se ne tornasse, Autari, rizzandosi sulle staffe, lanciò la scure che
aveva in mano contro un albero e ve la conficcò, esclamando: "Così colpisce il re dei Longobardi ! ". A quelle
parole la scorta seppe solo allora che lui era il re…".
Alla notizia del fidanzamento - o per motivi politici o perché Teodolinda era stata una sua promessa sposaCHILDEBERTO andò subito su tutte le furie, e per impedire il matrimonio invase con un esercito proprio la
Baviera; ma TEODOLINDA temendo di essere rapita, riuscì a fuggire in compagnia del fratello
GUNDOALDO (che poi dal re longobardo ebbe in premio il ducato di Asti) e a Verona trovò AUTARI che le
era venuto incontro. Le nozze furono celebrate con grande solennità il 5 maggio del 589.
Questo -ora avvenuto- attirò addosso ai Longobardi la collera di CHILDEBERTO, che mosse guerra ad
Autari. Naturalmente il re franco agiva d'accordo con i Bizantini. SMARAGDO a Ravenna era stato sostituito
dall'esarca ROMANO che da Costantinopoli era giunto con rilevanti forze e portato una gran quantità di
denaro per corrompere i deboli duchi longobardi, che erano parecchio venali. Infatti, Romano riuscì a trarre
dalla sua parte i duchi di Parma, di Piacenza e di Regio, poi con queste alleanze, o non interferenze, uscito
con il suo esercito da Ravenna si impadronì di Modena, Altino e Mantova.
Intanto scendevano dalle Alpi i Franchi, divisi in tre corpi. II primo, al comando di AUDOVALDO, puntò su
Milano, il secondo guidato da OLO, scese per Bellinzona, il terzo, comandato da CHEDINO, scese dalla
valle dell'Adige marciò su Verona ma qui dovette fermarsi. Assaliti da tanti nemici, i Longobardi si chiusero
nella città fortificata, allora (e anche in seguito) una delle più efficienti piazzaforti dell'intera pianura Padana.
L'esarca ROMANO si trovava a Mantova quando seppe che CHEDINO era giunto presso Verona, si affrettò
a spedirgli messi per combinare con lui il piano delle operazioni, ma i messi tornarono con una sconfortante
notizia: i Franchi si erano accordati con AUTARI e si preparavano a lasciare l'Italia. L'esarca, abbandonato
dagli alleati, se ne tornò a Ravenna. Così anche questa guerra, che pareva destinata a spazzare una buona
volta i Longobardi dall' Italia, veniva troncata sul più bello e chi ne faceva le spese era la povera popolazione
italiana che oltre a quelle dei Longobardi subiva i danni dei saccheggi anche dei Franchi, tre volte nell'arco di
pochi anni.
Con i Franchi, Autari iniziò subito delle trattative, offrendo, come l'altra volta, un annuo tributo e truppe
ausiliarie. Non erano condizioni onorevoli per i Longobardi, ma questi non erano in grado di sostenere una
lotta contro due nemici e la pace con uno di essi, sia pure a patti umilianti, s'imponeva. Soltanto stando in
pace con i Franchi, Autari poteva dare vita prima al suo regno, e poi estenderlo con altre conquiste in Italia.
Questo era il suo disegno, che però con questo accordo con i potenti vicini del nord riuscì ad attuare solo la
prima parte; l'attuazione della seconda parte gli fu impedita dalla morte che lo colse assai giovane a Pavia il
5 settembre del 590.
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
WACHER -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
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CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
Autari, lascia la bella Teodolinda, e il regno al suo successore Agilulfo e dei due ci occuperemo nel prossimo
capitolo accennando anche a Papa Gregorio Magno ed è il periodo che va da Agilulfo a Rotari dall'anno 591
al 652
GREGORIO MAGNO - IL REGNO LONGOBARDO (Da Agilulfo a Rotari: 591 al 652 d.C.)
LE LEGGI DI ROTARI ( dal 591 AL 652 )
ELEZIONE DI AGILULFO - GREGORIO MAGNO PONTEFICE - IL PATRIMONIO DELLA CHIESA GREGORIO MAGNO A ROMA - ATTIVITÀ DI GREGORIO - CONVERSIONE DEGLI ANGLI - IL REGNO DI
AGILULFO - RIBELLIONE DI DUCHI - GUERRE DEI LONGOBARDI CONTRO I BIZANTINI - GREGORIO
MAGNO E IL DUCA DI SPOLETO - L'ESARCA ALLA RISCOSSA - AGILULFO NELL' ITALIA CENTRALE ASSEDIO DI ROMA - POLITICA DI GREGORIO MAGNO - RELAZIONI TRA LA CHIESA ROMANA E
COSTANTINOPOLI - CONQUISTE DI AGILULFO - BATTESIMO DI ADALUALDO - S. COLOMBANO E IL
MONASTERO DI BOBBIO - MORTE DI AGILULFO - REGNO DI ADALUALDO - GLI AVARI NEL FRIULI - IL
TESORO DI MONZA - ARIOVALDO E GUNDEBERGA - ROTARI SALE AL TRONO E SPOSA
GUNDEBERGA - L' IMPERATORE ERACLIO - MAOMETTO E L' ISLAMISMO - CONQUISTE DI ROTARI ORDINAMENTO DEL REGNO LONGOBARDO - L' EDITTO DI ROTARI - CONDIZIONI DEGLI ITALIANI
SOTTO IL DOMINIO DEI LONGOBARDI
--------------------------------------------------------------------GREGORIO MAGNO
Il successore di Autari non fu scelto da un congresso di duchi, questi -se si deve credere a PAOLO
DIACONO lo storico-biografo dei Longobardi- dissero a TEODOLINDA, di cui conoscevano la saggezza, di
scegliersi un marito e che loro l'avrebbero riconosciuto come sovrano. Essa scelse un parente del marito,
AGILULFO, duca di Torino, turingio d'origine, giovane bello, savio e valoroso; poi partì da Pavia e gli andò
incontro sulla via di Torino.
L' incontro ebbe luogo a Lunello: qui Teodolinda bevve con lui nella medesima coppa, poi, arrossendo e
sorridendo, si fece baciare la bocca. Le nozze furono presto celebrate nel maggio del 591, a Milano, davanti
a un'assemblea di duchi longobardi, e subito Agilulfo fu investito del potere regio.
Nell'anno stesso in cui Agilulfo riceveva la corona, succedeva al pontefice PELAGIO II il papa GREGORIO I,
che ebbe poi il nome di MAGNO.
Gregorio era nato verso il 540 dall'illustre famiglia Anicia, da cui era uscito BOEZIO, aveva studiato lettere e
filosofia, ed ancor giovane- si crede nel 573 - aveva conseguito la carica di "prefectus urbis". Venutagli ben
presto a noia la vita mondana, vestì l'abito monastico e spese il suo immenso patrimonio in opere di
beneficenza e fondando conventi, di cui sei in Sicilia, dove aveva molte terre, case e palazzi, e uno suntuoso
a Roma, sul Celio, che scelse come sua dimora, trasformò questo in un convento di cui più tardi lui stesso
divenne abate.
Narrasi che un giorno, vedendo sul mercato alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita, bellissimi
di aspetto ed ancora pagani, esclamasse: "… Non Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati…". Poi partì
per la Britannia con lo scopo di convertire al Cristianesimo quelle popolazioni. Ma il papa lo richiamò e lo
nominò diacono; più tardi, nel 579, lo mandò come suo nunzio o apocrisario a Costantinopoli, dove Gregorio
strinse molte amicizie, giovò grandemente alla Chiesa romana e si guadagnò la stima dell'imperatore
MAURIZIO, di cui tenne a battesimo il figlio TEODOSIO.
Intorno al 586 Gregorio tornò a Roma e, morto nel 590 Pelagio II di cui era, stato negli ultimi quattro anni
segretario, fu con il suffragio del clero e del popolo eletto pontefice.
Era una carica di altissima responsabilità dati i tempi che correvano. Uno scisma, detto dei Tre Capitoli,
sviluppatosi al tempo di Papa Vigilio (553) nella Liguria, nella Venezia e nell'Istria, travagliava la Chiesa,
mentre i Longobardi correvano su e giù minacciosi per l'Italia centrale e meridionale, e con Roma afflitta da
una terribile pestilenza.
Per implorare l'aiuto divino, Gregorio fece andare il popolo in processione per tre giorni continui alla basilica
di Santa Maria Maggiore. Roma fu liberata dal morbo e più tardi si disse che, durante la processione, era
apparso sulla mole Adriana un angelo che rimetteva la spada nel suo fodero come per annunziare che le
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preghiere dei fedeli erano state esaudite. Da allora la tomba di Adriano mutò il nome in quello di Castel
Sant'Angelo, e una statua dell'angelo posto in cima.
Di questo grande pontefice, che fu il secondo fondatore della Chiesa e mise il Papato sulla via della potenza,
è impossibile riassumere nello spazio di qualche pagina la prodigiosa attività.
Uno dei suoi più gravosi compiti fu l'amministrazione e la difesa dell'ingente patrimonio della Chiesa, di cui
gran parte era stata manomessa dall'invasione longobarda, parte - come quella dell'Africa - per la
lontananza era in rovina, parte, specie nella Sardegna e nella Corsica, era presa di mira dall'avidità dei
magistrati bizantini. Gregorio con saggia amministrazione - e l'esperienza non gli mancava ed affidando la
tutela e la direzione dei beni ad ecclesiastici di sua fiducia, fissando norme e dando continui preziosi
consigli, riuscì a salvaguardare il patrimonio della Chiesa e ad evitare che le rendite diminuissero. Ma - come
scrive il Romano - se la Chiesa "ricavava grandi rendite dai suoi patrimoni, grandi erano però i bisogni cui
doveva soddisfare. Era regola generale che in ogni vescovado l'entrata era stata divisa in parti eguali tra il
vescovo, il clero, i poveri e la cura degli edifici pubblici. La stessa regola valeva anche per la Chiesa romana;
ma questa, in grazia della sua posizione, doveva far fronte ad altri impegni derivanti dalla povertà generale,
dai bisogni pubblici, dal riscatto dei prigionieri, dalle contribuzioni imposte da' Longobardi.
All'amministrazione delle spese, che era accentrata in Roma, vi era preposto un diacono con il titolo di
"dispensator" (più tardi "sacellarius"), coadiuvato da altri funzionari preposti alla cassa e al tesoro. In forza di
questa organizzazione la Chiesa romana disponeva di mezzi finanziari copiosissimi, ed era diventata la
prima potenza economica d'Italia.
Di questi mezzi si servì Gregorio - che invece di dilapidarli li moltiplicò- per accudire agli svariati bisogni delle
province e ai danni prodotti dall'invasione, e soccorrere chierici e monaci, che avevano perduto i loro
possessi e vivevano lontani dalle chiese e dai monasteri. Ma queste spese erano poca cosa in confronto a
quelle che occorrevano per i bisogni di Roma. Questa città era stata sempre economicamente passiva, non
avendo mai prodotto nulla, non avendo industrie, era un'autentica città di consumo: lo divenne ancor più
quando, per l'invasione longobarda, si venne popolando da una quantità di fuggiaschi accorsi da ogni parte
d'Italia. Di sole monache fuggite a Roma e mantenute con l'elemosina della Chiesa romana, ve n'erano circa
tremila: s'immagini quanto maggiore fosse il numero totale dei ricoverati.
Molti di questi, privi d'ogni risorsa, entravano nella gerarchia ecclesiastica o nella burocrazia, altri entravano
al servizio della Chiesa come affittuari e lavoratori, i più se vivevano ancora era grazie alla beneficenza. In
conseguenza l'approvvigionamento di Roma, che era sempre stato sotto la cura dell'amministrazione
cittadina, nel caos distruttivo di cose e di uomini che era avvenuto in questi critici anni, questo impegno
divenne un compito esclusivo della Chiesa, la quale si sostituì interamente allo Stato, procurando con i suoi
patrimoni il grano necessario al vettovagliamento della popolazione, e distribuendo, all'occorrenza, vino, olio,
formaggio, pesce ed altre derrate.
Né solo al vettovagliamento dei cittadini la Chiesa doveva provvedere, ma anche a quello delle truppe di
guarnigione, perché lo stato trovava negli ufficiali pontifici miglior garanzia di onestà, piuttosto che nella
corrotta gerarchia di funzionari del passato: e coll'andare del tempo attecchì l'uso che anche la paga dei
soldati fosse lasciata alle cure dei tesorieri papali.
Così dalla forza delle cose Gregorio era condotto non solo ad estendere la sua ingerenza
nell'amministrazione della città, ma ad esercitarvi anche un influsso preponderante. Mentre altrove la
conquista longobarda distruggeva d'un tratto i poteri civili conferiti ai vescovi dalla legislazione giustiniana, a
Roma il vescovo era divenuto il vero governatore della terra, e di fronte alla forte personalità di Gregorio, la
cui operosità abbracciava tutti i bisogni del suo tempo, impallidivano le figure secondarie del Prefetto e degli
altri magistrati cittadini, e passava in seconda linea quella stessa dell'esarca di Ravenna…".
Gregorio del resto non fu solo un "gigante" in questo periodo così drammatico per l'Italia, ma rimase un
"gigante" anche in tutti i secoli successivi. Una figura mitica.
In mezzo alle gravissime cure dell'amministrazione del patrimonio della Chiesa, non perdeva di mira - ed era
estremamente necessario- il consolidamento dell'autorità papale in Italia e fuori. Lui era del resto un prete (e
rimase un semplice prete anche sul soglio, perché spesso l'abito non ha mai fatto un papa) e se non fosse
stato un prete, avrebbe potuto benissimo essere un grande imperatore; autoritario, capace, e di grande
intuito geo-politico, al pari di quei quattro-cinque grandi che storia ha consacrato ai posteri.
Il concilio di Calcedonia aveva proclamato da tempo il primato alla Chiesa di Roma, ma questa incontrava
resistenze non poche e lievi, palesi e nascoste. Gregorio dovette lottare per tutto il suo pontificato per
piegare il patriarca di Costantinopoli che, sotto Pelagio II, aveva assunto il titolo di ecumenico. Non vi riuscì,
ma poté con energia ridurre all'obbedienza i vescovi di Aquileia, Milano e Ravenna che tentavano di rendersi
indipendenti dalla S. Sede e riuscì anche ad esercitare una grande autorità sui conventi ed, oltre che sui
vescovi dell'Italia bizantina e longobarda, su quelli della Corsica, della Sardegna, dell'Africa, della Spagna e
della Gallia.
Con il re visigoto RECAREDO di Spagna, convertitosi, come abbiamo detto, al Cattolicesimo, Gregorio
Magno fu in continui rapporti e in eccellente relazione con i re franchi. E con l'aiuto di questi e della regina
BRUNECHILDE il pontefice riuscì a tradurre in realtà quello ch'era stato il suo sogno più bello: la
conversione della Britannia, che affidò ad Agostino, priore del convento di Sant'Andrea.
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In meno di due anni diecimila Angli, compreso il re del Kent, Edelberto, si convertirono. Era questo un
grande successo di Gregorio Magno, il primo successo di quella sua politica che mirava ad eliminare i
naturali avversari della Chiesa e ad accrescere l'autorità del Papato con la conversione dei barbari.
Più tardi, per opera sua, si convertiranno al Cattolicesimo anche i Longobardi e i pontefici avranno così
modo di far cessare lo scisma dei Tre Capitoli e tutelare meglio i beni della Chiesa; ora però, in questi anni
critici, la Chiesa romana ra in aperta lotta con i Longobardi e il papa, nell'inerzia dei Bizantini, è il paladino
più strenuo della libertà di Roma e dell'Italia.
AGILULFO - FINE DI GREGORIO MAGNO
Agilulfo, salito sul trono, non si scostò dalla politica di Autari, che mirava al consolidamento della monarchia
e al mantenimento della pace con i Franchi. Questa fu rinnovata per mezzo del duca e del vescovo di Trento
che riuscirono ad ottenere il riscatto dei prigionieri fatti nelle ultime invasioni, e fu una pace che durò a lungo
e giovò moltissimo ai Longobardi. Il consolidamento della monarchia invece fu ostacolato da parecchie
ribellioni di duchi, che però Agilulfo seppe energicamente domare: i duchi MINULFO di San Giuliano sul lago
di Orta, ZANGRULFO di Verona e il nobile VARNECAUSO di Pavia, furono vinti ed uccisi; ULFARI, duca di
Treviso fu sconfitto e messo in prigione, GAIDULFO, duca di Bergamo, due volte ribelle, fu due volte vinto e
anche perdonato, ma la terza volta fu messo a morte.
Allo scopo di legare al regno il ducato di Benevento, che per la lontananza dava segni di volersi render
indipendente, morto ZOTTONE, Agilulfo vi mandò ARICHI, nobile longobardo del Friuli, che durante il suo
governo durato quarant'anni doveva estendere per un buon tratto il suo dominio nell'Italia meridionale.
Ristabilita sui duchi l'autorità regia, Agilulfo intensificò le operazioni militari contro i Bizantini, specialmente
contro Roma e Napoli. La condotta di queste operazioni fu affidata ai duchi di Benevento e di Spoleto. Il
primo si spinse contro Napoli, il secondo, ARIULFO, nel 591, invase il territorio romano. La situazione delle
due città allora si fece critica: pochissime forze ave-vano a loro disposizione e l'esarca, chiuso a Ravenna
con il grosso delle truppe, non si muoveva. Anima della resistenza era Gregorio, il quale non soltanto
dirigeva la difesa di Roma ma si interessava anche di quella di altre città, mandando a Nepi LEONZIO e a
Napoli il tribuno COSTANZO.
Malgrado però l'infaticabile operosità del papa, terribile era la situazione di Roma, ridotta a comunicare con
Ravenna solo per via mare. Ariulfo occupava Orte, Sutri, Bomarzo, Todi, Amelia, Perugia e Luccoli e si
spingeva, saccheggiando, fin sotto le mura della metropoli. Quanto fosse difficile a Gregorio resistere ad
Ariulfo mostra la sua lettera al vescovo di Ravenna: "… I soldati regolari che qui si trovano, non ricevendo
più le paghe, hanno abbandonato la difesa della città; gli altri si possono a stento persuadere a far la guardia
alle mura. Ormai non ci resta che far la pace con i Longobardi, pace che per Roma è ormai una questione di
vita o di morte…".
E la pace nel luglio del 592 Gregorio la stipulò con ARIULFO, riuscendo per mezzo di una certa somma di
denaro a fare allontanare il nemico dalla città.
L'atto del pontefice ebbe per effetto un improvviso risveglio dell'attività guerresca dei Bizantini. L'esarca
Romano uscì finalmente da Ravenna e riconquistò con le armi tutti i paesi lungo la via Flaminia
precedentemente occupati da Ariulfo. Anche Perugia cadde nelle mani dell'esarca, cedutagli dal duca
longobardo MAURIZIO, che, forse per denaro, forse per paura, fece entrare una guarnigione bizantina.
Il risveglio dell'esarca provocò una pronta reazione di Agilulfo, che nel maggio del 593 mosse con un forte
esercito verso l'Italia centrale, comportandosi purtroppo barbaramente con le popolazioni italiane, tra le quali
furono fatti numerosi prigionieri, di cui parte furono mandati in Gallia per esservi venduti come schiavi, parte
furono mutilati. Piacenza e Parma furono riacquistate. In questa ultima città Agilulfo mise come duca il
proprio genero GODESCALCO, poi marciò contro Perugia che fu assediata ed espugnata e Maurizio pagò
con la morte il suo tradimento.
Ora Roma si trovava nuovamente minacciata dai barbari e il pontefice, commosso dalle sofferenze degli
Italiani e inorridito dagli atti di barbarie commessi dai Longobardi, troncava le sue predicazioni sopra
Ezechiele e si dedicava come un guerriero alla difesa della città "…Nessuno potrà rimproverarci se in mezzo
a tante sofferenze e di fronte alle spade nemiche tronchiamo la nostra predicazione. Alcuni Italiani già
tornarono fra noi con le mani mozze, altri furono fatti prigionieri e venduti come schiavi, altri furono uccisi ".
Così esclamava il pontefice, e diceva ancora: "Che cosa per noi può esservi di gioia in questo mondo ?
Dovunque sciagure, dovunque pianti: le città sono distrutte, i castelli demoliti, i campi devastati, la terra è
tutto un deserto. Nelle campagne non si trovano più coloni e le città sono prive di abitanti..".
Roma fu assediata, ma anche questa volta fu salva: la resistenza dei cittadini, la malaria che recava gravi
danni alle truppe, la turbolenza dei duchi dell'alta Italia e un tributo annuo cui il papa si obbligava a versare,
indussero Agilulfo a stipulare un accordo con il pontefice e a toglier l'assedio.
Per la seconda volta Gregorio, costretto dalle circostanze, oltrepassando i limiti imposti ai suoi poteri,
trattava la pace o la tregua con i Longobardi. Questo modo di agire del pontefice ci fa conoscere quale era la
sua politica. Egli aveva poca fiducia nelle armi imperiali e non era soddisfatto della politica di Costantinopoli
e del contegno dei Bizantini in Italia. Di questo contegno abbiamo un accenno in una lettera al vescovo di
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Sirmio, nella quale il papa scrive: "…La condotta dei Bizantini è peggiore di quella dei Longobardi; ormai ci
sembrano più benigni i nemici che ci uccidono che non i magistrati imperiali, i quali dovrebbero difenderci ed
invece con la loro malizia, con le rapine e gli inganni lentamente ci consumano…".
Della politica imperiale il pontefice non poteva esser soddisfatto: perché non riusciva a richiamare
all'obbedienza il patriarca di Costantinopoli, che continuava a servirsi del titolo di ecumenico; perché proibiva
ai funzionari di ricoprire cariche ecclesiastiche; e perché impediva a Gregorio di convocare un concilio per
risolvere la questione dello scisma dei Tre Capitoli.
Non era nell'interesse della Chiesa romana favorire i Bizantini contro i Longobardi, oltre che essere
pericoloso; ma neppure era utile favorire questi contro quelli, barbari ed ariani per giunta. Nella lotta tra
l'impero e la monarchia longobarda, più che la supremazia di una parte, alla Chiesa conveniva l'equilibrio,
dal quale essa avrebbe potuto ritrarre vantaggi considerevoli, primo fra tutti l'indipendenza da Costantinopoli.
A Gregorio ora premeva che l'Italia fosse pacificata; ottenuta la pacificazione egli potrà con una forza
avversa, come quella dei barbari, fare una forza amica della Chiesa, tentando di convertire al Cattolicesimo i
Longobardi.
Messosi su questa via, egli cerca, per mezzo del vescovo di Milano, un accordo fra Longobardi e Bizantini e
scrive a SEVERO SCOLASTICO, consigliere dell'esarca, esortandolo ad indurre ROMANO alla pace e
minacciandolo che l'avrebbe con i Longobardi realizzata lui separatamente se il patrizio si fosse rifiutato.
Quest'agire del pontefice, non poteva non irritare l'imperatore Maurizio, il quale
rimproverò il papa, tacciandolo d'ingenuo e fatuo. Gregorio rispose con una lettera dignitosa e ferma
accusando l'inetta politica imperiale e reclamando il rispetto del medesimo imperatore. Più tardi, accusato di
avere avuto parte nell'uccisione di Malco, vescovo longobardo, fece dire all'imperatore, per mezzo del suo
nunzio: "… Se io avessi voluto lordarmi le mani di sangue, a quest'ora i Longobardi non avrebbero né re né
duchi né conti e sarebbero in grandissina confusione (hodie Langobardorum gens, neo regeyn, neo duces,
neo comites haberet acque in summa confusione esset divisa), ma poiché temo Iddio; mi guardo bene dal
mischiarmi nell'uccisione di chicchessia…".
Intanto le armi non tacevano: la Sardegna era minacciata dai Longobardi, nel 596 il duca di Benevento
devastava la Campania ed estendeva la sua conquista fino a Cotrone, la Toscana cadeva in mano dei
Longobardi, eccettuate alcune città fra cui Pisa, ed ARIULFO minacciava Fano, Fermo ed Osimo.
Gregorio persisteva più che mai nel suo proposito di far fare la pace. Glie ne davano speranza l'avvento di
CIRIACO al patriarcato di Costantinopoli e la venuta da Ravenna, come successore di Romano, dell'esarca
CALLINICO.
Tra questo ed Agilulfo furono avviate trattative per una pace che doveva esser durevole ed invece, per le
pretese di Ariulfo e di Arichi, non fu che una tregua di un anno, stipulata verso la fine del 598 e che nella
primavera del 600 fu rinnovata fino alla primavera successiva.
La guerra, riaccesasi nel 601, fu condotta da Agilulfo con grande vigore. L'esarca Romano, che era stato
estromesso come esarca, con un audace colpo di mano con alcuni suoi seguaci, era riuscito a impadronirsi
di Parma e a catturare il duca GODESCALCO e la moglie; Agilulfo se ne vendicò ricuperando subito Parma,
poi marciò su Padova, che, nonostante la fiera resistenza, fu presa ed incendiata. Di là il re, con un corpo di
ausiliari slavi ed avari, passò nell'Istria che fu devastata.
Era intanto salito al trono di Costantinopoli FOCA, che aveva fatto trucidare Maurizio. Conclusa la pace con
gli Avari il nuovo imperatore sostituì Callinico nell'esarcato di Ravenna e vi mandò SMARAGDO. Ma l'arrivo
del nuovo esarca non mutò le sorti della guerra contro Agilulfo, che riuscì ad occupare a viva forza
Monselice, Mantova e Cremona ed impadronirsi di Valdoria e Brescello.
Fra tutte queste vicende politiche e guerresche l'attività di Gregorio Magno non aveva riposo: il gran
pontefice lavorava per la conversione dei Longobardi e in questa sua opera era validamente aiutato dalla
cattolica TEODOLINDA tenendo con lei una fitta corrispondenza. Il primo frutto dell'opera del papa si ebbe il
7 aprile del 603: fu in questi giorni che nella basilica di San Giovanni; eretta dalla pietà della regina, fu
battezzato ADALOALDO, figlio di Agilulfo. Era l'inizio della generale conversione dei Longobardi.
Gregorio non doveva però vedere realizzato il suo sogno. L' 11 marzo del 604 moriva in età di
sessantaquattro anni. Nel settembre dello stesso anno, avendo Smaragdo restituita ad Agilulfo la figlia
prigioniera, moglie di Godescalco, fu rinnovata fino al 605 la tregua tra Longobardi e Bizantini.
DA ADALOALDO A ROTARI
Pochi mesi dopo la morte del pontefice, nel luglio del 604 Agilulfo proclamava suo erede a Milano il figlio
ADALOALDO e per festeggiare un trattato di pace che aveva rinnovato coi Franchi lo fidanzava con la figlia
di TEODEBERTO II.
Finita la tregua con i Bizantini nel 605, Agilulfo ricominciava la guerra e, varcato l'Appennino, riduceva in suo
potere Orvieto e si spingeva fino a Bagnorea. Nel novembre dello stesso anno una nuova tregua fu stipulata
con l'esarca: tregua che rinnovata nel 607, doveva essere rispettata da GIOVANNI, mandato nel 611 a
Ravenna, come successore di Smaragdo, dall'imperatore ERACLIO salito al trono un anno prima.
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Questi anni per l'Italia sono privi d'avvenimenti importanti. Di uno dobbiamo però parlarne: verso il 612, un
irlandese, S. COLOMBANO, noto per aver fondato molti conventi in Francia (un suo discepolo, fondò S.
Gallo, a quel tempo in Svizzera, cui è rimasto il suo nome), viene in Italia e, per mezzo di Teodolinda, ottiene
dal re la valle di Bobbio, dove erige il monastero, che presto diventerà centro attivo di cultura e di
propaganda cattolica.
Tra il 615 e il 616, dopo venticinque anni di regno, muore AGILULFO. Gli succede il figlio ADALOALDO che
non ha ancora compiuto il quinto lustro. Nelle mani della madre è pertanto da credere che rimanga il potere.
Il regno di Adaloaldo dura una dozzina d'anni e di lui e di questi anni abbiamo scarsissime notizie.
Forse sotto di lui avviene la scorreria degli Avari nell'Istria e nel Friuli, di cui c'è stato tramandato un racconto
che però sa di leggenda. Secondo questo racconto, GISULFO, duca del Friuli, conduce le sue schiere contro
gli Avari, ma in una sanguinosa battaglia fu ucciso. La moglie ROMILDA con otto figli, quattro femmine e
quattro maschi, dei quali ultimi, due soli, Tasone e Cacco, adulti, si chiude nella città di Forum Julii (Cividale)
dove furono assediati dai nemici.
Il capo degli Avari era un bellissimo giovane e di lui s'innamora Romilda, che gli offre la resa della città se
egli promette di sposarla. L'avaro accetta, entra a Cividale, la saccheggia, fa prigionieri gli abitanti e dopo
aver posseduta Romilda la consegna ai suoi ufficiali e la fa impalare per punirla del tradimento.
Le quattro figlie sono fatte prigioniere, ma riescono a salvare il proprio onore con un curioso stratagemma; i
maschi si salvano fuggendo e il più giovane, GRIMOALDO, catturato durante la fuga da un cavaliere
nemico, uccide l'avaro e raggiunge i fratelli. Due di questi, i minori, trovano asilo dallo zio ARICHI a
Benevento, TASONE e CACCO, partiti gli Avari, ritornano nel Friuli e ne assumono il governo che più tardi
passerà nelle mani di GRASULFO, fratello di GISULFO.
Teodolinda, durante la sua reggenza, si mantiene in stretti rapporti con il monastero di Bobbio, favorisce il
Cattolicesimo, costruisce chiese e le adorna di pitture. Fra le chiese, quella cui la regina dedica le cure
maggiori è la basilica di S. Giovanni a Monza, che fu arricchita con oggetti d'inestimabile valore storico ed
artistico. Di questi oggetti sono degni di menzione tre corone: la prima, d'oro, tempestata di pietre preziose,
adorna di figure rappresentanti Cristo e gli Apostoli, si suole chiamare di Agilulfo del quale porta scritto il
nome col titolo di "rex totius Italiane".
Da Napoleone essa sarà portata - a Parigi e sparirà misteriosamente. La seconda, detta di Teodolinda, è di
oro e smeraldi, con una croce d'oro ingemmata pendente; la terza, anch'essa d'oro, pregevolmente scolpita
a frutta e fiori e tempestata di perle e smeraldi, è la famosa "corona ferrea", così chiamata perché nell'interno
ha una sottile lamina di ferro che la leggenda narra essere formata da uno dei chiodi con cui Cristo fu
crocifisso sulla Croce. Questa "CORONA DI FERRO" o "Corona ferrea", servirà per molto tempo per
l'incoronazione dei re d'Italia.
Teodolinda muore forse nel 662; l'anno dopo fu ucciso ADALOALDO, vittima forse del partito longobardo
conservatore, capitanato da ARIOVALDO, duca di Torino e marito di GUNDEBERGA, figlia di Teodolinda.
Ariovaldo successe al cognato; regnò fino al 636 e, sebbene la sua ascensione al trono fosse dovuta alla
lotta da lui ingaggiata contro il partito cattolico longobardo, si mostrò molto temperante verso i cattolici. N'è
una prova la condotta da lui tenuta nella controversia sorta tra il vescovo di Tortona e il monastero di Bobbio.
Il vescovo voleva mettere sotto la sua giurisdizione il monastero. Rifiutandosi, la questione fu rimessa al
pontefice ONORIO I, il quale con bolla dell'11 giugno del 628, lo mise sotto la propria dipendenza.
Pochissimo sappiamo del regno di Ariovaldo. PAOLO DIACONO ne parla poco; il cronista franco
FREDEGARIO ci narra invece di dissidi sorti tra il re e la regina. Questa, accusata da un certo Adalulfo di
adulterio con il duca di Toscana, fu dal re confinata in una torre del castello di Lomello. Qui GUNDEBERGA
rimase tre anni, al termine dei quali, in seguito alla richiesta di CLOTARIO II, re dei Franchi, Ariovaldo
permise che la moglie dimostrasse la propria innocenza per mezzo di un giudizio di Dio, che riuscì a lei
favorevole riconquistando così la libertà.
Morto nel 636 Ariovaldo, gli successe ROTARI, duca di Brescia, che per rafforzare la propria posizione
sposò GUNDEBERGA, la quale, essendo cattolica, godeva le simpatie di tutti quei Longobardi che avevano
abbracciato il Cattolicesimo. Rotari però era ariano e non poteva certamente vivere in buon'armonia con la
moglie, e forse alla diversità di fede si debbono attribuire i dissapori domestici tra il re e la regina, la quale fu
chiusa dal marito nel palazzo di Pavia e vi rimase per cinque anni fino a che non la liberò, restituendola alla
dignità regia, l'intervento di un altro re franco, CLODOVEO II.
ROTARI era salito al trono con un programma ben definito, di cui due erano i punti principali: cacciare
dall'Italia i Bizantini, favorendo nello stesso tempo fra i Longobardi l'arianesimo, e dare al suo popolo un
codice di leggi.
L'attuazione del primo punto non presentava grosse difficoltà. Costantinopoli non pensava all'Italia che
quando c'era da rinnovare la tregua o quando - come sovente avveniva dopo il tentativo di ELEUTERIO di
rendersi indipendente (616-620) - si doveva mandare un nuovo esarca.
Tutte le cure di ERACLIO erano rivolte ad Oriente. Prima aveva dovuto lottare energicamente contro i
Persiani, che, sotto COSROE, si erano impadroniti della Siria, della Palestina e dell'Egitto, e contro gli Avari
che avevano assalito la stessa Costantinopoli, e gli uni e gli altri Eraclio li aveva sconfitto, i primi dopo una
guerra che dal 622 era durata fino al 628, gli altri nel 625; poi si era trovato di fronte ad un importantissimo
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avvenimento che in Asia e in Africa doveva essere fatale al Cristianesimo e all'impero: all'ISLAMISMO (vedi
nei singoli anni di questa Cronologia).
Una nuova religione era sorta nel cuore dell'Arabia per opera di MAOMETTO. Quest'uomo veramente
straordinario era nato nel 578 alla Mecca dalla potente tribù dei Quraisciti. Cammelliere prima, sposo di una
vedova poi, proclamatosi "inviato di Dio" (Nabi), aveva scatenato una guerra contro l'idolatria. predicando
una nuova fede che da Medina, dov'era fuggito nel 622 ("Egira"), aveva imposto con le armi a quasi tutta
l'Arabia. Era una religione semplice, priva di teoriche sottili, di derivazione in gran parte giudaica e cristiana,
che proclamava l'unità di Dio, il profetismo, l'immortalità dell'anima, il giudizio, che minacciava pene per i
malvagi nell'altro mondo, e per gli eletti prometteva un paradiso di voluttà sensuali, che inculcava il fatalismo
e il disprezzo della morte e sviluppava lo spirito guerriero della razza.
Morto Maometto nel 632, la sua opera era stata continuata dal suocero ABU-BAKR, primo califfo, che aveva
ridotto all'obbedienza le tribù arabe ribelli, sconfitto nello Jemen l'esercito del pseudo-profeta MUSAILIMA e
iniziata la conquista della Siria e della Mesopotamia, poi dal secondo califfo, OMAR, coadiuvato dai
valorosissimi generali KAHLID, ABU-OBAIDA, AMRU, MATANNA BEN-HARITHA.
Nel 637, ad El Bonaib era stato sconfitto l'esercito persiano ed era stata presa Damasco, l'anno dopo era
caduta Antiochia, nel 637 Gerusalemme, fra il 638 e il 640 erano stati conquistati la Mesopotamia e l'Egitto.
ROTARI non aveva nulla da temere dall'impero; riuscì quindi con una certa tranquillità e fiducia a muoversi
verso la conquista del resto dell'Italia.
Una grande vittoria sulle truppe bizantine al Panaro, nell'Emilia, gli aprì la via verso l'ovest e il sud. Passato
l'Appennino, Rotari ridusse in suo potere la Lunigiana ed estese il dominio su tutta la Liguria fino al confine
dei Franchi. Il vescovo di Milano, che risiedeva a Genova, caduta questa città in mano dei Longobardi, tornò
nella sua diocesi. Dalla Liguria Rotari si trasferì con il suo esercito nella Venezia ed assalì e prese Oderzo il
cui vescovo MAGNO si rifugiò in una delle isole della laguna della futura Venezia.
Nel 641 moriva ERACLIO a Costantinopoli e a Benevento ARICHI. A quest'ultimo succedeva il nipote
RADOALDO, figlio di Gisulfo duca del Friuli e nel 647 il ducato di Benevento passava a GRIMOALDO.
Il secondo punto del programma di Rotari fu attuato nel 643 con la promulgazione del famoso EDITTO.
Prima però di esaminare l'Editto di Rotari è necessario parlare dell'ordinamento del regno longobardo.
ORDINAMENTO DEL REGNO LONGOBARDO L' EDITTO DI ROTARI
Capo della "nazione longobarda", o regno longobardo", era il re, un re elettivo, che era scelto tra i membri
d'una certa famiglia dal popolo o dai suoi capi. Sue insegne erano il "conto", la croce d'argento, il manto, il
sigillo e forse la corona; suoi titoli erano quello di "Flavius" ed "excellentissimus". Il re, con il consiglio dei
grandi dello stato, faceva le leggi che sottoponeva all'approvazione dell'assemblea popolare; aveva il
supremo comando militare che gli dava il diritto di convocare l' "eribanno" , di guidare l'esercito, dichiarar
guerra e concludere la pace; ed era investito della suprema potestà civile e giudiziaria.
Il re era assistito nel governo da cortigiani detti "gasindi". Fra questi sceglieva i giudici, che lo aiutavano
nell'amministrazione della giustizia e i funzionari della corte quali il maggiordomo ("stolezaz"), il cavallerizzo
("marpahis"), il tesoriere ("duddo"), il coppiere ("pincerna").
Il regno era suddiviso in ducati che in origine, come abbiamo detto, si crede fossero trentasei. Essi erano
retti dai duchi, i quali erano nominati a vita dal re. In certi ducati però, come quelli di Benevento, del Friuli e
di Spoleto, crebbe tanto la loro potenza ch'essi divennero ereditari e si considerarono come veri e propri
principi indipendenti. La turbolenza dei duchi e la loro tendenza a rendersi indipendenti dal re costituì la
debolezza dello stato longobardo e fu causa non ultima della sua rovina. I duchi, nel proprio territorio,
avevano le stesse attribuzioni del re: amministravano la giustizia, comandavano l'esercito, facevano
spedizioni militari per ordine del sovrano e non di rado di propria iniziativa, e avevano proprie corti e propri
"gasindi".
Oltre i duchi, dipendevano direttamente dal sovrano i "gastaldi", i quali erano veri e propri ufficiali regi, che
erano preposti all'amministrazione della "Curtis regia", cioè dei beni della corona, riscuotevano le multe e le
imposte e sui distretti che amministravano avevano potestà civile, giudiziaria e militare.
I duchi e i gastaldi, per il potere giudiziario che avevano, erano detti anche "iudices", i secondi però
differivano dai primi in questo, che mentre quelli erano eletti a vita e disponevano dei beni della propria corte
ducale, questi erano revocabili e non potevano disporre dei beni, erano solo degli amministratori di quelli
della corte regia.
Una gerarchia di funzionari dipendenti dai duchi e dai gastaldi era quella degli "sculdasci" e degli "attori". Gli
sculdasci, che erano alle dirette dipendenze del duca, erano preposti al governo di una frazione del ducato,
detta "sculdascia", avevano attribuzioni giudiziarie e di polizia e comandavano le "centene" dell'esercito da
cui prendevano il nome di "centenari". Sotto lo "sculdascio" era il "decano", che aveva attribuzioni militari più
ristrette e giudiziarie limitate ai soli casi di polizia.
Dal gastaldo dipendeva invece l' "attore", preposto ad un'azione della corte regia, e dagli attori i "saltari",
prefetti dei boschi, che fra le altre attribuzioni avevano quelle di misurare e fissare i confini. Altri ufficiali
d'ordine inferiore erano gli "scarioni", preposti alle chiese e ai monasteri.
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La società longobarda era divisa in "uomini liberi" e in "non liberi". Dei primi esistevano varie gradazioni che
andavano dagli "arimanni", grossi proprietari di terre, ai "pauperes", veri e propri proletari; in mezzo stavano i
"liberi homines", piccoli proprietari di terre; al disopra di tutti stavano i nobili. La categoria più alta dei non
liberi era costituita dagli aldii, i quali personalmente erano liberi, ma erano legati alla terra, che non poteva
esser venduta o alienata, e dovevano pagare ai padroni una parte dei prodotti e prestar certi servizi. Più
sotto degli aldii stavano i "massarii" cui era affidata la coltivazione dei fondi, e sotto a questi i servi
ministeriali che esercitavano vari mestieri. In fondo alla scala sociale erano i "servi rusticani" addetti ai lavori
campestri.
La società longobarda era governata per mezzo di consuetudini che avevano forza di leggi. La prima legge
scritta dai Longobardi fu l' EDITTO di ROTARI, il quale, secondo l'esplicita dichiarazione del legislatore, non
è che una raccolta di consuetudini longobarde accresciute e migliorate con il consiglio dei primati e del
popolo.
L'Editto costa di trecentottantotto capitoli, in cui si comincia con il trattare intorno ai delitti contro lo stato e le
persone, si continua con il diritto ereditario, con l'ordine della famiglia e della proprietà e si termina con la
procedura.
L'estensione maggiore è data al diritto penale. Base di questo non è più la vendetta del sangue, la "faida"
barbarica che si tramandava fino alla settima generazione, ma la "composizione", il compenso cioè
pecuniario che il reo è tenuto a corrispondere al danneggiato o ai parenti. La pena di morte è limitata a certi
reati speciali, quali il regicidio, la diserzione, il tradimento, i delitti contro la sicurezza dello stato e l'ordine
pubblico, e l'uccisione del marito. Il compenso in denaro è la pena che si applica a tutti gli altri delitti,
dall'omicidio al reato più piccolo."Guidrigildo" è denominato il prezzo del sangue e varia secondo la qualità
dell'ucciso. Per l'uccisione di una donna libera è comminata una multa di mille e duecento solidi, metà dei
quali è dovuta al re. Il "guidrigildo" è applicato per l'uccisione dei liberi; ma anche la vita di un servo ha un
prezzo: sessanta solidi quella di un "aldio", cinquanta quella di un "servo ministeriale", venti quella di un
"servo rustico". Poichè i servi non hanno personalità giuridica, la multa va al padrone e su questo ricade la
responsabilità pecuniaria per reati commessi dai servi.
Severissimo l'editto di Rotari è contro i ladri e i liberi o i servi fuggitivi. II ladro, sia esso libero o servo, è
tenuto a pagare il "novigildo", cioè nove volte il valore della cosa rubata, e la stessa multa è inflitta al
ricattatore. Il "novigildo" è raddoppiato se complice in un furto è il padrone. Pene egualmente severe sono
comminate per i fuggitivi e per quelli che danno loro ospitalità. Per i disertori in tempo di guerra la pena è
quella di morte.
Con molto rigore sono punite le ribellioni servili: il capo di una rivolta, se libero, può riscattarsi pagando
novecento solidi, se servo è punito con la morte; gli altri, se di condizione servile, sono condannati ad una
multa di cinquanta solidi.
Minuziosamente contemplati sono nell'Editto i reati contro la proprietà campestre e numerose le disposizioni
che riguardano la tutela della vita degli animali, la caccia e la pesca.
Caposaldo del diritto civile longobardo è il "mundio" o tutela. "Supremo mundialdo" è il re. Il figlio, divenuto
atto a portare le armi, può uscire dalla tutela paterna e costituire un'altra famiglia. Chi non può mai liberarsi
dal mundio è la donna. Dal mundio del padre passa a quello del marito; rimasta vedova passa sotto la tutela
dei parenti del morto o dei propri fratelli e, in certi casi, del figlio; se non ha parenti passa al "mundio" del re.
Perché la donna passi dal mundio del padre o dei fratelli a quello del marito occorre che questi ne paghi il
prezzo. Nel contratto nuziale ("fabula"), alla presenza del mundialdo e di fideiussori, è stabilita la "meta", cioè
la dote che il fidanzato assegna alla sposa e il "fardefium", cioè il regalo che il padre fa alla figlia per il suo
matrimonio; il giorno dopo le nozze il marito può donare alla moglie una parte dei suoi beni. Questo regalo si
chiama "morgincap", ossia dono del mattino. Tra la promessa e il matrimonio non può passare un tempo
superiore ai due anni, trascorso questo termine il contratto si scioglie e il fidanzato perde la "meta" che ha,
pertanto, oltre che il valore di dote, anche il valore di caparra.
Con sagge norme l'Editto di Rotari regola le donazioni. Esse non possono essere fatte né dalle donne, né
dai servi né dai figli quando il padre è vivo. Sola l'uomo libero che è in pieno possesso dei diritti civili ha
facoltà di alienare le proprie sostanze. La donazione non si ritiene valida se il padre che la fa ha figli legittimi
o se non ha plausibili motivi per escluderli dall'eredità. Se il donatario si rende indegno o se al donatore
nascono figli dopo che aver fatto la donazione dei suoi beni, questa può esser revocata. Riti simbolici detti
"gairethings" (da cui è venuta la parola "guarentigia") sogliono accompagnare l'atto di donazione come per
rafforzarlo e renderlo più solenne. Uno di questi riti consiste nella consegna al donatario di un guanto o di un
anello detto "launechildo".
Precise norme per la successione contemplano l'Editto. Hanno diritto alla successione i parenti non oltre il
settimo grado; in mancanza di questi, subentra erede il re. Eredi del padre sono tanto i figli legittimi quanto i
naturali; ma questi ultimi in misura inferiore che varia dal terzo al quinto dei beni paterni. Le donne sono
escluse dall'eredità e vi possono partecipare solo in mancanza di figli maschi legittimi e in concorrenza con i
parenti più stretti e con i figli naturali.
I servi - come si è detto - non hanno personalità giuridica, ma possono, per mezzo delle manomissioni,
migliorare la propria condizione passando da un grado all'altro ed acquistando perfino l'intera cittadinanza.
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Quattro sono le specie di manomissioni quella dei servi innalzati al grado di "aldii"; quella dei servi che,
diventando "fulfreali", acquistano la prima cittadinanza; quella dei servi dichiarati "amundi" e quella dei servi
manomessi per ordine del re o, come si dice, "per impans". Queste ultime due specie danno al servo
assoluta libertà. In questo caso il servo, con una curiosa cerimonia, passa per le mani di quattro uomini
liberi, l'ultimo dei quali lo conduce in un quadrivio e pronunzia la formula: "ubi volueris ambulare liberam
habeas potestatem".
Per la procedura giudiziaria l'Editto di Rotari non fa che confermare le antiche consuetudini longobarde. Pur
non essendo escluse la produzione di documenti scritti e le perizie, queste non hanno nessun peso nel
giudizio, il quale si risolve sempre con la prova. Due specie di prove ammette la legge longobarda: il
giuramento e il duello. Il giuramento, richiesto per i casi ordinari, è prestato sull'Evangelo o sulle armi
consacrate alla presenza di un certo numero di sacramentali ("aidi") che sulla propria fede ne attestano la
verità. Il duello, richiesto nei casi gravi in cui è in gioco l'onore personale, accade dinanzi al giudice tra i
campioni delle due parti.
Si è molto discusso per sapere se l'Editto di Rotari - che, sebbene abbia un carattere essenzialmente
germanico, risente tuttavia dell'influenza del diritto romano -fosse applicato indistintamente a tutti i sudditi,
Longobardi e Italiani. "…Generalmente - scrive il ROTARI - le leggi barbariche avevano un carattere
personale, erano cioè esclusivamente del popolo che le aveva scritte, e che le portava seco dovunque
andava. Quelle dei Longobardi però, e non solo questi, avevano anche un carattere territoriale, perché si
applicavano a tutti i popoli giunti con loro in Italia. Prova ne sarebbe, secondo alcuno, il fatto che i Sassoni, i
quali volevano vivere con le proprie leggi e le proprie istituzioni, dovettero andar via. Rotari dice nel suo
Editto, che egli lo ha compilato per la giustizia e per amore dei suoi sudditi, senza fare distinzione alcuna, il
che farebbe credere all'applicazione della legge longobarda anche ai Romani: questione, come è noto, assai
dibattuta. Certo è che più di una volta l'Editto accenna alla esistenza di altre legislazioni diverse dalla
longobarda; e non pare credibile che, se la legge romana fosse stata veramente annullata del tutto, di una
cosa di così grande importanza non si facesse chiaramente menzione neppure una volta.
Né si può concepire come i Longobardi, anche volendo, avrebbero potuto distruggere un diritto che aveva
messo radici secolari, creando fra i vinti Italiani una quantità di relazioni giuridiche, molte delle quali ai
vincitori erano sconosciute fino al punto che per la loro legge per alcuni reati non prevedevano addirittura
nessuna pena. Non si capirebbe poi come, ammessa una volta l'assoluta distruzione del diritto romano
nell'Italia longobarda, questo si ritrovasse più tardi in vigore, senza che del suo sparire e del suo riapparire
nei documenti e nelle cronache non se ne fa il minimo accenno.
La conclusione più probabile cui bisogna arrivare -secondo alcuni- è che, sebbene la legge romana non
fosse ufficialmente riconosciuta, essa in molte delle relazioni private che da quelle antiche facevano uso gli
Italiani, fosse lasciata vivere sotto forma per lo meno consuetudinaria
Se non è possibile che sia scomparso del tutto il diritto romano nell'Italia longobarda, è opinione concorde
degli studiosi che scomparve l'antico municipio e alle curie subentrarono le corti regie e ducali. Con il
municipio dovettero scomparire le corporazioni d'arti e mestieri ("corpora artium") e l'organizzazione del
lavoro presero a poco a poco quella forma che fu chiamata "sistema curtense".
Tranne il commercio e certe industrie che richiedevano una certa abilità, le arti e i mestieri erano esercitati
da lavoratori, in condizione di servi nelle corti regie e ducali, e il "sistema curtense" durerà fino a quando,
parecchi secoli dopo, l'organizzazione del lavoro non troverà una nuova forma nelle diverse condizioni di vita
del comune italiano.
Se scomparvero le curie e le corporazioni non scomparve la libertà di cui godevano gli Italiani. Parecchi
storici tedeschi e, purtroppo, anche alcuni italiani, si sono affannati a voler dimostrare, interpretando
cervelloticamente certi passi di PAOLO DIACONO, che i liberi italiani furono ridotti allo stato di "aldii" che
vuol dire alla condizione di semi-servitù.
Ma le loro conclusioni non trovano conforto in nessun documento anzi sono in aperta contraddizione con
qualche punto dell'Editto di Rotari e con gli stessi brani spesso controversi di Paolo Diacono.
Ormai, dopo tante dispute, l'opinione della servitù degli Italiani è abbandonata e si è finito con il supporre - e
giustamente - che la libertà degli indigeni fosse per dignità inferiore a quella dei Longobardi. Voler pensare
che ai vincitori e ai vinti fosse stato fatto il medesimo trattamento sarebbe tale assurdità che non varrebbe
neppure la pena di prospettarla.
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
WACHER -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
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+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
IL PAPATO I BIZANTINI E LONGOBARDI - ORDINAMENTI ( dal 653 al 712 )
L' ITALIA BIZANTINA E IL SUO ORDINAMENTO - LE VARIE CLASSI DELLA POPOLAZIONE - IL CLERO IL PAPATO DOPO GREGORIO MAGNO - SABINIANO, BONIFACIO III, BONIFACIO IV; ONORIO I - IL
MONOTELITISMO - L'" ECTESI " DI ERACLIO - SEVERINO E GIOVANNI IV - LA CHIESA ROMANA
CONTRO LA DOTTRINA MONOTELITICA - L'IMPERATORE COSTANTE E IL "TIPO" - L'ESARCA
OLIMPIO - DEPOSIZIONE, PROCESSO E MORTE DI MARTINO I - EUGENIO I E VITALIANO COSTANTE IN ITALIA E IN SICILIA - COSTANTINO E I SUOI RAPPORTI CON LA S. SEDE - PAPA
AGATONE E LA CONDANNA DEL MONOTELITISMO - RADOALDO - IL REGNO DI ARIPERTO I BERTARIDO E GODEBERTO - GRIMOALDO S'IMPADRONISCE DEL REGNO - I BIZANTINI ASSEDIANO
BENEVENTO - BERTARIDO IN FRANCIA -RIBELLIONE DI LUPO - L' EDITTO DI GRIMOALDO - REGNO
DI BERTARIDO - CONVERSIONE DEI LONGOBARDI - CUNIBERTO - RIBELLIONE DI ALACHI E DI
ANSFRIDO - FINE DELLO SCISMA DEI TRE CAPITOLI - LIUTBERTO, RAGIMBERTO ED ARIBERTO II ANSPRANDO
------------------------------------------------------------------------L' ITALIA BIZANTINA - IL PAPATO, L' IMPERO E LA CONTROVERSIA MONOTELITICA.
Come abbiamo visto nella precedente puntata, alla morte di Autari, l'Italia non è solo Longobarda ma è
anche Bizantina, che per le vicende della guerra con i Longobardi, aveva subito non pochi mutamenti, in
tutte le sue circoscrizioni, spesso non vicine, sparse a macchia di leopardo. Alla fine del VII secolo le parti
d'Italia rimaste sotto il dominio bizantino erano:
1) La "Liguria", con Genova come capoluogo, limitata però alla costa dalla Magra a Ventimiglia. Alcuni
affermano che Genova sia stata per un brevissimo periodo anch'essa occupata dai Longobardi.
2) La "Venezia e Istria" - Llimitate a parte della costa adriatica ed alle numerose isolette della laguna difese
da castelli e governate da tribuni che dipendevano dal "magister militum" dell' Istria.
3) L' "Esarcato" - Si estendeva, a nord fino all'Adige, al Tartaro e alla confluenza del Panaro con il Po, ad
ovest fino al corso del Panaro e all'Appennino, a sud fino alla Marecchia. Comprendeva le città di Ravenna e
di Bologna.
4) Il "Ducato della Pentacoli"- Confinava, a nord con la Marecchia, ad ovest con l'Appennino e a sud con l'
Esino. Era diviso in "Pentapoli marittima" comprendente Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia, Ancona, e in
"Pentapoli annonaria" comprendente Urbino, Fossombrone, Jesi, Cagli, Gubbio. Secondo alcuni le due
"pentacoli" formavano la "Decapoli", secondo altri con questo nome si soleva indicare l' "annonaria" che
comprendeva anche Osimo, Umana, Montefeltro, il territorio Valvense e Luccoli.
5) Il "Ducato di Roma"- Comprendeva, oltre la città di Roma e il suo territorio, quei lembi delle province di
Tuscia, Valeria e Campania non conquistate dai Longobardi, e dal Tevere era diviso in "Tuscia romana" e
"Campania".
6) Il "Ducato di Napoli" - Comprendeva un breve tratto della costa campana, le isole di Procida, Ischia e
Capri e alcune città dell'interno, come Atella, Acerra e Nocera.
7) Parte dell' "Apulia" e l'antica "Calabria" dall'Ofanto al Bradano con le città di Bari, Siponto, Oria, Lecce,
Brindisi, Otranto, Taranto, Gallipoli, alcune delle quali presto saranno strappate all'impero da Romualdo duca
di Benevento. Nella "Lucania" i Bizantini occupavano ancora Agropoli.
8) Il "Bruzio" - Più tardi forse furono uniti i domini dell'Apulia e della Calabria e con il nome di quest'ultima
regione fu formato un ducato. Il nome di Calabria nella seconda metà del VII secolo fu dato all'antico
"Bruzio".
Altri possessi bizantini in Italia erano costituiti dalla Corsica, dalla Sardegna e dalla Sicilia; le prime due di
queste isole però dipendevano dall' Esarcato d'Africa; la Sicilia era governata da un pretore, dipendente da
Costantinopoli, che più tardi sarà sostituito da un comandante militare con il titolo di "stratega".
A capo dei domini bizantini della penisola c'era l' Esarca, che aveva anche il titolo di "Patrizio" e governava
in nome dell'imperatore; aveva il supremo potere militare, civile e giudiziario; da lui dipendevano le finanze, i
lavori pubblici e gli affari ecclesiastici. Nominava e revocava i funzionari, giudicava in appello, vigilava sulle
elezioni episcopali, sorvegliava ed approvava l'elezione del papa. Risiedeva a Ravenna dove aveva una
piccola corte e un certo numero di ministri ("scholastici e consiliarii"), una guardia speciale e parecchie
categorie d'impiegati ("scholae") dipendenti da "primicerii".
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Accanto all' Esarca e residente a Ravenna era il "prefetto del pretorio", che non aveva più l'autorità di una
volta ed era nominato dall'imperatore. Al pari di lui avevano perduto molto della loro importanza i due vicari!,
il "Vicarius Italiane" e il "Vicarius Urbis" che avevano cura dell'amministrazione.
L'amministrazione provinciale dalle mani dei "iudices provinciarum", eletti dal vescovo e dagli ottimati, era
passata in quelle di capi militari detti "duces" o "magistri militum". Il "dux" non era solo il capo militare della
provincia, ma anche il governatore civile; di solito era eletto dall' Esarca e da questo dipendeva; ma in
seguito alcuni duchi si emanciparono dall' Esarca e passarono - come quelli di Venezia, di Napoli, di Roma e
della Calabria - alle dirette dipendenze dell'imperatore, da cui vennero anche eletti.
Dipendevano dai "duces" i tribuni che prima avevano il comando dei presidi militari delle città secondarie
delle provincia, poi, decaduta la curia, ebbero anche il governo civile e il potere giudiziario e, mentre i
"defensores" e "curatores" delle curie erano eletti dai vescovi e dal popolo, i "duces" erano eletti dall'Esarca.
Altri funzionari, di grado inferiore, detti "domestici, vicarii, locoservatores" avevano il governo di altre località
meno importanti dei distretti.
Roma, come si è detto, aveva un vicario e un prefetto della città, cariche che poi si fusero in una sola, un
maestro dei militi e un duca. Il Senato, ridotto dopo tante vicende a magistratura municipale, era scomparso
era rimasto solo il nome, usato come sinonimo di nobiltà. Ma l'autorità maggiore della metropoli era
naturalmente quella del pontefice.
La popolazione libera dell' Italia bizantina era divisa in quattro classi: popolo, esercito, nobiltà e clero. Il
popolo era costituito dai cittadini poveri ("cives honesti") o formava la parte più numerosa della popolazione;
l'esercito era costituito dai cittadini idonei alle armi, era diviso in "scholae", ciascuna delle quali aveva un
capo, una bandiera e un luogo di riunione e rappresentava una specie di milizia territoriale che, in caso di
bisogno, doveva custodire e difendere la città e il territorio, accanto alle truppe regolari.
La nobiltà era formata dai grandi proprietari di terre che, nello stesso tempo, ricoprivano cariche elevate
nell'amministrazione civile e nell'esercito. II clero formava una classe a sé che rivaleggiava in potenza con la
nobiltà e che aveva i suoi esponenti nei vescovi. Questi avevano una grande autorità nelle città e nelle
provincia non solo per i poteri loro conferiti dalla legislazione giustiniana, ma per la natura del loro ufficio e
per le grandi proprietà che avevano nelle loro diocesi e fuori.
L'autorità del clero era diventata grandissima sotto il pontificato di GREGORIO MAGNO. Non diminuì sotto i
suoi successori sebbene nessuno eguagliasse il grande papa nella geniale operosità rivolta a consolidare il
prestigio della Chiesa romana.
A Gregorio era successo SABINIANO ed a questo BONIFACIO III, il quale aveva ottenuto che l'imperatore
FOCA emanasse un editto in cui era riconosciuto il primato della Sede Romana.
A Bonifacio III successe BONIFACIO IV alla cui morte fu eletto pontefice ONORIO I. Fu sotto questo papa
che ebbe origine la "controversia monotelitica".
Era imperatore di Costantinopoli ERACLIO. L'Oriente, invaso dai Persiani, minacciato poi dagli Arabi, era
tormentato dai dissensi religiosi e il "monofisismo", sebbene condannato dal Concilio di Calcedonia, vi
trionfava e favoriva l'avanzare dei monoteisti musulmani.
Per attirare a sé i monofisiti della Siria e dell' Egitto e comporre il dissidio tra quelli che in Cristo vedevano
perfettamente fuse la natura umana e la divina e quelli che invece persistevano nel veder separate queste
due nature, Eraclio, consigliato dal patriarca SERGIO, propose una formula conciliativa sostenendo la
dottrina nonotelitica, la quale, pur ammettendo le due nature, proclamava che fossero animate da una sola
volontà.
Nel tentativo di dare un'unità politica con l'eliminare i dissidi religiosi Eraclio ebbe il favore del pontefice, il
quale, di fronte all'avanzarsi travolgente degli Arabi, sotto i quali pareva che il Cristianesimo dovesse
crollare, desiderava forse più dell'imperatore di porre termine a una controversia da lui creduta degna
soltanto dei grammatici.
Incoraggiato dall'atteggiamento del papa, Eraclio nel 638 pubblicò un decreto ("Ectesi") nel quale, esposta la
nuova dottrina della volontà unica, proibiva le dispute, e ne mandò una copia in Italia all'Esarca perché la
facesse firmare dal pontefice. Ma ONORIO I era morto. Il suo successore SEVERINO si rifiutò di firmare
l'Ectesi e i rapporti tra Roma e Costantinopoli divennero molto tesi. A peggiorare le relazioni tra la S. Sede e
l'impero si aggiunse quest'increscioso fatto: l'esarca ISACCO, recatosi a Roma, si portò via dal Laterano il
tesoro pontificio, dando come pretesto come pretesto la necessità che aveva di distribuir le paghe ai soldati.
Severino mori il 2 agosto del 640. Gli successe GIOVANNI IV, che convocò un concilio nel quale la dottrina
monotelitica fu condannata. ERACLIO dovette allora accorgersi che il suo tentativo di dare l'unità religiosa
all'impero era fallito e che le risorte contese -tra l'Oriente che parteggiava per il monotelitismo e l'Occidente
che aveva preso le parti del pontefice - si erano fatte ancora più aspre.
L'imperatore finì con il ricredersi, attribuendo la paternità dell'Ectesi al patriarca SERGIO, che nel frattempo
era morto. Il Cattolicesimo trionfava. Eraclio cessò di vivere nel febbraio del 641 e un anno dopo lo seguì
nella tomba il papa Giovanni.
Sul trono salì uno dei due figli di Eraclio, COSTANTINO, che dopo poco più di tre mesi di regno morì
avvelenato; l'altro figlio, ERACLEONE, successo al fratello, fu sbalzato, poco tempo dopo, da COSTANTE,
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figlio di Costantino. Al soglio pontificio fu innalzato Teodoro che seguì la politica del suo predecessore
riconfermando la condanna del monotelitismo.
La vittoria del Cattolicesimo era completa. Costante pareva favorire l'ortodossia contro gli eretici, PIRRO,
successore di SERGIO nel patriarcato di Costantinopoli, si recava a Roma a fare atto di sottomissione al
pontefice e professione di fede cattolica e, più tardi, anche PAOLO, nuovo patriarca, si dichiarava ortodosso.
Ma nonostante questo le lotte religiose non avevano termine.
Vedendo in queste diatribe una delle cause della rovina dell'impero, COSTANTE pubblicò verso la fine del
648 un decreto, chiamato poi "TIPO", con il quale, proibiva, sotto la minaccia di pene severissime, che si
disputasse pro o contro la dottrina monotelitica.
Lo scopo che l'imperatore si prefiggeva di raggiungere era certamente ottimo, ma il mezzo - la repressione,
la punizione- non era uno dei più adatti. Mettere. il bavaglio alla Chiesa Cattolica non era possibile né
opportuno, specie in Italia dove il governo bizantino si era attirato l'odio delle popolazioni e l'autorità del
pontefice - a partire da quel "gigante" che era stato Gregorio Magno- era enormemente cresciuta.
Papa, nel maggio del 649, era stato eletto MARTINO I, da Todi, uomo energico e politico esperto, che era
stato consacrato un mese dopo l'elezione, prima forse che da Costantinopoli sarebbe venuta la conferma
imperiale. Il primo atto del nuovo papa fu in aperto contrasto con gli ordini dell'imperatore. Martino I convocò
a Roma un concilio (5-31 ottobre) e vi parteciparono duecentodue vescovi e furono solennemente
condannati l'ECTESI e il TIPO.
Perché si potessero eseguire le disposizioni del TIPO, Costante inviò in Italia l'esarca OLIMPIO. Ma a lui era
stata anche affidata pure una missione segreta: doveva rendersi conto dell'impressione che il decreto
produceva nell'opinione pubblica romana e specialmente nella milizia cittadina. Se l'impressione era
favorevole, Olimpio doveva impadronirsi del papa; in caso diverso doveva rimandare il colpo al momento
opportuno.
Olimpio cercò di fare di più: conferì incarico ad un suo sicario di uccidere il pontefice mentre celebrava la
messa in Santa Maria Maggiore; ma un "miracolo" salvò il papa dalla lama dell'assassino, il quale -si narraproprio nel momento in cui stava per compiere il sacrilego delitto, fu colpito da cecità.
Fallito il colpo, Olimpio - secondo l'opinione d'alcuni critici moderni - si schierò dalla parte del pontefice, forse
con il proposito di sfruttare l'avversione degli Italiani verso i Bizantini e la critica situazione in cui l'impero si
trovava per la guerra contro i Mussulmani facendosi proclamare imperatore.
Ma il suo proposito - se pur lo ebbe - non riuscì ad essere tradotto in pratica. Gli Arabi dall'Africa avevano
invaso la Sicilia ed Olimpio fu costretto a muovere contro di loro per cacciarli dall'isola. Fu una spedizione
infelice: la sorte non arrise né le truppe bizantine né il loro capo, perché Olimpio vi trovò la morte.
Il colpo che non era riuscito ad Olimpio riuscì invece al nuovo esarca TEODORO CALLIOPA, che nel giugno
del 653 si recò a Roma con un corpo di milizie e, riuscendo a non far trapelare nulla delle sue intenzioni,
riuscì a circondare il Laterano e ad impadronirsi del pontefice che vi si trovava dentro infermo.
Il giorno dopo Martino I fu imbarcato sopra una nave che aspettava sul Tevere e inviato con poca scorta
verso l'Oriente. Dopo quattro mesi di navigazione giunse a Nasso e qui rimase circa un anno. Tradotto poi a
Costantinopoli, fu, nel settembre del 654, processato sotto l'accusa di tradimento per aver complottato con
Olimpio contro l'imperatore.
Veramente eroica fu la condotta del pontefice: non lo piegarono né la fame né la tortura né gl'insulti della
plebaglia e degli sgherri. Da Costantinopoli fu relegato a Cherson, in Crimea, e qui dopo un anno esatto,
morì di patimenti e di fame il 16 settembre del 655. La Chiesa lo santificò.
L'anno prima, vivendo ancora Martino I, era stato eletto papa EUGENIO I. Questi pontificò per breve tempo
e non riuscì ad esplicare nessuna azione in favore del Cattolicesimo. Cercò però di far tornare la buona
armonia tra Roma e Costantinopoli, ma la morte che lo colse nel 657 troncò le trattative. Queste furono
riprese dal suo successore, VITALIANO. Tanto il papa quanto l'imperatore avevano entrambi interesse alla
conciliazione, il primo perché si era nell'Italia settentrionale riaccesa la controversia dei "Tre Capitoli" e a
Ravenna l'arcivescovo MAURO cercava di rendersi indipendente da Roma e di assumere il titolo di
patriarca, il secondo, perché, dopo la sconfitta navale che i Mussulmani, nel 655, gli avevano inflitto sulle
coste della Licia, aveva concepito il disegno di recarsi in Italia e desiderava che i rapporti con il papato
tornassero buoni.
Quando il Pontefice, dopo l'elezione, mandò i suoi nunzi a COSTANTE, questi li accolse con infiniti onori,
confermò i privilegi della Chiesa romana e inviò in regalo al papa un prezioso codice dei Vangeli adorno di
ricchi diamanti.
Nel 662 l'imperatore partì da Costantinopoli alla volta dell'Italia. Non si sa bene quali ragioni lo spinsero nella
penisola. Alcuni affermano che vi sbarcò per combattere i Longobardi, altri che desiderava trasferire la sua
sede in Sicilia. Forse egli sperava di conseguire due scopi in un medesimo tempo: tenere a freno i
Longobardi dell'Italia meridionale e rafforzare sull'Italia bizantina l'autorità vacillante dell'impero.
Sbarcò a Taranto nel 663 e, dopo un insuccesso delle sue armi sotto le mura di Benevento, andò a Roma
nel luglio dello stesso anno. Non vi si trattenne però che una dozzina di giorni, che utilizzo per depredare la
città come un barbaro dei tempi più critici; e quando partì dopo averli fatta smantellare, si portò via perfino la
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copertura di bronzo dorato della cupola del Pantheon, che sotto il pontificato di Bonifacio IV era stato ridotto
a chiesa cristiana con il nome di Santa Maria a Martyres.
Dopo una "visita" non proprio cortese, a Napoli e la Calabria Costante si recò in Sicilia, a Siracusa, dove
rimase cinque anni rendendosi esoso agli isolani e ricominciando a fare una politica avversa alla Chiesa di
Roma. Conseguenza di questa politica fu un diploma imperiale che nel 666 dichiarava "autocefala" la Chiesa
di Ravenna, cioè indipendente dalla S. Sede.
Ma Costante non doveva vivere a lungo. Una congiura fu tramata contro di lui, che con le sue vessazioni si
era attirato l'odio di tutta la popolazione siciliana, ricchi o poveri, nobili e aristocratici, e nel 668 un suo
cameriere di camera, trasformatosi in sicario, un certo Andrea di Troilo lo tolse di mezzo mentre l'imperatore
faceva il bagno, versandogli prima addosso una brocca d'acqua bollente, poi lo finì con la stessa
fracassandogli il cranio.
Un nuovo imperatore, MECEZIO, acclamato dalle truppe non riuscì a reggersi sul trono, lo sbalzò il figlio di
Costante, COSTANTINO POGONATO, uomo ben diverso dal padre, che seguì infatti, una politica di
conciliazione con la Chiesa romana e si mantenne in buoni rapporti con il papa VITALIANO prima e poi con
il pontefice ADEODATO a lui successo nel 672.
Morto Adeodato nel 676 e salito al seggio DONO, Costantino riprese le trattative con Roma per arrivare ad
una conciliazione e per mostrare la sua buona volontà ordinò all'arcivescovo di Ravenna, REPARATO,
successo a MAURO, di fare atto di sottomissione al papa, poi scrisse a Dono, pregandolo di inviare alcuni
legati perché potessero con i patriarchi di Costantinopoli e di Antiochia trovare una formula conciliativa.
Ma quando l'ambasceria giunse a Roma per consegnare questo invito, Dono era morto (678) e gli era
successo il siciliano AGATONE, papa accorto ed energico, il quale lesse la proposta e accettò di mandare a
Costantipopoli i suoi legati, ma volle prima che l'Occidente si pronunciasse sulla questione monotelitica.
Agatone intendeva mostrare all'imperatore la compattezza e perciò la forza della Chiesa romana in
Occidente, mettere come base di discussione il fatto compiuto e influire sulle decisioni che sarebbero state
prese a Costantinopoli.
In vari suoi concili tenuti a Milano, nella Gallia, nella Bretagna e a Roma - a quest'ultimo parteciparono
centoventicinque vescovi - fu condannato il monotelitismo. Sicuro dell'appoggio di tutto l'Occidente cattolico,
Agatone mandò a Costantinopoli i suoi legati con una lettera in cui, mentre faceva note all'imperatore le
decisioni dei concili e lo informava della forza del Cattolicesimo occidentale, faceva capire che
Costantinopoli aveva tutto l'interesse di non schierarsi contro il papato.
L'accorta politica di Agatone fu coronata da pieno successo: nel sesto concilio ecumenico tenutosi a
Costantinopoli nel 682 la "dottrina monotelitica" fu condannata e con questa i suoi sostenitori, compreso lo
stesso pontefice ONORIO con la formula "I non quidem ut haereticus sed ut haereticorum fautor".
Era questa una grande vittoria del papato, preludio dell' indipendenza assoluta della S. Sede da
Costantinopoli.
LA MONARCHIA LONGOBARDA DA RADOALDO AD ANSPRANDO
ROTARI morì nel 652 e venne sepolto nella chiesa di S. Giovanni Battista, che la moglie GUNDEBERGA
aveva fatto costruire in Pavia.
A Rotari successe il figlio RADOALDO, ma fu ucciso dopo soli sei mesi di regno e sul trono fu innalzato
ARIPERTO, figlio di quel Gundobaldo che - al tempo del fidanzamento di Autari- con la sorella Teodolinda
era fuggito dalla Baviera (temendo la gelosia e l'ira per la nuova alleanza fra Bavaria e Longobardi del re dei
franchi) e dal cognato Autari aveva ricevuto in premio il ducato di Asti.
Di ARIPERTO e dei suoi dieci anni di regno, ci sono poche notizie, sappiamo solo, che era cattolico e pio,
che "Arianorum abolevit haeresim", e che fece costruire a Pavia la chiesa di San Salvatore, dove poi nel 661
fu sepolto. Ariperto aveva due figli, BERTARIDO e GODEBERTO, e a loro aveva lasciato -dividendolo in
due- il regno - secondo Paolo Diacono - assegnando al primo come capitale Milano e al secondo Pavia. Ma
non si può prestare molta fede a questo storico, perché lui stesso in altra parte della sua storia scrive che
"non era costume dei Longobardi dividere il regno o i ducati in due, e che, se ammettiamo pure la divisione,
Bertarido, che era il primogenito, doveva avere - e anche questo era consuetudinario pure in altre piccole o
grandi proprietà- la sede del regno e il palazzo reale, cioè la capitale Pavia.
Dobbiamo pertanto supporre - e la supposizione è avvalorata dagli avvenimenti posteriori - che tra i due
fratelli e solo dopo la morte del padre sia sorta una contesa per la successione e che il secondogenito, in
qualche modo, abbia avuto il sopravvento, obbligando l'altro a rifugiarsi a Milano.
Se non è sicuro che la lotta tra i due fratelli scoppiò già alla morte del padre, è certo però che essa ci fu
subito dopo e durò parecchi mesi. Ne fa fede un documento del 673 in cui è fatta menzione di un'invasione
di GODEBERTO nel territorio di Piacenza che senza dubbio apparteneva a Bertarido. Che la guerra tra i due
principi longobardi si metteva male per Godeberto, lo testimonia il passo che lui fece presso il duca
beneventano GRIMOALDO.
Godeberto, infatti, mandò GARIBALDO, duca di Torino, a Benevento a chiedere aiuto a Grimoaldo,
promettendogli che avrebbe sposato la sorella. GRIMOALDO, proponendosi forse fin da allora di trarre
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profitto dalla contesa (mirando ovviamente lui di prendersi il trono tra i due litiganti), accettò e, mandato
avanti TRASAMONDO, duca di Capua, per mettere insieme uomini in armi nel ducato di Spoleto e nella
Tuscia, lasciò a Benevento il figlio ROMUALDO e con un piccolo esercito marciò verso l'Italia settentrionale.
Nell'Emilia trovò Trasamondo con un forte contingente di milizie si unì a lui, e giunse a Pavia alla testa di
forze ragguardevoli. Assecondato dal duca di Torino, invece di aiutare GODEBERTO nella guerra contro il
fratello, GRIMOALDO lo uccise di propria mano. Un figlio del morto, RAGIMBERTO, che più tardi divenne
duca di Torino, riuscì a mettersi in salvo, aiutato dai familiari; anche BERTARIDO temendo di fare la stessa
fine, da Milano fuggì e riparò presso gli Avari, ma la moglie RODELINDA e il figlio CUNIBERTO caddero in
potere di Grimoaldo, che li trasferì sotto scorta a Benevento.
GRIMOALDO s'impadronì della reggia di Pavia, si diede da fare - come pare - per farsi riconoscere re da
un'assemblea di duchi e, per rafforzare la sua posizione, sposò la figlia di Ariperto (662) che era poi la
sorella dei due rissosi re, uno morto e l'altro in fuga.
Dal colpo di mano il regno longobardo usciva rafforzato, trovandosi tutto in potere di un solo re, il quale per il
suo valore personale e lo spirito avventuroso che lo distingueva avrebbe esteso senza dubbio i suoi domini a
spese dell'esarcato bizantino se avesse avuto il tempo di consolidarsi.
Questo invece gli mancò. Lo preoccupava la presenza di Bertarido alla corte degli Avari (temeva un'alleanza
e una loro invasione), ed era anche molto allarmato per la spedizione di COSTANTE II in Italia.
L'imperatore - come abbiamo detto - approdò nel 660 a Taranto, distrusse Lucera e, impadronitosi in poco
tempo di quasi tutto il ducato beneventano, pose l'assedio a Benevento (che era il regno che aveva lasciato
Grimoaldo per correre a Pavia a conquistarne un altro)
Informato da un messo del figlio, di nome SESSUALDO, del grave pericolo che correva la capitale del suo
ducato, GRIMOALDO raccolse un esercito e affidato il Palazzo (fidandosi) alle cure del duca friulano LUPO,
partì da Pavia e mosse alla volta dell'Italia meridionale.
Durante il viaggio riuscì a capire la critica carta che stava per giocare: scendeva nel sud contro un nemico
che disponeva di forti mezzi e intanto al nord, partito lui, numerosi Longobardi, pensando che il re non
avrebbe fatto più ritorno in alta Italia, lo abbandonavano.
Grimoaldo non si perse d'animo e continuò la sua marcia. Lo precedeva SESSUALDO, che doveva recare a
Romualdo l'annunzio dell'avvicinarsi del padre con gli aiuti richiesti; ma il fido messo cadde nelle mani di
Costante, il quale, saputo della partenza del re da Pavia, allo scopo di far capitolare più in fretta Benevento
ordinò al prigioniero di recarsi sotto le mura della città e di dire agli assediati che il re non sarebbe mai giunto
in soccorso, perché impegnato in Alta Italia.
"…L'eroico Sessualdo invece, quando sulle mura dell'assediata Benevento vide Romualdo, gli gridò: "..
Resisti perché tuo padre sta per giungere e questa notte sarà al fiume Sangro !". Sessualdo pagò con la vita
la sua fedeltà: decapitato, la sua testa fu lanciata dentro le mura e Romualdo, dopo averla raccolta, la coprì
di baci e di lagrime…".
Il sacrificio di Sessualdo salvò Benevento. Costanzo, lasciato intorno alla città un suo generale, SABURRO,
con ventimila uomini, prese la strada per Napoli, dove ben presto gli giunse la notizia che il suo esercito a
Benevento era stato sconfitto dai Longobardi che erano sopraggiunti.
Liberata Benevento, GRIMOALDO nominò Trasamondo, come premio per i servigi da lui ricevuti, duca di
Spoleto dandogli in moglie una sua figlia, poi ripartì per Pavia, dove la sua presenza era reclamata dalle
turbolenze di quei duchi che - come detto sopra- lo avevano già abbandonato, anche a causa dagli abusi
che Lupo commetteva nell'assenza del re, sentendosi già lui re, e dai fastidi che procurava Bertarido deciso
con l'aiuto degli Avari, di riprendersi il regno, ora appoggiato dai molti scontenti e oppositori, e che su di lui
appuntavano le speranze.
Questi però al ritorno del re furono puniti; LUPO che aveva provocato queste cospirazioni, riuscì ad
abbandonare Pavia e a rifugiarsi nel suo ducato in Friuli dove si dichiarò ribelle. Quanto a Bertarido,
Grimoaldo chiese al signore degli Avari che glielo consegnasse, ma ebbe un rifiuto. Bertarido però, avuta la
promessa che non gli sarebbe stato fatto alcun male, fece ritorno in Italia e fu accolto a Pavia, ospite dello
stesso re. Anche se poco dopo, venuto in sospetto di Grimoaldo, dovette nuovamente scappare e si rifugiò,
prima ad Asti, poi a Torino e infine presso i Franchi, i quali, da lui sollecitati scesero in Italia per rimettere sul
trono lo spodestato re.
La loro impresa fallì: presso Asti, in una località detta Rivo (oggi Refrancore), assaliti di notte nel loro stesso
accampamento da un esercito longobardo furono clamorosamente sconfitti e solo pochi franchi riuscirono a
salvarsi e a ripassare le Alpi.
Quasi contemporaneamente, il dichiarato "ribelle" duca del Friuli LUPO, scatenava la sua guerra. "Non
potendo tenere testa contemporaneamente a due nemici, GRIMOALDO spinse contro di lui gli Avari, i quali
invasero il Friuli, uccisero Lupo e misero a ferro e a fuoco il paese e i dintorni, convinti di insediarsi in questi".
Non volendo più, dopo l'invasione, gli Avari abbandonare il Friuli, Grimoaldo fu costretto a muover contro di
loro con un esercito e solo così riuscì a costringerli a ripassare il confine. Ma con la ritirata degli Avari non
ritornò la pace nel Friuli. Lupo aveva lasciato due figli, una femmina, TEODERADA, che più tardi fu data in
sposa a ROMUALDO duca di Benevento, e ARNEFRITO. Quest'ultimo chiesto aiuto agli Slavi tentò di
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riacquistare il ducato paterno, ma presso Cividale fu sconfitto ed ucciso dal re, che nominò duca del Friuli un
longobardo di Vicenza, VETTARI.
Altre imprese di "pulizia" furono da Grimoaldo compiute contro Oderzo e Forlimpopoli: la prima fu rasa al
suolo e il territorio fu diviso tra Cividale, Ceneda; poi si avviò verso Treviso, che fu conquistata di sorpresa e i
suoi abitanti furono quasi tutti trucidati.
Consolidato il suo regno, Grimoaldo rinnovò la pace con i Franchi, poi rivolse le sue cure ad integrare l'opera
legislativa di Rotari, pubblicando nel 668 un editto in nove capitoli nel quale si formula una prescrizione
trentennale, applicata alla servitù, alla libertà e al possesso di beni immobili, del diritto di rappresentanza
nella successione e del divorzio.
Ma l'opera di legislazione del re longobardo fu interrotta dalla morte: nel 671 GRIMOALDO mori per la
rottura d'una vena.
A succedergli era destinato il suo secondogenito GARIBALDO, nato dal matrimonio con la figlia di
ARIPERTO I; ma l'erede aveva appena cinque anni, si trovava privo dell'appoggio del fratello, scontento
della preferenza data dal padre al figlio minore, inoltre aveva contro di sé un nemico temibilissimo, il solito
BERTARIDO, che a Pavia seguitava a godere del favore di non pochi duchi del regno.
E l'ostinato BERTARIDO, che non aveva mai perso le speranze di riconquistare il trono, tornato in Italia,
ebbe il trono! Il (piccolo) duca di Benevento si affrettò a riconoscere il nuovo re e gli restituì la moglie
Adelinda e il figlio Cuniberto. Di Garibaldo non si hanno più notizie; forse chiuso in qualche fortezza e lì
nell'oscuro di qualche cella terminò la vita; mentre la madre fu nominata abbadessa di un monastero
costruito dal re a Pavia.
Sotto il regno di BERTARIDO, caratterizzato dalla politica pacifica del sovrano, l'opera di Teodolinda e
Gregorio Magno si può dire quasi finita con successo completo nella parte centrale e settentrionale dell'Italia
longobarda. Il Cattolicesimo trionfa sulle rovine dell'arianesimo, lo scisma dei Tre Capitoli perde sempre più
terreno, risorge più forte di prima la gerarchia ecclesiastica e si moltiplicano le chiese e i conventi. La
diffusione del Cattolicesimo nel ducato beneventano va invece più a rilento, ma dopo la vittoria su Costante,
grazie all'opera del prete BARBATO e della duchessa TEODERADA, anche qui la diffusione è rapida e
smantella non solo la fede ariana ma anche le ultime tracce di paganesimo.
La conversione al cattolicesimo dei Longobardi è un fatto storico di grande importanza. Cadute le barriere
religiose, i rapporti tra l'Italia bizantina e l'Italia longobarda, tra conquistatori e soggetti si modificano, si
estende l'autorità della Chiesa che ora vede sorgere accanto a quello romano anche il clero longobardo;
inizia l'avvicinamento dei due popoli che si farà sempre più stretto per mezzo dei matrimoni e con
l'avvicinamento cominciano i Longobardi a perdere la loro fisionomia nazionale, a ingentilire i loro costumi, e
parlare il latino volgare, cioè a romanizzarsi.
BERTARIDO regnò diciassette anni e fu impegnato a sostenere una sola guerra contro un duca ribelle,
ALACHI di Trento (che si lamentava di avere un ducato piccolo e misero). Affrontato, finì con il sottomettersi
e conservò non solo Trento, ma su intercessione del figlio di Bertarido, Cuniberto, gli fu concesso anche il
ducato di Brescia (che ripagò con l'ingratitudine, quando iniziò a mirare in alto)
Quando nel 688 Bertarido muore, gli succede proprio il figlio CUNIBERTO, il quale nello stesso anno,
dovette subire una guerra scatenatagli dall'ingrato ALACHI, che per poco non gli costò la vita.
ALACHI, come abbiamo visto, era uscito più forte dal conflitto di Trento. Cessato il re di vivere, il duca di
Trento e di Brescia, spinto dalla sua ambizione, dall'avversione che nutriva per il clero e dagli scismatici della
Venezia, dimenticando il giuramento di fedeltà che aveva prestato al defunto sovrano nella Chiesa di S.
Michele, piombò improvvisamente su Pavia, costrinse CUNIBERTO a rifugiarsi nell'isola Comacina,
s'impadronì della città e della reggia e si proclamò re.
Durò poco, ben presto gli oltraggi arrecati al clero, il suo dispotismo e la sua violenza gli alienarono gli animi
di quelli stessi che lo avevano sostenuto e provocarono la sua caduta. Richiamato mentre Alachi era
assente, CUNIBERTO ritornò a Pavia fra le acclamazioni della cittadinanza. ALACHI spodestato, non si
diede per vinto: recatosi nella Venezia, dove contava molti suoi sostenitori, mise su un esercito e mosse
contro Pavia, ma a Cornate sull'Adda subì una terribile sconfitta e rimase ucciso (688) insieme con
moltissimi dei suoi soldati. Sul campo di battaglia, a perpetuare il ricordo della vittoria, più tardi Cuniberto
fece costruire un monastero che dedicò a San Giorgio.
Altra guerra CUNIBERTO ebbe a sostenere contro Ansfrido di Ragogna, il quale, impadronitosi del ducato
del Friuli, era avanzato con un esercito, fino a Verona; ma sotto le mura di questa città fu sconfitto e, dopo
averlo catturato fu privato fu accecato e mandato in esilio.
Questi furono i soli avvenimenti che turbarono il regno di Cuniberto, durante il quale fiorì a Pavia la scuola
del grammatico FELICE ed ebbe fine lo scisma dei Tre Capitoli. Cattolico pio ed amico del clero, Cuniberto
convocò a Pavia nel 698 un concilio al quale parteciparono numerosi vescovi dell'Italia settentrionale,
compresi quelli dissidenti del patriarcato di Aquileia. Nel concilio fu condannata l'eresia dei Tre Capitoli e ne
fu data comunicazione al pontefice SERGIO I per mezzo di una lettera sinodale redatta dal vescovo di
Pavia, DAMIANO.
Per ordine del papa furono bruciati tutti i libri degli eretici e Cuniberto ebbe in premio, l'indulgenza plenaria.
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CUNIBERTO cessò di vivere nel 700 lasciando un figlio, ancora minorenne, LIUTBERTO, sotto la tutela di
ANSPRANDO, valoroso longobardo di illustre famiglia.
Contro l'erede infante e il tutore mosse RAGIMBERTO, duca di Torino che, quale parente di Cuniberto,
pretendeva lui la reggenza. La sorte delle armi gli fu favorevole: a Novara sconfisse le truppe di
ANSPRANDO e, penetrato nella capitale, si proclamò re (701).
Ma non regnò a lungo; morì nello stesso anno lasciando il trono al figlio ARIBERTO II, il quale ben presto
dovette sostenere accanite lotte contro ANSPRANDO e LIUTBERTO, spalleggiati da ROTARI, duca di
Bergamo. In una sanguinosa battaglia presso Pavia sconfisse i nemici e, fatto, prigioniero il piccolo Liutberto,
gli tolse la vita; mosse quindi contro Rotari e, conquistata Lodi, assediò il duca proprio nella sua città,
Bergamo. Costretto ad arrendersi, Rotari subì ogni sorta di umiliazioni, poi mandato in esilio a Torino, fu fatto
perire (702).
Sbarazzatosi del duca di Bergamo, ARIBERTO II andò contro ANSPRANDO che si era rifugiato nell'isola
Comacina; ma questi, prima di essere assalito, riuscì a mettersi in salvo presso la corte di TEODOBERTO di
Baviera.
Ariberto, non potendo avere fra le mani il suo più accanito avversario, sfogò l'ira contro la sua famiglia in un
modo malvagio e cruento: alla moglie TEODERADA ed alla figlia fece mozzare il naso e le orecchie e fece
accecare il figlio maggiore SIGIBRANDO. Solo il piccolo LIUTPRANDO, per la sua giovanissima età ma
anche per la sua gracile costituzione che non lasciava speranze a una lunga vita, fu risparmiato e riuscì a
raggiungere il padre in Baviera.
Sotto il regno di ARIBERTO II ci fu un'invasione di Slavi nel Friuli, che sconfissero ed uccisero il duca
FERDOLFO; il ducato di Benevento, che dopo la guerra contro Costante si era esteso fino all'Adriatico, fu
ingrandito da Gisulfo II, che s'impadronì di Sora, di Arpino e di Arco e, spintosi verso Roma, fu indotto a
lasciare in pace la metropoli dalle preghiere e dai donativi di papa GIOVANNI VI
PAOLO DIACONO ci assicura che Ariberto si meritò il titolo di principe giusto e pio, che protesse il clero e
restituì alla Chiesa romana il patrimonio delle Alpi Cozie che Rotari aveva a suo pro confiscato.
Se tutto quello che ci dice e riporta Diacono è vero, dobbiamo forse pensare che Ariberto cercasse di far
dimenticare l'origine violenta del suo regno e di consolidare il proprio potere con l'appoggio della Chiesa.
C'era però chi non poteva dimenticare anche dopo dieci anni. ANSPRANDO, esule in Baviera, covava in
cuor suo la vendetta e questa riuscì a portarla a termine nel 712. Dopo lunghe preghiere, riuscito ad avere
da re Teodoberto, un forte contingente di uomini armati Bavaresi, scese in Italia dall'Alto Adige e, affrontato
deciso presso Pavia l'esercito di Ariberto, scatenò la battaglia della sua riscossa e della sua vendetta.
La battaglia fu però lunga ed anche accanita per tutto il giorno, e terminò alla sera, senza una vittoria né
dell'una né dell'altra parte.
Ma durante la notte, Ariberto sfiduciato forse dalla forte resistenza del nemico e temendo una cattiva sorte
per il giorno dopo, levò il campo per ritirarsi a Pavia, dove sperava di resistere barricandosi nella fortezza.
Questa ritirata sembrò una palese confessione d'inferiorità: i suoi soldati si sdegnarono, e a guadagnarci fu il
nemico che acquistò a quel punto (prima non stavano meglio nemmeno questi) maggior coraggio nella
battaglia che il mattino dopo doveva ricominciare.
Ariberto, vedendo che gli veniva meno il favore delle stesse sue truppe, decise allora di fuggire in Francia,
non prima di aver preso il denaro, l'oro e i preziosi dalla cassa del regno, e abbandonò Pavia. Ma incalzato
nella fuga, per sfuggire agli inseguitori, nel passare a nuoto il Ticino, impacciato e appesantito dal tesoro che
portava addosso miseramente morì annegato.
Fu così innalzato al trono ANSPRANDO, che rimandò indietro l'esercito bavarese con ricchi doni. Ma dopo
aver aspettato tanti anni il suo regno fu brevissimo: tre mesi dopo (giugno del 712) moriva. Gli succedette il
figlio, quel ragazzino scampato alla scempio della sua famiglia, così gracile e con un piede quasi nella fossa,
che Ariberto non aveva ritenuto necessario di sopprimere ed aveva mandato in Baviera a raggiungere il
padre. Era LIUTPRANDO, che diventerà invece il più illustre dei re longobardi.
Regnerà per 32 anni (fino al 744), portando durante il suo regno - grazie alle sue conquiste territoriali e a
una pacificazione, pur tra ricorrenti contrasti con la Chiesa (Iconoclastia) - i Longobardi alla massima
potenza, e impostò -unico fra i Re Longobardi- un progetto di unità della penisola italiana, purtroppo - ormai
era troppo tardi- senza realizzarlo. Anche se riformò profondamente la legislazione longobarda.
Il tentativo dei Re longobardi di unificare la Penisola, estromettendo i Bizantini, stabilendo rapporti pacifici
con la Chiesa e rafforzando il Regno per ottenere un equilibrio di forze rispetto ai Franchi, era destinato a
fallire proprio a causa degli elementi di conflittualità anche all'interno degli stessi duchi longobardi. E furono
proprio questi che portarono poi alla sconfitta i Longobardi ad opera dei Franchi.
Tuttavia con Con Liutprando prevalse definitivamente il partito cattolico, che sosteneva l'autorità regia in
opposizione al precedente 'autonomismo dei Duchi ariani. Il nuovo Re si impegna infatti a rafforzare il Potere
Centrale, a reprimere le spinte autonomistiche, ed a cercare di eliminare quella discontinuità territoriale
nell'Italia centrale, che egli identifica (e non aveva torto) come elemento di vulnerabilità per il proprio potere.
Cerca anche di trarre vantaggio dalla Crisi iconoclastica, che contrappone la Chiesa di Roma ai Bizantini.
Attacca infatti con decisione le tradizionali roccaforti bizantine dell'Esarcato.
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Il Papa all'inizio è soddisfatto, sta al gioco, ma di fronte al pericolo di un eccessivo rafforzamento dei
Longobardi, si schiera decisamente con l'Impero; Liutprando è costretto a recedere da buona parte dei
territori conquistati, per la pressione non tanto militare, quanto per un'autorità spirituale (le cosiddette
influenze del Papa) della quale anche i fieri Longobardi ormai devono tener conto. Liutprando dopo aver
sottratto ai Bizantini molte terre della Romagna, imposta l'autorità regale ai riottosi duchi di Spoleto e di
Benevento, e dona al Papa il feudo di Sutri che aveva espugnato ai Bizantini. Con questa donazione ebbe
inizio la prima sovranità temporale dei papi.
Il papato si inserisce nella lotta feudale, e diventa anch'esso feudale. Liutprando oltre questo dono, pagò
anche una forte somma per avere le ossa di Sant'Agostino e le trasportò a Pavia, nella Basilica di S. Pietro
in Ciel d'Oro, alla sua morte fu sepolto con il padre nella Basilica di Santa Maria in Pertica, poi traslato
proprio in S. Pietro in Ciel d'Oro. All'interno della basilica una targa sulla colonna di destra ricorda la
sepoltura del grande re
Abbiamo sintetizzato, ma il suo periodo, proprio perche occupa un arco di tre decenni, merita di dedicargli un
intero capitolo.
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
WACHER -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
Durante il regno di Liutprando, in Italia e a Bisanzioinizia l'accesa disputa del movimento religioso
"ICONOCLASTIA" che divenne anche una disputa politica e che mise fine al dominio bizantino in Italia è il
periodo che va dall'anno 712 al 742
L'ICONOCLASTIA - IL REGNO DI LIUPRANDO ( dal 712 al 742 )
COSTANTINO PEGONATO E LA SUA POLITICA VERSO LA CHIESA ROMANA - GIUSTINIANO II E IL
CONCILIO TRULLANO - SERGIO I E IL PROTOSPATARIO ZACCARIA - LEONZIO E TIBERIO III AL
TRONO BIZANTINO - RITORNO DI GIUSTINIANO ALL' IMPERO - LO STRATEGA TEODORO IN ITALIA PAPA COSTANTINO IN ORIENTE - RIVOLTA DI RAVENNA - MORTE DI GIUSTINIANO E
PROCLAMAZIONE DI FILIPPICO - DISORDINI A ROMA - ANASTASIO II E IL PAPATO -LIUTPRANDO E
LA SUA OPERA DI LEGISLATORE - POLITICA DI LIUTPRANDO - GREGORIO II -I DUCATI DI
BENEVENTO E SPOLETO - LEONE ISAURICO - PRODROMI DELLA LOTTA PER LE IMMAGINI - L'
ICONOCLASTIA - INSURREZIONE NELL' ITALIA BIZANTINA - INTERVENTO DI LIUTPRANDO LIUTPRANDO CONTRO ROMA - GREGORIO III - I MORI NELLA SPAGNA E NELLA FRANCIA -CARLO
MARTELLO E LA BATTAGLIA DI POITIERS - LEONE ISAURICO E GREGORIO III - LIUTPRANDO
PRENDE RAVENNA - VENEZIA E IL SUO GOVERNO - I VENEZIANI LIBERANO RAVENNA LONGOBARDI E FRANCHI - IL PAPA CHIEDE AIUTO A CARLO MARTELLO - PAPA ZACCARIA SPEDIZIONE DI LIUTPRANDO COTRO SPOLETO E BENEVENTO - ZACCARIA E LIUTPRANDO - LE
VICENDE DEL REGNO LONGOBARDO DALLA MORTE DI LIUTPRANDO ALLA ELEZIONE DI ASTOLIO
------------------------------------------------------------------IL PAPATO E L' IMPERO
Abbiamo visto -nella precedente puntata- i buoni risultati ottenuti dalla politica accorta di papa AGATONE.
Successi non solo suoi ma dovuti anche alla situazione in cui si trovava l'impero bizantino e all'avvedutezza
dell'imperatore COSTANTINO PEGONATO. Questi sapeva che se voleva conservare all'impero i domini
d'Italia non gli rimaneva altro da fare che una politica conciliante con il Papato, il quale ormai costituiva una
grande forza materiale e morale in tutto l'Occidente, una forza intorno alla quale si stringevano tutte quelle
parti della penisola non ancora sottomesse ai Longobardi, nelle quali la parte vitale delle truppe non erano
né stranieri né mercenari, ma erano rappresentate dalle milizie cittadine. Una cosa nuova per l'Italia in questi
ultimi due tre secoli
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COSTANTINO PEGONATO continuò finché visse nella sua politica di conciliazione, alleviando i tributi che
pesavano sui patrimoni ecclesiastici della Sicilia e della Calabria, rinunciando - se si deve credere al "Liber
Pontificalis" - al diritto di approvare l'elezione dei papi e mandando perfino al pontefice alcune ciocche di
capelli dei suoi due figli con i quali atto essi divenivano -secondo il costume d'allora- figli adottivi del papa.
Purtroppo la politica di Costantino non fu poi seguita dai suoi successori: si ristabilì quella prerogativa
imperiale di sancire la nomina dei pontefici; gli esarchi ricominciarono a intromettersi nelle elezioni papali e
GIUSTINIANO II, successo al padre Costantino, con lo scopo in apparenza di riordinare la disciplina
ecclesiastica ma in sostanza per riaffermare "l'imperium" del sovrano sulla Chiesa, convocò nel 692, un
concilio. Questo fu tenuto a Costantinopoli, in una sala del palazzo imperiale, in una sala con una cupola
("trullus"): che da questa ebbe appunto il nome di "concilio trullano"; da altri fu invece chiamato "quinisesto"
perché si affermava che doveva servire a colmare le lacune del quinto e del sesto concilio.
Al concilio trullano parteciparono duecentoundici vescovi, tutti orientali, che naturalmente vollero far trionfare
le consuetudini della Chiesa d'Oriente in contrasto con quelle della Chiesa di Roma. Gli Atti del concilio, che
dai Cattolici fu chiamato "erratico", furono sottoscritti dall'imperatore, dai vescovi orientali e dai nunzi papali,
ma il Pontefice SERGIO I, quando gli furono inviati perché li sottoscrivesse, indignato si rifiutò, provocando
l'ira di Giustiniano, il quale mandò a Roma il protospatario ZACCARIA perché s'impadronisse del papa e lo
conducesse a Costantinopoli, come quarant'anni prima era stato fatto all'infelice Papa Martino.
Ma i tempi erano cambiati: sotto i colpi degli Arabi era scemata la potenza bizantina e quello sparuto
gruppetto di truppe bizantine sparse qui e là in Italia non impressionavano, abbandonati com'erano, lasciati
ad arrangiarsi da soli, come del resto a Costantinopoli avevano sempre fatto; e ci voleva poco per tirarseli
dalla propria parte, bastava qualche soldo e un buon piatto di ministra calda assicurato ogni giorno.
Inoltre cresciuta invece era l'autorità papale e nelle cittadinanze italiane organizzate militarmente si era
sviluppato lo spirito dell'indipendenza, era penetrata la coscienza della propria forza e delle proprie risorse
anche economiche.
Appena si venne a sapere che il protospatario era in viaggio verso Roma per catturare il Pontefice, le milizie
cittadine di Ravenna e della Pentapoli, in pieno assetto di guerra e al comando dei loro tribuni, mossero
indignate verso la metropoli per impedire di fare violenza al "capo" del Cattolicesimo, che da Gregorio
Magno, era anche qualcos'altro.
Zaccaria giunto da poco a Roma quando fu informato dell'avvicinarsi delle milizie, ordinò prima -come se
fosse lui il capo, ignorando che la realtà da un po' di tempo era ben diversa- che si chiudessero le porte, poi,
accortosi che l'esercito della città assumeva verso di lui un atteggiamento ostile, invaso dalla paura, corse a
rifugiarsi in Laterano e si diede a supplicare lo stesso Pontefice che non lo lasciasse in balia delle milizie.
Finalmente aveva capito la realtà diversa!
Le milizie intanto entravano a Roma a suon di trombe dalla porta di San Pietro e si recavano al palazzo
lateranense, gridando che volevano vedere il Papa perché si era già sparsa la notizia che la notte
precedente fosse stato "catturato" e condotto sopra una nave che doveva portarlo a Costantinopoli.
Era una voce, ma le milizie la presero per vera, e tumultuando e minacciando di abbattere le porte, papa
SERGIO I le fece aprire e si mostrò alla folla dalla basilica di S. Teodoro, sforzandosi di calmare gli animi
eccitati; ma le milizie non vollero allontanarsi, sebbene assicurate, fino a quando il protospatario con una
grande fifa addosso di finire linciato, non uscì da Roma sano e salvo anche se fra le ingiurie della
popolazione.
Questi fatti avvenivano tra il 692 e il 694. Quella giornata - scrive il Bertolini - fu una delle più memorabili
nella storia dei papi. Ben si può dire, che da quella data fu l'inizio dell'indipendenza di Roma da
Costantinopoli.
Mentre l'impero nella fuga da Roma di uno dei suoi più alti dignitari tradiva la sua impotenza, il Papato
vedeva ingigantire la sua opera spirituale e con la sua ormai potente oltre che capillare organizzazione,
perfezionare e portare a termine anche quell'accentramento temporale compiuto sull'intera penisola italiana
con la cooperazione dei suoi vescovi e monaci, ormai presenti in ogni remoto angolo del paese.
Questo lavoro aveva fatto tacere per sempre l'antagonismo fra Ravenna e Roma e sorgere al posto di quello
uno spirito di solidarietà, che dalle cose spirituali si estenderà spontaneamente in parallelo alle temporali.
L'offesa recata al protospatario Zaccaria non sarebbe rimasta impunita se una rivolta militare, provocata dal
malgoverno dell'imperatore e capeggiata dallo stratega LEONZIO, non avesse abbattuto GIUSTINIANO II
che nel 695 ebbe mozzi il naso e le orecchie e fu esiliato in Crimea.
Leonzio salì al trono, ma neppure lui non ebbe il tempo di pensare e di interessarsi dell'Italia, di fronte ai
progressi degli Arabi che si erano resi padroni di quasi tutta l'Africa; ed ora Cartagine, che ancora resisteva,
stava per cadere in mano di un esercito di Mussulmani capitanati da Hassan ibn-Noman.
In soccorso di Cartagine Leonzio mandò una flotta comandata dallo stratega GIOVANNI; questi però fu
sconfitto e Cartagine andò perduta per l'impero. Alla disfatta si aggiunse la ribellione della flotta quando
pervenne a Candia: Giovanni fu ucciso e fu gridato il nome di APSIMARO come imperatore, che riuscì ad
impadronirsi, senza spargimento di sangue, di Costantinopoli, dove prese il nome di TIBERIO III (698).
Il nuovo imperatore ebbe qualche successo in Oriente e cercò di riaffermare sull'Italia l'autorità imperiale. Fu
sotto il suo breve regno che da Costantinopoli fu mandato a Roma l'esarca TEOFILATTO. Sparsasi la notizia
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che anche questo esarca mandato da Bisanzio, voleva tentare con papa GIOVANNI VI quel "golpe" sventato
di ZACCARIA con SERGIO I, le milizie dell'Italia bizantina accorsero tumultuosamente a Roma e a stento il
Pontefice riuscì a far tornare la calma.
Nel 705 moriva GIOVANNI VI e gli succedeva GIOVANNI VII. Nello stesso anno, GIUSTINIANO II, detto
"Rinotmeto" dopo che gli era stato mozzato il naso, riusciva a ricuperare il trono e faceva eliminare
LEONZIO ed APSIMARO.
Volendo punire i ravennati per l'aiuto prestato a SERGIO I e l'offesa recata al protospatario ZACCARIA ed
anche perché alcuni di loro che si erano stabiliti a Costantinopoli avevano preso parte alla rivolta che nel 695
aveva portato sul trono Leonzio, Giustiniano ordinò a TEODORO, patrizio e stratega della Sicilia, di andare
con la flotta a Ravenna, e mettere a sacco la città e trarre in catene a Costantinopoli l'arcivescovo FELICE e
i cittadini più autorevoli.
TEODORO portò a compimento la trista impresa nel 709. Accolto come amico dai Ravennati, egli
s'impadronì con l'astuzia dell'arcivescovo e degli ottimati che fece custodire sulle navi, poi si mise a
saccheggiare la città. I prigionieri furono prima condotti a Costantinopoli, e qui trucidati ad eccezione di
FELICE che però fu accecato e mandato in esilio in Crimea. Fra i condannati ci fu un certo GIOVANNICCIO,
profondo conoscitore della lingua e della letteratura greca e latina, già notaio dell'esarca e lettore alla corte
bizantina, il quale fu murato vivo.
L'anno seguente, GIUSTINIANO ordinò al papa COSTANTINO - successo nel 708 a Sissinio - di recarsi a
Costantinopoli per comporre la questione del "concilio trullano". Costantino era un greco e perciò era
proclive a favorire l'imperatore. In compagnia di due vescovi, partì da Roma il 5 ottobre del 710; trascorso
l'inverno ad Otranto, si mise in mare nella primavera del 711 e nel giugno dello stesso anno giunse a
Costantinopoli dove con grandi onori fu ricevuto da Tiberio, figlio dell'imperatore, dal Senato, dal patriarca
Ciro e dal Clero ed ospitato nel palazzo di Placidia.
Giustiniano, che si trovava in Bitinia, invitò il Pontefice a Nicomedia, dove lo ricevette con gran pompa. Quel
che il capo della Chiesa e l'imperatore abbiano concluso non si sa, ma si ha ragione di credere che il
Pontefice abbia riconosciuto quanto era stato deliberato nel "concilio trullano". In compenso ricevette la
conferma di tutti i privilegi papali. Costantino fece ritorno a Roma il 24 ottobre del 711.
Durante l'assenza del Pontefice in Italia avvennero fatti di una certa gravità, e forse si era voluto allontanare
il Papa, chiamandolo a Costantinopoli, proprio per compierli. Infatti, l'esarca GIOVANNI RIZOCOPO, che era
giunto a Roma, appena partito il papa, aveva fatto catturare ed uccidere parecchi dignitari della Chiesa, poi
si era recato a Ravenna per compiervi senza dubbio altre vendette; ma preceduto da questa fama di
giustiziere, il popolo, insorto, lo aspettò al varco e lo uccise.
La rivolta di Ravenna non si fermò qui: le milizie ravennati elessero come capo GIORGIO, il figlio di quel
Giovanniccio che era stato così barbaramente giustiziato (murato vivo) a Costantinopoli.
Giorgio chiamò alle armi tutti gli uomini validi della città e li raggruppò in dodici "bande" o compagnie armate,
comandati ciascuno da un tribuno, ai quali affidò la difesa delle mura e del porto. Nella dodicesima banda
furono messi tutti i dipendenti dalla Chiesa. Alla rivolta aderirono le città dell'Esarcato, come Sarsina, Cervia,
Cesena, Forlimpopoli, Forlì, Faenza, Imola e Bologna, che si organizzarono militarmente e così per la prima
volta in Italia sorse una confederazione di città che mirava a scuotere il giogo di Costantinopoli.
GIUSTINIANO II si sapeva che non avrebbe lasciato impunite la morte dell'esarca e la rivolta di Ravenna,
ma una ribellione in casa propria, privandolo del trono e della vita, non gli dette il tempo di fare vendette.
Quest'insurrezione sorse in Crimea e in breve si estese fino alla capitale. A sollevarla fu un generale esiliato,
BARDANE FILIPPICO, al quale ben presto si unì ELIA, comandante della flotta. Filippico fu proclamato
imperatore (11 settembre del 711) e GIUSTINIANO, che era fuggito a Sidone, fu catturato; e invece di
inviare le truppe a Ravenna per punire la ribellione, furono invece i ribelli di Costantinopoli che inviarono alla
città adriatica impacchettata la sua testa dopo averlo decapitato. L'arcivescovo FELICE, cieco ed esule, fu
restituito alla sua sede.
Questi atti (e quel "dono") del nuovo imperatore facevano sperare che avrebbe seguito una politica di
conciliazione con la Chiesa. Invece non fu così: FILIPPICO era un acceso monotelita e, salito al trono, fece
da un'assemblea di vescovi condannare la dottrina delle due volontà, ordinò che fossero pubblicamente
bruciati gli atti del sesto concilio ed invitò il Pontefice romano a dare la sua adesione al monotelitismo.
Il Papa respinse sdegnosamente l'invito e informata della cosa la popolazione romana, questa si levò in
tumulto, decisa a non riconoscere l'imperatore né di dare corso alla moneta con l'immagine del sovrano. Fu
inoltre proibito che il ritratto di FILIPPICO fosse esposto in S. Pietro e il suo nome pronunciato nelle
preghiere; poi in segno di protesta, nell'atrio di S. Pietro fu messo un quadro raffigurante i sei concili
ecumenici.
Il tumulto prese proporzioni maggiori quando l'imperatore mandò Pietro a sostituire Cristoforo, duca dalla
città. La maggioranza dei cittadini si oppose e, poiché il partito (c'era anche questo a Roma) favorevole a
Filippico si era schierato per il nuovo duca, la cittadinanza si divise in due fazioni e nacquero disordini che
avrebbero senza dubbio provocato una sanguinosa lotta civile se non fosse intervenuto il Pontefice, e al
momento più che favorevole, infatti, era giunta la notizia che il 4 giugno del 713 FILIPPICO era stato
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abbattuto da una congiura di palazzo, spodestato dal trono, ed era stato nominato imperatore ANASTASIO
II.
Questi si affrettò a cancellare i decreti del suo predecessore, mandò in Italia un nuovo esarca e stabilì buoni
rapporti con la Chiesa. Ma l'opera sua era destinata a non produrre alcun frutto perché il malgoverno
bizantino, le lunghe contese tra la Chiesa e l'impero e le poche cure dedicate dalla corte alla penisola
avevano fatto sorgere in Italia un partito nazionale e delle milizie indigene che dovevano esser fatali alla
dominazione bizantina. Ma ritorniamo in Italia.
LIUTPRANDO - LEONE ISAURICO - GREGORIO II
Mentre l'autorità dei Bizantini in Italia perde terreno e le città, amministrandosi e difendendosi da sole,
procedono sulla via dell'autonomia, più saldo diventa lo stato longobardo, in cui comincia a scomparire il
dualismo di stirpe e i vincitori al contatto con i vinti si trasformano e s'inciviliscono.
Ora il popolo longobardo ha finalmente il suo re, un sovrano valoroso ed intelligente, che si distinguerà per la
sua politica aggressiva, per il proposito di dare, sotto il suo scettro, unità all'Italia e per l'opera legislativa. La
forte personalità del sovrano (quel gracile fanciullo che era scampato allo scempio della sua famiglia) e la
lunga durata del suo regno saranno i fattori principali del consolidamento della monarchia longobarda, in cui
tutto si accentra nella corte, diminuiscono il numero e la potenza dei duchi e si accresce il numero dei
gastaldi, che costituiscono la vera forza del potere centrale.
L'attività legislativa di LIUTPRANDO, successo al padre ANSPRANDO nel giugno del 712, va ininterrotta
dagli inizi del suo regno al 735 ed è consacrata in centocinquantacinque capitoli.
"… Più che un'aggiunta o una semplice modificazione alle precedenti leggi di Rotari e di Grimoaldo - scrive il
Romano - essi rappresentano una vera rivoluzione avvenuta nella società longobarda. Il linguaggio del re e
lo spirito che anima quelle leggi provano quale larga breccia nello stato longobardo aprì l'influsso della civiltà
romana e della Chiesa.
Il re si professa e s'intitola "cristiano e cattolico principe", "non per proprio merito ma per divina ispirazione",
provvede al bene del suo popolo della sua "felicissima e cattolica nazione longobarda a Dio diletta", e infiora
i suoi prologhi di reminiscenze bibliche, che attestano l'impiego di ecclesiastici nella redazione delle leggi.
Senza dubbio il re non tralascia di notare che all'opera legislativa concorrono i giudici della Neustria,
dell'Austria e della Tuscia oltre il popolo longobardo, ma l'impressione che si ricava dai prologhi è che la
volontà del sovrano è la vera fonte del diritto e gli altri non fanno che con energia e degno del nome che
consentire.
L'influenza ecclesiastica si sente specialmente nel capitolo 33 (anno XI-723), in cui è proibito il matrimonio
con la vedova del cugino. Il re non manca di avvertire che tale divieto è suggerito "dal papa di Roma, che è
in tutto il mondo il capo della Chiesa di Dio e dei sacerdoti". Ma, nonostante queste espressioni, la
legislazione liutprandea non presenta tracce di quell'ossequio servile verso la Chiesa che caratterizza le
leggi visigotiche di poco anteriori, né di quella cieca intolleranza contro gli Ebrei, che fu la disgrazia della
monarchia spagnola e spianò la via alla conquista dei mori.
Il latino delle leggi di Liutprando è anche più barbaro di quello di ROTARI, e lascia facilmente trasparire,
attraverso il convenzionalismo dello stile cancelleresco, l'azione incalzante dell'uso volgare. Ma da questo
nulla è possibile argomentare pro o contro la cultura letteraria del re. Personalmente non pare avesse alcun
rudimento di cultura: "litterarum quidem ignarus" lo dice Paolo, ma soggiunge subito: "sed philosophis
aequandus", giudizio non dissimile da quello che l'autore della cronaca Teodoriciana ha lasciato di
Teodorico…".
La legislazione di Liutprando risente moltissimo dell'influenza del Cattolicesimo e del diritto romano. Quella si
rivela nelle raccomandazioni che si fanno di guardarsi dagli eretici, nei privilegi che sono accordati alla
Chiesa, in certe disposizioni riguardanti i testamenti e i matrimoni e in generale in tutto quel senso di
giustizia e di umanità che la pervade, questa si rivela oltre che nella forma nella sostanza. Molto hanno
imparato i Longobardi dagli Italiani e dalla convivenza con questi hanno sentito il bisogno di modificare i loro
costumi e di trasformare le proprie leggi, intonandole al tenore di una vita più civile.
In materia di successione se si dà la preferenza al sesso secondo il costume germanico si toglie il concorso
dei parenti con le figlie legittime. Una grande riforma è costituita dall'introduzione del testamento, che è
evidentemente ispirata dal diritto romano al pari della proibizione dei matrimoni tra consanguinei, della
manomissione in chiesa, della tutela dei minorenni e della repressione degli abusi dei pubblici funzionari.
Ma dove più si sente l'influsso romano è in quella parte della legislazione che tratta delle pene per gli
omicidi. Con LIUTPRANDO al "guidrigildo" è aggiunta la confisca dei beni dell'uccisore, una metà dei quali
va a favore degli eredi della vittima, l'altra passa nelle casse della corte regia. L'inasprimento della pena è un
colpo mortale per il "guidrigildo" e mentre eleva il prezzo della vita umana tende a porre un limite ai reati di
omicidio.
All'attività legislativa di Liutprando fa seguito, e a volte con questa s'intreccia, l'attività politica e militare.
Scopo del re è di ingrandire il suo stato, riducendo sotto il suo dominio tutta la penisola; ma le difficoltà che
si oppongono al suo disegno non sono poche né lievi. I Bizantini non sono benvoluti in Italia e non è difficile
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scacciarli, anche per le poche forze di cui dispongono, ma quale contegno assumeranno le città italiane in
una lotta tra longobardi e imperiali? E che condotta terrà il nuovo imperatore che fin dal suo innalzamento al
trono ha mostrato di essere capace di tener testa a tutte le forze interne ed esterne che congiurano contro 1'
integrità dell' impero?
L' incognita più grande per Liutprando è però costituita dalle città italiane. Esse con le loro milizie nazionali
rappresentano una forza non indifferente; esse hanno acquistato un'autonomia quasi completa che vorranno
difendere disperatamente e ne sono prova i lavori di fortificazione eseguiti a Roma e in altre città dai
Pontefici e dai duchi. Queste città alla sovranità longobarda, avrebbero forse preferito quella nominale dei
Bizantini, e in una guerra tra questi e quelli sarebbero stati dalla parte di questi ultimi. Un'altra difficoltà era
costituita dal Papa. Mancava una giustificazione per i Longobardi cattolici di muovere alla conquista del
ducato romano di cui il vero sovrano era il Capo della Chiesa cattolica che tanta autorità e influenza aveva
anche negli altri ducati bizantini d'Italia.
A Papa Costantino era successo, nel 715, Papa Gregorio, uomo di larghe vedute, di grande energia e degno
del nome che portava. Gregorio fece scopo di tutta la sua politica l'indipendenza del ducato romano.
Da due nemici era insidiato: dall'impero che ne aveva il dominio, nominale e dai Longobardi che non
nascondevano le loro intenzioni d'ingrandirsi a spese dell'Italia bizantina. Con l'impero il Pontefice poteva
fare una politica forte, conoscendone la debolezza; con i Longobardi era invece necessario comportarsi con
molta prudenza. Con l'uno e con gli altri era però indispensabile agire in modo da evitare le sorprese e
Gregorio, imitando i suoi predecessori, fortificò le mura di Roma. Questo provvedimento potrebbe sembrare
a prima vista ingiustificato pensando all'atteggiamento di Liutprando, il quale mostrava di voler fare una
politica pacifica con i Bizantini e con il Pontefice, confermando la donazione del patrimonio delle Alpi Cozie e
definendo amichevolmente la questione della giurisdizione dei patriarcati di Aquileia e di Grado; era invece
pienamente giustificato dall'atteggiamento ostile dei duchi di Benevento e di Spoleto.
Nel 717, difatti, ROMUALDO II, duca di Benevento, s'impadronì di Cuma, città fortificata, importantissima
perché assicurava le comunicazioni tra Roma e Napoli; ma di lì a poco il duca di Napoli GIOVANNI I, aiutato
finanziariamente dal Papa, riuscì a riprendere Cuma al nemico, che lasciò sul campo trecento uomini e
cinquecento prigionieri. Qualche anno dopo FAROALDO II, duca di Spoleto, riuscì a conquistare il porto di
Classe e il suo successore TRASIMONDO la città di Narrai nel ducato di Roma.
La politica del pontefice verso l'impero fu, come abbiamo detto, forte. Al trono di Costantinopoli ad
ANASTASIO II, morto nel 716 e a TEODOSIO III sbalzato da una rivolta, era successo nel 717 LEONE III
detto l' "Isaurico", che ereditava un impero in una critica situazione. La Cappadocia era stata conquistata
dagli Arabi, i quali avevano fatta la loro comparsa nella Frigia, ora cingevano d'assedio per la seconda volta
la stessa Costantinopoli guidati da Moslama, fratello del califfo Uelid. Fu Leone che salvò la capitale
dell'impero: nel 717 distrusse con il fuoco greco la flotta mussulmana e nell'anno successivo costrinse
l'esercito nemico a togliere l'assedio.
Nonostante questi successi la situazione dell'impero rimaneva grave; s'imponeva il bisogno di continuare la
lotta in Oriente, ma per continuarla occorreva riempire le esauste casse dello stato. Fu per procurarsi nuovi
cespiti di entrate che l'imperatore intorno al 725 ordinò che fosse raddoppiata l'imposta fondiaria.
Questo provvedimento, suggerito più dai bisogni dell'impero che da avversione di Leone al Papa, fu causa di
gravi disordini in Italia e provocò l'atteggiamento ostile di Gregorio. Questi, vedendo che il provvedimento
colpiva i beni ecclesiastici, ordinò ai rettori del patrimonio ecclesiastico di non pagare le imposte. L'esempio
fu seguito dai provinciali. La reazione da parte dell'impero non poteva mancare: dietro istigazione dell'esarca
fu ordita a Roma una congiura con lo scopo di imprigionare il Pontefice e di mandarlo a Costantinopoli. Ne
facevano parte il duca BASILIO, il cartolario GIORDANE e il suddiacono GIOVANNI LURION;
l'assecondavano, come si crede, non pochi nobili ed ecclesiastici e MARINO, duca di Roma.
La congiura fallì perché Marino, improvvisamente ammalatosi, dovette allontanarsi, ma la trama fu ripresa
con l'arrivo del nuovo esarca PAOLO e forse avrebbe conseguito il fine che si prefiggeva se, venuta a
conoscenza del popolo, questo non fosse insorto a difesa del Pontefice.
Giovanni Lurion e Giordane furono uccisi e Basilio fu costretto a farsi monaco.
Irritato dall'insurrezione popolare, l'esarca spedì a Roma alla testa di un corpo di milizie un suo spatario con
l'incarico di deporre GREGORIO II, ma al ponte Salario le truppe nazionali del ducato romano, aiutate dai
Longobardi di Spoleto e della Tuscia, respinsero le schiere bizantine.
Erano questi i prodromi della lotta che di lì a poco scoppiava, provocata da un decreto che proibiva il culto
delle immagini. È stato sostenuto che la dottrina iconoclasta di Leone Isaurico sia stata consigliata dal
desiderio dell'imperatore di conciliarsi con i Mussulmani e di togliere nello stesso tempo all'Islamismo il
favore che godeva presso le popolazioni cristiane dell'Asia e dell'Africa. Può darsi che erano questi i motivi
Leone, ma mirava principalmente ad eliminare dal culto cristiano tutto ciò che il paganesimo gli aveva
lasciato, restituendo alla religione cristiana il suo carattere spirituale.
"…Leone - scrive il Romano - era un cristiano ardente e sincero, profondamente avverso a quelle
superstizioni in cui vedeva non solo un male per la vita religiosa, ma anche per l'impero. Dal momento che
questo non poteva sperare salute che in sé stesso, occorreva una nuova trasfusione di energia sana e
vigorosa, da cui soltanto l'Impero poteva trarre la forza necessaria per rilevarsi dall'abisso in cui era caduto.
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Ma a questo proposito .... andò unito un errore di metodo, che Leone aveva ereditato dai suoi predecessori,
e che doveva necessariamente compromettere il successo dell'opera sua, l'errore di credere che il culto
delle immagini potesse essere combattuto, non già con il lavoro lungo e paziente di un'instancabile
propaganda riformatrice, ma con l'azione persecutrice degli editti appoggiati alla forza materiale degli
eserciti. Fu quest'errore che compromise il successo finale della sua riforma, la quale, se in qualche
provincia trovò fautori ardenti, in altre incontrò proteste vivaci ed ostacoli insuperabili.
Gli Elleni specialmente s'impegnarono a combattere i decreti con un'ostinata resistenza. Per questi parte
integrante dell'ortodossia era il culto delle immagini, cui si associavano le loro inclinazioni artistiche e il
rispetto tradizionale di cerimonie e riti pagani passati nel Cristianesimo. L'imperatore usò inutilmente la forza
per costringerli all'obbedienza; per quanto egli avesse dalla sua parte molti elementi di potenza, quali una
parte del clero orientale, la maggioranza delle persone colte dell'Asia e tutti i funzionari, trovò un ostacolo
invincibile nella coscienza delle masse popolari, cui la controversia riusciva ora assai più intelligibile che non
i passati dibattiti dominatici intorno ai rapporti del Padre col Figlio, alla natura di Cristo e alla sua unica o
doppia volontà…".
L'editto contro le immagini, emanato nel marzo del 726, fu inviato al Pontefice con l'ordine di accettarlo pena
la deposizione. Ma Gregorio non solo non lo accettò; si ribellò anzi apertamente all'imperatore capeggiando
in Roma e nel ducato il moto insurrezionale provocato dal decreto iconoclasta e scomunicando l'esarca. Il
moto in breve si estese in tutta l'Italia bizantina e le città, cacciati gli ufficiali imperiali, elessero duchi propri.
Venezia insorse a favore del Papa; a Ravenna il partito imperiale, favorito come pare dall'arcivescovo
Giovanni, cercò di opporsi alla insurrezione, ma questa trionfò: l'arcivescovo fu scacciato e l'eretico esarca
ucciso (727 ); nella Campania un duca ESILORATO che parteggiava per Leone fu trucidato assieme al figlio;
a Roma il Duca bizantino PIETRO, accusato di avere scritto lettere contro il Pontefice, fu accecato e in sua
vece eletto STEFANO che assunse anche il titolo di patrizio.
I più ardenti tra i rivoltosi proponevano che si eleggesse un nuovo imperatore da imporre a Costantinopoli;
altri volevano addirittura staccarsi dall'impero. Ma il Pontefice, che prima era stato l'anima della rivoluzione,
ora si preoccupava della piega che prendevano gli avvenimenti. Dalla lotta tra il Papato e l'impero chi tutto
aveva da guadagnare era Liutprando. E questi non era rimasto inoperoso. Il momento era propizio per i
disegni di conquista del re longobardo, che non lasciò scappare l'occasione.
Col pretesto di difendere il Pontefice entrò alla testa di un esercito, nell'Esarcato impadronendosi di Bologna,
Persiceto, Monteveglio e Fregnano nell'Emilia, poi invase la Pentapoli e ridusse in suo potere Umana,
Ancona ed Osimo. Classe fu espugnata e Ravenna assediata. Nel medesimo tempo i Longobardi della
Tuscia penetravano nel ducato romano e s'impadronivano delle fortezze di Narni e di Sutri.
I progressi di Liutprando fecero capire al Papa quanto fosse pericoloso assecondare i propositi degli
estremisti. Da un canto egli non volle che si eleggesse un nuovo imperatore e si adoperò a persuadere
gl'Italiani a rispettare il sovrano di Costantinopoli nella speranza che ritornasse alla vera fede, dall'altro fece
dei passi presso il re longobardo per fargli restituire le località conquistate.
Qualche cosa da Liutprando il Pontefice ottenne: Classe ed alcune terre presso Ravenna furono restituite e
fu restituito anche il castello di Sutri, ma Liutprando trattenne i territori dipendenti dal castello, le conquiste
nell'Emilia e, come pare, quelle della Pentapoli.
A complicare la situazione in Italia giungeva intanto il nuovo Esarca EUTICHIO che iniziò il suo governo
tentando di sbarazzarsi del Papa. Non essendogli riuscito perché i Romani avevano scoperto l'emissario
mandato a Roma dall'esarca per ordirvi una congiura e lo avrebbero ucciso se non lo avesse salvato
l'intervento del Pontefice, Eutichio si avvicinò a Liutprando, spingendolo forse contro i duchi di Spoleto e di
Benevento ai quali il papa si era avvicinato in funzione anti-Liutprando.
Interessi identici spingevano questi duchi e il Pontefice ad agire d'accordo: tutti e tre temevano di Liutprando,
i primi due che la loro dipendenza dal re si mutasse da nominale in effettiva, il terzo che la vicinanza del re
fosse fatale a Roma. Che ci sia stato un vero accordo tra Gregorio II e Trasimondo e Romualdo II, duchi di
Spoleto e di Benevento, non abbiamo prove, ma si può credere che un accordo ci sia stato dal contegno di
Liutprando. Questi infatti marciò alla volta di Roma, nel cui territorio già si trovava l'esarca, e giunto alla
destra del Tevere si fermò al Campo di Nerone che aveva visto le tende di Vitige.
Il momento era grave. Se LIUTPRANDO si fosse impadronito di Roma avrebbe mutato il corso della storia
d'Italia e stroncato sul nascere il dominio temporale dei Papi.
Non fu così e la piega che presero gli avvenimenti segnò la sentenza di morte del regno longobardo.
GREGORIO II ripetè il gesto di Leone I. Questi aveva contato sulla superstizione dei condottieri barbari per
salvare Roma, quegli contava sulla propria autorità di Capo della Chiesa e sulla pietà di Liutprando. Il
Pontefice uscì dalla metropoli e con grande pompa si recò al campo dei Longobardi a pregare il re affinché
levasse l'assedio, poi condusse Liutprando a Roma e lo accompagnò nella basilica di S. Pietro, davanti la
tomba dell'Apostolo, sulla quale il sovrano devotamente depose la corona, il manto e la spada, insegne della
dignità regia, rinunciando per sempre con quest'atto all'antico disegno di riunire l'Italia sotto il suo scettro.
CARLO MARTELLO - GREGORIO III VICENDE DELL'ESARCATO - PAPA ZACCARIA
LIUTPRANDO ELEZIONE DI ASTOLFO
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MORTE DI
F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte V- Cenni di letteratura latina altomedievale
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Lasciata Roma, Liutprando fece ritorno a Pavia. Roma era salva, ma non era ancora detto che il re
longobardo non dovesse più costituire un pericolo per il ducato romano. Di lui temeva sempre Gregorio e
siccome la sua politica tendeva al mantenimento dell'equilibrio tra Longobardi e Bizantini, ora che questo si
era alterato con la sottomissione dei duchi di Spoleto e di Benevento, si avvicinò all'esarca bizantino.
Un altro motivo che provocò quest'avvicinamento è da ricercarsi nella ribellione di un duca bizantino della
Tuscia romana. Si chiamava questi PETASIO; proclamatosi imperatore, si era fatto prestare giuramento di
fedeltà da non poche fortezze del territorio romano e si preparava a costringere altri a riconoscerlo. Non fece
però in tempo, l'esarca sostenuto dalle milizie romane fornitegli dal Pontefice, marciò contro l'usurpatore, lo
sconfisse e, dopo averlo fatto decapitare, ne mandò la testa a Costantinopoli.
Questo fatto accadeva nel 730. L'11 febbraio del 731 Gregorio II cessava di vivere.
Il 18 marzo, saliva sul soglio papa GREGORIO III, ma correvano tristissimi tempi per la Cristianità. Padroni
di tutta l'Africa settentrionale, dal Nilo all'Atlantico, gli Arabi, guidati da Tarik, avevano nel 711 passato lo
stretto di Gibilterra, avevano sconfitto, nella famosa battaglia di Xeres la Frontera, il re Roderico ed avevano
iniziato la conquista della Spagna che più tardi fu compiuta dall'emiro Musa, costringendo i Visigoti superstiti
a rifugiarsi nella zona montuosa della Galizia. Passati i Pirenei verso il 718, Arabi e Mori avevano occupato
Arles, Narbona, Avignone, si erano spinti fino alle Alpi e ad Autun ed avrebbero invaso tutta la Francia se a
Tolosa non li avesse arrestati il duca Eude di Aquitania.
Ma nel 730, preso il comando dell'esercito mussulmano il valoroso Abd-er-Rahman, questi sconfiggeva sulla
Dordogna le truppe di Eude e si spingeva verso la Loira.
La Francia correva serio pericolo di esser sommersa dall'onda mussulmana. La salvò dai barbari del sud,
come Stilicone l'aveva salvata dagli Unni di Attila, CARLO, soprannominato poi MARTELLO. Discendeva da
ARNOLFO, vescovo di Metz. Questi, prima di entrare nella carriera ecclesiastica, aveva avuto un figlio,
ANSGISILDO, da cui era nato PIPINO D' HERISTAL, che divenuto maggiordomo della casa regnante di
Austrasia (Francia orientale), aveva vinto nel 687, a Tertry, BERTARIO, maggiordomo della Neustria
(Francia occidentale) diventando il vero capo del governo e delle milizie dei tre regni di Austrasia, di Neustria
e di Borgogna, sui cui troni si succedevano i "re fannulloni" della stirpe merovingia. Morto Pipino nel 714, gli
era successo, dopo cinque anni di aspre lotte civili, nella carica di maggiordomo, il figlio naturale CARLO, il
grande condottiero che doveva arrestare definitivamente l'avanzata dei Mori nella Francia.
La grande battaglia tra i Mori e i Franchi di Carlo Martello fu combattuta nel 732 fra Tours e Poitiers. I
Mussulmani furono sconfitti e subirono gravissime perdite. Il loro generale, Abd-e-Rahman, perì nel
sanguinoso combattimento. I Franchi salvavano a Poitiers la civiltà orientale e la Cristianità e CARLO
MARTELLO quel giorno decideva le sorti della fiacca monarchia merovingia. Intanto coloro che avevano il
dovere di difendere l'Europa cristiana dalla penetrazione Islamica, il Papa e l'imperatore, si logoravano in
una lotta che a quest'ultimo doveva costare la perdita di tutti i domini dell'Italia.
Salito al trono pontificale, GREGORIO III aveva scritto a LEONE ISAURICO di revocare l'editto iconoclasta,
ma il messo che portava le lettere papali era stato arrestato in Sicilia e il Pontefice aveva convocato un
concilio a Roma, nella basilica di S. Pietro. Al concistoro avevano partecipato novantasei vescovi, il clero
romano e i rappresentanti del popolo e della nobiltà. Il concilio si era chiuso con la condanna dell'iconoclastia
(novembre del 731), che voleva dire dichiarazione aperta di guerra del Papato e dell'Italia ex bizantina
all'imperatore.
LEONE da Bisanzio accettò la sfida e inviò nel 733 una flotta contro l'Italia; ma una furiosa tempesta la
disperse prima ancora di toccare la costa. Allora l'imperatore confiscò i beni della Chiesa romana nella
Calabria e nella Sicilia, le cui chiese, insieme con quelle della Sardegna e dell'Illirio occidentale, furono
sottratte alla giurisdizione del Pontefice e messe sotto quella del patriarca di Costantinopoli. Gregorio si
rifece in parte della perdita acquistando dal duca di Spoleto, con cui si teneva in buoni rapporti, Cartel
Gallese che fu incorporato nel ducato romano.
Di questa lotta tra il Papato e l'impero non poteva non approfittare LIUTPRANDO che non aveva
abbandonato il disegno d'impadronirsi di tutta l'Italia. Nel 734 il re longobardo affidò un esercito al nipote
ILDEPRANDO e al duca di Vicenza PEREDEO e lo mandò ad invadere l'esarcato. Ravenna cadde nelle
mani dei Longobardi e l'esarca cercò riparo nella laguna veneta.
Nelle isolette della laguna, temporaneo rifugio degli abitanti della terraferma durante le brevi invasioni
barbariche, viveva già al tempo di Teodorico una popolazione stabile, dedita ai commerci, solo
nominalmente dipendente dai Goti. Cessato in Italia il dominio gotico, le isole erano passate sotto la
sovranità bizantina, ma nominale anch'essa; e sotto questa sovranità erano rimaste anche quando in Italia
erano venuti e si erano affermati i Longobardi. Nel 580 il patriarca d'Aquileia era fuggito a Grado e ad
Aquileia era stato innalzato al grado di patriarca il vescovo di Cividale. Ognuna delle dodici isolette era
governata da tribuni eletti dal popolo e confermati dall'imperatore.
Nel 584 l'imperatore Maurizio, sollecitato dall'esarca Longino, aveva concesso agli abitanti della laguna un
diploma con il quale assicurava loro protezione e libertà di commercio in tutto l'impero. Ma era più protezione
nominale che di fatto; i Longobardi da una parte, gli Slavi dall'altra insidiavano la libertà delle comunità della
laguna Per poter meglio difendersi, le varie isole, già confederate tra loro, avevano pensato di darsi un unico
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governo che doveva anche sopire le discordie tra i tribuni e stroncare le ambizioni. Riunitisi pertanto ad
Eraclea, sotto la presidenza del patriarca di Grado, i tribuni, i vescovi, i maggiorenti e i rappresentanti del
popolo, era stato eletto, verso il 713, PAOLUCCIO ANAFESTO, duca o doge, supremo magistrato civile, con
giurisdizione su tutte le isole e diritto di nominare i giudici e i tribuni e di convocare i concili per l'elezione dei
vescovi. A Paoluccio, nel 717, era successo MARCELLO che aveva tenuto il governo per nove anni.
Quando, nel 734, Ravenna cadde nelle mani di LIUTPRANDO e l'esarca si rifugiò nella Venezia lagunare,
era allora doge ORSO. Il fatto che Eutichio cercò rifugio nelle isole della laguna e che il papa Gregorio III
scrisse al patriarca di Grado, Antonino, e al doge pregandoli di riprendere Ravenna ai Longobardi, dimostra
che il ducato veneziano si considerava sotto la sovranità di Costantinopoli e che il Pontefice non aveva rotto
completamente i rapporti con l'imperatore ed aveva interesse che la potenza di Liutprando non crescesse
troppo. I Bizantini erano lontani, ma i Longobardi erano sull'uscio di casa del Papa e, di fatto e
metaforicamente, negli altri territori, erano "in casa propria".
Le preghiere di Gregorio trovarono eco a Grado: una flotta veneziana comandata da Orso, piombò
improvvisamente su Ravenna e ne scacciò i Longobardi, catturando ILDEPRANDO ed uccidendo
PEREDEO.
Alla liberazione di Ravenna segui una tregua tra Longobardi e Bizantini ch'ebbe per conseguenza
l'abbandono di Liutprando delle terre occupate nell'esarcato e la liberazione di Ildeprando, il quale, nel 735,
fu dal re associato al trono. In questo stesso anno o nel successivo Liutprando e Carlo Martello stringevano
rapporti d'amicizia e questi mandava a Pavia il figlio PIPINO a rinsaldare i vincoli tramite la cerimonia del
taglio dei capelli descrittaci da Paolo Diacono.
L'amicizia del re longobardo era per il maggiordomo dei regni franchi una necessità politica, perché, dopo la
sconfitta di Poitiers, i Mori avevano ripreso l'offensiva, occupando la Settimania e la Provenza, minacciando
seriamente l'Aquitania e la Borgogna e il pericolo mussulmano doveva essere davvero grave per la Francia
se Carlo Martello ritenne necessario chiedere l'aiuto di Liutprando per cacciare oltre i Pirenei gl'invasori.
` Liutprando si affrettò a darlo e con un esercito mosse al soccorso dei Franchi, ma quando giunse di là dalle
Alpi (738) i Mussulmani, efficacemente attaccati da Carlo, avevano già abbandonato il paese.
Quando il re longobardo fece ritorno in Italia una sorpresa lo aspettava: TRASIMONDO, duca di Spoleto, si
era ribellato; a Benevento, morto il duca GREGORIO, che il re, dopo la morte di Romualdo II, aveva posto al
governo del ducato al posto dell'erede minorenne Gisulfo, dalla frazione che appoggiava l'indipendenza era
stato eletto GODESCALCO, ed aveva stretto alleanza con il Papa e con Trasimondo.
LIUTPRANDO allora marciò contro Spoleto, costrinse TRASIMONDO a fuggire e diede il ducato a
ILDERICO; saputo poi che il fuggiasco aveva trovato asilo a Roma, chiese la sua consegna al Pontefice.
Essendosi Gregorio III rifiutato, invase il ducato romano e trasse in suo potere Bomarzo, Bieda, Ameria ed
Orte.
Fu allora che il Papa invocò l'aiuto del potente maggiordomo franco, inviandogli, con una lettera e ricchi doni,
le chiavi del sepolcro di S. Pietro e l'offerta del patriziato. CARLO MARTELLO però non si mosse dalla
Francia: lo trattenevano il pericolo di una nuova invasione musulmana e il timore che, in sua assenza, il
trono merovingio, vacante dal 737 dopo la morte di Teodorico IV, cadesse in mano di CHILDERICO III,
parente del defunto re che non aveva lasciato figli, o di qualche altro. Inoltre, non poteva, per aiutare il
Pontefice, rompere l'amicizia che lo legava ai Longobardi.
Tuttavia è da credere che CARLO MARTELLO mise una buona parola in favore del Papa. Solo così si
spiega perché LIUTPRANDO, interrompendo la sua avanzata, abbia, nell'agosto del 739, fatto ritorno a
Pavia.
Ma questa doveva essere una breve tregua per il ducato romano. Nel 740 - anno in cui moriva Leone
Isaurico - Liutprando e Ildeprando invadevano l'esarcato e mandavano a saccheggiare i patrimoni della
Chiesa romana. Gregorio III allora scriveva una seconda lettera a Carlo Martello ("filio Carolo") pregandolo di
non abbandonare la Chiesa per l'amicizia dei malvagi Longobardi, ma non avendo ottenuto nulla, mandava a
Liutprando due legati perché insieme con i vescovi della Tuscia chiedessero al re la restituzione dei castelli
del ducato occupati l'anno precedente.
L'ambasceria però non ottenne niente, ed allora il Pontefice concluse un accordo con TRASIMONDO
obbligandosi di aiutarlo a riacquistare il ducato. Il duca in cambio prometteva di riprendere i castelli perduti
dal Papa e di restituirglieli. Con l'aiuto dell'esercito romano e di milizie del duca di Benevento, Trasimondo,
verso la fine del 740 tornò a Spoleto uccidendo ILDERICO, ma poi non si curò di mantener la promessa fatta
al Pontefice.
La situazione del ducato romano diventava difficilissima. Gregorio III non ebbe il tempo di migliorarla: il 10
novembre del 741 cessò di vivere. Il 21 di ottobre dello stesso anno era morto Carlo Martello, dividendo la
Francia tra i due suoi figli CARLOMANNO e PIPINO. Mentre CHILDERICO III, l'ultimo dei Merovingi, era
stato chiuso in un chiostro.
A Gregorio III, dopo soli quattro giorni di soglio vacante, succedeva ZACCARIA, un greco dell'Italia
meridionale, il quale nell'isolamento in cui la S. Sede si era venuta a trovare, non seppe fare di meglio che
avvicinarsi a Liutprando. E vi riuscì nei primi mesi del 742 con la promessa di aiuti nella spedizione che il re
si apprestava a fare contro Trasimondo. Questa offensiva avvenne poco tempo dopo. Assalito dalle truppe
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del re e del ducato romano Trasimondo stimò inutile ogni tentativo di resistenza e si affidò alla generosità di
Liutprando, il quale, dopo averli chiuso in un chiostro, nominò duca di Spoleto il proprio nipote AGIPRANDO.
Dopo Trasimondo venne la volta di Godescalco, duca di Benevento. Questi non aspettò che il re
gl'invadesse il ducato e stabilì di rifugiarsi a Costantinopoli. Non ne ebbe però il tempo: i partigiani di
GISULFO II lo uccisero e il re diede a lui il ducato che come legittimo erede di Romualdo II gli spettava.
Riassoggettati i ducati di Spoleto e di Benevento, pareva che Liutprando si fosse dimenticato delle promesse
fatte al Papa. A ricordargliele pensò lo stesso ZACCARIA, il quale da Roma si mosse per andare ad Orte
dove il re si trovava. Saputo in viaggio, LIUTPRANDO gli andò incontro a Terni con i suoi duchi e parte delle
sue milizie. Il Pontefice ottenne più di quanto desiderava: le quattro città di Bomarzo, Bieda, Ameria ed Orte
gli furono restituite e gli si confermò il possesso con un diploma; inoltre furono messi in libertà i prigionieri
italiani e furono dati al Pontefice i patrimoni ecclesiastici della Sabina, di Narni, Osimo, Ancona, Umana e
Sutri di cui si erano impadroniti i duchi di Spoleto.
Infine tra Zaccaria e Liutprando fu conchiusa una tregua di venti anni. Con questa il re rinunciava alla
conquista del ducato romano, ma si riservava libertà di azione nei riguardi delle altre parti dell'Italia bizantina.
Nel 743, infatti, penetrò nell'esarcato e, impadronitosi di Imola e Cesena, si organizzò per muovere contro
Ravenna.
L'esarca EUTICHIO non aveva forze sufficienti per difendersi e, insieme con l'arcivescovo Giovanni e i
rappresentanti delle città minacciate dell'Emilia e della Pentapoli, si rivolse al Pontefice affinché intervenisse
a favore dell'esarcato presso il re longobardo.
Zaccaria scrisse a Liutprando, ma, non essendo riuscito a piegarlo, decise di recarsi personalmente presso il
re. Il convegno fu fissato a Pavia, dove il Pontefice fu ricevuto con grandissimi onori ed ottenne tutto quello
che chiese, la restituzione cioè delle conquiste fatte nell'esarcato, eccetto un terzo del territorio di Cesena
che promise di restituire al ritorno degli ambasciatori inviati a Costantinopoli per trattare la pace.
Zaccaria, lieto del successo, prese congedo da Liutprando, che volle accompagnarlo fino al Po, e fece
ritornò a Roma. Il nuove imperatore, COSTANTINO COPRONIMO, successo al padre Leone, fu grato al
papa del provvidenziale intervento presso la corte longobarda e, in segno di riconoscenza, donò alla Chiesa
romana le masserie di Ninfa e Norma presso le Paludi Pontine.
Nel gennaio de' 744 LIUTPRANDO cessava di vivere. Quest'uomo fu senza dubbio il più grande dei re
longobardi; uomo di non comuni virtù militari e scaltro politico, seppe consolidare la monarchia, facendo
scemare la potenza dei duchi e riducendo sotto il suo diretto dominio i ducati di Benevento e di Spoleto,
seppe ingraziarsi la Francia e far sentire la propria potenza ai Pontefici, rendendosi nello stesso tempo
temuto dall'esarca. Ma non seppe tradurre in realtà il disegno di unificare l'Italia sotto il suo scettro, perché
ebbe la debolezza di cedere alle preghiere del Pontefice proprio nei momenti in cui gli era facilissimo
impadronirsi di Roma e di Ravenna. Così facendo egli, senza saperlo, aveva segnato le sorti della
monarchia longobarda e del suo popolo.
II successore di Liutprando fu ILDEPRANDO, ma, inetto e non ben visto dal partito cattolico, regnò soli otto
mesi, poi (745) fu sbalzato dal trono e al suo posto fu messo RACHI, duca del Friuli. Era un valoroso soldato
che molto si era distinto nella spedizione contro Trasimondo, ma non era certo l'uomo che poteva tenere a
lungo lo scettro di Liutprando.
Vi era nel regno, forse fin dagli ultimi anni del defunto re, una corrente ostile alla politica remissiva verso la
Chiesa romana, un partito che spalleggiava la guerra contro i Bizantini e reclamava che gli interessi della
nazione longobarda non fossero sacrificati a beneficio di quelli della S. Sede.
Lo sviluppo preso da questo partito doveva avere certamente gravi ripercussioni nella vita dello stato e
rendere difficile la posizione del re, il quale, eletto con il favore dei cattolici, con una moglie cattolica romana
(Tasia) e continuatore della politica di Liutprando favorevole al papato con il quale aveva rinnovata la tregua
di vent'anni, si venne a trovare avversato da una parte dei suoi sudditi.
Nel conflitto delle due correnti politiche la disciplina si era venuta allentando, era scemato il rispetto alle
leggi, gravi abusi erano sorti nell'amministrazione della giustizia e i ducati di Spoleto e di Benevento si erano
sottratti di nuovo all'obbedienza del re. Prova delle condizioni in cui lo stato longobardo si trovava l'abbiamo
nelle leggi di Rachi, in cui si proibiva d'inviare senza il permesso del re messi a Benevento e a Spoleto, si
davano severe disposizioni per la vigilanza delle frontiere, si vietava che i giudici si allontanassero dalle
proprie "giudiziarie" e si ingiungeva loro di "esplicare quotidianamente le proprie funzioni".
Poco noi sappiamo del breve regno di RACHI per il silenzio delle fonti, ma l'invasione della Pentapoli e del
territorio di Perugia, avvenuta nel 749, ci assicura che la corrente espansionista abbia avuto il sopravvento.
Questa nuova guerra contro i Bizantini e l'intervento, in qualità di paciere, del pontefice Zaccaria, diedero
occasione al partito contrario alla politica filoromana di disfarsi del re.
Mentre RACHI si trovava all'assedio di Perugia giunse al campo Zaccaria accompagnato dai suoi dignitari.
Scopo del Pontefice era indurre, il re a porre fine alla guerra; e vi riuscì. Il "Liber Pontificalis", che ci fornisce
le notizie di questi fatti, sostiene che Rachi, persuaso dall'eloquenza del Papa, insieme con la moglie Tasia e
la figlia Rotrude si recò a Roma e, deposte tutti e tre le insegne regali sulla tomba di S. Pietro, le due donne
indossarono l'abito monacale e anche Rachi andò a chiudersi nel convento di Montecassino.
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Questi i fatti. Però noi non possiamo credere che la rinuncia alla dignità regia sia stata una conseguenza
delle sole persuasive parole del Pontefice.
Più tardi Rachi cercherà di ricuperare il trono e questo ci fa sospettare che l'abdicazione del re sia stata
imposta da quel partito (anticattolico) che nella politica remissiva di Rachi invece vedeva il fatale ostacolo al
programma nazionale del popolo longobardo più intransigente.
Il sospetto trova conferma nell'elezione del successore, ASTOLFO, e nella politica bellicosa e
diametralmente opposta a quella di Rachi che doveva seguire subito dopo essere salito al trono.
Di cui parleremo nel prossimo capitolo.
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
WACHER -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
Oltre che della politica di Astolfo, dobbiamo ora seguire anche quella dei Franchi con re Pipino, la nuova
politica della Santa Sede e con la discesa di Pipino in Italia è il periodo che va dall'anno 743 al 756
PIPINO RE DEI FRANCHI - REGNO DI ASTOLFO (743 al 756 d.C.)
LA FRANCIA DOPO LA MORTE DI CARLO MARTELLO - CARLOMANNO E PIPINO - MONACAZIONE DI
CARLOMANNO - FINE DELLA DINASTIA MEROVINGIA - PIPINO RE DEI FRANCHI - STEFANO II ED
ASTOLFO - STEFANO II A PAVIA E IN FRANCIA - NUOVA POLITICA DELLA SANTA SEDE - LA
"PROMISSIO CARISIACA" - PIPINO PATRIZIO DI ROMA - SUA INCORONAZIONE A SAINT-DENIS PRIMA GUERRA TRA PIPINO ED ASTOLFO - ASTOLFO SOTTO LE MURA DI ROMA - SECONDA
SPEDIZIONE DI PIPINO IN ITALIA - PACE TRA I FRANCHI E I LONGOBARDI - MORTE DI ASTOLFO
-----------------------------------------------------------------PIPINO E IL PAPATO
Abbiamo già accennato - nella precedente puntata- che CARLO MARTELLO, morendo, aveva diviso gli stati
franchi fra i suoi due figli legittimi, CARLOMANNO e PIPINO. Al primo erano toccate l'Austrasia, la Turingia e
l'Alemannia; al secondo la Neustria, la Borgogna e la Provenza. Ad un terzo figlio, naturale, avuto da
Zuanilda, di nome GRIFONE, aveva assegnato alcune terre sparse qua e là nei domini degli altri due fratelli.
Di questa divisione non poteva esser contento Grifone che aveva avuto meno degli altri e presto nacquero
gravi discordie tra i tre fratelli delle quali approfittarono i nobili della Neustria nel 743 per mettere sul trono
CHILDERICO III (ultimo dei re merovingi) che era stato chiuso in un convento.
Ma questo misero simulacro di re non poteva nuocere alla potenza di Carlomanno e di Pipino i quali, pur
essendo soltanto dei maggiordomi, continuarono ad avere nelle loro mani tutta la forza del paese.
L'innalzamento di Childerico non mutò per nulla le cose di Francia: i tre fratelli continuarono a guerreggiarsi
ed ai primi due fu facile avere ragione del terzo, il quale, insieme con la madre Zuanilda che era stata la vera
causa della discordia, fu imprigionato. Vinto Grifone, i due figli legittimi di Carlo Martello portarono le armi
contro i suoi alleati. ODILONE di Baviera, sconfitto sul Lech, si sottomise e conservò il suo ducato: UNOLDO
di Aquitania, che si era ribellato già altre volte, dopo averlo sconfitto lo privarono dei suoi domini.
Eliminato Grifone e vinti i suoi sostenitori, arbitri della Francia rimasero solo loro due: CARLOMANNO e
PIPINO. Entrambi erano fedeli continuatori della politica del padre che aveva avuta di mira la conquista dei
paesi di là dal Reno e la costituzione di un vasto impero unito dal vincolo religioso. Con questo scopo Carlo
Martello aveva mantenuto stretti rapporti con il Papato, aveva favorito la riforma del clero franco voluta dalla
S. Sede ed era stato prodigo di aiuti al monaco inglese BONIFAZIO che papa Gregorio aveva mandato
perché convertisse al Cristianesimo i Turingi, i Sassoni e i Frusoni ancora pagani.
Carlomanno e Pipino diedero tutto il loro appoggio a Bonifazio, il quale riuscì a condurre a buon punto la
riforma ecclesiastica mediante una serie di assemblee che si chiusero con il concilio di Leptines (745), dove
fu ristabilita la gerarchia, si emanarono norme per la disciplina del clero secolare e regolare e furono prese
misure per difendere i patrimoni delle chiese.
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In premio dell'opera sua Bonifazio fu fatto, nel 746, vescovo di Magonza, sede episcopale importantissima
perché esercitava, sotto la diretta dipendenza del Papa, la giurisdizione in quasi tutta la Germania cristiana.
L'anno dopo, uno dei figli di Carlo Martello, CARLOMANNO, scomparve volontariamente dalla scena
politica. Incline all'ascetismo e vinto dal rimorso di una guerra sanguinosamente condotta contro gli
Alemanni, affidò i suoi domini al fratello e, accompagnato da molti nobili australiani, si recò nel 747 a Roma
dove ricevette dalle mani del pontefice Zaccaria la tonaca; poi fondò sul monte Soratte un convento, che
dedicò a S. Silvestro, vi si chiuse dentro e vi rimase fino a quando, desideroso di una maggiore solitudine,
non si ritirò a Monte Cassino.
Con il ritiro di Carlomanno rimaneva solo PIPINO. Ora il vero padrone della Francia e di fronte a lui, valoroso
guerriero, uomo di stato prudente ed abilissimo e figlio di colui che aveva data nuovamente la tranquillità e
l'unità ai regni franchi e li aveva salvati dall'Islamismo, il legittimo re CHILDERICO non era che un'ombra.
Tutto era maturo per il colpo di stato, che forse da qualche tempo Pipino meditava; ma questi non voleva
che il trapasso della dignità regia dalla casa merovingia a quella carolingia avvenisse con un atto di violenza.
Nessun ostacolo avrebbe incontrato Pipino nel deporre l'ultimo dei "rois fainéants", ma l'atto sarebbe
apparso come un'usurpazione; che avrebbe reso meno forte e duratura quella casata che l'avesse
commesso.
Per dar veste di legalità al colpo di stato l'accorto maggiordomo ricorse alla suprema autorità religiosa. Essa
sola poteva sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà prestato al sovrano e legittimare il trapasso della
potestà regia, con una sentenza cui avrebbe dato validità la qualità di rappresentante del diritto divino che
aveva il Pontefice.
Dopo essersi certamente messo d'accordo con il Papa, Pipino mandò a Roma come legati, nei primi del 751,
FULRADO, abate di S. Dionigi, e BERNARDO vescovo di Wurtzburg, che consultarono papa ZACCARIA
circa i re franchi, i quali "portavano il nome di re, senza avere l'autorità regia".
Il Pontefice sapeva già cosa doveva rispondere, e se non l'avesse saputo avrebbe forse data la medesima
risposta che diede, consigliato dagli interessi della Chiesa alla quale nella persona di Pipino assicurava il
miglior difensore che si potesse desiderare. Zaccaria rispose che era meglio "che chi aveva l'autorità re,
doveva avere anche il titolo di re" e che "ut non conturbaretur ordo" disponeva con l'autorità della sede
apostolica che si eleggesse re Pipino. " Mi pare buono e utile che sia re colui che senza averne il nome ne
ha il potere, a preferenza di quegli che ha il nome e non l'autorità di re".
Del resto "il principe CHILDERICO - ci ha lasciato scritto Eginardo- si accontentava di avere lunghi capelli e
lunga barba; era egli ridotto ad una pensione alimentaria regolata dal prefetto di palazzo, non possedeva
che una casa di campagna di una modica rendita, e quando viaggiava, era portato sopra un carro trascinato
da buoi, che guidava un bifolco della sua campagna".
"…E' questa - nota il Bartolini - una posizione del tutto nuova che il papato viene ora ad avere nella storia. Si
è introdotto ormai a piene mani nel politismo del mondo cristiano, e la semenza del diritto teocratico è già
posta nel suolo, che poi Gregorio VII saprà poi con maestria far germogliare, coltivare e raccogliere i
frutti…".
Senza dubbio gli interessi appoggiarono le realtà politiche. Esistevano grandi legami fra i papi Gregorio II e
III ed il prefetto di palazzo Carlo Martello. Ora PIPINO desiderava diventare re dei Franchi, come ZACCARIA
bramava di sottrarsi al giogo degli imperatori di Costantinopoli protettori degli Iconoclasti, oltre che a liberarsi
dall'oppressione dei Longobardi.
Avere i Franchi amici, alleati, disponibili - come avevano dimostrato due volte- era già una garanzia; se poi la
Chiesa riconosceva Pipino re, avrebbe avuto da lui o dai suoi discendenti anche un perenne debito di
gratitudine.
Nel novembre del 751 Pipino convocò a Soisson un'assemblea e, con il consiglio di tutti i Franchi, con
l'assenso della Santa Sede, con la consacrazione dei vescovi, con l'obbedienza dei Grandi, fu proclamato re.
All'elezione seguì la consacrazione di Pipino a Re di Francia, che in nome del Pontefice, fu fatta dal vescovo
di Magonza.
Chautebriand con certi storici, arrabbiandosi, e affermando che è una menzogna che poi si crede verità a
forza di ripeterla, dire che "fu l'incoronazione di Pipino un'usurpazione alla corona merovingia", fu invece una
vera e propria "monarchia elettiva"…La Francia intera lo proclamò Re! "…" . Dopo quest'atto, CHILDERICO
III e il figlio TEODERICO furono vestiti dell'abito monastico e chiusi, l'uno nel convento di Saint Bertin, l'altro
in quello di Waudrille.
Terminava la dinastia Merovingia dei franchi salii, fondata dal leggendario Meroveo unificatore della Gallia,
durata due secoli.
Iniziava quella dei Pipinidi, progenitori della prossima dinastia carolingia.
Con l'aiuto morale prestato a Pipino il Pontefice aveva voluto assicurare alla Chiesa romana l'amicizia del
potente monarca dei Franchi. Di quest'amicizia aveva grandissimo bisogno. Dopo la monacazione di Rachi
era salito al trono longobardo il fratello ASTOLFO, esponente di quel partito anticattolico che vagheggiava
l'unificazione dell'Italia sotto la sovranità dei Longobardi. Appena salito al trono, Astolfo aveva revocate le
donazioni fatte dal fratello in favore del clero e, nel 751, aveva invaso l'esarcato e si era impadronito di
Ravenna.
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ZACCARIA però non riuscì a cogliere i frutti della sua politica e vedere il corso degli avvenimenti: nel marzo
del 752 cessò di vivere e gli successe un prete STEFANO. Questi però mori tre giorni dopo, ed ebbe la tiara
un altro STEFANO che fu detto II e non III essendo il suo predecessore morto prima che fosse consacrato.
La situazione in cui si trovava Roma era allora delle più critiche. L'esarcato era in potere dei Longobardi, il
ducato di Spoleto era annesso al regno e Astolfo mostrava di volere invadere il ducato romano in cui - se è
vero quel che scrive Benedetto di Monte Soratte, cronista del secolo XI - era invocato da un partito di Italiani
("viri Romani scelerati").
Stefano II tentò di allontanare la tempesta che cominciava a addensarsi sul cielo di Roma e inviò al re il
fratello Paolo e il primicerio dei notai Ambrogio ai quali riuscì stipulare con i Longobardi una pace di
quarant'anni. Che invece non durò che quattro mesi soltanto, pretendendo Astolfo, come tributo annuo, un
solido d'oro a testa per ogni cittadino romano.
Il Pontefice non poteva, cedendo alle pretese di Astolfo, rinunciare alla politica che aveva caratterizzata per
tanti anni la condotta della S. Sede. Egli fece allora un ultimo tentativo mandando al re longobardo gli abati
di Montecassino e di S. Vincenzo al Volturno; ma gli ambasciatori non furono neppure ricevuti, ebbero
l'ordine di tornare ai loro conventi senza neppure passare per Roma.
Non rimaneva al Papa che rivolgersi a Costantinopoli, e chiedere all'imperatore che inviasse un esercito in
Italia per ricuperare l'esarcato e difendere Roma dalla minaccia longobarda. Ma l'imperatore non era in
grado di inviare aiuti nella penisola e invece di truppe mandò il "silenziario" (comandante della guardia)
GIOVANNI con l'ordine di reclamare da Astolfo le terre dell'esarcato.
Giovanni fu da Stefano II mandato a Ravenna in compagnia del fratello Paolo, ma quest'ambasceria non
ebbe miglior successo di quella dei due abati: Astolfo non volle dare alcuna risposta e rimandò il silenziaro a
Costantinopoli, accompagnato da un suo ambasciatore che forse aveva l'incarico di trattare direttamente con
l'imperatore.
Su quali basi appoggiare queste supposte trattative non sappiamo: ma il fatto che Astolfo non volle alla
presenza del fratello del Pontefice dare a Giovanni una risposta ci fa sospettare che i disegni del re
dovessero essere dannosi agli interessi del Papato. E questo sospetto dovette senza dubbio avere lo stesso
Pontefice, il quale a Giovanni che tornava a Costantinopoli gli mise alle costole alcuni suoi legati perché
spiassero l'ambasciatore longobardo, ma anche per dire all'imperatore di non fidarsi del re longobardo e di
sollecitarlo di inviare in Italia un esercito.
Tuttavia il Papa sapeva che l'imperatore non era in condizioni da intraprendere una guerra contro i
Longobardi, e mentre i suoi legati andavano a Costantinopoli pensò di tentare un'altra via, con un bel "colpo
di teatro". Spedì in Francia a Pipino una lettera per mezzo di un pellegrino chiedendo di essere ufficialmente
invitato a recarsi in Francia. Lo scopo di questa lettera era evidente: Stefano II voleva che l'invito del re
franco suonasse come minaccia o avvertimento agli orecchi di Astolfo e significasse annuncio formale ed
esplicito della "protezione" della S. Sede da parte della Francia.
Il Papa era senza debbio un politico consumato, ma non lo era di meno Pipino, al quale non sfuggirono le
conseguenze che potevano derivare da un simile invito, perché protezione voleva dire intervento in Italia a
difesa del Pontefice contro i Longobardi con i quali i Franchi non erano in cattivi rapporti, e un intervento in
Italia non avrebbe potuto aver luogo senza il consenso dei Grandi duchi.
Ma il Papa seppe tanto e cosi bene insistere, che Pipino decise di convocare un'assemblea di duchi franchi
per discutere dell'opportunità d'invitare il Pontefice in Francia. I duchi, che a loro volta erano stati
direttamente sollecitati dal Papa, espressero parere favorevole e fu allora deciso che l'invito fosse fatto in
forma solenne.
A portare l'invito a Roma furono mandati CRODEGANGO vescovo di Metz e il duca AUTICARIO, che era
stato referendario di Carlo Martello. I due ambasciatori giunsero a Roma nel 753, dove poco prima erano
tornati da Costantinopoli i legati papali e il silenziario Giovanni con lettere dell'imperatore in cui si ordinava al
Pontefice di recarsi da Astolfo e chiedergli la restituzione dell'esarcato. A quel punto il papa cominciò a
sentirsi dentro una "botte di ferro".
Ottenuto dal re longobardo un salvacondotto, affidato il popolo romano "alla protezione dell'apostolo S.
Pietro", il 14 ottobre di quello stesso anno il Papa partì da Roma in compagnia dei due ambasciatori franchi
e del silenziario e con numeroso seguito di ecclesiastici e di laici si recò a Pavia portando ad Astolfo
ricchissimi doni.
Il re fece al Pontefice buon'accoglienza, ma rifiutò di restituire le terre conquistate ai Bizantini e quando
STEFANO II gli chiese il permesso di attraversare l'Italia settentrionale per recarsi in Francia si oppose, ben
immaginando lo scopo di quel viaggio. Ma le insistenze degli ambasciatori franchi furono così insistenti che,
alla fine, Astolfo concesse il permesso, e il Papa il 15 di novembre riuscì a partire da Pavia.
Al monastero di S. Maurizio, nella valle del Rodano, gli vennero incontro FULRADO, abate di San Dionigi, e
il duca Rotardo, i quali gli annunciarono che Pipino lo aspettava a Ponthion, sulla Marna. A venti miglia da
Ponthion il Pontefice fu ossequiato da un ragazzino undicenne, Carlo, primogenito del re, che passerà alla
storia col nome di CARLO MAGNO, e il 6 gennaio del 754 avvenne l'incontro tra Pipino e Stefano II. Il re
franco scese da cavallo, s'inginocchiò ai piedi del Papa, ne ricevette la benedizione, poi lo accompagnò per
un buon tratto di strada ed entrò insieme con lui a Ponthion tra una folla che plaudiva e cantava inni.
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Il giorno dopo in una villa del re, alla presenza di molti dignitari della Chiesa e del regno avvenne il primo
colloquio tra il re e il Pontefice. Questi lo scongiurò di voler difendere la causa di S. Pietro e della Repubblica
romana, e Pipino gli promise di difendere la S. Sede e di adoperarsi affinché fossero a lui restituite le terre
usurpate dai Longobardi.
Una cosa importantissima è qui da notare, che cioè Stefano II non chiese al re che procurasse di far
restituire l'esarcato all'impero. Questo è messo ora da parte. II Pontefice dall'intuito accorto, ha ben capito
che Pipino e i Grandi Duchi del suo regno non scenderanno in guerra per favorire l'imperatore, ma per
difendere le giustizie di S. Pietro, e quindi da questo momento dà un nuovo orientamento alla sua politica.
Poiché ha trovato un valido difensore, egli vuole adoperarlo in pro della Chiesa romana.
Del resto il debole vincolo che univa la Chiesa all'impero è stato spezzato definitivamente nell'agosto del 753
con il concilio costantinopolitano confermante la politica iconoclasta di Leone, seguita da Costantino
Copronimo, quindi le richieste papali hanno piena giustificazione.
Necessità di cose, insofferenza di una situazione instabile che minacciava, a lungo andare, di
compromettere la sicurezza personale dei pontefici, nessuna speranza di aiuto dall'Oriente, desiderio di
conservare l'indipendenza del ducato romano contro l'aggressiva politica di Astolfo, ambizione di trarre i
maggiori vantaggi da una combinazione fortunata che offriva alla S. Sede una seducente prospettiva di
potenza e d'ingrandimento territoriale: tutto concorse a spingere Stefano verso un nuovo orientamento
politico e a vincere in lui quegli scrupoli legittimisti (non avendo la forza a disposizione) che avevano fin
allora trattenuto i pontefici dal rompere i secolari legami di sudditanza all'imperatore.
Così l'evento che il tempo stava maturando, e che il grande dissidio iconoclasta aveva affrettato, e la
precedente politica di Gregorio II, Gregorio III e Zaccaria aveva spianato la via, andava a compiersi ora, per
opera di questo prete romano, nel quale, più che la pietà religiosa, era forte l'abilità diplomatica e il senso
dell'opportunità politica, e che, sostituendo con mirabile disinvoltura il protettorato franco a quello bizantino,
fu il vero iniziatore del principato civile della Chiesa " ("Romano").
Al primo colloquio tra il Pontefice e Pipino altri ne seguirono, poi si cercò d'indurre con mezzi pacifici Astolfo
a cedere alla S. Sede i territori che erano stati dei Bizantini. Tre ambascerie furono mandate a Pavia, ma
nessuna di loro riuscì a piegare il re longobardo, il quali tentò anzi di trarre dalla sua i Franchi mandando a
Pipino il monaco Carlomanno.
Riuscito inutile ogni tentativo di far riavere a "S. Pietro" le sue "giustizie" pacificamente, l'abile "papa prete"
non indugiò: bisognava allora ricorrere alle armi! Due assemblee di Grandi furono tenute in Francia, l'una il
1° marzo del 754 a Braisne, presso Soissons, l'altra il 14 aprile, giorno di Pasqua, a Quierzy ("Carisiacum"),
e in quest'ultima fu decisa la guerra contro i Longobardi.
Secondo alcuni, in questa seconda assemblea Pipino rilasciò al Papa un documento ("Promissio Carisiaca"):
prometteva di cedere alla S. Sede, dopo la conquista, la Corsica, la Venezia, l'Istria e i territori a sud di una
linea che da Luni andava a Parma, a Reggio, a Mantova e a Monselice, e in più i ducati di Spoleto e di
Benevento: secondo altri questo famoso documento è solo un parto della fantasia del biografo. Secoli dopo
si disse che era un clamoroso falso storico sostenuto solo da un "continuo ripeterlo" fino a farla diventare
una verità. La "promissio" fra l'altro s'intreccia con la "donazione" costantina, e sembrerebbe che
quest'ultima ritenuta falsa come documento, sia stato redatto in quella composizione che avvenne poi in
questi anni (anno 800) con l'incoronazione di Carlo Magno a Roma (falsità ipotizzata da Ottone III per motivi
formali. Mancanza di sigillo. Fu poi dimostrata in base a incontrovertibili argomenti storici e linguistici da N.
Cusano e da L. Valla nel XV secolo)
Sarebbe inutile qui riportare le tante ragioni per dimostrare l'esistenza o meno del documento "carisiaco". Se
non scritta, la promessa ci fu certamente e questo importa sapere. E' presumibile - per come andranno le
cose- che il papa chiese qualcosa di "solido", dopo che abbiamo visto che tipo che era.
II Papa in Francia aveva quindi ottenuto tutto quello che voleva. Ma nell'attesa che la guerra incominciasse e
il ducato romano s'ingrandisse, con i domini bizantini, volle stringere ancor di più i legami con i Franchi e
rendere un servigio a Pipino che, di riflesso, aveva lo scopo di accrescere maggiormente l'autorità papale.
Secondo una leggenda -indubbiamente la mise in piedi lo stesso "papa-prete" durante una sua malattia
contratta in Francia, apparvero al Pontefice, S. Dionigi, S. Pietro e S. Paolo che gli promisero di farlo guarire
a patto che innalzasse un nuovo altare a S. Dionigi. Stefano II promise e fece erigere in pochi mesi l'altare
nella chiesa di Saint-Denis, dove poi il 28 luglio del 754 si svolse una cerimonia importantissima.
Il Papa incoronò PIPINO e la regina BERTRADA e consacrò i due figli CARLO e CARLOMANNO e quel
giorno stesso ordinò ai Franchi sotto pena di scomunica, che non eleggessero per l'avvenire, sovrani che
non appartenessero alla stirpe di Pipino. Dall'autorità del Pontefice riceveva così consacrazione una dinastia
e questa consacrazione altro non era che una conferma fatta in forma solenne del parere emesso dal Papa
Zaccaria nel 751 che a Pipino aveva fruttato la corona.
Dal Papa il re dei Franchi ricevette pure in quell'occasione il titolo onorifico di patrizio romano che fu
conferito anche ai due figli. Era questa la prima volta che un pontefice si arrogava il diritto, che fino allora era
stato soltanto dell'imperatore, di conferire il patriziato. Arrogandosi tale diritto egli si considerava investito
della sovranità di Roma; conferendo al re tale titolo legittimava l'opera che Pipino si accingeva a compiere
direttamente contro i Longobardi e indirettamente contro Costantinopoli.
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SPEDIZIONE DI PIPINO IN ITALIA E MORTE DI ASTOLFO
Prima che la guerra iniziasse Pipino si sbarazzò di tutti quei parenti che avrebbero potuto usurpargli il trono
durante la sua assenza.
Abbiamo visto che il fratello Carlomanno, il monaco Montecassino, era venuto in Francia a perorare la causa
di Astolfo. Pipino non lo rimandò più in Italia e lo fece chiudere nel monastero di Vienne, presso il Rodano.
Drogone e gli altri figli di Carlomanno furono costretti a prender l'abito monastico. Sorte diversa, ma non
migliore, toccò a Grifone, il figlio naturale di Carlo Martello, il quale, volendo trarre profitto dalla guerra
imminente, radunò una forte schiera con il proposito di passare in Italia in aiuto di Astolfo. Alle Alpi però fu
affrontato dalle truppe del fratello e fu ucciso in combattimento.
Nell'estate del 754, o come altri affermano, nel 755, dopo aver fatto un ultimo tentativo presso Astolfo
offrendogli la somma di dodicimila solidi d'oro in cambio della cessione dei territori usurpati, Pipino, raccolto
un fortissimo esercito, mosse alla volta dell'Italia. Lo comandava lo stesso re, il quale aveva con sé il Papa,
l'abate Fulrado di S. Dionigi ed altri prelati: precedeva il grosso un corpo di truppe con l'ordine di occupare il
valico del Cenisio.
Astolfo aveva radunato il suo esercito nella valle di Susa e precisamente alle Chiuse con lo scopo di
sbarrare il passo al nemico: ma la ristrettezza del luogo non gli permise di spiegare tutte le sue forze e,
venuto a battaglia con l'avanguardia francese, fu duramente sconfitto e costretto a chiudersi a Pavia. Qui
Pipino quando entrò in Italia andò ad assediarlo, ma l'assedio non durò a lungo. Vista inutile la resistenza e
temendo più di quello che i nemici volevano, Astolfo scese a patti, e le trattative portarono ad un trattato di
pace con La quale il re longobardo si impegnava di cedere Ravenna e le altre città occupate e di non recare
per l'avvenire molestia alla Chiesa romana. Alcune fonti vogliono che il re fu obbligato a pagare anche una
grossa indennità di guerra al vincitore al quale diede anche quaranta ostaggi.
Conclusa la pace, per timore che durante la sua assenza potesse perdere il trono, Pipino fece ritorno in
Francia. STEFANO II invece, in compagnia di Fulrado, si recò a Roma. Qui il Pontefice aspettò che Astolfo
mantenesse i patti; ma la sua, fu un attesa lunga e vana. Il Longobardo prima tergiversò poi si rifiutò
apertamente; infine, il primo gennaio del 756 con un grosso esercito invase il ducato romano,
saccheggiando e devastando, e giunto sotto le mura di Roma minacciò di trucidare gli abitanti se la città non
si fosse subito arresa e consegnato il Papa.
Questi, impaurito dal pericolo che lo minacciava, non potendo difendersi con le sole sue forze, spedì al
galoppo al re dei Franchi l'abate Fulrado informandolo della disperata situazione in cui si trovava e
chiedendo che corresse in suo aiuto. Pipino, forse per l'impopolarità della guerra contro i Longobardi, forse
anche timoroso di allontanarsi dal suo regno, nicchiava. Il Pontefice però non gli diede tregua, lo tempestò di
lettere in cui gli rammentava le solenni promesse e gli descriveva a foschi colori lo stato delle cose.
Infine, per meglio influire sull'animo del re (le risorse di questo "prete" furono inesauribili) gli mandò una
lettera che figurava scritta da S. Pietro: "…Io, apostolo Pietro, capo di tutte le chiese, vengo innanzi a voi,
rivestito quasi del mio corpo, e vi chiamo a combattere contro i nefandi Longobardi, perché io prediligo voi e
il popolo dei Franchi sopra ogni altro popolo, e con me vi prediligono la sempiterna Vergine Maria, i troni, i
principati e tutte le schiere celesti, i martiri, i credenti in Gesù Cristo e tutti quanti sono in grazia del Signore,
perché non lasciate cadere il mio capo nelle mani dei nemici. Per questo aiuto, io vi prometto la mia
protezione. Correte…".
Questa lettera fece l'effetto che il Pontefice si riprometteva: Pipino raccolse un esercito e nella primavera del
756 marciò alla volta dell'Italia per la stessa via percorsa nella precedente guerra.
Minacciato dalle Alpi, impotente ad impadronirsi di Roma per la valida difesa della milizie del ducato, nel
marzo, dopo tre mesi di assedio, Astolfo si allontanò dalla metropoli e corse a fronteggiare l'invasione.
Anche questa, volta il re longobardo ammassò il suo esercito alle Chiuse, ma non servì a impedire ai Franchi
di penetrare in Italia. Invece di forzare il passo tenuto dal nemico, essi calarono per impervi sentieri non
custoditi e, così presero alle spalle i Longobardi, e inflissero loro una dura sconfitta.
Astolfo tornò a chiudersi a Pavia, ma non tardò a capitolare. Prima che la città si arrendesse, Pipino ricevette
un ambasciatore di COSTANTINO COPRONIMO che in nome dell'imperatore chiedeva la restituzione
all'impero dei domini bizantini occupati dai Longobardi. Il re franco rispose che lui non aveva intrapresa
quella guerra in favore di nessun uomo (per nullius hominis favorem) ma per amore di S. Pietro e per
ottenere il perdono dei peccati.
Ad ASTOLFO, per punirlo dei patti non mantenuti, PIPINO impose condizioni molto dure. Il Longobardo
doveva dare un terzo del tesoro regio, offrire ostaggi, pagare l'annuo tributo di dodicimila solidi d'oro quanti i
Longobardi ne pagavano sotto il regno di Agilulfo, e cedere Ravenna, Rimini, Cattolica, Pesaro, Fano,
Cesena, Sinigaglia, Jesi, Forlimpopoli, Forlì, Castrocaro, San Leo, Acervia, Monte di Lucaro, Serra dei Conti,
S. Marino, Sarsina, Urbino, Cagli, Cantiano, Gubbio, Narni e Comacchio. In sostanza doveva cedere solo le
terre da lui conquistate. Di Bologna, Ferrara, Faenza, Imola, Osimo, Ancona e ed Umana che erano state
prese al tempo di Liutprando non è fatta parola nelle fonti.
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L'abate Fulrado ebbe l'incarico di andare a prendere sotto buona scorta la consegna, delle città e di farsene
dare le chiavi. Queste furono mandate a Roma con l'atto di donazione. I Pochi mesi dopo Astolfo cessò di
vivere (dicembre del 756). Era stato un valoroso guerriero, ma un cattivo politico e si era lasciato guidare più
dal suo impulso e dal partito nazionale che dalla prudenza: era stato anche un cattolico fervente ed aveva
fondato chiese e conventi; ma nonostante questo il Pontefice, dando comunicazione della morte di lui a
Pipino, lo chiamava e "seguace del diavolo", "assetato del sangue dei cristiani", e diceva che l'anima di lui
"era piombata nel baratro dell'inferno".
In queste parole che qualche storico ha biasimato noi non vediamo il linguaggio di un Papa, del capo
spirituale della Chiesa, ma il linguaggio di chi aveva visto la politica della S. Sede osteggiata aspramente dal
re, il linguaggio di un principe temporale che non ha dimenticato i pericoli corsi e le lotte sostenute per
ingrandire e mantenere i domini della Chiesa e che vuole rendere omaggio al sovrano dei Franchi per aver
saputo essere il valido difensore di S. Pietro e l'autore del dominio temporale.
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
WACHER -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
Dopo la sconfitta longobarda e la morte di Astolfo quattro mesi dopo moriva anche il papa. La lotta papatolongobardi non era ancora terminata c'era un re longobardo, ma c'era come papa il fratello di Stefano
andiamo quindi al periodo dall'anno 757 al 774
L'ULTIMO RE LONGOBARDO - LA CHIESA ( dal 757 al 773 )
TENTATIVO DI RACHI DI RIACQUISTARE LA CORONA - ELEZIONE DI DESIDERIO - MORTE DI
STEFANO II ED ELEZIONE DI PAOLO I - POLITICA DEL PONTEFICE - ACCORDO FRA PAOLO I E
DESIDERIO - LOTTA TRA LE GERARCHIE ECCLESIASTICHE E LA NOBILTÀ LAICA - ELEZIONE DI
COSTANTINO - CRISTOFORO E SERGIO - DEPOSIZIONE DI COSTANTINO ED ELEZIONE DI FILIPPO STEFANO III E IL CONCILIO LATERANENSE - CARLO E CARLOMANNO - POLITICA DELLA REGINA
BERTRADA - MATRIMONIO DI CARLO E DESIDERATA - DESIDERIO SOTTO LE MURA DI ROMA DISORDINI IN ROMA - PAOLO AFIARTA; MORTE DI CRISTOFORO - RIPUDIO DI DESIDERATA MORTE DI CARLOMANNO - CARLO UNICO RE DEI FRANCHI - ADRIANO I AL PONTIFICATO ADRIANO I E DESIDERIO -I LONGOBARDI INVADONO L' ESARCATO - ARRESTO E MORTE
DELL'AFIARTA - DESIDERIO MUOVE CONTRO ROMA - SUO RITORNO A PAVIA - L'ASSEMBLEA DEI
FRANCHI DECIDE LA GUERRA CONTRO I LONGOBARDI - LA BATTAGLIA DELLE CHIUSE - PRESA DI
BRESCIA E DI VERONA - FUGA DI ADELCHI - ASSEDIO DI PAVIA - CARLO A ROMA - CONFERMA
DELLA DONAZIONE DI PIPINO - RESA DI PAVIA - CAUSE DELLA ROVINA DEL REGNO LONGOBARDO
-------------------------------------------------------------------
DESIDERIO E PAOLO I
Come abbiamo letto nella precedente puntata, nel dicembre del 756, il re longobardo ASTOLFO, cessava di
vivere; senza lasciare eredi. Ma c'era però suo fratello monaco RACHI che dal ritiro di Montecassino
terminata forse il periodo mistico, aveva continuato a sognare di ritornare sul trono che aveva lasciato al
fratello, ed aspettava solo il momento propizio per tentare di riprendere lo scettro.
Dopo la sconfitta longobarda e il trionfo della politica papale, il partito di coloro che spingevano verso l'unità
d'Italia aveva perso molto terreno e la politica estera dei Longobardi, persa la sua libertà d'azione, era
costretta ad uniformarsi alla volontà del regno franco e, di conseguenza, del Pontefice. A RACHI, il quale
aveva dovuto rinunciare al trono per la sua politica remissiva verso la S. Sede, non sembrava quindi difficile
riottenerlo, ora che la situazione era molto cambiata. Lasciato, perciò, Montecassino, si precipitò a Pavia
nello stesso mese in cui era morto il fratello e si dichiarò re.
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Malauguratamente un competitore era però sorto, che aveva un largo seguito tra i Longobardi di Toscana.
Era questi DESIDERIO, oriundo bresciano, il quale, per avere l'appoggio del Papa per salire al trono,
promise di -cedere alla S. Sede i luoghi dell'Esarcato e della Pentapoli che erano stati occupati al tempo di
Liutprando, Bologna, Ferrara, Imola, Faenza, Osimo, Ancona ed Umana.
Era quanto il Pontefice desiderava. I negoziati furono condotti a termine dall'abate Fulrado, da un consigliere
Cristoforo e dal fratello del Papa, PAOLO, e Desiderio fu riconosciuto re. RACHI fu minacciato di scomunica
se persisteva nel suo atteggiamento e dovette dare un addio al suo sogno e ritornare nella solitudine del
convento.
Il papa fece appena in tempo a concludere quest'operazione -che era il compimento del suo capolavoroquando il 26 aprile del 757, STEFANO cessò di vivere.
Contro la volontà di una fazione che cercava di fargli succedere l'arcidiacono TEOFILATTO, fu eletto
PAOLO I, fratello del morto Pontefice. Il nuovo Papa non poteva che seguire la politica del suo predecessore
della quale proprio lui era stato un valido strumento.
Questa politica aveva per basi l'amicizia del re dei Franchi e il consolidamento del dominio temporale.
Questo secondo punto del programma politico della Santa Sede, trovava in verità degli ostacoli non lievi
nella nobiltà laica ("Judices de militia") che non sapeva rassegnarsi alla perdita della propria autorità di fronte
a quella sempre crescente delle gerarchie ecclesiastiche ("Judices de clero") e nell'arcivescovo di Ravenna
che mirava a divenire il capo dell'Esarcato e a sottrarsi alla sovranità papale.
PAOLO I cercò di superare questi ostacoli per mezzo dell'autorità di PIPINO e riuscì a provocare un monito
del re alla nobiltà turbolenta che, per lettera, veniva, invitata a rimaner devota alla Chiesa e al Papa.
Un altro ostacolo alla politica ecclesiastica era costituito dall'atteggiamento del re Longobardo DESIDERIO.
Questi aveva restituito Imola e Ferrara, ma indugiava a consegnare le altre città che aveva promesso di
restituire.
Il suo indugio era giustificato dalla politica del Pontefice, il quale segretamente, tramite l'abate FULRADO
allo scopo d'indebolire sempre più lo stato longobardo, aveva avviato trattative con i duchi di Spoleto e
Benevento per staccarli da Pavia e metterli sotto il protettorato dei Franchi, che voleva dire sotto l'influenza
della Santa Sede. Questi maneggi non potevano naturalmente piacere a Desiderio. In un primo tempo egli
sospese la restituzione delle città dell'Esarcato e della Pentapoli, in un secondo armò un esercito e marciò
contro i due ducati del Mezzogiorno.
Il primo ad essere punito fu ALBOINO, duca di Spoleto, il quale fu messo in prigione e sostituito con
GISULFO. Il duca di Benevento non aspettò che il re comparisse nel territorio del ducato e se ne fuggì ad
Otranto, dopo aver messo al suo posto ARECHI, che divenne più tardi suo genero.
La notizia di questi fatti mise in allarme il Pontefice, che da un canto informò Pipino esagerando la portata
degli avvenimenti, dall'altro cercò d'indurre Desiderio a mantenere le promesse, invitandolo a Roma.
Desiderio ci andò, ma pose una condizione per la restituzione delle città, che il Pontefice scrivesse al re dei
Franchi di rimandare gli ostaggi longobardi. La lettera fu in realtà scritta ed affidata al vescovo di Ostia
Giorgio; ma un'altra lettera venne subito dopo mandata segretamente a Pipino nella quale il re era avvertito
di non tener conto della prima, di trattenere gli ostaggi e di costringere lo stesso sovrano dei Longobardi a
rendere le "giustizie di S. Pietro".
La politica di PAOLO I non era, come si vede, rettilinea; ma alle tortuosità era costretta dai timori e dalle
notizie, non tutte fondate, che giungevano al suo orecchio. Egli sospettava di tutti e prestava fede a tutto
quello che si vociferava intorno alle intenzioni dei Longobardi, dei Franchi e dell'imperatore d'Oriente. Di
DESIDERIO si affermava che volesse avvicinarsi ai Bizantini, ed aiutarli a ricuperare ciò che in Italia
avevano perduto; mentre di COSTANTINO COPRONIMO arrivavano notizie di preparativi per una
spedizione su Ravenna e Roma e che stringeva accordi con PIPINO; ed anche quest'ultimo non era molto
limpido, infatti, cercava con chissà quali scopi di dare in moglie sua figlia Gisella al figlio dell'imperatore,
Leone.
Disorientato da tante dicerie, il Pontefice tempestava di lettere Pipino, protestandogli devozione, ricordandoli
i servigi resi alla dinastia da Stefano II e scongiurandolo di fare la spedizione in Italia.
Ma Pipino non poteva allontanarsi dalla Francia, impegnato com'era in una grossa guerra nell'Aquitania;
tuttavia, desideroso di sistemare le faccende in Italia, vi mandò il Duca AUTICARIO e REMEDIO vescovo di
Rouen, che riuscirono nel 763 a mettere d'accordo il Papa e Desiderio.
Fu un accordo però che andava a tutto vantaggio dei Longobardi e se il Papa lo accettò volentieri è spiegato
da quello stato di incertezza e di preoccupazione in cui viveva e dall'inesatta nozione che aveva della politica
internazionale. Nell'accordo non si dice nulla della restituzione delle città dell'Esarcato e della Pentapoli, ma
genericamente dei "patrimoni della Chiesa". Il Pontefice sacrificava così (ma solo apparentemente) le città
alle quali agognava. ma in cambio otteneva l'assicurazione che Desiderio non avrebbe più molestato la S.
Sede, anzi il longobardo s'impegnava a portarle aiuto in caso di una guerra offensiva dell'impero.
COSTANTINO, FILIPPO E STEFANO III
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PAOLO I non riuscì a rallegrarsi a lungo della pace fatta con Desiderio, essendo venuto a morte il 28 giugno
del 767. La scomparsa del Papa produsse disordini e violenze a Roma e segnò l'inizio di una furibonda lotta
tra le gerarchie ecclesiastiche e la nobiltà laica che dalla politica energica del defunto Pontefice era stata
costretta a mordere il freno.
Un duca di Nepi, di nome TOTONE, radunato nella Toscana un gran numero di partigiani, il giorno stesso
che Paolo I era spirato corse a Roma alla testa di questi uomini in compagnia di tre suoi fratelli,
COSTANTINO, PASSIVO e PASQUALE. Entrato per la porta S. Pancrazio s'impadronì del Laterano e fece
proclamare papa il fratello Costantino. Questi era laico, ma con le minacce il vescovo di Preneste fu costretto
ad ordinarlo chierico, suddiacono e diacono, e il 5 luglio lo consacrò in S. Pietro con i vescovi di Porto e di
Albano.
Un'elezione del genere non poteva che provocare la reazione dell'elemento ecclesiastico. Anima di questa
rivolta fu il primicerio dei notai CRISTOFORO, che, per essersi opposto all'elezione di Costantino, era stato
costretto a vivere in casa sotto rigorosissima sorveglianza. Fingendo di volere farsi monaco, ottenne di
allontanarsi da Roma con il figlio SERGIO, sacellario, e riparò prima a Spoleto, dal duca TEODICIO, poi alla
corte di DESIDERIO in Pavia.
II re longobardo, sollecitato, promise il suo appoggio ai due fuggitivi. Ma Desiderio non era certo spinto da
una simpatia per il partito ecclesiastico; voleva solo approfittare della situazione per far eleggere papa un
suo uomo e in tal modo poter poi dirigere la politica della Chiesa romana.
A Cristoforo e a Sergio diede pertanto come compagno il prete longobardo VALPERTO e questi, radunate
nel ducato di Spoleto alcune schiere, marciò su Roma, sotto le cui mura giunse il 28 giugno del 768.
Porta S. Pancrazio fu aperta dai parenti di Cristoforo, il quale riuscì così a entrare in città. A fronteggiare i
Longobardi, corse in aiuto TOTONE e sul Gianicolo s'impegnò in una furiosa mischia che sarebbe finita con
la vittoria dei Romani se Totone non fosse stato pugnalato da alcuni traditori. La morte del capo causò lo
scompiglio delle sue truppe; allora le milizie romane si unirono a quelle longobarde, il Laterano fu circondato
e il papa COSTANTINO e il fratello PASSIVO furono fatti prigionieri.
Approfittando del tumulto, Valperto fece proclamare pontefice il monaco Filippo che simpatizzava per i
Longobardi; ma quest'elezione non poteva riuscire gradita né all'aristocrazia laica né alle gerarchie
ecclesiastiche. Il 1° agosto del 768 il clero, l'esercito e il popolo, tutti uniti, dopo aver deposto Filippo,
elessero papa, dietro consiglio del primicerio Cristoforo, il prete siciliano STEFANO (III), che una settimana
dopo, il 7 agosto, fu consacrato.
Prima della consacrazione del nuovo Pontefice al povero Costantino furono cavati gli occhi e poi, dalla folla
inferocita, fu condotto a cavallo su di una sella da donna in un convento; dove il 6 agosto fu prelevato,
portato di peso in Laterano e qui deposto da un'assemblea di vescovi.
Sorte peggiore toccò al prete Valperto: cercò di salvarsi rifugiandosi nella chiesa di Santa Maria a Martyres
(Pantheon), ma fu scovato e trascinato in Laterano dove gli furono, anche a lui. cavati gli occhi.
Circa un mese dopo, il 24 settembre, moriva PIPINO e gli succedevano i figli CARLO e CARLOMANNO. Ad
entrambi si presentò, mandato da Stefano III, il sacellario SERGIO per informarli degli avvenimenti, per
chiedere che l'amicizia dei Franchi fosse mantenuta alla S. Sede e per pregarli che concedessero licenza ai
vescovi del loro regno per farli partecipare ad un concilio in cui dovevano stabilirsi le norme per l'elezione dei
pontefici.
Il concilio fu tenuto nella basilica lateranense nell'aprile del 769 e vi parteciparono vescovi franchi e
quarantun italiani. L'ex-papa Costantino, chiamato dinanzi all'assemblea e interrogato sulla sua elezione, si
scolpò dicendo di essere stato costretto con la forza e domandò perdono dei suoi peccati, ma, avendo osato
aggiungere che, prima di lui, a Ravenna e a Napoli, dei laici come lui erano stati eletti vescovi, fu battuto,
insultato e scacciato.
Le decisioni del concilio furono: che non potesse essere eletto pontefice un laico; che soltanto i preti
cardinali e i diaconi potessero essere eleggibili; che l'elezione del pontefice fosse esclusivamente fatta dal
clero; che nessuno potesse intervenire armato alla cerimonia dell'elezione e che i laici, civili o militari, della
città o della campagna potessero solo acclamare al Papa, di fuori, ad elezione avvenuta. Gli atti del
pontificato di Costantino furono bruciati. Il concilio lateranense terminava, come si è visto, con la vittoria
completa del clero sul popolo e sull'aristocrazia laica.
RELAZIONI. TRA CARLO, DESIDERIO E LA S. SEDE DURANTE IL PONTIFICATO DI STEFANO III
v Con l'elezione di STEFANO III e dopo le decisioni del concilio lateranense, pareva che un periodo di pace
dovesse inaugurarsi in Roma. E invece i germi della discordia non erano stati eliminati, anzi altri erano sorti.
Il malcontento della nobiltà laica era, infatti, cresciuto, e se da una parte era stato tolto di mezzo Totone,
dall'altra a occupare il suo posto erano venuti Cristoforo e Sergio. Si aggiunga l'estrema debolezza del
Pontefice e la discordia sorta tra Carlo e Carlomanno, che impegnati com'erano a litigare si disinteressavano
della Chiesa; si comprenderà facilmente come le condizioni di Roma fossero piuttosto tristi.
Come se ciò non bastasse, le relazioni tra il Papato e la corte di Pavia erano tornate a farsi tese, sia per
l'uccisione del prete longobardo Valperto e per la deposizione di Filippo, sia per la politica papale che aveva
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rimesso in campo le sue pretese sulle città dell'Esarcato e della Pentapoli non ancora restituite da Desiderio
e che il patto del 763, promosso da Pipino, era stato messo da parte.
Ricominciavano pertanto le sollecitazioni del Pontefice ai re franchi perché costringessero Desiderio alla
restituzione. Ma, come si è detto, tra Carlo, cui erano toccate l'Austrasia, parte dell'Aquitania e la Neustria a
nord dell'Oise, e Carlomanno, che aveva avuto il resto dell'Aquitania, la Neustria a sud dell'Oise, la
Borgogna, la Settimania, la Provenza, l'Alemannia, l'Alsazia e la Turingia, non correvano buoni rapporti e le
sollecitazioni del Papa non potevano presso di loro trovare buon'accoglienza.
A lasciare insoddisfatte le richieste della S. Sede concorrevano anche l'atteggiamento di gran parte della
nobiltà franca contraria: alla politica estera inaugurata da Pipino e le vedute e i propositi della regina madre
BERTRADA. Questa voleva che i suoi figli vivessero d'accordo, che fossero eliminate le cause di guerre con
i popoli vicini e che i Franchi si unissero in alleanza con i Bavaresi e con i Longobardi. Un'alleanza per quei
tempi era sempre accompagnata da vincoli nuziali tra le case regnanti e, poiché TASSILIONE duca di
Baviera aveva sposato LIUTPERGA figlia di Desiderio, pensò Bertrada di dare in sposa al figlio CARLO
l'altra figlia di Desiderio, DESIDERATA.
La notizia di questo disegno di matrimonio giunta a Roma, gettò la costernazione nell'animo del Pontefice e
dei suoi consiglieri che avevano fatto base della loro politica la rivalità tra Franchi e Longobardi. Una
eloquente testimonianza di questo sconforto noi lo troviamo in una lettera inviata da Stefano III, nel 770, ai re
franchi: "…Abbiamo saputo, - scriveva il Pontefice - con nostro gran dispiacere, che Desiderio, re dei
Longobardi, vuol dare in sposa sua figlia ad uno di voi. Se ciò corrisponde a verità, non un matrimonio è
questo, ma una diabolica unione, un iniquo concubinaggio perché la Santa Scrittura c'insegna che molti
uomini caddero in peccato per avere sposato donne di nazione diversa. E quale pazzia è la vostra di voler
contaminare la nazione franca, la più illustre del mondo, e la vostra stirpe con la perfida e nefandissima
gente longobarda ?... ". E dopo avere ricordato la condotta dei Longobardi e gli impegni assunti da Pipino,
Stefano concludeva: "Abbiamo messo questa lettera ammonitrice sulla tomba di S. Pietro, vi abbiamo
celebrato sopra la messa, e dà questo luogo ve la mandiamo con le lacrime agli occhi".
Ma questa lettera non ebbe l'effetto desiderato. Bertrada perseverò nel suo proposito, fece un viaggio prima
in Baviera poi si recò in pellegrinaggio a Roma allo scopo di mettere d'accordo Pontefice e Desiderio. Non le
riuscì difficile: Cristoforo e Sergio erano diventati troppo invadenti e si erano accostati a CARLOMANNO che
aveva mandato a Roma il conte Dodone, suo legato, con una schiera di Franchi; quindi il Papa aveva tutto
l'interesse di non guastarsi con Carlo e di accordarsi con Desiderio.
Lasciata Roma, Bertrada andò a Pavia, dove erano arrivati alcuni nobili Franchi per celebrare le nozze tra
Carlo e Desiderata, poi fece ritorno in Francia conducendo con sé la sposa del figlio.
La politica della S. Sede ora risente della debolezza del Pontefice e dell'intrecciarsi degli odi, delle ambizioni
e del desiderio di vendette, e prepara nuovi disordini nella città. Tanto il Papa quanto il re longobardo hanno
interesse di fiaccare Cristoforo e Sergio, specialmente Desiderio che vede in loro due gli ostacoli più grandi
alla sua politica romana.
Tramite cubiculario del Pontefice di nome PAOLO AFIARTA, il re dei Longobardi prima s'intende con
STEFANO III, poi con il pretesto di compiere un religioso pellegrinaggio e di incontrarsi con lui per definire la
questione delle "giustizie di S. Pietro", muove verso Roma con un corpo di milizie.
Cristoforo e Sergio però non si lasciarono sorprendere e, armati e radunati nella Tuscia e nella campagna
romana, si prepararono a difendersi spalleggiati dai Franchi di Dodone.
DESIDERIO si accampò presso S. Pietro e qui venne a trovarlo Stefano III, mentre l'Afiarta preparava in città
la rivolta. Questa scoppiò quando il Papa faceva ritorno in Laterano, ma trovò Cristoforo e Sergio pronti. Con
i loro armati presero d'assalto il Laterano e penetrarono nella basilica di San Salvatore dove Stefano III si era
rifugiato, ma il contegno impavido del Papa e i soccorsi dell'Afiarta tempestivamente giunti fecero sì che la
persona del Pontefice non fosse toccata.
Il giorno seguente Stefano tornò a far visita a Desiderio e quel giorno medesimo, non si sa bene come
CRISTOFORO e SERGIO caddero nelle mani dei partigiani del Papa.
Questi promise loro salva la vita ed ordinò che padre e figlio fossero scortati nel lasciare Roma; ma quando
stavano per passare le mura furono assaliti improvvisamente da un manipolo di armati che cavarono loro gli
occhi. Cristoforo fu condotto nel monastero di S. Agata, dove tre giorni dopo morì: Sergio fu tratto prigioniero
in Laterano e di lui non si seppe più nulla. Il re dei Longobardi, soddisfatto dalla fine dei suoi nemici, levò il
campo e se ne ritornò a Pavia (771).
Stefano III, scrivendo a Carlo e a Bertrada, li informava degli avvenimenti addossando la colpa a Dodone e
lamentandosi di aver corso pericolo di vita. Narrando la fine del primicerio e del figlio, affermava che era
avvenuta contro la sua volontà, per opera di alcuni malfattori; infine lodava la condotta di Desiderio ed
assicurava che questi era sulla via di mantener le promesse. Quest'ultima notizia però non rispondeva a
verità. Il re dei Longobardi non aveva nessun'intenzione di voler mantenere le sue promesse e
spadroneggiava a Roma per mezzo dell'Afiarta e del suo partito che di giorno in giorno cresceva di numero e
di prepotenza.
Questa situazione in cui Roma era caduta non poteva certo piacere a Carlo. Non riusciva a tollerare che il
suocero potesse avere il sopravvento nella politica romana, scalzando chi aveva il titolo di patrizio ed era il
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difensore della S. Sede. L'edificio costruito da BERTRADA cominciava a sfasciarsi. Crollò improvvisamente
quando CARLO, ripudiata DESIDERATA, la mandò a Pavia e condusse a nozze la principessa sveva
ILDEGARDA, che uno storico del tempo chiamò la più bella donna di tutto l'Occidente.
Il 4 dicembre del 771 moriva CARLOMANNO, lasciando due figli in tenera età. CARLO, radunata
un'assemblea di Grandi a Corbeny (Corbonacum) si fece eleggere re, riunendo nelle sue mani i vasti domini
che erano stati del padre Pipino. La vedova GERBERGA, temendo per sé e per i figli, si recò a Pavia ed
ottenne ospitalità alla corte longobarda, dove vennero a trovarsi un'infelice e offesa donna (Desiderata di
nome ma ripudiata da Carlo) e una madre angosciata in gramaglie che pareva chieder giustizia per i suoi
figli.
ADRIANO I - SPEDIZIONE DI CARLO IN ITALIA FINE DEL REGNO LONGOBARDO
Il 3 febbraio del 772 cessava di vivere STEFANO III. La nuova elezione portò sul soglio di S. Pietro un uomo
che era tutto l'opposto del defunto papa. ADRIANO I era di antica ed illustre famiglia romana ed alla pietà
religiosa univa un carattere fermo ed una volontà incrollabile. Eletto all'unanimità egli mostrò subito di non
appartenere a nessuna fazione e di volersi adoperare soltanto per il bene della Chiesa. Il suo primo atto fu di
perdono: furono richiamati dall'esilio i partigiani di Cristoforo e Sergio e furono rimessi in libertà coloro che
dall'Afiarta erano stati gettati in prigione.
Quest'amnistia del Pontefice sapeva di sfida a Desiderio, il quale per assicurarsi delle intenzioni di Adriano
mandò a Roma un'ambasciata composta di un certo Prandolo e dei duchi di Spoleto e di Ivrea, che in nome
del re si congratularono con il Papa della sua elezione, offrendogli l'amicizia della corte di Pavia.
La risposta di Adriano fu quella che Desiderio non si aspettava. Rispose il Pontefice che egli voleva vivere in
pace con tutti i cristiani e avere fede al trattato concluso tra Franchi, Longobardi e S. Sede, ma che "non
poteva prestar fede alle parole di un re che non aveva mantenuto le promesse fatte a Stefano III".
Gli ambasciatori longobardi cercarono di assicurare il Papa sulle buone intenzioni del loro re ed allora
Adriano mandò a Pavia, perché trattassero con Desiderio, il sacellario Stefano e l'Afiarta. Ma quando questi
furono a Perugia giunse la notizia che un esercito longobardo aveva occupato Ferrara, Comacchio e Faenza
e marciava su Ravenna.
Quest'improvviso mutamento di Desiderio fu da alcuni attribuito al rifiuto opposto dal Pontefice al re
longobardo, il quale voleva che Adriano consacrasse re dei Franchi i due figli di Carlomanno e Gerberga. In
verità non è necessario ricercar la causa del nuovo atteggiamento di Desiderio nel rifiuto del Papa. Era
sufficiente motivo di ostilità la risposta di Adriano ai tre legati regi e l'amnistia concessa ai nemici della
fazione longobarda.
L'invasione dell'Esarcato non impressionò molto il Pontefice; anzi mandò in fretta ai suoi ambasciatori a
Perugia una lettera per il re in cui gli rinfacciava la sua falsità e gl'intimava di sospendere le operazioni
belliche ed allontanarsi dalle terre invase. Stefano e l'Afiarta proseguirono per Pavia, ma la loro missione
non ebbe alcun successo. Pare che l'Afiarta, anima venduta dei Longobardi, consigliasse Desiderio di
invitare il Pontefice a Pavia per costringerlo poi a incoronare i figli di Carlomanno. E' certo è che i due
ambasciatori lasciarono Pavia portando come risposta l'invito del re ad un incontro nella capitale del regno.
Dei segreti maneggi dell'Afiarta senza dubbio doveva esser giunta notizia al Pontefice, il quale saputo anche
che, una settimana prima della morte di Stefano III, per ordine dello stesso Afiarta, Sergio, il figlio di
Cristoforo, era stato nottetempo condotto presso l'arco di Galliano sull'Esquilino e qui ucciso e sepolto. Il
cadavere era stato ritrovato. Allora il Pontefice aveva ordinato all'arcivescovo di Ravenna di catturare
l'Afiarta al ritorno da Pavia e mandandogli gli atti del processo già istruito contro di lui, gli aveva ordinato di
accertare le responsabilità dell'imputato e quindi di punirlo.
L'Afiarta fu arrestato a Rimini e l'arcivescovo di Ravenna, nemico accanito dei Longobardi, ignorò le
istruzioni ricevute dal Papa, e sbrigativamente lo fece giustiziare.
Questo fatto infuriò Desiderio, che, riprese le ostilità, si impadronì di Senigaglia, Montefeltro, Urbino, Gubbio,
e invase la Tuscia romana, saccheggiando ed uccidendo o facendo prigionieri gli abitanti.
Naturalmente Adriano non mancò di protestare, ma, ben sapendo che nulla avrebbe ottenuto dal re
longobardo con le proteste e che occorreva opporre la forza alla forza, fortificò le mura della città, richiamò a
Roma le milizie della Tuscia, di Perugia e della Campania e scrisse sollecitamente a Carlo, informandolo
degli avvenimenti, delle intenzioni di Desiderio e del pericolo che la Santa Sede correva e chiedendo pronti
aiuti.
Le intenzioni di Desiderio erano evidentissime: egli tendeva a Roma che voleva sotto il diretto dominio e
sotto la sua influenza. Tra la fine del 772 e il principio del 773, alla testa di un forte esercito, accompagnato
da Gerberga e dai due figli di Carlomanno, si mise in marcia verso Roma.
Ma non doveva andare oltre Viterbo: qui vennero a trovarlo i vescovi di Albano e di Viterbo, che gli portarono
una lettera papale nella quale Adriano I minacciava di scomunica il re e i Longobardi se fosse entrato nel
territorio romano.
Forse l'anatema del Pontefice avrebbe lasciato indifferente Desiderio. Ma non potevano lasciarlo
indifferente: la consapevolezza delle forze di cui disponeva il Papa; il malumore del clero longobardo di
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fronte ad una guerra contro il loro Capo spirituale; e più d'ogni altra cosa la notizia delle trattative in corso tra
Carlo ed Adriano.
Persuaso da questi tre elementi a sfavore, non si spinse oltre, il re levò il campo e fece ritorno a Pavia.
Giungevano intanto a Roma tre ambasciatori franchi, i quali dopo un colloquio avuto col Papa, si recarono
alla capitale longobarda per cercar di piegare il re ad un accordo con il Pontefice; ma Desiderio fu
irremovibile. Cedere per lui significava rinunciare alla sua politica di espansione nella cui via a poco a poco
si era messo; voleva dire perdere le ricche rendite dell'Esarcato e della Pentapoli che gli erano necessarie
per colmare i vuoti del suo patrimonio prodotti dalle numerose donazioni da lui fatte in favore di monasteri;
significava accrescere il numero degli oppositori che aveva già nel "suo" clero e nella "sua" nobiltà; infine
cedere voleva dire provocare la disgregazione del regno che egli tanto si era adoperato a mantenere unito,
per diventare un sovrano vassallo dei Franchi, e, quel che era peggio, della Santa Sede.
Decidendosi a non piegare alla pressione franca, Desiderio tentava di uscire da una situazione difficilissima
con l'unico mezzo che gli rimaneva: la risolutezza. Questa poteva impressionare i suoi nemici e far loro
mutare politica; poteva inasprirli ed indurli alla guerra.
La guerra avrebbe deciso le sorti del regno longobardo: o la fine o l'incontrastata potenza.
Al re franco che si trovava a Thionville ritornarono gli ambasciatori, ALBINO, il vescovo GIORGIO e l'abate
WULFARDO, portando la risposta di Desiderio. La guerra era inevitabile; eppure Carlo - anche se aveva
ricevuta una segreta ambasciata di alcuni nobili longobardi che lo invitavano a scendere in Italia
promettendogli di consegnargli il re e le sue ricchezze ("istum Desiderium tyrannum sub potestate traderent
vinctum, et opes multas ...., Anon. Salern.) - volle ancora tentare un pacifico appianamento e propose al re
dei Longobardi che restituisse le terre occupate dietro un compenso di quattordicimila solidi d'oro. Ma la
risposta di Desiderio fu un nuovo rifiuto.
Allora Carlo convocò a Ginevra un'assemblea di Franchi ("campo di maggio") e qui fu decisa la guerra in
Italia.
Raccolte numerosissime forze, Carlo le divise in due eserciti, uno dei quali comandato dallo zio Bernardo
doveva passare le Alpi per il valico del monte Giove (Gran San Bernardo), l'altro al suo comando doveva
scendere in Italia per la via del Cenisio.
Nella primavera del 773 gli eserciti franchi si misero in marcia verso le Alpi. Carlo con il suo esercito, passato
il Cenisio, entrò nella valle di Susa e soggiornò per qualche tempo nel monastero della Novalesa, un
monaco del quale, vissuto probabilmente nel secolo decimoprimo, ci lasciò una descrizione, in una sua
cronaca ("Chron. Novaliciense"), della battaglia che i Franchi combatterono con i Longobardi alle Chiuse
(cronaca probabilmente ritrovata dal monaco nel monastero, scritta da un suo predecessore all'epoca dei
fatti).
È impossibile ricostruire nei suoi veri particolari questa battaglia intorno alla quale tante e contraddittorie
leggende sono giunte sino a noi. Secondo una di queste il passo era così fortemente difeso da mura, torri e
bastioni, che l'esercito franco si sarebbe ritirato rinunziando all'impresa se per un "miracolo divino" i
Longobardi non si fossero dati improvvisamente alla fuga.
Secondo un'altra leggenda, ci fu alle Chiuse una battaglia sanguinosissima in cui Adelchi, figlio di Desiderio,
giovane forte e valoroso, piombando più di una volta sul nemico con una mazza di ferro che era solito
portare, con questa fece più di una strage.
Carlo, disperando di forzare il passo, aveva ormai deciso di rinunciare e tornarsene a casa, quando al suo
campo giungeva, inviato dall'arcivescovo Leone di Ravenna, il Diacono MARTINO, che indicò al re un
sentiero sconosciuto e quindi non sorvegliato dai longobardi; il re inviando una parte delle sue truppe da
quella parte, riuscì a sorprendere alle spalle i Longobardi, che, assaliti di fronte e da tergo, si diedero alla
fuga abbandonando le loro posizioni difensive e la lotta.
Secondo un'altra leggenda, chi insegnò a Carlo il sentiero sconosciuto fu un giullare longobardo. Avendo,
dopo la vittoria, il re chiesto al giullare che cosa desiderava come compenso, questi salì sopra un colle e
suonò un corno, poi chiese che gli fosse dato tutto il territorio fin dove il suono si era udito.
Eppure, in queste leggende un fondo di verità meno miracolistiche le hanno. Si parla di resistenza accanita
da parte di Desiderio che non possiamo relegare nel mondo delle favole perché Desiderio un forte esercito
lo aveva per davvero; si parla di sentieri nascosti e con l'esercito franco che discende alle spalle su alcuni
Longobardi, circostanza questa che, senza la leggenda del giullare e del diacono Martino, non hanno nulla
d'inverosimile.
Molti anni prima nella stessa zona era accaduto le stessa cosa.
Anche Napoleone, scoprendo una piccola mulattiera a Bard, aggirò la turrita e invalicabile fortezza beffando
gli austriaci (la ricordiamo perché si svolse allo stesso modo e negli stessi due passi)
Noi pensiamo che la vittoria di Carlo fu dovuta al movimento aggirante delle sue truppe. Pipino aveva fatto lo
stesso nella sua seconda spedizione in Italia, e il fatto che Carlo avesse mandato attraverso il passo del
monte Giove (Gran San Bernardo), lo zio Bernardo ci fa credere che ad una manovra aggirante egli aveva
già pensato prima di iniziare le operazioni. Se la colonna aggirante fosse quella di Bernardo o l'esercito dello
stesso del re dal Cenisio, noi non lo sappiamo: forse l'una e l'altra insieme.
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Quel che è certo è che la difesa delle Chiuse si risolse con la rotta dei Longobardi che si diedero buona
parte alla fuga, una parte con Desiderio si chiusero a Pavia, parte con Adelchi a Verona dove si era rifugiata
Gerberga con i figli, e altri si ritirarono in altre città dove poi si arresero ai Franchi. Le città che fecero
maggiore resistenza furono Pavia, Verona e Brescia. In quest'ultima, furono anima della resistenza un nipote
di Desiderio, POTO e il vescovo ASUALDO, ma alla fine furono costretti dal popolo ad arrendersi al conte
franco ISMONDO che pose in assedio senza scampo la città.
La sconfitta delle Chiuse, conosciuta subito nelle varie parti del regno longobardo, n'affrettò il
disgregamento: Spoleto si elesse un duca proprio, ILDEPRANDO, che fece atto di sottomissione al Papa; lo
stesso fecero Osimo, Fermo, Ancona e Città di Castello. Intanto quasi tutta l'alta Italia cadeva nelle mani dei
Franchi e sulla fine del settembre del 773 l'esercito di Carlo giungeva sotto le mura della città di cingendola
con un poderoso assedio.
Non era più il caso di iniziare trattative con Desiderio: era ormai questa una guerra ad oltranza che doveva
finire con la distruzione del regno longobardo. Perciò la resistenza di Pavia fu così lunga. Verona invece
resistette un po' meno; nell'autunno dello stesso anno sì arrese: GERBERGA e i figli si consegnarono nelle
mani di CARLO e finirono probabilmente rinchiusi in qualche monastero; ADELCHI invece riuscì a fuggire
prima a Salerno, poi a Costantinopoli, dove fu accolto benevolmente dall'imperatore.
ILDEGARDA raggiunse Carlo al campo di Pavia e, poiché l'assedio si prevedeva lungo, nella primavera del
774 il re franco stabili di andare a Roma. Il motivo apparente del suo viaggio era la visita alla tomba
dell'Apostolo in occasione della Pasqua che cadeva il 2 aprile, il motivo vero da cui era mosso era il bisogno
che Carlo aveva di un incontro con il Pontefice per parlare delle cose d'Italia.
A Carlo non dovevano essere ignote le mire della S. Sede. Questa agognava al possesso dell'Esarcato,
della Pentapoli e forse di tutta l'Italia longobarda e per legittimare le sue pretese aveva tirato fuori un
documento famoso, il "Costitutum Constantini" denunciato come falso nel sec. XV da Lorenzo Valla e come
tale oggi ritenuto, in cui si affermava che l'imperatore Costantino, dopo il racconto della sua conversione e
della guarigione dalla lebbra per opera di papa Silvestro, concedeva alla Chiesa di Roma il primato su tutte
le chiese del mondo e al Pontefice le insegne delle sovranità, il palazzo lateranense e il dominio su Roma e
su tutte le province d'Italia e dell'Occidente.
Certo non tutto quello che la S. Sede desiderava Carlo era disposto a dare né del resto sapeva con
precisione quello che il Pontefice avrebbe chiesto. Tuttavia per definire il futuro assetto dell'Italia si rendeva
indispensabile un incontro con il Papa.
Carlo partì per la metropoli con un numeroso seguito di vescovi, abati, duchi e conti e con una parte del suo
esercito. La strada che percorse fu quella della Toscana. A Nova, presso il lago di Bracciano, a trenta miglia
da Roma gli vennero incontro i dignitari della Chiesa e i capi delle milizie mandati dal Pontefice a fare atto di
sottomissione al re vittorioso; a un miglio dalle mura di Roma Carlo trovò l'esercito romano schierato, gli
scolari della città che recavano ramoscelli di palma e di ulivo e cantavano inni in onore dell'ospite regale e
infine il clero con croci e vessilli. Il re scese da cavallo, imitato dai suoi, e a piedi si avviò verso la basilica di
S. Pietro.
L'antica chiesa, che la tradizione diceva costruita per ordine di Costantino, era assai diversa dalla presente,
ed assai più bella, per il suo carattere veramente originale.
Si trovava fuori delle mura, le quali allora non circondavano il quartiere vaticano che era solo un sobborgo
all'esterno della Città Imperiale. La vasta basilica a forma di croce aveva cinque navate, la principale delle
quali finiva con un'abside semicircolare.
(l'unico documento esistente su questa basilica, è una discreta incisione che si trova oggi custodita a
Venezia - Ndr.)
"....Alla chiesa si arrivava traversando un atrio spazioso a forma di chiostro, detto il Paradiso di S. Pietro. Il
pavimento, della chiesa come quello dell'atrio, si trovava alcuni metri più in alto della piazza. Vi si ascendeva
per una scala larga quanto la facciata o muro esterno. Le novantasei colonne, nonché i mattoni con i quali
erano state costruite le mura e gli archi, erano stati tolti dal vicino anfiteatro di Nerone, e da altri edifici
pagani: si vedeva una grande varietà di sagome, di capitelli, di colonne. Questo gran tempio cristiano,
composto con i frammenti di tempi pagani, sembrava sfavillare da lontano, perché il tetto era formato da
tegole di bronzo dorato, prelevati anch'essi dagli antichi tempi di Roma e di Venere. Nell'interno i diversi
colori dei mosaici e delle pitture davano a quella chiesa una solenne e severa varietà, che armonizzava con
il sentimento religioso assai più del S. Pietro moderno, che sembra quasi un'immensa galleria. Molte erano
le statue di marmo e di bronzo, alcune delle quali anch'esse tolte ai tempi pagani, e adattate ad uso
cristiano. A tutto ciò si aggiungevano ricchi broccati, veli a trapunto, lamiere d'oro e d'argento. Nel mezzo
della croce la Confessione dell'Apostolo, rivestita d'argento, coperta da un tempietto con sei colonne di onice
a spira, con un centinaio di lampade e candele, le quali ardevano giorno e notte. Qui vi erano tutti i giorni
prostrati in ginocchio migliaia di fedeli di ogni sesso ed età, di ogni condizione sociale, giunti da tutte le parti
del mondo a chiedere perdono dei loro peccati. Insomma era un tempio veramente unico, che poteva dirsi il
centro religioso del mondo…" (Villari).
Era il sabato santo (10 aprile). In cima alla scala Adriano aspettava il sovrano dei Franchi; l'atrio era gremito
di clero e di popolo. Quando Carlo giunse s'inginocchiò ai piedi della scala, poi ne salì i gradini in ginocchio,
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baciandoli. Il Pontefice lo ricevette fra le braccia e lo baciò e, mentre il clero cantava il versetto del salino
"Benedictus qui venit in nomine Domini", entrò con lui nella basilica.
Quello stesso giorno il Papa e il re, seguiti dai nobili delle due nazioni, visitarono la tomba dell'Apostolo e si
scambiarono solenne giuramento di fedeltà; poi si recarono a S. Giovanni in Laterano dove il Pontefice
somministrò il battesimo alla presenza del re. L'indomani, giorno di Pasqua, Carlo ascoltò la messa
celebrata da ADRIANO I in Santa Maria Maggiore e il giorno dopo ebbe luogo un grande banchetto. v Il 4 e il
5 di aprile vi furono solenni cerimonie nelle basiliche di S. Pietro e dì San Paolo.
Il 16 di aprile il Pontefice si recò in processione con il re a S. Pietro e qui, alla presenza del clero e dei
magistrati romani, Adriano scongiurò Carlo di adempiere e confermare le promesse di Pipino. Secondo il
"Libro Pontificale", il Papa lesse al sovrano la "Promissio carisiaca", consacrata nel diploma di Quierzy, e
Carlo fece scrivere, dal suo notaio ETERIO un diploma che confermava la donazione paterna e che fu
sottoscritta da lui, dai suoi vescovi, abati, duchi e conti.
Questo documento fu posto sull'altare di San Pietro, poi nella Confessione e infine fu consegnato al Papa
che ebbe promessa che sarebbe stato eseguito quello che c'era scritto. Altre due copie furono fatte; una
rimase nelle mani del re, l'altra fu deposta sotto gli Evangeli nella tomba dell'Apostolo.
Questo diploma non è giunto sino a noi e se ne ha notizia soltanto dal biografo di Adriano. Di tale documento
alcuni critici negarono l'esistenza, altri dissero che in fu interpolato il passo che parlava della nuova
donazione di Carlo, altri ancora sostennero che la donazione riguardasse i patrimoni soltanto. Oggi però è
opinione comune che il documento di cui parla il biografo sia veramente stato redatto e che siano da
escludere le interpolazioni.
Non si può però ammettere che la donazione di Carlo sia stata fatta nei termini di cui si fa parola nel "Libro
Pontificale" sia perché in questo si parla di territori, che, come la Corsica, non furono mai conquistati dal re
dei Franchi, sia perché vi sono indicati territori che poi non furono concessi.
Carlo trattenutosi ancora pochi giorni a Roma, fece ritorno a Pavia, che dopo otto mesi di assedio, nei primi
del giugno del 774 finalmente si arrese. Narra una leggenda che una figlia di Desiderio, presa d'amore per
Carlo, cui aveva mandato una lettera infissa in una freccia, prese furtivamente le chiavi che erano appese al
letto del padre, aprì di notte le porte al nemico ma fu travolta ed uccisa dalla cavalleria franca. Ma forse la
resa più prosaicamente si deve attribuire alla fame, alla pestilenza e infine alle discordie che regnavano tra
gli stessi Longobardi (che non erano mai mancate da quando - lo abbiamo visto in tutti questi anni - Alboino
era giunto in Italia due secoli prima).
Carlo rimase a Pavia un mese e mezzo circa, poi tornò in Francia recando con sé il tesoro della reggia
longobarda, Desiderio, la regina Ansa e una figlia. Di Desiderio si narra che, preso l'abito monastico, e che
finì i suoi giorni nel monastero di Corbeia; di Ansa si dice che andò a chiudersi nel monastero bresciano di S.
Giulia da lei stessa fondato e di cui era badessa la figlia Anselperga. Forse nello stesso convento morì
anche l'infelice DESIDERATA (la moglie ripudiata da Carlo) che poi il Manzoni immortalò.
Con la presa di Pavia finiva di esistere, dopo più di due secoli, il regno longobardo. La mancanza di un forte
sentimento nazionale, la turbolenza dei duchi spesso in lotta con il governo centrale, la tendenza
all'autonomia e all'indipendenza nei ducati più forte della volontà accentratrice ed unificatrice dei re e causa
perciò di guerre, di rivoluzioni, di tradimenti, il dualismo tra duchi e gastaldi, la debolezza del governo
bizantino che aveva fatto nascere e sviluppare nelle città italiane l'autonomismo politico e amministrativo e le
milizie indigene impedendo ai Longobardi la realizzazione delle loro mire espansioniste, la politica debole,
incerta, ineguale di alcuni re, e troppo rigida e intransigente di altri, furono le ragioni che determinarono la
debolezza del regno longobardo e ne prepararono la rovina.
Ma la principale causa della caduta del regno longobardo fu la Chiesa romana, fu la S. Sede, che da
potenza spirituale divenuta potenza temporale ostacolò prima la politica longobarda delle conquiste e
dell'unificazione d'Italia con una politica identica nello scopo, ma più forte, più tenace, più scaltra e più
conseguente, e poi minò la compagine stessa della nazione longobarda e indebolì l'autorità della monarchia
con la religione. Le sorti del regno longobardo furono segnate il giorno che il primo re ebbe il battesimo.
GREGORIO MAGNO aprì la prima breccia nelle mura della cittadella nemica servendosi dell'acqua lustrale,
finì di abbatterle ADRIANO I adoperando la spada dei Franchi. Questa spada però era purtroppo un'arma
straniera che doveva aprire nella storia d'Italia un altro e non breve periodo di avvilimento e di schiavitù !
Carlo da Pavia prelevò l'intero tesoro del regno Italico dei Longobardi. Era la prima volta che accadeva in
Italia, ma non era l'ultima!
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
WACHER -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
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CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
L'ITALIA SOTTO I CAROLINGI ( dal 774 al 795 )
IL REGNO LONGOBARDO DOPO LA CONQUISTA DEI FRANCHI - CONTRASTI TRA LA S. SEDE E
RAVENNA - CONGIURA DI DUCHI - CARLO SCONFIGGE I RIBELLI DELL' ITALIA SETTENTRIONALE SPEDIZIONE CONTRO I SASSONI - CARLO IN ISPAGNA: LA ROTTA DI RONCISVALLE - LA
DONAZIONE DI COSTANTINO - TERZA DISCESA DI CARLO IN ITALIA E SUA ATTIVITÀ LEGISLATIVA INCORONAZIONE DI LUDOVICO E PIPINO - ACCORDI TRA FRANCHI E BIZANTINI - GUERRE CONTRO
I SASSONI - ADRIANO I E L' IMPERATRICE IRENE - IL CONCILIO DI NICEA - SPEDIZIONE DI CARLO
CONTRO IL DUCATO DI BENEVENTO - TASSILONE DI BAVIERA - GRIMOALDO DUCA DI BENEVENTO
- SPEDIZIONE BIZANTINA NELL' ITALIA MERIDIONALE - FINE DI ADELCHI. - GUERRE CONTRO GLI
AVARI - L'ADOZIONISMO E I CONCILI DI RATISBONA E FRANCOFORTE
--------------------------------------------------RIBELLIONE DEL FRIULI - GUERRE CONTRO I SASSONI E GLI ARABI ACCORDI TRA FRANCHI E
BIZANTINI
La resa di Pavia e la vittoria di Carlo non produssero notevoli mutamenti nell'Italia longobarda. Li avrebbero
prodotti, se Carlo avesse iniziato la guerra con un piano prestabilito di riforme e se avesse avuto la
possibilità di rimanere a lungo nel regno conquistato.
Le riforme non si fanno in un giorno o in un mese e soprattutto in un paese nemico conquistato, che
richiedono la presenza e la protezione di numerosi armati. Invece, Carlo aveva necessità di ripassare le Alpi,
sospinto dal delinearsi di una nuova guerra contro i Sassoni, non poteva lasciare in Italia forze rilevanti;
d'altro canto da politico accortissimo qual era, sapeva che la miglior condotta da seguire con popolazioni di
recente conquista era quella di agire con precauzione e con lentezza per non far pesare la nuova
dominazione e non suscitare malumori e rivolte nei sudditi.
Perciò Carlo in Italia rimase il tempo indispensabile per ricevere il giuramento di fedeltà dei Grandi e ritenne
opportuno di non apportare mutamenti nell'assetto politico ed amministrativo, lasciando, infatti, al governo
dei ducati i gli stessi duchi longobardi e al popolo vinto le proprie leggi. Le sole novità prodotte dalla caduta
della monarchia longobarda furono il titolo di re dei Franchi e dei Longobardi assunto dal vincitore e un
presidio franco lasciato a guardia di Pavia.
Lasciando le cose com'erano, Carlo sperava che, durante la sua assenza, la tranquillità in Italia non sarebbe
stata turbata. Invece s'ingannò: un discendente di Desiderio c'era che non sapeva rassegnarsi alla perdita
del regno, ADELCHI, il quale a Costantinopoli si dava da fare per indurre ad una spedizione l'imperatore
COSTANTINO COPRONIMO. Questi dal canto suo non era rimasto insensibile agli avvenimenti d'Italia e
non aveva rinunciato alla sovranità sull'Esarcato, la Pentapoli e il ducato romano.
A turbare la tranquillità della penisola non potevano che contribuire l'ambizione di alcuni duchi che
desideravano di rendersi indipendenti e l'appoggio che altri davano alle rivendicazioni di Adelchi. Si
aggiungano a tutto questo i dissidi, non nuovi in verità, tra la S. Sede e l'episcopato di Ravenna.
L'arcivescovo LEONE, imitando le ambizioni del suo predecessore Sergio, aveva, infatti, manifestato il serio
proposito di volere esercitare nell'Esarcato e nella Pentapoli quella medesima autorità che il Papa esercitava
sul ducato romano e, ritiratisi i Longobardi, aveva respinto i funzionari della S. Sede dall'Esarcato e da
alcune città dell'Emilia era sta lesto a insediare i propri vescovi.
Di tutto ciò che in Italia avveniva Carlo era informato dal Pontefice. Erano informazioni minute e spesso
esagerate, erano calde lagnanze e pressanti richieste d'intervento. In una lettera degli ultimi mesi del 775,
ADRIANO I dava notizia a Carlo di una grande congiura. Scriveva che i duchi del Friuli, di Chiusi, di Spoleto
e di Benevento tramavano d'accordo con ADELCHI e con la corte bizantina e che alla congiura partecipava
anche l'arcivescovo di Ravenna. Naturalmente scopo dei congiurati era di sbalzare il re dei Franchi dal trono
longobardo, ripristinare la monarchia nazionale, invadere Roma, saccheggiarla e far prigioniero il Pontefice.
Il quale implorava il re di scendere in Italia e di venire a sgominare i comuni nemici: gli italiani!
Le notizie che Adriano dava a Carlo erano senza dubbio molto esagerate e forse alcune di queste erano
completamente false. Non era, infatti, verosimile che a Costantinopoli, dove nel settembre del 775 moriva
Costantino Copronimo, si pensasse ad una spedizione in Italia, che il duca di Benevento, il quale, anche
dopo la caduta di Desiderio, era rimasto quasi indipendente, desiderasse un ritorno della monarchia
longobarda e, infine, che tra i congiurati ci fosse proprio l'arcivescovo di Ravenna che godeva il favore di
Carlo.
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Ma nelle voci che correvano qualcosa di vero c'era. Una congiura realmente si tramava, ma limitata ad
alcuni duchi dell'alta Italia e capeggiata da ROTGAUDO del Friuli. Può darsi che non vi era estraneo Adelchi
e che i duchi di Spoleto e di Benevento anche loro erano stati sollecitati di prendervi parte, ma di una loro
adesione e partecipazione non si ha prove.
Carlo non diede tempo alla congiura -vera o presunta- di estendersi e, domati ancora una volta i Sassoni,
nella primavera del 776 scese con un piccolo esercito in Italia e piombò fulmineamente nel Friuli. Rotgaudo,
scontratosi con l'esercito franco, fu sconfitto e messo a morte; Cividale, capitale del ducato, fu espugnata e il
Friuli in poco tempo ridotto all'obbedienza.
Poi venne la volta di STABILINIO, genero di Rotgaudo e signore di Treviso. Carlo riuscì ad impadronirsi di
questa città con il tradimento di un sacerdote di nome Pietro che in premio ebbe il vescovado di Verdun.
Dopo la presa di Cividale e di Treviso anche le altre città fecero atto di sottomissione e a Treviso, Carlo, il 14
aprile dello stesso anno 776, ebbe modo di celebrare la Pasqua in pace, ma con la vittoria riportata contro i
ribelli, su questi furono prese misure d'estremo rigore: molti furono esiliati, molti altri ebbero la confisca dei
beni, non pochi furono fatti prigionieri - fra questi il fratello di PAOLO DIACONO (il noto biografo dei
Longobardi) - e, tradotti in Francia, furono più tardi amnistiati e riuscirono pure a ritornare in patria e in
possesso delle loro sostanze per intercessione del figlio di Carlo, Pipino.
Come nella prima spedizione così in questa, mutamenti notevoli di governo non avvennero: il re lasciò intatta
la circoscrizione dei ducati e in generale i duchi longobardi rimasero nella loro dignità, ma nelle città ribelli
furono messi presidi e alcuni duchi furono sostituiti da "comites" o "conti".
Brevissimo fu il soggiorno del re in Italia. ADRIANO I lo avrebbe visto volentieri a Roma e forse Carlo gli
aveva fatto sperare una sua visita. Ma nella primavera medesima il re se ne tornò in Francia. Non sappiamo
i motivi che spinsero Carlo a non incontrarsi con il Pontefice. Può darsi che, ricevute notizie di nuove rivolte
dei Sassoni, non ha potuto prolungare la sua permanenza in Italia, ma può anche darsi che di proposito non
"abbia voluto" incontrarsi con Adriano per evitare che si parlasse delle discordie tra la S. Sede e l'episcopato
di Ravenna e per non sentirsi chiedere la cessione del territorio di Spoleto.
Nel giugno del 776 Carlo era in Francia e si apprestava a fare un'altra spedizione contro i Sassoni, che,
ribellatisi l'ennesima volta, avevano occupato Eresburgo e assediato Sigeberg. Questo fierissimo popolo non
sapeva rassegnarsi al giogo franco e, guidato dall'eroe nazionale VITICHINDO, lottava disperatamente per
la propria indipendenza. Ma la lotta fu vana sebbene generosa. Carlo ancora una volta ebbe ragione del loro
valore e della loro tenacia e Vitichindo dovette porsi in salvo con la fuga.
Non meno fiera fu la guerra che Carlo dovette sostenere subito dopo contro i Mori di Spagna. Chiamato dai
Cristiani che si erano ribellati alla dominazione araba, il re tornò in Francia, ricostituì l'esercito e con il fior
fiore dei suoi guerrieri e dei suoi paladini ("comites palatini") valicò i Pirenei, prese Pamplona, Saragozza e
Barcellona e s'impadronì di tutto il territorio fino all'Ebro, cui conferì il nome di Marca di Spagna.
Ad arrestare i suoi successi giunse la notizia che i Sassoni si erano nuovamente e più gravemente ribellati.
Senza porre tempo in mezzo, Carlo si mise sulla via del ritorno, seguito a gran distanza dalla retroguardia,
affidata al comando dei suoi migliori capitani tra i quali rimase famoso il conte paladino Rodland, ("Orlando"),
che doveva divenire l'eroe di numerose leggende cavalleresche. Ma nella catena dei Pirenei e precisamente
nella gola sinistra di Roncisvalle la retroguardia franca fu assalita da una moltitudine schiacciante di Baschi e
dopo un'epica, disperata difesa, fu messa in rotta (15 agosto 778).
Gli scrittori ecclesiastici esagerarono l'importanza di questa guerra contro i Mori e nelle loro pagine Carlo e i
suoi paladini divennero gli strenui campioni della Fede cristiana contro gl'infedeli.
Ben presto intorno a questa guerra sorsero molte leggende che fornirono ricca materia alle "Chansons de
geste", cantate in giro da trovieri ("trouvères") e giullari ("joglers"), fra le quali famosa è la "Chanson de
Roland" che si vuole attribuire ad un Turoldo. In queste leggende campeggia più d'ogni altra la figura
d'Orlando, e la rotta di Roncisvalle assume l'aspetto di una battaglia gigantesca combattuta da titani.
Rodland, il prode conte della Marca di Bretagna, le cui gesta più tardi alimenteranno una rigogliosa fioritura
poetica e ispireranno la musa del Pulci, del Boiardo e dell'Ariosto, è il più forte dei paladini di Carlo e
possiede una spada infallibile ("Durendal") e un corno d'avorio ("olifant") il cui suono si ode a molte miglia di
distanza. E all'olifante dà fiato l'eroe nella giornata fatale, quando ogni umana resistenza è ormai vana. Ma è
troppo tardi perché Carlo possa giungere a tempo a portare aiuto alla sua retroguardia e Rodland soccombe
fra l'immane strage dei suoi compagni.
L'improvvisa comparsa del re franco arrestò le incursioni dei Sassoni i quali si erano spinti al Reno. Nel 779
in una gran battaglia combattuta a Bockholt, nella Westfalia. Carlo vinse i ribelli e nell'estate dello stesso
anno tenne sulla Lippe un'assemblea per riordinare il paese e dare impulso all'opera d'evangelizzazione.
Sul finire del 780, dopo avere allacciate relazioni con i popoli slavi di là dall'Elba, Carlo ritornava in Francia e
si preparava per un'altra spedizione in Italia, dove lo stato delle cose reclamava la sua presenza. Difatti
continuavano le discordie tra la S. Sede e il vescovo di Ravenna, un terremoto ed una grande carestia
avevano ridotto in gravi condizioni le popolazioni d'Italia e - ciò che più preoccupava Carlo -ARECHI, duca di
Benevento, aveva assunto un contegno che non poteva essere più tollerato. Questi difatti si era dato il titolo
di principe, aveva cominciato a batter moneta con il proprio nome, si era fatto consacrare e incoronare dai
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suoi vescovi e si era avvicinato ai Bizantini, i quali erano stati favoriti da lui e dal duca di Napoli nel ritogliere
Terracina al Pontefice.
ADRIANO I, come il solito, non aveva cessato di informare il re della situazione invocando la sua discesa in
Italia, non aveva mai tralasciato di ricordare le "giustizie di S. Pietro" e di pregare Carlo che avrebbe
mantenuto le sue promesse. In una lettera del maggio del 778 il Pontefice scriveva a Carlo della famosa
donazione di Costantino ed, esaltando i tempi di papa Silvestro, lo esortava ad emulare il grande imperatore
facendo riavere alla Chiesa romana tutte quelle cose che imperatori, patrizi ed altri, per la salute delle loro
anime e in remissione dei peccati, avevano concesso all'apostolo S. Pietro e alla Santa e Apostolica
Romana Chiesa nelle parti della Tuscia, di Spoleto, di Benevento, nella Corsica e nel territorio Sabino e che
erano state strappate dalla gente nefanda dei Longobardi.
Ed aggiungeva che nell'archivio del Laterano erano serbati molti documenti che comprovavano quelle
donazioni ("plures donationes in sacro nostro scrinio Lateranense reconditas habemus").
Finalmente nell'autunno del 780 CARLO passò le Alpi, accompagnato dalla moglie ILDEGARDA, dai due
figlioletti CARLOMANNO e LUDOVICO, dei quali il primo contava quattro anni, tre il secondo, e da molti
illustri personaggi della sua corte. Prima di recarsi a Roma fece un soggiorno d'alcuni mesi nell'alta Italia per
dare assetto alle cose del regno, emanando leggi con le quali intendeva provvedere ai bisogni del paese ed
applicando al regno longobardo capitolari già pubblicati in Francia. Provvedimenti importanti emanò in favore
della Chiesa autorizzandola a riscuotere le decime e determinando la dipendenza dei metropoliti dal Papa;
altri provvedimenti emanò per il mantenimento dell'ordine pubblico; sciolse le "gilde" che erano associazioni
segrete legate dal vincolo del giuramento e revocò le obbligazioni contratte a causa della grave crisi
economica, specie quelle di servitù, a contrarre le quali la miseria aveva spinto intere famiglie.
Col capitolare mantovano provvide al riordinamento dell'amministrazione della giustizia, a render più salda la
disciplina degli ecclesiastici e a restaurare gli ospedali e gli asili pei poveri.
Nella primavera del 781 Carlo si recò a Roma. Il sabato santo, che cadde ai 14 aprile, fu dal Pontefice
ribattezzato il piccolo CARLOMANNO che prese il nome di PIPINO, e il giorno dopo, a Pasqua, i due figli di
Carlo furono consacrati e incoronati, PIPINO RE D' ITALIA, LUDOVICO RE D'AQUITANIA, fatto questo di
grande importanza perché mostra come fin da allora era sorta nella mente del gran re l'idea della
restaurazione dell'impero d'Occidente e perché - come osserva il Romano - "creò il diritto papale alle
incoronazioni regie e imperiali e diffuse nei popoli l'opinione che spettasse alla Chiesa di sancire con il suo
intervento gli atti più solenni e i più importanti mutamenti degli stati".
Con queste cerimonie la posizione di Carlo moralmente si rafforzava ma in parallelo cresceva l'autorità del
Pontefice. Questi, oltre ai vantaggi morali, ottenne anche qualche vantaggio materiale: difatti ebbe dal re il
possesso della Sabina, caduta, al tempo di Liutprando, in potere dei Longobardi, e ottenne, che sarebbero
stati pagati alle casse della S. Sede anziché alla "curtis regia" i proventi del ducato spoletano e della Tuscia
longobarda.
Durante il soggiorno romano di Carlo avvenne un altro fatto di grande importanza. Al trono di Costantinopoli
alla morte di Costantino Copronimo era salito LEONE IV, il quale aveva regnato fino al settembre del 780. A
lui era successo il figlio decenne COSTANTINO PORFIROGENITO, del quale aveva assunto la tutela la
madre IRENE, bella, ambiziosa e di straordinaria energia. Irene, volendo consolidarsi sul trono, pensò di
procurarsi l'appoggio del Pontefice e del re dei Franchi. L'appoggio del primo poteva procacciarselo
revocando l'editto iconoclasta di Leone Isaurico, quello del secondo stringendo con lui legami di parentela.
Per conseguire i suoi scopi IRENE inviò a Roma due ambasciatori i quali chiesero per COSTANTINO
PORFIROGENITO la mano di ROTRUDE, figlia di Carlo. Un tale parentado se era vantaggioso per
l'imperatrice d'Oriente non lo era meno per il re dei Franchi che poteva così rendere innocuo Adelchi e
togliere al duca di Benevento l'amicizia di Costantinopoli.
Carlo accettò l'offerta di matrimonio e poiché questo non poteva esser celebrato per la giovanissima età dei
due fidanzati - Rotrude aveva appena otto anni - fu scambiata la promessa e fu stabilito che l'eunuco
ELISEO, notaio della corte bizantina, si sarebbe recato in Francia per insegnare alla futura sposa la lingua
greca e le usanze del paese.
Nella primavera del 781 Carlo lasciò Roma e si recò nell'Italia settentrionale dove rimase un mese e pubblicò
altri provvedimenti. Fra questi è degno di nota un privilegio concesso da Parma in data del 15 marzo agli
abitanti di Comacchio con la quale venivano regolate le loro relazioni commerciali con Mantova ed altri
paesi. A Milano il re fece battezzare la figlia GISLA, poi, lasciato a Pavia il piccolo re Pipino con un consiglio
di reggenza, nell'estate dello stesso anno fece ritorno in Francia.
Nel successivo autunno Carlo convocò a Worms una dieta generale, alla quale fu presente TASSILONE
duca di Baviera e genero di Desiderio, che rinnovò l'atto di sottomissione già fatto a Pipino. Pareva che nei
vasti domini franchi dovesse prosperare un periodo di pace quando improvvisa e furiosa scoppiò ancora
un'accanita rivolta dei Sassoni.
Fu la guerra più dura e lunga che Carlo dovette combattere contro quelle fiere popolazioni.
Durò dal 782 al 785 ed ebbe fasi con episodi sanguinosi, periodi di stasi e riprese violente. Carlo, deciso di
farla finita, si mostrò questa volta implacabile: il suo esercito invase più volte la regione che giace tra il
Weser e l'Elba, devastò le campagne, bruciò villaggi, decimò gli abitanti. In un sol giorno, nel 782, ben
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quattordicimilacinquecento Sassoni fatti prigionieri furono decapitati a Verdu. Anima della rivolta e duce
supremo dei Sassoni fu ancora VITICHINDO che combatté disperatamente e fece costar cara ai nemici la
vittoria. Alla fine, decimati e stanchi, i Sassoni deposero le armi e Vitichindo con la moglie e i figli si recarono
in Francia a fare atto di sottomissione e a ricevere il battesimo.
CONDANNA DELL' ICONOCLASMO CARLO E I BIZANTINI NELL' ITALIA MERIDIONALE I CONCILI DI
RATISBONA E FRANCOFORTE
Mentre Carlo combatteva contro i Sassoni, ADRIANO I cercava di trarre profitto dall'avvicinamento tra la
corte bizantina e la corte franca. Mirava a conseguire due scopi: a riavere i patrimoni ecclesiastici confiscati
dall'Isaurico nella Sicilia e nella Calabria e a porre fine alla scissione tra l'Occidénte e l'Oriente cristiano
provocata dalla dottrina dell'iconoclastia.
Come aveva più volte scritto a Carlo a proposito delle "giustizie di S. Pietro", così con lo stesso tono ora
scriveva all'imperatrice Irene perché restituisse i beni della Chiesa. Ma le sue richieste venivano avanzate in
un momento poco propizio, perché in Sicilia il patrizio ELPIDIO, ribellatosi, si era proclamato imperatore e da
Costantinopoli avevano mandato TEODORO contro il ribelle, che, alla fine, incalzato dalle truppe bizantine,
lasciava l'isola e, portandosi dietro il tesoro pubblico, si rifugiava presso gli Arabi d'Africa (chiedendo a loro di
intervenire per cacciare in modo definitivo i bizantini dall'Isola - ne riparleremo in un altro capitolo).
Miglior successo ebbero invece le trattative per comporre il dissidio religioso, ma dovettero passare alcuni
anni prima che si arrivasse ad una composizione. Questa fu solo possibile quando, dimessosi l'intransigente
PAOLO, salì al patriarcato di Costantinopoli TORASIO, devoto all'imperatrice.
IRENE convocò allora un concilio generale ed invitò il Pontefice a recarsi a Costantinopoli. Adriano, però
rifiutò l'invito e inviò come suoi rappresentanti un arciprete e un abate, latori di una lettera papale. In questa il
Pontefice difendeva il culto delle immagini dagli attacchi avversari, diceva di aderire al concilio, poiché altro
mezzo non c'era per far trionfare la dottrina di Roma, consigliava l'imperatrice di restituire i patrimoni della
Sicilia e della Calabria e di riunire le chiese di queste provincia e quelle dell'Illiria al patriarcato di Roma,
protestava contro il nuovo patriarca di Costantinopoli la quale aveva assunto il titolo di "ecumenico" spettante
solamente ai papi, esortava l'imperatrice e il figlio a revocare il decreto iconoclasta e terminava col affermare
che S. Pietro avrebbe concesso i suoi favori all'impero d'Oriente come li aveva concessi al cristianissimo re
dei Franchi.
Il concilio iniziò le sue sedute a Costantinopoli nell'estate del 786, poi fu continuato a Nicea e terminò nella
capitale dell'impero dove, il 24 ottobre del 787, ebbe luogo la seduta finale. Il concilio costituì uno dei più
grandi successi della Chiesa romana: alla presenza di ben trecentocinquanta vescovi, la maggior parte
orientali, e di moltissimi monaci ed abati, la dottrina iconoclasta fu condannata e fu ristabilito il culto delle
immagini dopo sessant'anni dalla legge che ne decretava l'abolizione.
Si era da poco iniziato il settimo concilio ecumenico, che abbiamo accennato, quando CARLO scese per la
quarta volta in Italia. Non è detto chiaramente nelle fonti il motivo che spinse il re dei Franchi a passare le
Alpi, ma essere sceso in Italia con un esercito possiamo capire il perché, anche perché di Longobardi in giro
non ce n'erano più, tanto meno ribellioni.
A lui non dovevano essere ignote le trattative tra il Pontefice e l'imperatrice Irene. Se da buon cattolico non
poteva che compiacersi della composizione che si tentava di fare nel dissidio tra la S. Sede e la corte
bizantina, come sovrano del regno longobardo (cioè dell'Italia) non poteva che nutrire preoccupazioni di un
riavvicinamento dal quale i Bizantini potevano poi essere indotti ad una pericolosa politica d'ingerenze nelle
cose d'Italia.
Lo preoccupava anche il contegno del duca di Benevento, il quale non solo si considerava principe
indipendente, ma voleva allargare i suoi domini e si trovava in guerra con il ducato di Napoli al quale tentava
di strappare il territorio di Amalfi.
Si rendeva pertanto indispensabile la presenza di Carlo in Italia sia per ridurre all'obbedienza il duca
beneventano, sia per affermare i diritti franchi su quella parte di penisola che era stata dei Longogardi, sia
ancora per ammonire Costantinopoli a non mettersi su una strada che avrebbe potuto portare ad un conflitto
con la monarchia carolingia.
Quando Carlo partì dalla Francia e che via seguì non lo sappiamo; ma che passasse da Pavia e che vi
soggiornasse qualche giorno è lecito supporlo. È certo però che Carlo passò il Natale del 786 a Firenze ed è
probabile che in quest'occasione abbia fatto donazione di quattro case alla chiesa di San Miniato in suffragio
dell'anima della moglie Ildegarda, morta nel 783 a breve distanza dalla madre Bertrada.
Da Firenze Carlo si recò a Roma e qui venne a trovarlo, mandato dal padre per fargli omaggio,
ROMUALDO, figlio del bellicoso duca ARECHI di Benevento. Il re volentieri avrebbe fatto a meno di una
spedizione nel ducato, impresa che si rendeva superflua dopo le promesse di sottomissione da parte del
duca; ma spinto dal Pontefice e convinto che avrebbe giovato al suo prestigio una dimostrazione di forza
nell'Italia meridionale, trattenne presso di sé Romualdo ed entrò alla testa del suo esercito nel ducato
beneventano.
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Arechi, che per non trovarsi fra due nemici, aveva stipulato un accordo col ducato di Napoli e per non farsi
cogliere alla sprovvista si era chiuso nella città fortificata di Salerno da dove gli sarebbe stata più facile
un'eventuale la fuga, inviò altri ambasciatori a Capua, dove era accampato Carlo e gli riuscì a concludere un
accordo con il quale lui si riconosceva vassallo del re e si obbligava a pagargli un tributo annuo di settemila
soldi d'oro e di consegnargli, oltre al figlio minore Grimoaldo, dodici ostaggi. Solo allora Romualdo fu lasciato
libero.
Fra le condizioni dell'accordo c'era anche la cessione da parte di Arechi alla Santa Sede di Aree, Aquino,
Arpino, Sora, Teano e Capua e dei patrimoni ecclesiastici di Benevento e Salerno; ma Carlo, forse per non
rendersi sgradito ai Beneventani, non si curò di fare eseguire questa cessione e per accontentare il
Pontefice che non aveva mancato di protestare, gli cedette Viterbo, Orvieto, Soana ed altre località della
Tuscia longobarda.
Nell'estate dello stesso anno Carlo, per Ravenna, Mantova e Pavia, faceva ritorno in Francia e nel luglio
convocava a Worms la dieta. A questa, sebbene invitato, non si presentò il duca di Baviera TASSILONE, il
quale, spinto dalla moglie, si era ancora ribellato al re franco. Ma la sua fu ribellione di corta durata. Dopo
averlo invano, anche tramite il Pontefice, ammonito di sottomettersi, Carlo si preparò ad invadere la Baviera
con un esercito raccolto nella Neustria. Altri due eserciti, dei quali uno era italiano, l'altro composto di
Sassoni, Turingi ed Austrasi, dovevano puntare sulla Baviera il primo da sud e l'altro da nord.
Questi preparativi spaventarono Tassilone che, mutato atteggiamento, il 3 ottobre del 787 si presentò a
Carlo e gli fece atto di sottomissione ottenendo il perdono e il ducato in cambio di ostaggi tra cui il figlio
Teodone.
Ma la sottomissione del duca di Baviera non era sincera. Scongiurato il pericolo dell'invasione, cominciò a
macchinare con gli Avari, con i Sassoni e forse con i Bizantini, i cui rapporti con i Franchi - essendo a quel
tempo andato a monte il matrimonio tra Costantino Porfirogenito e Rotrude - erano molti tesi.
Carlo, che era a conoscenza degli intrighi di TASSILONE, convocò l'assemblea del regno nel giugno del 788
e il duca di Baviera, allo scopo di non destar sospetti dei suoi maneggi, vi si recò. Ma era appena entrato nel
palazzo di Ingelhein, dove l'assemblea doveva riunirsi, che fu arrestato e disarmato. Più tardi l'assemblea lo
condannava come traditore e spergiuro alla pena capitale, che il re, con un ultimo atto di generosità,
commutò in quella di relegazione in un monastero. La stessa pena la subirono la moglie Liutperga e i
figliuoli. La Baviera diventò una provincia del regno franco.
v Era da poco più di un mese tornato Carlo dall'Italia quando (21 agosto del 787) cessava di vivere ARECHI,
preceduto nella tomba dal figlio ROMUALDO. Il governo del ducato beneventano fu assunto dalla vedova
Adelperga, donna energica ed accorta, la quale si affrettò a mandare ambasciatori al re perché lo
pregassero di far tornare dalla Francia, dov'era stato trattenuto da Carlo come ostaggio, Grimoaldo.
ADRIANO I, che non aveva abbandonato le sue pretese sulle terre del ducato di Benevento, sconsigliò il re
di rimandare il figlio di Arechi, scrivendo fra le altre cose a Carlo che la vedova macchinava segretamente
con la corte bizantina. Ma pare proprio che questa era -come al solito- esagerazione o pura invenzione.
Tentò è vero la corte di Costantinopoli di persuadere ADELPERGA ad avvicinarsi ai Bizantini per mezzo di
due spatari che da Agropoli si erano recati a Salerno, ma i due non vi riuscirono, e Carlo, assicuratosi che le
notizie del Pontefice non avevano alcun fondamento, rimandò a Benevento Grimoaldo, a patto però che lo
riconoscesse come sovrano, che mettesse il suo nome nei diplomi e nelle monete e in segno di fedeltà
doveva impegnarsi a far radere il mento ai Longobardi.
Nel maggio del 788 GRIMOALDO faceva ritorno al suo ducato, accolto con grandi dimostrazioni di gioia da
parte dei suoi sudditi. Proprio allora i Bizantini muovevano contro Benevento, comandati dal logoteta
GIOVANNI, da TEODORO patrizio di Sicilia e da ADELCHI; ma la loro spedizione doveva avere un esito
disastroso. Aiutato da una schiera di Franchi spedita da Carlo al comando di GUINIGISO e dalle truppe di
Spoleto guidate dal duca ILDEBRANDO, Grimoaldo mosse con i suoi alla volta della Calabria contro i
Bizantini e in una violenta e sanguinosa battaglia li mise in rotta. Le perdite subite dai Bizantini furono molto
gravi: quattromila morti tra cui il logoteta Giovanni e mille prigionieri. Adelchi scampato e ritornato a
Costantinopoli accantonò per sempre l'idea di riconquistare il regno paterno; passò il resto della sua vita
nella capitale bizantina.
Terminata l'impresa di Benevento. Carlo non riposa che per breve tempo: l'anno dopo (789) è contro i Vilzi e
nel 791 contro gli Avari che costituiscono una continua minaccia per il Friuli e la Baviera. Gli Avari sono
attaccati da due parti: dall'Italia muove contro di loro l'esercito di PIPINO che, entrato nella Pannonia,
sconfigge in battaglia il 23 agosto, il nemico mettendo insieme pure un ricco bottino; dall'Ems, dove si
trovava accampato, muove lo stesso CARLO che per cinquantadue giorni corre e devasta il territorio nemico
e lo abbandona solo quando un'epidemia scoppiata fra i cavalli lo consiglia al ritorno.
CARLO ha in animo di ritornare contro gli Avari l'anno dopo, ma altre vicende lo tengono occupato altrove
fino al 795. Nel 792 difatti è costretto a reprimere una congiura ordita dal proprio figlio naturale PIPINO, detto
il Gobbo, il quale, vinto, è poi relegato nel convento di Prumia; nel medesimo anno, mentre i Sassoni tornano
a ribellarsi provocando una guerra che durerà più di tre anni, Carlo deve mandare gli eserciti contro
GRIMOALDO, che ha ripreso il titolo di principe, ha sposato una nipote dell'imperatore d'Oriente e si è
apertamente ribellato ai Franchi togliendo dai diplomi e dalle monete il nome del re. Questa spedizione
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contro il duca beneventano finisce con un insuccesso prodotto da una grave carestia che costringe gli
eserciti dei due fratelli, i figli di Carlo, ad abbandonare l'impresa.
La guerra contro gli Avari fu ripresa nel 795 e durò fino al 797. La prima spedizione fu capitanata dal
valoroso ERICO, duca del Friuli, che, penetrato nella Pannonia, assalì e conquistò il campo trincerato del
nemico, impadronendosi delle immense ricchezze che vi si trovavano e che, mandate in Francia, furono da
Carlo date ai suoi devoti, ai vescovadi, alle abbazie, al Papa e ai poveri.
Una seconda spedizione fu condotta da Pipino, che riuscì ad espugnare un altro campo e ad impadronirsi
d'altre ingenti ricchezze nel 796. La terza ed ultima spedizione, avvenuta nel 797, ebbe ancora per capo
Erico, il quale sconfisse definitivamente gli Avari, del cui regno ora la storia non avrebbe fatto più parola. La
Pannonia fu annessa al regno franco e quella parte del popolo che non emigrò si sottomise a Carlo e per
opera del vescovo ARNONE di Salisburgo, innalzato poi alla dignità di metropolita della Baviera, si converti
al Cristianesimo.
Mentre badava ad estendere i suoi vasti domini e rafforzare in questi il suo potere, Carlo attendeva anche
all'organizzazione della Chiesa e si occupava di cose religiose. Di questa sua attività nel campo religioso
fanno fede i "Capitoli aquisgranesi" e i famosi "Libri carolini" e, più di questi, i concilii del 792 e del 794.
Il primo fu tenuto a Ratisbona e fu presieduto dallo stesso re: in questo fu condannata la dottrina dell'
"Adozionismo", sorta nella Spagna, che ammetteva la doppia natura di Cristo o sosteneva che, come Verbo,
era figlio di Dio, come uomo era figlio soltanto per grazia e volere del Padre. Il secondo fu tenuto a
Francoforte e raccolse un numero imponente di arcivescovi, vescovi ed abati di tutte le parti dell'Occidente
dipendenti dal re franco. In questo concilio fu nuovamente condannata l'eresia dell'"Adozionismo" e furono
discusse le decisioni del settimo concilio di Nicea sul culto delle immagini. In opposizione delle conclusioni
nicene fu approvata la dottrina dei "Libri carolini" in cui si sosteneva che le immagini dovevano essere
onorate, non adorate.
Più che dal lato dottrinario questo concilio ha per noi grande importanza dal lato politico. E quest'importanza
la riconobbe lo stesso Pontefice, il quale, stimando prudente non schierarsi contro Carlo, gli scriveva che
non aveva approvato gli atti del concilio niceno perché la corte bizantina non aveva restituiti alla Santa Sede
i patrimoni della Sicilia e della Calabria e non aveva riunito l'Illiria al patriarcato di Roma.
Il Papa sapeva benissimo che il re, con il concilio di Francoforte, più che risolvere una questione dottrinale,
aveva voluto prendere una posizione contro la corte di Costantinopoli, affermando che l'autorità di Carlo in
Occidente si estendeva non solo sullo stato ma anche sulla Chiesa.
Contro quest'autorità che così energicamente si manifestava, era inutile anzi era pericoloso elevare proteste.
ADRIANO I non ci pensò neppure; se anche ci avesse pensato e intenzionato a fare qualcosa per rialzare il
prestigio del Papato, eclissato dalla potenza del re, non avrebbe avuto tempo di agire: la morte lo colse il 23
dicembre del 795.
Ventiquattro anni erano passati dalla sua elevazione al pontificato e appena diciotto mesi dal concilio di
Francoforte.
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
WACHER -Storia del mondo romano - Laterza 1989
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
CARLOMAGNO IMPERATORE - L'ITALIA - VENEZIA ( dal 795 al 814 )
IL PAPA LEONE III E LA SUA POLITICA VERSO CARLO - COSPIRAZIONE CONTRO IL PONTEFICE LEONE III A PADERBORN - RITORNO DEL PAPA E PROCESSO CONTRO PASQUALE E CAMPULO CARLOMAGNO A ROMA - IL NATALE DELL'800: CARLOMAGNO IMPERATORE - GIUDIZI
SULL'AVVENIMENTO - RIORDINAMENTO D'ITALIA - ISTITUZIONI FRANCHE E ORDINAMENTO DELLO
STATO CAROLINGIO - LA DIFESA DELLE FRONTIERE E DELLE COSTE - CARLOMAGNO E IRENE NICEFORO IMPERATORE D'ORIENTE - LE RELAZIONI DI CARLO CON I PRINCIPI MUSULMANI - LE
VICENDE DI VENEZIA NEL SECOLO VIII - I FRANCHI E VENEZIA - GUERRA TRA VENEZIA E PIPINO TRATTATIVE FRA AQUISGRANA E COSTANTINOPOLI - L'ATTO DI DIEDENHOFEN - BERNARDO RE
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D'ITALIA - INCORONAZIONE DI LUDOVICO E MORTE DI CARLOMAGNO - PERSONALITÀ STORICA DI
CARLOMAGNO: IL GUERRIERO, L'UOMO POLITICO, IL LEGISLATORE, IL PROTETTORE DEGLI STUDI
------------------------------------------------------------------LEONE III - CARLOMAGNO IMPERATORE
Il giorno dopo la morte di ADRIANO I, avvenuta il 26 dicembre del 795, fu eletto pontefice con unanimità di
suffragi LEONE III, un prete romano che ricopriva la carica di "vesterario" della Curia, piuttosto osteggiato
dalla nobiltà romana, timorosa di perdere la quella preminenza goduta - per circa 23 anni - sotto il
precedente papa.
LEONE saliva al soglio pontificale quando CARLO era all'apogeo della sua potenza (non dimentichiamolo)
ed aveva ridotto sotto il suo scettro quasi tutta l'Europa occidentale, reggendo con mano salda un insieme
così vario di popoli.
Ma dobbiamo anche rilevare che grandi e importanti guerre non c'erano state. Molti dei suoi successi furono
alcuni fortunati, altre risolti con spregiudicatezza e altri ancora con un abile . Nel regno Franco, un buon
terreno lo aveva preparato già suo padre Pipino il Breve, poi alla morte del fratello Carlomanno costrinse alla
fuga i suoi figli, incorporò i suoi domini e si fece proclamare unico re dei Franchi. Su sollecitazione del Papa,
piuttosto assillante, e con sue mire precise, scese in Italia contro i Longobardi che erano già sull'orlo del
disastro e li sconfisse, senza avere grandi fastidi dai bizantini che erano messi male più degli stessi
Longobardi, alle pre con gli Avari, gli Arabi e le congiure di Palazzo.
Morto Adriano, che in ventitré anni era stato un potenziale antagonista dei Bizantini dei Longobardi e dei
Franchi (spesso utilizzati dal papa contro gli altri due), volendo allargare i suoi domini, Carlo si ritrovava così
ad essere l'unica vera autorità che era rimasta in Occidente e in Oriente, senza aver fatto molto.
Di campagne n'aveva fatte già tante, circa 50, ma brevi qui e là, al sud al nord sui Pirenei, contro piccoli
popoli, con qualche battaglia vinta, ma moltissime anche perse; e a Saragozza e a Roncisvalle aveva
sofferto anche due clamorose disfatte. Ma nonostante tutto questo era il sovrano che ora aveva i più vasti
domini.
Di fronte a Carlo, LEONE III il nuovo papa, assunse fin dall'inizio del suo pontificato un contegno molto
dimesso che Gregorio Magno ed altri grandi Papi gli avrebbero certamente rimproverato. Inoltre (comincia
malissimo, ma finirà bene) riconobbe senz'altro la superiorità del re sui Pontefici e di questo riconoscimento,
oltre alle prove costituite dalla condotta di LEONE, abbiamo una preziosa confessione nel famoso mosaico
lateranense di cui ci rimane una riproduzione eseguita nel 1743 che trovasi nella Piazza di Porta S. Giovanni
in Laterano. Il mosaico raffigura a destra Cristo tra Papa Silvestro e l'imperatore Costantino, al centro Gesù
che benedice gli Apostoli e tiene in una mano un libro su cui sta scritto "Pax vobis", a sinistra S. Pietro tra il
papa LEONE III e CARLO inginocchiati ai suoi piedi che dà al primo una stola e al secondo una bandiera.
Sotto sta scritto, in barbaro latino: Beate Petre donas vitam Leoni p. p. et bictoriam Carulo Regi donas".
Appena eletto, LEONE, insieme alla lettera, in cui annunziava la morte di Adriano e il suo innalzamento al
soglio e "prometteva fedeltà ed obbedienza" (!), mandò a Carlo le chiavi della Confessione di San Pietro e il
vessillo della città. Nello stesso tempo il Pontefice - secondo quello che scrive lo storico EGINARDO pregava di mandare a Roma uno dei suoi Grandi per ricevere il giuramento di fedeltà e di sottomissione del
popolo romano (ut aliquem de suis optimatibus Romam mitteret, qui populum romanorum ad suam fidem
atque subiectionem per sacramenta firmaret").
Carlo fu molto addolorato per la morte di Adriano ed ordinò che fosse posta sulla sua tomba una lapide con
un'epigrafe a lettere d'oro. A Roma inviò un dottissimo uomo, l'abate ANGILBERTO, che doveva
raccomandare al nuovo Pontefice di vivere santamente, di osservare scrupolosamente le leggi canoniche e
doveva consegnargli una lettera in cui, fra l'altro, era scritto: "Angilberto si reca da Voi per parlare di tutto ciò
che crederete necessario all'esaltazione della Santa Chiesa e di Dio, alla stabilità della vostra dignità e del
vostro patriziato. Noi vogliamo con voi, come già con il vostro predecessore, stringere legami d'amicizia ed
avere la vostra benedizione. A noi spetta, con l'aiuto dell'Amore Divino, difendere di fuori con le armi la
Chiesa di Cristo contro le invasioni dei pagani e le offese degli infedeli, e di dentro proteggerla con la
conservazione della fede cattolica. A Voi, o Santissimo Padre, spetta di assistere le nostre milizie con le
mani levate al cielo come Mosé, affinché il popolo cristiano, guidato e protetto da Dio per mezzo della vostra
intercessione, possa dovunque e sempre ottenere vittoria contro i nemici del suo santo nome..".
Non c'è chi non veda l'importanza di questa lettera, nella quale sono nettamente definiti i limiti del potere
regio e del potere papale. Il Pontefice doveva, - secondo Carlo essere e rimanere il capo spirituale della
Chiesa, invece il re doveva essere, e lui solo, il difensore della Chiesa, fuori e dentro. Dopo il concilio di
Francoforte questa lettera rappresentava il colpo più grave alle aspirazioni temporali del Papato, il quale di
giorno in giorno diventava più debole di fronte alla potenza sempre crescente del re franco.
Questa potenza era senza dubbio la causa principale del contegno remissivo del Pontefice, ma non era la
sola. A questa vanno aggiunte la sua debolezza e le difficoltà che lo costringevano a mettersi sotto la
protezione del re.
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Del Papa erano fierissimi avversari due nipoti di Adriano, TEODORO e PASQUALE, che durante il
pontificato dello zio avevano goduto grandissima autorità, specie il secondo che era salito alla carica di
primicerio dei notai. Non potendo più spadroneggiare sotto il nuovo Pontefice, Pasquale, aiutato dal
sacellario CAMPULO, aveva cercato di trarre profitto dalle ambizioni dei "judices de militia" e di alcuni
"judices de clero" per abbattere LEONE III. Tutti costoro prima avevano accusato il Papa di spergiuro e di
adulterio presso Carlo; non essendoci riusciti, cercarono di sopprimerlo.
Il colpo fu tentato il 25 aprile del 779. Accompagnato da Pasquale e da Campulo seguito dal clero
salmodiante, LEONE III procedeva a cavallo per la via da S. Giovanni in Laterano a S. Lorenzo in Lucina,
quando, presso S. Silvestro in Capite, fu improvvisamente assalito da uno stuolo di armati, che lo gettarono
a terra e lo ferirono gravemente, poi, d'accordo con Pasquale e Campulo, gli assalitori trascinarono il
Pontefice nel convento di Sant' Erasmo.
Guarito delle sue ferite, per mezzo dell'aiuto di alcuni suoi familiari e del ciambellano Albino, Leone III riuscì
ad evadere dal convento calandosi con una fune dalle mura claustrali e rifugiarsi a S. Pietro, da dove poi fu
condotto a Spoleto dal duca GUINIGISO, accorso a Roma con una schiera di armati alla prima notizia del
grave fatto. Da Spoleto fu mandata un'ambasceria a Carlo, per informarlo degli avvenimenti di Roma e del
desiderio che aveva il Pontefice di conferire con lui. Il re rispose che se fosse stato libero sarebbe venuto in
Italia; ma era impedito da una spedizione che stava per fare contro i Sassoni ribelli.
Allora Leone prese lui la via della Francia per avere un incontro con il sovrano.
Alla notizia del suo avvicinarsi, Carlo gli mandò incontro prima l'arcivescovo ILDIBALDO di Colonia e il conte
ASCARIO, poi il figlio PIPINO con una schiera di soldati. Da questi il Pontefice fu accompagnato a
Paderborn, dove giunse nel mese di luglio e fu accolto con grandi onori dal re e dall'esercito cui impartì la
benedizione.
Nulla sappiamo dei colloqui avvenuti tra il re e il Papa, ma supponiamo che abbia chiesto al sovrano aiuto e
protezione. Carlo non doveva certamente essere maldisposto dall'accordare al Pontefice quanto chiedeva;
ma da Roma gli arrivarono le accuse contro il Papa e le richieste di indagare sulla sua -dicevano i maligniindegna condotta, e che il re di Francia non poteva disinteressarsi di una faccenda così grave che gli dava
occasione di confermare la sua alta autorità sugli affari di Roma e della Chiesa.
Naturalmente prima di prendere una risoluzione, Carlo si consigliò con uno degli uomini più dotti e più devoti
alla sua persona, ALCUINO, il quale in proposito indirizzò al sovrano una lettera molto importante: "…Fino
ad ora - scriveva il monaco ALCUINO - vi sono stati nel mondo tre potentati: il Vicario di San Pietro, oggi in
modo sacrilego ingiuriato e malmenato; l'imperatore, laico, dominatore della nuova Roma (Costantinopoli), il
quale in modo non meno barbaro, fu balzato dal trono, sul quale fu messa una donna; e infine la regia
dignità di Gesù Cristo affidata a Voi per reggere il popolo cristiano. Essa ora sovrasta a tutti in sapienza e
potenza. Dunque in voi è riposta la salute della Cristianità. Bisogna pertanto che prima pensiate a guarire il
capo (Roma); dopo penserete a guarire i piedi (i Sassoni)…"
Alcuino alludeva in questa lettera agli avvenimenti di Costantinopoli. L'imperatrice Irene, esclusa dal governo
per ordine del figlio COSTANTINO IV, era riuscita il 15 aprile del 797 a fare assalire il figlio da una masnada
di armati che gli avevano strappati gli occhi e lo avevano chiuso in un convento; poi si era proclamata lei
imperatrice, rivestendo le insegne e comunicando a Carlo della deposizione del figlio.
Carlo, pur costatando quanto di giusto vi era nel consiglio di Alcuino, non volle ritardare la spedizione contro
i Sassoni; ma non volendo neppure che si prolungasse la situazione anormale di Roma, fece partire il
Pontefice dandogli in compagnia gli arcivescovi di Colonia e di Salisburgo, cinque vescovi e tre conti, i quali
avevano avuto incarico dal sovrano di processare gli autori e gl'ispiratori dell'attentato alla vita del Papa e di
stabilire la verità sulle accuse che si movevano contro Leone III.
Il viaggio di ritorno del Papa fu trionfale; i personaggi che lo accompagnavano erano la prova del favore del
re, e a Roma questo mutò talmente gli animi in favore del Pontefice che, quando il 29 dicembre di quello
stesso anno giunse al ponte Milvio, gli vennero incontro il clero, i nobili, l'esercito e il popolo.
Leone III si recò a S. Pietro, dove impartì la benedizione, e il giorno dopo fece il suo solenne ingresso a
Roma e dirigendosi al Laterano. Qui, finite le feste e le cerimonie, alcuni giorni dopo ebbe inizio il processo:
Pasquale e Campulo, presentatisi, rinnovarono le accuse contro il Pontefice, ma non avendo potuto provarle
e risultati i responsabili dei fatti del 5 aprile, furono arrestati e mandati in Francia. Dopo questo fatto
ovviamente il processo fu sospeso, spettando al re di emettere la sentenza.
Carlo era trattenuto di là dalle Alpi dalle operazioni contro i Sassoni e dalle misure di difesa che era
obbligato a prendere dalle incursioni dei Saraceni e dei Normanni. Un lutto colpi anche la sua casa il 4
giugno dell'800: morì la terza moglie legittima Liutgarda che aveva sposato dopo la perdita della seconda
moglie, Fastrada, avvenuta il 10 di agosto del 994.
Nell'estate dell'800 il sovrano annunziò in un'assemblea tenuta a Magonza che presto si sarebbe mosso
verso l'Italia. Due motivi ve lo chiamavano: il processo romano che aspettava di esser chiuso, e la ribellione
di GRIMOALDO, figlio di Arechi. La partenza di Carlo avvenne nell'autunno: alla testa di un forte esercito
mosse da Magonza e, passate le Alpi, si diresse verso Ravenna dove si fermò una settimana. Qui affidò
parte delle sue truppe al figlio Pipino, che accompagnò il padre fino ad Ancona, poi lungo il litorale adriatico
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scese nell'Italia meridionale. Da Ancona, con il resto dell'esercito, il re si avviò alla volta di Roma. Lo
accompagnava il primogenito CARLO.
Il 23 novembre giunse a Nomento, a quattordici miglia da Roma, dove gli andarono incontro il Pontefice, il
Clero, il popolo, l'esercito; poi Leone III, rientrò in città. Il giorno dopo Carlo entrò solennemente in San
Pietro, ricevuto dal Papa e da numerosi prelati tra una folla che applaudiva e cantava. Alcuni giorni dopo, il
1° dicembre, il re riunì nella basilica di S. Pietro una numerosa assemblea di arcivescovi, vescovi, abati, preti
e nobili romani e franchi e disse di esser venuto, come Patrizio di Roma e difensore della Chiesa, per
giudicare le accuse mosse contro il Pontefice e ristabilire l'ordine nella metropoli. Anche questa volta gli
accusatori, che erano stati ricondotti a Roma dalla Francia, furono interrogati ma non riuscirono a provare le
loro accuse. Invitati a decidere, i prelati si rifiutarono affermando che non era loro permesso di giudicare
colui che era invece il loro giudice.
La seduta fu tolta senza aver deciso nulla, ma il 23 dicembre, nella chiesa di S. Pietro, al cospetto del
sovrano, dei nobili, dei dignitari della Chiesa e del popolo, il Pontefice, salito sull'ambone, da cui circa due
secoli e mezzo prima Pelagio I aveva giurato di non aver preso parte all'uccisione di papa Vigilio, giurò
solennemente di essere innocente delle colpe che gli attribuivano i suoi accusatori. A quel giuramento la
chiesa risuonò delle litanie cantate dal clero in ringraziamento a Dio e alla Vergine. PASQUALE, CAMPULO
e i loro seguaci furono condannati per delitto di lesa maestà alla pena capitale che però per intercessione
dello stesso Leone fu commutata in quella dell'esilio.
Due giorni dopo, nella ricorrenza del Natale, Carlo ascoltò in S. Pietro la messa celebrata dallo stesso
Pontefice, poi si recò con lui alla tomba dell'Apostolo. Aveva il re finito appena di pregare e stava per levarsi
in piedi quando Leone III gli pose sul capo una splendida corona d'oro, indi, inginocchiato davanti a lui, lo
venerò.
Il popolo presente alla scena acclamò vivamente pronunziando per tre volte la formula delle incoronazioni
imperiali: "Carolo, piissimo, augusto, a Deo coronato, magno pacifico imperatori vita et vittoria".
All'incoronazione di Carlo seguì l'incoronazione e la consacrazione del primogenito che portava lo stesso
nome.
Molto si è scritto sull'incoronazione di Carlomagno, che è un importantissimo avvenimento, che inizia un'era
nuova nella storia del mondo. Ci fu chi volle ridurre le proporzioni dell'evento ad una semplice ovazione
preparata dal Pontefice per propiziarsi il re, ci fu chi affermò che diversa sarebbe stata la storia del mondo
senza quell'incoronazione. Infinite discussioni furono provocate da un "passo" di EGINARDO in cui è detto
che Carlo si mostrò così contrariato dall'atto compiuto dal Pontefice a insaputa sua, da dichiarare che se
avesse potuto sospettarlo non sarebbe quel giorno entrato a S. Pietro ("tantum adversatus est, adfirmaret,
se eo die, quamvis precipua festivitas esset, eeclesiam non intraturum, si pontificis consilium prescire
potuisset").
Alcuni credevano che fosse un'invenzione l'affermazione di Eginardo, altri pensarono che lo sdegno del re
fosse una commedia ben giocata per mascherare la sua ambizione; chi paragonò il re a Tiberio, il quale
diceva, di voler ricusare l'impero che pur tanto desiderava, e chi trovò una certa analogia tra la cerimonia del
natale dell'800 con la tentata incoronazione di Giulio Cesare da parte di Marc'Antonio e con quella di
Cromwell che rifiutò la corona offertagli dal parlamento. Infine ci furono alcuni che vollero sostenere la
legalità della proclamazione affermando che fu fatta dal Senato e dal popolo romano; ci furono altri, che,
appoggiandosi su un passo di GIOVANNI DIACONO, pensarono che l'incoronazione fu preparata da Carlo e
da Leone III nel convegno di Paderborn; altri ancora, prestando fede all'asserzione di Eginardo, lessero nello
sdegno del re la preoccupazione per la posizione che l'autorità papale veniva ad acquistare di fronte alla
dignità imperiale.
Tutti questi giudizi prestano evidentemente il fianco alla critica. La testimonianza di GIOVANNI DIACONO,
per essere egli del nono secolo e non bene informato della quarta discesa in Italia di Carlo non merita una
seria considerazione; d'altro canto EGINARDO è annalista troppo coscienzioso per non essere creduto. Il
paragone con Cesare e Cromwel non regge per il solo fatto che questi rifiutarono la corona mentre Carlo
l'accettò. Non regge neppure il tentativo di legalizzare la proclamazione di Carlo perché il Senato romano
dell'800 è tutt'altra cosa del Senato dell'epoca imperiale e il titolo di senatore era puramente onorifico, da
anni non contava assolutamente nulla.
Sulla pretesa preoccupazione del re per le possibili conseguenze dell'intervento del Papa ci piace riferire le
acute osservazioni del ROMANO: "Che Carlo, nel suo presago istinto di uomo di stato, potesse, come fu
detto, prevedere, che quell'intervento avrebbe potuto costituire un pericoloso precedente: che il papa
sarebbe apparso come arbitro del conferimento della corona imperiale, ma è una considerazione e un
apprezzamento tutto moderno, di cui non si trova alcuna traccia nelle fonti. I contemporanei, in generale,
sono i meno adatti a comprendere l'importanza degli avvenimenti che si svolgono sotto i loro occhi, e
nessuno, nell'anno 800, non esclusi coloro che ne furono gli attori principali, avrebbe previsto che da quella
incoronazione romana cominciava una nuova Era nella storia d'Europa.
Fu solo più tardi, quando la dignità imperiale acquistò un'importanza di gran lunga superiore, e si arrogò dei
diritti (teorici) illimitati su tutta l'Europa cristiana e quando di fronte ad essa si elevò la potenza della Chiesa,
che pretese, in nome della sua missione spirituale, di assumere anche la direzione civile e politica della
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società umana; fu allora soltanto che venne a galla il grande equivoco che si celava nell'incoronazione
romana di Carlo, e le menti degli storici e degli statisti, risalendo il corso dei secoli si fermarono al Natale
dell'800 come al punto di partenza di tutto lo svolgimento posteriore. Allora accanto alla teoria dell'elezione
popolare di Carlo sorse, grandeggiò e prevalse l'altra che faceva del papa il dispensatore dei regni e delle
corone. Rimase d'allora in poi la convinzione che l'imperatore, se voleva esser tale e come tale esser
legalmente riconosciuto, doveva ricevere la corona a Roma e riceverla dalle mani del successore di S.
Pietro…".
(Perfino lo stesso Napoleone, pur non dando nessun peso ai precedenti, perché ripartì dall'autorità degli
Imperatori Romani, scriveva, che non si era imperatori se non si passava prima da Roma (anche se in effetti
voleva Roma!). Non perché era un religioso, ma perché da accorto uomo politico, sapeva che il cattolicesimo
e legato a questo il Papa, la religione era nel Dna dei popoli.
Non per nulla Napoleone ha voluto essere consacrato dal Papa: non per un gesto vano, privo di qualsiasi
intimo significato; non per un cerimoniale che, svuotato dal suo contenuto religioso, non avrebbe più ragion
d'essere; ma, come gli imperatori del medio evo, eredi dell'autorità imperiale romana, egli vuole l'unione e la
collaborazione del temporale con lo spirituale: toglie il temporale allo spirituale, perché lo rivendica alla unica
autorità capace di esercitarlo, quella imperiale, ma vuole anche giustificare e rafforzare il temporale con la
consacrazione spirituale. Concetto nel quale rivive veramente tutta la tradizione Romana antica e moderna,
la Roma dei Cesari e quella dei Pontefici, valere a dire, tutta la vera, profonda "romanità".
Concetto romano "nuovo", nel senso di una Roma cristiana che ha ereditato l'universalità della Roma
classica, infondendogli un contenuto divino. Concetto, e anche su questo bisogna insistere, perché è
rivelatore dell'eredità italiana del còrso Napoleone, che è affine a quello del Petrarca e di Dante, scrittori che
Napoleone conosce poco, ma che egli lo ritrova inconsciamente in se stesso, poiché scaturisce dalle sue
origini lontane, oseremmo dire quasi dal suo sangue, come una filiazione misteriosa. L'unico contrasto, fu
quello che Napoleone voleva la sovranità su Roma, "perchè necessaria all'Impero" e non poteva questo
concepirlo, con l'Italia senza Roma, indissolubilmente congiunte e al centro di quell'Impero che N. voleva
ricreare nel Mediterraneo; senza Roma il suo non era un Impero! Visto che guardava e concepiva quello
Romano.
Napoleone (qui la sua ostilità) voleva che il Papa rendesse a Cesare quello che era di Cesare. "Non sarò il
Carlomagno" -scrisse ad Eugenio- non siamo al secolo IX, e nemmeno sarò il Louis le debonnaire". (Il Luigi
di Francia bonaccione)
E facciamo notare che -come territori- la situazione era quasi la stessa di quella di Carlomagno. Invece molto
più agguerriti, i nemici, erano grandi Potenze).
Se si vuole prestar fede ad ogni costo alla notizia di EGINARDO, non si deve però dare alle sue parole
un'interpretazione letterale e concludere con il dire che CARLO era all'oscuro delle intenzioni del Pontefice e
non ambiva alla dignità imperiale. Se non l'avesse desiderata o voluta avrebbe potuto benissimo imitare il
gesto di Cesare e rifiutare la corona.
Non la rifiutò, né per sé né per il figlio, perché la desiderava e perché più volte, con molta probabilità, aveva
pensato a farsela dare, e ne aveva parlato con i suoi consiglieri e forse - perché no ? - con il Pontefice
medesimo.
Se non imitò Cesare ciò fu perché diversi erano i tempi e le condizioni. Giulio Cesare accettando la corona,
avrebbe commesso un atto rivoluzionario pericolosissimo, perché se le libertà repubblicane erano di fatto
cessate, non erano state abolite le istituzioni della gloriosa repubblica, non era finito il culto di essa presso i
Romani e ispirava un'avversione inconscia il titolo di monarca. In prima fila Tacito.
Napoleone con Tacito fu implacabile proprio per questa sua vocazione fortemente critica, e difese gli
imperatori contro lo storico -scrive- che "li ha sistematicamente denigrati....non ha capito l'impero e ha
calunniato gli imperatori -come non avevano capito gli assassini di Cesare- Tacito è della minoranza del
vecchio partito di Bruto e Cassio. E' un senatore scontento, uno che si vendica quando è nel suo studio con
la penna in mano" - Napoleone lo disprezza, lo paragona a quegli intellettuali dei ritrovi e dei salotti.... che "ci
racconta tutti i mali degli imperatori, ma non una sola cosa ben fatta da questi. Sì, penetra nella loro anima,
ma solo per rivelarci che sono di natura malvagia".
"Conoscete voi un più violento e più ingiusto detrattore della umanità? Alle azioni più semplici trova mille
motivi colpevoli. Fa di tutti gli imperatori uomini profondamente perversi, per farsi ammirare il suo genio che
ha saputo penetrarli... Ha ragione chi afferma che i suoi annali non sono una storia dell'impero, ma uno
specchio fedele dei tribunali di Roma...Lui che parla continuamente di delazione è il primo dei delatori".
(Napoleone, Memoriale di San'Elena).
Mille anni prima forse pensava le stesse cose Carlo. Ma diversa invece era la situazione. Egli era re dei
Franchi e dei Longobardi, era il sovrano di quasi tutto il territorio che aveva una volta formato l'impero
d'Occidente, e l'idea imperiale era sempre viva in Italia e specialmente a Roma. Era, sì, finito da oltre tre
secoli quest'impero ed era solo rimasto quello d'Oriente, di cui l'Italia ancora, almeno teoricamente, faceva
parte; ma bisognava pensare che sul trono di Costantinopoli c'era una donna, che l'aveva usurpato e si era
macchiata del sangue del figlio, che una donna non aveva mai esercitato legalmente il potere imperiale e
che perciò l'impero si poteva considerare vacante.
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E Carlo era patrizio di Roma e se anche questa fosse stata ancora effettivamente alle dipendenze di
Costantinopoli cadeva l'obbligo di subordinazione del patriziato all'impero una volta che illegale era la
posizione di chi lo reggeva.
Queste del resto sono considerazioni che, anche se fatte da Carlo o dai consiglieri o dal Pontefice, forse non
potevano avere gran peso sugli avvenimenti. La verità è che Roma era ormai -psicologicamente e di fattosciolta da ogni legame con Costantinopoli, che il vero padrone di Roma e di gran parte dell'Italia era Carlo,
che l'impero bizantino non faceva più paura, che Carlo era in quel momento il monarca più potente del
mondo, che lui era il difensore vero della Cristianità e il protettore della Chiesa, che insomma nelle sue mani
"stava la forza" e appunto per questo motivo solo lui era in grado di disporre di un titolo come aveva disposto
delle sorti di Roma e dell'Europa occidentale.
Per concludere noi pensiamo, confortati dall'opinione di altri, che Carlo aveva da tempo pensato di assumere
la dignità imperiale, che ne aveva fatto parola ai suoi consiglieri, che il Pontefice, se non dalla bocca di lui,
era venuto a conoscenza del proposito di Carlo dalla bocca delle persone che stavano vicino al sovrano, che
infine Leone III, impaziente di offrire a Carlo la propria riconoscenza di averlo salvato da una critica
situazione, affrettò, di concerto con gli intimi del re, la cerimonia dell'incoronazione stabilita forse per una
data indeterminata. Nelle parole di EGINARDO noi vediamo, anziché lo sdegno, la sorpresa del re franco; e
sorpresa lieta sia per la grandiosità della cerimonia sia perché questa coronava i suoi desideri e realizzava
quei disegni che senza dubbio fin dal 774 aveva formulato.
RIORDINAMENTO D'ITALIA - ISTITUZIONI FRANCHE ORDINAMENTO DELLO STATO CAROLINGIO
Carlomagno si fermò a Roma tutto l'inverno, durante il quale attese a dare assetto alle cose di Roma, del
Papa e d'Italia, non solo ecclesiastiche ma pubbliche e private ("ordinatis deinde Romance urbis et apostolici
totiusque Italiae non tantum publicis sed etiam ecclesiasticis et privatis rebus").
Fondamento della concezione carolingia dell'Impero è fin dal primo momento la compenetrazione di Stato e
Chiesa che si manifesta con la stretta associazione tra doveri religiosi e obblighi civili. Tutti i sudditi, dall'età
di 12 anni, prestano giuramento di fedeltà all'imperatore: in esso è precisato che il fedele deve servire Dio,
obbedire ai comandamenti della Chiesa, sottostare al servizio militare, pagare l'imposta e accettare il
"banno" espressione della pubblica autorità.
È di questo tempo una seconda spedizione comandata da Pipino contro il ducato di Benevento. La prima
non aveva avuto esito felice a causa di una pestilenza scoppiata fra le truppe franche; quest'altra portò alla
presa di Teate (Chieti), che fu data alle fiamme, e dei castelli del suo territorio. Roselmo, comandante di
Teate, fu fatto prigioniero e relegato in Francia.
Dopo la Pasqua dell'801, l'imperatore lasciò Roma e per Spoleto e Ravenna si recò a Pavia dove giunse nel
giugno. Qui assunse il titolo di "Serenissimo, augusto, coronato da Dio grande, pacifico imperatore dei
Romani, e re, per grazia divina, dei Franchi e dei Longobardi". Accanto a questo titolo troviamo, per la prima
volta, nel "Capitolare Italicum" dell'801, quello di "Rex Italiae". Questo "Capitolare" fu pubblicato a Pavia e
servì a colmare le lacune lasciate dagli editti dei re longobardi.
Forse nello stesso anno fu compiuta l'opera di riordinamento dell'Italia, iniziata già da circa cinque lustri. Il
mutamento più importante fu la sostituzione dei duchi longobardi con i conti franchi: i gastaldi e gli sculdasci,
con il nome di "vicarii" e di "centenarii", rimasero come semplici amministratori dei conti. Nel riordinare il
regno Carlo mirò a rendere più forte ed unito il governo, a scemare la potenza e l'autonomia dei ducati, e a
procurarsi la devozione dei sudditi. I beni confiscati ai ribelli li diede a suoi fedeli chiamati "vassalli", che
dipendevano direttamente da lui ed erano scelti tra i Franchi. Sui conti, sui vassalli e sulle persone del loro
seguito, stabiliti in numero non poco in Italia, Carlomagno contava moltissimo e su di essi egli fece il
contrappeso all'aristocrazia longobarda, che cercò di attirare sempre più a sé.
Non meno che sui conti e sui vassalli l'imperatore contava sul favore del clero. Lo chiamò a partecipare ai
consigli regi ed alle assemblee nazionali, allargò la giurisdizione vescovile, ingrandii beni delle chiese e dei
monasteri e alle chiese accordò l' "immunità", l'esenzione cioè dai carichi pubblici e l'amministrazione della
giustizia nei territori di loro proprietà.
Base dell'ordinamento amministrativo sotto i Carolingi in Italia, come del resto in tutte le altre parti del vasto
impero, fu il "comitato". Le contee dipendevano direttamente dal re ed erano rette dai conti ("comites"), che
ne avevano l'amministrazione, tenevano il comando militare e, per delegazione del sovrano, rendevano nei
casi più importanti la giustizia. Il conte radunava, non più di tre volte l'anno, in assemblea generale ("placitum
generale"), gli uomini liberi della contea e qui giudicava; ma nei casi ordinari era assistito da magistrati di sua
scelta detti "scabini", che da temporanei divennero in seguito permanenti. Contro le sentenze del conte c'
era facoltà di appello al giudizio di Dio e al re.
Ufficiali intermedi che servivano di collegamento tra il governo centrale e quello delle contee e nello stesso
tempo di controllo all'operato dei conti, erano i "missi dominici". Questi avevano giurisdizione sui conti, sui
vicari, sui vassalli, sui vescovi e sugli abati, ricevevano il giuramento di fedeltà al sovrano, vigilavano
sull'esecuzione dei capitolari, curavano che i rappresentanti dell'autorità ecclesiastica vivessero d'accordo
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con quelli dell'autorità civile, reprimevano gli abusi, sorvegliavano l'amministrazione della giustizia,
ispezionavano le opere di pubblica utilità e ne curavano i restauri.
Perché fosse meglio regolata l'opera dei "missi" l'impero era diviso in "missatica" che riunivano un certo
numero di contee corrispondenti ad un numero pari di province ecclesiastiche. A ciascuno di questi
raggruppamenti erano assegnati ogni anno due "missi", uno laico ("conte"), l'altro ecclesiastico ("vescovo o
abate"). Il messo ecclesiastico sorvegliava la disciplina del clero e visitava le chiese, i monasteri e gli ospizi
dei pellegrini. I "missi dominici" approvavano la nomina degli scabini, punivano gli abusi, e tenevano nei
territori che erano sotto la loro giurisdizione assemblee ("placita missuum"), che erano veri e propri tribunali
d'appello.
Altro ufficio dei "missi" era quello di sorvegliare sull'adempimento dell'obbligo del servizio militare
("eribanno"). Da questo servizio erano esclusi soltanto i poveri. Dovevano invece prestarlo tutti coloro che,
pur non possedendo beni immobili, avevano un reddito superiore a cinque solidi e tutti i possessori di beni
stabili purché questi fossero superiori a tre mansi di terra. Quelli però che possedevano di meno non è che
erano esenti dal servizio, ma se i loro beni uniti insieme formavano tre mansi di terra avevano l'obbligo di
scegliere tra loro un soldato. Tutti quelli che erano chiamati alle armi dovevano provvedersi a spese proprie
di armi, di vesti e di viveri per tre mesi, e solo durante il viaggio avevano diritto al fuoco, alla legna, all'acqua
e al foraggio.
Quello del servizio militare, per le pene comminate ai ritardatari e per le spese che richiedeva, era uno degli
oneri maggiori, di cui specialmente risentivano i piccoli proprietari, i quali, per sfuggirlo, si liberavano dei loro
beni e li cedevano alle Chiese o a potenti signori che 1i riconsegnavano a loro a titolo di beneficio.
Crescendo a dismisura - con questo sotterfugio- il numero dei beneficiari, Carlomagno impose l'obbligo del
servizio militare.
Non era questo solo il peso che gravava le popolazioni dell'impero; altri pesi erano costituiti dalle prestazioni
personali ("angariae"), dalle prestazioni di cavalli, di carri, di viveri e di foraggio, dalle tasse di pedaggio sulle
vie e sui ponti, dai dazi che si pagavano nei porti, nei mercati e alle porte delle città.
Nonostante questi pesanti oneri, la vita economica italiana non languì sotto Carlomagno. Si assottigliò, è
vero, il numero dei piccoli proprietari ed ebbe grande sviluppo il sistema curtense, specialmente con le
donazioni fatte da Carlo a Chiese e monasteri e con i "beneficia" dati a conti e vassalli; ma l'organizzazione
di questo sistema andò sempre migliorando e diede impulso all'agricoltura e all'industria, ai mercati e agli
scambi e origine a numerosi centri economici la cui attività, sebbene alimentata dal lavoro servile, non
mancherà di produrre conseguenze benefiche in ogni campo dell'economia. Il contesto era insomma
tranquillo. Del resto a nessuno poteva venire l'idea di venire alle armi con l'ex re dei Franchi, che ora non
aveva rivali.
LE VICENDE Dl VENEZIA NEL SEC. VIII TRATTATIVE TRA AQUISGRANA E COSTANTINOPOLI
PERSONALITÀ STORICA DI CARLOMAGNO
La vasta estensione dell'impero franco e l'irrequietezza delle popolazioni confinanti rendevano necessaria
una sorveglianza continua ed oculata delle frontiere. A questo Carlomagno provvide con l'istituzione delle
"marche", territori di confine, più grandi delle contee, posti sotto il governo di un capo civile e militare detto
marchio ("marchese").
La prima marca pare che fosse quella di Brettagna; vennero poi quella di Spagna, diretta contro i Mori,
quella danese tra l'Elba e l'Eider contro i Danesi e gli Abotriti, quella di Baviera contro gli Avari, quella di
Sorabi contro i Czechi e i Boemi e quella del Friuli.
Ma non solo le frontiere terrestri avevano bisogno di difesa. Maggiormente esposte agli attacchi nemici
erano le coste dell'impero. Quelle della Manica e del Mare del Nord cominciavano ad esser la mèta delle
audacissime incursioni dei Normanni, che solcavano i mari sopra veloci legni dalla Norvegia e, saccheggiati i
paesi costieri, i castelli e le campagne, se ne ripartivano portandosi dietro ricchi bottini. Non meno audaci e
nocivi dei Normanni erano i Saraceni della Spagna e dell'Africa che desolavano le coste della Settimania,
della Provenza, della Liguria, della Toscana e del Lazio e le isole di Corsica e di Sardegna, nominalmente
sotto il dominio bizantino, ma di fatto abbandonate a se stesse ed alla selvaggia avidità dei corsari mori o di
ogni specie.
Per difendere le coste dell'Impero dalle scorrerie dei Normanni e dei Saraceni, Carlomagno fece allestire
delle piccole flotte e munì di fortini e di navi i porti e le foci dei fiumi. Basi della difesa costiera del nord furono
Gand e Boulogne, del sud le foci del Rodano e della Garonna, Marsiglia, Genova e forse Pisa. Da questi
ultimi porti forse nell'806 e nell'807 partirono le flotte mandate da Pipino e da Carlomagno a difesa della
Corsica.
Sentinelle erano poste nelle vedette costiere, che scrutavano l'orizzonte e dovevano dare l'allarme quando il
nemico era in vista e allora era fatto obbligo a tutti gli uomini liberi del territorio che era minacciato, di correre
prontamente alle armi sotto pena di multe che giungevano alla cifra di venti solidi.
Mentre attendeva all'organizzazione difensiva e al riordinamento dell'impero, Carlo non trascurava le
relazioni politiche con gli stati esteri, fra i quali in prima linea stava l'impero d'Oriente. A Carlomagno
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premeva vivere in pace con Costantinopoli, da dove poteva ricever noie e come usurpatore della dignità
imperiale e come signore dei territori italiani che erano stati una volta dei Bizantini. Forse anche a lui
sorrideva l'idea di unire in un solo i due imperi conducendo in matrimonio l'imperatrice IRENE, la quale certo
non avrebbe opposto un rifiuto nelle condizioni critiche in cui si trovava.
Che Carlo vagheggiasse tale idea lo scrive lo storico greco TEOFANE. Era da poco Carlomagno tornato
dall'Italia ad Aquisgrana quando gli giunsero gli ambasciatori di Irene, la quale chiedeva protezione contro i
nemici interni che volevano cacciarla dal trono e proponeva di definire i confini dell'Italia meridionale. Carlo
inviò, a sua volta, due legati che avevano anche l'incarico di chiedere la mano dell'imperatrice; ma quando
giunsero a Costantinopoli Irene già soccombeva ad una congiura, di cui era capo il logoteta NICEFORO.
Questi nella notte dal 30 al 31 ottobre dell'802, invadeva con i congiurati la reggia e, strappata dal potere
Irene la esiliata nell'isola di Lesbo dove l'anno dopo doveva morire, e si proclamava imperatore.
NICEFORO era l'esponente del partito iconoclasta contrario alla riunione delle chiese orientali ed occidentali,
ed agli accordi con i Franchi, tuttavia non troncò le trattative iniziate da Irene, né protestò contro Carlo per
l'assunzione del titolo imperiale. La politica di Niceforo era una conseguenza delle condizioni in cui si
trovavano il nuovo imperatore e l'impero: lui aveva non pochi nemici interni, e l'impero era minacciato dai
Bulgari che, passato il Danubio, si spingevano fin sotto la capitale, e dai Mussulmani d'Asia che, guidati dal
famoso Califfo Harun er-Rascid, avevano raggiunto il massimo della loro potenza.
In tali condizioni NICEFORO non volle attirare contro di sé un altro nemico e fece accompagnare i legati di
Carlo in Francia dal metropolita MICHELE, dall'abate PIETRO e da un ufficiale di nome CALISTO, i quali
avevano l'incarico di stipulare un patto d'amicizia tra i due imperi.
Le trattative furono cordiali, ma un vero e proprio accordo si raggiunse solo parecchi anni dopo.
Caduta Irene e sfumata la possibilità di riunire l'Occidente e l'Oriente in un unico impero, Carlo non aveva più
l'interesse di affrettare l'accordo con Niceforo, dal quale, del resto, nulla aveva da temere per la precarietà
della sua posizione e per i progressi dei Mussulmani; anzi ora inaugurava una nuova politica, mettendosi in
relazione con il Califfo d'Oriente ed assumendo la protezione dei cristiani sottoposti alla sovranità degli
Arabi.
A lui, più che alla corte bizantina, guardavano quei cristiani in Italia fin da quando era sceso e soggiornato a
Roma, ambasciatori inviati dal patriarca di Gerusalemme gli avevano portato le chiavi del Santo Sepolcro e
quelle della città insieme con il vessillo della Chiesa gerosolimitana. Da allora Carlomagno si era messo in
contatto con il Califfo Harun er-Rascid, che, come lui, proteggeva le lettere e le arti ed alle cui orecchie era
pervenutala fama delle gesta e della potenza dell'imperatore d'Occidente.
I rapporti tra i due grandi sovrani continuarono ininterrotti e cordiali fino alla morte del Califfo avvenuta
nell'809 con scambi di doni e di ambascerie, e furono questi rapporti che più tardi diedero origine alla
leggenda di un viaggio di Carlo in Palestina. Di un altro viaggio di Carlomagno in Alessandria parlano anche
le leggende e questo sta dimostrare che non solo con il principe Abassida il re franco ebbe rapporti, ma
anche con altri principi mussulmani come il sultano d'Egitto e l'emiro di Cartagine.
Questa che Carlo seguiva con i potentati d'Asia e d'Africa, era una politica che non poteva far piacere alla
corte bizantina; tuttavia le relazioni tra i due imperi non si alterarono in questo periodo.
Dovevano però deteriorarsi più tardi, e la causa del conflitto fu Venezia.
La potenza dei Veneziani era già cresciuta a tal punto che il doge ORSO (il 3°) sotto il regno di
LIUTPRANDO, aveva strappato il "Trattato di Anafesto" (1° doge di Venezia) di convivenza pacifica fra
longobardi e i rifugiati nelle isole della laguna a Grado e a Eraclea, ultimo grosso centro degli esuli dopo la
famosa fuga da Aquileia, e si era messo contro i Longobardi.
Questo perché il re Liupdrando nel 729 aveva attaccato l'Esarcato e la Pentapoli, che però fu respinto
proprio dalle forze venetiche che erano accorse dal mare a difendere i territori bizantini. L'azione bellica
trovò l'ammirazione di Bisanzio ed Orso ricevette la nomina di "IPATO" ("console"). Ed era quello che
aspettavano i Veneziani per rendersi finalmente più indipendenti; del resto se prima erano loro ad essere
protetti (con un "magistri militum" nominato dall'esarca di Ravenna - ed era una protezione più nominale che,
di fatto) dopo furono i veneziani a proteggere i territori bizantini.
Riuscendo a portar via Ravenna ai Longobardi, tutto il commercio dell'Adriatico era in mano dei
commercianti di Eraclea e di Malamocco ed erano solo più loro che esercitavano gli scambi tra l'Oriente e il
Veneto, il Friuli e la Baviera.- Del resto sia i Longobardi prima, che i Franchi poi, entrambi non avevano
nessuna vocazione per il mare. Anzi i Longobardi una vera e propria fobia. Nei duecento anni di regno, nelle
città costiere in loro possesso scomparirono tutti i piccoli e i grandi cantieri navali. E proprio per questo - non
possedendo navi - che le roccaforti bizantine in Italia furono proprio quelle città che avevano degli ottimi e
strategici porti.
ORSO era stato assassinato nel 737 e per cinque anni, fino al 741, aveva governato un maestro dei militi
che risiedeva ad Eraclea e durava in carica un anno. L'ultimo maestro dei militi, Giovanni, era stato accecato
e deposto nel 741 e l'anno dopo era stato ripristinato il dogato ed eletto a questa carica DIODATO, figlio di
Orso, che a sua volta, nel 755, era stato sbalzato e privato della vista. Sorte eguale i dogi GALLA nel 756 e
DOMENICO MONEGARIO otto anni dopo. Le isole della laguna erano straziate dalla incessante lotta delle
famiglie tribunizie delle quali alcune parteggiavano per i Bizantini, altre per i Longobardi, altre più tardi per i
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Franchi. Più fortunato degli altri dogi era stato MAURIZIO GALBAIO che era riuscito a conservare a Venezia
la sua indipendenza e a ben governare fino alla morte, avvenuta del 787.
(vedi tutti i 120 dogi di VENEZIA - e la loro biografia)
(in VENEZIA DALLA SUA FONDAZIONE)
Sotto il governo di suo figlio, Giovanni, il partito che si appoggiava ai Franchi aveva fatto rapidi progressi. I
Franchi guardavano con occhio cupido alle isole della laguna ed avrebbero volentieri esteso su queste il loro
dominio.
Occasione di intervenire nelle cose di Venezia diede ben presto ai Franchi un dissidio sorto tra il doge e il
patriarca di Grado. Giovanni fece assalire con alcuni legni l'isoletta di Grado dal figlio Maurizio, e il patriarca,
fatto prigioniero, fu precipitato dalla sommità di una torre.
Il dissidio si inasprì con il patriarca successivo, Fortunato da Trieste, il quale, per non fare la stessa fine del
suo predecessore, fuggì e, recatosi a Selz, dove era stato convocato il placito imperiale, chiese la protezione
di Carlomagno (802). Poco tempo dopo una rivolta popolare sbalzava Giovanni e Maurizio ed eleggeva doge
il tribuno OBELERIO di Malamocco, ardente fautore dei Franchi, che si associò al governo il fratello Beato.
Ora sulla vita politica di Venezia i Franchi esercitano un'influenza predominante. Fortunato ottiene il
vescovado di Pola da cui tornerà più tardi, per favore di Carlo, al patriarcato di Grado, e Giovanni che va in
Francia a chiedere la protezione dall'imperatore, riceve un rifiuto. Nell'806 i due dogi OBELERIO e BEATO
con alcuni legati della Dalmazia partono e vanno a fare atto di sottomissione a Carlomagno.
L'impero d'Oriente aveva avuto fino allora una sovranità puramente nominale su Venezia. Ma caduta sotto il
potere dei Franchi i bizantini tentarono di riprendersela; fu così che i due imperi entrarono in conflitto.
L'impresa fu affidata al patrizio NICETA. Questi, sul finire dell'806, invase con una flotta le acque
dell'Adriatico e, riacquistata la Dalmazia, mosse su Venezia, intorno alla quale pose il blocco. La presenza
delle forze bizantine contro le quali i Franchi non potevano opporre una flotta, fece rialzare il capo a quella
delle fazioni veneziane che parteggiava per Costantinopoli; OBELERIO (IX doge), per mantenersi al potere,
si dichiarò per i Bizantini e rimase al governo con il titolo di Spatario; Pipino dovette stipulare una tregua di
due anni, dopo di che Niceta tornò a Costantinopoli recando con sé alcuni ostaggi.
Spirata la tregua, una nuova flotta comparve nelle acque della laguna: la comandava Paolo, il quale fu meno
fortunato di Niceta. Un tentativo suo di impadronirsi di Comacchio, presidiata - come pare - dai Franchi, fallì
per la valorosa resistenza della guarnigione; fallirono le trattative incominciate con Pipino a causa della
condotta ambigua dei dogi e allora Paolo fece ritorno in Costantinopoli.
Abbandonati dai Bizantini, i Veneziani furono bersaglio della collera di Pipino (che non era di certo un
marinaio), il quale, radunata a Ravenna una forte flotta, la spedì contro le isole della laguna. Ben presto
Eraclea, Jesolo, Chioggia e Palestrina caddero in potere dei Franchi; Malamocco, sede del governo,
minacciata dal nemico fu sgombrata dalla popolazione che si trasferì a Rialto la quale offriva maggior
sicurezza, e, quando i Franchi s'impadronirono di Malamocco, la trovarono deserta.
Allora i Franchi (montanari) tentarono d'impadronirsi di Rialto, ma il loro tentativo non ebbe fortuna. Caddero
in un clamorosa trappola tesa dai futuri Veneziani, che di mare ne sapevano pur qualcosa da oltre mille anni.
Ignorando che durante la bassa marea le acque della laguna decrescono di oltre un metro, furono tratti in
inganno da Vittorio d'Eraclea, comandante della flotta veneziana, il quale mandò contro il nemico una
flottiglia di piccole barche con l'ordine di simulare la fuga dopo il primo attacco. Così fu: le grosse navi di
Pipino si diedero all'inseguimento, ma sorprese dalla bassa marea rimasero paralizzate ed esposte ad un
tiro micidiale di frecce e di sassi e ad un lancio nutrito di pece infiammata che produssero gravissimi danni
all'armata franca.
Ancora oggi quella zona è chiamata "il canale dell'orfano", e i franchi a casa ne lasciarono molti di orfani.
Malgrado questa vittoria ed altri successi riportati dai veneziani, la guerra non finì davanti alle armi di Pipino.
Se queste a viva forza non riuscirono a vincere gli isolani protetti dalla natura stessa del teatro delle
operazioni li vinsero con un blocco che ebbe la durata di alcuni mesi e costrinse i Veneziani ad accettare il
dominio franco e a pagare un tributo annuo.
Meno felice fu l'impresa del figlio di Carlomagno contro la Dalmazia, dal momento che la sua flotta dovette
tornare alle basi per l'improvviso sopraggiungere di un'armata bizantina comandata dal prefetto di Cefalonia.
L'anno stesso in cui Venezia si sottometteva a Pipino, lui cessava di vivere (8 luglio dell'810) e veniva
sepolto a Milano nella basilica di Sant'Ambrogio. Contava trentatrè anni ed aveva fornito prove di grande
valore combattendo con gli Avari prima e con Grimoaldo di Benevento poi. Nelle guerre contro quest'ultimo,
la fortuna non gli era stata propizia. Aveva trovato nel duca beneventano un nemico degno, animoso e
tenace, il quale finché visse tenne testa ai Franchi e conservò l'indipendenza al ducato. Morto lui (806) e
successogli un altro Grimoaldo, la guerra tra Beneventani e Franchi doveva trascinarsi pigramente fino
all'812 e il ducato doveva fatalmente avviarsi verso la decadenza.
Il relativo felice esito della guerra fatta da Pipino ai Veneziani, aveva avuto l'effetto della ripresa delle
trattative fra l'impero d'Oriente e quello d'Occidente. NICEFORO, infatti, aveva inviato a Milano un
ambasciatore di nome ARSAFIO perché promuovesse un accordo con Pipino, ma quando il messo imperiale
giunse in Italia Pipino era già morto. Arsafio proseguì per Aquisgrana per incontrarsi con Carlomagno e lo
trovò disposto ad un accordo. Carlo chiedeva solo di essere riconosciuto imperatore e in cambio cedeva ai
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Bizantini, Venezia e le città marittime della Dalmazia e della Liburnia. Stabiliti i preliminari della pace,
Carlomagno inviò a Costantinopoli, per far conoscere nei dettagli a Niceforo l'accordo, il conte di Tours,
Ajone del Friuli e Aido vescovo di Basilea.
Questi passando da Venezia presero in ostaggio il doge Obelerio e al suo posto fu innalzato un nobile di
Eraclea, di famiglia tribunizia, ANGELO PARTICIACO (Anhelo Partecipazio). Che di sua iniziativa trasportò
la sede del governo definitivamente a Rivolto (Rialto) che - rafforzando con vari materiali la base dell'isola
(tuttora in profondità esistenti) costituì il primo nucleo della città di Venezia (811).
Rivoalto fu così consolidato e così pure la parte occidentale dell'Olivolo, dove fu eretto il primo bastione con
ponte levatoio e che divenne successivamente il palazzo dogale. Con la benedizione di Ludovico il Pio
(ancorchè da Fortunato, patriarca di Grado insediatosi all'Olivolo), sotto Angelo nasce pure la prima zecca
veneziana; le monete riportano la scritta "RIVOALTI".
(Rammentiamo che già ad Aquileia nel 293 d.C esisteva un'importante zecca, con tre officine per coniare
monete romane).
Con questo trasferimento a Rialto, Costantinopoli tacque. E Venezia inizia la sua avventura oligarchica. I
Partecipazi fondarono, infatti, una dinastia; uno dietro l'altro tre dogati. Gli altri nobili "patrizi" a quel punto si
allarmarono, temevano la dittatura di una monarchia ereditaria, il che voleva dire cadere dalla padella alla
brace, altro che indipendenza. All'inizio si era convenuto che ci si dava un doge per "fisc-ci de boca"- ovvero
per acclamazione del "popolo sovrano"; anche se dobbiamo chiarire che questo "popolo" era limitato a
poche "schiatte" (un centinaio) dalle quali era escluso il volgo e l'artigianato.
Fu sotto il governo di questo doge Angelo, che sorse la leggenda dell'approdo di S. Marco all'isola di Rialto,
costretto a prender terra da una tempesta mentre si recava ad Aquileia per predicare la religione di Cristo. In
quell'isola secondo la leggenda, apparve all'Evangelista un angelo che gli disse le parole che poi divennero il
motto del vessillo veneziano: "Pace a te, o Marco, evangelista mio". In proposito osserva il Bertolini: "Il
carattere politico di questa leggenda appare manifesto. Dal momento che Rialto era stata scelta come sede
di Governo, bisognava cercare che il mutamento non facesse nascer gelosie da parte delle altre isole, e
fosse quindi cagione di dissidi interni. La religione fu chiamata a questo ufficio di pace e di concordia: e fu
forse questa la prima volta che essa prestò servizio alla politica senza offendere l'officio e il servizio suo" .
Ma lasciamo Venezia, che fra poco si rende totalmente indipendente e inizia un suo particolare governo,
unico in Europa per oltre mille anni, e proseguiamo con Carlo Magno.
Quando, gli ambasciatori di Carlomagno con le proposte della cessione di Venezia, giunsero a
Costantinopoli, Niceforo era già morto: lo avevano ucciso il 26 luglio dell'811 sotto la tenda mentre stava
accampato contro i Bulgari. A Niceforo era successo il fratello MICHELE I, il quale accolse benevolmente gli
ambasciatori franchi, approvò i preliminari di pace e fece accompagnare in Francia i legati dal metropolita
MICHELE di Filadelfia e dai protospatari ARSAFIO e TEOGNOSTO.
La cerimonia della stipulazione del trattato avvenne nella chiesa di Santa Maria in Aquisgrana e l'atto fu
firmato da tutti i dignitari laici ed ecclesiastici della nazione. In quell'occasione i messi di Michele salutarono
Carlomagno con il titolo di "basileus". Da Aquisgrana gli ambasciatori bizantini si recarono a Roma per
sottoporre il trattato alla firma del Pontefice, poi ritornarono a Costantinopoli accompagnati, per ordine di
Carlo, da AMALARIO vescovo di Treviri e da PIETRO abate del monastero dei SS. Apostoli che dovevano
ricevere la ratifica dall'imperatore d'Oriente.
Carlo era vecchio e dopo tante vicende e tante guerre poteva finalmente godersi quella pace che le armi e la
politica gli avevano preparata. Ma la pace non era immune dalle preoccupazioni per l'imperiale vegliardo,
che aveva riunito sotto il suo scettro gran parte dell'Europa e voleva -questa era la prima preoccupazioneche il suo vasto impero non si disgregasse dopo la sua morte. Già fin dall'806 aveva rivolto il pensiero alla
successione.
È infatti, del 16 febbraio di quell'anno l'atto promulgato alla dieta di Diedenhofen. In questo l'imperatore
assegnava a PIPINO l'Italia, la Baviera e parte dell'Alemannia, a LUDOVICO l'Aquitania, la Guascogna e
parte della Borgogna, il resto dei suoi domini li assegnava al primogenito CARLO, e si riservava (ed era
quasi deciso) di dargli anche la dignità imperiale.
L'atto conteneva precise e particolareggiate disposizioni per la successione nel caso che qualcuno degli
eredi morisse; e il caso si era verificato mentre il testatore era ancora in vita. Nell'810 - abbiamo detto - era
morto PIPINO che lasciava cinque figlie e un figlio illegittimo, BERNARDO; e il 4 dicembre dell'811 era morto
anche CARLO senza figli. Al governo d'Italia Carlomagno aveva provveduto nominando reggenti alcuni
"missi dominici" tra cui il cugino ADALARDO, e nell'812 aveva designato re BERNARDO, sedicenne,
mandandolo in Italia in compagnia di WALA, fratello di ADALARDO.
Nel settembre dell'813 l'imperatore volle procedere definitivamente alla successione. Non gli rimaneva che
un figlio legittimo, LUDOVICO d'Aquitania: convocato nello stesso mese una grande dieta ad Aquisgrana,
Carlo proclamò suo successore nell'impero il figlio e l'11 di settembre, nella chiesa di Santa Maria, Ludovico
prese dall'altare con le sue stesse mani la corona e se la pose in testa. Molti storici sostennero che
Carlomagno ordinando al figlio di incoronarsi, voleva che non si ripetesse la cerimonia del Natale dell'800 e
che s'impedisse per l'avvenire di ipotizzare che i Pontefici avessero diritto d'incoronare gli imperatori
(Napoleone, sapeva anche questo!)
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Quattro mesi dopo, il 28 gennaio dell'814, Carlomagno moriva.
Contava settantun anni; aveva regnato quarantasette anni in Francia, quarantatrè in Italia e da quattordici
anni portava il titolo d'imperatore. Fu sepolto nella magnifica basilica di Santa Maria in Aquisgrana ch'egli
stesso aveva fatto costruire sul modello delle chiese del Santo Sepolcro di Gerusalemme e di San Vitale di
Ravenna, e sulla sua tomba fu messa l'epigrafe: "Magnus atque ortodoxus Imperator".
"Carlo - così lo dipinge EGINARDO - era alto e robusto di corpo, aveva gli occhi grandi e vivaci, il naso
lungo, i capelli folti e l'aspetto amabile e sorridente. Un'aria di dignità e di grandezza spirava da tutta la sua
persona, ed era così ben proporzionato che non si distinguevano certi suoi difetti fisici quali la grossezza del
ventre e del collo.
Era grave nel camminare e virile nell'atteggiamento. L'equitazione e la caccia erano le sue occupazioni
preferite. Appassionato del nuoto, vi acquistò tanta abilità da non temere di esser superato da nessuno.
Sobrio, evitò tutti gli eccessi della gola, specie quello del bere, e il suo desinare si componeva di solito di
quattro vivande. A mensa gli piaceva udire una lettura o una recita di fatti storici. Sant'Agostino era l'autore
che preferiva e provava gran diletto alla lettura della "Città di Dio". Amante del bene altrui più che del proprio,
egli rendeva giustizia in qualunque ora del giorno; sensibile alle miserie degli altri, non solo aiutava i popoli
del suo regno, ma soccorreva anche i cristiani bisognosi di ogni parte del mondo e se cercava vivamente
l'amicizia dei sovrani d'oltremare, lo faceva per esser d'aiuto ai cristiani che erano soggetti al loro dominio".
A queste lodi del biografo franco, altre se ne possono aggiungere. Instancabile e multiforme fu la sua attività.
Promosse numerose opere pubbliche d'utilità e d'ornamento: fece costruire strade, chiese, palazzi, come
quelli famosi di Ingelheim e di Nimega, i celebri bagni di Aquisgrana, ponti, tra i quali degno di menzione
quello sul Reno a Magonza, e meditava di congiungere il Reno e il Danubio con un canale che avrebbe
messo in comunicazione il Mar Nero con il Mar del Nord. Si occupò di economia agricola dettando norme
utilissime nel capitolare "de villis", fece una raccolta di canti popolari e fu l'artefice del risveglio culturale che
passò alla storia con il nome di "carolingio". D'ingegno prontissimo, egli conobbe oltre quella francese, le
lingue greca e latina, e sebbene imparasse tardi a leggere e non riuscisse a scrivere con facilità, nondimeno
apprezzò tanto lo studio che volle dare un'istruzione letteraria non solo rudimentale ai suoi figli che non
furono pochi. Oltre ai tre gia nominati, avuti da Ildegarda, che gli diede anche Rotrude, Berta e Gila, da
Fastrada ebbe Teodorata e Iltruda, dalla concubina Imeltrude, Pipino il Gobbo, e parecchi altri da
Matagarda, Germinda, Regina e Adelinda.
Il suo amore per gli studi, si manifestò specialmente nella cura e nell'impegno elargito per diffondere
l'istruzione e nella protezione dei dotti. In una lettera all'abate di Fulda, che porta la data del 787, Carlo
raccomanda, di fondare pubbliche scuole e con queste far nascere nei giovani l'amore per le lettere. Ma non
si limitava soltanto alle raccomandazioni. Con un capitolare del 789, egli tracciava un vero programma
didattico per le scuole, che i vescovi e gli abati dovevano fondare e dove ai fanciulli dovevano essere
insegnate la lettura e la scrittura e agli adulti la grammatica, la musica e il canto.
Di dotti alla sua corte ne ebbe una larga schiera, e parecchi di loro furono lo splendore dell'importante
SCUOLA PALATINA, istituita da Carlo ad Aquisgrana, che era una vera accademia i cui componenti
amavano assumere nomi greci, romani e biblici. Alla testa di questi dotti c'era il famoso monaco inglese
ALCUINO (730-804), di nobile famiglia, educato alla scuola di York che poi diresse, dai contemporanei ebbe
il titolo di "polistore", fu autore di poemi, di opere filosofiche, teologiche, e grammaticali e di biografie di Santi.
Fu durante una missione a Roma presso papa Adriano I, che tornando in patria incontrò Carlo Magno a
Parma e lo seguì per stabilirsi alla corte carolingia, come maestro e consigliere dell'imperatore, dal 781 al
796, poi passò alla celebre abbazia di S. Martino di Tours , dove immerso nei suoi studi visse il resto dei
suoi anni. Morì nel 804.
Dalla sua Accademia, alla quale partecipavano tutti i membri della famiglia reale, i "pueri palatini"
imparavano a diventare scribi, notai, cantori e copisti di manoscritti per esercitare poi il libero mestiere nei
numerosi "scriptoria" del regno. Ovviamente con questa sua attività, compresa quella letteraria,
comprendente vari settori dell'esegesi, cercò di raggiungere lo scopo ideale di una cultura completamente
cristianizzata.
Accanto ad Alcuino troviamo il longobardo PAOLO DIACONO (o Paolo Varnefrido (720- 800 ca.). Friulano,
anche lui di nobile famiglia, aveva goduto il favore di Rachi e di Desiderio; caduta Pavia si era rifugiato alla
Corte di Benevento, dove per la duchessa Adelperga aveva scritto la "Storia romana fino a Giustiniano" e la
"Historia miscella"; poi si era ritirato a Montecassino; recatosi ad Aquisgrana per invocare la clemenza di
Carlo in favore del fratello, che, implicato nella congiura friulana del 776, aveva perduto, come abbiamo
detto altrove, la libertà e i beni. Alla corte carolingia Paolo Diacono ci rimase alcuni anni e scrisse la storia
dei vescovi di Metz ("Gesta episcoporum Mettensium"); poi fece ritorno al suo ritiro di Montecassino e qui
scrisse le opere sue principali, la biografia di Gregorio Magno e il "De gestis Langobardorum", una delle
uniche fonti sull'intera Storia dei Longobardi, dalle origini fino alla fine del regno.
Altri storici protagonisti della cosiddetta "rinascita carolingia", vissuti alla corte di Carlo furono il franco
EGINARDO, nobile dell'Austrasia, che, morto l'imperatore, ne scrisse la vita ("Vita Caroli") e ANGILBERTO
di NEUSTRIA, e vanno aggiunti non pochi altri dotti, franchi o stranieri, fra i quali degni di ricordo il vescovo
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ANGILRAMO, compilatore forse degli "Annali laurissesi",, l'italiano PIETRO da PISA, lo spagnolo
TEODOLFO e BERNARDO di SENS.
UOMO DI GUERRA O GENIO DI PACE?
Da non pochi storici CARLOMAGNO fu considerato un genio; ma forse tale veramente non fu. Guerriero,
legislatore, uomo politico, egli mostrò una portentosa attività, una tenacia non comune, una tempra
vigorosissima; ma nessuna delle sue azioni e delle sue concezioni rivelò l'impronta creatrice del genio.
Come Guerriero, egli ha al suo attivo cinquantatrè spedizioni belliche (ma nessuna considerevole): una
contro gli Aquitani, cinque contro i Mori, altrettante contro i Longobardi, una contro i Turingi, diciotto contro i
Sassoni, quattro contro gli Avari, due contro i Britanni, una contro i Bavari, quattro contro gli Slavi, tre contro
i Danesi, due contro i Bizantini; ma non tutte egli le guidò e non quelle che prese parte le vinse.
Come conquistatore egli impallidisce di fronte a Cesare e ad Alessandro Magno non solo, ma anche ad altre
figure minori della Grecia e di Roma; come condottiero non ebbe il fascino di Annibale, di Scipione, di Mario,
e come stratega non ebbe pari il merito alla fortuna.
Le guerre contro i Sassoni se rivelano semmai solo la fierezza e la costanza di questo popolo, mentre ci
testimoniano (18 sono tante!), le limitate capacità di Carlo Magno che rende inefficace le sue (piccole)
vittorie con le incompletezze della sua politica militare; che si rivelano ancora di più contro i Mori di Spagna é
nella debole lotta contro un fiacco ducato di Benevento.
Come non fu un grande guerriero, così non fu un grande legislatore e neppure un grande uomo politico. Egli
fu un "fortunato" continuatore dell'opera altrui e i grandissimi meriti che gli sono attribuiti - quello di aver
(solo) chiuso (ma non lui) il periodo delle migrazioni dei popoli, dando a molte nazioni barbariche (sbandate)
d'Europa un assetto stabile, e quello di avere costituito un vastissimo impero componendo in un unico
organismo forze diverse - non esclusivamente dovuti però all'opera sua, perché mancavano da qualche
tempo quelle spinte seguite poi da invasioni -com'erano state in passato- di nuovi popoli dal Nord e
dall'Oriente, che provocavano terribili sconvolgimenti.
Inoltre non poche di quelle popolazioni che erano state la causa non ultima dello sfacelo dell'impero romano
d'Occidente (Ostrogoti prima Longobardi poi) avevano da qualche tempo il loro assetto stabile ai margini e
dentro gli stessi confini dei domini di Carlo, il cui impero se lui trova un cemento potente per unire le sue
varie parti, lo deve in modo speciale all'unità religiosa. A sua volta questa favorita dalla critica situazione in
cui si trovava l'impero bizantino. Senza nulla togliere all'incommensurabile grandezza religiosa di un papa, e
all'abilità politica di un altro suo collega, che si trovarono ad operare nel momento favorevole più drammatico
uno, e favorevole politicamente l'altro.
Abbiamo già ricordato che papa Gregorio Magno aveva aperto la prima breccia nelle mura, e che Adriano I,
finì per abbatterle. Papa Leone III fece invece solo l'opportunista, Carlo Magno era già il padrone e lui era
già spacciato; anche se fece quel gesto - e forse era solo servile e non intenzionale- che avrà poi grandi
ripercussioni in avvenire.
"Certo è merito non poco importante per un uomo l'aver saputo governare territori così vasti e popolazioni
così diverse, avere frenato le ambizioni dello stesso Papato pur avendo accresciuto il prestigio della Chiesa
occidentale, avere riconciliato il Germanesimo con Roma e avere voluto infine con gli ultimi e deboli bagliori
della civiltà romana aiutare le giovani nazioni barbariche ad uscire dal loro stato d'infanzia sociale,
accettando i principi d'ordine, d'autorità, di cultura, che poteva dare solo la tradizione romana " (Romano).
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988
CHATEAUBRIAND -Discorsi sopra la caduta dell'Impero Romano Pirotta MI - 1836
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE
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100
Il diritto
Bibliografia
P. Frezza, Corso di Storia del diritto romano, Roma 19743
Giustiniano
Cenni biografici
Giustiniano visse tra il 482 e il 565..
Nel 527 cominciò a regnare in un periodo di crisi determinata non solo dalle pressioni dei barbari al
confine dell'impero, ma anche dalle lotte religiose interne tra ortodossi ed eretici.
Combattè contro i Vandali in Africa, in Italia contro gli Ostrogoti; dovette poi affrontare i Persiani, i
Visigoti, gli Unni e i Bulgari.
In materia di religione Giustiniano difese l'ortodossia cristiana contro l'eresia monofisita riuscendo
a superare notevoli elementi di divisione interna allo stato.
Fondamentale per la civiltà occidentale il suo impegno per raccogliere e riordinare i testi giuridici
romani.
Giustiniano creò una commissione di dieci giuristi che sotto la direzione di Triboniano Gallo
riorganizzò il sapere giuridico del tempo e permise, nel 529, l'emanazione del cosiddetto Codex
Iustinianus; altra commissione ispirata da Giustiniano elaborò una compilazione di testi, massime e
sentenze, soprattutto in materia di diritto civile, che venne pubblicata in 50 libri nel 533 con il nome
di Digesta o Pandectae. Sotto il titolo di Novellae vennero invece raccolte le leggi promulgate dallo
stesso Giustiniano.
Le Institutiones, in 4 libri, sono una guida propedeutica allo studio del diritto: fortemente improntate
sull'opera del giureconsulto Gaio, ebbero notevolissima fortuna nei secoli.
Testi e testimonianze
Bibliografia
Corpus Iuris civilis
ed. Th. Mommsen
Strumenti
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101
Institutiones, Konkordanz Ed. J.J. Chao, Hildesheim ( In preparation!)
Studi
ICCU??
"Giustiniano - Corso",
Iustinianus.
Giustiniano visse tra il 482 e il 565 dopo Cristo e fu importantissimo imperatore d'Oriente.
Nel 527 cominciò a regnare in un periodo di crisi determinata non solo dalle pressioni dei barbari al confine
dell'impero, ma anche dalle lotte religiose interne tra ortodossi ed eretici.
Combattè contro i Vandali in Africa, in Italia contro gli Ostrogoti; dovette poi affrontare i Persiani, i Visigoti, gli
Unni e i Bulgari.
In materia di religione Giustiniano difese l'ortodossia cristiana contro l'eresia monofisita riuscendo a superare
notevoli elementi di divisione interna allo stato.
Fondamentale per la civiltà occidentale il suo impegno per raccogliere e riordinare i testi giuridici romani.
Giustiniano creò una commissione di dieci giuristi che sotto la direzione di Triboniano Gallo riorganizzò il
sapere giuridico del tempo e permise, nel 529, l'emanazione del cosiddetto Codex Iustinianus; altra
commissione ispirata da Giustiniano elaborò una compilazione di testi, massime e sentenze, soprattutto in
materia di diritto civile, che venne pubblicata in 50 libri nel 533 con il nome di Digesta o Pandectae. Sotto il
titolo di Novellae vennero invece raccolte le leggi promulgate dallo stesso Giustiniano.
Le Institutiones, in 4 libri, sono una guida propedeutica allo studio del diritto: fortemente improntate sull'opera
del giureconsulto Gaio, ebbero notevolissima fortuna nei secoli.
"Giustiniano - Encarta"
Giustiniano I (Tauresium, Illiria 483 - Costantinopoli 565), imperatore romano d'Oriente (527-565), detto il
Grande. Nipote dell'imperatore Giustino I, crebbe alla corte di Costantinopoli; nel 518 fu incaricato della cura
dell'amministrazione dallo zio, il quale lo nominò suo successore. Nel 523 sposò Teodora, di umili origini,
dotata di grande intuito politico, e alla morte dello zio, nel 527, venne eletto imperatore.
Immediatamente dopo l'ascesa al trono, inaugurò una politica volta al consolidamento dei territori imperiali,
fuori e dentro i confini. Nel 532 siglò un accordo di pace con la Persia, mentre contemporaneamente incaricò
il generale Belisario di sedare un'insurrezione interna (la rivolta di Nika), scoppiata per cause politiche e
religiose, durante la quale lo stesso trono di Giustiniano vacillò e fu salvato grazie anche all'intervento di
Teodora. Nel 533 un esercito imperiale mosse contro il regno dei vandali nell'Africa del Nord, che venne
annesso all'impero nel 534. L'anno seguente un'altra armata imperiale attaccò gli ostrogoti in Italia, ma
incontrò una ferrea resistenza e la guerra si protrasse per quasi vent'anni. Una terza campagna, intrapresa
questa volta contro i visigoti, assicurò la riconquista della Spagna sudorientale. Così, alla morte di
Giustiniano, quasi tutti i territori intorno al bacino del Mediterraneo, che avevano fatto parte dell'originario
impero romano, erano stati riuniti sotto la corona bizantina, a eccezione della Gallia e della Spagna
settentrionale. Sul fronte orientale, però, le ostilità con la Persia erano riprese (540-545) e nei Balcani la
minaccia di slavi, unni e bulgari si faceva sempre più pressante.
Per organizzare un impero così vasto Giustiniano si propose di istituire un sistema legislativo organico e
incaricò una commissione, presieduta dal giurista Triboniano, di raccogliere e ordinare il diritto romano. Il
lavoro di compilazione durò oltre un decennio e la raccolta venne infine incorporata nel Corpus juris civilis,
chiamato anche Codice giustinianeo, promulgato nel 534 e aggiornato in seguito con nuovi decreti o
Novellae. L'opera è ancora oggi alla base del diritto di gran parte dei paesi europei. Meno felice fu, invece, il
tentativo di unificazione religiosa dell'impero: oltre che intervenire nel conflitto tra monofisiti e ortodossi,
sostenendo questi ultimi, Giustiniano si scontrò con la dura opposizione dei papi di Roma, avversi al suo
progetto.
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"Giustiniano - Treccani"
Giustiniano imperatore d'Oriente (482-565). Uno dei più grandi imperatori di Bisanzio. Dante colloca la sua
anima nel cielo di Mercuro, fra gli spiriti attivi (Paradiso, VI).
Nacque da famiglia non nobile a Tauresio, presso Scupi, nella Mesia macedonica, poco lontano dal confine
con l'Illirico, e iniziò la sua carriera all'ombra dell'autorità dello zio Giustino, divenuto imperatore nel 518. Nel
527 sposò Teodora, una prostituta figlia di un bestiario del circo, bella e intelligente. Nello stesso anno lo zio
lo associò al trono, quasi presago della fine che infatti giunse di lì a poco. Diverse e gravi furono le difficoltà
che il nuovo imperatore dovette affrontare. I barbari premevano da ogni parte sui lunghi confini del vasto
impero, le lotte religiose fra ortodossi ed eretici tenevano in continuo fermento la società bizantina, le ingenti
spese militari sottraevano energie per la ripresa economica e l'apparato burocratico si rivelava impari alle
esigenze del momento. Nel 532 G. ebbe a temere per il trono e per la vita in seguito ad una rivolta che gli
oppose un certo Ipazio, ma poi, sostenuto dalla moglie, dimostrò l'energia necessaria a salvare il trono. Il
suo prestigio ne uscì rafforzato ed egli poté dedicarsi alla sua opera di governo. Portò guerra ai Vandali in
Africa e con un'energica campagna guidata da Belisario nel 533 li sconfisse. Maggiore importanza ebbero le
operazioni militari condotte in Italia contro gli Ostrogoti. Belisario attaccò l'Italia dal sud e ottenne facili
successi sull'imbelle Teodato, che fu deposto.
Migliore fortuna non ebbe il nuovo re Vitige: assediato in Ravenna dovette arrendersi nel 540. Richiamato
Belisario a Costantinopoli, in Italia rimasero poche truppe che non riuscirono a impedire una riscossa dei
Goti guidati da Totila. G. rimandò Belisario in Italia, ma il vecchio generale riportò solo qualche effimero
successo. Nel 551 Totila aveva riconquistato gran parte d'Italia, la Sicilia, la Sardegna, la Corsica e si
affacciava minaccioso nel mare Jonio. G. affidò il comando delle operazioni a Narsete, che venne in Italia dal
nord con grandi mezzi e affrontò i Goti nella battaglia di Gualdo Tadino in Umbria: Totila morì tra la strage
dei suoi soldati (552). Dopo un anno un nuovo re, Teia, fu sconfitto alle falde del Vesuvio e con la sua morte
ebbe fine la dominazione dei Goti in Italia. Nel frattempo G. aveva combattuto vittoriosamente anche contro i
Persiani; nel 554 una spedizione condotta contro i Visigoti in Spagna si concluse con la conquista di una
parte di quella regione. Resistette alle pressioni degli Unni e dei Bulgari e nel 562 concluse un trattato con i
Persiani che si erano dimostrati i più irriducibili nemici dell'impero.
Tale lunga serie di spedizioni non distrasse G. dalle questioni interne dell'impero. Nelle cose religiose egli
sostenne l'ortodossia contro l'elemento eterodosso monofisita e si preoccupò di assicurare in tal modo l'unità
e la saldezza dello stato, spesso compromesse dalla moglie Teodora, che sosteneva i monofisiti, e dal
pontefice di Roma, che rivendicava i diritti dell'Occidente e della propria indipendenza. G. si interessò
attentamente anche dei problemi economici: si occupò con particolare cura dell'industria e del commercio ed
è a lui che bisogna riconoscere il merito di avere introdotto in Europa il baco da seta. Anche l'attività artistica
ed edilizia fu fiorente, come si può vedere soprattutto da Santa Sofia in Costantinopoli e da San Vitale in
Ravenna.
Ma l'opera che a G. ha assicurato la fama presso i posteri fu il Corpus delle leggi.
Non era trascorso nemmeno un anno dalla sua ascesa al trono, quando nel febbraio del 528 l'imperatore
nominò una commissione di 10 giuristi, presieduta da Triboniano, e ad essa affidò il compito di esaminare
l'immenso materiale giuridico romano e di ridurlo in un'organica trattazione. Nell'aprile dell'anno successivo
si ebbe un primo risultato: fu promulgato il Novus Codex Justinianeus. Nel 533 uscì il Digesto o Pandette,
che presentava in forma ordinata quanto aveva prodotto la giurisprudenza romana. Questa seconda
edizione del Codice risultò di 12 libri ordinati per materia: nel primo libro è contenuto il diritto ecclesiastico e
pubblico, nei successivi sette il diritto privato, nel nono il diritto e la procedura penale, e negli ultimi il diritto
amministrativo. La terza parte del Corpus reca il titolo di Novelle e contiene le leggi promulgate dallo stesso
G.; infine le Istituzioni costituirono un libro di testo per le scuole di diritto.
Il testo della grandiosa opera giuridica fu diffuso in tutto il territorio dell'impero. In Italia il primo esemplare
giunse a Ravenna accompagnato dalla Prammatica Sanzione che conteneva leggi riguardanti
l'amministrazione del territorio già soggetto ai Goti.
Utilizzare e Rielaborarr
1.7. Le prime raccolte di costituzioni.
Intorno al 300 hanno origine raccolte di citazioni dai classici e soprattutto dalle leggi imperiali. Si potrebbe
designarle come prime antesignane dei Digesta e del Codex lustiniaraus.
Il perduto Codex Gregorianus, raccolta privata di un Gregorio dalla cancelleria preposta ai libelli delle
costituzioni da Adriano a Diocleziano, appare nel 291; quattro anni piú tardi fa la sua comparsa il Codex
Hermogenianus, raccolta privata di decreti di Diocleziano.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte V- Cenni di letteratura latina altomedievale
103
Frammenti delle Iuris epitomae del giurista Ermogeniano, il futuro praefectus praetorio di Massimiano, si
trovano nei Digesta di Giustiniano, cosí come il Codex Gregorianus è stato accolto nel Codice di Giustiniano:
sono stati ripresi l'armamentario dei titoli e quasi tutte le costituzioni emanate da Adriano fino al 291.
Citazioni dai classici tardi (con indicazione delle fonti) unite ai decreti imperiali dei due codici privati
menzionati determinano la genesi a Roma, intorno al 320, di un'opera paragonabile per estensione ai
Digesta, della quale possiamo farci un'idea dai Fragmenta iuris Vaticana. Verosimilmente essa era destinata
all'insegnamento del diritto, ma viene utilizzata anche nella prassi giuridica.
Lo stesso scopo viene probabilmente perseguito dalla Collatio legum Mosaicarum et Romanarum,
pubblicata anonima intorno al 400, che contiene estratti dei cinque giuristi della legge-citazione sopra
ricordata - Papiniano, Paolo, Ulpiano, Gaio, Modestino - e le costituzioni imperiali sulla base dei Codices.
1.8. Diritto volgare (Vulgarrecht).
Nel IV secolo la conoscenza delle opere del tardo periodo classico va in gran parte perduta. Si lavora con gli
scritti elementari del primo periodo postclassico, soprattutto le Pauli sententiae, e con le costituzioni
imperiali. La prassi giuridica si svincola dalle scuole: al posto del diritto tecnico di tipo classico subentra il
«diritto volgare». Già sotto Costantino l'universo concettuale del diritto volgare penetra nella legislazione
imperiale. Negli scritti di scuola, peraltro, queste idee fanno la loro comparsa solo nel V secolo. Sulla
legislazione dei regni germanici il diritto romano influisce in questa forma.
1.9. Risveglio del diritto classico in Oriente.
La legislazione e presumibilmente anche la prassi giuridica della parte orientale dell'impero sono anch'esse
influenzate, nell'ultima parte del IV secolo e nel V, dalle categorie concettuali del diritto volgare.
Al contrario, il sapere scolastico dell'Oriente si rivolge nuovamente al diritto classico; soprattutto la scuola di
diritto di Berito, una colonia di cittadini le cui ultime origini risalgono ad Augusto, ha una parte determinante
in questa evoluzione. Una seconda scuola di diritto, fondata tra il 414 ed il 425 a Costantinopoli, ne segue le
orme. Degli scritti del periodo pregiustinianeo si conservano solo frammenti: dalla scuola di Berito hanno
origine gli Scholia Sinaitica (un frammento di un commento greco ai libri ad Sabinum di Ulpiano); di un libro
di diritto siriaco-romano in lingua greca composto nel V secolo, probabilmente un commento ad una raccolta
di costituzioni imperiali, sono conservate solo rielaborazioni in siriaco, armeno e arabo. Inoltre, da opere
giuridiche giustinianee e postgiustinianee possiamo dedurre l'esistenza di commenti ai classici e di brevi
indicazioni contenutistiche (indices), forse anche di raccolte di fonti e monografie.
Le opere composte nell'impero romano d'Oriente sono in generale erudite e lontane dalla realtà, prive di
autonomia e vincolate all'autorità del passato. Il loro merito consiste nell'avere aperto la strada allo studio e
alla comprensione dei classici. Grazie al loro lavoro la giurisprudenza classica può trovare accesso nella
legislazione di Giustiniano.
Un fattore importante dell'evoluzione giuridica postclassica è la legislazione imperiale: leggi emanate in
senato (orationes) e leggi indirizzate direttamente al pubblico (leges edictales); costitutive di norme di validità
generale (leges generales) e riferite a casi singoli (rescripta, ai quali nel V e nel VI secolo compete spesso
forza di legge).
Mentre con Diocleziano (tra le leggi conservate nelle raccolte di costituzioni) prevalgono i rescripta che
seguono i principi del diritto classico, le leges generales di Costantino introducono, specialmente nel diritto di
famiglia, incisive innovazioni nel segno d'idee greco-orientali, ma anche cristiane.
Costantino è il primo imperatore a disciplinare espressamente la letteratura giuridica: fa piazza pulita dei
pareri di grandi autorità e al loro posto dichiara valide le semplici sentenze pseudopaoline, che ignorano
scrupoli e dubbi. Stanco della cavillosità dei giuristi, si appoggia a retori condiscendenti. Di conseguenza fa
la sua comparsa nelle costituzioni la concettualità del diritto volgare, lo stile diviene prolisso, pomposo e
retorico, in totale contrapposizione alla precisione e alla brevità dei classici. Nella politica relativa al diritto
domina l'incostanza e le sanzioni minacciate sono spesso sproporzionatamente severe.
1.10. Fondamenti della codificazione tardoantica.
Il diritto creato dai giuristi (ius), che costituisce il contenuto degli scritti giuridici classici, resta pur sempre, è
vero, in vigore allo stesso titolo della legislazione imperiale (leges), ma giudici e avvocati trovano sempre piú
difficile orientarsi nelle infinite ramificazioni della casistica; allo stesso tempo rientra fra i compiti
dell'avvocato indicare le leggi di volta in volta pertinenti! Malauguratamente i commenti, che raccolgono lo
ius, dei giuristi del tardo periodo classico e le costituzioni imperiali, riunite negli archivi del palazzo, non sono
a portata di mano in ogni parte dell'impero; inoltre nel periodo tardo è difettosa l'intelligenza della materia
giuridica. Da questo stato di necessità hanno origine le leggi-citazione del III e del V secolo. Esse
prescrivono quali scritti giuridici debbano valere per la formulazione del giudizio e come vada valutato il
rapporto dei pareri fra le autorità citate.
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Le due piú antiche riguardano dapprima casi particolari. La prima legge costantiniana del 14 o 28 settembre
del 321 (cod. Theod. 1, 4, 1; cfr. 9, 43, 1) invalida le annotazioni critiche di Paolo ed Ulpiano alle
Quaestiones e ai Responsa di Papiniano a favore della validità esclusiva di quest'ultimo. La seconda legge
(del 27 settembre del 327 o del 328; cod. Theod. 1, 4, 2) riconosce validità a Paolo ed a tutti gli scritti
circolanti sotto il suo nome, ivi comprese le postclassiche Sententiae.
La legge-citazione piú comprensiva, che incorpora le due sopra ricordate, è promulgata nel 426 da
Val.entiniano III in Occidente, da Teodosio II in Oriente: in essa si conferma la validità di tutti gli scritti di
Papiniano, Paolo, Gaio, Ulpiano e Modestino, e delle autorità da loro citate. Se gli autori menzionati sono in
contrasto fra loro, prevale la maggioranza, a parità di pareri è valida l'opinione espressa da Papiniano (cod.
Theod. 1, 4, 3).
1.11. Il Codex Theodosianus.
Non esiste invero diversità funzionale tra lo ius vetus e le leggi imperiali e la materia giuridica è
fondamentalmente unitaria; manca però un'opera giuridica globale e sistematicamente elaborata. Perciò
nell'anno 429 l'imperatore d'Oriente Teodosio II (regnante dal 408 al 450) concepisce il disegno di un codice
di ampio respiro. Dopo il fallimento di una prima commissione nel mandare a compimento questo progetto,
sei anni piú tardi viene pubblicata, dopo due anni. di lavoro, una raccolta delle costituzioni imperiali
dall'epoca di Costantino (306-37) a Teodosio: il Codex Theodosianus, come continuazione delle due raccolte
private (Codex Gregorianus e Codex Hermogenianus). Ha cosí inizio la serie delle codificazioni tardoantiche.
L'opera legislativa viene recepita dall'imperatore d'Occidente Valentiniano III (425-55). Il Codex assunse
forza di legge per tutto l'impero il primo gennaio del 439.
La sua struttura è malauguratamente piuttosto arbitraria: libro 1 fonti giuridiche, alti funzionari imperiali; libri
2-5 diritto privato; libri 6-8 ancora funzionari, tra cui quelli repubblicani ed i senatori, diritto militare, funzionari
subalterni, integrazioni al diritto privato; libro 9 diritto e procedura penale; libri 10-11 diritto finanziario e
fiscale, appello, valore probatorio di testimoni e documenti; libri 12-15 diritto municipale, diritto
d'associazione; libro 16 diritto canonico. Nell'ambito delle ripartizioni per soggetto («sistema dei digesta ») i
decreti vengono riportati letteralmente in ordine cronologico.
Le leggi imperiali emanate dopo il Codex Theodosianus vengono raccolte in Oriente ed in Occidente; in
Oriente confluiscono nel Codex Iustinianus, nell'impero d'Occidente vengono allegate al Codex
Theodosianus come Novellae Posttheodosianae (costituzioni dal 438 al 468).
Sul Codex Theodosianus si fondano tutte le raccolte successive. La sua utilizzabilità resta tuttavia limitata,
perché non viene ancora tratto profitto (com'era nel progetto originale) dalle interpretazioni dei grandi giuristi
del periodo classico. Questo obiettivo è raggiunto solo sotto Giustiniano (527-65).
1.12. Codificazioni visigotiche.
Le invasioni delle popolazioni germaniche infliggono nel 476 il colpo di grazia all'impero romano d'Occidente.
Verso la fine del V secolo i re delle popolazioni germaniche in armi riconoscono de iure la supremazia
dell'imperatore romano d'Oriente, ma de facto regnano con potere autonomo su una popolazione mista, che
in parte segue le tradizioni germaniche, in parte il diritto romano o le sue propaggini in direzione del «diritto
volgare». In questa situazione acquista maggiore importanza il principio della personalità, dal quale il diritto
romano aveva in origine preso le mosse.
Le difficoltà nell'applicazione del diritto creato dai giuristi e di quello positivo fanno crescere la necessità di
una sistematizzazione chiara e facilmente maneggiabile del diritto romano. Perciò in Occidente, anche dopo
la fine della signoria romana, continuano a comparire registrazioni ufficiali del diritto. Le opere conservate
provengono dal regno dei Visigoti - l'Edictum Theoderici (cosí chiamato dal sovrano visigoto Teodorico II,
regnante dal 453 al 466, emanato dal praefectus praetorio Galliarum, Magno di Narbona, nel 458-59) - e dal
regno dei Burgundi.
L'Edictum Theoderici è una compilazione di leggi imperiali riprese dai codici Gregoriano, Ermogeniano e
Teodosiano, ed anche di sententiae di Paolo. Spesso viene impiegato non il testo ori ginale, bensí una
parafrasi volgarizzata, per esempio l'interpretatio quale compare nella Lex Romana Visigothorum.
Conservato frammentariamente è il Codex Euricianus, apparso intorno al 475 sotto il re Eurico, successore
di Teodorico II, destinato a valere per i Goti, non per la popolazione romana. Quest'opera di giuristi romani è
fondata sull'elaborazione del diritto volgare romano, non sulle tradizioni giuridiche germaniche. Sul codice di
Eurico si basano quelli dei re visigoti: esso influenza il diritto tribale di Franchi, Burgundi, Alemanni e Bavari
e fa da tramite tra il diritto volgare romano e i Germani.
Il codice del re Alarico II (506), la Lex Romana Visigothorum (Breviarium Alarici), ha contemporaneamente
l'obiettivo di definire l'identità nazionale dei Visigoti di fronte all'impero romano d'Oriente e di servire alla pace
interna: esso si propone di promuovere l'intesa con la popolazione romana e con la Chiesa, per assicurare ai
Goti ariani una posizione di partenza piú favorevole nell'imminente confronto col cattolico re dei Franchi.
L'opera legislativa comprende di seguito le leggi imperiali sulla base del Codex Theodosianus e delle
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Novellae Posttheodosianae, alcune costituzioni tratte dai codici Gregoriano ed Ermogeniano, una
rielaborazione riassuntiva delle Institutiones di Gaio, estratti dalle sententiae di Paolo ed in conclusione un
responsum di Papiniano. Una concomitante interpretatio (tranne che per Gaio), verosimilmente composta da
giuristi romani occidentali (piú antichi?), presenta una ricapitolazione o una parafrasi del testo, rimandando
perfino a fonti giuridiche non accolte. La Lex Romana Visigothorum, accanto al Codex Euricianus, diviene
nella Spagna visigotica uno dei fondamenti del codice emanato nel VII secolo dal re Recesvindo tanto per i
Romani quanto per i Goti; nella Francia meridionale essa sopravvive di mezzo millennio alla signoria gotica
ed esercita il proprio influsso anche sulla Borgogna e sulla Provenza. Solo nel xm secolo è soppiantata dalle
compilazioni giuridiche giustinianee. Poco prima della conquista franca (532) anche in Borgogna viene
emanato un codice per la popolazione romana: la Lex Romana Burgundionum4, presumibilmente sotto il re
Gundobad (m. 516). Esso utilizza le stesse fonti della Lex Romana Visigothorum, amalgamandole però in un
testo unitario verosimilmente fondato sulla medesima interpretatio di giuristi romani occidentali. Il codice
burgundico è piú decisamente orientato nel senso del diritto volgare e mostra minori tracce del diritto romano
piú antico che non la Lex Romana Visigothorum.
1.13.
La legislazione di Giustiniano.
Dopo un'ardua ascesa nella lotta per il trono di Costantinopoli, Giustiniano, in un regno durato decenni, non
si limita a ricostruire l'unità esteriore dell'impero, strappando a Vandali, Ostrogoti ed anche Visigoti le regioni
da loro dominate, ma cerca di rinnovarlo anche dall'interno: subito all'inizio del suo regno (527-65) egli
progetta di consolidarne l'unità politica e religiosa con un'opera onnicomprensiva di legislazione.
Una commissione da lui insediata poco dopo la sua ascesa al trono, il 13 febbraio del 528, sotto la
presidenza di Triboniano e composta di dieci membri (alti funzionari ed il maestro di diritto Teofilo), riceve
l'incarico di allestire una nuova raccolta delle costituzioni imperiali come espressione della legislazione
dell'impero. Sulla base del Codex Theodosianus vengono compendiati i codici Gregoriano, Ermogeniano e
Teodosiano, oltre alle novellae emanate in seguito; entro un anno vede la luce un nuovo codice in dodici libri
di piú facile orientamento, che elimina le componenti sorpassate.
Il 16 aprile del 5 2 9 il Codex Iustinianus riceve vigore di legge. Il 29 gennaio del 534 segue una nuova
revisione, il Codex repetitae praelectionis; adesso in testa si trova il diritto canonico, di nuova ricezione.
Questa seconda redazione è quella che ci è pervenuta.
I dodici libri sono suddivisi in rubriche per argomenti (da 40 a 80 ciascuno); all'interno dei libri le costituzioni,
che vanno da Adriano (117-38) a Giustiniano, sono riportate in ordine cronologico; vengono indicati autore,
destinatario e data. Il diritto canonico e la trattazione di fonti del diritto e magistrati (libro 1) sono seguiti da
diritto privato (libri 2-8), diritto e procedura penale (libro 9), diritto amministrativo e tributario (libri 10- 12).
Nonostante le molteplici fasi di compilazione, il Codex presenta perlopiú i testi originali. La lingua è in
prevalenza il latino, solo piú tardi riuscirà ad affermarsi il greco. Anche lo stile mostra le varianti originarie:
prima di Costantino (306-37) è preciso, piú tardi ampolloso. Le costituzioni giustinianee non sono abbreviate.
Nonostante la rielaborazione e la sintetizzazione - i rielaboratori assicurano ripetutamente di avere eliminato
tutto il superfluo e che ogni doppione è stato evitato - numerose disposizioni particolari si accavallano, di
modo che neppure in questo caso siamo in presenza di una codificazione essenziale in senso moderno.
Già Teodosio II aveva progettato di pubblicare anche gli scritti dei giuristi come opera legislativa sistematica;
nel lavoro al codice non si era però giunti a dar realizzazione all'intento. Triboniano, divenuto nel frattempo
magister sacri palatii (ministro della giustizia), guadagna Giustiniano a questa causa. L'imperatore, il 15
dicembre del 530, fa riunire una seconda commissione, che, su designazione di Triboniano, si compone
essenzialmente di esperti del settore (antecessores delle scuole giuridiche di Berito e Costantinopoli: dei
suoi membri solo lo stesso Triboniano, Costantino e Teofilo facevano parte anche di quella che aveva
elaborato il Codice): in tutto diciassette persone, suddivise in tre gruppi, con il compito di condensare circa
duemila rotoli di una quarantina d'autori - dunque l'intero ius vetus a partire dalle Leggi delle XII Tavole - in
un'opera di cinquanta libri al massimo. In ciò non ci si limita ai giuristi della legge della citazione né agli autori
da questa riconosciuti per via mediata, né ai giureconsulti autorizzati dall'imperatore. Dapprima Giustiniano
si riserva di dirimere d'autorità i conflitti tra i giuristi, ma dopo l'insurrezione «Nika» e durante la costruzione
di Santa Sofia (vd. Procopio, 1, 1, 20-64) egli è costretto a ritirarsi, di modo che, dopo l'esonero di Triboniano
da tutte le cariche pubbliche, la commissione lavora autonomamente: essa decide le controversie secondo
la propria discrezione ed effettua interpolazioni. Dopo tre anni di lavoro, il 16 dicembre del 533 vengono
pubblicati i Digesta o Pandectae Iustiniani, che entrano in vigore il 30 dicembre come fonte unica di sapere
giuridico. Contemporaneamente viene emanata una legge che proibisce di utilizzare nel futuro gli scritti
originali dei giuristi; le scuole private di diritto vengono messe al bando.
In conformità col corso degli studi giuridici, al quale i Digesta sono principalmente destinati, la materia è
suddivisa in sette parti (2-4; 5-11; 12-19; 20-27; 28-36; 37-44; 45-50); solo in parte è munita di titoli. I
raggruppamenti degli scritti giuridici determinano l'ordinamento degli estratti; il blocco sabiniano (i Libri ad
Sabinum di Paolo ed Ulpiano), il blocco dell'editto (Libri ad edictum), il blocco di Papiniano (sulla base dei
Responsa di Papiniano). Scritti integrativi costituiscono il blocco complementare («d'appendice»).
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Ci si devono attendere modifiche, principalmente interpolazioni, negli autori classici, perché nel processo di
riduzione ciò che rimane viene adattato alle esigenze contemporanee. Gli elementi datati scompaiono; certi
mutamenti si pongono anche all'insegna della semplificazione. La vitalità del patrimonio di esperienza
giuridica rimane inalterata.
Con una specie di tecnica di montaggio si cerca dapprima di unificare gli estratti in un testo continuato (cfr. i
commenti teologici delle «catene»). Nel corso dell'elaborazione dei Digesta, tuttavia, questa tendenza
regredisce, a parte certe concatenazioni di frammenti. Come nel Codex, anche nei Digesta viene indicata la
fonte giuridica.
I Digesta tramandano una parte non piccola della letteratura giuridica romana classica. Per la prassi
giuridica in Oriente, tuttavia, essi svolgono un ruolo minore rispetto al Codex, dato che solo in piccola parte
sono attuali e prendono in scarsissima considerazione i numerosi elementi tardoantichi del diritto bizantino.
Essenzialmente i Digesta riguardano il diritto privato, dando particolare sviluppo al diritto ereditario tanto
importante per i Romani. Il resto è occupato dal diritto procedurale, amministrativo e penale; il diritto
canonico è tralasciato.
Mentre è ancora in corso il lavoro ai Digesta Giustiniano fa mettere insieme un nuovo manuale didattico di
diritto, le Institutiones in quattro libri, fondate principalmente sulle tuttora utilizzate Institutiones di Gaio,
integrate con la redazione piú ampia, le Res cottidianae. Vengono impiegate però anche le opere istituzionali
piú recenti di Ulpiano, Marciano e Fiorentino. Nel nuovo scritto si trovano inoltre catene di frammenti dai
Digesta e costituzioni imperiali piú recenti, soprattutto di Giustiniano.
Gli esecutori sono Triboniano e i due professori Teofilo e Doroteo, che presentano il lavoro il 21 novembre
del 533. Poiché i libri 1-2 differiscono stilisticamente dai libri 3-4, la prima parte dell'opera viene attribuita a
Doroteo, la seconda a Teofilo. I titoli tematici formano un testo continuato; diversamente che nel Codex e nel
Digesta non appaiono qui intestazioni.
Le leggi riformatrici, mirate soprattutto alla soluzione di controversie nel lavoro di legiferazione, vengono
pubblicate ufficialmente come L decisiones. Il movimento rinnovatore si diffonde nell'ultima parte degli anni
Trenta e favorisce l'affermarsi della prassi giuridica orientale; in tal modo divengono superate certe parti del
Codex, dei Digesta e delle Institutiones. Dal punto di vista linguistico viene tenuto conto dei destinatari: le
leggi vengono adesso emanate perlopiú in greco, in parte anche nelle due lingue.
Le leggi successive vengono allegate come quarta parte alle precedenti tre dell'opera, sotto il titolo di
Novellae Constitutiones, non piú da Giustiniano, ma da singoli individui in redazioni diverse (in traduzione
latina, nel testo greco originale).
Giustiniano cerca di mantenere inalterata la sua opera legislativa (l'indovinato titolo Corpus iuris civilis
compare solo nell'edizione di Dionysus Godofredus nel 1583). L'imperatore proibisce pertanto, in base alla
pena capitale comminata per falsificazione, il confronto del testo delle sue leggi con l'originale, lo studio degli
originali, l'impiego di compendi e soprattutto il commento. Ciononostante l'attività d'insegnamento dà luogo
già al tempo di Giustiniano a parecchi commenti greci sotto forma di scritti per le lezioni: quello di Teofilo alle
Institutiones, quello di Doroteo e Stefano ai Digesta, quello di Taleleo al Codex.
Per opera di Giustiniano il diritto romano è divenuto generalmente adottabile in una forma vicina a quella
classica; la scienza giuridica della prima età moderna può riallacciarsi all'opera dei suoi giuristi. Altrettanto
importanti di una comprensibile legislazione sono indubbiamente per questo sovrano anche la presentazione
della pienezza del suo potere e l'indicazione dei suoi ascendenti spirituali. Nella loro funzione di ponte fra
antichità, medioevo ed età moderna, le opere giuridiche promosse da Giustiniano possono essere
paragonate solamente ai contemporanei scritti filosofici di Boezio.
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La letteratura monastica tra il V e l'VIII secolo
Notizie di raccordo con quanto osservato in parte IV a e b
Sono ricordati nella parte IV altri precedenti come Martino di Tours (316-p.371), Giovanni Cassiano
(360-(435), Eucherio di Lione (morto 450) e Salviano di Marsiglia (400-480) e anche Cesario di
Arles (470-543).
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[Fonte: I. Gobry, Storia del monachesimo, 1, p. 378, BCTV]
La cristianizzazione dell’Europa
Nonostante la convenzione storiografica collochi la fine dell’evo antico al 476, l’impero romano
d’Occidente è già arrivato al suo termine con la morte di Teodosio nel 395.
Già nel corso del IV secolo alcune popolazioni barbariche avevano abbracciato il Cristianesimo,
attraverso l’arianesimo. Lo dimostra l’esperienza conciliante di Teodorico (ariano) in Italia di fronte
alla Chiesa cattolica. Le cose andarono in modo diverso in Spagna e Gallia meridionale con i
Visigoti, pur ariani: non si riuscì a trovare un accordo con la popolazione cattolica sostenuta dal
clero. Nella Francia settentrionale si raggiunse una situazione favorevole al Cristianesimo con
Clodoveo (battez. 498 o 506), chiamato da Gregorio di T. “novello Costantino”. Con il 507 i Franchi
spingono i Visigoti al di là dei Pirenei anche facendo leva sullo spirito cristiano delle popolazioni.
La conversione di altre popolazioni del Nord Europa al Cristianesimo si realizzò attraverso
missionari.
Nel secolo V Patrizio evangelizza l’Irlanda, in gran parte cristiana alla morte di Patrizio (ca. 461).
Il monachesimo irlandese sviluppa una forte vocazione missionaria, simbolica del viaggio dalla
terra alla patria celeste. L’evangelizzazione irlandese tocca l’Islanda, le isole a occidente della
Scozia e l’Europa centrale.
La figura di maggior spicco è Colombano (v. sub voce).
La conversione dell’Inghilterra ha due punti di partenza: quello irlandese, attraverso Aidano e
Finana che partono da Iona ed evangelizzano il Northumbria e la Mercia; quello romano, ispirato
da Gregorio Magno, con Agostino che evangelizzò il Kent, l’Essex e l’Anglia orientale.
La conversione dei Longobardi fu più complessa: dal loro arrivo in Italia (568) al VII secolo essi
restarono in parte pagani, in parte ariani; poi la conversione, grazie alla regina Teodolinda.
I Visigoti si convertirono al cattolicesimo verso la fine del VI secolo, con la conversione del re
Recaredo. Tale opera di cristianizzazione dell’Europa va del resto di pari passo con altri due fatti
politici di rilievo: la riconquista dell’Occidente da parte di Giustiniano (relativo condizionamento del
papato da parte della corte bizantina) e l’espansione dell’Islam.
Il passaggio dall’evo antico a quello medioevale è rappresentato culturalmente da figure
simboliche: Boezio, Cassiodoro, Isidoro e Beda, cui si può aggiungere Gregorio M. (monaco-papa)
che gettano le basi di un piano di educazione cristiana e formazione teologica a partire dalla
tradizione classica.
Il monachesimo, in particolare quello benedettino, è l’altro elemento culturale di riferimento nella
transizione verso la rinascita carolingia. Essenziali sotto questo profilo la scelta del cenobitismo, il
binomio preghiera-lavoro, il radicamento nel territorio.
Regula Magistri
Riporta sigle di Regulae antiche citate in ediz. Bozzi Paideia.
Testi e testimonianze
Cap. 1 con commento come lettura critica.
Bibliografia
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Edizioni
H. Vanderhoven – F.Masai, Bruxelles-paris 1953 (diplomatica).
A. De Vogüé, Paris, 1964-65, Sch 1964-65.
M. Bozzi, osb, (trad. e comm.) Brescia, Paideia, 1995. BCTV
S. Benedetto
Cenni biografici
La data di nascita viene tradizionalmente collocata nel 480, ma non può essere documentata con
sicurezza, anche considerata l'assenza di testimonianze coeve. Alcuni studiosi hanno proposto di
recente di spostare la data di nascita al 490-500.
Benedetto "appare" per la prima volta nella storia solo con Gregorio Magno che, tra il 593 e il 594,
di lui ci parla nel secondo libro dei suoi
Dialogi, interamente dedicato al
monaco. Queste in sintesi le notizie
che se ne possono trarre.
La famiglia di origine è agiata (S.
Gregorio la riconduce alla gens Anicia)
e dopo i primi studi grammaticali nella
natale Norcia, Benedetto si trasferisce
a Roma per gli studi superiori.
Disgustato dal clima di decadenza
morale che vi si respira, si ritira
dapprima a Affile (Enfide), poi in totale
eremitaggio, a Subiaco, tra i resti della
villa di Nerone. Dopo qualche tempo i
monaci di Vicovaro lo invitano a
riformare la loro comunità; fallito
questo tentativo, Benedetto si vide
comunque preso ad esempio da altri
monaci del luogo e assieme a loro
costituì una piccola comunità di cui fu
abate. Nuovi malintesi con il clero locale spinsero poi Benedetto ad allontanarsi da Subiaco per
raggiungere Cassino con alcuni discepoli. Questo, secondo la tradizione, intorno al 529: a Cassino
Benedetto fondò un monastero sulle rovine di un'antica acropoli cultuale, evangelizzò alcuni locali
ancora legati a culti pagani, si occupò della direzione spirituale di alcune comunità religiose
femminili, fondò un altro monastero nei pressi di Terracina. Poco prima della morte, avvenuta nel
547 o un anno dopo, lo visitò anche Totila, re dei Goti.
Analogamente a quanto osservato per la data di nascita, alcuni propongono di collocare quella
della morte intorno al 560.
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[Fonte: I. Gobry, Storia del monachesimo, 1, Roma, Città Nuova, 1991, p. 656. BCTV]
Opere
La Regula monachorum, composta da Benedetto a Montecassino, tiene sicuramente conto di altre
regole monastiche, sia occidentali, sia orientali, preesistenti. Tra quelle che maggiormente la
ispirarono va annoverata la così detta Regula Magistri, testo anonimo dei primi decenni del VI,
quindi coeva alla regola di Benedetto.
(Per ulteriori approfondimenti v. lettura critica di Picasso).
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Osservazioni
Altre osservazioni da utilizzare in Storia del Cristianesimo, Laterza, S.Pricoco, pp.424-433.
Testi e testimonianze
Paol. Diac., hist. Lang., 1, 26
Testo latino
Proprio in quegli anni sul monte Subiaco a quaranta miglia da Roma, e poi nel convento di Cassino, detto
anche Arce, visse San Benedetto, fulgido esempio di vita perfetta e di apostolica virtù. La sua vita è nota a
tutti perché papa Gregorio l'ha narrata con delicate parole nei suoi dialoghi.
Greg. Magnus, vita S.Benedicti (Dial., 2,1 e 36)
2,1
Gregorio: seguitando le nostre conversazioni, parleremo oggi di un uomo veramente insigne, degno di ogni
venerazione. Si chiamava Benedetto questo uomo e fu davvero benedetto di nome e di grazia. Fin dai primi
anni della sua fanciullezza era già maturo e quasi precorrendo l'età con la gravità dei costumi, non volle mai
abbassare l'animo verso i piaceri.
Se l'avesse voluto avrebbe potuto largamente godere gli svaghi del mondo, ma egli li disprezzò come fiori
seccati e svaniti.
Era nato da nobile famiglia nella regione di Norcia. Pensarono di farlo studiare e lo mandarono a Roma dove
era più facile attendere agli studi letterari. Lo attendeva però una grande delusione: non vi trovò altro,
purtroppo, che giovani sbandati, rovinati per le strade del vizio.
Era ancora in tempo. Aveva appena posto un piede sulla soglia del mondo: lo ritrasse immediatamente
indietro. Aveva capito che anche una parte di quella scienza mondana sarebbe stata sufficiente a
precipitarlo intero negli abissi.
Abbandonò quindi con disprezzo gli studi, abbandonò la casa e i beni paterni e partì, alla ricerca di un abito
che lo designasse consacrato al Signore. Gli ardeva nel cuore un'unica ansia: quella di piacere soltanto a
Lui. Si allontanò quindi così: aveva scelto consapevolmente di essere incolto, ma aveva imparato
sapientemente la scienza di Dio.
Certamente io non posso conoscere tutti i fatti della sua vita. Quel poco che sto per narrare, l'ho saputo dalla
relazione di quattro suoi discepoli: il reverendissimo Costantino, suo successore nel governo del monastero;
Valentiniano, che fu per molti anni superiore del monastero presso il Laterano; Simplicio, che per terzo
governò la sua comunità; e infine Onorato, che ancora dirige il monastero in cui egli abitò nel primo periodo
di vita religiosa.
2,36
Gregorio: mi piacerebbe molto, Pietro, prolungarmi ancora nel racconto dei fatti di questo venerabile Padre,
ma molte cose bisogna che volutamente le ometta, perché è necessario che io mi accinga a narrare anche
la vita di altri.
C'è una cosa però interessante, che non devi ignorare, cioè che l'uomo di Dio, oltre ai tanti miracoli che lo
resero così conosciuto nel mondo, rifulse anche per una eccezionale esposizione di dottrina. Scrisse infatti
anche una regola per i monaci, regola caratterizzata da una singolare discrezione ed esposta in chiarissima
forma.
Veramente se qualcuno vuol conoscere a fondo i costumi e la vita del santo, può scoprire nell'insegnamento
della regola tutti i documenti del suo magistero, perché quest'uomo di Dio certamente non diede nessun
insegnamento, senza averlo prima realizzato lui stesso nella sua vita.
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Trad. PP. Benedettini di Subiaco in "Spiritualità nei secoli", Roma, Città Nuova,??. [Internet]
Internet o altro per testo
Bened., reg., prol.
1.Ascolta, o figlio, gli insegnamenti del maestro e piega l'orecchio del tuo cuore; accogli volentieri
l'ammonimento di un padre amorevole e mettilo in pratica risolutamente, 2 affinché tu ritorni con la fatica
dell'obbedienza a colui dal quale ti eri allontanato con l'inerzia della disobbedienza. 3 Le mie parole, dunque,
si rivolgono ora a te, chiunque tu sia che, rinunziando alla propria volontà per diventare soldato di Cristo
Signore e vero re, prendi le armi fortissime e gloriose dell'obbedienza. 4. lnnanzitutto, tutto ciò che di buono
ti accingi a operare, chiedi a lui con insistente preghiera che abbia compimento, 5. affinché colui che si è già
degnato di annoverarci nel numero dei suoi figli, non debba un giorno rattristarsi delle nostre cattive azioni.
6. Grazie ai doni che ha messo in noi, dobbiamo obbedirgli in ogni momento, in modo che egli non solo non
diseredi un giorno, come un padre adirato, i suoi figli, 7. ma neppure, come un padrone tremendo, irritato
dalle nostre colpe, ci destini alla pena eterna quali servi iniqui, che non abbiano volato seguirlo verso la
gloria. 8. Alziamoci dunque una buona volta, poiché la Scrittura ci sveglia con queste parole: «È l'ora di
levarsi dal sonno», 9. apriamo gli occhi alla luce divina e ascoltiamo con orecchie attente i moniti della voce
divina, che ci ripete ogni giorno: 10. «Oggi, se udrete la sua voce, non lasciate indurire il vostro cuore», 11. e
ancora: «Chi ha orecchie per ascoltare, ascolti quello che lo Spirito dice alle chiese». 12 E che cosa dice?
«Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore del Signore. 13. Correte, finché avete la luce della vita,
perché non vi afferrino le tenebre della morte». 14 Cercando il suo operaio nella moltitudine del popolo a cui
annunzia queste cose, il Signore dice ancora: 15 «Chi è l'uomo che vuole vita e desidera vedere giorni
felici?». 16. Se tu, all'udire ciò, rispondi: Io, Dio ti dice: 17 Se vuoi avere la vita vera ed eterna, «tieni lontana
la tua lingua dal male e le tue labbra non pronuncino inganno; evita il male e fa il bene, cerca la pace e
seguila». 18. E quando avrete fatto ciò, i miei occhi saranno sopra di voi e le mie orecchie saranno attente
alle vostre preghiere e, prima che voi mi invochiate, vi dirò: «Eccomi, sono qui». 19. Che cosa è più dolce
per noi di questa voce del Signore, che ci invita, o fratelli carissimi? 20. Ecco, nella sua misericordia il
Signore ci indica la via della vita. 21. Cingiamo dunque i nostri fianchi con la fede e la pratica delle buone
opere e incamminiamoci per le sue strade sotto la guida del Vangelo, per essere degni di vedere colui «che
ci ha chiamati al suo regno». 22. Se noi vogliamo abitare in una dimora di quel regno, non vi si può giungere
se non si corre con le buone opere. 23. Ma interroghiamo con il profeta il Signore e diciamogli: «Signore, chi
abiterà nella tua dimora e chi riposerà sul tuo santo monte?». 24. Dopo questa domanda, fratelli, ascoltiamo
il Signore che risponde e ci mostra la via della sua dimora 25 dicendo: «Colui che procede senza macchia e
opera la giustizia; 26 che nel suo cuore dice la verità; che con la sua lingua non ha mai compiuto inganno;
27. che non ha fatto male al suo prossimo; che non ha permesso che il suo prossimo venisse offeso»; 28
che ha annientato il diavolo maligno che lo tentava respingendolo lontano dal cospetto del proprio cuore con
ogni sua seduzione, ha preso i pensieri appena ispiratigli da lui e li ha spezzati in Cristo; 29 coloro i quali
temono il Signore e non insuperbiscono per la loro buona condotta, ma ritengono che il buono che c'è in essi
non è opera loro ma del Signore, 30. magnificano il Signore che opera in loro dicendo con il profeta: «Non a
noi, Signore, rendi gloria, non a noi, ma al tuo nome»; 31 allo stesso modo, neanche l'apostolo Paolo si
attribuì nulla della propria predicazione e disse: «E per grazia di Dio che io sono quello che sono»; 32. ed è
ancora lui a dire: «Chi si gloria, si glorii nel Signore». 33. Perciò anche il Signore dice nel Vangelo: «Chi
ascolta le mie parole e le mette in pratica, lo paragonerò all'uomo saggio, che ha edificato la sua casa sulla
pietra; 34. sono venute le acque, hanno soffiato i venti e hanno fatto impeto contro quella casa e non è
caduta, poiché era stata fondata sulla pietra». 35. Dette queste parole, il Signore attende che noi ogni giorno
ci impegniamo a rispondere con i fatti a questi suoi santi ammonimenti. 36. Perciò i giorni di questa vita ci
vengono concessi a guisa di una proroga per emendarci dei nostri vizi, 37. secondo le parole dell'apostolo:
«Non sai che la pazienza di Dio ti spinge al pentimento?». 38 Infatti il Signore misericordioso dice: «Non
voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva». 39. Avendo dunque interrogato il Signore, fratelli,
su colui che abiterà la sua dimora, abbiamo udito il suo insegnamento per abitarvi, se però adempiamo ai
doveri che spettano a chi vi abita. 40. Bisogna dunque preparare i nostri cuori e i nostri corpi a militare sotto
la santa obbedienza dovuta ai precetti. 41. E per quanto riguarda ciò che non riesce possibile alla nostra
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natura, preghiamo il Signore perché decida di accordarci il soccorso della sua grazia. 42. E se vogliamo
fuggire le pene dell'inferno e pervenire alla vita eterna, 43. finché c'è ancora tempo e siamo in questo corpo
e c'è tempo per adempiere tutto questo durante la luce di questa vita, 44. bisogna correre e operare adesso
ciò che ci sia utile per l'eternità. 45. Dobbiamo dunque istituire una scuola per il servizio del Signore. 46. E
nell'organizzarla speriamo di non stabilire nulla di aspro, nulla di gravoso; 47. ma se per un'esigenza di
equità ne verrà fuori qualche precetto un po' più rigido per correggere i vizi e conservare la carità, 48. non
lasciarti turbare dalla paura e non fuggire lontano dalla via della salvezza, alla quale non ci si può avviare se
non per inizio angusto. 49. Ma quando si procede nella vita monastica e nella fede, allora il cuore si allarga e
si corre per la via dei comandamenti di Dio con una inesprimibile dolcezza di amore, 50. sicché, non
allontanandoci mai dal suo insegnamento e seguendo nel monastero la sua dottrina con perseveranza sino
alla morte, partecipiamo con la nostra sofferenza ai patimenti di Cristo, così da meritare di essere partecipi
anche del suo regno. Amen.
Trad. S. Pricoco
Il Prologo riproduce nella sua quasi totalità una parte dell'introduzione del Maestro, quattro volte più lunga. Essa è
costituita da un Prologo vero e proprio, che è la presentazione della Regola, e da un Thema, nel quale viene presentata
la dominici scola seruitii, cioè il monastero, e l'ascesi monastica viene radicata nella tradizione cristiana e nella Scrittura
mediante un lungo e accurato commentario monastico del Pater noster e dei Salmi 33 e 14. Quest'ultima parte sui Salmi
è quella che si legge letteralmente nel prologo benedettino (vv. 5-45); mentre appartengono a Benedetto due piccoli
brani, all'inizio (vv. 1-4) e alla fine (vv. 46-9), collegati al resto non senza qualche segno di discontinuità sia formale che
logica. Dei due è certamente più personale l'aggiunta finale, nella quale Benedetto presenta un'interpretazione meno
scoraggiante e più ottimistica della vita monastica. Il Prologo è la parte della RB sulla quale si è maggiormente esercitata
la ricerca studiosa, sia per il fascino delle proposizioni generali in esso accolte, nelle quali è più esplicita l'espressione
della dottrina monastica di Benedetto e della sua spiritualità, sia perché il confronto con le pagine proemiali del Maestro
ha messo in luce, meglio delle altre parti in comune, le diversità tra i due legislatori e le peculiarità di ciascuno di essi nei
procedimenti compositivi, nelle idee, nell'approccio con la Scrittura. Da tale confronto sono emerse non poche delle
argomentazioni utilizzate per attestare l'anteriorità del Maestro e per definire l'atteggiamento di Benedetto nei suoi
confronti.
S.Pricoco, dal commento in edizione della Regola, Milano, Mondadori FLV, 1995. [BCTV]
Bened., reg., 2
Qualis debeat esse abbas
Abbas qui præesse dignus est monasterio semper meminere debet quod dicitur et nomen maioris factis
implere. Christi enim agere vices in monasterio creditur, quando ipsius vocatur pronomine, dicente apostolo:
Accepistis spiritum adoptionis filiorum, in quo clamamus: Abba, Pater. Ideoque abbas nihil extra præceptum
Domini quod sit debet aut docere aut constituere vel iubere, sed iussio eius vel doctrina fermentum divinæ
iustitiæ in discipulorum mentibus conspargatur, memor semper abbas quia doctrinæ suæ vel discipulorum
oboedientiæ, utrarumque rerum, in tremendo iudicio Dei facienda erit discussio. Sciatque abbas culpæ
pastotis incumbere quidquid in ovibus paterfamilias utilitatis minus potuerit invenire. Tantumdem iterum erit
ut, si inquieto vel inoboedienti gregi pastoris fuerit omnis diligentia adtributa et morbidis earum actibus
universa fuerit cura exhibita, pastor eorum in iudicio Domini absolutus dicat cum Propheta Domino: Iustitiam
tuam non abscondi in corde meo, veritatem tuam et salutare tuum dixi; ipsi autem contemnentes spreverunt
me, et tunc demum inoboetientibus cursæ suæ ovibus poena sit eis prævalens ipsa mors.
Ergo, cum aliquis suscipit nomen abbatis, duplici debet doctrina suis præesse discipulis, id est omnia bona
et sancta factis amplius quam verbis ostendat, ut capacibus discipulis mandata Domini verbis proponere,
duris corde vero et simplicioribus factis suis divina præcepta monstrare. Omnia vero quæ discipulis docuerit
esse contraria, in suis factis indicet non agenda, ne aliis prædicans ipse reprobus inveniatur, ne quando illi
dicat Deus precanti: quare tu enarras iustitias meas et adsumis testamentum meum per os tuum? tu vero
odisti disciplinam et proiecisti sermones meos post te, et:qui in fratris tui oculo festucam videbas, in tuo
trabem non vidisti.
Non ab eo persona in monasterio discernatur. Non unus plus ametur quam alius, nisi quem in bonis actibus
aut oboedientia invenerit meliorem. Non convertenti ex servitio præponatur ingenuus, nisi alia rationabilis
causa existat. Quod si ita, iustitia dictante, abbati visum fuerit, et de cuiuslibet ordine id faciet; sin alias,
propria teneant loca, quia: Sive servus sive liber, omnes in Christo unum sumus et sub uno Domino
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æqualem servitutis militiam baiulamus, quia: Non est apud Deum personarum acceptio. Solummodo in hac
parte apud ipsum discernimur, si meliores ab aliis in operibus bonis et humiles inveniamur. Ergo æqualis sit
ab eo omnibus caritas, una præ beatur in omnibus secundum merita disciplina.
In doctrina sua namque abbas apostolicam debet illam semper formam servare in qua dicit: Argue, obsecra,
increpa, id est, miscens temporibus tempora, terroribus blandimenta, dirum magistri, pium patris ostendat
affectum, id est indisciplinatos et inquietos debet durius arguere, oboedientes autem et mites et patientes, ut
in melius proficiant obsecrare, neglegentes et contemnentes ut increpat et corripiat admonemus. Neque
dissimulet peccata delinquentiump; sed ut, mox ut coeperint oriri, radicitus ea ut prævalet amputet, memor
periculi Heli sacerdotis de Silo. Et honestiores quidem atque intellegibiles animos prima vel secunda
admonitione verbis corripiat, inprobos autem et duros ac superbos vel inoboedientes verberum vel corporis
castigatio in ipso initio peccati coerceat, sciens scriptum: Stultus verbis non corrigitur, et iterum: Percute
filium tuum virga et liberabis animam eius a morte.
Meminere debet semper abbas quod est, meminere quod dicitur, et scire quia cui plus committitur, plus ab
eo exigitur. Sciatque quam difficilem et arduam rem suscipit, regere animas et multorum servire moribus, et
alium quidem blandimentis, alium vero increpationibus, alium suasionibus; et secundum unuscuiusque
qualitatem vel intellegentiam, ita se omnibus conformet et aptet ut non solum detrimenta gregis sibi commissi
non patiatur, verum in augmentatione boni gregis gaudeat.
Ante omnia, ne dissimulans aut parvipendens salutem animarum sibi commissarum, ne plus gerat
sollicitudinem de rebus transitoriis et terrenis atque caducis, sed semper cogitet quia animas suscepit
regendas, de quibus et rationem redditurus est. Et ne causetur de minori forte substantia , meminerit
scriptum: Primum quærite regnum Dei et iustitiam eius, et hæc omnia adicientur vobis, et iterum: Nihil deest
timentibus eum. Sciatque quia qui suscipit animas regendas paret se ad rationem reddendam. Et quantum
sub cura sua fratrum se habere scierit numerum, agnoscat pro certo quia in die iudicii ipsarum omnium
animarum est redditurus Domino rationem, sine dubio addita et suæ animæ. Et ita, timens semper futuram
discussionem pastoris de creditis ovibus, cum de aliis ratiociniis cavet, redditur de suis sollicitus, et cum de
monitionibus suis emendationem aliis subministrat, ipse efficitur a vitiis emendatus.
Un abate degno di stare a capo di un monastero deve sempre avere presenti le esigenze implicite nel suo
nome, mantenendo le proprie azioni al livello di superiorità che esso comporta.
Sappiamo infatti per fede che in monastero egli tiene il posto di Cristo, poiché viene chiamato con il suo
stesso nome, secondo quanto dice l'Apostolo: "Avete ricevuto lo Spirito di figli adottivi, che vi fa esclamare:
Abba, Padre!"
Perciò l'abate non deve insegnare, né stabilire o ordinare nulla di contrario alle leggi del Signore, anzi il suo
comando e il suo insegnamento devono infondere nelle anime dei discepoli il fermento della santità.
Si ricordi sempre che nel tremendo giudizio di Dio dovrà rendere conto tanto del suo insegnamento, quanto
dell'obbedienza dei discepoli e sappia che il pastore sarà considerato responsabile di tutte le manchevolezze
che il padre di famiglia avrà potuto riscontrare nel gregge.
D'altra parte è anche vero che, se il pastore avrà usato ogni diligenza nei confronti di un gregge irrequieto e
indocile, cercando in tutti i modi di correggerne la cattiva condotta,
verrà assolto nel divino giudizio e potrà ripetere con il profeta al Signore: "Non ho tenuto la tua giustizia
nascosta in fondo al cuore, ma ho proclamato la tua verità e la tua salvezza; essi tuttavia mi hanno
disprezzato, ribellandosi contro di me".
E allora la giusta punizione delle pecore ribelli sarà la morte, che avrà finalmente ragione della loro
ostinazione.
Dunque, quando uno assume il titolo di Abate deve imporsi ai propri discepoli con un duplice insegnamento,
mostrando con i fatti più che con le parole tutto quello che è buono e santo: in altri termini, insegni oralmente
i comandamenti del Signore ai discepoli più sensibili e recettivi, ma li presenti esemplificati nelle sue azioni ai
più tardi e grossolani.
Confermi con la sua condotta che bisogna effettivamente evitare quanto ha presentato ai discepoli come
riprovevole, per non correre il rischio di essere condannato dopo aver predicato agli altri e di non sentirsi dire
dal Signore per i suoi peccati: "Come ti arroghi di esporre i miei precetti e di avere sempre la mia alleanza
sulla bocca, tu che hai in odio la disciplina e ti getti le mie parole dietro le spalle?"
e ancora: "Tu che vedevi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, non ti sei accorto della trave nel tuo".
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Si guardi dal fare preferenze nelle comunità: non ami l'uno piò dell'altro, a eccezione di quello che avrà
trovato migliore nella condotta e nell'obbedienza: non anteponga un monaco proveniente da un ceto elevato
a uno di umili origini, a meno che non ci sia un motivo ragionevole per stabilire una tale precedenza.
Ma se, per ragioni di giustizia, riterrà di dover agire così lo faccia per chiunque; altrimenti ciascuno conservi il
proprio posto, perché, sia il servo che il libero, tutti siamo una cosa sola in Cristo e, militando sotto uno
stesso Signore, prestiamo un eguale servizio. Infatti, "dinanzi a Dio non ci sono parzialità"
e una cosa sola ci distingue presso di lui: se siamo umili e migliori degli altri nelle opere buone.
Quindi l'abate ami tutti allo stesso modo, seguendo per ciascuno una medesima regola di condotta basata
sui rispettivi meriti.
Per quanto riguarda poi la direzione dei monaci, bisogna che tenga presente la norma dell'apostolo:
"Correggi, esorta, rimprovera" e precisamente, alternando i rimproveri agli incoraggiamenti, a seconda dei
tempi e delle circostanze, sappia dimostrare la severità del maestro insieme con la tenerezza del padre.
In altre parole, mentre deve correggere energicamente gli indisciplinati e gli irrequieti, deve esortare
amorevolmente quelli che obbediscono con docilità a progredire sempre più. Ma è assolutamente
necessario che rimproveri severamente e punisca i negligenti e coloro che disprezzano la disciplina.
Non deve chiudere gli occhi sulle eventuali mancanze, ma deve stroncarle sul nascere, ricordandosi della
triste fine di Eli, sacerdote di Silo.
Riprenda, ammonendoli una prima e una seconda volta, i monaci più docili e assennati, ma castighi
duramente i riottosi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti, appena tentano di trasgredire, ben sapendo che
sta scritto: "Lo stolto non si corregge con le parole"
e anche: "Battendo tuo figlio con la verga, salverai l'anima sua dalla morte".
L'abate deve sempre ricordarsi quel che è e come viene chiamato, nella consapevolezza che sono maggiori
le esigenze poste a colui al quale è stato affidato di più.
Bisogna che prenda chiaramente coscienza di quanto sia difficile e delicato il compito che si è assunto di
dirigere le anime e porsi al servizio dei vari temperamenti, incoraggiando uno, rimproverando un altro e
correggendo un terzo: perciò si conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza, in modo
che, invece di aver a lamentare perdite nel gregge affidato alle sue cure, possa rallegrarsi per l'incremento
del numero dei buoni.
Soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle anime, di cui è responsabile, per
preoccuparsi eccessivamente delle realtà terrene, transitorie e caduche, ma pensi sempre che si è assunto
l'impegno di dirigere delle anime, di cui un giorno dovrà rendere conto e non cerchi una scusante nelle
eventuali difficoltà economiche, ricordandosi che sta scritto :"Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua
giustizia e tutte queste cose vi saranno date in soprappiù" e anche: "Nulla manca a coloro che lo temono".
Sappia inoltre che chi si assume l'impegno di dirigere le anime deve prepararsi a renderne conto e stia certo
che, quanti sono i monaci di cui deve prendersi cura, tante solo le anime di cui nel giorno del giudizio sarà
ritenuto responsabile di fronte a Dio, naturalmente oltre che della propria.
Così nel continuo timore dell'esame a cui verrà sottoposto il pastore riguardo alle pecore che gli sono state
affidate mentre si preoccupa del rendiconto altrui, si fa più attento al proprio e corregge i suoi personali
difetti, aiutando gli altri a migliorarsi con le sue ammonizioni.
Trad. ???
Benedetto distribuisce in due capitoli, in questo e nel seguente, i precetti che riguardano il direttorio abbaziale, che il
Maestro aveva invece raccolto in un unico brano; sulle prerogative dell'abate ritorna successivamente, in più occasioni
(ved. capp. 21, 62, 63,65 e, specialmente, 64 sull'elezione dell'abbate). Questo secondo capitolo riproduce in buona
parte il testo del Maestro; ad esso Benedetto fa alcune aggiunte, la più ampia é significativa delle quali è l'ultima (vv. 3137) ma la figura e il ruolo dell'abate restano per lui quello che erano agli occhi del Maestro. Le due regole riprendono
sostanzialmente temi e precetti presenti nella tradizione legislativa e parenetica (ved. supra, comm. a RIVP 2) e nessuna
delle due introduce elementi di grande novità. E’ insolita, invece, l'ampia dimensione riservata alla trattazione,
notevolmente maggiore rispetto alle regole precedenti: ancora più insolito, a questo proposito, il rapporto di Benedetto
con la sua fonte (ved. de Vogùé, La Communauté.. , p. 521): non solo il direttorio benedettino è più lungo del
corrispettivo capitolo del Maestro, ma alla fine della Regola esse sarà completato con una seconda trattazione (cap. 64).
Molti versetti sono dedicati a definire gli aspetti spirituali della figura dell'abate, il suo ruolo di rappresentante di Cristo nel
monastero, la sua gravissima responsabilità di fronte al supremo giudice, a Dio, al quale egli dovrà rendere conto del
progresso spirituale dei fratelli: sul piano normativo risaltano, specialmente quando si confronti il testo benedettino con le
regole precedenti, il potere che Benedetto attribuisce all'abate, molto forte, anche se meno autocratico di quanto
prevedeva il Maestro, e l'insistita rivendicazione della sua autorità.
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S.Pricoco, dal commento in edizione della Regola, Milano, Mondadori FLV, 1995. [BCTV]
Bened., reg., 3. De adhibendis ad consilium fratribus. Vita nel monastero
Quotiens aliqua praecipua agenda sunt in monasterio, convocet abbas omnem congregationem, et dicat
ipse unde agitur. Et audiens consilium fratrum, tractet apud se; et quod utilius iudicaverit, faciat. Ideo
abbatem omnes ad consilium vocari diximus, quia saepe iuniori Dominus revelat quod melius est. Sic autem
dent fratres consilium cum omni humilitatis subiectione, ut non praesumant procaciter defendere quod eis
visum fuerit; sed magis in abbatis pendeat arbitrio; ut quod salubrius iudicaverit esse, ei cuncti obediant. Sed
sicut discipulis convenit obedire magistro, ita et ipsum provide et iuste condecet cuncta disponere.
In omnibus igitur omnes magistram sequantur regulam: neque ab ea temere declinetur a quoquam. Nullus in
monasterio proprii sequatur cordis voluntatem; neque praesumat quisquam cum abbate suo proterve vel
foris monasterium contendere. Quod si praesumpserit, regulari disciplinae subiaceat. Ipse tamen abbas cum
timore Dei et observatione regulae omnia faciat, sciens se procul dubio de omnibus iudiciis suis aequissimo
iudici Deo rationem redditurum. Si qua vero minora agenda sunt in monasterii utilitatibus, seniorum tantum
utatur consilio, sicut scriptum est: "Omnia fac cum consilio, et post factum non poenitebis".
Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l'abate convochi tutta la
comunità ed esponga personalmente l'affare in oggetto.
Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più
opportuno.
Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore
rivela la soluzione migliore.
I monaci poi esprimano il loro parere con tutta umiltà e sottomissione, senza pretendere di imporre a ogni
costo le loro vedute; comunque la decisione spetta all'abate e, una volta che questi avrà stabilito ciò che è
più conveniente, tutti dovranno obbedirgli.
D'altra parte, come è doveroso che i discepoli obbediscano al maestro, così è bene che anche lui
predisponga tutto con prudenza ed equità.
Dunque in ogni cosa tutti seguano come maestra la Regola e nessuno osi allontanarsene.
Nessun membro della comunità segua la volontà propria, né si azzardi a contestare sfacciatamente con
l'abate, dentro o fuori del monastero.
Chi si permette un simile contegno, sia sottoposto alle punizioni previste dalla Regola.
L'abate però dal canto suo operi tutto col timor di Dio e secondo le prescrizioni della Regola, ben sapendo
che di tutte le sue decisioni dovrà certamente rendere conto a Dio, giustissimo giudice.
Se poi in monastero si devono trattare questioni di minore importanza, si serva solo del consiglio dei più
anziani, come sta scritto: "Fa' tutto col consiglio e dopo non avrai a pentirtene".
Bened., reg., 48. Lavoro e preghiera
Otiositas inimica est animae. Et ideo certis temporibus occupari debent fratres in labore manuum; certis
iterum horis in lectione divina. Ideoque hac dispositione credimus utraque tempora ordinari, id est, ut a
Pascha usque ad calendas Octobris mane exeuntes, a prima usque ad horam paene quartam laborent quod
necessarium fuerit. Ab hora autem quarta usque ad horam quasi sextam lectioni vacent. Post sextam autem
surgentes a mensa, pausent in lectis suis cum omni silentio; aut forte qui voluerit legere, sibi sic legat, ut
alium non inquietet. Et agatur nona temperius, mediante octava hora; et iterum quod faciendum est
operentur usque ad vesperam. Si autem necessitas loci aut paupertas exegerit ut ad fruges colligendas per
se occupentur, non contristentur, quia tunc vere monachi sunt, si labore manuum suarum vivunt, sicut et
patres nostri et apostoli. Omnia tamen mensurate fiant propter pusillanimes.
L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure
prestabilite, allo studio della parola di Dio.
Quindi pensiamo di regolare gli orari di queste due attività fondamentali nel modo seguente: da Pasqua fino
al 14 settembre, al mattino verso le 5 quando escono da Prima, lavorino secondo le varie necessità fino alle
9; dalle 9 fino all'ora di Sesta si dedichino allo studio della parola di Dio.
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Dopo l'Ufficio di Sesta e il pranzo, quando si alzano da tavola, riposino nei rispettivi letti in assoluto silenzio
e, se eventualmente qualcuno volesse leggere per proprio conto, lo faccia in modo da non disturbare gli altri.
Si celebri Nona con un po' di anticipo, verso le 14, e poi tutti riprendano il lavoro assegnato dall'obbedienza
fino all'ora di Vespro.
Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei
prodotti agricoli, non se ne lamentino, perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle
proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli.
Tutto però si svolga con discrezione, in considerazione dei più deboli.
Dal 14 settembre, poi, fino al principio della Quaresima, si applichino allo studio fino alle 9, quando
celebreranno l'ora di Terza, dopo la quale tutti saranno impegnati nei rispettivi lavori fino a Nona, e cioè alle
14.
Al primo segnale di Nona, ciascuno interrompa il proprio lavoro per essere pronto al suono del secondo
segnale.
Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei salmi.
Durante la Quaresima leggano dall'alba fino alle 9 inoltrate e poi lavorino in conformità agli ordini ricevuti fino
verso le 4 pomeridiane.
In quei giorni di Quaresima ciascuno riceva un libro dalla biblioteca e lo legga ordinatamente da cima a
fondo.
I suddetti libri devono essere distribuiti all'inizio della Quaresima.
E per prima cosa bisognerà incaricare uno o due monaci anziani di fare il giro del monastero nelle ore in cui i
fratelli sono occupati nello studio, per vedere se per caso ci sia qualche monaco indolente, che, invece di
dedicarsi allo studio, perda, tempo oziando e chiacchierando e quindi, oltre a essere improduttivo per sé,
distragga anche gli altri.
Se si trovasse - non sia mai! - un fratello che si comporta in questo modo, sia rimproverato una prima e una
seconda volta, ma se non si corregge, gli si infligga una punizione prevista dalla Regola, in modo da incutere
anche negli altri un salutare timore.
Non è neppure permesso che un monaco si trovi con un altro fuori del tempo stabilito.
Anche alla domenica si dedichino tutti allo studio della parola di Dio, a eccezione di quelli destinati ai vari
servizi.
Ma se ci fosse qualcuno tanto negligente e fannullone da non volere o poter studiare o leggere, gli si dia
qualche lavoro da fare, perché non rimanga in ozio.
Infine ai monaci infermi o cagionevoli si assegni un lavoro o un'attività che non li lasci nell'inazione e nello
stesso tempo non li sfinisca per l'eccessiva fatica, spingendoli ad andarsene, poiché l'abate ha il dovere di
tener conto della loro debolezza.
Di chi è l atraduzione? Non di Pricoco
Il capitolo si occupa non solo del lavoro - come annunzia il titolo - -ma di tutta la giornata del monaco, regolando
l'alternarsi delle ore dedicate all'attività manuale e a quella spirituale. Forse è il brano più celebre dell'intera Regola,
spesso sbrigativamente ridotto alla formula Ora et labora e chiamato a spiegare la grande fortuna della Regola e il
successo economico e sociale dei monasteri benedettini nei secoli del Medio Evo, se non, addirittura, la rinascita
economica e sociale dell'Europa medievale, alla quale avrebbe dato impulso eccezionale l'opera dei monaci di questo
ordine, evangelizzatori e dissodatori delle terre vergini del Nord. In verità, né Benedetto è il primo a introdurre il lavoro
nella vita monastica né gli fa spazio maggiore di altri legislatori. Di fatto, è solamente in questo capitolo che il lavoro
compare come una presenza importante nella realtà monastica, ma giammai preminente nell'organizzazione
conventuale. Se mai è da notare che Benedetto supera la preclusione nei confronti del lacoro agricolo e riconosce che è
opportuno atttendere anche a questo, ma guardandosi dal farne un obbligo primario e permanente. L'affermazione (molti
esegeti l'hanno ritenuta centrale nell'interpretazione del capitolo e posta a fondamento di una vera e propria dottrina di
Benedetto sul lavoro) che il vero monaco vive del proprio lavoro e che di ciò hanno dato esempi gli Apostoli e gli antichi
Padri (v. 8), va collocata nel contesto e interpretata alla luce delle limitazioni che il legislatore prevede: il lavoro nei campi
si farà (e sempre con misura, senza eccessi, mensurate) solo se lo esigeranno particolari condizioni locali o la povertà, si
necessitas loci aut paupertas exegerit (v.7). Dietro l'accettazione della fatica nei campi si intravede una congiuntura
economica avversa, che induce ad accettare quel lavoro agricolo verso il quale la tradizione monastica ha sempre
riluttato, giudicandolo troppo pesante e coinvolgente per potersi sposare con l'applicazione spirituale del monaco, con i
suoi digiuni, con i suoi ideali di solitudine e di distacco dal secolo. Per queste ragioni anche il Maestro si era opposto
categoricamente al lavoro agricolo e aveva ammesso solo la pratica dei mestieri e il giardinaggio (RM 86). Benedetto
conosce la riluttanza tradizionale. In precedenza, occupandosi dell'orario dei pasti, aveva dato all’abate facoltà di
modificare l'orario in caso di lavori nei campi per prevenire ogni fondato malcontento, absque iustam murmurationem
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(41, 4-5) qui esorta i monaci a non affliggersi se saranno chiamati al lavoro di raccolta (v.7: Si autem necessitas Ioci aut
paupertas exegerit .. non contristentur). E- come abbiamo gia visto (vd. comm. al cap. 39), i supplementi di cibo e gli
alleggerimenti del digiuno vengono concessi come ristoro per l'impegno gravoso nei campi.
II rapporto tra le ore di lavoro e quelle della lettura noti è fissato né in Pacomio né in Cassiano; nel monachesimo
agostiniano alla lettura vengono attribuite tre ore, nello stesso orario per tutto l'anno, da sesta a nona (dalle dodici alle
quindici), prima dell'unico pasto, al lavoro le ore della mattinata e qualche altra ora dopo il pasto, fino al tramonto (Ordo
3). Il Maestro e Benedetto variano l'orario con le stagioni e ripartiscono l'anno in tre periodi. A differenza del Maestro, che
cominciava dal periodo invernale, in Benedetto i tre periodi si susseguono da Pasqua a settembre, da ottobre all'inizio
della quaresima, infine la quaresima stessa. Nel primo periodo, quello estivo, si lavora da prima a terza (dalle sei alle
nove) e, dopo il riposo pomeridiano, sino al vespro; la lettura è prevista da quarta a sesta (dalle nove alle dodici), prima
del pranzo. Nel secondo periodo, che comprende l'autunno e I’ inverno, le prime due ore sono dedicate alla lettura (dalle
sei alle otto), da terza a nona (dalle otto alle quindici) si lavora; a un supplemento di lettura si attendeva dopo il pranzo.
Durante la quaresima si attende alla lettura da prima a terza, poi sei ore di lavoro, prima dell'unico pasto.
S.Pricoco, dal commento in edizione della Regola, Milano, Mondadori FLV, 1995. [BCTV]
Letture critiche - G. Picasso, La Regola di S. Benedetto e la Regula Magistri.
San Benedetto, oltre all'eredità dell'opera compiuta nel monastero di Montecassino e, prima, nei cenobi di
Subiaco, lasciò soprattutto una Regola che già san Gregorio, con grande ammirazione, considerò uno
specchio della vita del santo. "L'uomo di Dio - si legge alla fine del secondo libro dei Dialoghi (cap. 36) tra tanti miracoli che lo resero illustre, rifulse anche per la dottrina, che non fu mediocre. Scrisse, infatti, la
Regola dei monaci, un miracolo di discrezione e chiarezza (discretione precipuam, sermone luculentam).
Se alcuno desidera conoscere più intimamente la vita e i costumi di questo santo, legga la sua Regola e
troverà in essa rispecchiata la sua vita e il suo magistero". San Benedetto compose la Regola verso la fine
della sua vita, in concomitanza con l'organizzazione del suo monastero sull'arce di Cassino; anzi, si può
senz'altro ritenere che l'abbia scritta proprio per questo m onastero, al quale voleva trasmettere, anche per
il futuro, l'essenziale del suo insegnamento. Una Regola, dunque, tra le tante, che tuttavia si distingue per
ordine e completezza, mentre altre regole antiche sono spesso frammentarie e disordinate. Per le sue
qualità intrinseche - e non già per un incarico specifico conferito dalla Sede Apostolica al santo - la Regola
si diffuse lentamente, già nel secolo VII, accanto ad altre, sia in Gallia che in Italia, finché nel secolo IX,
con i carolingi, divenne l'unica regola per i monasteri dell'Occidente compresi nel Sacro Romano Impero.
A questo successo contribuì senz'altro anche il papa Gregorio Magno con la narrazione della mirabile vita
dell'uomo di Dio, e in particolare con l'elogio della Regola alla fine del suo racconto.
La Regola è preceduta da un prologo nel quale si spiega il valore e la natura della vocazione monastica.
Segue una prima parte (capp. 1-7) dedicata alle strutture fondamentali del monastero - monaci, abate,
consiglio della comunità -, e alla spiritualità: le `buone opere', l'obbedienza, la taciturnità e l'umiltà. La
seconda parte (capp. 8-2O) riguarda l'ufficio divino e la preghiera privata. La terza, più ampia (capp. 21 73), è un insieme di norme istituzionali e disciplinari, che comprendono il codice penitenziale, le leggi
relative all'ordinamento e all'uso dei beni temporali, le disposizioni sull'orario e sulle occupazioni dei
monaci dicrribuite tra preghiera, lettura e lavoro, sui rapporti con gli ospiti e sul reclutamento monastico,
sull'insediamento di un nuovo abate e del suo priore; infine un'appendice riguardante le relazioni fraterne,
e un epilogo, semplice e umile presentazione della Regola, che offre l'occasione d'esortare il monaco alla
corsa verso la perfezione. "Pertanto, chiunque tu sia che ti affretti sulla strada che conduce alla patria
celeste, osserva con l'aiuto di Cristo questa Regola così modesta, che è stata scritta per chi muove i primi
passi; in tal modo, con la protezione del Signore, giungerai a quelle più alte vette di sapienza e di virtù,
che sopra abbiamo ricordato. Amen" (cap. 73).
Tale, in sintesi, appare la Regola considerata in se stessa. Come tale si è imposta alla tradizione
monastica dell'Occidente e ha svolto, attraverso gli innumerevoli monasteri che hanno letteralmente
coperto l'Europa medioevale, un ruolo di importanza capitale nella formazione della civiltà cristiana. Ma
ormai, da qualche decennio, è impossibile conoscerla e studiarla senza un continuo riferimento alla
cosiddetta Regula Magistri. I due testi sono, infatti, strettamente collegati. Il miglior studioso di questo
affascinante capitolo della filologia altomedievale, il benedettino francese Adalberto de Vogüé - alla cui
sintesi dovremo fare ora frequenti riferimenti - così ha precisato la parentela tra i due importanti testi della
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legislazione monastica italiana del secolo VI: "La parte spirituale della Regola di san Benedetto (capp. 1 7) si trova quasi interamente, parola per parola, nei primi dieci capitoli del Maestro. Per la parte
istituzionale la corrispondenza non è così rigorosa, ma i due autori seguono abitualmente un cammino
parallelo fino al capitolo sui portinai (Regola di san Benedetto, cap. 66 = Regola del Maestro, cap. 95),
che serve di conclusione al Maestro. Il capitolo di san Benedetto sulle uscite (cap. 67) ha ancora un
corrispondente nel Maestro, ma in altro posto (cap. 67). Solo le ultime pagine della Regola di san
Benedetto (capp. 68-73) sono interamente originali." Fino a qualche decennio fa la Regula Magistri opera anonima e senza titolo, detta così perché la maggior parte dei 95 capitoli sono introdotti come
una risposta del Signore tramite il "maestro", alle domande dei discepoli - fu ritenuta un documento
posteriore, dipendente dalla Regola di san Benedetto, che nel testo del Maestro veniva notevolmente, e
non sempre felicemente, ampliata. Ma dopo uno studio del monaco francese Agostino Genestout,
apparso nel 1940, sono diventati sempre più numerosi gli studiosi che hanno proposto di invertire il
rapporto e dare la precedenza alla Regula Magistri. In un primo momento la proposta fu considerata con
sospetto, perché si temeva di togliere alla figura di san Benedetto gran parte del merito che tutta la
tradizione gli attribuiva; oggi, però, è accolta da tutti senza difficoltà. Anzi, considerata fonte immediata
della Regola di san Benedetto, la Regula Magistri offre un contributo incomparabile alla sua
comprensione. "Gli argomenti più forti in favore della dipendenza di san Benedetto dalla Regula Magistri
- ha scritto un monaco italiano che si è occupato ben presto della cosiddetta questione della Regola sono costituiti dal fatto che codesta Regola presenta, nei passi comuni, un testo più primitivo e fedele al
testo delle fonti utilizzate, in particolare Salmi e Cassiano, laddov e san Benedetto si discosta spesso dal
loro senso letterale. Tale Regola, poi, benché infarcita di innumerevoli digressioni, testimonianti una
complessa storia testuale, rivela sotto certi aspetti una sua struttura più unitaria non solo quanto all'uso
o all'esclusione di certe determinate formule, ma anche quanto alla concezione generale della schola e
del magister, che san Benedetto invece adotta solo in parte, precisamente nella sezione comune
iniziale. La Regula Magistri si presenta, insomma, come il blocco omogeneo ma informe da cui san
Benedetto ha saputo trarre il proprio capolavoro, il quale tuttavia permette ancora di scorgere le tracce
di tale derivazione e le aggiunte personali del santo legislatore".
La nuova impostazione del rapporto tra le due regole è conseguenza di numerosi studi in base ai quali,
pur dovendosi registrare sempre qualche divergenza, tuttavia si possono fissare alcuni punti che
sembrano ormai senz'altro accertati. Per la Regola del Maestro la data di composizione, in base ai
criteri interni, si pone tra il 500 e il 530, mentre la Regola di san Benedetto fu composta durante i tre
decenni successivi (530-560). L'una e l'altra, in base alla comparazione di usi liturgici, risultano
composte in Italia, in località prossima a Roma. Non si conosce chi sia stato il Maestro, da alcuni
identificato con Cassiodoro; non vi sono invece ragioni per dubitare che Benedetto, l'abate di
Montecassino, del quale Gregorio Magno ha narrato la vita nei Dialoghi, sia l'autore della Regola che,
anche in base a una concorde e imponente tradizione manoscritta, da sempre porta il suo nome. Ma
proprio la vicinanza tra i due testi fornisce `un contributo incomparabile' (de Vogüé) alla comprensione
della Regola di san Benedetto; infatti rende possibile stabilire, perfino nel dettaglio, quanto Benedetto
deve alla Regola del Maestro - che non è affatto quel testo disordinato qual è stato visto per tanto tempo -,
ma anche quanto vi ha aggiunto, modificato e tralasciato. "Quel che Benedetto deve al Maestro è anzitutto
l'ampiezza e la struttura potente della sua descrizione della vita cenobitica" - ha scritto il de Vogüé; ma fin
dai primi capitoli con una serie di aggiunte e di tagli Benedetto mette in risalto il compito dell'amore nei vari
momenti della vita claustrale. Si direbbe che il Maestro si preoccupa soprattutto di preparare il monaco
all'incontro con il Signore in una visione chiaramente escatologica; Benedetto guarda anche alla perfezione
che il monaco può raggiungere quale appartenente alla sua comunità monastica. "Ma è soprattutto nella
parte istituzionale - prosegue il citato autore - e, singolarmente nella sua appendice finale, che Benedetto
sfuma e arricchisce il quadro del Maestro. Mentre questo mantiene la sua opera nella prospettiva molto
semplice della "scuola", Benedetto indica in più, sotto l'influenza di Agostino, un'altra dimensione della vita
comune: la comunione fraterna nell'amore. Il rapporto verticale dei discepoli sottoposti a un maestro che
parla in nome di Dio, pur continuando ad occupare il posto centrale, è completato dalle mutue relazioni dei
discepoli, considerati come persone che debbono amarsi fra di loro, sopportarsi, aiutarsi. A sua volta il
rapporto maestro-discepolo prende un aspetto nuovo: l'abate non deve solo comandare in nome di Dio ed
essere obbedito, ma amare ed essere amato. Questo interesse dimostrato da Benedetto per le relazioni
fraterne fa sì che il monastero non sia più una semplice scuola che prepara degli individui alla vita eterna,
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ma una vera comunità". Altre diversità significative si notano a proposito di varie osservanze: mentre il
Maestro è molto minuzioso nel descrivere azioni, Benedetto si preoccupa piuttosto del comportamento che il
monaco deve tenere, delle disposizioni interiori che deve avere: si capisce perché, senza esserne una
riduzione, la Regola di Benedetto è assai più breve di quella del Maestro, e lascia molto più spazio di questa
alle decisioni dell'abate. In particolare, quanto riguarda la mitigazione della disciplina monastica, e la stessa
riduzione dell'ufficio divino che Benedetto introduce di fronte ai corrispondenti testi del Maestro, si può
spiegare come un segno della durezza dei tempi nei quali il santo è vissuto e che corrispondono agli anni
della guerra greco-gotica (535-553); d'altra parte, Benedetto stesso presenta la sua Regola come "una
piccola regola per principianti", che rimane aperta anche ad altri insegnamenti. Vi si coglie la
consapevolezza che i monaci hanno bisogno di essere molto aiutati nelle loro debolezze; in qualche caso
Benedetto esprime persino giudizi severi sui monaci del suo tempo, forse frutto della ormai lunga esperienza
di abate. "In definitiva - conclude il de Vogüé - il gran merito della Regula Benedicti è senza dubbio quello di
fornire un'immagine abbastanza fedele e completa della tradizione cenobitica. Nella grande famiglia delle
regole latine anteriori a Benedetto d'Aniane occupa un posto medio, a uguale distanza dai grandi antenati
(Pacomio, Basilio, Agostino) e dagli ultimi epigoni (Donato, Valdeberto, Fruttuoso). Presein prestito qualche
cosa da ciascuno dei grandi lignaggi, cominciando da quelli di Cassiano e di Agostino. Abbastanza completa
al riguardo, lo è pure se si considerano i diversi elementi della vita cenobitica, di cui Benedetto, al seguito del
Maestro, seppe passare in rassegna e ordinare quelli più importanti. Questa sintesi trovò posto in un volume
relativamente ristretto, vero manuale in cui abbondano le sentenze concise e ben coniate, che non sfuggono
tanto facilmente alla memoria".
La Regola ottenne un successo che, certamente, il santo legislatore non prevedeva; ancora oggi gli storici
dell'età medioevale continuano a scoprire aspetti nuovi del ruolo svolto dalla componente monastica
benedettina nella lotta contro le infinite difficoltà che la società dovette affrontare in un momento di profonde
trasformazioni, di incontro e di scontro tra popolazioni diverse, quando nacque l'Europa cristiana. Non fu
però un successo immediato. Scritta a metà del secolo VI, fu spesso affiancata ad altre regole e osservata,
anche fuori dei monasteri di Subiaco e di Montecassino, insieme ad esse durante il periodo della cosiddetta
"regula mixta", quando un abate o una comunità monastica sceglieva la propria osservanza attingendo a
regole diverse. Nacquero allora i Corpora regularurn, codici, cioè, nei qualì vennero trascritti i testi di regole
diverse; quella di Benedetto si trova spesso accanto ad altre in questi "corpora", fino a quando, all'inizio del
secolo IX, nel Corpus di Benedetto di Aniane venne a occupare il primo posto. Contemporaneamente nella
riforma monastica operata da Ludovico il Pio, nell'ambito di un programma unitario per tutto l'Impero, la
Regola di san Benedetto fu scelta quale unica regola per tutti i monasteri d'Occidente. Allora veramente si
ebbe, secondo gli storici, un ordine benedettino perché, anche giuridicamente, al testo di Benedetto venne
riconosciuta quella preminenza che, del resto, si era già conquistata nei confronti delle altre regole, come
dimostra, appunto, lo studio dei Corpora regularurn. Se non che, per le caratteristiche sopra ricordate,
proprio nel momento in cui divenne unica Regola per i monasteri, ci si accorse che non poteva rispondere a
tutti i concreti bisogni di comunità monastiche sorte in situazioni diverse, anche in rapporto alle Chiese locali;
per cui accanto alla Regola ogni monastero, o gruppo di monasteri, aveva le sue consuetudini. Più tardi, per
lo sviluppo di altre fonti legislative del diritto monastico quali i capitoli generali delle congregazioni
monastiche o di nuovi ordini veri e propri pur nell'ambito della eredità spirituale di san Benedetto, si ebbero
le Costituzioni. Ma la Regola continuò a svolgere il suo ruolo fondamentale per alimentare la spiritualità dei
monaci e dare un contenuto vivo alle istituzioni, garantite ormai dalle leggi canoniche. Come durante il
Medioevo fu trascritta in numerosi manoscritti, così durante l'età moderna la Regola di san Benedetto
conobbe un numero imponente di edizioni e di versioni in varie lingue.
G. Picasso, Il monachesimo occidentale dalle origini al secolo XI, in AA.VV., Dall'eremo al cenobio,
La civiltà monastica in Italia dalle origini all'età di Dante, Milano, Scheiwiller, 1987, pp. 10-14.
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Brani estratti dall'introduzione al libro
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S. Pricoco, Le regole monastiche antiche
L'immagine di un Medioevo monastico interamente benedettino è un luogo comune, tanto inveterato quanto
storicamente falso. Essa ha lusingato in particolare la storiografia italiana, che ha alimentato a lungo il mito
di san Benedetto padre del monachesimo occidentale, della civiltà religiosa medievale, dell'Europa tout
court. In realtà, l'osservanza benedettina trovò diffusione largamente europea solo a partire dall'età
carolingia, per l'opera riformatrice di un patrizio visigoto, Benedetto abate di Aniane, che ridusse i monasteri
dell'Impero a unità legislativa applicando le direttive politiche di Carlo Magno e Ludovico il Pio. Prima di
allora, tra il V e l'VIII secolo, numerose regole circolarono nell'Occidente. Una trentina di esse sono
pervenute sino a noi.
Non vanno catalogati tra le regole, anche se talvolta ne portano il nome, scritti di carattere parenetico o
didattico o descrittivo. Per esempio non sono regole, com'è evidente, il de laude eremi o il de contemptu
mundi, due opuscoli scritti tra il 428 e il 430 da Eucherio, monaco di Lérins e poi vescovo di Lione, sebbene
contengano non pochi spunti sulla spiritualità e la condotta degli asceti; ma non lo sono neanche talune
lettere di Girolamo, come la 22, la 58, la 125 e altre ancora, che sono dei veri e propri manuali di direzione
spirituale, o la lettera di Leandro di Siviglia alla sorella Fiorentina, né lo sono i libri de institutis coenobiorum
di Cassiano, che descrivono i vizi contro i quali il monaco deve lottare e gli indicano i rimedi da adottare.
Tra lo scadere del IV secolo e i primi anni del V si colloca la prima generazione di regole latine. Più
precisamente, si tratta in un caso di due testi originali, composti uno, l'Ordo monasterii, intorno al 395 nella
cerchia di sant'Agostino (forse dall'amico Alipio per i monaci di Tagaste), l'altro, il Praeceptum, dallo stesso
Agostino, verso il 397, per il monastero di Ippona, e dalla tradizione trasmessi insieme come Regula
Augustini; in altri due casi si tratta, invece, di versioni di un testo greco, la Regola di Basilio, e di uno copto,
la Regola di Pacomio. La prima fu tradotta da Rufino, che nel 397, su richiesta dell'abate del monastero di
Pineto, vicino a Roma, volse in latino una redazione della quale non c'è rimasto l'originale greco, più breve
rispetto all'altra, conservataci in greco. La seconda è costituita da quattro gruppi di precetti monastici dettati
dal grande fondatore dei cenobitismo egiziano, che Girolamo tradusse in latino, nel 404, da una precedente
traduzione greca, assieme ad alcune lettere dello stesso Pacomio e del suo primo successore, Teodoro, e
assieme al testamento spirituale di Orsiesi, successore di Teodoro.
Direttamente o per il tramite di testi intermedi, queste regole della prima generazione influenzarono le
successive, con un fitto intrecciarsi di rapporti, che oggi, grazie soprattutto alle indagini di dom Adalbert de
Vogüé (1), riusciamo a ricostruire abbastanza compiutamente. Tracce delle regole di Agostino e di Pacomio
si rinvengono largamente sia nell'area gallo-iberica che in quella italiana e nel monachesimo iro-franco di
Colombano; la Regola di Basilio sembra essere stata più presente nelle regole italiane, meno in quelle
iberiche e provenzali.
Una seconda fioritura di grandi regole si ebbe a circa un secolo e mezzo dalle prime. Tra le due generazioni
stanno - ma ne parleremo partitamente in seguito - le cosiddette Regole dei Santi Padri. I centri creativi di
questa seconda stagione legislativa furono la Gallia meridionale e l'Italia centro-meridionale.
In Gallia, lungo la prima metà del VI secolo, svolse un'opera costante di sostegno e di regolamentazione
della prassi monastica Cesario, prima monaco a Lérins e poi vescovo di Arles. Il testo più importante è la
Regula ad virgines, la prima regola femminile dell'Occidente, che Cesario compilò per il monastero di san
Giovanni in Arles, retto dalla sorella Cesaria, ma che trascese subito l'ambito locale ed esercitò duratura
influenza sul monachesimo sia provenzale che italiano, e non solamente femminile. Cesario vi si dedicò a
più riprese, tra il 512 e il 534, e vi trasferì, con le opportune correzioni, le norme dell'ascesi e della vita
comunitaria maschile, mettendo a profitto non solo i testi monastici più illustri, da Pacomio a Cassiano, ma
anche l'esperienza personale, maturata negli anni del soggiorno monastico a Lérins e nella pratica pastorale.
Successivamente (e non prima, come si è creduto a lungo), tra il 534 e il 542, Cesario stilò una Regula
monacborum, che di fatto non è che un compendio della regola femminile.
In Italia, tra Roma e Cassino, nella prima metà del VI secolo, a distanza di qualche decennio l'una dall'altra,
vedono la luce le due maggiori regole dell'Occidente, quella del Maestro e quella di Benedetto. La questione
dei loro rapporti ha dato origine negli ultimi cinquant'anni a una controversia serratissima e feconda di
proposte storiografiche rinnovatrici. Oggi è largamente prevalente l'opinione che ammette la priorità e
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riconosce il valore e l'originalità dell'anonima Regula Magistri, la più ampia delle Regole latine e la più
sistematica. Anche di questi due testi tratteremo a parte.
Un nutrito gruppo di regole - più della metà di quelle che complessivamente ci sono rimaste - furono redatte
nell'età successiva, tra la metà del VI secolo e gli ultimi decenni del VII. Sono scritti di modeste dimensioni e
quasi sempre di scarsa originalità, che non superarono se non raramente i confini del monastero per il quale
furono composti o, al più, i limiti regionali. Unica personalità di statura europea fu Colombano (m. 615), il
fondatore di Luxeuil e di Bobbio, al quale, tuttavia, si devono regole di carattere limitato: una Regula
monachorum, contenente una serie di precetti spirituali e una descrizione dell'ufficio liturgico, e una Regula
coenobialis, che è sostanzialmente un codice disciplinare con norme punitive di tipo irlandese, comprendenti
anche le percosse. Gli altri legislatori furono vescovi o abati galli, iberici, italici; alcuni testi sono anonimi e
talvolta solo il confronto con altre regole meglio note ne lascia sospettare il luogo di provenienza.
Le regole redatte in Gallia sono le più numerose. In ordine cronologico si succedono le due Regole di
Aureliano, vescovo di Arles (546-551), una maschile, l'altra femminile; la Regula Tarnatensis, scritta dopo la
metà del VI secolo, per un monastero sconosciuto (Tarnant?) della Gallia meridionale; la Regola di Ferreolo,
vescovo di Uzés, redatta tra il 553 e il 581, probabilmente posteriore alla Tarnatensis; la Regola di Donato,
vescovo di Besançon (626-658); la Regula Waldeberti, una regola per monache scritta da un monaco di
Luxeuil, trasmessa anche anonima come Regula cuiusdam ad virgines, posteriore al 629; infine la Regula
psallendo pro sancta devotione, frammento di una regola femminile composta probabilmente nella Gallia
settentrionale, verso la fine del VII secolo.
Dalla penisola iberica proviene un gruppo di regole collocabili tutte nel VII secolo: la Regola di Isidoro,
vescovo di Siviglia, scritta verso il 615-619; la Regola di Fruttuoso, abate del monastero di Compludo e poi
vescovo di Braga, composta prima della metà del secolo; due testi provenienti dall'ambiente di Fruttuoso e di
poco posteriori, la cosiddetta Regula communis e la Regula Cassiani, ricavata dagli Instituta cassianei; infine
la Regula consensoria, databile alla seconda metà del secolo.
In Italia troviamo solo due testi: la Regola di Eugippio, abate dei monastero di san Severino a Napoli, che
intorno al 530 mise insieme un lungo testo con pezzi tratti principalmente dal Maestro, da Cassiano e da
Basilio, e la Regola di Paolo e Stefano, redatta intorno alla metà del secolo per un monastero dell'Italia
centrale.
Su questi legislatori agiva spesso la spinta di situazioni locali e il modello immediato era una regola vicina
nel tempo e nello spazio, ma accanto al modello regionale non raramente si coglie in esse anche l'influsso
diretto delle prime grandi regole. I testi gallici muovono per lo più da Cesario, ma la Tarnatensis ha usato
massicciamente la Regula Augustini e conserva tracce dirette di Pacomio; la Regula cuiusdam patris
discende da Colombano, ma dipende anche da Basilio e da Cassiano. Le regole iberiche si ricollegano a
Isidoro, ma la Regula consensoria è stata per lungo tempo attribuita ad Agostino.
Il fiorire di un nutrito manipolo di regole, distribuite in varie regioni e lungo più secoli, i rapporti che le legano
e che lasciano intravedere una storia di relazioni e di scambi tra legislatori, comunità, scriptoria anche lontani
nel tempo e nello spazio, non significano tout court che il monachesimo occidentale abbia avuto, tutto e
sempre, un assetto istituzionale e «regolare». Un fatto è constatare che sull'esempio dell'Oriente anche in
Occidente circolarono assai presto regole, traduzioni delle regole orientali o elaborazioni più o meno
originali, altro problema è vedere se, fino a che punto, dove e a partire da quando questi codici scritti
abbiano presieduto alle comunità e ne abbiano concretamente organizzato l'esistenza e governato l'attività.
Le fonti a noi pervenute, unicamente letterarie, non monumentali né epigrafiche, e costituite da scritti
dottrinali, parenetici, agiografici, ci dicono ben poco della prima storia cenobitica. Spesso degli antichi cenobi
non ci rimane che il nome; di altri conosciamo i personaggi che vi operarono, celebrati dall'agiografo, ma
ignoriamo l'organizzazione, gli istituti, le vicende della vita comunitaria. Gli indizi che ricaviamo da queste
poche fonti lasciano intravedere il quadro di un monachesimo che molto lentamente, lungo più secoli, non
già con un processo rettilineo e costante, ma con pause, rotture, inversioni di tendenza, approda alla fine a
un assetto di generalizzata regolarità.
A minacciare o ritardare questo processo cospirano numerosi fattori. Con il cenobitismo convive l'altro
grande genere di vita ascetica, l'anacoretismo, nel quale trovano posto modi di vivere l'ideale monastico
anche molto diversi l'uno dall'altro. I circoli ascetici a cui danno vita, tra il IV e il V secolo le donne delle
grandi famiglie romane nelle case di Roma o nelle residenze di campagna (2); i gruppi di monaci che
accompagnano Martino di Tours nelle sue peregrinazioni e lo aiutano nella distruzione dei templi pagani (3);
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i ritiri ascetici della nobiltà aquitana gravitante nell'orbita del monachesimo martiniano (4); le comunità
organizzate dai seguaci di Priscilliano, poi dispersi dall'ostilità della Chiesa e dalla repressione imperiale; le
dure performances dei monaci neri della Capraia o degli altri disseminati nelle isolette del Tirreno: tutti questi
episodi di spontaneismo eslege e i molti altri che sfuggono alla nostra conoscenza costituiscono una realtà
mal definita, ma cospicua, e forse anche imponente, dell'antico monachesimo occidentale.
L'eremitismo vero e proprio, cioè la vita vissuta in contemplazione e in assoluta solitudine, viene a lungo
concepito come la forma più alta dell'ascesi cristiana. I grandi teorici della vita cenobitica ne sconsigliano la
pratica per le difficoltà che esso oppone e la dedizione eroica che richiede, ma non ne disconoscono il
primato nella scala della perfezione. Questo riconoscimento, da Girolamo a Cassiano, al Maestro, a
Benedetto, attesta quanto attivamente il genere eremitico abbia accompagnato quello cenobitico e gli abbia
conteso spazi e fortune.
Elementi di disordine e di anarchia questi scrittori giudicano, invece, gli asceti (designati variamente:
gyrovagi, remnuoth, sarabaitae) che rifiutavano di legarsi a una comunità stabile, vivevano in modo
indipendente, da soli o in minuscoli gruppi, si spostavano di frequente o intraprendevano viaggi anche
lunghi, e facevano della Heimatlosigkeit il fondamento della professione monastica. Girolamo, in una lettera
del 384, ne lamenta la diffusione in nostra prouincia, cioè a Roma o nei dintorni; li condanna severamente
Cassiano; li distinguono in due diversi genera e riservano loro durissimi accenti di riprovazione il Maestro e
Benedetto, le cui deplorazioni lasciano intendere che la vita monastica è ben lontana dall'essere vissuta
sempre sub regula e che i monaci vagabondi appaiono ancora una minaccia grave e diffusa (5).
Accanto a queste forze concorrenti, che ritardano e contrastano lo sviluppo del cenobitismo, un elemento di
incertezza è nell'origine stessa degli antichi asceteri, dovuta all'iniziativa di ricchi privati, di vescovi, di re o
personaggi della Corte (come sarà nella Francia merovingia) o, il più delle volte, al secessus di un asceta di
prestigio, attorno al quale si raggruppano alcuni discepoli. Poteva accadere che il gruppetto si mantenesse e
crescesse e che il maestro spirituale, com'era accaduto dello stesso Pacomio, si facesse nomoqethz, ma
l'asceterio poteva anche dissolversi quando veniva meno la guida carismatica del fondatore. Questo è stato
il destino di molte comunità.
Ma anche là dove vige la stabilitas come norma essenziale della vita cenobitica, accade che le strutture del
cenobio o si mostrino non ancora accentrate o lascino sopravvivere forme alternative di libertà e di
isolamento individuali. A Marmoutier, nel monastero fondato da Martino di Tours, i monaci vivono ciascuno
in una cella, in legno o scavata nella roccia, e se ne allontanano solo per recarsi alla preghiera comune (6);
a Lérins in abitazioni separate, divisae cellulae, vivono i vecchi più tenacemente legati ai modelli eremitici
dell'Egitto (7); Severino, l'apostolo dei Norico celebrato da Eugippio, abitava spesso in disparte dalla
comunità (8); nel Giura solo il terzo abate, Eugendo, eliminò le celle isolate, quando ricostruì con più
rigoroso impianto comunitario il monastero distrutto dal fuoco (9); a Squillace, nel convento di Cassiodoro,
un poco più in alto del monasterium Vivariense esisteva un monasterium Castellense destinato agli
anacoreti (10).
Per i primi dottori occidentali della vita cenobitica, essere monaci significa vivere in convento sotto il governo
di un superiore, sub unius disciplina patris, sub abbatis imperio. Così suonano le definizioni di Girolamo e di
Cassiano (e di altri ancora) (11), che conobbero e apprezzarono, sino a farsene traduttori o divulgatori, la
legislazione monastica orientale e che, tuttavia, non prescrissero la presenza nel cenobio di una regola
come strumento immancabile e insostituibile. Per il Maestro e per Benedetto, invece, l'obbedienza deve
essere duplice, alla regola e all'abate: genus coenobitarum... militans sub regula uel abbate (12). E' una
formula nuova, che fa della regola una realtà distinta dall'autorità abbaziale e la colloca al primo posto.
In verità, il concetto antico di regola monastica è ben diverso dal nostro e lontano dal fare della regola un
imperioso strumento legislativo. Il conseguimento della perfezione monastica non viene legato
all'adempimento di norme precise, praticate in una comunità rigorosamente sottoposta ad esse. L'autore del
de laude eremi, il lerinese Eucherio, insegna che sono i carismi concessi al luogo stesso del secessus ad
assicurare al monaco la santità, mentre ogni norma conformata alle leggi umane nuoce al realizzarsi
dell'homo interior (13). E' la Scrittura il grande codice, come di ogni prassi cristiana, così anche della
monachorum conversatio.
Per Cassiano la vita cenobitica non è che la continuazione dell'antica Chiesa di Gerusalemme descritta dagli
Atti degli Apostoli e ogni sua norma e fondamento è nella predicazione apostolica, cioè nel Nuovo
Testamento (14). Secondo il racconto del suo biografo, nel costituire il monastero di Ippona Agostino non gli
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assegnò altra regola che quella degli apostoli e quando, più tardi, lo abbandonò per ricoprire la dignità
vescovile, concepì la raccolta di precetti lasciata ai suoi monaci non come una legge ma come un libellus,
nel quale essi, leggendolo, potessero guardare se stessi, tamquam in speculo (15). Lo stesso Benedetto
definisce la sua regola una minima inchoationis regula, valida solo per un primo avvio alla vita religiosa,
initium conversationis, e rimanda ai Padri e alla Sacra Scrittura come fonti della rectissima norma vitae
humanae (16). Ancora dopo di lui l'ignoto autore della Regola di Paolo e Stefano afferma che la pienezza
della vita monastica e la sua perfetta teoria, plenitudo sanctae conversationis et spiritalis vitae perfecta
doctrina, non stanno nella regola, ma negli esempi degli antichi Padri (17).
Né si tratta di proposizioni teoriche volte a legittimare le regole indicandone il fondamento scritturale. Se un
dato emerge con sicurezza e continuità dagli scritti monastici, è la convinzione dei monaci che fonte di ogni
loro comportamento è la Bibbia e che proprio in virtù del loro continuo richiamarsi a lei essi costituiscono una
società diversa da quella globale, ma indifferenziata nel suo interno. Quale che sia la comunità di
appartenenza e quali che siano le norme che la governano, essi sentono di costituire un esercito di eletti,
senza distinzioni né specializzazioni. Le regole non sono testi esclusivi, ma complementi dell'unica grande
regola, che è la Scrittura. Si spiega così come apparisse normale leggere e confrontare più regole,
mescolarle, parafrasarle, travasarne parti e precetti. Gregorio di Tours narra che un tale Aredio fondò un
cenobio nel quale furono applicati i precetti di Cassiano, di Basilio e degli altri abati (18); la Regola di
Eugippio è un centone di più regole e di norme ripetute; a Condat, nel Giura, l'abate Eugendo e i suoi
monaci leggevano frequentemente gli scritti di Pacomio, di Basilio, di Cassiano e dei padri lerinesi (19); la
lettura delle regole come pratica assidua nei cenobi è attestata da Gennadio, da talune regole monastiche,
dalle fonti agiografiche (20).
Anche i caratteri principali delle prime regole ne indicano la scarsa efficacia legislativa. Molte di esse sono
assai brevi e la loro normativa è largamente incompleta rispetto alle esigenze dell'organizzazione
comunitaria; talvolta esse accordano più spazio alla teoria monastica o alla riflessione etico-religiosa che alle
norme concrete; assai spesso il loro tono è paterno e familiare, improprio e inadeguato per qualsivoglia
proponimento disciplinare, adatto più ad adhortationes che a testi legislativi. Insomma, spesso queste regole
occidentali hanno più l'aspetto di scritti di parenesi ascetica, di exempla da porre tra le edificanti «letture» del
monaco, che di codici vincolanti ed esclusivi.
Note
(1) Si devono a questo infaticabile benedettino francese fondamentali edizioni critiche e innumerevoli studi
sulle antiche regole e i loro rapporti; una sintesi preziosa egli ha redatto nella voce Regole cenobitiche
dell'Occidente del Dizionario degli Istituti di Perfezione VII, Roma 1981, coll. 1420-8, e nel volumetto Les
règles monastiques, Turnhout 1985.
(2) Tra le vicende dell'aristocrazia italica ricostruite dalle moderne indagini prosopografiche le iniziative
ascetiche di matrone come Marcella, Melania, Paola, Marcellina e tante altre sono attestate dagli scritti, e
specialmente dalle lettere, di Girolamo, Ambrogio, Agostino, Paolino Nolano, Pelagio e costituiscono una
delle pagine meglio note del primo moto monastico occidentale.
(3) Ved. Sulpicio Severo, Vita Martini 14.
(4) Cfr. J. Fontaine, « Valeurs antiques et valcurs chrétiennes dans la spiritualité des grands propriétaires
terriens à la fin du IVe siècle occidental », in Epektasis. Mélanges J. Daniélou, Paris 1972, pp. 571-95.
(5) Girolamo, Ep. 22,34; Cassiano, Conlationes XVIII 4, 2; 7; Regula Magistri 1, 6-92: Regula Benedicti 1, 611.
(6) Sulpicio Severo, Vita Martini 10, 4-7.
(7) Eucherio, de laude cremi 42,486 sg.
(8) Eugippio, Vita Severini 4,7.
(9) Vita Patrum Iurensium 170, 1-2.
(10) Cassiodoro, Institutiones divinae I 29,3; Gregorio Magno, Ep. VIII 32
(11) Girolamo, Ep. 125, 15; Sulpicio Severo, Dialogi I 10; Cassiano, Conlationes XVIII 4.
(12) Regula Magistri 1, 2; Regula Benedicti 1, 2; ved. infra, comm, ad locum.
(13) Eucherio, de laude eremi 31, 327 sgg.; 35, 372 sgg.
(14) Cassiano, Conlationes XVIII 5, 1.
(15) Possidio, Vita Augustini 5, 1; Agostino, Praeceptum 8,2.
(16) Regula Benedicti 73.
(17) Regula Pauli et Stephani 41.
(18) Gregorio di Tours, Historia Francorum X 29.
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(19) Vita Patrum Iurensium 174.
(20) Gennadio, de viris illustribus 52; Regula Pauli et Stephani 41; Regula Fructuosi 20, Vita Filiberti
S. Pricoco, da La Regola di S. Benedetto e le regole dei Padri, Milano, Mondadori, Fondazione L.
Valla, 1995.
Bibliografia
Edizioni
PL Migne vol. 66 contiene
S. P. BENEDICTI REGULA, CUM COMMENTARIIS. S. P. BENEDICTI OPUSCULA. SERMO S.
P. BENEDICTI HABITUS IN DISCESSU S. MAURI ET SOCIORUM. EPISTOLA SANCTI
BENEDICTI AD SANCTUM MAURUM MISSA. SCRIPTA SUPPOSITA. (auct.inc.) EPISTOLA
SANCTI BENEDICTI AD SANCTUM REMIGIUM RHEMORUM ANTISTITEM MISSA. SERMO
SANCTI BENEDICTI In mortem S. Placidi
Regula
R. Hanslik 1960 (editio altera et correcta 1977), CSEL ,Vol. 75
A. de Vogüé - J. Neufville (Sources Chrétiennes 181-186), 1971-72
La Règle de saint Benoît, I (Prologue et chapitres I-VII)
Intr., trad. note A. de Vogüé, Moine de la Pierre-qui-vire; Ed.crit. Jean Neufville, Moine de la Pierrequi-vire, 1972
«Monachus» n’est pas pour Benoît une simple étiquette sociale, mais un titre qui oblige, un programme. Il
s’engage d’abord dans la perspective de la Règle du Maître, qui voit l’abbé comme «docteur» qui apprend à
son disciple la discipline et l’humilité. À cette structure hiérarchique, Benoît ajoute une autre dimension, qui
lui est suggérée par Augustin : celle des relations humaines dans la charité.
Le grand mérite de Benoît a été de réunir deux courants cénobitiques, l’un, plus individuel, qui lui venait
d’Égypte à travers Cassien et le Maître, l’autre, plus communautaire, qui découlait d’Augustin. Le saint
révèle aussi sa grande sagesse, sa modération et son équilibre dans l’organisation de la vie cénobitique.
S. Benedicti Regula, intr., testo, apparati, trad. e comm. G. Penco, Firenze: La nuova Italia, 1958,
Biblioteca di studi superiori. Scrittori cristiani greci e latini
La regola di S. Benedetto. Le regole dei Padri. Introd., testo critico, trad. e commento a cura di S.
Pricoco, Milano 1995.
Strumenti
Bonnerue (ed.), Concordia regularum. Praefatio. Concordantiae. Indices., PB, 09/1999, Turnhout,
Corpus Christianorum C.M. 168
Bonnerue (ed.), Concordia regularum. Textus. (Benedictus Anianensis), HB, 09/1999, Turnhout,
Corpus Christianorum C.M. 168A
Bonnerue (ed.), Concordia regularum. Textus., PB, 09/1999, Turnhout, Corpus Christianorum C.M.
168A
Bonnerue (ed.), Concordia regularum. Praefatio. Concordantiae. Indices., HB, 09/1999, Turnhout,
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IntraText
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Benedetto, 1992, Orizzonti monastici
BENEDETTO di Norcia. Fonte primaria di informazione sul patriarca e legislatore del monachesimo
occidentale è Gregorio Magno che gli dedicò l'intero libro II dei suoi Dialoghi. B. nacque nel territorio di
Norcia da famiglia agiata; la data di nascita, fissata tradizionalmente verso il 480, può forse essere ritardata
di una decina d'anni. Fu inviato a Roma per completare la sua formazione letteraria, ma ben presto
abbandonò l'atmosfera corrotta della città per ritirarsi a vita solitaria presso Subiaco, dopo una breve
permanenza ad Affile. Per un ristretto periodo di tempo fu a capo di un monastero presso Vicovaro;
successivamente, con il progressivo aumento dei suoi discepoli, fondò dodici monasteri nella valle
dell'Aniene, ciascuno dei quali era costituito di dodici monaci sotto l'autorità del proprio abate. In seguito ad
intrighi orditi contro di lui, lasciò Subiaco, forse verso il 529, e si stabilì a Montecassino, dove fondò un
monastero sul luogo di un antico tempio pagano e compose, almeno nella sua redazione attuale, la Regola
per i suoi cenobiti. La sua fama andò sempre più estendendosi; il re Totila, desideroso di cono~cerlo, andò a
trovarlo a Montecassino. La data di morte di Benedetto si può fissare probabilmente intorno al 547.
()pera fondamentale di B. è la Regola che, introdotta da un prologo e composta di 73 capitoli, sintetizza
l'itinerario spirituale del ritorno a Dio per mezzo dell'obbedienza (cui è dedicato il cap. 5), sotto la guida di
Cristo, al cui amore non si deve anteporre nulla (cfr. i capp. 4 e î2). Notevole è l'insistenza sull'umiltà, da cui
deriva 1a totale disponibilità a conformare la propria volontà a quella di Dio. La comunità cenobitica ideata
da s. Benedetto si fonda sull'autorità dell'abate cui sono sottoposti i monaci, vincolati dal voto di stabilità nel
proprio convento; essenziali sono, nella spiritualità benedettina, la celebrazione dell'ufficio divino e la sintesi
equilibrata fra preghiera e lavoro, anzitutto quello manuale, e anche intellettuale, incentrato nella lettura di
testi sacri (cfr. il cap. 48). Le fonti della Regola benedettina si possono individuare oltre che nella Scrittura, in
Pacomio, Basilio, nelle Vitae Patrum, in Agostino, Cassiano; rimane tuttora aperta la questione assai
discussa dei rapporti fra la Regola benedettina e la Regula MaAistri, che, secondo l'opinione tradizionale, 1e
sarebbe posteriore, ma che diversi studiosi considerano invece anteriore alla prima. Il merito principale della
Regola di B. sembra consistere soprattutto nell'aver operato una sintesi compiuta delle precedenti
esperienze monastiche, manifestando grande saggezza, moderazione ed equilibrio nell'organizzazione della
vita cenobitica.
S. Zincone, s.v. B.B., in DPAC, 1, col.521-22.
ICCU per Soggetto: San Benedetto
Le piu belle preghiere a San Benedetto / testi di Mariano Grosso e Gilles Jeanguenin!, Camerata Picena:
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Abbas: la figura dell'abate nel pensiero di S. Benedetto, Sorrento: Tip. delle Benedettine, 1960
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Soggetti: Benedetto: da Norcia <santo>
Abbas, La figura dell'abate nel pensiero di S. Benedetto / Abbas, Sorrento: tip. delle Benedettine, 1960
Gasdia, Vincenzo Eduardo, San Benedetto cavernicola nel sacro speco di Subiaco, Verona: Tip. Ghidini e
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Note Generali: Discorso commemorativo
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Abbas: la figura dell'abate nel pensiero di S. Benedetto, Sorrento: Tip. delle Benedettine, 1960
Note Generali: Contiene scritti di vari dedicati alla madre E. Moretti .
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Gonella, Guido, Il magistero sociale di un riformatore: commemorazione di San Benedetto tenuta a Subiaco
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Note Generali: In testa al front.: Ministero dello pubblica istruzione
Monastero di Viboldone, San Benedetto e l'anima monastica: dalla lettura del libro 2. dei Dialoghi di S.
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Firenze: Libreria Editrice Fiorentina, 1947
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Delle Grotti, Augusto, S. Benedetto da Norcia: vita e miracoli / Augusto Delle Grotti, Subiaco: Tipografia dei
monasteri, 1928
Regola di S. Benedetto Abate: patriarca dei monaci, Subiaco: Tipografia dei monasteri, 1928
Montalembert, Charles: Forbes, comte de, San Benedetto: 480-547 / conte di Montalembert
Edizione: Nuova ed. / a cura del P. Placido Lugano, Roma: Desclee & C., 1929
Ermini, Filippo, Benedetto di Norcia / Filippo Ermini, Roma: Formiggini, 1928, Profili; 101
Vismara, Silvio, S. Benedetto nella sua vita e nella sua regola / Silvio Vismara, Milano: Vita e Pensiero,
stampa 1929
Herwegen, Ildefons, S. Benedetto: profilo psicologico / d. Ildefonso Herwegen; versione italiana sulla terza
edizione tedesca a cura dei monaci di Montecassino, Montecassino: [s. n.], 1932 (Sora: Tip. P. C. Camastro)
Benedictus<santo>, Vita e regola / San Benedetto; nuova versione italiana a cura del P. Placido Lugano
Edizione: Roma: Desclee & C, Editori Pontifici, 1929
Salvatorelli, Luigi, San Benedetto e l'Italia del suo tempo / Luigi Salvatorelli, Bari: G. Laterza e figli, 1929,
Studi religiosi ed esoterici
Benedictus <santo>, Regula S. Benedicti abbatis: monachoroum patriarchae, Sublaci: Typis Proto-Coenobii,
1929
Ritus benedicendi cruces seu numismata sancti patris Benedicti abb...., Subiaco: Tip. dei Monasteri, 1924
Amadeo, Fausto, Vita di s. Benedetto ab. patriarca dei monaci d'Occidente / Fausto Amadeo
Edizione: 2. ed.., Fabriano: stab. tip. Gentile, 1921
Benedictus <santo>, Vita e regola di San Benedetto in antichi volgarizzamenti / a cura di Giuseppe De Luca,
Firenze: Libreria Editrice Fiorentina, 1923, I libri della fede
Gregorius <papa; 1.>, Gregorii Magni Dialogi: libri 4 / a cura di Umberto Moricca, Roma: Tipografia del
Senato, 1924, Fonti per la storia d'Italia / pubblicatedall'Istituto storico italiano
Note Generali: Ed. di 350 esempl.num.
Marini, Ercolano, S. Benedetto Abate nella vita personale, nella vita dei secoli: duodecima lettera pastorale /
Ercolano Marini, Castelplanio: L. Romagnoli, 1910
Tosti, Luigi <1811-1897>, Vita di San Benedetto: patriarca de' monaci d'occidente / Luigi Tosti; compendiata
da Carlo-Luigi Torelli
Edizione: 4. ed, Reggio d'Emilia: Collezione Storico-Letteraria, 1916, Collezione storico-letteraria
La cripta di S. Benedetto in Norcia: numero unico: 15 giugno 1913, Valle di Pompei: Scuola tip. pontificia pei
figli dei carcerati, 1913
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Soggetti: Norcia - Cripta di San Benedetto
Marechaux, Bernard, Saint Benoit d'apres Saint Gregoire le grand / D. Bernard Marechaux, Subiaco:
imprimerie des monasteres, 1910
Cenni, Enrico, S. Benedetto e la civilta: discorso pronunziato nella Chiesa di S. Severino il di 7 aprile 1879 /
Enrico Cenni, Napoli: Francesco Giannini tipografo editore, 1879
Altri titoli collegati: [Variante del titolo] San Benedetto e la civilta. Capecelatro, Alfonso, Il 14. centenario di S. Benedetto: discorso recitato a Montecassino / da Alfonso
Capecelatro
Edizione: 2. ed.., Siena: tip. ed. all'ins. di S. Bernardino, 1880
De Filippis, Salvatore, San Benedetto legislatore supremo del cattolico monachismo al cospetto della
religione della societa e della scienza nella fausta ricorrenza del 14. centenario dal suo nascimento / P.
Salvatore De Filippis
Edizione: 3. ed, Angri: A. M. Fusco, 894
Paolella, Alfonso, Panegirico di S. Benedetto recitato in Montecassino a' 21 marzo 1878 / da Alfonso
Paolella, Napoli: Tip. edit. degli accattoncelli, 1878
Note Generali: Estr. da: La carita.
Capasso, Bartolomeo, Sull'epoca della morte di S. Benedetto e sull'era benedettina di alcune cronache
napoletane dei mezzi tempi / memoria di Bartolommeo Capasso letta alla R. Accademia di archeologia,
lettere e belle arti di Napoli nella tornata dei 7 ottobre 1878 tenuta in Montecassino, Napoli: Stamp. della R.
Universita, 1879
Note Generali: Estr. da: Atti dell'Accademia di archeologia, lettere e belle arti.
Tosti, Luigi <1811-1897>, 18: Della vita di San Benedetto: discorso storico / di Luigi Tosti
Edizione: Ed. illustrata, Montecassino: \s. n.!, 1892 (Roma: Coi Tipi dell'Unione Cooperativa Editrice)
Fa parte di: Opere complete di d. Luigi Tosti
ICCU?? Per Autore
Bettini, 3,907-08, Conte 600 (cenno)., Moreschini-Norelli, 2/2, pp.687-88.
"Benedetto da Norcia - Corso",
(Santo) Benedetto da Norcia visse tra il 480 e il 547 dopo Cristo. Come fondatore dell'ordine dei Benedettini
è considerato padre del monachesimo occidentale. E' autore della Regula, cioè delle norme dettate ai
seguaci che si ritirarono con lui nel monastero di Monte Cassino. Tale Regula, ispirata ai valori della
preghiera e del lavoro manuale, ma anche della povertà e del silenzio, fu adottata nella maggior parte dei
monasteri occidentali.
"Benedetto da Norcia - Encarta"
Benedetto da Norcia (Norcia 480 ca. - Montecassino 547 ca.), fondatore del monastero di Montecassino,
padre del monachesimo occidentale, santo. Benedetto, proveniente da una illustre famiglia norcina, studiò in
gioventù a Roma; non approvando la vita scostumata della città, si trasferì in una zona disabitata presso
Subiaco, dove visse in una caverna (poi detta Grotta Santa) per tre anni. In questo periodo la sua fama di
santo si diffuse e attirò folle di fedeli. Invitato a diventare abate di un gruppo di monaci a Vicovaro, accettò
l'incarico; i monaci, tuttavia, non approvando la sua regola, tentarono di avvelenarlo. Scoperto l'intrigo,
Benedetto li abbandonò per fondare, qualche tempo dopo, il monastero di Montecassino.
Benedetto formulò una regola, poi adottata dalla maggior parte dei monasteri occidentali, che poneva in
risalto i valori della vita cenobitica e del lavoro manuale: al monaco non era concessa alcuna proprietà
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personale, i pasti erano consumati in comune e le conversazioni superflue erano proibite. Egli stesso si
dedicò al soccorso della popolazione locale, distribuendo elemosine e cibo ai poveri. Vedi anche Benedettini.
"Benedetto da Norcia - Treccani"
Benedetto da Norcia, santo (Norcia 480 - Montecassino 547). Fondatore dell'ordine dei Benedettini. Scarse
le notizie della sua vita. Secondo Gregorio Magno era della gens Anicia; dopo un periodo di studi trascorso a
Roma si sarebbe ritirato in vita ascetica a Subiaco, e qui avrebbe raccolto alcuni discepoli. Ma disturbato
nella sua solitudine da un certo prete Fiorenzo, che pare tentasse traviarne i seguaci, si portò sul monte
sopra Cassino, dove distrusse un tempio pagano che vi si trovava e fondò la celebre abbazia, dettando la
prima regola monastica (v. Benedettini).
Bettini, 3,907-08, Conte 600 (cenno)., Moreschini-Norelli, 2/2, pp.687-88.
Altri esempi di letteratura "monastica" tra il V e l'VIII secolo
Cf. Bettini 3,907)
[ ▲ Principali monasteri benedettini alla fine dell’VIII secolo. Fonte: A. Duè, J.M. Laboa, Atlante
storico del Cristianesimo, Milano, Jaka Books, 1997, BCTV]
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Eugippio
Cenni biografici
Nacque a Cartagine, dopo la conquista di Roma da parte di Genserico. Soggiornò a Roma, fu tra
gli allievi di Boezio.
Visse tra la fine del V e gli inizi del VI, durante il regno dell'imperatore Anastasio (come testimonia
Isidoro), secondo altri sotto Tiberio Costantino, nel pontificato di papa Gelasio II, ca. il 580. In
rapporti con Proba (vedi) e con Fulgenzio da Ruspe (vedi).
Fondò un monastero nei pressi di Napoli, Castellum Lucullanum, attuale Pizzofalcone.
Opere
Vita di S. Severino. Composta intorno al 509, narra di un missionario nel Norico direttamente
conosciuto da Eugippo, morto nel 482.
Thesaurus: Collectanea da testi di Agostino. E' un testo verosimilmente utilizzato da E. per il suo
insegnamento in una scuola monastica. (Dedicato a Proba?).
Circa il 530, prima della morte compose una regola per il suo monastero.
Testi e testimonianze
Gennad., script.eccl., ??? (errore)
Isid., vir.ill., 26
Eugipius, abbas Lucullanensis oppidi, Neapoli Campaniae. Hic ad quemdam Paschasium diaconum libellum
de Vita sancti monachi Severini transmissum brevi stylo composuit. Scripsit et regulam monachis
consistentibus in monasterio sancti Severini, quam eisdem moriens quasi testamentario jure reliquit. Claruit
post consulatum Importuni Junioris, Anastasio imperatore regnante.
Traduzione
Bibliografia
Edizioni
PL Migne, vol. 62
Opera omnia sive thesaurus (...) necnon vita S. Severini noricorum apostoli cum epistola Eugyppii
ad Paschasium diaconum: accedunt Symmachi Papae Vigilii tapsensis Paschasii Petri diaconorum
Rustici Helpidii scripta omnia quae supersunt (...) / accurante J.-P. Migne, Paris, 1863
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Vita sancti Severini, ed. H. Sauppe, Berlin: Weidmannsche Buchhandlung, 1961, Monumenta
Germaniae historica. Scriptores.Auctores antiquissimi, Ripr.dell'ed.: Berolini: apud Weidmannos,
1877.
Epistula ad Probam virginem, Vita S. Severini
ed. P. Knöll 1885, CSEL, Vol. 9/1
Excerpta ex operibus S. Augustini
ed. P. Knöll 1886, CSEL, Vol. 9/2
Eugippii Regula
Edd. F. Villegas e A. de Vogue, Vindobonae, Holder; Pichler; Tempsky, 1976, CSEL, 87
Vie de saint Séverin, SCh, 374, 1991, ed. P. Regeret.
Intr., testo , trad. note Ph. Régerat, 1991, SCh 374.
Studi
ICCU per Autore: Eugyppius
Eugyppius, Das Leben des heiligen Severin, lateinisch und deutsch / Einfuhrung, Ubersetzung und
Erlauterungen von Rudolf Noll, Berlin: Akademie-Verlag, 1963, Schriften und Quellen der Alten Welt
Eugyppius, Eugippii Vita sancti Severini / recensuit et adnotavit Hermannus Sauppe
Edizione: Editio nova, Berlin: Weidmannsche Buchhandlung, 1961, Monumenta Germaniae historica.
Scriptores.Auctores antiquissimi
Note Generali: Ripr.dell'ed.: Berolini: apud Weidmannos, 1877.
Eugyppius, Das Leben des heiligen Severin: lateinish und deutsch / einfuhrung, ubersetzung und
erlauterung von Rudolf Noll, Passau: Passavia Universitatverlag, 1981
Eugyppius, Eugippii Regula / ediderunt Fernandus Villegas et Adalbertus de Vogue, Vindobonae: Holder ;
Pichler ; Tempsky, 1976, Corpus scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum; 87
Eugyppius, Vie de Saint Severin / Eugippe ; introduction, texte latin, traduction, notes et index par Philippe
Regerat, Paris: Les Editions du Cerf, 1991, Sources chretiennes ; 374
Eugyppius, Vie de Saint Severin / Eugippe ; introduction, texte latin, traduction, notes et index par Philippe
Regerat, Paris: Cerf, 1991, Sources chretiennes
Eugyppius, Das Leben des heiligen Severin / Eugippius ; nach der Ubersetzung von Carl Rodenberg ; Neu
hrsg. von Alexander Heine, Essen ; Stuttgart, c1986, Historiker des deutschen Altertums
Eugyppius, Eugippii commemoratorium vitae sancti Severini, Heidelberg: Winter Universitatsverlag, 1948,
Editiones Heidelbergenses
Eugyppius, 62: Eugyppii africani abbatis opera omnia sive thesaurus (...) necnon vita S. Severini noricorum
apostoli cum epistola Eugyppii ad Paschasium diaconum: accedunt Symmachi Papae Vigilii tapsensis
Paschasii Petri diaconorum Rustici Helpidii scripta omnia quae supersunt (...) / accurante J.-P. Migne,
Parisiis: apud J.-P. Migne editorem, 1863
Fa parte di: Patrologiae cursus completus sive bibliotheca universalis, integra...
Eugyppius, Eugippii vita Severini / denuo recognovit Th. Mommsen, Berolini: apud Weidmannos, 1898,
Monumenta Germaniae historica. Scriptores.Scriptores rerum Germanicarum in usumscholarum separatim
editi
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Eugyppius, Leben des heiligen Severin / von Eugippius ; ubersetzt und erlautert von Mauriz Schuster, Wien:
Verlag der Ringbuchhandlung A. Sexl, 1946
Eugyppius, 1: Eugippii Excerpta ex operibus S. Augustini, Vindobonae: Apud C. Geroldi Filium, 1885
Fa parte di: Eugippii opera / recensuit et commentario critico instruxit Pius Knoell
Eugyppius, 2: Eugippii vita sancti Severini, Vindobonae: Apud C. Geroldi Filium, 1886
Fa parte di: Eugippii opera / recensuit et commentario critico instruxit Pius Knoell
Eugyppius, The life of Saint Severinus / by Eugippius ; translated into english for the first time with notes by
George W. Robinson, Cambridge: Harvard University Press, 1914
Eugyppius, Pars posterior: Eugippii Vita Sancti Severini / recensuit et adnotavit Hermannus Sauppe,
Berolini: apud Weidmannos, 1877, Monumenta Germaniae historica. Scriptores.Auctores antiquissimi ; 1.2
Eugyppius, Vita sancti Severini / Eugippius ; von Paul Becker ; mit einer Einfuhrung von L. Mohler, Munster:
Aschendorffsche, stampa 1935, Aschendorffs Lesehefte
ICCU per Titolo: Vita Sancti Severini
Eugyppius, Eugippii Vita sancti Severini / recensuit et adnotavit Hermannus Sauppe
Edizione: Unveranderter Nachdruck, Munchen: Monumenta Germaniae Historica, 1985, Monumenta
Germaniae historica. Scriptores.Auctores antiquissimi
Note Generali: Ripr. facs. dell'ed.: Berolini: Apud Weidmannos, 1877
Pellegrino, Michele<1903-1986>, Commemoratorium vita sancti Severini / Michele Pellegrino, Roma: [s.n.!,
1958
Estr. da: Rivista di storia della Chiesa in Italia, anno XII, n. 1, gen.-apr. 1958
Krausgruber, Maximilian, Die Regel des Eugippius: die Klosterordnung des Verfassers der Vita Sancti
Severini im Lichte ihrer Quellen: Text, Ubersetzung und Kommentar / P. Maximilian Krausgruber O. Cist,
Innsbruck: Kulturverlag, 1996, Fruhes christentum. Forschungen undperspektiven
Eugyppius, Eugippii Vita sancti Severini / recensuit et adnotavit Hermannus Sauppe
Edizione: Editio nova, Berlin: Weidmannsche Buchhandlung, 1961, Monumenta Germaniae historica.
Scriptores.Auctores antiquissimi
Note Generali: Ripr.dell'ed.: Berolini: apud Weidmannos, 1877.
Eugippius: Abbas, The life of saint Severin / Eugippius; translated by Ludwig Bieler; with the collaboration of
Ludmilla Krestan, Washington: The Catholic University of America Press, c1965, The Fathers of the Church
Eugippii Vita Sancti Severini
Edizione: Rist. anast, New York; London, 1967
Note Generali: Ripr. facs. dell'ed.: Vindobonae, 1886.Johnson
Fa parte di: Eugippii opera / recensuit et commentario critico instruxit Pius Knoell
Eugyppius, 2: Eugippii Vita sancti Severini / recensuit et commentario critico instruxit Pius Knoell
Edizione: Rist. anast, New York; London: Johnson Reprint Corporation, 1967
Note Generali: Ripr. facs. dell'ed.: Vindobonae, 1866
Fa parte di: Eugippii opera
Eugyppius, 2: Eugippii vita sancti Severini, Vindobonae: Apud C. Geroldi Filium, 1886
Descrizione fisica: XIII, 102 p.; 24 cm.
Fa parte di: Eugippii opera / recensuit et commentario critico instruxit Pius Knoell
Eugyppius, Pars posterior: Eugippii Vita Sancti Severini / recensuit et adnotavit Hermannus Sauppe,
Berolini: apud Weidmannos, 1877, Monumenta Germaniae historica. Scriptores.Auctores antiquissimi; 1.2
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Eugyppius, Vita sancti Severini / Eugippius; von Paul Becker; mit einer Einfuhrung von L. Mohler, Munster:
Aschendorffsche, stampa 1935, Aschendorffs Lesehefte
Completato
Bettini, 3, 908. Moreschini-Norelli, 2/2, pp.685-86.
Leandro di Siviglia
Cenni biografici
Cartagena 545 ca. – Siviglia 600 ca.
Opere
Per la regola monastica operare rinvio a Isidoro di Siviglia, Martino di Braga e S.Fruttuoso, autori
spagnoli anch’essi di regole. Collegamento anche ai Priscillianisti e al loro rigore monastico.
Testi e testimonianze
Bibliografia
L. Navarra, s.v. Leadro di Siviglia, in DPAC, 2, col. 1916-17
LEANDRO di Siviglia. Scrittore ecclesiastico latino (Cartagena 545 ca. - Siviglia 600 ca.), alla morte del
padre dovette guidare la famiglia, occupandosi dell'educazione del fratello minore Isidoro. Abbracciata la vita
religiosa, si prodigò per diffondere il cattolicesimo tra i Visigoti, riuscendo a convertire Ermenegildo, figlio del
re Leovigildo, il quale nel 582 scese in armi contro il figlio ribelle e lo fece uccidere e ordinò che L, fosse
esiliato a Costantinopoli (qui L. conobbe Gregorio Magno, che gli dedicò i Moralia in Iob). Poco dopo però
Leovigildo si pentì e richiamò i vescovi da lui esiliati, e affidò a L. (dal 584 arcivescovo di Siviglia) il figlio
Recaredo, perché lo guidasse nella difficile successione e l'iniziasse alla fede cattolica. Il nuovo vescovo
sivigliano convocò il III concilio di Toledo (589), che, tra l'altro, sancì ufficialmente la conversione di re
Recaredo.
Il suo epistolario e le opere antiariane sono andate perdute. Sono giunti a noi solo due scritti: il discorso di
chiusura del concilio toledano III (In laudem Ecclesiae) e una regola monastica (De institutione virginum)
dedicata alla sorella Fiorentina, opera signiticativa nell'ambito della letteratura ascetica e apprezzabile per il
tono familiare e le acute osservazioni in essa contenute.
L., inserendosi nell'opposizione tra la cultura ispano-romana e la barbarica, tra il cattolicesimo dei dominati e
l'arianesimo dei dominatori, si trovò alle radici di quel processo evolutivo che farà della Spagna uno stato
unitario sul piano sia religioso che politico. La portata di tale ruolo storico di L. fu avvertita, più che dal fratello
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Isidoro, da papa Gregorio Magno, la cui amicizia e la cui stima lo portarono a svolgere azioni determinanti
negli eventi della Spagna della seconda metà del VI sec. La conversione dei Visigoti, operata dal Sivigliano,
aprì una nuova fase della storia spagnola: la fusione razziale, culturale e religiosa sarà molto rapida e nel
secolo successivo l'aristocrazia ispano-romana si vanterà della sua discendenza dai Goti.
L. non vide, sul momento, che gli aspetti positivi dell'evento: lo si desume non solo dal suo discorso
conclusivo al concilio di Toledo, ma anche dalla risposta di Gregorio Magno a una sua lettera nella quale lo
informava sulla conversione del re e sul concilio stesso (Greg. M., Reg.ep. I,41). L'eloquenza di L. è stata
accostata, con evidente esagerazione, a quella del Crisostomo: il vescovo di Siviglia, entusiasmato dai
successi del presente, levò un inno all'unità della chiesa, trascurando di rilevare la politica di Recaredo
tendente ad assorbire la chiesa nello stato dando avvio alla spinta centrifuga della instaurata chiesa
visigotica da Roma.
L. trascorse l'ultimo decennio di vita abbastanza in ombra. Le notizie a riguardo sono quasi inesistenti.
Morendo verso l'anno 600, lasciava chiusa positivamente la contesa con l'arianesimo, ma quanto mai aperta
quella tra chiesa e stato.
CPL. 1183-4; PL 72, 873-98; 84,360 ss.; A.C. Vega, EI «De institutìone virginum» de .S. Leandro de .Sevilla,
El Escorial 1948; J. Madoz, De ìnst.vìrg.: AB 67 (1949) 407424; J. C;ampos-J. Roca, Santos Padres
Espanoles, 17: San Leandro, San Isidoro, San Pructuoso- Reklas mondsticas de la Espana visigoda, Madrid
1971 ; J. Madoz, Varios enìgmas de la «KeRla» de San Leandro decijrados por el estudio de sus fuentes:
Mise. G. Mercati 1, Roma 1946, 2G5-295; A. Mundó, Il monachesimo nella penisola iberica: Sett. Studi
Spoleto IV, 1957, 73-108; K. Schaeferdiek, Die Kirche in den Reichen der Westgoten. ., Berlin 1967; LA.
Thompson, The Goths in Spain, Oxford 1969; I3. Jiménez Duque, La espirìtualidad romano-visigoda y
muzdrabe, Madrid 1977; [listo ria de la Iglesia en hspana, dirigida por R. García Villoslada, I, Madrid 197); L.
Navarra, Interventi di Leandro di Siviglia negli sviluppi storici e religiosi della Spagna visìgotica: aspetti
positivi e limiti: SSR 4 (1980) 123-134.
L. Navarra, DPAC
Fruttuoso
Cenni biografici
Visigoto di nobile famiglia, nacque a Toledo.
Fondò molti monasteri in Galizia, Portogallo e Andalusia.
Opere
Regula monachorum. Stilata nel 630, risulta un equilabrato compendio tra altre regole preesistenti
e principi di buon senso.
Vengono imposti ubbidienza cieca, rigore e determinazione per chi vuole inserirsi nella comunità
monastica.
La regola di S. Fruttuoso è conosciuta e utilizzata da Benedetto di Aniane assieme a quella di
Isidoro di Siviglia.
Testi e testimonianze
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Bibliografia
Internet
16 de abril SAN FRUCTUOSO DE BRAGA († 665)
En los confines occidentales de España, ganados un siglo antes para la ortodoxia católica por el ilustre San
Más Martín de Braga, floreció en el siglo VII uno de los mas eximios varones de la iglesia visigoda.
Fructuoso, de noble familia emparentada con algunos reyes visigóticos, hijo de un jefe del ejército, púsose
muy pronto en condiciones de servir a la Iglesia al iniciarse en las disciplinas eclesiásticas bajo la dirección
de Conancio de Palencia. Allí recibió su educación sagrada, en compañía de numerosos jóvenes a los que
había atraído la sabiduría y la discreción de este obispo; pero en su alma florecía la vocación monacal,
manifestada desde niño con piadosos pensamientos al decir de su biógrafo, un sencillo monje discípulo y
admirador suyo, que escribió una vida llena de detalles maravillosos y de milagros. Joven aún, renunció a
sus bienes y dotó con ellos iglesias y benefició a los pobres, para saber desprenderse mejor de la atracción
de las cosas del mundo. Y todo hace sospechar que se retiró al Bierzo, donde sus padres posean bienes
cuantiosos. Allí le encontrarnos rodeado de discípulos, llevando austera vida de penitente, fortaleciendo a
todos con su ejemplo y con su instrucción.
Nos narra su biografía que familias enteras se sentían arrastradas por el hondo movimiento espiritual que
había iniciado al restablecer, con redoblado vigor, la vida monástica en retiros de soledad y en medió de
exigente disciplina. Su biógrafo nos cuenta, admirado, cómo en varias ocasiones intentó huir a la soledad
completa desde sus cenobios, para mejor y más intensamente consagrarse a Dios, sin que el fervor de sus
discípulos se lo permitiera, pues no estaban dispuestos a quedarse privados de su guía.
En esta primera etapa de su actividad fundó Fructuoso muchos y diversos monasterios en el Bierzo, en
Galicia, en el norte de Portugal, que pronto se vieron invadidos por una multitud creciente, tan grande que
nos dice ingenuamente su biógrafo que los mismos jefes del ejército real llegaron a temer quedarse sin
hombres que reclutar para sus campañas. Quizá en estas fundaciones puso por norma su regla, que
presenta una enorme originalidad y muestra cómo no fue breve su conocimiento de los hombres que se le
sometían para servir a Dios: regla dura y enérgica, adecuada a hombres del Norte, con vivo sentimiento de
la comunidad y con un concepto de la obediencia muy desarrollado. En breve, un movimiento ascético de tal
ímpetu trascendió los límites de Galicia, y el nombre de Fructuoso y su obra corrió por la Península entera;
comienzan entonces las inquietudes apostólicas de Fructuoso, para quien se habían quedado pequeñas las
soledades galaicas. Tenemos noticias de una peregrinación suya a Mérida, por devoción a Santa Eulalia, y
de un viaje emprendido a continuación hacia el Sur hasta llegar a Sevilla y Cádiz. El respeto y las
atenciones de que es objeto en su peregrinar nos revelan la fama de santidad y de grandeza que le
antecedía: su incansable actividad le lleva a realizar también en estas regiones nuevas fundaciones en que
aplicar su intensa disciplina, camino para adelantos mayores en la vía de la perfección.
No pocas leyendas piadosas nos transmite su biógrafo para mostrar la protección que Dios le dispensaba:
unas veces, prodigiosamente, le evita el ser confundido con un animal al hallarse en medio de un matorral
en oración simplemente cubierto de pieles; en otra ocasión puede atravesar con sus códices un río sin que
sus tesoros de formación eclesiástica sufran el menor detrimento al contacto con el agua; en otra ocasión
consigue un castigo para un malvado que injusta e inicuamente le ataca; en otro momento logra de manera
maravillosa concluir un viaje que corría el riesgo de convertirse en tragedia por el agotamiento de los
marineros que a golpe de remos impulsaban la barca, y no falta, en esta larga sucesión de milagros, la
barquichuela arrastrada por las olas y recuperada por el Santo, que no vacila en lanzarse a caminar sobre el
mar para poder traerla de nuevo a la orilla.
Incansable prosiguió Fructuoso la fundación de monasterios, hasta que, un día, decidió marchar al Oriente
en peregrinación. Es probable que, además de visitar los Santos Lugares, como habían hecho tantos
hombres ilustres del Occidente español, hubiera dispuesto en su ánimo dirigirse a Egipto, cuna y fuente de
donde provino a la Iglesia occidental todo el monacato en que tantos espíritus se santificaron y fueron luz y
guía del mundo cristiano, pero no pudo lograr su propósito porque el proyecto llegó a conocimiento del rey y
de sus consejeros, que tomaron urgentes medidas para evitar que tal lumbrera de la Iglesia abandonara
España. En medio de tanta actividad cuidaba Fructuoso de su propia formación intelectual y de la de sus
monjes, y buscaba libros y explicaciones que satisficieran su sed y sus dudas e ignorancia: las vidas de
santos, las narraciones de la vida y doctrina de los anacoretas egipcios, la Biblia, constituían el manjar
predilecto de aquellos hombres cuya fama recorría más y más la Península de un lado al otro. Braulio de
Zaragoza, el gran obispo amigo de San Isidoro, uno de los hombres de más completa y exquisita formación
en la España de aquel tiempo, llama a Fructuoso brillante faro de la espiritualidad española, y reconoce y
proclama el esfuerzo novador que de bosques y desiertos hacía un grupo de monjes que cantaba sin cesar
las alabanzas de Dios.
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El entusiasmo de Braulio, dictado, como él mismo dice, por la verdad y no por la adulación o la amistad,
debía ser compartido por muchas gentes, que veían en nuestro Santo un hombre de Dios, entregado a su
servicio y poderoso instrumento suyo. En aras de este servicio rinde Fructuoso poco después su deseo de
soledad y oración, y acepta, no sin repugnancia, el honor de ser elevado a la dignidad episcopal como
obispo abad de Dumio, notable monasterio próximo a Braga. Poco tiempo después, obligado por su cargo,
asiste Fructuoso a un concilio nacional, presidido por el grande Eugenio de Toledo. Allí, depuesto Potamio,
metropolitano de Braga, por diversas faltas de las que se acusó espontáneamente, con voto unánime, los
Padres asistentes al concilio elevan a Fructuoso a la silla metropolitana de Braga, con la esperanza y la
seguridad, dicen, de que daría ello mucha gloria a Dios y redundaría en gran beneficio de la Iglesia. Puede
decirse que nada o casi nada se sabe de lo que hiciera en su paso por la sede bracarense; pero su celo
incansable le mantenía tenso, y por ello una y otra vez acude ante el rey Recesvinto, cuyo comportamiento
tanto aflige a los grandes obispos de este momento, para amonestarle, pedirle clemencia, aconsejarle.
El biógrafo de nuestro Santo, celoso como era de poner de relieve el espíritu monástico de Fructuoso,
insiste ahora en la rigurosa vida ascética que mantuvo durante su tiempo de episcopado, en lo continuado
de su actividad como fundador, hasta decir que, conocedor de su próximo fin, se entregó a tal frenesí de
trabajo que no cesaba en su labor de dirección y construcción sin darse descanso ni de día ni de noche. Su
última fundación parece haber sido el monasterio de Montelios, muy cerca de Braga, donde se conservó su
cuerpo tras su muerte, hasta que siglos más tarde, en 1102, el arzobispo de Compostela, Gelmírez, le
trasladó a Santiago.
Dícenos su biografía que, atacado de fiebre, comunicó su inmediata muerte a sus discípulos, llorosos por la
pérdida que se avecinaba y asombrados por su alegría y tranquilidad en tales momentos; todavía entonces
tuvo tiempo para disponer asuntos relacionados con el gobierno de varias de sus más importantes
fundaciones; luego hizo ser llevado a la iglesia, donde recibió con sumo fervor y devoción la penitencia y
donde permaneció toda la noche postrado en oración, hasta que, amaneciendo un día, que los libros
litúrgicos de Braga dicen el de hoy, el año 665, entregó a Dios su alma.
Su biógrafo no olvida señalarnos que pronto comenzaron los milagros en torno a su sepulcro, pero ninguno
más importante ni valioso que el gran milagro del cual había sido instrumento dócil y activo en manos de
Dios: la gran renovación espiritual que inició en el siglo VII, todavía lleno de resabios de herejía, henchido
de luchas políticas, de odios y rencores. Entregado a la oración y a la penitencia en medio de un siglo
corrompido, logró con su ejemplo y su virtud hacer cristalizar unas ansias de renovación sentidas con toda
intensidad. Su celo y su entusiasmo prendieron en multitud de creyentes, que aun bastante después de su
muerte buscaban todavía su santificación siguiendo paso a paso los itinerarios de Fructuoso, y haciendo de
sus retiros y lugares de oración parajes sagrados en los que sus almas encontraban más facilidad para
acercarse a Dios; y aun siglos más tarde, los monasterios por él fundados sentíanse satisfechos de esta
tradición, mostrando la huella de su paso apostólico.
MANUEL DÍAZ Y DÍAZ
---------------------------Las reglas monásticas en la península ibérica
En España, a diferencia del resto de Europa, la entrada de la regla de San Benito va a ser un proceso
tardío. Durante la época visigoda, la españa árabe y la alta reconquista, era común a una comunidad
monástica «reglar» su vida usando un conjunto de reglas contenidas generalmente en códices
regularum,(1) colecciones con las reglas y tratados ascéticos de los monjes de Egipto: Pacomio, Macario,
Basilio; las reglas de San Agustín, San Jerónimo, Casiano etc. Muchos obispos españoles comenzaron a
sentir la necesidad de adaptar estas reglas a la realidad y necesidades de la península y comenzaron a
escribir también reglas y escritos que se fueron añadiendo a estos códices. La primera y más antigua que
se tenga noticia es la compuesta antes del 590 el obispo de Gerona, Juan de Biclaro, desgraciadamente
hoy perdida.(2) Hacia el 600 San Leandro de Sevilla escribe su De institutione virginum et contemptu
mundo, conocida como regla de San Leandro, obra escrita por el santo a instancias de su hermana
Florentina y su comunidad de vírgenes. El hermano menor de San Leandro, San Isidoro, escribe también
entre el 615 y el 624 su Regula monachorum. Isidoro intenta mitigar la dureza de las reglas orientales y
escribe en lenguaje sencillo y llano. Ofrece un modo concreto de organizar el oficio divino, la admisión de
novicios, la abolición de las clases sociales en la comunidad, el trabajo manual y el castigo de los
trasgresores de la regla. En Galicia van a surgir otras reglas con adaptaciones hispanas de los textos de
Agustín, Jerónimo, etc., pero la más importante es la Regula monachorum de Fructuoso de Braga escrita
entre el 630 y el 635. Esta regla junto con una segunda recensión llamada la Regula communis compuesta
entre el 665-680, reflejan la situación de la vida monástica galaico-portuguesa, con los peligros latentes de
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comunidades heterodoxas, monasterios familiares y presbiterales, los antagonismos entre el episcopado
que vivía bajo alguna regla y el episcopado secular, las admisiones en la vida monástica de familias
enteras, de ancianos y de fugitvos de la justicia, la cercanía sospechosa de monasterios masculinos y
femeninos, etc. Al final traen el famoso pactum, una profesión monástica que tiene la forma de un contrato
casi-feudal entre el abad y sus monjes.(3) Las reglas monásticas ibéricas van a trascender su origen
geográfico e influyeron en la reforma monástica carolingea. En efecto, San Benito de Aniano incorpora las
reglas de San Isidoro y San Fructuoso a su Codex regularum. En España la regla de San Benito comienza a
abrirse paso recién a fines del siglo IX. Tan tarde como 1055, el Concilio de Coyanza permitía a los
monasterios elegir entre las reglas de San Isidoro y San Benito. A fines del siglo X va a aparecer la última
de las reglas hispánicas. Se trata del Libellus regularis, regla de monjas compuesta en la Rioja por el abad
Salvo de Albelda (951-962). Consiste de extractos de la regla de San Benito, la Explanatio de Esmargardo,
el oficio litúrgico hispanico y la profesión en forma pactual.
Los Pactos monásticos ibéricos(4)
La formula de profesión de votos religiosos en la españa visigoda va a ser conocida con los términos
pactum, placitum o pctio. Estos asumen una forma individual o colectiva. Para encontrar las raíces y el
origen de esta peculiar forma de expresar los votos religiosos, debemos remontarnos al derecho germánico.
En efecto, tanto por la fraseología como por el carácter jurídico, el pacto refleja el juramento de fidelidad que
hacían los reyes godos recién elegidos. Se trata de una fórmula contractual, de carácter casi feudal, pero
con una veta notablemente --salvando el anacronismo-- democrática. Los monjes expresan una sumisión al
abad que eligen pero sujetando los poderes de éste al recto cumplimiento de su oficio. Los pactos
monásticos van a desaparecer definitivamente con el triunfo del benedictismo bajo el rey Fernando I (10351065). Trascribimos a continuación el pacto de la Regla de San Fructuoso de Braga.
-------------------------------------------------------------------------------El Pacto de la Regla communis atribuida a San Fructuoso (5)
«EN EL NOMBRE DEL SEÑOR EMPIEZA EL PACTO
En el nombre de la santa Trinidad, Padre, e Hijo, y Espíritu Santo, lo que creemos en nuestro corazón lo
confesamos también de palabra; creemos en el Padre, no engendrado; en el Hijo, engendrado; en el
Espíritu Santo, que procede de ambos que sólo el Hijo tomó carne de una virgen y bajó al mundo por la
salvación de todos los que creen en El, y que nunca se separó del padre y del Espíritu Santo. Porque El
dijo: Yo y el Padre somos una sola cosa (Jn 10,30); y: El que me tiene , tiene también al Padre, y el que me
ve, ve también al Padre (Jn 14,9); y asimismo dijo: El cielo es mi trono, y la tierra escabel de mis pies (Is
66,1 Hch 7,49). En el cielo, los ángeles adoran a toda la Trinidad, y en la tierra, el Señor predica a los
hombres con estas palabras; Id, vended todo lo que poseéis y dadlo a los pobres; y venid, seguidme (Lc
12,33; Mt 19,21); y en otro lugar; Si alguien quiere venir tras de mí, niéguese a sí mismo y levante su cruz y
sígame (Mt 16,24; Lc 9,23); y en otro lugar: Quien estimare al padre o a la madre, a la mujer, a los hijos, o a
todos los que pasan con el mundo, más que a mí, no es digno de mí (Mt 10,27; Lc 14,25); y en otro pasaje;
Quien no aborrece a su vida por mi causa, no es digno de mí; y: Quien perdiere la vida por mí, la encontrará
en la vida eterna (Jn 12,25; Mt 10, 39; Lc 9,24).
Por eso, es mejor, mucho mejor, hollar el mundo, obedecer a Cristo, cumplir el Evangelio, poseer la vida
bienaventurada con los santos ángeles para siempre por todos los siglos. Por eso, encendidos en el fuego
divino, he aquí que todos los que hemos de subscribir abajo entregamos nuestras almas a Dios y a ti, señor
y padre nuestro, para que, según la enseñanza y norma de los apóstoles y tal como sancionó la autoridad
de los padres precedentes, habitemos en el mismo monasterio, siguiendo los pasos de Cristo y tus
lecciones. Y todo lo que quisieres anunciar, enseñar, impulsar, increpar, mandar, excomulgar según la regla
o enmendar para la salud de nuestras almas, con corazón humilde, sin ninguna arrogancia, con toda
adhesión y ardiente deseo, con la ayuda de la gracia divina, sin excusa y con el favor del Señor, todo lo
cumpliremos.
Si con todo, alguno de nosotros protestando contra la regla y tu mandato, resultare contumaz, desobediente
o calumniador, entonces tendremos potestad de reunirnos todos en asamblea y después de leer ante todos
la regla, probar oficialmente la culpa; y cada uno y todos, convicto de su responsabilidad, aceptará los
azotes o excomunión en proporción a la consideración de la culpa. Asimismo, si alguno de nosotros, a una
con sus padres, hermanos, hijos, parientes y afines, o al menos con un monje cohabitante, tramare un
designio contra la regla ocultamente, estando tú, sobredicho padre nuestro, ausente, deberás tener potestad
contra todo el que atentare tal delito de que durante seis meses, vestido de una capa raída o de cilicio,
desceñido y descalzo, a sólo pan y agua, practique en una celda obscura excomulgado cualquier trabajo. Si
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con todo, alguno no quisiere cumplir ese castigo con dócil voluntad, recibirá, tendido y desnudo, setenta y
dos azotes; y después de dejar el hábito del monasterio, vistiendo el vestido roto de que se despojó al
ingresar, será expulsado del monasterio con manifiesta verguenza. Y decimos esto tanto de los varones
como de las mujeres.
Prometemos también a Dios y a ti, nuestro padre, que, si alguno pretendiere pasar a habitar otros parajes
sin la bendición de los monjes y sin tu orden, por vicio, tengas autoridad de contrarrestar la temeraria
voluntad de quien intentare tal cosa y reducirlo a la pena de la regla una vez apresado por los guardias de
los jueces; y si alguno pretendiere defenderlo, fuere obispo o de un orden inferior, o lego, y tratare de
retenerlo en su casa después de escuchar tu advertencia, quedará en comunicación con el diablo y en
participación con Judas Iscariote en el infierno; y en el siglo presente quedará excomulgado de toda reunión
de cristianos y no recibirá el viático ni al fin de la vida quien así obrare.
Por nuestra parte, te representamos a ti señor nuestro que si pretendieras lo que al menos no puede
creerse y lo que Dios no permita que suceda, tratar a alguno de nosotros injustamente, o con soberbia, o
con ira, o tener predilección por uno y despreciar a otro con odio, a uno mandar con imperio y a otro adular,
como hace el vulgo, entonces tengamos también nosotros potestad, concedida por Dios, de presentar queja
sin soberbia ni ira a nuestro prepósito por cada decanía, y el prepósito de besarte humildemente los pies a
ti, señor nuestro, y manifestar en cada caso nuestra queja, y tú deberás escuchar pacientemente, y humillar
la cerviz en la regla común, y corregirte y enmendarte; y si en manera alguna quisieres corregirte, en ese
caso tengamos también nosotros potestad de excitar a los demás monasterios, o por lo menos de convocar
a nuestra conferencia al obispo que vive bajo regla, o al conde católico defensor de la Iglesia, para que en
su presencia te corrijas y cumplas la regla aceptada, y nosotros seamos discípulos sujetos o hijos adoptivos
humildes, obedientes, en todo lo que se debe, y tú, en fin, nos ofrezcas puros a Cristo sin mancha. Amen.
Estos son los nombres de los que cada uno firmó por su mano o puso su signo en este pacto. Esto es
fulano, fulano, o fulana y fulana.
Notas
1. Cf. C.J. Bishko, Reglas monásticas, en: DHEE, III, 2068-69.
2. Cf. J. Campos, Sobre la Regla de San Juan de Biclaro, en «Salmanticensis» 3 (1956) 240-248.
3. Las reglas de San Leandro, San Isidoro y San Fructuoso se pueden consultar en: Santos Padres
españoles, introducción, versión y notas de Julio Campos Ruíz e Ismael Roca Meliá, BAC (Madrid 1971) II,
7-211.
4. Cf. C.J. Bishko, Pactos monásticos, en: DHEE, III, 1858.
5. Texto tomado de: Santos Padres españoles, BAC (Madrid 1971) II, 208-211.
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---------------------------Niente Bettini, né Conte.
La Regula communis
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Bibliografia
[Monasteri e Vescovadi celtici fino al IX secolo. Fonte immagine: Atlante Storico del Cristianesimo,
Milano, Jaka Books,1997, BCTV]
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[Fonte. I. Gobry, Storia del monachesimo, 1, Roma 1991, p. BCTV]
San Patrizio
Cenni biografici
Nato in Britannia intorno al 389-390, venne catturato da dei pirati e trasportato in Irlanda quando
aveva 16 anni. Riuscito a fuggire raggiunse la Gallia e soggiornò a lungo a Lérins. Ricevette poi a
Auxerre la consacrazione episcopale e partì per l’Irlanda nel 432 con il compito di evangelizzarla.
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In Irlanda operò soprattutto nelle regioni settentrionali (Ulster, Leinster e Connaught). Ad Armagh
stabilì la sede episcopale di riferimento per tutta l’isola. Morì nel 461 (per altri nel 460).
San Patrizio è il patrono dell’Irlanda.
Il monachesimo si diffuse in seguito in Irlanda grazie all’azione dei monasteri di Withorn (Scozia) e
St.David (Galles)
[Monasteri Irlandesi intorno al 1000. Fonte. J.M. Laboa, Atlante storico del monachesimo, Milano,
Jaka Books, 2002, p. 74. BCTV. Modif.grigio]
Opere
Confessio (in epistola ad Hibernos explicata?
E’ un’autobiografia spirituale con il resoconto della sua attività come primo vescovo irlandese.
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Epistula a Corotico
Corotico era un capo bretone cristiano che aveva massacrato e rapito alcuni convertiti da Patrizio.
La lettera contiene un atto di scomunica e l’invito a pentirsi e a riparare la colpa.
CHARTA S. PATRICII.
S. PATRICII LIBER DE DUODECIM ABUSIONIBUS SAECULI.
Liber de tribus habitaculis.
Testi e testimonianze
Patr., Conf. 41-43.
SCHEDA – IRLANDA MONASTICA NEL VII SECOLO
SCHEDA – GENEALOGIA DEL MONACHESIMO IRLANDESE
[Fonte: I. Gobry, Storia del monachesimo, 1, Roma, Città Nuova, 1991, p. 505.]
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149
Bibliografia
Edizioni
PL Migne, vol. 53.
Confessio. o meglio S. PATRICII CONFESSIO, IN EPISTOLA AD HIBERNOS EXPLICATA.
Varia opuscula. SYNODUS S. PATRICII. CHARTA S. PATRICII. S. PATRICII LIBER DE
DUODECIM ABUSIONIBUS SAECULI. Liber de tribus habitaculis.
Confession et Lettre à Coroticus
Intr. testo, trad. note R. P. C. Hanson, collab. C. Blanc, 1978 SCh. 249.
Strumenti
Devine, Kieran , A computer-generated concordance to the Libri Epistolarum of Saint Patrick,
Dublin: Royal Irish Academy, 1989, Royal Irish Academy dictionary of medieval Latin from Celtic
sources. Ancillary publications.
Studi
AA.VV., Evangelizzazione dell’Occidente latino dal terzo all’ottavo secolo, a c. di I. Mazzini e L.
Bacci, Roma, Herder, 2001.
E. Malaspina, Patrizio e l'acculturalizzazione latina dell'Irlanda, Roma 1984.
E. Malaspina, Gli scritti di S. Patrizio: alle origini del cristianesimo irlandese, Roma 1985.
ICCU per Autore Patrizio, Santo
Vitalis, Andreas, Tractatulus de Purgatorio S. Patricij Hiberniae seu majoris veterisque Scotiae sanctorum
insulae apostoli. Ex Triade thaumaturga R.A.P. Ioannis Colgani ... extractus, compendiatus, & in
commodiorem redactus methodum per P. Andream Vitalem ejusdem instituti Hibernum Tuamiensem & s.
theologiae lectorem, Venetiis: apud Matthaeum Leni: sumptibus generosi D. Io. Baptistae Nicolai
Antuerpiensis, 1652
Salvianus: Massiliensis, 53: Salviani Massiliensis Presbyteri, s. Patricii Hibernorum apostoli, Arnobii Junioris,
Mamerti Claudiani opera omnia \...! intermiscentur auctoris anonymi De Haeresi praedestinatiana libri tres
\...!
Edizione: Reimprime d'apres l'ed. orig, Turnholti: T. Brepols e.p., \1967!
Ripr. facs
Fa parte di: Patrologiae cursus completus sive bibliotheca universalis, integra...
Patricius<santo>, St. Patrick: his Writings and Muirchu's life / A.B.E. Hood
Descrizione fisica: London: Phillimore, 1978.
Patricius<santo>, Alle origini del cristianesimo irlandese: gli scritti di san Patrizio / a cura di Elena Malaspina,
Roma: Borla, \1985!, Cultura cristiana antica
Note Generali: In appendice: Scritti patriciani di dubbia autenticita e testi agiografici, testi latini. \\I
Patricius <santo>, Saint Patrick's purgatory: a twelfth century tale of a journey to the other world / translated
by Jean-Michel Picard; with an introduction by Yolande de Pontfarcy, Blackrock, Co. Dublin: Four Courts
Press, 1985
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Patricius<santo>, His writings and Muirchu's life / St. Patrick; edited and translated by A. B. E. Hood,
London; Chichester: Phillimore, 1978, History from the sources. Arthurian periodsources; 9
Patricius<santo>, Confession et lettre a Coroticus / Saint Patrick; introduction, texte critique, traduction et
notes par Richard P. C. Hanson; avec la collaboration de Cecile Blanc, Paris: Les editions du Cerf, 1978,
Sources chretiennes; 249
Clavis Patricii, Dublin: Royal Irish Academy, 1989Comprende: 2: Libri epistolarum sancti patricii episcopi :introduction text and commentary / LudwigBieler
1: A computer-generated concordance to theLibri Epistolarum of Saint Patrick / KieranDevine; with foreword
by Anthony Harvey
Patricius<santo>, The works of St. Patrick . Hymn on St. Patrick / St. Secundinus; translated and annotated
by Ludwig Bieler, New York; Mahwah: Paulist press, c1953, Ancient christian writers; 17
Salvianus: Massiliensis, 53: Salviani massiliensis presbyteri, s. Patricii, Hibernorum apostoli, Arnobii Junioris,
Mamerti Claudiani opera omnia (...): intermiscentur auctoris anonymi De haeresi praedestinatiana libri tres,
quibus accedit, appendicis vice, Jacobi Sirmondi Historia praedestinatiana: tomus unicus / accurante et
denuo recognoscente J.-P. Migne, Lutetiae Parisiorum: Migne, 1865
Note Generali: In testa al front.: Traditio catholica, Saeculum 5. annus 460
Fa parte di: Patrologiae cursus completus sive bibliotheca universalis, integra...
Patricius<santo>, S. Patricio, qui Hibernos ad fidem Christi convertit, adscripta opuscola: quorum aliqua
nunc primum, ex antiquis MSS. codicibus, in lucem emissa sunt, reliqua ... opera & studio Jacobi Waraei ...,
Londini: apud Johannem Crook, sub Signo Navis in Coemeterio Paulino, 1656
Salvianus: Massiliensis, 53: Salviani Massiliensis Presbyteri, S. Patricii Hibernorum apostoli, Arnobii Junioris,
Mamerti Claudiani opera omnia ... intermiscentur auctoris anonymi De Haeresi praedestinatiana libri tres ...
Edizione: Reimprime d'apres l'ed. orig, Turnholti: Brepols, 1980, Patrologiae cursus completus sive
bibliothecauniversalis, ... omnium ss. patrum, doctorumscriptorumque ecclesiasticorum; 53
Note Generali: In testa al front.: Traditio catholica saeculum 5. annus 460
Ripr. facs
Fa parte di: Patrologiae cursus completus sive bibliotheca universalis, integra...
ICCU per Soggetto
Titolo: Saint Patrick, A.D.493-1993 / David N. Dumville... <et al.> , Woodbridge: Boydell press, 1993 ,
Studies in Celtic history
Devine, Kieran , 1: A computer-generated concordance to the Libri Epistolarum of Saint Patrick / Kieran
Devine; with foreword by Anthony Harvey , Dublin: Royal Irish Academy, 1989 , Royal Irish Academy
dictionary of medievalLatin from Celtic sources. Ancillarypublications
Fa parte di: Clavis Patricii
Clavis Patricii , Dublin: Royal Irish Academy, 1989Descrizione fisica: v.
Comprende: 2: Libri epistolarum sancti patricii episcopi :introduction text and commentary / LudwigBieler
1: A computer-generated concordance to theLibri Epistolarum of Saint Patrick / KieranDevine; with foreword
by Anthony Harvey
Bieler, Ludwig , Studies on the Life and Legend of St Patrick / Ludwig Bieler; Edited by Richard Sharpe ,
London: Variorum reprints, 1986 , Collected studies series
Bettini 3, 907
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Colomba
Cenni biografici
Colomba (o Colum Cille) nacque in Irlanda (Tír Luígdech) nel 521: il suo nome gaelico era
Crimthann. Imparentato con la famiglia reale di Uì Nèill, fu costretto per motivi politici ad
abbandonare l’Irlanda, non prima di fondare i monasteri di Derry e Durrow. In Scozia si adoperò in
un’ampia opera missionaria i cui punti più notevoli furono la conversione dei Pitti (Scozia) e degli
Angli del Northumbria, l’organizzazione di una rete monastica e la diffusione della cultura celtica,
meritando l’epiteto di apostolo della Caledonia. Da Bridio, re dei Pitti, Colomba ricevette in
possesso l’isola di Iona (Hii), nel gruppo delle Ebridi, dove fondò nel 563 un famoso monastero.
Fu egli stesso poeta
Morì a Iona nel 597.
Nella sua Storia Ecclesiastica Beda ricorda e sottolinea come il monastero di Iona “suole avere
sempre come rettore un abbate, che è prete, al cui volere non solo tutta la regione è soggetta ma
anche, con inusitato ordine gerarchico, gli stessi vescovi, secondo l'esempio di quel primo
maestro, che non fu vescovo ma prete e monaco”.
Tale ordine gerarchico fu caratteristico degli Irlandesi, il cui sistema monastico si sviluppò appunto
indipendentemente dalla ripartizione del territorio in diocesi amministrate dai vescovi. Alcuni di
questi monasteri esercitavano la loro influenza su ampie zone di territorio e i vescovi del luogo si
trovavano ad avere minore autorità degli abbati di quei monasteri.
Opere
Beda accenna all’esistenza di alcuni “scritti, che trattano della sua vita e della sua predicazione”. E’
verosimile che alluda alla Vita Columbae di Adamanno.
Testi e testimonianze
Notizie nella Vita Columbae di Adamanno
Beda, hist. Eccl. Angl. 3,4
Quando la gente dei Pitti ha ricevuto la fede di Cristo
Nell'anno 565 del Signore, allorché Giustino II successe nel governo dell'impero romano a Giustiniano,
dall'Irlanda venne in Britannia un prete e abbate, insigne per l'aspetto e il modo di vita monastica, di nome
Columba, per predicare la parola di Dio nelle regioni dei Pitti settentrionali, cioè a quelli che sono separati
dalle regioni dei Pitti meridionali da ardui e impervi gioghi di monti. Infatti i Pitti meridionali, che abitano tra
quei monti, già da molto tempo, secondo quanto si tramanda 6, abbandonato l'errore dell'idolatria, avevano
accolto la parola di verità dalla predicazione del vescovo Nynias, un uomo santo e venerabile della stirpe dei
Brettoni, che era stato istruito rettamente a Roma nella fede e nei misteri della verità. La sua sede
episcopale, insigne per il nome e la chiesa del santo vescovo Martino, dove il suo corpo riposa insieme a
molti santi, è oggi in possesso degli Angli. Questo luogo, che si trova nella terra dei Bernici, è chiamato
comunemente Candida Casa (Whitern), poiché lí fu costruita una chiesa di pietra, contrariamente all'uso dei
Brettoni 1.
Columba venne in Britannia, mentre regnava sui Pitti Bridio, figlio del potentissimo re Meilochon, nel nono
anno del suo regno e convertí quella gente alla fede di Cristo con la parola e con l'esempio; si che ricevette
da loro in possesso l'isola di Hii (Iona) per costruirvi un monastero. Infatti l'isola non è grande, ma secondo il
modo di misurare degli Angli, è di cinque famiglie. Ancora oggi i suoi successori la posseggono, e lí egli fu
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte V- Cenni di letteratura latina altomedievale
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sepolto all'età di settantasette anni, dopo circa trentadue anni da quando era andato in Britannia a predicare.
Prima di venire in Britannia aveva costruito un famoso monastero in Irlanda, che per abbondanza di querce
è detto nella lingua degli Scotti Dearmach, cioè Campo delle querce (Durrow). Da questi due monasteri
trassero origine molti altri, grazie all'attività dei suoi discepoli, in Britannia e in Irlanda, ma fra tutti occupa il
primo posto il monastero dell'isola di Hii, nel quale riposa il suo corpo. Quest'isola suole avere sempre come
rettore un abbate, che è prete, al cui volere non solo tutta la regione è soggetta ma anche, con inusitato
ordine gerarchico, gli stessi vescovi 8, secondo l'esempio di quel primo maestro, che non fu vescovo ma
prete e monaco; si dice che i suoi discepoli conservino alcuni scritti, che trattano della sua vita e della sua
predicazione 9. Ma chiunque egli sia stato, di lui noi questo sappiamo per certo, che lasciò successori insigni
per grande frugalità, amore di Dio e disciplina regolare, i quali però nel periodo della piú grande festività
(Pasqua) si attenevano a calcoli dubbi. Dato infatti che sono situati all'estremità della terra, nessuno aveva
dato loro i decreti sinodali relativi all'osservanza pasquale, ed essi praticavano con diligenza soltanto quelle
opere di pietà e continenza, che avevano potuto apprendere dagli scritti dei profeti, dei Vangeli e degli
apostoli. Perciò questa osservanza pasquale è stata in uso presso di loro per molto tempo, per
centocinquanta anni, cioè fino all'anno 715 del Signore.
6 Beda fa capire che la sua informazione su Nynias rimontava a fonti della cui completa attendibilità egli non era sicuro.
Sembra che Nynias sia vissuto nel V secolo.
7 Infatti i Brettoni e gli Irlandesi usavano costruire chiese di legno, come è detto anche all'inizio del cap. 25.
8 Questo inusitato ordine gerarchico fu caratteristico degli Irlandesi. Infatti il loro sistema monastico si sviluppò
indipendentemente dalla ripartizione del territorio in diocesi amministrate dai vescovi. Alcuni di questi monasteri
esercitavano influenze su larghe zone di territorio, sí che i vescovi del luogo si trovavano ad avere minore autorità degli
abbati di quei monasteri.
9 Una importante Vita di Columba fu scritta dal suo discepolo Adamnan ed è giunta a noi, ma il tono dubitativo di Beda
su questo argomento fa capire che egli non deve aver conosciuto tale testo.
Trad. e note di G. Simonetti Abbolito, Roma, Città Nuova, 1987. BCTV
Bibliografia
L. Navarra, sv. Colomba abate, in DPAC, 1, col. 735-36
I. Gobry, Storia del monachesimo, 2, Roma, Città Nuova, 1991, pp. 968-84. [BCTV]
COLOMBA abate. Irlandese vissuto nel VI sec. (521-597), fondatore di monasteri (Derry e Durrow) ed
evangelizzatore dei Pitti e degli Scoti. Il suo nome gaelico era Crimthann, quello latino Columba. L'antica
agiografia lo accostò a Patrizio e a Brigida. Parente dei reali di Uì Néill, fu coinvolto in contrasti politici e
dovette nel 563 lasciare l'Irlanda: si trovò pertanto a operare in Scozia, dove, oltre all'opera di conversione,
creò una vasta organizzazione monastica (analoga a quella da lui istituita nell'isola di Jona). Poeta (inno
Altus prosator) e difensore dei primi artisti celtici, «scriba» famoso, fu detto apostolo della Caledonia poiché
alla sua morte, nel 597, gran parte della Scozia era convertita. Si hanno notizie su di lui nella Vita Columbae
di Adamnano.
CPL 1131; L. Gougaud, Christianity in Celtic Lands, London 1932.
L. Navarra
Colombano
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Cenni biografici
Nacque da una famiglia reale tra il 538 e il 543 a Leister, in Irlanda. Fu monaco nel monastero di
Bangor, presso Belfast, fondato da S.Comgal (Comgall) e frequentato da San Gallo (controllo
onomastico sono gli stessi?).
[Itinerario di S. Colombano. Fonte: J.M. Laboa, Atlante storico del monachesimo, Milano, Jaka
Book, 2002, p. 121. BCTV. Modificato]
Insieme a dodici compagni passò in Gallia tra il 585 e il 590, dove fondò tre monasteri, a Luxeuil,
Annegray e Fontaine. Tra questi il più famoso fu quello di Luxeuil, l’antica Luxovium, in Borgogna:
tale monastero divenne presto centro di irraggiamento di attività culturali (vi si sperimentarono
forme di scrittura “precaroline”), ma anche di sviluppo dell’agricoltura; da qui provennero in seguito
numerosi vescovi. C. vi applicò una regola piuttosto dura che enfatizzava l’obbedienza, la
penitenza e il lavoro manuale, e che prevedeva l’osservanza del così detto cursus Scotorum;
proprio per questo C. si trovò presto in disaccordo con il clero e con la corte burgunda, al punto da
essere imprigionato ed esiliato dal regno nel 610. Fu quindi a Tours presso la tomba di S.Martino
e in altre località francesi (Besancon, Autun, Auxerre, Nevers, Jouet, Fleury, Orléans, Nantes,
Rouen, Parigi). La sua peregrinazione per l’Europa lo vide in seguito missionario tra gli Alamanni e
gli Suebi in un percorso che lo vide a Metz, Coblenza, Magonza, Strasburgo, Basilea e a Bregenz,
sul lago di Costanza, nei pressi di questo lasciò malato il suo compagno Gallo che diede appunto
nome al famoso monastero di San Gallo.
Giunto in Italia sul finire del 612 e accolto con favore alla corte longobarda di Agilulfo e Teodolinda,
da essi ottenne nel 614 di fondare, nell’alta valle del Trebbia (PC), il monastero di Bobbio, altro
centro destinato ad avere una posizione culturale, politica ed economica notevole nella storia del
nostro paese; qui S.Colombano morì nel 615.
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S. Colombano è sicuramente uno degli esempi più significativi dei monaci missionari irlandesi,
autori di un’opera di diffusione del Cristianesimo sul continente europeo. Tra i suoi compagni, oltre
a Gallo (vedi) va ricordato Kiliano che evangelizzò l’attuale Franconia (Wurzburg).
[L’itinerario di S.Colombano. Fonte: Giona di Bobblio, Vita di Colombano e dei suoi discepoli,
Milano, Jaka Book, 2001, p.253 (legg.modif.) BCTV]
Opere
Colombano fu esperto conoscitore delle Sacre Scritture che leggeva in ebraico e greco.
Gli vengono attribuiti numerosi scritti, la paternità di molti dei quali è tuttavia ancora discussa.
Sotto il titolo di Regula monachorum vengono comprese una regula monachorum e una Regula
coenobialis.
Il primo testo è articolato in dieci capitoli: Obbedienza, Silenzio, Cibo e bevanda, Povertà e
repressione dell’avidità, Repressione della vanità, Castità, Recita dei Salmi, Discrezione,
Mortificazione, Perfezione del monaco.
Particolarmente dura, richiama l’ascesi delle comunità egiziane. Fu adottata a Luxeuil e a Bobbio;
qui venne sostituita nel corso del VII secolo dalla regola benedettina.
La Regula coenobialis è una raccolta di norme pratiche relative alla vita di ogni giorno, con
riferimenti alle sanzioni per le possibili infrazioni.
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Il Penitenziale stabilisce le penitenze per le colpe maggiori.
Lettere e poesie?
Testi e testimonianze
Jon.Bob., vita Columb., 1,30 (59-60). Fondazione del monastero di Bobbio.
(59) Quando il beato Colombano vide che Teodeberto era stato vinto da Teodorico, come abbiamo
raccontato più sopra, lasciò la Gallia e la Germania per entrare in Italia. Vi fu accolto con onore dal
re dei Longobardi Agilulfo, che gli offrì di scegliere lui stesso in Italia, dove volesse, il luogo in cui
stabilirsi. Soggiornava a Milano, e si adoperava per disperdere e per estirpare, applicando il
cauterio delle Scritture, le menzogne degli eretici, vale a dire l'errore ariano (contro gli Ariani
pubblicò altresì un libretto colmo di mirabile dottrina).
(60) Nel frattempo, per volere di Dio, càpita questo fatto. Un uomo, un certo Giocondo, si presenta
al re e lo informa che, in un luogo solitario delle campagne appenniniche a lui noto, esiste una
basilica dedicata al beato Pietro, principe degli apostoli: come egli stesso ha potuto constatare, vi
accadono dei miracoli; il suolo è fertile e molto produttivo, vi abbondano acque correnti e c'è pesce
in quantità. Un'antica tradizione denominava quella località Bobbio, dal nome del torrente che vi
scorre e che va a gettarsi in un altro fiume, di nome Trebbia, sulle cui rive Annibale aveva un
tempo svernato e subìto una disastrosa perdita di uomini, cavalli ed elefanti. Colombano vi si recò
e, trovata la basilica semidiroccata, si diede con tutte le forze a restaurarla, riportandola all'antico
splendore. Nel corso di tale opera di restauro, ebbe a manifestarsi la mirabile potenza del Signore.
Si tagliavano dei tronchi d'abete, tra rocce di rupi impervie, nel folto della foresta, in luoghi
inaccessibili. Ma gli alberi tagliati altrove, o caduti sul posto in posizioni scomode, impedivano ai
carri di avvicinarsi. Ebbene: per quanto lo consentiva l'erto e strettissimo sentiero, si portava colà
I'uomo, di Dio con due o tre compagni, e, cosa sorprendente, caricava sulle sue spalle e su quelle
dei fratelli l'immane peso d'un tronco che a stento trenta o quaranta uomini sarebbero riusciti a
trasportare su un terreno pianeggiante; aggravati dal peso dei tronchi, procedevano lesti per
l'aspro sentiero su cui, all'andata, avevano faticosamente arrancato benché liberi da pesi. Le parti
sembravano essersi rovesciate: coloro che portavano i pesi se ne andavano allegri e a passo
sicuro, quasi passeggiando, come se il carico fosse trasportato da altri. Vedendo lo straordinario
aiuto loro accordato, l'uomo di Dio esorta i suoi a compiere lietamente l'opera intrapresa e a
prepararsi a rimanere in quell'eremo, forti di tale incoraggiamento; sostiene altresì che era Dio
stesso a volerlo. Restaura quindi il tetto della chiesa, i muri in rovina, e si accinge a costruire tutti
gli altri edifici indispensabili a un monastero.
«L'opera è perduta, a meno che - cosa che non è molto verosimile - essa non sia il sermone iniziale De fide nella serie di
tredici Instructiones o sermoni, la cui attribuzione a Colombano è relativamente antica e con ogni probabilità corretta»
(così Bullough, loc. cit., pp. 23 s.). Viene generalmente dato per assodato che, oltre che a Bobbio, sia proprio a Milano dove, anche per l'atteggiamento oscillante della famiglia reale, l'arianesimo godeva tuttora d'un largo successo - che il
Nostro compose e predicò i suddetti sermoni (dum ille poenes Mediolanium urbem moraretur et hereseorum fraudes, id
est Arriane perfidie, scripturarum cauterio descerpi ac desecari vellet.. ). Che invece il líbellus florenti scientia possa
essere riconosciuto nel Simbolo Quicumque,è opinione che è stata sostenuta con validi argomenti da Michele Tosi
Bobium A 46 km. a sud-ovest di Piacenza; la spiegazione del nome - Quem locum veterum traditio Bobium
noncupabant... - offre a Giona il destro di ricordare il liume più importante, il Trebbia, nel quale si immette-il torrente
Bobbio.
«Secondo Tito Livio (21, 58, I1), Annibale non subì queste perdite sulla Trebbia, dove aveva vinto i Romani e svernato
senza danno, ma nel tentativo, in seguito, di passare l'Appennino»
Per tutto ciò, Colombano ottenne una carta da Agilulfo, il cui successore Adalvaldo fece analoghe concessioni ad Attala
e a Bertulfo. Alla base della fondazione colombaniana, stavano certamente motivazioni composite, così sintetizzate da
Marcel Pacaut (Monaci e religiosi nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 65 s.): «L'istituzione del cenobio bobbiese
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nella valle del Trebbia, in territorio piacentino, coronò l'attività svolta da Colombano nei pochi anni trascorsi in Italia a
stretto contatto con la monarchia longobarda, in un periodo agitato da perduranti contrasti politici e militari conseguenti
all'espansione dell'avanzata longobarda verso i domini bizantini e dalle tensioni religiose provocate dalla coesistenza,
nell'Italia settentrionale, del cattolicesimo, dell'arianesimo, professato ancora dai Longobardi invasori, e della fede
tricapitolina, difesa da quanti aderivano alla condanna pronunciata da Gíustiniano (lette opere di alcuni trattatisti orientali.
In questo complesso tessuto di relazioni ed eventi le iniziative di Colombano furono rivolte, con il favore di Agilulfo e di
Teodolinda, sia alla lotta contro la persistenza di culti pagani nell'area lombarda che alla mediazione tra i Longobardi e il
papato romano per favorire la pace religiosa. L'appoggio dei re si manifestò concretamente nella donazione all'attivo
monaco irlandese del territorio di Bobbìo, ove già sorgeva una chiesa dedicata a san Pietro, per consentire la nascita di
una fondazione che rappresentasse anche, grazie all'organizzazione del controllo e dello sfruttamento delle zone
circostanti di proprietà del monastero, destinate ad una forte espansione in seguito ad ulteriori concessioni regie e
donazioni private, un saldo avamposto religioso e politico, in quanto protetto e controllato dal Regno, nei confronti della
vicina Liguria bizantina». Sulle dipendenze bobiensi, si può vedere utilmente (anche per la presenza di carte
topografiche illustrative) G. Coperchini, Le Terre di S. Colombano: La «Valle in qua situm est monasterium» (primo
contributo), in «Archivum Bobiense» xx1 (2000), pp. 291-304.
Note di A.Granata; trad. di Monache Benedettine Abb. Mater Ecclesiae Isola S.Giulio (NO), in
Giona di Bobbio, Vita di Colombano e dei suoi discepoli, Milano, Jaka Book, 2001. [BCTV]
Letture critiche. I. Gobry, La regola di S. Colombano.
La regola di san Colombano è stata scritta a Luxeuil l'anno della sua fondazione, o al massimo nell'anno
seguente, cioè nel 592 o nel 593, quasi sessant'anni dopo quella di san Benedetto. Essa è molto breve:
ventiquattro pagine nell'edizione Holstein, contando il Penitenziale (contro le sessanta di quella di san
Benedetto e le centosettanta di quella del Maestro). Le sue fonti sono svariate. Essa deriva certamente dalla
regola di Bangor, di cui non c'è restato nulla di scritto e che Colombano aveva praticato con fervore per piú
di vent'anni: abitudine e amore che non possono poi essere rinnegati. Si trovano in essa anche reminiscenze
delle regole orientali, probabilmente pervenute attraverso Bangor - oltre che attraverso Lérins. Il ruolo delle
stagioni nell'Ufficio divino fa pensare alla regola del Maestro. Si può anche supporre che, nutrito di vita e
spiritualità monastiche, l'autore ripeta i suoi predecessori per pura coincidenza, o anche che, essendogli
familiari i loro scritti, non possa evitare le reminiscenze.
Il primo capitolo è dedicato all'ubbidienza, considerata la prima delle virtú monastiche. Ma, perché non si
dimentichi dove sta la radice di questa virtú e di tutte le altre, il paragrafo iniziale, una sorta di preambolo
come lo si trova nella Regola di sant'Agostino, richiama il soggetto della regola alla carità:
Prima di ogni cosa, impariamo ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze, e il
prossimo come noi stessi. In secondo luogo, è importante che tutti, appena odono la prima parola di un
anziano, si precipitino a ubbidirgli. Perché è a Dio che va l'ubbidienza, tant'è vero che Nostro Signore Gesti
Cristo ha detto: Chi ascolta voi, ascolta me. Se dunque non ci si precipita subito quando la si ode, si deve
essere considerati disubbidienti. Chi contraddice commette crimine di ostinazione; e cosí non è colpevole
solo di disubbidienza, ma, aprendo agli altri la porta della contraddizione, dev'essere considerato rovina di
un gran numero.
Se un fratello mormora, e ubbidisce come chi non ha fatto voto di ubbidienza, dev'essere reputato
disubbidiente. Per questo, la sua azione deve essere ignorata finché la sua buona volontà sia evidente.
Fino a quale limite deve giungere, dunque, l'ubbidienza? Fino alla morte, senza alcun dubbio. Perché Cristo
ha per noi ubbidito al Padre fino alla morte. E ciò che insegna l'Apostolo quando dice: Abbiate in voi gli
stessi sentimenti di Cristo Gesù, che pur, essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua
ugaglianza con Dio; s'è tuttavia annientato assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini;
umiliò se stesso facendosi ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2, 8).
Il secondo capitolo tratta del silenzio: il monaco deve tacere sempre, salvo in caso di stretta necessità. Si
passa poi subito all’alimentazione: il digiuno è quotidiano; si prende un solo pasto, la sera, guardandosi bene
dal saziarsi. Consiste in erbe, legumi, farina stemperata in acqua, con un po' di pane. Questo regime è
quello della vita stabile in monastero: durante le lunghe peregrinazioni, è impossibile da osservare e
vediamo Colombano stesso, in una traversata del deserto, sfamarsi di quaglie con i suoi compagni. Si legge
anche, in una vita di san Gallo, che lui non aveva uguali nel catturare con la rete i pesci del lago di
Costanza. Ugualmente, anche se non è menzionata nella regola, la birra compare nei racconti come la
bevanda abituale dei monaci colombaniani. I piatti serviti sono fatti per sostenere il corpo, non per soddisfare
i suoi gusti: la rinuncia ai piaceri temporali è la condizione dell'attrattiva per le gioie eterne. Tuttavia,
l’eccesso nella privazione non appartiene alla virtú, ma al vizio.
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Col quarto capitolo, si giunge alla virtú della povertà: essa consiste solo nel non possedere niente, ma nel
non desiderare alcuna delle cose di questo mondo:
Tra i monaci, nei quali il mondo è crocifisso per Cristo e che sono essi stessi crocifissi per il mondo, la
cupidigia deve essere calpestata. In loro, è condannabile non solo possedere il superfluo, ma volerlo: perché
non i loro beni vengono richiesti ad essi, ma la loro volontà. Essi che abbandonando tutto seguono ogni
giorno Cristo Signore con la croce del timore, possiedono tesori in cielo. E avendo grandi tesori in cielo,
devono accontentarsi, sulla terra, di ciò che c'è di piú parsimonioso.
La prima perfezione del monaco consiste nella nudità e nel disprezzo dei beni sensibili, la seconda nella
purgazione dei vizi, la terza in un perfetto e continuo amore di Dio, in un amore ininterrotto dei beni celesti,
che è condizionato dall'oblio dei beni terreni.
Nel mezzo delle virtú tradizionali che sono oggetto della professione religiosa, sono intercalate alcune linee
sulla vanità: il monaco non deve gloriarsi di niente. Ci si attenderebbe qui, come nella regola di san
Benedetto, piuttosto un elogio dell'umiltà, cioè della virtú da praticare: troviamo invece una condanna del
vizio da proscrivere.
Il sesto capitolo concerne la castità: poche linee, per insistere sulla purezza mentale. È dai suoi pensieri che
si giudica la castità del monaco. «A che serve essere vergini nel corpo se non si è vergini nello spirito?».
Fin qui, tutto è stato esposto in poche parole. Si tratta della spiritualità che presiede alla vita quotidiana: chi
ha orecchie, intenda. Ma eccoci giunti a una materia che esige precisazioni, per ché è tutta pratica: è l'ordine
dell'ufficio divino, ordine che Colombano chiama Sinassi o Corso dei salmi. Le prescrizioni dell'autore sono
peraltro molto ingarbugliate, con ripetizioni, lacune, oscurità. La grande distinzione concerne le ore diurne e
le ore notturne. Ma ignoriamo quante ore diurne si celebrano: ve ne sono cinque (prima, terza, sesta, nona,
vespri) o quattro? Quest'ultima cifra sembra la piú probabile, perché nella tradizione monastica che
Colombano professa di seguire non sono mai state superate le otto ore canoniche. Ora, la regola di Luxeuil
impone quattro ore notturne: quelle dell'inizio della notte, del mezzo della notte, del canto del gallo e del
mattutino (le nostre attuali laudi). L'ufficio detto «dell'inizio della notte» non ha niente a che vedere del resto
con la compieta, alla quale è dato talora questo nome. In realtà, fa parte della vigilia, il maggior ufficio
canonico, che noi chiamiamo oggi mattutino. Colombano lo mostra chiaramente quando tratta del contenuto
della vigilia. Questo deve occupare l'insieme della notte: perché «dobbiamo vegliare (vigilare) quanto è
possibile con l'autore della nostra salvezza». Riferimento alla solitudine del Getsemani («Vegliate e
pregate... », «Non siete stati capaci di vegliare un'ora sola con me... »), che Blaise Pascal avvertirà
intensamente nel corso della sua notte mistica e che gli farà scrivere in seguito: «Gesú sarà in agonia fino
alla fine del mondo: non bisogna dormire durante questo tempo».
Secondo la regolamentazione colombaniana, le parti della vigilia sono trattate come altrettanti notturni di uno
stesso ufficio. Almeno le prime tre (dell'inizio, della metà, del canto del gallo), che comportano dodici salmi
ognuna d'inverno, mentre è detto in precedenza che in questa stagione la vigilia conterrà trentasei salmi.
Nondimeno, mattutino, ultimo ufficio della notte, sembra proprio collegarsi agli altri tre, perché rientra in una
strana regolamentazione, talvolta praticata in Oriente, ma che non è stata oggetto di alcuna legislazione
scritta: le notti dal venerdí al sabato e dal sabato alla domenica, come pure quelle che precedono le feste
solenni, non tagliano la vigilia con quattro tempi di riposo, ma ne fanno una preghiera unica e continua,
senza interruzione. Essa comporta allora settantacinque salmi, di modo che le due ultime notti della
settimana, che celebrano la Risurrezione del Signore, si ripartiscono il salterio integrale. Per cui, durante
queste due notti settimanali, i monaci non si coricano: è la lode ininterrotta. Se si tiene conto che l'ufficio è
cantato interamente e che che si aggiunge ai salmi una profusione di antifone (senza dubbio di una certa
lunghezza, vista la passione dei Celti per tutto ciò che concerne il canto e in particolare il canto sacro), si
comprende senza difficoltà che la vigilia occupi il coro dal crepuscolo della sera al crepuscolo dell'alba.
Per questa ragione, secondo un uso in onore nel monastero del Maestro e a Montecassino, l'ufficio variava
in lunghezza con le stagioni. Pletorico durante le lunghe notti d'inverno, era in seguito tagliato su misura
delle fugaci notti d'estate. Usanza propria della comunità della zona temperata: nella Tebaide, sotto il
Tropico del Cancro, queste differenze sono trascurabili; in Irlanda, diventano tiranniche. Nella regola del
Maestro, l'accorciamento della vigilia estiva ha un senso essenzialmente pratico: è reclamato dall'urgenza
dei lavori agricoli; nella regola di Colombano assume un senso essenzialmente mistico: il monaco deve
vivere la sua notte con Cristo oltraggiato. È la ragione per cui, anche quando torna nella sua capanna tra i
vari notturni, deve guardarsi dal cadere nel sonno. San Paolo prescrive di «pregare in ogni tempo»: anche
negli intervalli della lode ufficiale, il monaco deve «pregare nel suo letto». Si capisce meglío il permesso,
conesso a malincuore, di coricarsi per un'ora o due, pur continuando a unirsi al Signore, se si prende atto
che l'ufficio era tutto cantato in piedi.
La preghiera notturna piú soggetta a gonfiamenti e sgonfiamenti era mattutino: venti salmi in inverno, quattro
in estate, trentasei la domenica. Qui anche ci interroghiamo sull'autonomia di quest'ora canonica nei
confronti delle tre precedenti: questi trentasei salmi sembrano proprio essere un supplemento ai
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settantacinque propri della vigilia. Ma allora le tre prime ore sarebbero effettivamente i tre notturni - separati
abitualmente - del mattutino dell'ufficio romano.
In compenso le ore diurne, incastonate nel lavoro quotidiano sono di una brevità intangibile: tre salmi, misura
«determinata dagli Antichi», ai quali si aggiungono alcuni versetti. Questi tre salmi sono del resto cantati con
un'intenzione specifica per ognuno: il primo per i nostri peccati, il secondo per il popolo cristiano, i preti e gli
altri chierici, coloro che fanno l'elemosina, i capi dei popoli; il terzo per i nostri nemici «affinché Dio non
imputi ai loro a peccato le persecuzioni e le diffamazioni che ci fanno subire, perché non sanno quello che
fanno». L'ombra di Bruneauta campeggia su questo articolo misericordioso.
Questa regola terribile, erede di Bangor piú che di Marmoutier e ancor piú che di Arles, richiedeva un grande
equilibrio spirituale. Donde l'importanza che l'autore, sulle orme dei Padri d'Oriente, accorda al
discernimento, alla discretio, che è oggetto di un lungo capitolo. «Coloro che hanno iniziato la loro vita
monastica senza discernimento e l'hanno vissuta senza la scienza della moderazione, non sono potuti
giungere a una fine lodevole». L'abate ha dovuto certamente assistere a molte cadute, corrette o
irrimediabili, che l'hanno messo in guardia contro la grande difficoltà di dirigersi con i propri lumi sulle vie
della perfezione. Questa senza dubbio la fonte dell'implacabile rigore della regola scritta e dell'ubbidienza
cieca alla volontà del superiore, come pure la ragione delle abbondanti spiegazioni, che contrastano con la
stringatezza dei primi capitoli, concernenti la virtú della discrezione:
Discrezione viene dalla parola discernere: perché essa infatti discerne in noi il bene e il male e nelle cose ciò
che è mediocre e ciò che è perfetto. In origine, il bene e il male sono stati separati; ma poi il male ha
cominciato a essere, a causa della depravazione del bene introdotta dal diavolo. In principio, Dio ha creato
la luce e in seguito ha operato la separazione. Cosí pure, Abele in principio ha scelto il bene e Caino è
caduto nel male con empietà. Dio ha fatto bene tutto ciò che ha creato; il diavolo con la sua astuzia, ha
seminato il male in questa bontà stessa. Qual è dunque il bene? Tutto ciò che ha conservato l'integrità e
l'incorruzione nelle quali era stato creato, e che vi si è conservato: tutto ciò che Dio ha creato e preparato,
secondo l'Apostolo, perché noi vi camminiamo nella nostra via terrena; sono le buone opere per le quali
siamo stati creati in Cristo Gesú (Ef 2, 10): la bontà, l'integrità, la pietà, la giustizia, la verità, la misericordia,
la carità, la pace della salvezza, la gioia dello spirito, con gli effetti spirituali. E tutto questo, con i suoi frutti,
che è buono; è il contrario che è cattivo.
È chiaro quanto importante sia questo capitolo: si tratta di sapere perché il monaco è entrato nel chiostro.
Per mortificarsi? Per conservare il silenzio? Per lavorare, per alzarsi la notte, per portare una veste vile, per
essere insensibile alle gioie del mondo? No: tutto questo è sempre mezzo, mai fine. Tutto questo è
strumento di una maggiore bontà, maggiore pietà, maggiore misericordia, maggiore gioia spirituale. Ecco su
cosa deve incessantemente vertere il discernimento: non scambiare il mezzo per il fine, non fissare la
propria attenzione sui dettagli dimenticando l'essenziale, non perdersi nell'accessorio abbandonando il
necessario.
Il legislatore può cosí passare al capitolo nono, che tratta della mortificazione. I fondamenti sono posti, può
affermare senza esitazione: «La parte piú importante di una regola monastica è la mortificazione».
Elencherà poi tutta una serie di macerazioni imposte ai monaci? No: continua a spiegare, vuole che il
postulante comprenda non tanto come si fa penitenza, ma perché. E’ nella vita lontana da tutte le trappole
del mondo, liberata tutti i pericoli fatali per l'anima, strappata a tutto ciò che tiene in disparte dalla pietà, dalla
carità, che la spiritualità vera trova la sua fioritura. Lo si costata dalla felicità che i veri religiosi traggono dalla
regola, perché «a coloro che hanno il cuore duro, questa disciplina appare dura, ma coloro che temono Dio,
la trovano dolce e piena di sicurezza».
È a questo punto che troviamo, in un manoscritto della regola di Colombano proveniente da Bobbio, una
interpolazione preziosa, che si presenta come un'aggiunta tardiva del Padre e che riassume la sua
esperienza alla fine del superiorato: una specie di testamento e un condensato della spiritualità
colombaniana. Reca un titolo significativo: Della perfezione monastica:
Il monaco viva in monastero sotto la disciplina di un unico padre e in una comunità di molti fratelli, al fine di
apprendere dall'uno l'umiltà, dall'altro la pazienza, che l'uno gli insegni il silenzio e l'altro la mansuetudine.
Non faccia ciò che vuole, mangi ciò che gli si prescrive, non possieda se non ciò che riceve, compia il
compito che gli è assegnato, sia sottomesso a chi non vorrebbe. Vada a letto nella stanchezza, sonnecchi
nel camminare e sia costretto ad alzarsi senza aver dormito quanto basta. Patisca l'ingiuria in silenzio.
Veneri il priore del monastero come il suo Signore e l'ami come suo padre; creda che tutto ciò che gli ordina
è propizio alla sua salute e non giudichi le massime degli anziani, lui il cui ruolo è di ubbidire e compiere ciò
che gli è ordinato, secondo quel che dice Mosè: Ascolta, Israele!
Qui termina la regola: cinque brevi pagine che costituiscono, nell’insieme, più orientamenti che prescrizioni.
Quando si è letta la regola del Maestro e quella di san Benedetto, non ci si può impedire di trovare in quella
di san Colombano gravi lacune. Esse si spiegano col fatto che il fondatore di Luxeuil e di Bobbio ha scritto
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per il presente, non per il futuro, per alcune comunità di monaci irlandesi alle quali dei Germani appassionati
e resistenti accettavano di unirsi. Esempio rivelatore: avendo istituito e legiferato, avendo lui stesso
nominato gli abati delle sue filiali e i priori delle sue succursali, non si preoccupa del governo futuro del suo
Ordine. Niente, nella regola, sull'elezione dell'abate o sull’accesso alle cariche; si apprende, fin dal principio,
che l'ubbidienza non è concepita senza un abate, che possiede un potere indiscutibile; che questi nomina
dei priori, ai quali ci si deve sottomettere senza contestazione, sotto pena di quaranta giorni di digiuno; si
viene a sapere, incidentalmente, che un cellerario è preposto al temporale e che i giovani devono chinarsi
davanti alle esigenze degli anziani. Ma non c'è niente di nettamente fissato quanto ai rapporti gerarchici.
Niente nemmeno sulle condizioni d'ingresso in religione, sulla vestizione, sul noviziato, sulla professione,
sulla natura dei voti, sulla situazione dei chierici.
Un altro silenzio sorprendente: i compiti obbligatori. Siamo informati, di sfuggita, che il monaco è obbligato a
lavorare. Ma in quali lavori? secondo quale ritmo? con quale dosaggio? Dopo che Colombano ha lasciato
Luxeuil, quanti anni occorrono perché, senza precisazioni regolamentari, gli usi stabiliti dalla sua forte
personalità si deteriorino? A Bobbio, si sente obbligato di ricordare al suo successore Eustasio il rispetto che
si deve alle usanze che egli ha imposto. Grazie alle «vite» di Colombano e dei suoi discepoli, si costata che i
due compiti tradizionali del monachesimo, il lavoro manuale e l'applicazione intellettuale, erano praticati nei
monasteri colombaniani. A imitazione degli abati celti, il fondatore aveva dotato questi di scuole di scienze
sacre, in cui si studiava soprattutto la Sacra Scrittura. E, senza sosta, vediamo i religiosi costruire, dissodare,
seminare, raccogliere. Non ci è vietato supporre che la comunità colombaniana, avendo passato altrettanto
tempo a errare per le strade che a vivere nel chiostro e altrettanto a edificare í monasteri che ad abitarli, non
abbia potuto condurre una vita conventuale abbastanza regolare per essere codificata. Di qui anche
vengono forse le esitazioni e le omissioni della regola.
In compenso, niente è meglio previsto e píú particolareggiato delle sanzioni in cui incorrono i colpevoli. Esse
costituiscono l'oggetto di un trattato speciale, il Penitenziale, redatto posteriormente alla regola e annesso a
questa come capitolo X - un capítolo piú sviluppato degli altri nove messi insieme. Questo codice penale,
smisurato a confronto del codice civile che lo precede, non tralascia di mettere in luce tuttavia la parte
consuetudinaria delle leggi di Luxeuil: se si punisce la contravvenzione a un uso, è perché questo è
obbligatorio.
Sarebbe noioso enumerare tutte queste sanzioni, che del resto non sono nell'insieme una innovazione di
Colombano, ma si ispirano a penitenziali celtici, di cui restano due codici tipici, quelli di san Finian e di san
Gildas. Si deve peraltro supporre che anche quello di Bangor, interessante tremila monaci, fosse pure molto
circostanziato.
La lunga serie degli articoli è preceduta, essa pure, da un preambolo che ricorda il senso della penitenza
pubblica:
La varietà delle colpe deve essere guarita con un rimedio: la varietà delle penitenze. Ecco perché, fratelli, i
santi Padri hanno cosí stabilito: essi esigono che noi confessiamo tutto, non solo i crimini piú gravi, ma
anche le negligenze piú importanti. Sicché gli stessi piccoli peccati non sono da trascurare nella
confessione, dal momento che è scritto: Chi trascura le piccole cose, prima o poi trascurerà le grandi.
Cosí, chi non riceve la benedizione a tavola rispondendo Amen, è punito con sei colpi di disciplina. Per chi
dice che qualcosa gli appartiene, o dimentica di fare il segno della croce sul cucchiaio prima di servirsene, o
sulla lampada prima di accenderla, uguale pena. Per inavvertenze leggere, come il non chinarsi alla fine di
un salmo, si deve semplicemente restare a fare un'orazione. Ma se per disattenzione un incaricato ha
lasciato sprecare nutrimento o bevanda, frutto di tanto lavoro o della carità dei fedeli canterà dodici salmi
stando completamente disteso sul pavimento della chiesa, «senza muovere un solo membro»: posizione
molto scomoda per l'esecuzione di un canto liturgico! Per aver agito con leggerezza verso la maestà divina,
la tariffa sale: dodici colpi di disciplina per non essersi chinato davanti alla croce, o per non essersi segnato
quando il superiore ha dato la benedizione, o per aver mangiato senza attendere tale benedizione.
Altre pene sono previste per le colpe liturgiche: sei colpi di disciplina per l'ebdomadario che tossisce
intonando un salmo, o per il comunicando che urta coi denti il calice, o per il prete che offre il Santo
Sacrificio senza essersi tagliato le unghie, o il diacono che l'assiste senza essersi rasato, o l'uno o l'altro se
lascia vagare lo sguardo invece di tenere gli occhi bassi. Ma se il prete dimentica l'offertorio, riceve cento
colpi. Pene analoghe nei rapporti col prossimo. Il monaco che racconta delle storie oziose è perdonato la
prima volta; se è recidivo, merita cinquanta colpi. Stessa tariffa se è ripreso per le sue parole e non ammette
immediamente la mancanza con un mea culpa. Incorre nella sanzione dolorosa anche chi si appropria di un
oggetto destinato all’uso comune: cento colpi.
La recita dei salmi è certo una penitenza piú dolce. Essa è applicata, tra l'altro, a coloro che dimenticano
degli oggetti fuori: dodici salmi se si tratta di un oggetto senza importanza, trenta in caso contrario. Chi
conversa con un estraneo senza permesso deve recitare ventiquattro salmi. Chi si addormenta
accidentalmente durante la preghiera si libera con sei salmi; chi lo fa abitualmente, con dodici; stesso
numero per chi non assiste al Benedicite, o al rendimento di grazie, o si presenta per l'ufficio in tenuta non
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160
regolamentare, o dimentica di chiudere la porta della chiesa. Quanto al monaco che arriva in ritardo alla
preghiera comunitaria, è punito con cinquanta salmi. Bisognerebbe anche sapere quali salmi erano imposti
ai penitenti: c'è una differenza di lunghezza tra il salmo 116 (Laudate Dominum, omnes gentes) che
comprende due versetti, e il salmo 118 (Beati immaculati in vita) che ne conta settantasei.
Il colpevole può anche essere condannato al digiuno: un piccolo pane e dell'acqua per tutto nutrimento. È il
caso del disubbidiente: secondo la gravità del suo rifiuto, il periodo di digiuno varia da due a quaranta giorni.
Chi ha preso il suo pasto senza permesso in casa di estranei si vede infliggere un solo giorno di digiuno, ma
se si è nutrito in monastero prima dell'ora regolamentare, i giorni sono due; se non vuole riconoscere una
menzogna, essi salgono a sette. Chi impreca contro la regola o i superiori è scacciato, a meno che non
manifesti di essere pentito: in questo caso, è costretto alla penitenza per quaranta giorni.
Castighi particolarmente severi sono riservati ai chierici che non trattano con sufficiente riverenza il pane
eucarístico (sacrificium): il termine lascia supporre che si tratti di pane benedetto, ma non ancora
consacrato. Colui che lo perde senza ritrovarlo, pagherà con un anno intero di penitenza; chi lo lascia
seccare o mangiare dai vermi, con sei mesi: quanto al pane cosí ridotto, dovrà essere bruciato; chi lo lascia
cadere nell'acqua, sarà condannato a bere acqua per il resto dei suoi giorni.
Tutti questi rigori appaiono terribili ai nostri contemporanei. Viviamo infatti in un'epoca che ha una sensibilità
molto diversa, in cui il digiuno ferisce i nostri corpi e i colpi la nostra dignità. Bisogna considerare qui che la
maggior parte dei monaci entrati a Luxeuil, dopo l'insediamento degli Irlandesi (che erano già di natura
violenta), erano barbari male sgrossati, battezzati alla vigilia e abituati alle condizioni di vita piú dure. Tutte
queste pene che applicò loro l'abate fanno parte di una pedagogia della venerazione e del sacro, che non
può compenetrare il monaco senza un suo patimento sensibile. «La rigida disciplina in uso nei monasteri di
Scozia e d'Irlanda - scrive Montalembert - si manifesta nella prodigalità della pena della frusta, riservata nel
codice benedettino ai criminali incorreggibili e prescritta nel Penitenziale per le mancanze piú insignificanti.
Bisogna pensare, del resto, che questa pena sembrava allora molto meno dura e umiliante, anche ai figli dei
grandi signori che figurarono in gran numero tra i discepoli di Colombano, di quello che sembrerebbe oggi ai
piú oscuri cristiani, considerato che il massimo di duecento colpi è giudicato l'equivalente di due giorni di
digiuno a pane e acqua e che l'una o l'altra di queste pene è riservata al monaco che parli senza testimoni a
una donna».
Quanto all'abbé Eugène Martín, egli vede nel Penitenziale di san Colombano un contributo molto importante
al progresso spirituale delle Gallie. Quando l'abate irlandese mette piede sulla terra franca, è particolarmente
colpito dalla mediocrità della vita cristiana. Il rimedio piú appropriato a questa situazione sarebbe stato il
sacramento della penitenza. Ora, la Gallia, contrariamente Italia e all'Africa, manteneva per i peccati gravi,
anche occulti, il sistema primitivo della penitenza pubblica. «La Chiesa raccondava la comunione frequente
e san Paolo aveva ricordato ai discepoli di Cristo il dovere che avevano di purificare la loro ma prima di
ricevere l'Eucaristia; ma molti peccatori, temendo l’umiliazione e soprattutto la terribile incapacità che colpiva
i relapsi. Si accontentavano di tentare un atto di carità perfetta, mezzo sempre aleatorio, o non si
accostavano piú alla Sacra Mensa, o, cosa ancor piú funesta, si votavano alle manovre di : lamentabile
ipocrisia. E la vita cristiana andava cosí scadendo». San Colombano porta nei monasteri un duplice regime:
la penitenza privata, per i peccati segreti; la penitenza pubblica, per i peccati pubblici. Il Penitenziale di
Colombano, come quelli di san Finian e di san Gildas, costituirebbe un esempio di Somma per i casi privati;
questi sono certo pubblici per i monaci all’interno del monastero, ma sfuggono di fuori alla giurisdizione
ecclesiastica.
Infine, la regola di san Colombano cade sotto i colpi dei giudizi più opposti. Essa ebbe tanta grandezza,
fervore, energia da attirare migliaia di anime generose, che vi trovarono una disciplina di vita a loro misura.
Ma quel che tali anime venivano a cercare a Luxeuil, a Brégenz o a Bobbio, non era la regola, era
Colombano. Egli era non solo l'autore, ma la misura della sua applicazione. Scomparso lui, la regola restava
poca cosa: un quadi vita lasciato alla discrezione di un abate o di una badessa, che poteva continuare
l'opera del fondatore solo nella misura in cui ne aveva ricevuto lo spirito. Abbiamo visto a un tempo le lacune
di ordine istituzionale e i limiti di ordine storico che gravano su questo testo. Esso era cosí poco necessario
che Luxeuil avrebbe potuto farne a meno finché Colombano c'era, perché l'abate costituiva l'autorità
assoluta, al di sopra della regola, e dopo Colombano lo aveva lasciato, perché allora c'era un altro, con la
sua propria personalità, che gli dava il cambio.
I.Gobry, Storia del monachesimo, 2, pp. 792-801 [BCTV]
Bibliografia
Edizioni
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161
PL Migne vol. 80
SANCTI COLUMBANI ABBATIS ET CONFESSORIS REGULA COENOBIALIS
SANCTI COLUMBANI ABBATIS ET CONFESSORIS DE POENITENTIARUM MENSURA
TAXANDA LIBER
SANCTI COLUMBANI ABBATIS ET CONFESSORIS INSTRUCTIONES VARIAE VULGO DICTAE
SERMONES
SANCTI COLUMBANI ABBATIS ET CONFESSORIS EPISTOLAE SEX AD DIVERSOS PRO
TEMPORUM RATIONE DIGESTAE.
SANCTI COLUMBANI ABBATIS CARMINA.
DIPLOMATA QUAEDAM.
I. Privilegium sive prima donatio Flavii Agilulfi, Longobardorum regis, venerabili S. Columbano de
territorio Bobiensi per millia quatuor ab omni parte concessum.
o.o.
ed. G.S.M. Walker, Sancti Colombani Opera, Dublin 1957, 1970, 1997.
Saint Columban, Règles et pénitentiels monastiques, tr. e comm. A. de Vogue (P. Sangiani e J.B.
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2001, Di fronte e attraverso; 555 [Testo or. A fronte].
Le penitentiel de Saint Colomban, ed. J. Laporte, Tournai [etc.]: Desclee, imprim. 1958,
Monumenta christiana selecta.
Istruzioni e regola dei monaci, trad. Monache benedettine Abbazia Mater Ecclesiae, Isola S. Giulio,
intr. A. Canopi e G. Picasso, Seregno, Abbazia San Benedetto, 1997, Orizzonti monastici; 17
Lettere e poesie, intr. I. Biffi, Seregno, Abbazia San Benedetto, 2003, Orizzonti monastici; 20
Vita di Colombano e dei suoi discepoli di Giona di Bobbio
Collana Di fronte e attr. Bibl. cult. mediev. 2001, Jaca Book [BCTV]
Studi
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E. Malspina, s.v. Colombano, in DPAC, 1, col. 736-37
COLOMBANO, (ca. 543-615) santo, abate di Luxeuil e Bobbio. Monaco irlandese del monastero di Bangor,
partì (ca. 585) con il consenso dell'abate s. Comgall come pellegrino e missionario attraverso la Francia.
Fondò vari monasteri fino a giungere in Burgundia dove si fermò, su invito del re Gontrano, nella regione dei
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Vosgi. Qui, per vivere il suo acceso spirito di penitenza, scelse le rovine dell'antica Luxovium (Luxeuil),
fondando il celebre monastero. La regola che egli dava ai suoi monaci dava grande importanza
all'obbedienza, alla penitenza e al lavoro manuale, dando con quest'ultimo un esempio e uno stimolo
all'agricoltura locale. Per la sua osservanza del cursus Scotorum imparato a Bangor, suscitò le antipatie del
clero locale e della corte burgunda: C. seguiva infatti le consuetudini celtiche riguardanti la tonsura e la data
della Pasqua, ma fu anche fedelissimo alla chiesa di Roma e ai pontefici Gregorio Magno e Bonifacio IV,
esortandoli alla difesa della fede. Poiché riprovava i costumi dissoluti della corte burgunda, fu imprigionato e
bandito dal regno (610). Visitò a Tours la tomba di s. Martino e pellegrinando attraverso la Francia suscitò
numerose vocazioni monastiche e fondò altri monasteri. Missionario tra i pagani Alamanni e Suebi raggiunse
il lago di Costanza, dove lasciò il monaco Gallo. Fu ospite di Agilulfo a Milano, dove ebbe una controversia
con gli ariani; fondò il monastero di Bobbio (614) dove morì l'anno seguente e dove è sepolto. Dietro
sollecitazione di Agilulfo e Teodolinda scrisse a Bonifacio IV esponendogli la dottrina dei Tre Capitoli
(condannati nel concilio di Costantinopoli del 553).
Il monaco Giona di Bobbio ne scrisse la vita. Il suo successore Valdeberto mitigò la sua regola con quella
benedettina, mentre il sinodo di Whitby (664) faceva passare in secondo piano il cursus Scotorum.
Le numerose opere di C. (Instructiones, Regula monachorum, Regula coenobialis, De paenitentia, Epistulae
VI, Carmina III, Celeuma o Carmen navale) sono scritte in uno stile elegante e rivelano una cultura non solo
ecclesiastica ma anche classica.
CPL 1107-1114, 1117-1118: PL 80, 209-293 (40, 1332-1334); MGH Epist III, pp. 156-188 (Gundlachl);
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cod, Bobiensi: PL 101,604; De vanitate et miseria vitae mortalis: PL 80, 293-29G; MGH Epist III, pp. 18)-190
(W. Gundlachl. Giona, VitaSancti Columbani: (:PL 1115; l) 1.87,7011-1046; MGH.Script, rer merov. IV, pp. 115G (B. Krusch); cfr. VII 2, pp. 822-827; ed. M. Tosi (tr. E. Cremona e M. Paramidani), Piacenza 1965: F.
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E. Malaspina
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Vogue; en collaboration avec Pierre Sangiani, Jean-Baptiste Juglar, Begrolles: Abbaye de Bellefontaine,
c1989, Vie monastique. Serie Monachisme ancien
Aux sources du monachisme colombanien
Istruzioni e regola ai monaci / san Colombano abate; con introduzione di Annamaria Canopi e Giorgio
Picasso, Seregno: Abbazia San Benedetto, 1997, Orizzonti monastici
Note Generali: Trad. delle Monache benedettine dell'abbazia Mater Ecclesiae, Isola S. Giulio.
Istruzioni e regola dei monaci / San Colombano Abate; con introduzione di Annamaria Canopi e Giorgio
Picasso, Seregno: Abbazia San Benedetto, 2003, Orizzonti monastici; 17
Le Opere / san Colombano; introduzioni di Inos Biffi e Aldo Granata; analisi e commento delle singole opere
di Aldo Granata; cartografia a cura di Costante Marabelli; indici a cura di Antonio Tombolini, Milano: Jaca
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Biblioteca di cultura medievale Note Generali: Testo orig. a fronte
Lettere e poesie / san Colombano abate; con introduzione di Inos Biffi, Seregno: Abbazia S. Benedetto,
1998, Orizzonti monastici; 20
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163
2: Regles et penitentiels monastiques / Saint Colomban; introduction, traduction et notes par Adalbert de
Vogue; en collaboration avec Pierre Sangiani et Jean-Baptiste Juglar, Begrolles: Abbaye de Bellefontaine,
c1989, Vie monastique. Serie Monachisme ancien
Fa parte di: Aux sources du monachisme colombanien
Columbanus<santo>, Istruzioni e regola dei monaci / San Colombano abate; con introduzione di Annamaria
Canopi e Giorgio Picasso, Seregno: Abbazia San Benedetto, 1997, Orizzonti monastici; 17
Sancti Columbani opera / edited by G. S. M. Walker, [Dublin]: School of Celtic studies: Dublin institute for
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Columbanus <santo>, Le penitentiel de Saint Colomban / introduction et edition critique par Jean Laporte,
Tournai [etc.]: Desclee, imprim. 1958, Monumenta christiana selecta
Sancti Columbani opera / edited by G. S. M. Walker, Dublin: School of Celtic studies, Dublin Institute for
advanced studies, stampa 1997, Scriptores latini Hiberniae
ICCU per Soggetto: Colombanus
Ionas: Bobiensis, Vita di Colombano e dei suoi discepoli / Giona di Bobbio; introduzione di Inos Biffi; analisi e
commento di Aldo Granata; cartografia a cura di Costante Marabelli; indici a cura di Antonio Tombolini,
Milano: Jaca book, 2001, Di fronte e attraverso; 556
Biblioteca di cultura medievale
Note Generali: Trad. italiana a fronte delle monache benedettine dell'Abbazia Mater Ecclesiae e di A.
Granata
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Columbanus: studies on the latin writings / edited by Michael Lapidge, Woodbridge: Boydell press, 1997,
Studies in Celtic history
O?Fiaich, Tomas, San Colombano attraverso le sue parole / Tomas O Fiaich, Seregno: Abbazia San
Benedetto, 2000, Orizzonti monastici; 25
Ionas: Bobiensis, Vita Columbani et discipulorum eius / Jonas; testo a cura di Michele Tosi; versione italiana
di E. Cremona e M. Paramidani; presentazione di E. Franceschini e J. Leclercq, Piacenza: Emiliana Grafica,
1965
Columbanus and merovingian monasticism / ed. by H.B. Clarke and Mary Brennan, Oxford: B.A.R., 1981,
BAR. International series
San Colombano e l'Europa: religione, cultura, natura / \relazioni di! Angiolino Bulla ... \et al.!; a cura di
Luciano Valle e Paolo Pulina, Como \etc.!: Ibis, 2001, Minimalia
Note Generali: Parte delle relazioni presentate al Convegno tenuto a Pavia nel 1999
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Columbanus <santo>, 2: Regles et penitentiels monastique / saint Colomban; introduction, traduction et
notes par Adalbert de Vogue; en collaboration avec Pierre Sangiani, Jean-Baptiste Juglar, Begrolles:
Abbaye de Bellefontaine, c1989, Vie monastique. Serie Monachisme ancien
Aux sources du monachisme colombanien
Maestri, Annibale, Il culto di s. Colombano in Italia / Annibale Maestri, Lodi: tipografia sociale lodigiana,
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Note Generali: Estr. da: Archivio storico per la citta e i comuni del territorio lodigiano e della diocesi di Lodi,
a. 58.(1939), 2. semestre.
Zanuzzi, Renata, San Colombano d'Irlanda abate d'Europa / Renata Zanuzzi
Edizione: 2. rist, Castel San Giovanni: Pontegobbo, stampa 2003, I girasoli. Vite celebri... e non
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Ionas: Bobiensis, Vita di san Colombano / Giona; con introduzione di Inos Biffi, Seregno: Abbazia San
Benedetto, 1999, Orizzonti monastici; 24
Biffi, Inos, La disciplina e l'amore: un profilo spirituale di san Colombano / Inos Biffi, Milano: Jaca book, 2002,
Di fronte e attraverso; 593
Biblioteca di cultura medievale
Convegno storico colombiano <1951; Bobbio>, San Colombano e la sua opera in Italia: convegno storico
colombiano, Bobbio, 1-2 settembre 1951 / studi raccolti a cura della Deputazione di storia patria per le prov.
parmensi sezione di Piacenza ... [et al], Bobbio: [s.n.], 1953
Ionas: Bobiensis, Ionae Vitae sanctorum Columbani, Vedastis, Iohannis / recognovit Bruno Krusch,
Hannoverae; Lipsiae: impensis Bibliopolii Hahniani, 1905, Monumenta Germaniae historica.
Scriptores.Scriptores rerum Germanicarum in usumscholarum separatim editi; 37
Ionas: Bobiensis, 1: Vie de saint Colomban et de ses disciples / Jonas de Bobbio; introduction, traduction et
notes par Adalbert de Vogue; en collaboration avec Pierre Sangiani, Begrolles: Abbaye de Bellefontaine,
c1988, Vie monastique
Vie monastique. Serie Monachisme ancien
Aux sources du monachisme colombanien
Titolo uniforme: Vita Columbani et discipulorum eius
Bettini, 3.914 cenno, niente Conte
Gallo, san
Cenni biografici
Nacque in Irlanda. Fu compagno di S.Colombano a Luxeuil e quindi nel suo viaggio verso l’Italia.
Nel corso di questo, malato, si fermò presso Bregenz, sul lago di Costanza, con alcuni compagni,
dove morì tra il 630 e il 645.
Intorno al 720 sul posto sorse un monastero, ad opera di Otmaro, con regola di S.Colombano, che
passò poi ad essere, nel 747, quella benedettina. Nel secolo IX tale monastero assunse il nome di
S.Gallo. La sua biblioteca, ricca tra l’altro di ca. 2000 mss databili tra l’VIII e il IX secolo, è ancora
oggi famosa.
Bibliografia
ICCU??
Aldelmo
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Cenni biografici
ca. 640-709
Operò in Britannia.
Opere
Testi e testimonianze
Veramente senza il mio consiglio, niente conserva i suoi esseri viventi, in più nessun occhio può vedere il
mio volto. Chi non sa che dal mio potente potere girano le volte elevate del cielo, il sole splende, e la luna
segue il suo corso ?
[la natura]
Bibliografia
M. Simonetti, s.v. Aldelmo, in Dizionario patristico e delle antichità cristiane, 1, Casale M., Marietti,
1983, col. 115
ALDELMO. Fu la prima personalità letteraria di stirpe anglosassone. Nato intorno al 640, di famiglia reale del
Wessex, studiò prima con l'irlandese Maeldubh, poi con Adriano di Canterbury, per tornare poi al vecchio
maestro. Fu monaco e poi prete nell'abbazia di Malmesbury, dove nel 676 diventò abate. Nel 705 fu vescovo
di Sherborne, pur conservando la direzione dell'abbazia. Morì il 25 maggio 709. Tutti i suoi scritti rivelano
preminente interesse di natura letteraria, un caso eccezionale in questa epoca. Ricordiamo di lui, oltre
cinque carmina ecclesiastica esametrici, che si presentano come iscrizioni per le dediche di chiese, e il De
virginitate, elogio topico della vita celibataria redatto prima in versi e poi una seconda volta in prosa,
soprattutto il De metris et aenigmatibus ac pedum regulis, scritto intorno al 695 e dedicato al re Alfrido di
Northumbria. Si tratta di opera tutt'altro che soltanto di metrica, ad andamento complicato e bizzarro,
accuratamente preordinato nell'alternanza di prosa e versi e di vari argomenti. Vi fanno spicco un'ampia
trattazione sul valore simbolico del numero 7, una spiegazione della metrica dell'esametro, un blocco di 100
indovinelli in esametri di varia lunghezza. In fine si tratta ancora di metrica e di prosodia. In questa opera c'è
tutto di A.: l'ambizione letteraria, l'estrosità che gli viene dagli Irlandesi, la maestria nello scrivere che diventa
vero e proprio gioco d'abilità e di oscura complicazione (isperismo), i prevalenti interessi di carattere
grammaticale e metrico, la notevole base culturale e scolastica, il desiderio di mettere in mostra nel modo
più appariscente tutto questo sapere. Di lui ci sono rimaste alcune lettere, nella cui complicazione formale
s'incontrano l'ingenium dell'autore e la norma del genere. Una difende l'usanza romana sulla Pasqua e la
tonsura; le altre sono di carattere letterario: in Ep. 5 A. afferma che ormai la Britannia può fornire maestri non
meno capaci dell'Irlanda.
M. Simonetti, s.v. Aldelmo, in Dizionario patristico e delle antichità cristiane, 1, Casale M., Marietti, 1983, col.
115
ICCU per Soggetto: Aldelmus
Aldhelmus : Schireburnensis<santo ; vescovo>, Aldhelmi opera / edidit Rudolfus Ehwald
Edizione: Unveranderter Nachdruck , Munchen : Monumenta Germaniae historica, 1984 , Monumenta
Germaniae historica. Scriptores.Auctores antiquissimi ; 15
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Benedetto Biscop
Cenni biografici
Bibliografia
M. L. Angrisani Sanfilippo, s.v. B.B., in DPAC, 1, col.520-21.
BENEDETTO BISCOP, santo (628 ca.-690). Originario della Northumbria, si chiamava Biscop Baducing.
Dopo aver trascorso alcuni anni alla corte del re Oswin, spinto dal desiderio di approfondire le verità
dottrinali, viaggiò a Roma nel 653 e nel 665. Ritornò nel Kent assieme a Teodoro di Tarso, che lo fece
nominare abate del monastero dei SS. Pietro e Paolo di Canterbury (668). Dopo un terzo soggiorno a Roma
(670-672), fondò nel 674 il monastero di Wearmouth e nel 681 quello di Jarrow. B. compì altri due viaggi a
Roma, da dove riportò in patria notevole quantità di libri, che sistemò a Jarrow (678-679, G83). Morì dopo
lunga malattia il 12 gennaio 690. Il suo merito più importante è di aver creato attraverso i monasteri autentici
centri di irradiazione della cultura latina nell'isola. I numerosi codici importati costituirono il fondamento della
ricchissima biblioteca di Jarrow. Determinante fu inoltre il contributo di B. alla romanizzazione della chiesa
inglese. È considerato tra i patroni dei benedettini. Beda ha scritto una sua biografia (CPL 1378, PL 94, 713730).
G. Mongelli: BS 2, 1212-121G; I. Cecchetti: EC 2, 1295-1296; C. Silva Tarouca: EI 6, p. 607; T. Bucherer,
Benedict Biscop als Pioner roemis-christlicher Kultur bei den Angelsachsen,. Heildelberg 1923; M. Gretch,
Die Regula Sancti Benedicti in England und ihre altenglische Uebertsetzung, Muenchen 1973.
M. L. Angrisani Sanfilippo, s.v. B.B., in DPAC, 1, col.520-21.
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Fonte Internet
Bonifacio
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Cenni biografici
Le varianti dei nomi sono Winfreth, latinizzato in Winifridus, italianizzato in Winfredo, cristianizzato
(?) in Bonifacio.
Nacque tra il 672 e il 680 nel Devon. E’ contemporaneo quindi di Beda (672-73).
Passò la prima parte della sua vita nei monasteri di Exeter e Nursling nel Wessex.
Tentò una prima missione di evangelizzazione, sfortunata, in Frisia nel 716.
Nel 718 si trasferì definitivamente nel continente.
A Roma nel 718-19, nel 722 e nel 738, ottenne da Gregorio II (715-731) l'autorizzazione ad
evangelizzare la Germania (in questa occasione prese il nome di Bonifacio), dove fu
particolarmente attivo in Turingia, Assia e Frisia.
Del 722 la sua ordinazione episcopale.
Nel Bonifacio 744 fonda l'abbazia di Fulda.
Nel 745 è arcivescovo di Magonza.
Morì martire in Frisia nel 754.
Apostolo della Germania e riorganizzatore della Chiesa franca.
Opere
Epistolario.
Ars grammatica.
Ars metrica. Incompiuta.
De virtutibus et vitiis. Genere: Aenigmata
Bibliografia
Edizioni
PL Migne 99 per alcuni Sermones di dubbia autenticità.
Studi
M. Simonetti, s.v. Bonifacio, in DPAC, 1, col. 551-52
I. Gobry, Storia del monachesimo, 2, pp. 1035-55. [BCTV]
BONIFACIO. Winfrido - questo fu il suo nome di bsttesimo - nacque nel Wessex intorno al 675. Monaco a
Nuthschelle, passò alcuni anni ad insegnare, e alcuni scritti di grammatica e metrica, oltre a indovinelli in
versi, testimoniano di questi anni di tranquillità. Aveva circa trent'anni allorché si sentì chiamato all'apostolato
fra i pagani del continente e partì per la Frisia. I primi smacchi non lo scoraggiarono. Fu a Roma per ricevere
direttive e investitura da Gregorio II, che mutò il suo nome in Bonifacio, nel 719. Da questa data fino al 25
giugno 754, giorno in cui con alcuni compagni confessò la fede col sangue in Frisia per un'incursione di
pagani, si dedicò ad una eccezionale attività missionaria, soprattutto nella Germania centrale (Assia,
Turingia, Baviera), dispiegando anche grandi capacità organizzative e favorendo la fondazione di vari
monasteri, fra cui Fulda. S'impegnò anche a fondo per promuovere, d'accordo con Pipino e soprattutto per
opera di concili regionali, la riforma del corrotto clero franco. Roma sostenne sempre la sua azione, e
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Gregorio III gl'inviò il pallio, insegna della dignità arcivescovile, che sanzionava la sua autorità su tutta la
Germania. Un copioso epistolario, in cui lettere ufficiali e pastorali si alternano con altre di tono più
disimpegnato con corrispondenti della madre patria, sono di fondamentale importanza perché non solo ci
fanno conoscere una quantità di fatti storici importanti, ma anche e soprattutto perché ci dísvelano il
carattere dell'uomo, la sua inflessibile volontà ma anche i suoi momenti di sconforto, la coscienza delle sue
capacità ma anche delle enormi difficoltà del compito che aveva intrapreso. Altra fonte importante per
conoscere Bonifacio è costituita da una Vita di lui, ricchissima di notizie, scritta dal suo discepolo Willibald
alcuni anni dopo la sua morte.
MGH, ES 1; CCL 133 (Aenigmata); St. Bonifatius. Gedenkgabe zum 1200. Todestag, Fulda 1954; H. Loewe,
Pirmin, Willibrod und und Bonifatius, in La conversione al cristianesimo nell'Europa dell'Alto Medioevo,
Spoleto 1967, 217-261; O. Bertolini, Il dramma di Bonifacio: Boll. Ist. St. Ital. Med. 78 (1967) 21-44; BS
2,308-319.
M. Simonetti
ICCU per Soggetto Winifridus e Bonifacio e Winfreth
Niente per Winifridus né Bonifacio. Provare con nomi stranieri e ricerca Internet.
ICCU per Autore Sanctus Bonifacius
Die Briefe des Winfrid-Bonifatius, 672-754 / ausgewahlt und eingeleitet von Franz Peter Sonntag
Pubblicazione: Leipzig: St-Benno, 1985
Bonifatii (Vynfreth) Ars grammatica; \accedit! Ars metrica / ediderunt George John Gebauer, Bengt Lofstedt
Pubblicazione: Turnholti: Brepols, 1980
Collezione: Corpus Christianorum. Series Latina; 133B
Die Briefe des heiligen Bonifatius und Lullus / herausgegeben von Michael Tangl
Edizione: Unveranderter Nachdruck der 1916 bei der Weidmannschen Verlagsbuchhandlung, Berlin,
erschienenen Ausgabe
Pubblicazione: Munchen: Monumenta Germaniae historica, 1978
Collezione: Monumenta Germaniae historica. Epistolae.Epistolae selectae; 1
Briefe des Bonifatius: Willibalds Leben des Bonifatius: nebst einigen zeitgenossischen Dokumenten / unter
Benutzung der Ubersetzungen von M. Tangl und Ph. H. Kulb
Edizione: Neu Bearbeitet / von Reinhold Rau
Pubblicazione: Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1968
Collezione: Ausgewahlte Quellen zur deutschen Geschichtedes Mittelalters; 4.2
Testo lat. con trad. tedesca a fronte
Vita e lettere di san Bonifacio: traduzione, introduzione, note / di Enrica Mascherpa
Pubblicazione: Noci: La Scala, [1991]
Epistolae S. BonifacI martyris, primi Moguntini archiepiscopi Germanorum apostoli: pluriumque pontificum,
regum & aliorum, nunc primum e Caesarae maiestatis Viennensi bibliotheca luce, notisque donatae per
Nicolaum Serarium, Societatis Iesu ...
Pubblicazione: Moguntiae: e typographeo Balthasaris Lippij, 1605
[Editore] Lipp, Balthasar
Epistolae S. BonifacI martyris, primi Moguntini archiepiscopi, Germanorum apostoli ... donatae per Nicolaum
Serarium ...
Pubblicazione: Moguntiae: prostant apud Michaelem Demen bibl. Colon. sub signo nominis Iesu, 1629
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Sancti Bonifacii Epistolae: Codex Vindobonensis 751 der Osterreichischen Nationalbibliothek / Einfuhrung
Franz Unterkircher
Edizione: Faksimile Ausgabe der Wiener Handschrift der Briefe des heiligen Bonifatius
Pubblicazione: Graz: Akademische Druck- u. Verlagsanstalt, 1971
Collezione: Codices selecti; 24
Briefe des Bonifatius: Willibalds Leben des Bonifatius: Nebst einigen zeitgenossischen Dokumenten / unter
Benutzung der Ubersetzungen von M. Tangl und H. Pulb neu bearbeitet von Reinhold Rau
Edizione: 2. unveranderte Aufl
Pubblicazione: Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1988
Collezione: Ausgewahlte Quellen zur deutschen Geschichtedes Mittelalters; 4b
Die Briefe des heiligen Bonifatius und Lullus / herausgegeben von Michael Tangl
Pubblicazione: Berlin: Weidmannsche Buchhandlung, 1916
Collezione: Monumenta Germaniae historica. Epistolae.Epistolae selectae; 1
der Ragyndrudis-Codex des Hl. Bonifatius / Kommentar von Lutz. E. von Padberg und Hans-Walter Stork
Pubblicazione: Paderborn: Bonifatius; Fulda: Parzeller, c1994
Bettini 3,914 (Cenno)
Willibrord
Cenni biografici
Apostolo dei Paesi Bassi.
Nato in Nothumbria nel 658. Entrò nel monastero di Ripon, guidato dal Wilfrido. Nel 678 ottenne di
passare in Irlanda sotto la guida di Egberto. Ordinato prete nel 690.
Assieme a unidici compagni, fu inviato da Egberto nella Frisia meridionale, da poco conquistata da
Pipino, e iniziò la sua tiività missionaria. Nel 695 W. Venne inviato a Roma ed eletto vescovo da
papa Clemente. Fissò la sua sede a Utrecht.
Fondò il monastero di Echternach (oggi in Lussemburgo).
Fece in seguito un altro viaggio missionario giungendo fino in Danimarca, ma con poco successo.
Fu in rapporti con Bonifacio (Winfreth/Winfredo), missionario anch’egli in Frisia e Germania.
Opere
Testi e testimonianze
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Bibliografia
I. Gobry, Storia del monachesimo, Roma, Città Nuova, 1991, 2, pp. 1036-38. [BCTV]
Benedetto di Aniane
Cenni biografici
Nobile visigoto, era figlio di Aigulgo, conte di Maguelone in Linguadoca, il suo vero nome era
Witiza. La data di nascita va collocata tra il 747 e il 750.
Fu educato alla corte del re franco Pipino e combattè con Carlo Magno in Italia. In seguito decise
di farsi monaco e fu accolto nel monastero di S. Sequanus (Saint-Seine). Intorno al 780 fondò un
monastero ispirato alla regola orientale (?? o benedettina) in Linguadoca, nei pressi del fiume
Aniane.
L’imperatore Ludovico il Pio (814-840) creò Benedetto capo di tutti i monasteri dell’impero.
B. Partecipò ai sinodi di Aachen con funzioni rilevanti. Quello dell’817 stabilì un “capitolare
monastico”, cioè una raccolta di norme che prescrivevano i doveri dei monaci, organizzata in 75
capitoli e da applicare in tutti i monasteri del regno.
Nel sinodo dell’818 si approvarono diritti e privilegi monastici e si approvarono disposizioni austere
e rigorose anche per le monache. Si venne in tal modo a realizzare una forte centralizzazione e
una uniformità disciplinare e liturgica che se minacciava l’autonomia delle abbazie, favorì anche un
rinnovamento e una maggiore diffusione del sistema monastico.
Benedetto morì intorno all’821.
Opere
Importante la sua raccolta di regole monacali nel Codex regularum. Concordia regularum.
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[Monasteri che ricevettero donazioni imperiali all’epoca di Carlo Magno. Fonte: J.M. Labòa, Atlante
Storico del monachesimo, Milano, Jaka Books, 2003, p. 126. (modif. grigio) BCTV]
Letture critiche. E.Mariani. Da Benedetto da Norcia a Benedetto di Aniane. La
conservazione della Regula Mixta da parte di alcune fondazioni di tipo
irlandese.
Quando si pensa al monachesimo medievale, subito lo si collega con la Regola di San Benedetto (= RB).
Questo è in gran parte vero, ma si potrebbe dire che non era affatto scontato. Il “dominio” della RB nel
monachesimo occidentale fu per lungo tempo meno “assoluto” di quanto generalmente si pensi. In realtà,
oltre naturalmente al suo innegabile pregio intrinseco, già riconosciuto del resto da San Gregorio Magno
(discretione praecipua, sermone luculenta), la RB ha ricevuto per così dire degli autorevoli “appoggi”
(Benedetto di Aniane e il programma carolingio di unificazione anche monastica dell’Impero), che le hanno
consentito di battere un’agguerrita “concorrenza”, in un vero e proprio processo di “selezione”.
Del resto basterebbe uno sguardo all’”albero genealogico” delle Regole monastiche occidentali del
Dizionario degli Istituti di Perfezione (DIP) per rendersi conto dell’estrema complessità dei rapporti che
legano quella trentina di Regole che riempiono un arco di tempo che va dal IV-V secolo al IX.
A partire dall’epoca carolingia, invece, tutto questo patrimonio legislativo “sparisce” letteralmente (sia pure
non istantaneamente) dal mondo monastico per fare posto alla solitaria RB.
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Dopo di allora un gran numero di testi legislativi diventeranno solo materia di studio per eruditi, e non più vita
vissuta. Gli ultimi... irriducibili, oltre ai periferici “iberici”, saranno alcune fondazioni di tipo irlandese, che
conserveranno ancora per qualche tempo la Regula mixta (tipicamente RB + Colombano), prima di
uniformarsi anch’essi alla legislazione prescritta da Benedetto di Aniane con l’”imposizione” della sola RB.
La RB però non è che un prodotto piuttosto recente della tradizione monastica, ed è seguìta a sua volta da
molti altri testi. Dalle cosiddette Regole-Madri (Pacomio, Basilio, Agostino, Cassiano), o Regole “originali”, si
sviluppano infatti, secondo una classificazione molto significativa ripresa anche dal DIP, non meno di cinque
generazioni di Regole, e la RB non appartiene che alla quinta ed ultima, mentre la poco più antica Regula
Magistri (= RM) è già di... quarta generazione. E come la RB attinge alla RM, ad Agostino, a Basilio e a
Cassiano, anche altre Regole coeve o successive attingono ai medesimi autori, e a molti altri. Dunque
parecchi testi avevano per così dire le stesse possibilità di affermarsi, ma solo la RB ha... trionfato. Per
capire tutto questo occorre esaminare più da vicino il complesso delle legislazioni monastiche del VI-VII
secolo.
Lungi dal nascere come Regola “universale”, la Regola di San Benedetto fu probabilmente scritta all’inizio
per il solo movimento monastico avviato dal Santo di Norcia a Montecassino. Eppure ben presto cominciò ad
espandersi e ad imporsi per la sua saggezza e per il suo equilibrio. Si tratta però di una diffusione capillare e
non globale, una infiltrazione in piena regola.
Seguendo le tracce letterarie della RB si può ricostruire la sua diffusione, come aveva fatto ad esempio il
Penco negli anni’50 in un suo articolo intitolato "La prima diffusione della Regola di S. Benedetto". Ricerche
e osservazioni. E le sorprese di questa “diffusione” non sono poche.
In pratica, almeno inizialmente la RB era solo uno dei molti “arsenali” che i compilatori di Regole del VII
secolo (una categoria di autori monastici che poté godere di una certa diffusione) saccheggiavano senza
troppi scrupoli di paternità letteraria per comporre i propri testi. Parti intere della RB, soprattutto il Direttorio
ascetico di RB 2-7, venivano inglobate senza tanti problemi, talvolta rasentando il plagio (ma la sensibilità
degli antichi non era la nostra!). ”Ecumenicamente”, però, questi esperti della giustapposizione piazzavano
un gruppo di capitoli della RB tra altri gruppi di capitoli, presi magari da Agostino o da Cesario di Arles,
talvolta senza nemmeno limare le inevitabili smagliature che si inserivano nei “punti di sutura”. Pertanto il
minimo che si possa dire di tali testi era che presentavano una certa eterogeneità.
Regole per monasteri franchi, Regole per fondazioni della Gallia, Regole per monasteri femminili (come la
Regula Donati e la Regula cujusdam Patris), Regole molto brevi (come la Regula Largiente Domino), perfino
frammenti di Regole perdute, come la Psallendo pro sancta devotione, e addirittura Regole per eremiti,
come la Regula solitariorum di Grimlaico: tutti gli Autori di queste legislazioni inseriscono nelle proprie opere
brani della RB.
Accanto alla RB vi erano anche altre fonti. I più “richiesti” erano senza dubbio Agostino, Cesario di Arles e
Colombano. Ne è prova ad esempio la Regula Donati, un topos del genere, che mescola appunto pagine
del Santo di Norcia, testi del Vescovo di Ippona e scritti dell’Abate di Bobbio in un pregevole “centone”
monastico.
Altri testi invece mantengono questa impostazione compilativa, ma senza la RB. Si pensi alla Regula di
Ferreolo, vescovo di Uzés (553-581). Come proposto dal Desprez, questa Regola sarebbe originaria della
Gallia Meridionale e redatta nel VI secolo. Si tratta in ogni caso di un autore abbastanza originale, se
paragonato ad altri. E comunque non contiene passi di RB.
Ben diversa è la Regula monasterii Tarnantensis, di autore ignoto. Per quanto riguarda la datazione, il
Villegas la colloca tra il 551 e il 573. A livello di localizzazione geografica, vi sono delle difficoltà. Forse il suo
luogo di origine è presso il Rodano.
Ora, in questo testo l’Autore “copia” letteralmente (a volte in modo “franchement servile”, dice il Villegas)
brani di Pacomio, Agostino e Cesario, senza trascurare la Regula Patrum, e in piccola parte la RB. Il livello di
questa “compilazione” è stato evidenziato graficamente dall’Editore, che ha pubblicato il testo direttamente in
sinossi con le sue numerosi fonti.
Per quanto riguarda gli “adattamenti” interni di brani della RB, si può prendere ad esempio la Regula Donati,
scritta da Donato vescovo di Besançon intorno alla metà del secolo VII per le monache di Jussanmoutier.
Lo stesso Autore ammette esplicitamente la sua dipendenza da San Benedetto. Dopo aver “explorato” la
Regola di San Cesario, insieme a quelle di San Benedetto e di San Colombano, si accinge a scrivere il suo
proprio testo. Alcuni passi sono presi “di peso” dalla RB e trasferiti nel nuovo contesto, solo con piccoli e
ovvii ritocchi. Non del tutto scontata è questa presenza della RB in un Autore che, come sottolinea de
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Vogüé, apparteneva a Luxeuil e alla tradizione colombaniana. Eppure, come annota ancora de Vogüé, che
ne ha curata l’edizione, l’utilizzo della RB è dovuto probabilmente anche al fatto che, essendo una Regola
abbastanza lunga, offriva maggiore materiale al compilatore! Quanto a Cesario, la sua presenza è dovuta al
fatto che avendo composto una Regola per monache, offriva a Donato del materiale già pronto, senza la
necessità di apportare dei correttivi. Naturalmente vi è anche una parte “originale”, propria di Donato, ma la
massa dei testi presi da altri Autori è predominante.
La stessa situazione si ricontra nella Regola di Valdeberto di Luxeuil, composta verso il 630 per le monache
di Faremoutiers. Particolarmente “raffinati” e significativi in questo caso sono gli interventi operati sulla RB
per adattarla ad un monastero femminile. Si prenda ad esempio il capitolo sulla portineria. Ci si aspetterebbe
una presenza massiccia di RB 66. Eppure il testo di Valdeberto è solo in parte parallelo al suo omologo
benedettino, poiché contiene anche riferimenti a RB 53. All’inizio è sottolineata la cura verso i pauperes e i
peregrini, tema tipico nel De hospitibus di San Benedetto, ma non particolarmente esplicito nel capitolo sulla
portineria. Poi si parla di elemosine ricevute dalle monache, che devono riporle nel loro cellarium. Infine vi è
una ripresa del tema dell’accoglienza riservata agli ospiti ed ai pellegrini, con riferimento alle disposizioni
sulla separazione monaci/visitatori di RB 53. Qui il tema della separazione è ovviamente molto sottolineato,
trattandosi di un monastero femminile. Si tratta come si vede di un sapiente “dosaggio” della RB ad uso di
una situazione monastica molto diversa.
La tendenza “compilativa” si riscontra anche nel monachesimo iberico con la Regola di Isidoro (+636), ma
soprattutto con quella di Fruttuoso (+665), che incorpora principalmente testi di Pacomio, Cassiano,
Girolamo, e naturalmente RB.
Ora, molte di queste Regole hanno la peculiarità di essere state conservate da pochi manoscritti, e alcune
addirittura ci sono note solo attraverso il Codex e la Concordia Regularum di Benedetto di Aniane. Nel primo
testo (conservatoci dal famosissimo manoscritto 28118 di Monaco che contiene anche la Regula Magistri),
sono raccolte integralmente le varie Regole monastiche. Nel secondo caso, i vari passi di RB sono messi in
parallelo con i corrispondenti testi di altre Regole, allo scopo di dimostrare che tutto il monachesimo è
“incluso” nella RB stessa, che “compendia” le varie fonti della legislazione monastica.
Giungeva così al termine una fase di “pluralismo”, caratterizzata da una estrema “disinvoltura” nel tagliare,
ricucire, modificare e adattare brani delle Regole più disparate. In fondo, come riconosceva lo stesso
Benedetto di Aniane, era quello che San Benedetto aveva realizzato, ma con insuperabile maestria,
armonizzando Agostino e il Maestro con il monachesimo orientale. Non sempre però questa operazione di
sintesi era riuscita, soprattutto nei più tardi epigoni della RB, in cui talvolta si arrivava alla pura e semplice
giustapposizione di testi.
Comunque, con Benedetto di Aniane giunge al termine l’epoca delle Regole-centone, e inizia quella del puro
commento all’unico testo ormai autorizzato. Vi saranno allora Autori come Smaragdo, con la sua Expositio in
Regulam Sancti Benedicti, che ancora contiene, sia pure allo stato di frammento, testi di Regole ormai
“estinte” come la RM. Tuttavia l’epoca della “creatività” e dello spontaneismo si era conclusa, lasciando ai
Liber Consuetudinum il compito di “inculturare” la RB nei vari contesti locali.
Estratto da "Sette Chiese", trimestrale di fede e cultura religiosa.[Fonte Internet. Controllo biblio]
Scheda. La lectio divina. J. Gribomont
LECTIO DIVINA. Questa espressione della Regola di s. Benedetto (48,5) indica un esercizio
monastico di grande importanza spirituale e culturale, l'applicazione quotidiana di parecchie ore
alla lettura della Bibbia e (stessa Regola, c. 73) ai più grandi monumenti della tradizione dei Padri.
È questo l'effetto e la causa delle biblioteche monastiche, con un conseguente orario ben regolato,
che alterna preghiera (liturgia anzitutto) e lavoro (permeato di meditazione - v. questa voce - che
prolunga lettura e preghiera). Nel Medioevo, ne è derivato tutto un umanesimo, che non manca
ancor oggi di attrattiva. La l.d. non è propriamente lo studio; essa si collega a una sintesi
dell'amore delle lettere e del desiderio di Dio; il diletto letterario per se stesso è sentito come una
distrazione colpevole, ma la sua subordinazione alla pietà vera favorisce e legittima il gusto
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autentico, il senso spirituale del bello e l'apertura della persona alla maturità della fraternità e a
quanto si riferisce alla Parola di Dio, a cominciare dalla grammatica e dalla musica (salmodica).
Ciò che aveva viziato le pretese classiche alla cultura era stato il culto della forma, della
convenzione, nonché la vanità del retore; l'umiltà, la sincerità, la ricerca di Dio fu il rimedio che
permise di ricuperare quel che essa aveva di valore.
Assai prima della comparsa della formula benedettina, quest'esercizio privato si ravvisa nel
propagarsi della lectio comunitaria della Bibbia. Alcuni salmi, come il 18 e soprattutto il 118, ne
sono già non solo la materia, ma l'espressione; parimenti buona parte della letteratura sapienziale.
Quale che possa essere il culto dei filologi greci per Omero, dei filosofi per Platone o Pitagora, la
loro lectio degli autori non ha mai potuto creare la medesima disposizione d'ascolto davanti a un
uditorio. Si potrebbe a maggior ragione, confrontare con la lectio cristiana la familiarità buddistica o
musulmana verso i testi sacri, nonostante le molte differenze che andrebbero osservate
attentamente.
All'interno stesso della chiesa il primo gruppo in cui si può riscontrare una lettura continua e devota
della Bibbia è probabilmente quello dei discepoli d'Origene; ed è noto il suo influsso straordinario
sulla predicazione e la teologia. Certo vi si pratica pure, su vasta scala, la critica testuale (cfr.
Esapla) e la riflessione filosofica; ma quando queste scienze sono subordinate a un incontro con
Dio e a una lettura di fede, si oppongono forse alla l.d.? A giudicare dai risultati, si crederebbe che
anche Tertulliano, Cipriano, Ilario e altri dottori abbiano avuto una familiarità analoga coi libri sacri;
per Ambrogio e Agostino il fatto è ben documentato.
I testi riguardanti i solitari egiziani sembrano supporre che essi leggessero poco, meditassero
continuamente sui testi ascoltati nelle funzioni liturgiche o appresi a memoria, e dessero volentieri
ai poveri il prezzo del loro unico libro. Ma in questo modo di vedere c'è forse qualcosa di
sistematico e di accessivo. Nel monachesimo pacomiano una regola prevede una penitenza per
chi lasci a mezzodì il proprio libro, aperto, al sole; e le catechesi dei superiori sono piene di
citazioni bibliche varie, specialmente dei profeti e dei libri sapienziali. A un livello forse modesto,
quasi senza cultura profana, a quanto pare. Ma i documenti agiografici dicono tutto? La cosiddetta
biblioteca «gnostica» di Nag Hammadi deve essere appartenuta a dei pacomiani, come
dimostrano i documenti trovati nelle sue rilegature. Era ancora l.d.?
L'erede diretto della tradizione origenista sarà Girolamo (e í suoi amici, come Rufino). D. Gorce ha
mirabilmente rilevato nella cerchia delle devote dell'aristocrazia romana un entusiasmo per la
cultura biblica e per la spiritualità che promuove le molteplici edizioni e traduzioni di questo gruppo.
A1 contatto con le biblioteche greche cristiane, esso manifesta un'ampiezza di veduta ben più
grande che non gli ambienti puramente monastici, costituendo così una riserva cui 1'Occiden
te attingerà per secoli. Bisogna confessare altresì che la munificenza delle sante nobildonne
consentiva di riservare molto tempo allo studio e assicurava inoltre il moltiplicarsi dei copisti. Il
monachesimo basiliano, con la sua insistenza sul lavoro e sulle opere caritative, lasciava forse
meno spazio alle attività dello spirito. La statura intellettuale dei Cappadoci o d'Evagrio sembra
costituire un'eccezione in questo ambiente. Siccome il mondo bizantino cadde meno in basso
dell'Occidente, i monaci non si videro costretti a raccogliere la cultura profana e fonderla con la
tradizione spirituale e liturgica. Tuttavia la letteratura ascetica e agiogracica, le controversie
cristologiche, la poesia sacra trovarono ugualmente nei monasteri bizantini un terreno che
suppone una reale qualità culturale.
Nelle chiese di Siria e d'Armenia, una delle occupazioni più feconde e intelligenti fu la traduzione e
l'assimilazione della letteratura greca cristiana; ne seguì un'osmosi che durò assai più a lungo che
in Occidente.
Senza identificarsi con la l.d. la vitalità artistica, nelle diverse regioni del mondo cristiano,
manifesta a suo modo la vastità delle conoscenze, la loro perfetta assimilazione, l'equilibrio umano
raggiunti da una cultura cristiana di cui essa fu, con le sue rinunzie volontarie (e involontarie), il
principale strumento.
DSp 9, 470-487; D. Gorce, La «Lectio divina». S. Jéróme et la lecture sacrée, Paris 1925; H. de
Lubac, Histoire et esprit, Paris 1950.
J. Gribomont
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I. Gobry, Il Codex Regularum di san Benedetto d'Aniane
Quest'opera, composta tra l'800 e l'815, è il primo tentativo di raggruppare e pubblicare tutte le
regole monastiche scritte fino a quel momento. E’ stata edita nel 1661 da Lucas Holstein, erudito
passato dal luteranesimo al cattolicesimo, in tre volumi:
Tomo I: Regole dei Padri d'Oriente per i monaci.
- Regole e precetti del Nostro Santo Padre Antonio (10 pp.)
- Precetti e consigli dell'abate Isaia (10 pp.)
- Regola dei quattro Padri: Serapione, Macario, Pafnuzio e l'altro Macario (11 pp.)
- Seconda regola dei Padri (4 pp.)
- Terza regola dei Padri (3 pp.)
- Regola di san Macario d'Alessandria, abate di Nitria (5 pp. )
- Regola di san Pacomio, seguita dalle sue lettere (65 pp)
- Dottrina di sant'Orsisio, abate di Tabennesi (34 pp.)
- Regola orientale, raccolta dal diacono Vigilio (12 pp.)
- Regola di san Basilio (112 pp. )
Tomo II: Regole dei Padri d'Occidente per monaci
- Regola di san Benedetto, abate di Montecassino (64 pp.),
- Consenso dei monaci (Consensoria) (3 pp.)
- Regola di autore incerto (2 pp.)
- Regola di Paolo e Stefano, abati (12 pp.) - Regola di san Cesario (6 pp.)
- Regola di sant'Aureliano (15 pp. )
- Regola di san Ferreolo di Uzès (28 pp. )
- Regola di san Colombano (24 pp.)
- Regola di Tarnat (16 pp. )
- Regola di sant'Isidoro di Siviglia (27 pp.)
- Regola di san Fruttuoso, vescovo di Braga (50 pp.)
- Altra regola dello stesso (10 pp.)
- Regola del Maestro (164 pp.)
- Regola di Grimlaico per i solitari (138 pp.)
Tomo III: Regole dei Padri d'Occidente per le monache
- Regola di sant'Agostino, vescovo d'Ippona (12 pp.)
- Regola di san Cesario, vescovo di Arles (38 pp.)
- Regola di sant'Aureliano, vescovo di Arles (12 pp.)
- Regola di san Donato, vescovo di Vaison (42 pp.)
- Regola dello stesso Padre (26 pp.)
- Regola di san Leandro, vescovo spagnolo (30 pp.)
- Regola di sant'Aelredo, abate di Rievaulx (52 pp.)
Le incertezze sulla regola di Lérins si protraevano da tre secoli, quando nel 1982 dom Adalbert de
Vogüé pubblicò le Regole dei santi Padri, prima edizione erudita di cinque testi figuranti nel Codex
Regularum di Benedetto d'Aniane. Si sapeva già che questi testi appartenevano alla legislazione
monastica dell'Occidente; l'attribuzione ai fondatori del monachesimo egiziano non s'era proposta
d'ingannare sulla loro provenienza, ma di ricordare e garantire la loro ispirazione orientale, la
prossimità alle origini. Gli pseudonimi di cui s'ornavano i loro autori non avevano la pretesa di
spacciare un falso piú di quanto i romanzi della Scudéry ambissero a far scambiare i loro
personaggi simbolici per eroi della Grecia antica; nascondendosi dietro le maschere di Serapione o
di Macario, i nuovi legislatori, noti ai fratelli di religione, aspiravano a cancellarsi dietro i primi
maestri del monachesimo, sacrificando cosí al tempo stesso all'umiltà e alla continuità.
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Ma se i nomi di questi allievi discreti dei santi Padri erano familiari alla prima generazione,
andarono perduti per le successive: oblio scontato da loro, certamente, ma di cui non poteva
consolarsi la storia monastica, soprattutto nei due periodi di rinnovamento, i secoli XVII e XX. I
ricercatori piú perspicaci avevano optato per la Provenza. Dal 1959, vari di essi, tra i quali A.
Mundo e Fr. Masai, localizzarono il primo di questi testi, la Regola dei quattro Padri a Lérins. Ma è
stato dom de Vogüé a dare di questa ipotesi, considerata fortemente probabile, una dimostrazione
magistrale, fornendo inoltre gli elementi piú obiettivi d'un concatenamento logico dei vari testi
apparentati. Trascurando i numerosi sviluppi del suo lavoro, è opportuno fornire qui almeno le
conclusioni di esso.
Il primo, cronologicamente, dei testi in questione, la Regola dei quattro Padri, costituisce la prima
carta di Lérins, in vigore dalla fondazione. Quali sono questi quattro Padri? Serapione, Macario di
Scete, Pafnuzio, Macario di Alessandria. Serapione rappresenta il vescovo Leonzio, che
raccomanda l'unità e l'ubbidienza (si tratta probabilmente del discepolo di Antonio, abate generale
a Pispir - a meno che non sia il discepolo di Teona a Scete); Macario di Scete impersona Onorato,
che insiste sul ruolo dell'abate; Pafnuzio (che ignoriamo se è il discepolo di sant'Antonio, divenuto
vescovo, o Pafnuzio Bubalo, abate di Scete) presta il suo volto a Caprasio, la cui esperienza
apporta precisazioni sul digiuno e il lavoro. L'ultimo interlocutore, chiamato lui pure Macario, è
secondo dom de Vogüé lo stesso nominato prima e incarna nuovamente Onorato. La regola è
però detta dei quattro Padri e non dei tre. Ma è vero che, se i primi tre Padri sono abati di Scete e
bisogna dunque ritrovare nella regola di Lérins quella di Scete, il quarto personaggio pone un
problema. Sarebbe cioè interessante sapere quale religioso di Lérins si deve identificare dietro
questa nuova autorità, che aggiunge integrazioni sui rapporti con gli altri monasteri, l'accoglimento
dei chierici e le punizioni.
La «seconda regola dei Padri», intitolata in realtà Statuti dei Padri, fu scritta in occasione
dell'entrata in carica del secondo abate, Massimo di Riez, ed è posteriore alla prima di una ventina
d'anni. È un «documento d'aggiornamento». Sarebbe stata redatta non da Massimo
personalmente, ma dalle autorità del monastero collegialmente. E’ molto breve: appena quattro
pagine.
Il terzo testo, detto la Regola di san Macario, è opera di Porcario, quinto abate di Lérins; è datata
dunque alla fine del secolo. Ricorda le prescrizioni degli Statuti dei Padri. È’ questo testo che
Giovanni di Réomé dà come carta alla sua abbazia dopo un soggiorno a Lérins.
La Regola orientale è a un tempo la più lunga e la piú concisa nelle prescrizioni. Fu composta da
Marino, sesto o settimo abate di Lérins, nei primi anni del VI secolo. È essa che l'autore della Vita
dei Padri del Giura menziona sotto il titolo di Instituta attribuendola peraltro nominativamente
all'abate Marino; essa s’ispira selettivamente alla regola di san Pacomio, di cui riproduce un certo
numero di articoli.
Infine, il quinto documento, cioè la terza Regola di Padri risalente al 535, consiste in una
successione di canoni decretati dal sinodo episcopale di Clermont in Alvernia. La sua origine
leriniana è riconoscibile dal fatto che s'ispira direttamente alla Regola di san Macario, prendendo
anche dai concili gallici contemporanei. Nonostante questa origine, non si tratta però di una regola
di Lérins, ma di un testo canonico applicabile ai monasteri gallici.
Vi fu dunque una regola scritta a Lérins. Ma essa variò nello spirito e nella espressione, perché si
servì di quattro redazioni successive nello spazio di un secolo. La nozione di vita monastica restò
la stessa, ma i legislatori insistettero secondo i bisogni del momento su questo o quello dei suoi
aspetti. Questa insistenza alternata è molto avvertibile in ciò che concerne i due poli della vita
cenobitica: l'ubbidienza e l'amore fraterno. Nella Regola dei quattro Padri, Serapione mette innanzi
tutto l'accento sull'importanza della comunità: da una parte, i pericoli del deserto non ne
permettono l'isolamento; dall'altra, è una gioia per i fratelli, come dice la Scrittura, abitare insieme.
«Vogliamo dunque - aggiunge (è la volontà dell'autorità episcopale) - che i fratelli abitino nella casa
con una sola anima e nella gioia».
Ma come conservare questa gioiosa unanimità? Grazie all'ubbidienza. «Vogliamo che uno solo
abbia autorità su tutti e che nessuno si allontani dai suoi avvisi e dal suo comando». Serapione
insiste sulla virtú dell'ubbidienza, il cui esempio ci è stato mostrato non solo da Abramo e dagli
apostoli, ma anche da Cristo, il quale ha detto: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà,
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ma la volontà di colui che mi ha mandato». E Macario precisa che per assolvere alla sua funzione
presso i fratelli, l'abate deve alleare la bontà alla severità.
Il prologo della seconda regola torna sull'esigenza di unanimità. Come si potrà ottenere?
Praticando la carità, l'umiltà, la pazienza, la mansuetudine (cf. Ef. 4, 2) e cercando di non avere
alcuna proprietà personale. È ricordata, certo, l'esigenza dell'autorità, ma la sottomissione è
contrassegnata qui da un triplice atteggiamento verso il preposto (si noti che il termine è quello
della regola agostiniana): rispetto, amore, ubbidienza in verità. La prima regola non precisava
l'ordine degli uffici: senza dubbio questo era stabilito dall'usanza; questa volta il legislatore si
prende cura di canonizzare l'usanza: «L'orario delle orazioni e dei salmi sarà mantenuto com'è
stato stabilito nel passato, come pure il tempo dello studio e del lavoro». Il lavoro intellettuale
occuperà il monaco fino a terza; poi, fino a sesta, ognuno riceverà un incarico particolare. Quando
il segnale della preghiera risuona, bisogna abbandonare tutto immediatamente, perchè «niente
dev'essere anteposto alla preghiera».
La Regola di Macario torna sulla gerarchia stabilita in precedenza: in primo luogo la carità perfetta,
poi l'ubbidienza. Anche quest'ultima è mutua: bisogna sottomettersi gli uni agli altri in spirito di
pace, mitezza, modestia, umiltà, senza mai stimarsi più giusti degli altri. Solo nell'articolo VII
compare il preposto. Ma non si parla di ubbidire a lui, bensí di rispettarlo come si rispetta Dio e un
padre. Quanto al resto, le prescrizioni sono le stesse: amare l'ufficio canonico piú di ogni altra cosa
e perfino farvi delle aggiunte individuali, accettare il lavoro manuale senza avversione e limiti. La
Regola orientale comincia col tracciare un ritratto dell’abate: deve essere «irreprensibile, severo,
paziente, dedito al digiuno, pio e umile» - il termine abate è sostituito qui a quello di preposto. E si
aggiunge subito che niente sarà fatto senza il suo avviso e la sua autorizzazione, che avrà libero
campo di governare il monastero secondo il proprio giudizio e, soprattutto, di ammettere ed
espellere i religiosi. Una novità: l'istituzione di priori, chiamati anziani, che assisteranno l'abate
nell'organizazione pratica. Inoltre, viene messo in luce il beneficio delle funzioni permanenti (senza
dubbio, sotto l'influenza di altre regole piú precise che si sono diffuse), cosí istituite e definite:
cellerario, portinaio, ebdomadario. Nel complesso, questa quarta regola insiste principalmente
sulla pratica dei dettagli, che era insufficientemente fissata e che essa attinge a Pacomio e al
Maestro, pur conservando lo spirito delle regole precedenti, alle quali le basta accennare
discretamente, perché erano allora conosciute da tutti.
I. Gobry, Storia del monachesimo, 1, Roma, Città Nuova, 1991, pp. 576-80 [BCTV]
Bibliografia
Edizioni
PL Migne, 1851,1864, 1994, vol. 104
CODEX REGULARUM MONASTICARUM ET CANONICARUM Quas SS. Patres monachis,
canonicis et virginibus sanctimonialibus servandas praescripserunt. COLLECTUS OLIM A S.
BENEDICTO ANIANENSI ABBATE. SANCTI BENEDICTI ABBATIS ANIANENSIS CONCORDIA
REGULARUM. S. BENEDICTI ANIANENSIS EPISTOLAE. S. BENEDICTI ANIANENSIS
OPUSCULA.
Concordia regularum, ed. P. Bonnerue, Turnhout, Brepols, 1999, Corpus Christianorum.
Continuatio Mediaevalis
Studi
Benedetto di Aniane: vita e riforma monastica, a cura di G. Andenna e C. Bonetti, Cinisello
Balsamo , Edizioni paoline, [1993] Storia della Chiesa. Fonti
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ICCU per Autore: Benedictus Anianiensis
103: S. Benedicti abbatis Anianensis opera omnia: juxta memoratissimasHolstenii et Hugonis-Menardi
editiones accuratissimas digesta: accedunt Sedulii Junioris natione Scoti scripta quae supersunt universa, ex
bibliothecae patrum et Maii collectionibus hausta / accurante J.-P. Migne, Lutetiae Parisiorum: Migne, 1864
Note Generali: In testa al front.: Traditio catholica. saeculum 9. anni 820-821
Fa parte di: Patrologiae cursus completus sive bibliotheca universalis, integra...
103: S. Benedicti abbatis anianensis opera omnia juxta memoratissimasHolstenii et Hugonis-Menardi
editiones accuratissime digesta accedunt SeduliiIunioris natione Scoti scripta quae supersunt universa ex
bibliothecis patrumet Maii collectionibus hausta
Edizione: Rist. anast, Turnhout: Brepols, 1994 . Ripr. facs. dell'ed.: Paris, 1851
Fa parte di: Patrologiae cursus completus sive bibliotheca universalis, integra...
Autore: Chrodegangus <santo>
The Old English version of the enlarged rule of Chrodegang together with the Latin original . An Old English
version of the Capitula of Theodulf together with the Latin original . An interlinear Old English rendering of
the Epitome of Benedict of Ananie / by Arthur S. Napier, New York: Kraus Reprint, 1971, Early English text
society
Note Generali: Ripr. dell'ed.: London: published for the Early English Text Society by Kegan Paul, Trench,
Trubner and by Humphrey Milford, Oxford University Press, 1916.
Autore: Benedictus: Anianensis<santo>
La regle de saint Benoist nouvellement traduite, & expliquee selon son veritable esprit. Tome premier second!, A Paris: chez Francois Muguet, premier imprimeur du roy & de monseigneur l'Archevesque ...,
1689
Autore: Benedictus: Anianensis<santo>
Concordia regularum, auctore S. Benedicto, Anianae abbate. Nunc primum edita ex Bibliotheca Floriacensis
monasterij, notisque & obseruationibus illustrata. Auctore fr. Hugone Menardo ..., Parisiis: ex officina
Hieronymi Drouart: apud Dionysium Bechet, via Iacobaea, sub Scuto solari, 1638
Benedicti Anianensis Concordia regularum / cura et studio Pierre Bonnerue, Turnhout: Brepols
Titolo uniforme: Concordia regularum.
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
Textus / Benedictus Anianensis; cura et studio Pierre Bonnerue, Turnhout: Brepols, 1999, Corpus
Christianorum. ContinuatioMediaevalis
Fa parte di: Benedicti Anianensis Concordia regularum / cura et studio Pierre Bonnerue
TV0114 - Biblioteca comunale - Treviso - TV
S.s.mi patris nostri Benedicti Regula emedulata ad usum nouitiorum eius ordinis, Coloniae: apud Ioannem
Rinckium, 1631
103: S. Benedicti abbatis anianensis opera omnia juxta memoratissimas Holstenii et Hugonis-Menardi
editiones accuratissime digesta accedunt Sedulii Iunioris natione Scoti scripta quae supersunt universa ex
bibliothecis patrum et Maii collectionibus hausta
Edizione: Reimprime d'apres l'ed. orig, Turnholti: T. Brepols e. p., \196.!
Note Generali: In testa al front.: Saeculum 9
Ripr. facs
Fa parte di: Patrologiae cursus completus sive bibliotheca universalis, integra...
103: S. Benedicti abbatis anianensis opera omnia juxta memoratissimas Holstenii et Hugonis-Menardi
editiones accuratissime digesta accedunt Sedulii Iunioris natione Scoti scripta quae supersunt universa ex
bibliothecis patrum et Maii collectionibus hausta
Edizione: Rist. anast, Turnhout: Brepols, 1988, Patrologiae cursus completus sive bibliothecauniversalis, ...
omnium ss. patrum, doctorumscriptorumque ecclesiasticorum; 103
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Ripr. facs. dell'ed.: Paris, 1851
Fa parte di: Patrologiae cursus completus sive bibliotheca universalis, integra...
Codex regularum quas sancti patres monachis, et virginibus sanctimonialibus seruandas praescripsere,
collectus olim a S. Benedicto Anianensi abbate. Lucas Holstenius Vatic. Basil. canonicus et bibliothecae
praefectus in tres partes digestum, auctumque edidit, Romae: excudit Vitalis Mascardus, 1661
Codicis regularum Appendix in qua sanctorum patrum exhortationes ad monachos, et virgines de
obseruantia vitae religiosae collectae olim a S. Benedicto Anianensi abbate. Lucas Holstenius Vatic. Basil.
canonicus ... edidit, Romae: excudit Vitalis Mascardus, 1661
Autore: Benedictus: Anianensis<santo>
Regola di s. Benedetto con le costituzioni del sacr'eremo di Camaldoli in Toscana; ..., In Firenze: all'insegna
della stella, 1671
103: S. Benedicti abbatis Anianensis opera omnia juxta memoratissimas Holstenii et Hugonis-Menardi
editiones accuratissime digesta: accedunt Sedulii Junioris natione Scoti scripta q, Paris: Migne, 1851
Fa parte di: Patrologiae cursus completus sive bibliotheca universalis, integra... / accurante J.P. Migne
Codex regularum quas Sancti Patres monachis, et virginibus sanctimonialibus seruandas praescripsere,
collectus olim a S. Benedicto Anianensi abbate. Lucas Holstenius Vatic. Basil. canonicus et bibliothecae
praefectus in tres partes digestum, auctumque edidit. Cum Appendice, in qua SS. Patrum exhortationes ad
monachos & virgines de obseruantia vitae religiosae
Edizione: Prodit nunc primum in Galliis, Parisiis: apud Ludouicum Billaine, in Palatio Regio, 1663
Codex rgularum monasticarum et canonicarum / herausg. Lucas Holstenius, Graz: Akademische Druck.-u.
Verlagsanstalt, 1957 .
ICCU Per Soggetto
Benedetto di Aniane : vita e riforma monastica / a cura di Giancarlo Andenna e Cinzia Bonetti
Cinisello Balsamo : Edizioni paoline, [1993] Storia della Chiesa. Fonti
Bettini, 3, 908.
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Severino Boezio
Cenni biografici
Boezio nacque a Roma circa il 480 da una nobile famiglia convertita da tempo al Cristianesimo. Il
padre Flavio fu anche console nel 478 sotto Odoacre.
Sappiamo di un viaggio di formazione culturale di Severino in Grecia e in oriente, al seguito di una
missione politica del padre nel 488.
Quando il padre muore Severino è affidato a Quinto Aurelio Simmaco, di cui sposò in seguito
anche la figlia Rusticiana; ebbe anche l'amicizia di Cassiodoro.
Con il 493 tutta l'Italia settentrionale cade sotto il dominio di Teodorico.
Diventa prefetto del pretorio per l'Italia, console nel 510, magister officiorum (direzione generale
dei servizi della corte, comando delle guardie di palazzo) di Teodorico nel 522.
E' considerato da molti proprietari e nobili italici il loro portavoce, anche se Boezio persegue una
politica di conciliazione tra Goti ariani e Romani cattolici. Dopo l'elezione del pontefice Giovanni I,
esponente della nobiltà filoimperiale, si crea una situazione di tensione crescente tra Teodorico,
Giustino I imperatore d'Oriente e alcuni nobili romani. Coinvolto più o meno direttamente già dal
523 Boezio perde la carica di magister officiorum.
Accusato di magia e di congiurare contro Teodorico viene imprigionato a Pavia e, dopo un
processo, condannato e giustiziato nel 524 (secondo altri nel 526, quando viene fatto giustiziare
anche Simmaco e quando muore lo stesso Teodorico).
Opere
Numerose traduzioni e Commenti, soprattutto per le opere logiche di Aristotele
Isagoge di Porfirio, composta 508-09
Categorie, di Aristotele, composte 510-11.
De interpretatione di Aristotele (due commenti), composto 512.
Analitica prima, 513-14
Analitica secunda 517
Topica di Cicerone (incompl.), 518-20.
Introductio ad syllogismos categoricos, 513-14
De syllogismo hypothetico, 513-14
De differentiis topicis, composto 521-22
De divisione
De institutione musica, in 5 libri (lacunoso alla fine), composta 502-07.
De institutione mathematicae (arithmetica?) composta 502-07.
De institutione geometrica (framm.) composta 502-07.
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De institutione Astronomica, perduto, composta 502-07.
Opere teologiche
De Sancta Trinitate, 521-22
De fide Catholica, 521-22.
Contra Eutychen et Nestorium, contro l'eresia monofisita e nestoriana, composta 512
De consolatione philosophiae, in cinque libri, composta 523-24 ca. in carcere
Osservazioni
Testi e testimonianze
Cassiod., inst., 2,5,7
His igitur rebus sollicita mente tractatis, memento quod haec discplina ideo ceteris antefertur, quonam ipsa,
sicut superius dictum est, ut sit, nullius alterius indiget disciplinae; reliquae vero quae sequuntur, sicut eius
iam qualitas virtutis ostendit, ut sint atque subsistant, indigent arithmetica disciplina. quam apud Graecos
Nicomachus diligenter exposuit. hunc prius Madaurensis Apuleius, deinde magnificus vir Boethius Latino
sermone translatum Romanis contulit lectitandum.
Cassiod., inst., 2,6,3
His partibus atque divisionibus totius geometriae disciplina tractatur, et numerositas illa formarum, quae sive
in terrestribus sive in caelestibus est, tali expositione concluditur. cuius disciplinae apud Graecos Euclides,
Apollonius, Archimedes nec non et alii scriptores probabiles extiterunt; ex quibus Euclidem translatum
Romanae linguae idem vir magnificus Boethius edidit. qui si diligenti cura relegatur, hoc quod praedictis
divisionibus apertum est manifestae intellegentiae claritate cognoscitur.
Prisc., de pond. et mens.,
Priscianus Grammaticus, patria Caesariensis, vir non solum in grammaticis et rhetoricis, verum etiam in
philosophicis mathematicisque versatissimus, libro de Ponderibus et Mensuris, Boetius, inquit, probitatis et
omnium scientiarum verticem attigit
Ennod., ep., 7,13
[…] Tu in me emendatissime hominum, dignaris praedicare virtutes, quem in annis puerilibus sine aetatis
praejudicio, industria [0563B] fecit antiquum: qui per diligentiam imples omne quod cogitur; cui inter vitae
exordia ludus est lectionis assiduitas, et deliciae sudor alienus. In cujus manibus duplicato igne rutilat, qua
veteres face fulserunt. Nam quod vix majoribus circa extremitatem vitae contigit, hoc tibi abundat in limine.
[…]
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Ennod., ep., 8, 1. A Boezio nominato console.
Optimae spei plenus, cui fautum cupio, ad curam officii epistolaris aspiro. Decet enim vestris fascibus hac
praefatione delibari; et inter purpuras possessoris luce crescentes, qualicunque non abstinere colloquio.
Nunquid solius doctrinae beneficiis amor agnoscitur, nec fas esse credendum est, prodire in medium
desideria rusticantis? Simplicius innotescunt vota nullo peritiae velata [0563C] praestigio. Ergo nos hoc
sumus ore, quod pectore. Non amara praecordiorum delenificis possumus mutare sermonibus. Pudens
laudator est, cui in concinnatione blandimenti dicenda mens suggerit. Deo ergo omnipotenti gratias, qui in
vobis, dum vetera familiae vestrae bona custodit, nova multiplicat; et quod plus est apice dignitatis, dignos
facit esse culminibus. Redditur quidem vestrae gloria ista origini, sed quod est clarius, merito impetrante
personae. Fuerit in morem veteribus, curulium celsitudinem campi sudore mercari, et contemptu lucis
honorum luce fulgere; sed aliud genus virtutis quaeritur, postquam praemium facta est Roma victorum.
Noster candidatus post manifestam decertationem, debitum triumphum, dum nunquam viderit bella, sortitur.
Judicio exigit laureas, et congredi non necessarium [0563D] duxit armatis. Inter Ciceronis gladios et
Demosthenis enituit, et utriusque propositi acumina, quasi natus in ipsa artium pace, collegit. Nemo
dissonantiam Atticae perfectionis metuat et Romanae; nec praecipua gentium bona in societatem dubitet
convenire. Unus es qui utrumque complecteris, et quidquid viritim distributum poterat satis esse, avidus
maximarum rerum possessor includis. Eloquentiam veterum, dum imitaris, exsuperas. Dicendi formam
doctissimis tribuis, dum requiris. Est apud me epistolae vestrae, quae hujus rei fidem faciat, veneranda
compositio. Utinam quae a vobis diriguntur, tam essent crebra quam suavia! Dicaris forsitan, Par fuit
propinquum laudare, in commune augmentum laborantem: quia non est proprium, quod [0564A] quasi
singulariter videtur palmata conferre. Venit ad me equidem portio de curuli; sed si mihi conceditis, plus erigor
de genio et studiis sublimati. Interdum accesserunt ista de casibus, soli contigerunt illa virtuti. Prope inops ad
scipionem adducitur suffragii consularis, qui tantum de parentibus gloriatur. Tibi utrumque in peculio est,
Latiaris scientia, et vena purpurarum. [...]
Boet., cons. 4,1-2. I buoni e il male.
Haec cum Philosophia, [1 [0785D] Dignitate vultus et oris gravitate servata.] Cum enim homo suas
significaturus cogitationes, non modo lingua, sed etiam oculis, fronte, nutu, gestu, caeterisque ejusmodi sic
loquatur, ut pro diversis horum omnium modis diversas et loquentis sui significet, et audientis alterius excitet
cogitationes; propterea Philosophia humanam formam induta aptis illis signis veritatem felicius persuadet, in
quo differt a musis poeticis, quas supra vocavit meretriculas usque in exitium dulces, quaeque quod alio
vultu loquantur, alias etiam commovent in auditoribus cogitationes.] dignitate vultus, et oris gravitate
servata, leniter suaviterque cecinisset, tum ego, nondum [a [0785C] Interius.] penitus insiti moeroris oblitus,
intentionem dicere adhuc aliquid parantis [b [0785C] Interpellavi.] abrupi. 257 Et o, inquam, [2 [0785D] Veri
praevia luminis.] Philosophia, quae quod sit cognitio clara et distincta adeoque errori non obnoxia, ipsa
verum lumen est; sed quod attendenti lumen luminis sit origo, propterea eadem Philosophia dicitur veri
luminis praevia. Nisi dicas, verum lumen [0786D] hic appellari illud, quo mens sperat, ruptis ipsius corporis
nexibus, aliquando frui: hoc enim lumen lumine philosophico praevenitur.] veri praevia luminis [c [0786C]
Philosophia.] , quae usque adhuc tua fudit oratio, [d [0786C] Et clara et certa.] cum sui [3 [0786D]
Speculatione.] Speculatio, vox minus Latina videtur.] speculatione [0786C] divina, tum tuis rationibus invicta
patuerunt; eaque mihi, et si ob injuriae dolorem nuper oblita, non tamen antehac prorsus ignorata dixisti. Sed
ea ipsa est vel maxima [4 [0786D] Nostri causa moeroris.] Ut summa animi laetitia perfunditur ille, qui ex
quibusdam principiis positis, conclusiones, quas aliunde scit esse verissimas, improviso colligit; sic tristitia
afficitur, qui quod experientia probatur, cum suis non potest conciliare principiis: ut enim prius a lumine, quod
amamus; sic posterius a tenebris, quas odio habemus, oritur.] nostri (5) causa moeroris, quod cum rerum
bonus rector existat, vel esse omnino mala possint, vel impunita praetereant. Quod solum quanta dignum sit
admiratione, profecto consideras. At huic aliud majus adjungitur: nam imperante florenteque nequitia, virtus
non solum praemiis caret, verum etiam sceleratorum pedibus subjecta calcatur, et in locum (10) facinorum
supplicia luit. Quae fieri [5 [0786D] In regno scientis.] Si Deus non sciret omnia; aut si sciens, non posset
omnia; aut si sciens et potens, sola bona non vellet, nihil mirum, quod mala essent; haec enim aut scientiam
praeterire, aut potentiam superare, [0787B] aut voluntatem divinam consequi viderentur; sed quod Deus nec
ignarus, nec impotens mala, quae odio habet, permittat, hoc mirum.] in [0787A] regno scientis omnia,
potentis omnia, sed bona tantummodo volentis Dei, nemo satis potest nec admirari, nec conqueri. Tum illa [a
[0787A] Philosophia.] , Et [1 [0787B] Esset infiniti stuporis.] Stupor est vehemens admiratio, qua qui afficitur,
hic spiritibus cohibitis, voce motuque omni, instar stipitis vel trunci privatur. Virgil. II Aen., v. 774: Obstupui
steteruntque comae et vox faucibus haesit. Cui favet interpretatio nominis: stupor enim et stupere a stipes
videtur dici: unde in antiquis Virgilii, [0787C] Horatii, Terentii, aliorumque libris legebatur stipet, et obstipuit.]
esset, inquit, infiniti [b [0787B] Summae admirationis.] stuporis, omnibusque horribilius monstris, si, uti tu
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existimas, in tanti veluti patrisfamilias dispositissima domo, vilia vasa colerentur, (15) pretiosa sordescerent:
[2 [0787C] Sed non ita est.] Nam virtus nunquam est sine suo praemio, nec vitium sine suo supplicio, sicut
ex dictis manifestum est.] sed non ita est. 258 Nam si ea quae paulo ante conclusa sunt, [c [0787B]
Constent.] inconvulsa servantur, [3 [0787C] Ipso, de cujus regno loquimur, auctore.] Deo docente: tum
autem Deus hominem docet, cum mente praejudiciis exuta, ipsae duntaxat mentis cogitationes attentius
considerantur; quod ut solus Deus tunc interrogatur, sic solus menti interroganti respondeat.] ipso, de cujus
nunc regno loquimur, auctore cognosces, semper quidem potentes bonos esse, malos vero abjectos semper
atque imbecilles; nec sine poena unquam esse vitia, nec sine praemio virtutes; (5) bonis felicia, malis
semper infortunata contingere, multaque id genus, quae sopitis querelis firma te soliditate corroborent. Et
quoniam verae formam beatitudinis [0788A] me [d [0787B] Jam.] dudum monstrante vidisti, quo etiam sita
sit agnovisti, decursis omnibus, quae praemittere necessarium puto, [4 [0787C] Viam tibi, quae te domum
revehat, ostendam.] Homini cognoscenti suum ultimum finem, nihil superest quam ut cognoscat modum, quo
ad ejusmodi finem pervenire possit: Matth. VI: Quaerite primum regnum Dei et justitiam ejus. Quare cum
Philosophia jam docuerit ultimum hominis finem, instituti ejus ratio postulat, ut de modo hujus finis
consequendi tractet: quod nunc vocatur via, quae domum revehat: propterea promittit pennas. ] viam tibi,
quae te [e [0787B] In patriam coelestem.] domum revehat, ostendam. [5 [0787D] Pennas affigam.]
Cogitationes videlicet, quibus si mens bene utatur, eadem his veluti pennis, hinc quidem praejudicia veritati
contraria fugare, inde vero ad veritatem ipsam pervenire poterit.] Pennas (10) etiam tuae menti, quibus se in
altum tollere possit, affigam, ut perturbatione depulsa, [6 [0787D] Sospes.] Salvus et incolumis: Sospes
enim dicitur, cui vires sint quolibet meandi et remeandi. ] sospes in patriam, [7 [0787D] Meo ductu, mea
semita, meis vehiculis.] Philosophica cognitio recte dicitur dux, semita et vehiculum, quibus homo sospes ad
Deum, unde egressus fuit, regrediatur. Est quidem dux, quia hac utpote ingenita praeeunte mens ad
judicandum ducitur. Est semita, quia sicut in ea clare et distincte comprehensum, sic judicandum. Est
vehiculum, quia hac mens veluti constricta ita rapitur, ut penes eam non sit contrarium sentire. Propterea
eadem Philosophia nunc canit.] meo ductu, mea semita, meis vehiculis revertaris.
Sunt etenim pennae volucres mihi,
Quae celsa conscendant poli:
Quas sibi cum velox mens induit,
260 Terras perosa despicit,
[0789A] [ [0789B] 5. Aeris immensi superat globum.] Aer quidem suis definitur limitibus: sed quoniam ita
diffunditur, ejus ut dimensio in nostro cerebro non distinctius, quam quaelibet alia longe etiam majoris
corporis amplitudo exprimatur, propterea nobis imaginantibus aer immensus habetur: at mens nostra, quae
plura concipere potest quam imaginari, aerem, quo terra undequaque circumfunditur, in orbem diffusum sic
cogitat, ut aliud ultra considerandum sibi proponat: unde fit ut eadem mens veluti post tergum relinquat
nubes, quae in aere, non secus ac naves in aquis, libratis hinc et inde ponderibus, sustinentur. 8.
Transcendit ignis verticem.] Si Philosophia hic agnoscat ignem, hic certe ignis multum differt ab eo quem
Peripatetici vulgo aiunt existere in concavo lunae propter ordinem et bonum Universi: nam hoc
Peripateticorum elementum calore non afficitur, quod rarius [0789C] sit: aut si incalescat, id motu non habet;
aut si motu calefiat, id a se potius, quam ab alio corpore moto obtinet. Cum tamen ille Philosophiae ignis agili
motu aetheris calorem concipiat. Quare hic ignis nihil forte aliud est quam pars aetheris, qui Ciceroni in l. de
Nat. deor. nominatur: ardor ultimus, estque tenuis. ac perlucens, et aequabili calore suffusus: quo aetheris
vertice considerato, praedicta mens altius evecta contemplatur primum quidem planetas sole inferiores,
postea ipsum solem, deinde planetas sole superiores; tum stellas fixas et tandem ipsum Deum, ut deinceps
dicitur. 9. Donec in astriferas surgat domos.] I. Mens humana contemplatur planetas Sole inferiores,
cujusmodi sunt Luna, Venus, Mercurius, et si qui alii illic fuerint planetae: qui cum partes coeli stelliferi
infimas, terraeque viciniores teneant, potuerunt significari per nominatas astriferas domos. Nemo nescit,
astrorum situs ab astronomis vocari domos. [0789D] Quid tibi prodest Aerias tentasse domos animoque
rotundum Percurrisse polum? 10. Phoeboque conjungat vias.] II. Eadem mens contemplatur solem: sol
enim, ut saepius diximus, propter speciem nitoremque vocatur Phoebus: nam foiðboû, adject., idem quod
splendidus. Via autem solis duplex, diurna una, quae ab ortu ad occasum spatio viginti quatuor horarum
absolvitur: altera annua, quae auctore Tullio II de Nat. quinque diebus et quinquaginta et trecentis, quarta
fere diei parte addita: quam utramque solis viam mens contemplata suas dicitur vias cum viis solaribus
conjungere. 11. Comitetur iter gelidi senis.] III. Mens contemplatura planetas sole superiores, inspicit primo
Saturnum, usque iter comitatur. Saturnus astronomis omnium planetarum altissimus, poetis vocatur senex
gelidus: senex quidem, quod fingatur antiquissimus [0790B] deorum, et seni similis lento gradu feratur:
gendus vero, quod, utpote omnium planetarum altissimus, terras minimo calore afficiat: unde Cic. Summa,
inquit, Saturni stella refrigerat. Iter denique Saturni in hoc versatur, quod suum circuitum absolvat triginta
annis.
12. Miles corusci sideris.] Deinde ipsa mens Martem, alterum planetam sole superiorem
contemplatur, ipsiusque propterea miles nunc vocatur: Mars quippe, antiquis deus belli, quos habet comites,
hi ejus milites appellantur. Mars porro dicitur coruscum sidus, quod Saturno magis splendeat: unde Tull. II de
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Nat.: Summa, inquit, Saturni stella refrigerat, media Martis incendit. 13. Vel quocunque, etc.] IV. Mens
contemplatur stellas fixas, quibus scilicet nox micans pingitur, earumque circuitus, sua pariter cogitatione
circumeundo, absolvit. 15. Exhausti fuerit satis.] Id est: ubi praedicta satis [0790C] cogitata fuerint: Sic enim
Cicero ad Qu. frat., Exhaustus est, inquit, sermo hominum: quasi dicat: ea de re jam loqui est desitum: sic
etiam Virgil. II Georg., V. 397: Est etiam ille labor curandis vitibus alter, Cui nunquam exhausti satis est.
16. Polum relinquat extimum, etc.] V. Mens consideratis omnibus sideribus, et ipso etiam aethere veloci, quo
sidera circumfusa, ut naves aquis, deferuntur, ascendit ad considerandum coelum quod vocant empyreum,
quod praecipua sedes Dei vocatur, quodque caeteris commotis vulgo dicitur immotum: unde doctissimus
noster Antonius Hallaeus in epigrammate, cujus illud est argumentum: At sola empyrei moles altissima coeli,
Sancta Dei divumque domus, vertiginis expers Stat firma, et motu nunquam turbante cietur; Congrua nam
ratio vult, alta ut pace fruentum, Atque quiescentum, sedes immota quiescat.
[0790D] Deus, qui nunc
appellatur regum Dominus, juxta illud Apoc. XIX: Rex regum et Dominus regnantium; et coruscus rerum
arbiter, ut a Seneca in Hercule fur., v. 204, vocatur magnus Olympi rector et mundi arbiter, hic perhibetur
sceptrum tenere, orbis habenas temperare, et volucrem currum stabilis regere: quia quamvis Deus ubique
sit, ubique agendo; Deus tamen, utpote qui peculiari modo agit in hoc coelo, peculiari etiam modo in hoc
coelo videtur existere. Psal. CXLVIII, Confessio et gloria ejus super coelum et terram. Quin etiam ipse
Aristoteles l. de Mundo: Summam, inquit, et primam sedem mundi sortitus est Deus. Haec est nostrae
mentis patria, adeo ut vel ipsi reges, quatenus hi in terris habitant, exsules haberi possint: sicut hic dicitur.
19. Sceptrum.] Sceptrum, ipsa nominis origine, est baculus sive virga regalis: unde signo pro re significata
posito, sceptrum idem est quod imperium hominis, [0791C] a quo etiam ad Deum propter quamdam
imperandi similitudinem transfertur.] Aeris immensi superat globum, 5
Nubesque post tergum videt;
Quique agili motu calet aetheris,
Transcendit ignis verticem,
Donec in astriferas surgat domos,
261 Phoeboque conjungat vias, 10
Aut comitetur iter gelidi senis,
Miles corusci sideris,
[0790A] Vel quocunque micans nox pingitur,
Recurrat astri circulum,
Atque ubi jam exhausti fuerit satis, 15
Polum relinquat extimum,
Dorsaque velocis premat aetheris
Compos verendi luminis.
262 Hic regum sceptrum dominus tenet,
[0791A] [ [0791C] 20. Orbis habenas.] Similitudine sumpta ab equis, quos habenis huc illucque ad nutum
flectimus: Deus quippe omnia sic regit, ut omnia, quocunque voluerit, moveantur. 21. Volucrem currum.]
Auctor videtur speciatim intelligere omnem mobilis coeli orbem, generatim tamen universus mundus
corporeus dici potest volucer currus: quia cum mundus ille sit moles adeo conferta; nihil ut sit illic vacui,
propterea nullus [0791D] fit in mundo motus, quin inibi fiat materiae motae circuitus. 29 et 30. Torvos
tyrranos.] Torvus, a torquendo dictus, ille est qui vultu vel potius oculis tortis interiorem furoris motum ita
significat, ut tuentibus sit terribilis: hinc taurus praesertim torvus habetur, quod animal illud saepius hanc
formam induat. Virg. Georg. III: Optima torvae forma bovis.] Porro cum exsul, sive ut nonnulli scribunt, exsol
dicatur quasi ex solo sive patria pulsus, cumque tyranni in terris habitantes ex solo sive potius coelo, patria
sua veluti expulsi sint, ideo videri possunt exsules. Ad Hebr. XIII: Non habemus hic manentem civitatem, sed
futuram inquirimus.] Orbisque habenas temperat, 20
Et volucrem currum stabilis regit,
Rerum coruscus arbiter.
Huc te si reducem referat via,
Quam nunc requiris immemor,
Haec dices, memini, patria est mihi, 25
Hinc ortus, hic sistam gradum.
Quod si terrarum placeat tibi
Noctem relictam visere,
263 Quos miseri torvos populi timent,
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Tum ego, [1 [0791D] Papae.] Papae, sive ut loquitur Plautus babae, est interjectio hominis mira subito
accipientis; quod, ut conjicimus, hae voces primae sint, quas pueri omnia ut ignorantes sic admirantes
proferre soleant.] papae, inquam, [a [0792C] Quanta.] ut magna promittis! [0791B] nec dubito quin possis
efficere: tu modo quem excitaveris, ne [b [0792C] Retardes.] moreris. [2 [0792C] Primum igitur, etc.]
Philosophia proponit quod sibi in hac oratione probandum incumbit, videlicet et probos potentes et improbos
impotentes: id autem probabit triplici argumentorum genere, quae contrahere conabimur.] Primum igitur,
inquit, bonis semper adesse potentiam, malos cunctis viribus esse desertos, agnoscas licebit: quorum
alterum demonstratur (5) ex altero. Nam cum bonum malumque contraria sint, si bonum potens esse
constiterit, liquet imbecillitas mali: at si fragilitas clarescat mali, boni firmitas nota est. Sed uti nostrae
sententiae, fides abundantior sit, alterutro calle procedam, nunc hinc, nunc inde proposita confirmans. [3
[0792C] Duo sunt, etc.] I. Argumenti genus. Quicunque homo id adipiscitur quod vult, is potens est:
quicunque vero vult aliquid, quod non adipiscitur, is est impotens: quod effectus humanus, unde quis
judicatur esse vel non esse potens, necessitudinem habeat cum voluntate et potestate, quarum [0792D]
utraque est in primo, et altera tantum in secundo illo homine. Atqui homo probus id adipiscitur quod vult:
improbus vero quod vult non adipiscitur: cum uterque suam velit beatitudinem, quam probus, non improbus
adipiscitur: siquidem ut bonus non dicitur nisi adeptione boni summi, ita malus non dicitur nisi privatione
ejusdem boni.] Duo sunt, quibus omnis humanorum (10) actuum constat effectus; voluntas scilicet, ac
potestas: quorum si alterutrum desit, nihil est quod explicari queat. Deficiente etenim voluntate, ne aggreditur
quidem quisque quod non vult: at si potestas absit, voluntas [0792A] frustra sit. Quo fit; ut si quem videas
adipisci velle, quod minime adipiscatur, huic obtinendi quod voluerit, defuisse [c [0792C] Potestatem.]
valentiam (15) dubitare non possis. Perspicuum est, inquam, nec ullo modo negari potest. Quem vero
effecisse quod voluerit, videas, num etiam potuisse dubitabis? Minime. Quod vero quisque potest, in eo
validus; quod vero non potest, in hoc imbecillis esse censendus est. 265 Fateor, inquam. Meministine igitur,
inquit, superioribus rationibus esse collectum, intentionem omnem voluntatis humanae, quae diversis studiis
agitur, ad beatitudinem festinare? Memini, inquam, id quoque esse demonstratum. Num recordaris
beatitudinem ipsum esse bonum, (5) eoque modo cum beatitudo petitur, ab omnibus desiderari bonum?
Minime, inquam, recordor, [0792B] quoniam id memoriae fixum teneo. Omnes igitur homines boni pariter, ac
mali, indiscreta intentione ad bonum pervenire nituntur? Ita, inquam, consequens est. Sed certum est,
adeptione boni, bonos fieri. Certum. Adipiscuntur (10) igitur boni, quod appetunt? Sic videtur. Mali vero si
adipiscerentur, quod appetunt bonum, mali esse non possent. Ita est. Cum igitur utrique bonum petant, sed
hi quidem adipiscantur illi vero minime; non dubium est bonos quidem potentes esse, qui vero mali sunt,
imbecilles. Quisquis, inquam, dubitat, nec rerum (15) naturam, nec consequentiam potest considerare
rationum. [4 [0792D] Rursus si duo sint, etc.] II. Argumenti genus. Ex duobus, quibus ab ipso naturae
auctore constitutum est aliquo tendere, si alterum officio parens, illuc tendat; alterum ab officio decedens aut
moretur, aut certe alio deflectat, prius potens, posterius impotens haberi debet: cum enim potentia nihil sit
aliud, quam instinctus ille ab auctore naturae acceptus, potentiae est pervenire, imbecillitatis non pervenire
quo Deus vocat: sic ex duobus hominibus, quibus ab ipso naturae auctore constitutum est pedibus
ambulare, si alter officio functus ambulet, alter [0793C] ab officio discedens aut quiescat aut manibus
tantum nitens ambulet; prior potens, posterior imbecillis habendus est. Atqui ex bono et malo homine, quibus
ab ipso naturae auctore constitutum est ad summum bonum ea, quam Deus utrique ab ortu impressit,
[0793D] propensione tendere; bonus officio suo functus ad summum bonum tendit, malus vero a suo officio
decedens aut gradum sistit, aut variis cupiditatibus abreptus ad bona caduca deflectit. Igitur bonus potens,
malus vero imbecillis habeatur, necesse est.] Rursus inquit: Si duo sint, quibus idem [d [0792C] Ex instinctu
naturae.] secundum naturam propositum sit, eorumque unus naturali officio idipsum agat atque perficiat;
alter [0793A] vero naturale illud officium minime administrare queat, alio vero modo, quam naturae convenit,
non quidem impleat propositum suum, (20) sed imitetur implentem; quemnam horum [a [0793C]
Potentiorem.] valentiorem esse decernis? [b [0793C] Quamvis conjectura assequor.] Etsi conjecto,
inquam, quid velis, [c [0793C] Clarius.] planius tamen audire desidero. Ambulandi, inquit, motum secundum
naturam esse hominibus, num negabis? Minime, inquam. Ejusque rei pedum officium esse naturale num
dubitas? Ne hoc quidem, inquam. Si quis igitur pedibus (25) incedere valens ambulet, aliusque, cui hoc
naturale pedum desit officium, manibus nitens, ambulare conetur, quis horum jure valentior existimari
potest? Contexe, inquam, caetera: nam quin naturalis officii potens, eo, qui idem nequeat, valentior sit,
nullus [d [0793C] Dubitat.] ambigit. 266 Sed [0793B] summum, inquit, bonum, quod aeque malis bonisque
propositum, boni quidem naturali officio virtutum petunt: mali vero variam per cupiditatem, quod adipiscendi
boni naturale officium non est, idem ipsum conantur adipisci. An tu aliter existimas? Minime, (5) inquam [e
[0793C] Quin.] nam etiam, quod est consequens, patet. Ex his enim quae concesseram, bonos quidem
potentes, malos vero esse necesse est imbecilles. Recte, inquit, praecurris, idque, uti medici sperare solent,
indicium est erectae jam, resistentisque naturae. [1 [0793D] Sed quoniam te, etc.] III. Argumenti genus. Si
quo spectet intentio, consideraveris, hinc quaedam tam bonorum, quam malorum patebit infirmitas; sed
malorum major. Utrorumque, inquam, patebit infirmitas: quoniam cum utrique ad summum bonum aspirent,
huc neutri pervenire possunt, nisi praeeunte, ducente, aut fere compellente intentione, magno illo ac pene
invicto praeeuntis naturae vel potius Dei auxilio, quam intentionem a Deo ad Deum ipsum adipiscendum
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acceperunt: quo autem majori opus est auxilio ad progrediendum, eo minores videntur progrediendi vires. At
major malorum patebit infirmitas; sicut enim ex duobus proficiscentibus ille potentior, qui incedens ad eum
usque pervenit locum, ultra quem progredi non licet; ille vero infirmior, qui ab eo, ad quem pervenire intendit,
loco deflectens ne illum quidem attingit locum ad quem errore suo videbatur duci: ita boni, utpote qui ad
[0794C] ultimum finem, compellente tamen Deo, accedunt, potentiores; mali vero, utpote qui, nihil obstante
insita propensione, ab ultimo fine aberrantes ne haec quidem attingunt bona, quibus noctes diesque inhiant,
infirmiores sunt: quod attendenti ad causas [0794D] hujusmodi erroris magis ac magis patebit: nam vel mali
recedunt ab eo, quo insita illorum inclinatio ferre videtur, ignoratione, vel perturbatione, vel scientia
voluntateque.] Sed quoniam te ad intelligendum promptissimum esse conspicio, [f [0794C] Frequentes.]
crebras coacervabo rationes. (10) Vide enim quanta vitiosorum hominum pateat infirmitas, qui ne ad hoc
quidem pervenire [0793C] queunt, ad quod eos naturalis ducit, ac pene compellit [0794A] intentio. Et quid?
si hoc tam magno ac pene invicto praeeuntis naturae desererentur auxilio? Considera vero quanta
sceleratos homines habeat impotentia. Neque enim levia, aut ludicra (15) praemia petunt, quae consequi
atque obtinere non possunt: sed circa ipsam rerum summam, verticemque deficiunt, nec in eo miseris
contingit effectus, quod solum dies, noctesque moliuntur: in qua re bonorum vires eminent. Sicut enim eum
qui pedibus incedens, ad eum locum usque pervenire potuisset, quo nihil ulterius pervium jaceret incessui,
(20) ambulandi potentissimum esse censeres: ita eum, qui expetendorum finem, quo nihil ultra est,
apprehendit, potentissimum necesse est judices. Ex quo fit, [g [0794C] Econtrario.] quod huic objacet, ut
iidem scelesti, iidem viribus omnibus [0794B] videantur esse deserti. 267 Cur enim relicta virtute vitia
sectantur? [2 [0794D] Inscitiane?] Seu boni veri, a quo recedunt; seu boni ementiti ad quod accedunt? sed
ignoratione, ut pote quae nihil est, nihil infirmius. An.] inscitiane bonorum? sed quid [h [0794C] Infirmius.]
enervatius ignorantiae caecitate? An sectanda noverunt? sed [3 [0794D] Transversos eos libido praecipitat?]
Hoc est, an perturbatione? at hoc magnum est argumentum infirmioris mentis, quippe quae mancipii corporis
motibus victa obsequitur.] transversos eos libido praecipitat, sic quoque intemperantia fragiles, qui [i [0794C]
Resistere.] obluctari vitio nequeunt. [4 [0794D] An scientes volentesque bonum deserunt, ad vitia
deflectuntur?] Sed hoc modo non solum potentes esse, sed omnino esse desinunt, non quidem quoad rem
spectat: improbi enim illi semper ex mente et corpore, duabus rebus inter se conjunctis, constant: sed quoad
modum attinet: cum enim Deus non minus sit finis ultimus mentis humanae, quam ejusdem est prima causa;
ut mens humana dicatur esse secundum modum, haec ad Deum debet tendere ut notione, sic voluntaria
propensione, quo modo improbi ad Deum non tendunt.] An scientes, volentesque bonum (5) deserunt, ad
vitia deflectuntur? Sed hoc modo non solum potenteis esse, sed omnino esse desinunt. Nam qui communem
omnium, quae sunt, finem relinquunt, pariter quoque esse desistunt. Quod quidem cuipiam mirum forte
videatur, ut malos, qui plures hominum sunt, eosdem non esse dicamus: sed ita sese res habet. Nam qui
mali sunt, (10) eos malos esse non abnuo: sed, eosdem esse, pure atque simpliciter [0794C] nego. Nam uti
cadaver hominem mortuum [0795A] dixeris, simpliciter vero hominem appellare non possis: ita vitiosos,
malos quidem esse concesserim, sed esse absolute nequeam confiteri. Est enim, quod ordinem retinet,
servatque naturam: quod vero ab hac deficit, esse etiam, (15) [a [0795B] Quoad potest.] quod in sua natura
situm est, derelinquit. Sed possunt, inquies, mali: nec ego quidem negaverim; sed haec eorum potentia non
a viribus, sed ab imbecillitate descendit. Possunt enim mala, quae minime valerent, si in bonorum efficientia
manere potuissent. Quae possibilitas eos evidentius nihil posse, demonstrat. [1 [0795C] Nam si malum nihil
est, etc.] Praedicta improborum infirmitas confirmari potest ex natura ipsius mali, ex potestate Dei, et ex
appetitu ipsius hominis: 1o quidem ex natura ipsius mali: nam qui nihil potest, ille non potens sed potius
impotens haberi debet: sed improbus nihil potest: quandoquidem malum, quod posse dicitur, ex dictis nihil
est; 2o ex potestate Dei: quia quidquid est potentiae, illud Deo convenit: siquidem Deus est summum
bonum, quod supra probatum est esse omnipotens. Sed Deo non convenit, quod improborum est, posse
malum: alioqui non esset summum bonum: igitur nihil est potentiae in malo adeoque nec in improbo homine,
quatenus hic improbus est; 3o ex appetitu ipsius hominis: nam quidquid habet rationem potentiae, illud habet
rationem boni adeoque expeti potest, et ad summum bonum, cujus gratia expetuntur omnia, potest referri.
Atqui patrandi sceleris facultas, qua sola gloriari potest improbus, nullam habet rationem boni, adeoque
expeti non potest, nec ad summum [0795D] bonum referri: ut cuique attendenti patet. Quae omnia
confirmantur auctoritate Platonis, qui in Gorgia et Alcibiade maximam partem eorum, quae in hac oratione
dicta sunt, docuisse videtur.] Nam si, uti paulo ante (20) collegimus, malum nihil est, cum tantummodo
possint, nihil 268 posse improbos liquet. Perspicuum est. Atque ut intelligas, quaenam sit hujus potentiae
vis, summo bono nihil potentius [0795B] paulo ante definivimus. Ita est, inquam. Sed idem, inquit, facere
malum nequit. Minime. Est igitur, inquit, aliquis, qui omnia posse homines (5) putet? Nisi qui insaniat, nemo.
Atqui iidem possunt mala. Utinam quidem, inquam, non possent. Cum igitur, bonorum tantummodo potens,
possit omnia; non vero queant omnia potentes etiam malorum: eosdem, qui mala possunt, minus posse
manifestum est. Huc accedit, quod omnem potentiam inter expetenda numerandam, (10) omniaque
expetenda referri ad bonum, velut ad quoddam naturae suae cacumen, ostendimus. Sed [b [0795B] Potentia
peccandi.] patrandi sceleris possibilitas referri ad bonum non potest. Expetenda igitur non est. Atqui
[0796A] omnis potentia expetenda est. Liquet igitur malorum possibilitatem non esse potentiam. Ex quibus
omnibus bonorum quidem potentia, malorum vero (15) minime dubitabilis apparet infirmitas. Veramque illam
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[c [0795B] In Gorgia et Alcibiade primo; unde Boetius videtur sua haec rationum momenta hausisse. ]
Platonis esse sententiam liquet, solos, quod desiderent, facere posse sapientes: improbos vero exercere
quidem quod libeat, quod vero desiderent, explere non posse. Faciunt enim quaelibet, dum per ea, quibus
delectantur, id bonum, quod desiderant, se adepturos putant; sed minime (20) adipiscuntur, quoniam ad
beatitudinem [d [0795B] Quam tamen improbi, etiam peccando, expetunt.] probra non veniunt.
Quos vides sedere celsos
Solii culmine reges,
Purpura claros nitente,
Septos tristibus armis,
Ore torvo comminantes 5
Rabie cordis anhelos;
Detrahat si quis superbis
Vani tegmina cultus,
Jam videbit intus arctas
Dominos ferre catenas. 10
270 Hinc enim libido versat
[0797A] [ [0797C] 17 et 18. Cum caput tot unum cernas ferre tyrannos.] Cum videas, unum principem tot
perturbationibus, veluti totidem tyrannis, subjici. 19. Ipse.] Cuidam videbitur dicendum ipsum; nempe quia
videtur referri ad praedictum, caput: sed haec est syllepsis, sive compositio sensus potius quam verborum:
sicut dicitur Terentio: ubi est scelus qui me perdidit? Ciceroni: duo importuna prodigia, quos egestas:
Horatio: daret ut catenis fatale [0797D] monstrum, quae generosius perire quaerens, etc.]
Avidis corda venenis,
Hinc flagellat ira mentem
Fluctus turbida tollens,
Moeror aut captos fatigat, 15
Aut spes lubrica torquet.
Ergo, cum caput tot unum
Cernas ferre tyrannos,
Non facit, quod optat, ipse
dominis pressus iniquis.
[1] Dopo che la Filosofia ebbe cantato dolcemente e soavemente questi versi, con dignità
d'aspetto e gravità di parole, io, non ancora del tutto dimentico dell'ambascia che mi opp rimeva
l'animo, la interruppi mentre s'accingeva a dire dell'altro ancora, ed esclamai: «O tu, che
precorri la vera luce, quel che tu hai detto fino ad ora si è dimostrato non solo divino per la sua
forza speculativa, ma anche invincibile per le tue argome ntazioni; e mi hai ricordato cose che,
se pure poc'anzi le avevo dimenticate per il dolore dell'ingiustizia ricevuta, non le avevo tuttavia
del tutto ignorate fino ad ora. Ma è causa, e grandissima, della mia afflizione, che, essendo
buono il dominatore di tutte le cose, possa anche solo esistere il male o restare impunito; e tu
certo ben comprendi quanto di per sé solo questo fatto sia degno di meraviglia. Ma un altro
ancor più grave gli si aggiunge; ed è che, mentre la malvagità regna e fiorisce, la virtù non solo
non viene premiata, ma anche viene gettata sotto i piedi degli scellerati e calpestata, e sconta il
castigo che dovrebbe esser riservato ai delitti. Nessuno mai potrebbe meravigliarsi e dolersi
abbastanza che ciò avvenga nel regno di Dio che tutt o conosce, che tutto può, ma che vuole
soltanto il bene». Ed ella allora: «E sarebbe» rispose «cosa da stupirsene infinitamente, e più orribile di
ogni mostruosità, se, come tu credi, nella casa ordinatissima di un padre di famiglia, per così dire, tanto
eccelso, si facesse gran conto delle suppellettili di nessun valore, e si trascurassero invece quelle
preziose. Ma non è così: se restano salde le conclusioni cui poco fa siamo giunti, vedrai che, per
volontà di colui del cui regno ora stiamo parlando, in verità i buoni sono sempre potenti, i malvagi
sempre ignobili e deboli, che i vizi non rimangono mai senza castigo né le virtù senza premio, che i
buoni sono sempre felici, e i malvagi sfortunati, e molte cose di tal genere, che sopiranno i tuoi lamenti
e ti daranno forza con incrollabile fermezza. E poiché hai visto la forma della vera beatitudine seguendo
le mie indicazioni, e hai anche imparato a riconoscere dove essa risieda, quando abbia esposto quelle
premesse che ritengo necessarie, ti mostrerò la via che ti riconduca a casa. Darò anche ali alla tua
mente, con cui possa levarsi in alto, così che, liberato da ogni turbamento, tu possa tornare sano e
salvo in patria sotto la mia guida, per la mia strada e da me trasportato».
I.Penne ho infatti veloci che nell'alto
cielo posson salire.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte V- Cenni di letteratura latina altomedievale
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Quando l'agile mente le riveste
vede la terra in basso, e la disprezza;
varca l'immensità dell'atmosfera
e le nubi si lascia alle sue spalle;
oltrepassa il polo del fuoco, che s'infiamma
pel rapido moto dell'etere;
finché giunta alle sedi delle stelle,
segue di Febo il tramite
o si accompagna ai passi del gelido vegliardo,
fatta satellite di un tremul'astro,
o ripercorre il circuito d'una stella
ovunque la notte s'accenda di palpiti;
e quando ormai sia sazia
l'ultimo cielo valichi
e il dorso rapido premendo all'etere
goda la sacra luce dell'Empireo.
Quivi il Signor dei re lo scettro tiene
e, reggendo le redini del mondo
- dominator corrusco d'ogni cosa -,
guida con salda man lo svelto cocchio.
Se là ti porti reduce la strada
che ora ricerchi immemore,
questa è, rammento - dirai - la patria;
qui nacqui; qui il mio passo avrà riposo;
e se ti piacerà guardar la notte
terrena, che hai lasciato,
vedrai starvi com'esuli i tiranni
sanguinari dai popoli temuti.
[2] Ed io allora: «Perbacco», dissi «che gran cose prometti! E non dubito che tu possa realizzarle; ma,
ora che me ne hai suscitato il desiderio, non tardare ad appagarlo». «In primo luogo» ella disse «sarà
bene che tu comprenda che la potenza sta sempre con i buoni, e che i malvagi sono privi di ogni
forza; l'una cosa, in effetti, prova l'altra, Poiché il male e il bene sono contrari, una volta provato che il
bene è potente, è evidente la debolezza del male, e viceversa se appare chiaramente la debolezza
del male, è evidente la solidità del bene. Ma perché la nostra affermazione sia più credibile, seguirò
entrambe le vie, confortando ora con l'una ora con l'altra la mia asserzione.
Due sono i coefficienti di ogni atto umano, il volere e il potere. Se l'uno o l'altro manca, non vi è nulla
che si possa portare ad effetto. Se manca infatti la volontà, non si intraprende neppure quello che si
vuole; ma se manca il potere, la volontà sarebbe vana. Sicché, se vedi qualcuno desideroso di
ottenere qualche cosa che non ottiene in alcun modo, non puoi dubitare che gli è mancata la capacità
di ottenere quello che pur avrebbe voluto». «È evidente», risposi «e non si può in alcun modo
negare». «Se invece vedi un tale che ha conseguito quel che voleva, dubiterai forse che gliene sia
mancata la possibilità?». «Per nulla». «Ciascuno dunque deve ritenersi potente in quello che può
fare, ma debole e impotente in quel che non può». «Lo riconosco» dissi. «Orbene, tu ricordi» ella
riprese «che i ragionamenti precedenti ci han portato a concludere che ogni proposito della volontà
umana, pur mosso da diversi interessi si volge alla beatitudine?». «Ricordo» risposi «che anche
questo fu dimostrato». «Ricordi inoltre che la beatitudine si identifica con il bene e che perciò, quando
vien ricercata la beatitudine, tutti desiderano il bene?». «Non dirò che me ne ricordo, poiché lo tengo
ben fisso nella memoria». «Tutti gli uomini e i buoni e i cattivi, si sforzano dunque con egual proposito
di giungere al bene?». «Ne consegue logicamente» dissi. «Ma è certo che i buoni diventano tali per
aver raggiunto il bene». «È certo». «I buoni, dunque, raggiungono ciò che desiderano?». «Così
sembra», «Ma se i malvagi riuscissero a ottenere quel che desiderano, cioè il bene, non potrebbero
essere malvagi». «È così». «Poiché dunque gli uni e gli altri desiderano il bene, ma gli uni lo
raggiungono, gli altri no, può esservi dubbio che i buoni siano potenti, e quelli che sono malvagi,
deboli e impotenti?». «Chi ne dubita» risposi «non è in grado di comprendere né la natura d elle cose
né la logica dei ragionamenti». «E ancora» ella riprese «se vi siano due persone che si propongono
un medesimo fine conforme a natura, ed una di esse lo consegua e lo raggiunga con un mezzo
naturale, l'altra non sia invece assolutamente in grado di utilizzare quel mezzo naturale, e in altro
modo che conviene alla natura non manda ad effetto certo il suo proposito, ma imita colui che vi
riesce, quale di queste due persone, secondo te, è più potente?». «Anche se presagisco ciò che intendi
dire» risposi «desidero che tu me lo esponga più chiaramente». «Potrai forse negare» ella disse «che il
movimento del camminare sia per gli uomini secondo natura?». «Per nulla» risposi. «E dubiti forse che il
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movimento dei piedi sia naturale?». «Neppure di questo» risposi. «Se uno dunque cammina, essendo in
grado di reggersi sui piedi, ed un altro, al quale manca la funzione naturale dei piedi, si sforza di
camminare appoggiandosi sulle mani, quale di essi si può a buon diritto giudicare più potente?». «Va' pure
avanti nel tuo ragionamento» risposi «nessuno metterebbe in dubbio che chi è in grado di esercitare una
funzione naturale sia più valido di colui che non ne è capace». «Ma il sommo bene, che è proposto come
scopo tanto ai cattivi quanto ai buoni, i buoni lo ricercano per il tramite naturale delle virtù, i cattivi invece
cercano di raggiungere quello stesso fine attraverso una molteplicità di brame sfrenate e questo non è il
modo naturale per raggiungere il bene; o forse la pensi diversamente?». «No davvero» ris posi «è chiaro
infatti anche quel che ne segue. Da quello che ho concesso risulta infatti che i buoni sono potenti, i cattivi
invece deboli». «Giustamente mi precorri» ella disse «e questo, come i medici son soliti sperare, è segno
che la natura ha ripreso forza e resiste al male. Ma poiché ti vedo prontissimo a intendere, infittirò le mie
argomentazioni; considera infatti quanto è grande la debolezza dei viziosi, che non sono neppure in grado
di giungere a quella meta a cui l'istinto naturale li conduce e quasi li costringe. E che avverrebbe, se
fossero abbandonati da questo così grande e quasi invincibile soccorso della preveniente natura?
Considera poi quanto grande sia l'impotenza che attanaglia gli scellerati; essi non ricercano infatti profitti
ridicoli o banali, che poi non sono in grado di conseguire pienamente, ma falliscono nel rapporto a quel
che è la sintesi e il culmine di tutte le cose, e, sciagurati, non riescono a realizzare quello che è giorno e
notte l'unico oggetto dei loro sforzi; mentre in ciò eccellono le forze dei buoni. Come tu stimeresti
camminatore senza pari colui che, procedendo a piedi, fosse riuscito ad arrivare fino al punto oltre il
quale non v'è più alcuna via praticabile, così devi necessariamente giudicare valentissimo colui che
tocca l'estremo limite dei desideri, oltre il quale non v'è più nulla. Ne consegue il suo contrario, cioè
che gli scellerati appaiono privi di ogni forza. Perché mai, abbandonata la virtù, corrono dietro al
vizio? Forse perché non conoscono il bene? Ma che cosa vi è di più debole della cecità
dell'ignoranza? O forse ben conoscono le cose che dovrebbero seguire, ma la concupiscenza li fa
andare fuori strada e cadere a precipizio? Ed anche qui l'intemperanza li rende fragili, così da non
essere in grado di resistere al vizio. Oppure abbandonano il bene e si volgono al vizio
consapevolmente e volontariamente? Ma in tal modo non solo cessano d'essere potenti, ma
addirittura di essere; poiché coloro che abbandonano il fine comune di tutto ciò che esiste,
abbandonano del pari anche l'esistenza.
Potrà forse sembrare strana ad alcuno l'affermazione che i malvagi, i quali costituiscono la
maggioranza degli uomini, non esistano; ma le cose stanno proprio così. Infatti non nego che i
malvagi siano malvagi; nego puramente e semplicemente che siano. Come potresti chiamare
"cadavere" un uomo morto, ma non semplicemente "uomo", così sono disposta a concedere che í
viziosi sono malvagi, ma non potrei ammettere che in assoluto siano. È, infatti, quel che mantiene
l'ordine e conserva la natura; ma ciò che si allontana da questa, abbandona anche l'essere che è
riposto nella sua natura. Ma i malvagi, dirai tu, possono pur qualcosa; ed io non vorrei certo negare,
ma questa loro possibilità non deriva dalla forza, bensì dalla de bolezza. Possono fare infatti il male,
ma non sarebbero minimamente in condizione di farlo, se avessero potuto conservare la facoltà di
fare il bene. La possibilità di fare il male dimostra con tutta evidenza che essi nulla possono; perché,
se il male è nulla, come poc'anzi abbiamo concluso, è evidente che non possono far nulla, dal momento
che sono capaci solamente di compiere il male». «È evidente». «E perché tu comprenda quale sia
l'anima di questa potenza, ricorderai che poco fa abbiamo stabilito che nu lla è più potente del sommo
bene». «Così è» risposi. «Ma il sommo bene» ella riprese «non può fare il male». «Per nulla». «Vi è
dunque alcuno» ella disse «il quale creda che gli uomini possono ogni cosa?». «Nessuno, a meno che
sia pazzo». «Ma possono fare il male». «Volesse Iddio che non potessero!» risposi. «Perché dunque
colui che è capace di fare il bene è capace di far tutto, ma coloro che sono capaci anche di far male non
possono far tutto, è chiaro che quelli che possono fare il male hanno minor poter e. A ciò si aggiunge
quello che abbiamo dimostrato, che ogni potenza si deve annoverare tra le cose desiderabili, e che tutte
le cose desiderabili si riferiscono al bene come alla sommità, per così dire, della propria natura. Ma la
possibilità di commettere delitti non può venir riferita al bene, e pertanto non può essere desiderata. Ma
ogni potenza è desiderabile; è perciò chiaro che la possibilità di commettere il male non è potenza.
Da tutto quello che precede appare assolutamente indubitabile la potenza dei buoni e la debolezza dei
malvagi, e si dimostra vera quella sentenza di Platone, che soltanto i sapienti possono fare ciò che
desiderano, mentre i malvagi possono sì, fare quel che loro piace, ma non possono mai compiere quel
che desiderano. Essi appagano qualunque loro gusto, illudendosi di conseguire, per mezzo delle cose
da cui traggono diletto, il bene che desiderano; ma non lo raggiungono affatto, perché le turpitudini non
conducono alla beatitudine».
II. Quei re che vedi assisi in alto trono,
di porpora splendenti, d'armi cinti paurose,
pien di minaccia il volto, di rabbia ansante il cuore,
se togli a quel superbi di vani fregi il velo,
F. D’Alessi © 2002
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vedrai che nel profondo sono avvinti d'assai strette catene:
ora l'insaziabile veleno della libidine sconvolge i loro cuori,
ora impetuosa l'ira scaglia flutti contro la mente,
ed il dolor li opprime nei suoi lacci, o speranza fuggevole li
[angoscia.
Se dunque una sola persona tu vedi subir così tanti tiranni,
di certo non fa quel che vuole, schiacciata da iniqui padroni.
Trad. L. Orbetello, Milano Rusconi, 1979.
Bibliografia
Utet (Canova)
U.Pizzani, s.v. Enciclopedisti, in Dizionario degli scrittori greci e latini, 1, Milano, Marzorati, 1987,
pp. 702-03.
PL Migne, voll. 63-64
63
DE CONSOLATIONE PHILOSOPIHAE LIBRI V.
AN. MANL. SEV. BOETII DE UNITATE ET UNO.
AN. MANL. SEV. BOETII DE ARITHMETICA LIBRI DUO,
EUCLIDIS MEGARENSIS GEOMETRIAE LIBRI DUO AB AN. MANL. SEVERINO BOETIO
TRANSLATI:
BOETHII LIBER DE GEOMETRIA.
64
AN. MANL. SEV. BOETII IN PORPHYRIUM DIALOGI A VICTORINO TRANSLATI.
AN. MANL. SEV. BOETII COMMENTARIA IN PORPHYRIUM A SE TRANSLATUM.
AN. MANL. SEV. BOETII IN CATEGORIAS ARISTOTELIS LIBRI QUATUOR.
AN. MANL. SEV. BOETII IN LIBRUM ARISTOTELIS DE INTERPRETATIONE LIBRI DUO.
EDITIO PRIMA, SEU MINORA COMMENTARIA.
PRIORUM ANALYTICORUM ARISTOTELIS LIBRI DUO AN. MANL. SEV. BOETIO INTERPRETE.
POSTERIORUM ANALYTICORUM ARISTOTELIS LIBRI DUO, AN. MANL. SEV. BOETIO
INTERPRETE.
DE SYLLOGISMO CATEGORICO.
AN. MANL. SEV. BOETII DE SYLLOGISMO HYPOTHETICO LIBRI DUO.
AN. MANL. SEV. BOETII LIBER DE DIVISIONE.
AN. MANL. SEV. BOETII LIBER DE DIFFINITIONE.
TOPICORUM ARISTOTELIS LIBRI OCTO, AN. MANL. SEV. BOETII INTERPRETE.
ELENCHORUM SOPHISTICORUM ARISTOTELIS LIBRI DUO AN. MANL. SEV. BOETIO
INTERPRETE
AN. MANL. SEV. BOETII IN TOPICA CICERONIS COMMENTARIORUM LIBRI SEX.
AN. MANL. SEV. BOETII DE DIFFERENTIIS TOPICIS LIBRI QUATUOR.
AN. MANL. SEV. BOETII DE DISCIPLINA SCHOLARIUM.
=====
DE TRINITATE.
DE PRAEDICATIONE TRIUM PERSONARUM.
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QUOMODO SUBSTANTIAE BONAE SINT.
AN. MANL. SEV. BOETII LIBER DE PERSONA ET DUABUS NATURIS CONTRA EUTYCHEN ET
NESTORIUM, AD JOANNEM DIACONUM ECCLESIAE ROMANAE.
======
CSEL
In Prophyrii isagogen commenta – ed. S. Brandt 1906, Vol. 48
De consolatione philosophiae – ed. W. Weinberger 1934, Vol. 67
Consolatio?
ed. L. Bieler, CC 94, 1957
Institution arithmétique. ed. J.-Y. Guillaumin. 1995.
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Schilling (ed.), De arithmetica., HB, 06/1999, Turnhout, Corpus Christianorum S.L. 94A
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Descrizione fisica: 28 p., [5] c. di tav.: ill.; 24 cm., Collana estratti del Dizionario biograficodegli italiani
Note Generali: Estr. dal Dizionario biografico degli italiani.
Obertello, Luca, Severino Boezio / Luca Obertello, Genova: Accademia ligure di scienze e lettere, 1974
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Fa parte di: Severino Boezio
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Soggetti: Boezio, Anicio Manlio Severino - Fortuna - Francia - Sec. 13.-15.
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Duse, Ugo, Il De institutione musica: un aspetto dell'utopia boeziana della restaurazione / Ugo Duse,
Ferrara: Universita degli studi, 1974
Descrizione fisica: P. 60-140; 24 cm
Note Generali: Estr. da: Pubblicazioni della facolta di Magistero dell'Universita di Ferrara, vol. 1 (1974) n. 4
Gastaldelli, Ferruccio, Boezio / Ferruccio Gastaldelli, Roma: Edizioni liturgiche, 1974, Bibliotheca
Ephemerides liturgicae. Subsidia
1 / Luca Obertello, Genova: Accademia ligure di scienze e lettere, 1974
Fa parte di: Severino Boezio
Tommaso: d'Aquino<santo; 1223-1274>, 2: De re spirituali / S.Thomae Aquinatis; cura et studio Raymundi
M. Spiazzi; accedit Expositio super Boetium De Trinitate et De hebdomadibus / cura et studio M. Calcaterra
Edizione: 2. ed, Taurini; Romae: Marietti, 1972
Fa parte di: S. Thomae Aquinatis Opuscula theologica
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Crocco, Antonio, La Consolatio philosophiae di Boezio: saggio critico-interpretativo, Napoli: Empireo, 1970
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Soggetti: Notker: der deutsche - Traduzioni da Boezio - De consolatione philosophiae - Lingua
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Note Generali: Con il testo del De disciplina scholarium dello Pseudo-Boezio
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studies.Studies and texts
Soggetti: Boezio, Severino . Opuscola sacra - Commento di Gilberto Porretano
Cappa, Innocenzo, Consolazione della filosofia di Anicio Manlio Torquato Severino Boezio: esposizione e
commenti / Innocenzo Cappa, [Milano]: Garzanti, stampa 1940
Alfonsi, Luigi, Dante e la "Consolatio philosophiae" di Boezio / Luigi Alfonsi, Como: C. Marzorati, 1944, Studi
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Note Generali: Estr. da: Ticinum, giugno 1941, n. 8.
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Soggetti: ALIGHIERI, DANTE - Divina Commedia - Influssi di Boezio Anicio Manlio Torquato
Puccinotti, Francesco, Il Boezio: ed altri scritti storici e filosofici / di Francesco Puccinotti, Firenze: F. Le
Monnier, 1864
ICCU?? per Autore
Bettini, 3, 905-07; Conte 598.
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"Boezio¸ Anicio Manlio Torquato - Corso"
Anicius Manlius Torquatus Severinus Boetius.
Boezio visse tra il 480 circa e il 524 o, al massimo, il 526 dopo Cristo, all'epoca di Teodorico, da cui venne
tenuto per diverso tempo in grande considerazione, soprattutto come mediatore tra Romani e Goti.
Al culmine di una notevole carriera politica venne accusato di alto tradimento, imprigionato e infine
giustiziato.
Nella sua alacre opera di divulgazione della filosofia di Platone ed Aristotele, Boezio redasse numerose
traduzioni e compose alcuni trattati su alcune importanti tematiche dei due filosofi greci. Si occupò anche di
questioni teologiche come pure di musica (De institutione musicae), di matematica (De institutione
arithmetica e De geometria) e di astronomia.
La sua opera più famosa tuttavia è il De consolatione philosophiae, scritta in prigione intorno al 524, uno dei
libri più letti nel Medioevo.
In essa Boezio immagina che la Filosofia lo consoli della prigionia ricordandogli come ogni avvenimento sia
voluto provvidenzialmente da Dio, anche quando perdiamo tutto quello cui attribuiamo importanza.
"Boezio¸ Anicio Manlio Torquato - Encarta"
Boezio, Anicio Manlio Torquato Severino (Roma 480 ca. - Pavia 524 ca.), filosofo e matematico latino. Nato
da nobile famiglia, Boezio si guadagnò la stima di Teodorico, il re degli ostrogoti che allora governava Roma,
e nel 510 venne nominato console. Accusato di tradimento dai suoi nemici, benché innocente, venne
incarcerato a Pavia e infine giustiziato.
Durante la prigionia scrisse il De Consolatione philosophiae (523 ca.), un'opera filosofica in forma allegorica
che ebbe un influsso enorme sul pensiero medievale. Prima di essere incarcerato, Boezio scrisse e
commentò l'Isagoge di Porfirio, dando avvio alla cosiddetta disputa sugli universali fra nominalisti e realisti,
scrisse trattati di logica che influenzarono profondamente la filosofia scolastica, nonché traduzioni e
commenti alle opere di Aristotele, grazie ai quali i dotti nel Medioevo conobbero il grande filosofo greco; si
occupò anche di musica (De institutione musicae), aritmetica (De institutione arithmetica) e geometria (De
geometria).
"Boezio¸ Anicio Manlio Torquato - Treccani"
Boezio Anicio Manlio Torquato Severino (Roma 480 d.C.ca. - Pavia 524). Scrittore latino. Di nobile origine,
della gens degli Anici convertitisi al cristianesimo da tempo e che avevano occupato importanti cariche
imperiali, fu protetto da Simmaco, del quale poi sposò la figlia, e incoraggiato negli studi da Cassiodoro.
Ancora giovane entrò nella vita pubblica e per le sue qualità, il prestigio del nome e le amicizie salì
rapidamente ad alte cariche: fu questore, console (510), magister officium, tenuto in grande considerazione
da Teodorico. Era all'apice del successo e a lui faceva capo quella parte di nobili e grandi proprietari italici
legati alla tradizione romana e ostile ai Goti, quando, per quanto egli si dichiarasse un conciliatore fra
Romani e Goti, cadde in sospetto di Teodorico. Difendeva a Verona il senatore Albino accusato di
tradimento a favore dei Bizantini quando Teodorico, in uno di quei cambiamenti di umore che
caratterizzarono i suoi ultimi anni, lo accusò improvvisamente di alto tradimento. B. fu allora incarcerato e
giustiziato nella stessa torre del battistero di Pavia, sua prigione, o nell'ager Calventianus presso Milano. Dal
sec. VIII venne venerato come martire, culto approvato da papa Leone XIII per Pavia, dove nella chiesa di S.
Pietro in Ciel d'Oro è un sarcofago bizantino contenente le sue ceneri.
B. intese con la sua opera rendere accessibile al mondo romano Platone e Aristotele nella loro
integrità; piano che solo parzialmente riuscì ad attuare. Redasse numerose traduzioni e in altri trattati espose
la dottrina del sillogismo e della distinzione. La sua opera più famosa è il De consolatione philosophiae,
scritta in prigione tra il 523-24, in 5 libri, divenuto uno dei libri più letti nel Medioevo. In essa B. immagina che
una nobile donna, la Filosofia, gli compaia in carcere e per consolarlo gli rammenti come ogni avvenimento
sia voluto da Dio, benefico ed onnipotente; quelli che noi consideriamo beni non sono veri beni; di
conseguenza non vi è nessuna perdita se ci sono tolti. L'ispirazione dell'opera, neoplatonica e stoica, risente
particolarmente di Proclo e Seneca. Non vi è contenuta nessuna confessione di fede cristiana. Il concetto di
Dio è legato a quello del Sommo Bene platonico e quello di Providenza ad un panteismo stoico. In una
traduzione inglese fatta dopo l'897 da re Alfredo vi si trovano infatti una serie di modifiche tese ad
accentuare lo spirito cristiano. Il De consolatione venne stampato per la prima volta nel sec. XV; i principali
manoscritti sono nei codici Bodleiano e Cottoniano.
Boezio - Riposati
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I. - Vita. - Anício Manlio Torquato Sever i n o B o e z i o (Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius)
della nobile gens romana degli Anicii (480 c., 524), iniziò presto una carriera ambíta presso il re ostrogóto,
Teodorico, che lo creò magister officiorum e gli aifidò la direzione di tutta la domus reale e della cancelleria.
Trovatosi in una situazione difficile, perché doveva proteggere i Gttolici e i Romani dagli Ariani e dai Goti,
che imperavano negli alti gradi militari e presso la corte, fu accusato di magía e di alto tradimento per aver
difeso il senatore Albino. Incarcerato a Pavia, fu poi condannato a morte e giustiziato nell'ager Calventianus,
presso Milano, nel 524. Aveva sposato Rusticiana, la figlia di Aurelio~-Símmaco, ed era cristianO.
II. - L'opera. - Pur durante una vita cosí presto stroncata, Boezio fu di straordinaria attività; abbiamo infatti
tuttora la sua traduzione e i suoi commenti alle Cafegorie e al De interpretattone di Aristotele, e all'Isagòge di
Porfirio, come pure il commento, giuntoci non intero, ai ToptVca di Cicerone(l). Si occupò di questioni
filosofiche nella Introductio ad syllogismos categortcos, nel De syllogismo categortVcog nel De syllogismo
hypothettVcos entrambi in due libn, e nel^De divisione. Anche alle arti del quadrivio, in quanto introduttive
alla filosofia, si dedicò nella Institutio arithmettVca, in 2 libri, nella Instttutio mttstVca, in 5 libri e nella
Geometria ed Astronomia, giunteci però solo in frammenti.
Si interessò anche a questioni teologiche negli scritti De sancta Trinitate (dedicato a Simmaco, con relative
appendici) e nel Contra Eutpthen et Nestorlum. Ma la sua opera piú personale ed originale sono i cinque libri
De consolatione PhilosopAtVae, scritti in carcere. Immagina che gli venga davanti la Filosofia, in veste e
figura muliebre, per consolarlo, indicandogli che la felicità assoluta sta solo presso Dio e chiarendogli il
procedimento
misterioso
della
Provvidenza,
nonchè
altri
problemi
di
elevato
sentíre
filosoficodogmatico,cristiano.
III. - Valore del 'De Consolatione Philosophiae '. - E un opera, questa, in cui non si awerte esplicitamente una
flessione di linguaggio cristiano, ma la filosofia stessa appare mossa da una visione superiore della vita, da
alti pensieri ultraterreni. Si nota in essa una ricchezza di dottrina, raccolta in parte da Anstotele, da Cicerone,
da Sèneca e Agostino, in un misto di prosa e di versi di varia natura, una forte tendenza allegorica, una
forma letterariamente accurata e tale da spiegare, assieme ad altro, lenorme fortuna incontrata dalla
Consolatio, soprattutto nel Medio Evo. Non potevano sfuggire né la vivezza del dialogo né la nitidezza del
linguaggio né la sostenutezza dello stile e, particolarmente, il forte ed augusto accento di umanità, di cui
essa è tutta permeata.
Boezio, M. von Albrecht, Storia della letteratura latina, 3, Torino, Einaudi, 1996 (origin.., BernMunchen, K.G. Saur, 1992)
15.4. Tecnica letteraria.
Boezio nobilita la forma della Menippea con la regolarità dell'alternarsi di verso e prosa ed il suo contenuto
con la rinuncia agli elementi di volgarità caratteristici di quel genere. Non si preclude però completamente la
satira della follia degli uomini (ivi comprese le follie dei filosofi stoici ed epicurei), un tema dell'Icaromenippo
lucianeo.
Anche l'inserimento di proverbi (p. es. i, 4) e citazioni greche alleggerisce la rigidità della forma. L'arte della
citazione è soggetta in Boezio a condizioni di particolare difficoltà, giacché nella sua prigionia egli non ha a
disposizione una biblioteca e deve contare esclusivamente sulla memoria. Perciò la caccia alle citazioni non
va spinta troppo oltre. In conformità con la situazione di fatto, si tratta spesso di detti proverbiali leggermente
modificati, non necessariamente attinti a lettura di prima mano. Concetti già formulati epigrammaticamente
da Ovidio e da Orazio vengono ulteriormente accentuati in questo senso da Boezio: « quem felicitas amicum
fecit, infortunium faciet inimicum»`.
Spesso però Boezio ha presente anche il contesto, come nel caso di «parole guida», slogan protettrici`:
l'intendimento della frase «felix qui potuit» (3 m. rz) è affine a quello virgiliano (georg. z, 490); solo che
Boezio, invece che alla filosofia epicurea, pensa a quella neoplatonica, e non è la conoscenza della natura a
portare all'affrancamento, bensí la contemplazione interiore. Un'altra allusione alle Georgiche serve a
esprimere il concetto fondamentale del secondo libro della Consolatio: se Boezio sapesse riconoscere ciò
che di buono c'è nella sua vita, sarebbe felice (z pr. 4 «o te si tua bona cognoscas felicem»; cfr. Verg. georg.
z, 4g8). Una frase di Lucano rivela il trionfo interiore di un uomo esteriormente sconfitto: «victricem quidem
causam dis, victam vero Catoni placuisse familaris noster Lucanus admonuit» (Lucan. r, iz8). Qui le citazioni,
come già abbiamo osservato in Agostino, introducono nella sfera piú intima dell'universo concettuale
dell'autore. Solo che in Boezio esse sono «profane».
La molteplicità degli strumenti letterari di cui Boezio dispone si compone in lui in una superiore unità. Cosí
nel primo libro alla disperata elegia fa seguito la rivelazione della Filosofia. Versi di dattici mettono poi a
nudo il contrasto fra l'elevato slancio del filosofo e la sua presente pusillanimità. Seguono una diatriba della
Filosofia e l'autodifesa di Boezio in forma di orazione giudiziaria; i versi successivi arieggiano lo stile della
preghiera. A questa disperata richiesta d'aiuto la Filosofia risponde nello stile della suasoria; segue una
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catechesi sul tipo di un dialogo platonico. Il componimento poetico finale, in adonii usati stichicamente, come
i metricologi antichi trovavano già in Saffo, ha un suono festoso` , paragonabile agli inni anapestici del
Pedagogo di Clemente Alessandrino ed ai versi di Sinesio.
Il mutare dei temi è dunque accompagnato da una fine variazione delle sfumature stilistiche". Ogni
affermazione riceve la forma letteraria che le si adatta. Il piano psicagogico d'insieme innal
za addirittura l'alternanza dei generi a strumento artistico di contrasto e d'intensificazione al servizio di un
complesso piú ampio. La multiformità letteraria della Consolatio è controllata da una forte disciplina interiore.
Cosí le singole parti non producono un'impressione di eterogeneità. Ne è una prova il rigoroso parallelismo
nella struttura del secondo libro". Si è tentati di designare come «classica» questa intima unità, documentata
nel buon gusto riconoscibile dappertutto. Per i posteri Boezio è in effetti divenuto un classico. Ma la sua
«classicità» non è la conseguenza, bensí la causa del suo vasto successo.
Caratteristico della tecnica letteraria dell'opera è l'oscillare fra poesia e prosa`. I componimenti poetici
equivalgono a momenti di pausa. Confermano quanto è stato acquisito in precedenza o preparano ciò che
segue, appellandosi all'immaginazione invece che alla ratio. In questa connessione i miti acquistano un
significato esemplare; cosí è per la trasformazione degli uomini in animali ad opera di Circe (4 m. 3): chi ha
subito la metamorfosi conserva la propria coscienza umana; di gran lunga peggiore è però la perdita del
proprio essere abbandonandosi alla passione (interpretazione presente nella tradizione platonica` ed in
quella stoica`). Ercole (4 m. 7) appare come simbolo del sapiente, che accetta e supera il proprio destino:
cosí l'eroe era interpretato già dalla StoaR". Dall'esempio di Orfeo viene mostrato com'è rovinoso gettare lo
sguardo nel Tartaro e quanto precario è l'eros (3M. 12). L'approccio di Boezio è platoneggiante; con la sua
elaborazione egli addita la via all'interpretazione medievale del mito`. Già la prima scena è concepita
allegoricamente: la Filosofia si è confezionata da sola il proprio abito (i pr. i). Questo dettaglio deve far
pensare ad Atena (Iliade 5, 734 sg.). Questa dea veniva interpretata come la Phronesi.r (Schol. A ad. Il. r,
195 sg.); è infatti Atena a trattenere l'irato Achille, prendendolo per i capelli, dall'attaccare Agamennone.
Plotino cosí dice a questo proposito: « se uno potesse volgersi [convertirsi] [...] avendo la fortuna di essere
tirato per i capelli da Atena, costui [...] vedrebbe Dio» (6, 5 [23], 7, m).
L'allegoresi come atteggiamento interpretativo determina l'accoglimento dell'antico mito da parte dei filosofi;
analogamente si comporta Boezio nei suoi versi filosofici, preparando cosí la strada al perdurare
dell'influenza del mito pagano nel medioevo. L'allegoresi e la raffigurazione allegorica sono per cosí dire le
due mani della tradizione tardoantica romana: quella che riceve e quella che dà.
Boezio svolge attraverso un codice metaforico coerentemente mantenuto - è questa la definizione tecnica
dell'allegoria - il tema dell'apparire della Filosofia, della sua funzione terapeutica (qui egli si appoggia a
Seneca, il piú grande terapeuta dell'anima della letteratura latina), della cacciata delle Muse, dell'aspetto e
delle parole della Fortuna, ed altri dettagli. Cosí la propensione all'allegoria, già presente in Platone, si
unisce alla tendenza analoga della letteratura e dell'arte figurativa romana ad esprimere contenuti
concettuali in immagini artistiche - un procedimento di elaborazione che celebra i suoi trionfi da Ennio,
passando per Lucrezio, fino ad Ovidio e Claudiano. In quanto sintesi di elementi che non appaiono insieme
in questa forma nella realtà esterna, questo tipo d'arte costringe a prendere in considerazione un significato
piú alto. Come sembianza che l'immaginazione ha creato essa stessa, con la guida della ragione, l'allegoria
è un principio rappresentativo gravido di conseguenze, che resterà fecondo nel medioevo, nel Rinascimento,
e nell'età barocca. Essa scompare allorché nell'arte interiorità e produttività non vengono piú concepite come
guidate ad un tempo dall'emotività e dalla ragione, bensí come elemento irrazionale. Oggi riacquista valore
l'interesse per questo aspetto dell'elaborazione artistica romana.
Un modulo mentale importante anche per Boezio è la correzione e spiritualizzazione d'idee e concetti
correnti: ricchezza, potenza, dignità (3 pr. 4), patria e risanamento (4 pr. z; 4; 6) sono da lui intesi in senso
interiorizzato (2 pr. 6). A simili capovolgimenti di valore si assiste specialmente allorché viene superata una
posizione precedente. Poiché l'opera è coscientemente strutturata per gradi, proprio qui questa tecnica, nota
dalla parenesi filosofica, appare di continuo. Ne fa parte anche l'interiorizzazione d'idee espresse con
immagini: ad esempio la sostituzione della biblioteca col pensiero attivo`.
Boezio sa comunicare le proprie idee con immaginosa efficacia. Anche ad esseri sovrumani vengono
attribuiti tratti tipicamente romani: Fortuna assomiglia ad una gran dama col suo seguito (z pr. z), Dio ad un
paterfamilias (4 pr. i; cfr. l'epilogo di Prudenzio ed i passi paolini che vi echeggiano). E inoltre presente una
sensibilità che ricorda Virgilio per stati d'animo d'atmosfera. La descrizione del sorgere del sole e
dell'impallidire delle stelle (21n. 3) cattura il clima psicologico di un mattino nell'Italia settentrionale. Essa
traspone il fatto naturale in un movimento dell'anima, non riproduce, ma dà forma dall'interno ad
un'immagine mossa capace di assurgere a simbolo. Cosí la natura diviene invero portatrice di esperienze psi
chiche, ma resta sempre presente anche nella sua realtà allo spregiudicato occhio di Boezio. Egli non è un
mistico lontano dal mondo, che guarda solo all'interno, bensí un poeta dell'Italia.
Boezio è un artista raffinato: l'elemento autobiografico è abilmente subordinato alla concezione d'insieme e,
con procedimento psicologicamente accattivante, appare in ordine cronologico in vertito. E prova di
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discrezione non riferire in prima persona i propri successi, ma farli raccontare dalla Fortuna o dalla Filosofia.
Il rapporto col tema della Fortuna (strumento letterario degli scritti consolatorii) rende possibile il confronto fra
presente e passato. Infine Boezio si comporta in modo coscientemente diverso dal suo re: invece di limitarsi
ad accusare, egli concede alla propria avversaria, Fortuna, l'occasione di difendersi, e ricava insegnamenti
dalla presa di posizione di lei (libro z). Cosí la prosopopea, che anche altrove nella letteratura consolatoria
serve a creare distacco (p. es. Sen. Marc. 4 sg.), acquista un'aggiuntiva dimensione di profondità.
15.5. Lingua e stile
.
La lingua di Boezio è per la sua epoca sorprendentemente classica; i tratti specificamente tardoantichi
regrediscono molto, perfino in confronto con Agostino. Un resoconto adeguato dovrebbe partire non
dall'irregolare, ma dal regolare.
Virtuosistico è il dominio del ritmo prosastico e dei metriBZ', insolitamente molteplici, che piú tardi fruttarono
a Boezio l'appellativo di centimeter; egli lo condivide col metrico per eccellenza Te renziano. Il trattamento
della prosodia mostra solamente pochissime libertà. La molteplicità dei ritmi non è fine a se stessa, ma serve
ad esprimere una varietà d'affetti e stati d'animo: i coliambi riflettono la mutevolezza della Fortuna (z m. i). Il
contrasto fra lo sprofondamento elegiaco nel dolore all'inizio del primo libro e l'esortazione a liberarsi dalle
affezioni alla fine trova espressione anche nella diversità dei metri. Mentre l'inizio elegiaco è composto in
distici, alla fine Boezio si serve di adonii impiegati stichicamente, la brevità ed il cadenzato martellare dei
quali suggerisce una calma solenne: «gaudia pelle, I pelle timorem I spremque fu
gato, I nec dolor adsit». Sarebbe allettante inserire i ritmi di Boezio nella storia della terapia musicale antica.
Il patrimonio lessicale, aristocratico e discreto, ha contribuito a far chiamare Boezio l'ultimo classico. Non
mancano però del tutto macchie di colore naturalistico, per esempio delatravi (r pr. 5),
o anche poetismi («carminis mulcedo»; «summum lassorum solamen animorum », 3 pr. i). Il piú evoluto è il
vocabolario astratto e filosofico, che si appoggia a Mario Vittorino e ai Padri della Chiesa a partire da
Tertulliano: insufficientia, possibilitas, praesentarie (hapax), valentia in senso astratto, alteritas (Mar. Vict.,
Aug., Boeth.), pluralitas (Aug., Boeth.). Vocaboli esistenti ricevono un significato specificamente filosofico,
che sovente è determinante fino ad oggi per la terminologia: concetti come «principio», «universale»,
«speculazione», «accidente», «soggetto» ci sono stati trasmessi da Boezio.
Vocaboli greci riflettono in maniera speciale in Boezio la dignità e la sacralità della Filosofia. Essi sono una
specie di «linguaggio distaccato» filosofico, pronunciato da posizione non umana, ma divina, per esempio
(da fonte ignota) in 4 pr. 6. Questa funzione è particolarmente accattivante nel contesto della finzione
narrativa, giacché il greco è in effetti la lingua madre della Filosofia; cosí questo personaggio impiega anche
l'interiezione papae (i pr. 6), in origine greca, per esprimere stupore.
L'autore è cosciente dell'effetto sonoro delle sue parole; non sono certo dovute al caso figure etimologiche
come tendat intentio (i pr. 6), oblectamenta delectant (4 pr. 6); i nessi vicini alla tautolo gia conexione
constringit; proficiscatur exordiis (4 pr. 6); ed un gioco di parole come memoriam maeror hebetavit (r pr. 6).
Di quando in quando appare un oxymoron: «infortunio dixit esse felicem» (citazione euripidea, 3 pr. 7); «hae
ad beatitudinem viae devia quaedam» (3 pr. 8). Ma fenomeni del genere non sono troppo frequenti e non
disturbano l'impressione generale di calma e di gravità.
Forma e contenuto presentano un'affascinante corrispondenza reciproca quando il racconto di diverse
vicende d'alterna fortuna viene compresso in un'unica frase, nella quale l'accumulo di aggettivi e participi
suscita un'impressione di pienezza concentrata: « nesciebas Croesum regem Lydorum Cyro paulo ante
formidabilem mox deinde miserandum rogi flammis traditum misso caelitus imbre defensum?» (`non sapevi
che Creso, re dei Lidi, poco prima temibile per Ciro, poi miserevole, consegnato alle fiamme del rogo, fu
difeso dalla pioggia inviata dal cielo?': 2 pr. z).
Nel caso di idee logore, come quella di Fortuna - la conosciamo anche dagli scritti consolatorii di Seneca - è
particolarmente importante conferire magnificenza all'oggetto attraverso indovi
nati procedimenti retorici: la seguente è una patetica rivolta contro un noto metodo consolatorio: « nam in
omni adversitate fortunae infelicisimum est genus infortunii fuisse felicem» (`giacché in ogni avversità di
fortuna l'infelicità piú straziante è essere stati felici': 2 pr. 4)82Z. Non meno epigrammatica l'osservazione
sulle pietre preziose: « quas quidem mirari homines vehementer admiror» (`mi meraviglio altamente che gli
uomini le considerino meravigliose': 2 pr. 5). A Boezio riescono a volte frasi estremamente concise
d'altissima concentrazione poetica, per esempio 2m. 4: «ridens aetheris iras» (`ridendoti delle ire del cielo'):
non a caso un'immagine del soggetto umano capace di sfidare un universo.
Lo stile di Boezio possiede fascino intellettuale. Come quasi nessun altro romano, egli sviluppa
rigorosamente ogni concetto dal precedente, prendendo sul serio ogni concepibile obiezione, per
eliminarla dopo un'analisi logica. Una bellezza matematica è propria delle sue definizioni, con la loro
collocazione dei termini essenziali a notevole distanza fra loro, il che produce un effetto architettonico: «
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aeternitas igitur est interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio» (5 pr. 6); «licet igitur definire casum
esse inopinatum ex confluentibus causis in his quae ob aliquid geruntur eventum» (5 pr. i).
15.6. Orizzonte concettuale I.
Riflessione letteraria, teoria della scienza.
Come Platone, Boezio pone la letteratura al servizio della filosofia; a Roma egli è senz'altro il primo autore,
dopo Lucrezio, nel quale ciò si verifica tanto esplicitamente. Dal punto di vista lette
rario Boezio perfeziona determinate forme di presentazione di particolare rilevanza a Roma - come
l'allegoria, il prosimetro -, lasciandole in eredità al medioevo, che le svilupperà ulteriormente; ma supera gli
schemi concettuali retorici che ha a disposizione attraverso moduli rigorosamente filosofici. L'intento dello
scrittore Boezio appare chiaro solo partendo dalla sua teoria della scienza.
"Z Lo stesso concetto è posto in bocca da Dante a Francesca da Rimini: Inf. 5, rzrrz3: «nessun maggior
dolore I che ricordarsi del tempo felice I nella miseria». Non si tratta di un tópos, ma di una citazione, perché
Francesca aggiunge: «e ciò sa il tuo dottore».
Con essa egli non innalza un sistema di rigidità soffocante, ma considera il cammino attraverso le singole
arti e scienze per cosí dire come una scala che egli sale gradino per gradino, sempre superando il concetto
appena raggiunto con uno piú elevato. Da questo punto di vista appare evidente che senso ha per Boezio la
compilazione di manuali didattici. Anche dietro il suo quadrivium si trova indubbiamente l'idea di trattare di
seguito in un ordine ragionevole diverse forme di attività intellettuale e di sviluppare in ogni campo specifico
competenze capaci di condurre oltre. Egli diviene cosí il perfezionatore filosofico del filone enciclopedico
della letteratura latina ed uno dei grandi maestri dell'Europa; nuovo e rivolto al futuro, in questa sua funzione,
è il fatto che la cultura viene da lui posta coerentemente sulla solida base della logica e della matematica.
Accanto a questa capacità di distacco, visione d'insieme e trapianto, si colloca con validità almeno pari
quella opposta: acume ed approfondimento, lo sforzo di separare nettamente fra loro i campi specifici ed
anche all'interno di ogni disciplina enucleare i singoli problemi come con un coltello da dissezione (piccoli
gioielli sono i trattati teologici ed il quinto libro del De consolatione).
La teoria della scienza di Boezio, con la classificazione in scienze fisiche, matematica e teologia, esercita a
lungo il suo influsso, tanto piú che Tommaso d'Aquino la riprenderà e la difenderà nel suo commento al De
trinitate. Agostino bolla la fisica come « arroganza»; in Boezio essa conserva il suo posto nel sistema delle
scienze. In questo egli è piú aristocratico, Agostino teologo e neoplatonico.
Nei suoi scritti teologici Boezio non basa pressoché mai le proprie argomentazioni su citazioni bibliche. Il
secondo di questi trattati (Utrum pater et filius...) si chiude con la frase: «et fidem, si poteris, rationemque
coniunge» (`unisci, se puoi, la fede e la ragione'). Questo principio di una rigorosa analisi scientifica è
formulato da Boezio perfino all'inizio di uno scritto teologico, con richiamo alla matematica (subst. bon.
praef.): «ut igitur in mathematica fieri solet ceterisque etiam disciplinis praeposui terminos regulasque quibus
cuncta quae sequuntur efficiam» (`come dunque si suole fare nella matematica ed anche nelle altre scienze,
ho premesso i termini e le regole in base a cui eseguirò tutto ciò che segue'). Seguono nuove premesse;
significativamente queste sono puramente filosofiche; lo stesso vale per la trattazione vera e propria del
problema. Questa forma espositiva «matematica» comporta obscuritates brevitatis: brevità ed oscurità fanno
parte del linguaggio tecnico della scienza. Per oscurità non si deve qui intendere qualcosa come difetto di
chiarezza, bensí un modo di esprimersi che raggiunge solamente l'esperto. Boezio è cosciente di utilizzare
parole ed accezioni nuove (trin. praef.). Il vocabolario deve trasmettere il contenuto, ma anche velarlo agli
sguardi dei profani. L'atteggiamento è platonico-esoterico (cfr. subst. bon. praef.). Non si tratta tuttavia di una
teoria generale della comunicazione (o dell'«esclusione »), ma semplicemente di una teoria dell'informazione
tecnico-scientifica. Che Boezio è capacissimo di scrivere per un pubblico piú ampio è dimostrato dalla
Consolatio come pure da tutta la sua opera pedagogica.
Un orientamento matematico del pensiero è alla base anche della concezione dell'impianto del quadrivium
come propedeutica alla filosofia"'. Qui si inserisce anche la teoria della musica`.
La definizione del numero derivata da Nicomaco di Gerasa è estremamente concisa e pragmatica:
«numerus est unitatum collectio vel quantitatis acervus ex unitatibus profusus» (`il numero
è un insieme di unità o un ammasso quantitativo procedente da unità': arithm. i, 3). Boezio conosce anche la
distinzione, importante per la logica, fra «numero» e «quantità»: «numerus enim duplex est, unus quidem
quo numeramus, alter vero qui in rebus numerabilibus constat. Etenim unum res est; unitas, quo unum
dicimus ... ergo in numero quo numeramus repetitio unitatum facit pluralitatem; in rerum vero numero non
facit pluralitatem unitatum repetitio, vel si de eodem dicam `gladius unus, mucro unus, ensis unus'; potest
enim unus tot vocabulis gladius agnosci» («il concetto di numero è doppio, quello con cui numeriamo e
quello che risiede nelle cose numerabili. `Uno' infatti è un oggetto; l'unità è ciò che ci permette di dire `uno' ...
Dunque nel numero con cui numeriamo la pluralità è prodotta dal ripetersi delle unità; nel numero degli
oggetti, invece, la pluralità non è prodotta dal ripetersi delle unità, né dicendo dello stesso oggetto: `una
spada, una lama, un brando'; pur con tanti vocaboli si può infatti riconoscere che si tratta di un'unica spada»:
trin. 3; analogamente Boeth. herm. sec. IvIErsEx 56, 12). Gli storici moderni della filosofia 115 che datano la
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte V- Cenni di letteratura latina altomedievale
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distinzione fra «quantità» e «numero» all'anno 1884 la pongono in epoca troppo tarda. Per Teone di Smirne
(m sec. d. C.) unità (~uovàg) e uno (~v) si distinguono come numero e numerato`.
Boezio possiede dunque in particolare misura la capacità di applicare ad altri campi le intuizioni ed i metodi
di cui è debitore alla sua formazione matematica. In termini moderni: è un genio del trapianto metodologico.
Ciò è assai piú della capacità, che perlopiú gli si riconosce, di trasmettere il sapere - capacità che condivide
con altre, meno significative figure della storia del pensiero.
15.7. Orizzonte concettuale II.
Due risultati filosofici di Boezio vanno messi in rilievo: la definizione della persona-' e la discussione sul
libero arbitrio. Ancora Tommaso d'Aquino nelle sue analisi del concetto di persona (summa theol. i, 29, r-3)
prenderà le mosse da Boezio: «persona è la sostanza individuale di una natura dotata di ragione», naturae
rationabilis individua substantia (c. Eut. 3). Qui un'antica esperienza romana viene elevata alla luce del
razionale. La consuetudine linguistica latina rileva in persona l'aspetto della maschera, del ruolo, ma anche
quello del rango, della dignità. L'uso linguistico del diritto, dapprima limitato ai liberi, poi allargato a tutti gli
uomini, ha qui preparato la strada al cristianesimo. Boezio è il primo a definire questo concetto
essenzialmente latino partendo dalla tradizione neoplatonica, e non in maniera giuridico-formale, ma con
riferimento al contenuto. La definizione della persona come sostanza, non come funzione, è dunque
stimolata dal cristianesimo, che riconosce valore irripetibile ad ogni uomo, in quanto giudicato degno della
redenzione nella sua qualità di creatura divina. Se si pensa all'ostilità dello stato platonico nei confronti della
personalità, si riconosce che Boezio è ben piú di un semplice tramite di filosofia greca. Per la verità egli
impiega il concetto di persona per un'asserzione relativa alla divinità, ma la sua definizione si adatta molto
meglio alla persona umana (su questo punto Tommaso d'Aquino e la ricerca moderna sono d'accordo).
Analogamente Agostino aveva sviluppato una psicologia umana sulla base del problema della Trinità.
La Patristica guarda alla romanità da un osservatorio indipendente e la fa risorgere a nuova vita in un primo
Rinascimento. La letteratura latina acquista coscienza di sé; essa raggiunge un nuo
vo livello di riflessione. Agostino e Boezio completano la ricezione della filosofia greca ed innalzano la lingua
latina a strumento scientifico. Essi forgiano cosí le armi intellettuali per il medioevo e l'età moderna.
Boezio analizza autonomamente anche il rapporto fra prescienza divina e libero arbitrio umano. Il problema
del libero arbitrio` inizia all'epoca dei sofisti; Socrate crede all'involontarietà delle male azioni. La discussione
rimane dapprima nella sfera etica, la libertà di scelta; ciò vale ancora per Aristotele (Etica Nicomachea). Nel
mito finale della Repubblica Platone presuppone una libera scelta preesistenziale; il neoplatonismo cerca in
questo mito una risposta al problema del libero arbitrio. Il problema si pone in tutta la sua difficoltà agli stoici,
giacché per essi da un lato la vicenda cosmica è soggetta alla necessità, in quanto dominata da una rigida
causalità, dall'altro l'uomo viene definito come essere agente in maniera etica (ossia liberamente). Pertanto
egli può realizzare la sua libertà solo nell'intima adesione al fato, le cui serie causali sono al tempo stesso
espressione della finalità della pronoia divina. Di Proclo è conservato in traduzione latina uno scritto sulla
provvidenza, il fato ed il libero arbitrio. Scolaro di Proclo è Ammonio, maestro del nostro autore.
Boezio prende le mosse dall'osservazione"' che il problema è stato trattato da Cicerone in rapporto con la
divinazione (g pr. 4). Egli non pensa soltanto al De divinatione, ma anche alla sintetica discussione di
Agostino (civ. 5, 9) sulle orme di Cicerone (De natura deorum, De divinatione e De fato). Boezio utilizza
inoltre il proprio commento al De interpretatione aristotelico, precisamente nella seconda redazione. Ivi egli
cerca da aristotelico - ed in accordo con Cicerone - di salvare il «possibile» per amore della libertà. Solo
nella Consolatio, però, trova una soluzione che rende giustizia anche alla prescienza di Dio ed è dunque
accettabile per il cristiano.
Dio è eterno in senso diverso dal mondo: mentre quest'ultimo è immerso in un decorrere temporale che
procede senza fine, egli è al di sopra del tempo ed osserva ogni vicenda come presente, sia questa per noi
passata o futura. Questa preveggenza divina non elimina tuttavia il libero arbitrio dell'uomo. Occorre infatti
distinguere due tipi di necessità: la semplice e l'ipotetica`. Se si osserva allo stesso tempo come il sole sorge
e come un uomo si muove attraverso il paesaggio, entrambi i fatti, mentre avvengono, sono necessari.
Prima che fossero compiuti, però, la necessità era propria solo del levarsi del sole; l'uomo, invece, si
sarebbe anche potuto astenere dalla sua passeggiata. Quando dunque Dio osserva tutti gli avvenimenti
della vicenda cosmica come contemporanei e presenti, essi sono necessari come eventi facenti parte della
sua visione. Ma, proprio come potrebbe fare un osservatore umano, egli è in grado di distinguere,
relativamente al loro realizzarsi, se ciò dipende dalla necessità o da libera decisione. Cosí la prescienza di
Dio non elimina il libero arbitrio. L'uomo è responsabile delle sue azioni; speranza e preghiera non sono
vane, purché si desideri ciò che è giusto.
Due obiezioni alla filosofia di Boezio s'impongono: una d'ordine filosofico-gnoseologico, una teologicosoteriologica. La prima: secondo Boezio (cfr. Aristot. anima 3) all'animale compete 1'imaginatio, all'uomo la
ratio, a Dio (diversamente che in Aristotele) 1'intellectus (5 pr. 5). La forma piú elevata di conoscenza include
via via quella inferiore, ma non è vero il contrario. Come può dunque l'uomo, dotato solo di ratio, conoscere
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ed affermare qualcosa su Dio ed il suo intellectus? La problematica è stata forse afferrata in tutta la sua
profondità solo da Kant; ma anche per la sua epoca la coscienza del problema è poco sviluppata su questo
punto nella Consolatio; si pensi all'opposto al crescente atteggiamento autocritico di Agostino nelle questioni
metafisiche. Lo stesso Lattanzio conosce la difficoltà gnoseologica e la risolve a suo modo, facendo derivare
la capacità di conoscere dalla «stazione eretta» conferita dal battesimo. Negli scritti teologici Boezio
sottolinea peraltro la differentia praedicationis (trin. 4), un principio metodico che sarà continuato dalla
Scolastica, nelle sue prudenti clausole relative all'analogia ed all'eminentia. Il problema gnoseologico non
viene però chiaramente risolto neppure nel De trinitate; non va oltre un allusivo richiamo alla grazia`. Dalla
conclusione del De trinitate si potrebbe per la verità dedurre che Boezio consideri la filosofia un'ancella della
teologia. È forse vero, piuttosto, che egli considerasse suo dovere portare un contributo alle questioni
teologiche del tempo dal punto di vista della propria scienza, vale a dire come esperto di logica. In un certo
senso gli scritti teologici sono piú chiari sotto l'aspetto gnoseologico, perché, a differenza della Consolatio, si
richiamano per Dio e l'intelligibile alla rivelazione o alla dottrina della Chiesa.
Passiamo alla seconda obiezione: dal punto di vista teologico il richiamo di Boezio alla virtus ed alla
sapientia umane suona un po' ingenuo e pagano. Risente dell'intellettualismo greco la sua opi
nione che nessuno fa consapevolmente il male per il male (4 pr. 6). Una tale valutazione, socraticamente
elevata, della conoscenza presuppone che l'intendere coinvolga realmente tutto l'uomo, non si limiti a restare
grigia teoria. Ciò era forse vero per un fanatico della logica come Boezio, per il quale le idee erano realtà;
ma egli non sarebbe stato legittimato a giudicare gli altri in base a se stesso; non solo Agostino, ma già
Euripide, Ovidio e Seneca riconoscono il contrasto fra conoscenza ed azione o, in termini paolini, tra volontà
ed attuazione. È caratteristico del romano Boezio che perfino il concetto di umiltà resta abbinato a nozioni di
merito: «iustae humiliatis pretio inaestimabilem vicem divinae gratiae promeremur» (`a prezzo di una
doverosa umiltà ci meritiamo l'inestimabile contraccambio della grazia divina': 5 pr. 3). Anche qui lo sguardo
di Agostino penetra piú in profondità. Ma nel complesso Boezio ha ancora una volta conferito espressione
duratura con concettualità greca ad un sentimento esistenziale romano. È invero facoltà dell'osservatore
concepire una simile umanità naturale, nella sua piú nobile espressione, in ultima analisi dal piú elevato
punto di vista della grazia.
Perché la Consolatio si limita a discussioni filosofiche senza occuparsi delle idee cristiane ? La soluzione piíi
semplice è considerare Boezio un pagano ed i trattati teologici come spuri. Essa fu sostenuta nel x>x secolo,
finché un'importante nuova scoperta la rese inaccettabile. In un frammento scoperto da ALFRED HOLDER
Cassiodoro attesta che il suo amico Boezio ha scritto «un libro sulla Trinità, alcuni capitoli dogmatici ed un
libro contro Nestorio». Questa sicura testimonianza contemporanea, appoggiata anche da criteri concettuali
e linguistici, costringe a cercare un'altra risposta. Alla giusta soluzione conduce l'osservazione che nella sua
Consolatio Boezio non si mette mai in aperta contraddizione col cristianesimo. Molte delle sue idee
filosofiche convergono con la religione: egli sottolinea la personalità di Dio, i castighi d'oltretomba, l'amore, la
rinuncia all'odio verso i nemici. Nettamente distinti sono tempo ed eternità, Dio non viene coinvolto nel
divenire mondano; la dottrina aristotelica dell'eternità del mondo (5 pr. 6) non contraddice del resto la fede
neppure agli occhi di Tommaso d'Aquino`. Ma non è necessario ricorrere all'interpretatio christiana come
Alcuino (De grammatica).
Boezio ha forse semplicemente deciso di scrivere un libro «umano»? Anche altrove si sforza di trattare di
volta in volta isolatamente problemi e materie: nella Consolatio si tratterebbe dunque della sfera della
ragione umana. La netta separazione fra teologia e filosofia nasce dall'avversione del logico nato verso ogni
confusione. Boezio - come compresero lettori come Conrad di Hirsau e Giovanni di Salisbury8'4 - si è
accontentato, in cosciente, modesta autolimitazione, del regno della ragione umana, raggiungendo cosí la
massima cerchia possibile di lettori.
Il senatore alla corte di Teodorico è nella sua indole un degno rappresentante della romanità pratico-politica
- un aspetto che in Agostino viene molto meno alla ribalta. Come in Cicerone, si av
verte, dietro tutta la spiritualizzazione filosofica del concetto della gloria, il dolore che la perdita della patria
terrena comporta per Boezio. Anche la virtú umana - virtus - e la dignità dell'uomo sono da lui sentite in
maniera meno precaria, piú romana che da Agostino. Senza dubbio lo sguardo religioso dell'africano giunge
piú in profondità; ma il misurato Boezio, senza rinnegare il mondo, si
dimostra con la sua morte coraggiosa un vero romano. Cosí egli conclude nelle parole e nei fatti un tema
fondamentale della letteratura romana: la magna mors, l'elevazione della personalità individuale alla sua
massima altezza intellettuale e morale al cospetto della morte`''. Ciò che molti romani hanno vissuto è
ripensato fino in fondo da Boezio con nuova consapevolezza. Secondo il suo programma psicoterapeutico i
rimedi piú blandi devono essere seguîti da altri sempre piú energici. Cosí le discussioni di filosofia morale
vengono a poco a poco rimpiazzate da ragionamenti piú specificamente filosofici; aggiuntivamente sembra
evidenziarsi cosí anche una classificazione su vari livelli delle scuole filosofiche.
La personalità di Boezio strappa toni entusiastici anche ad un logico critico e freddo come Bertrand Russell:
«nei due secoli prima di lui e nei dieci dopo di lui non saprei indicare alcun dotto eu
ropeo che sia stato altrettanto libero da superstizione e fanatismo. Inoltre i suoi pregi sono peraltro di
carattere ancor piú positivo: di tutto egli ha una visione elevata, disinteressata e grandiosa. In qualsiasi
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epoca sarebbe stato un fenomeno straordinario, al suo tempo è una figura incomparabilmente degna
d'ammirazione»`.
Si è tentati di usare simili superlativi per quanto riguarda il vigore della sua elaborazione letteraria; l'integrità
e la forza trasfiguratrice del suo spirito sono avvertibili nell'opera in ogni singolo dettaglio. Qui, dopo Virgilio,
trova realizzazione ancora una volta nella sfera estetica qualcosa che in quella etica costituisce un tratto
caratteristico dell'autodisciplina antica: lo sforzo di non lasciare al caso neppure il minimo dettaglio nella vita
e nell'arte, ma di riferirlo ad un fine piú elevato. L'originalità non risiede nella materia, ma nella capacità dello
spirito di penetrarla e di trasformarla fino in fondo.
Boezio non s'irrigidisce peraltro in un monumento in posa da romano. La sua umanità traspare
nell'attaccamento alle personalità che gli sono vicine - nell'orgoglio per i figli, l'amore per la sposa, toccante
proprio nella riservatezza della sua espressione, la stima sincera per il suocero Simmaco, l'impavido
intervento a favore dei colleghi in senato. Di fronte a tanta perfezione si prende atto quasi con sollievo che
una volta dal mantello del filosofo fa capolino la vanità. Il saggio si fa dichiarare dalla Filosofia di essere stato
troppo modesto e di non aver celebrato adeguatamente i propri meriti effettivi (r pr. 5). Il sangue italico si
manifesta nel gusto per lo splendore fastoso e per gli onori. In certi passi s'intravede come
involontariamente, attraverso la maschera del filosofo e del romano antico, un gusto della vita di sapore
quasi moderno, che si attacca appassionatamente all'attimo fuggente, comunque esso sia (g pr. 6).
Sotto un altro aspetto Boezio è lontano dalla rassegnazione moderna: le idee che maneggia sono per lui
delle realtà, come traspare anche dal tono affettivo dei suoi versi. L'intero cosmo è governato dall'amore (4
m. 6) - Dante farà di questo concetto la chiave di volta della sua Divina Commedia: «l'amor che move il sole
e 1'altre stelle »`.
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Aurelio Cassiodoro
Cenni biografici
Nacque a Squillace (Calabria), intorno al 485-490, da una famiglia nobile e ricca.
Ebbe importanti incarichi alla corte di Teodorico e dei suoi successori. Fu governatore del Bruzio e
della Lucania, questore nel 507, console nel 514; dal 523 al 526, succedendo a Boezio, fu
segretario (magister officiorum) di Teodorico, quindi della figlia Amalasunta. Prefetto del pretorio
più volte, a partire dal 533, con Atalarico, ma anche sotto Teodato e Vitige. Intorno a quest’anni,
secondo la testimonianza dell’autore stesso va collocata la sua “conversione”.
Dopo il 540, con la conquista bizantina di Ravenna, si trasferì a Costantinopoli, forse come
prigioniero assieme a Vitige, quindi dopo il 554 si ritirò in Calabria dove fondò diversi monasteri, in
particolar modo quello di Vivarium, vero centro di trasmissione e di rielaborazione della cultura
classica, dove Cassiodoro morì intorno al 583.
Opere
Chronica o Chronicon. Da Adamo fino al 519. Composti su ordinazione di Eutarico, marito di
Amalasunta.
Scarso il valore letterario di quella che resta, per ammissione dell’autore stesso, una compilazione
da Girolamo, Livio e Aufidio Basso. Tra le fonti più recenti Vittore di Acquitania, Prospero di
Aquitania ed Eutropio.
Ordo generis Cassiodororum. Storia della famiglia dell’autore di cui è arrivato solo un breve
riassunto, il così detto Anecdoton Holderi.
Computus paschalis.
[Migne - Cassiodorus anno 562 edit Paschalis Computi Rationem. Opinantur nonnulli, in quibus Baronius et
Bucelinus, Cassiodorum post absolutum de Orthographia tractatum, alium scripsisse ad indictionem,
epactas, et ea omnia quae paschalis computi rationem spectant, facilius indicanda perutilem. Et quidem
[0482B] mihi verisimile videtur eum id operis ad monachorum suorum informationem pro anno 562 edidisse.
Hoc Computum inter opera Cassiodori reponunt editiones Parisienses et Genevenses; et certe cui alteri
tribui possit non videmus, cum ante hunc annum Dionysius Exiguus, cui uni ascribendum videbatur, e vivis
jam dudum excessisset.]
De origine actibusque Gothorum, originariamente in 12 libri. Composta su richiesta di Teodorico.
Resta solo l'epitome fatta dal monaco, poi vescovo di Crotone, Giordane (vedi), con continuazione
fino al 519 (o 551).
Variae, una raccolta in 12 libri di circa 470 lettere e documenti ufficiali, preziose testimonianze sul
periodo 507-37, nonché modelli di prosa cancelleresca (vedi soprattutto i libri VI e VII) molto imitati
durante il Medioevo. Pubblicate 537-38.
[libros duodecim epistolarum edidit, quos titulo Variarum inscripsit, propter diversa quae in eis
continentur rerum argumenta. Quinque prioribus libris litteras et edicta complexus est quae sub
Theodorico; octavo, nono et decimo ea quae sub Athalarico, Theodahato, et Vitige scripsit; sextus
et septimus dignitatum continent formulas quae sub Gothorum imperio vigebant; undecimus
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denique et duodecimus collectas habent epistolas et decreta quae ipse cum praetorio praeesset
ad plures destinavit. da utilizzare]
Institutiones divinarum et saecularium litterarum, Terminate tra il 551 e il 562. Nel secondo libro
raccolgono il sapere enciclopedico e umanistico dell'autore nella struttura tradizionale delle
cosiddette arti liberali: grammatica, dialettica, retorica, aritmetica, geometria, musica e astronomia.
Il primo libro è dedicato alla letteratura esegetica dei testi sacri, con indicazioni bibliografiche
puntuali per Vecchio e Nuovo Testamento. Il cap. 16 (De virtute scripturae divinae) è un'autentica
lista delle letture che devono formare il cristiano.
De orthographia. Composto in tarda età a Vivarium come strumento pratico per i monaci
amanuensi. Cura molto particolare e inviti specifici nella traduzione dei testi e nella loro copia viene
proposta nelle osservazioni di Inst., 1,15, dove si allude anche al trattatello de ortographia.
De anima. Considerato dall’autore come ideale e materiale prosecuzione delle Variae.
Tra le fonti, ampiamente utilizzate, Agostino, Lattanzio, Boezio, Claudiano Mamerto.
Expositio Psalmorum. Commento dei Salmi (e in parte del Nuovo Testamento). Iniziato intorno al
538-40 e dedicato al papa Vigilio. E’ l’unico commento sistematico a tutto il Salterio all’interno della
patristica latina, stilato sull’esempio delle Enarrationes di Agostino. Lo schema applicato a ciascun
salmo è piuttosto regolare: spiegazione del titolo, identificazione delle parti, spiegazione del salmo,
conclusione; nessuna scelta predeterminata, invece per i criteri che possono essere di volta in
volta letterale, allegorico o morale.
Segna per l’autore lo spartiacque ufficiale verso una nuova consapevolezza della propria fede
cristiana, ma anche una conferma che la cultura pagana antica fornisce strumenti ben accetti e
utilizzati nell’esegesi dei testi sacri.
Expositio epistolae ad Romanos. Non arrivato. (ce ne parla nella praefatio dell’Orthographia)
Liber memorialis. Sintesi dei contenuti delle Sacre Scritture. Perduto.
Complexiones in epistolas et Acta Apostolorum et Apocalypsin. Breve commento.
De musica?
De geometria? [Migne - Meminit etiam libri de Geometria in versiculum illum psalmi XCVI; «Illuxerunt
fulgura:» Quorum notitiam, inquit, pleniorem in libris de Geometrica disciplina, diligens lector, invenies. Et re
quidem ipsa, quod eo loci adducit e Geometria, totum in libro quem de hac disciplina composuit, reperitur
juxta editionem nostram, in qua ad fidem manuscriptorum restituimus ea quae in aliis desiderabantur. ]
M. AURELII CASSIODORI HISTORIA ECCLESIASTICA vocata TRIPARTITA, EX TRIBUS
GRAECIS AUCTORIBUS, SOZOMENO, SOCRATE ET THEODORETO, PER EPIPHANIUM
SCHOLASTICUM VERSIS EXCERPTA, ET IN COMPENDIUM A SE REDACTA.
Historia Ecclesiastica tripertita, risultato di un progetto di Cassiodoro realizzato da Epifanio. Da
materiali desunti dagli storici greci Teodoreto, Sozòmeno e Socrate, si trattava di continuare, in
latino, il lavoro di Eusebio di Cesarea fino al 439.
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Discorsi
Ci restano solo frammenti relativi a due discorsi (Panegirico di Teodorico, e in occasione della sua
nomina a prefetto del pretorio da parte di Amalasunta??)
Osservazioni
Testi e testimonianze
Beda, in Exam, 7.
Cassiodorus quondam Senator, repente Ecclesiae doctor, qui dum in Expositione Psalmorum, quam
egregiam fecit, diligenter intuitus est quid Ambrosius, quid Hilarius, quid Augustinus, quid Cyrillus, quid
Joannes, quid caeteri fratres dixerunt, edoctum se procul dubio a senioribus Judaeorum, id est confitentium
et laudantium probavit.
Jordan., Chron.,
Cassiodorus consul fuit, qui postea Conversus et monachus effectus, coenobium [0498A] construxit, et in
saeculari divinaque litteratura clarus effulsit, Psalmos exposuit, libros Institutionum et Chronica fecit, et
Tripartitam Historiam ordinavit.
Paol. Diac., hist. Langob., 1,25
Huius temporibus Cassiodorus apud urbem Romam tam seculari quam divina scientia claruit. Qui inter
cetera quae nobiliter scripsit psalmorum praecipue occulta potentissime reseravit. Hic primitus consul,
deinde senator, ad postremum vero monachus extitit.
Traduzione
Cassiod., orth., praef.
Controllo per notizie su altre opere.
Cassiod., inst., 2, 1. De grammatica. [Intratext]
1. Grammatica a litteris nomen accepit, sicut vocabuli ipsius derivatus sonus ostendit. quas primus omnum
Cadmus sedecim tantum legitur invenisse, eas Graecis studiosissimis tradens; reliquas ipsi vivacitate animi
suppleverunt. de quarum positionibus atque virtutibus graece Helenus, latine Priscianus suptiliter
tractaverunt. grammatica vero est peritia pulchre loquendi ex poetis illustribus auctoribusque collecta;
officium eius est sine vitio dictionem prosalem metricamque componere; finis vero elimatae locutionis vel
scripturae inculpabili placere peritia. sed quamvis auctores temporum superiorum de arte grammatica ordine
diverso tractaverint, suisque saeculis honoris decus habuerint, ut Palemon, Phocas, Probus et Censorinus,
nobis tamen placet in medium Donatum deducere, qui et pueris specialiter aptus et tyronibus probatur
accommodus; cuius gemina commenta reliquimus, ut, supra quod ipse planus est, fiat clarior dupliciter
explanatus. sed et sanctum Augustinum propter simplicitatem fratrum breviter instruendam aliqua de eodem
titulo scripsisse repperimus; quae vobis lectitanda reliquimus, ne quid rudibus deesse videatur, qui ad tantae
scientiae culmina praeparantur.
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F. D'ALESSI - Letteratura latina - Parte V- Cenni di letteratura latina altomedievale
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2. Donatus igitur in secunda parte ita disceptat:
de voce articulata
de littera
de syllaba
de pedibus
de accentibus
de posituris sive distinctionibus
et iterum de partibus orationis viii
de schematibus
de etymologiis
de orthographia.
Vox articulata est aer percussus sensibilis auditu, quantum in ipso est. littera est pars minima vocis
articulatae. syllaba est comprehensio litterarum, vel unius vocalis enuntiatio, temporum capax. pes est
syllabarum et temporum certa dinumeratio. accentus est vitio carens vocis artificiosa pronuntiatio. positura
sive distinctio est moderatae pronuntiationis aperta repausatio. partes autem orationis sunt octo: nomen
pronomen verbum adverbium participium coniunctio praepositio interiectio. nomen est pars orationis cum
casu, corpus aut rem proprie communiterve significans: proprie, ut Roma Tiberis, communiter ut urbs flumen.
pronomen est pars orationis quae pro nomine posita tantundem paene significat personamque interdum
recipit. verbum est pars orationis cum tempore et persona sine casu. adverbium est pars orationis quae
adiecta verbo significationem eius explanat atque implet, ut iam faciam vel non faciam. participium est pars
orationis dicta quod partem capiat nominis, partem verbi; recipit enim a nomine genera et casus, a verbo
tempora et significationes, ab utroque numeros et figuras. coniunctio est pars orationis adnectens
ordinansque sententiam. praepositio est pars orationis quae praeposita aliis partibus orationis
significationem eius aut mutat aut complet aut minuit. interiectio est pars orationis significans mentis
affectum voce incondita. schemata sunt transformationes sermonum vel sententiarum, ornatus causa polita,
quae ab artigrapho nomine Sacerdote collecta fiunt numero nonaginta et octo; ita tamen ut quae a Donato
inter vitia posita sunt, in ipso numero collecta claudantur. quod et mihi quoque durum videtur, vitia dicere,
quae auctorum exemplis et maxime legis divinae auctoritate firmantur. haec grammaticis oratoribusque
communia sunt, quae tamen in utraque parte probabiliter reperiuntur aptata. addendum est etiam de
etymologiis et orthographia, de quibus nonnullos scripsisse certissimum est. etymologia vero est aut vera aut
verisimilis demonstratio, declarans ex qua origine verba descendant. orthographia est rectitudo scribendi
nullo errore vitiata, quae manum componit et linguam.
3. Haec breviter de definitionibus tantummodo dicta sufficiant. ceterum qui ea voluerit latius pleniusque
cognoscere, cum praefatione sua codicem legat, quem de grammatica feci arte conscribi, quatenus diligens
lector invenire possit, quod illi proposito deputatum esse cognoscit.
I. SULLA GRAMMATICA
1. La grammatica, come mostra l'etimologia del vocabolo, deriva il suo nome dalle lettere dell'alfabeto. Si
legge che Cadmo per primo ne trovò sedici e le fece conoscere ai Greci che, estremamente in teressati a
tale materia, aggiunsero le altre mettendo a frutto l'acutezza del loro ingegno. Delle posizioni e delle qualità
delle lettere hanno trattato con acume Eleno in greco e Prisciano in latino. La grammatica è l'arte di parlare
bene acquisita da famosi scrittori di poesia e di prosa. Il suo compito è quello di comporre scritti in prosa o in
versi privi di difetti; il suo fine e quello di piacere mediante un irreprensibile perizia capace di raggiungere
uno stile o una scrittura ben rifiniti. Sebbene gli scrittori dei tempi più antichi abbiano parlato della
grammatica seguendo metodi diversi e siano stati tenuti in gran conto presso le loro generazioni, come
Palemone, Foca, Probo e Censorino, a noi tuttavia piace porre al centro Donato, particolarmente adatto ai
più piccoli ed utile ai novízi. Di lui abbiamo lasciato in biblioteca due commenti in modo tale che, a parte la
sua semplicità, egli possa diventare ancor più chiaro attraverso due differenti spiegazioni. Abbiamo scoperto
che anche sant'Agostino ha scritto qualcosa su questa niateria per istruire brevemerne i fratelli più semplici.
Vi ho lasciato queste opere da leggere affinché non sembri mancare nulla agli incolti che si preparino a
raggiungere le vette di una scienza così importante.
2. Donato nella seconda parte tratta i seguenti temi: la voce articolata, la lettera, la sillaba, i piedi, gli accenti,
la punteggiatura o distinzioni e di nuovo le otto parti del discorso, le figure, le etimologie e l'ortografia. La
voce articolata è una percussione dell'aria percepibile dall'udito secondo la forza della percussione. La
lettera è la parte più piccola della voce articolata. La sillaba è un insieme di lettere o la pronuncia di una sola
vocale, comprendente dei tempi. Il piede è un determinato numero di sillabe e di tempi. L'accento è una
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perfetta pronuncia conforme alle regole dell'arte. La punteggiatura o distinzione è una chiara esecuzione di
pause in una pronuncia ben regolata. Le parti del discorso sono otto: nome, pronome, verbo, avverbio,
participio, congiunzione, preposizione, interiezione. Il nome è una parte del discorso fornita di caso ed
esprime una persona o una cosa in senso proprio o comune: in senso proprio come Roma, Tevere, in senso
comune come città, fiume 16. Il pronome è la parte del discorso che, usata al posto del nome, indica quasi
ugualmente il nome stesso e talvolta ammette anche la persona. Il verbo è la parte del discorso fornita del
tempo, della persona, ma non del caso. L'avverbio è la parte del discorso che, unita al verbo, ne chiarisce e
completa il significato, come in espressioni dei tipo «ormai farò» o «non farò». Il participio è la parte del
discorso così denominata perché prende una parte del nome e una parte del verbo: dal nome prende infatti il
genere e il caso, dal verba il tempo e il significato, da entrambi il numero e la forma. La congiunzione è la
parte del discorso che tiene unito un pensiero e lo ordina. La preposizione è la parte del discorso che,
preposta ad altre parti del discorso, ne muta, completa o riduce il significato. L'interieziene è la parte del
discorso priva di legami grammaticali, che esprime una disposizione della mente. Le figure sono
trasformazioni di parole o di pensieri, usate con funzione ornamentale. Queste sono state raccolte da un
grammatico di nome Sacerdote in numero di novantotto. Tale numero include, tuttavia, quelle che sono state
collocate da Donato fra i difetti. Anche a me sembra difficile ritenere difetti quegli espedienti che trovano
conferma negli esempi di scrittori e soprattutto nell'autorità della legge divina. Sono espedienti comuni ai
grammatici e agli oratori, riconosciuti certamente convenienti da entrambe le categorie. È necessario
aggiungere qualcosa anche sulle etimologie e sull'ortografia, a proposito delle quali è del tutto certo che
alcuni hanno scritto. L'etimologia è la dimostrazione vera o verosimile che spiega l'origine delle parole.
L'ortografia è l'assoluta correttezza della scrittura che collega la mano alla lingua.
3. Siano sufficienti queste brevi parole limitate alle sole definizioni. Chi vorrà avere più ampie e complete
conoscenze di tale materia legga, assieme alla sua prefazione, il codice che ho fatto scrivere in maniera
succinta sulla grammatica affinché il lettore diligente possa trovare ciò che egli riconosce deputato a quello
scopo. Ora veniamo alle divisioni e alle definizioni dell'arte retorica che, se di per sé è già estesa ed ampia, è
stata ulteriormente arricchita dalla trattazione di molti e famosi scrittori.
Trad. Di M. Donnini, Roma, Città Nuova, 2001 [BCTV]
Cass., inst., 1, 17. Gli storici cristiani. [Intratext]
XVII. De historicis Christianis.
1. Habent etiam post tractatores diversos relatores temporum et studia Christiana, qui ecclesiastica gravitate
compositi per vicissitudines rerum mutabilitatesque regnorum lacteo quidem sed cautissimo nitore decurrunt.
qui cum res ecclesiasticas referant, et vicissitudines accidentes per tempora diversa describant, necesse est
ut sensus legentium rebus caelestibus semper erudiant, quando nihil ad fortuitos casus, nihil ad deorum
potestates infirmas, ut gentiles fecerunt, sed arbitrio Creatoris applicare veraciter universa contendunt. - ut
est Ioseppus, paene secundus Livius, in libris Antiquitatum Iudaicorum late diffusus, quem pater
Hieronymus, scribens ad Lucinum Betticum, propter magnitudinem prolixi operis a se perhibet non potuisse
transferri. hunc tamen ab amicis nostris, quoniam est subtilis nimis et multiplex, magno labore in libris viginti
duobus converti fecimus in Latinum. qui etiam et alios septem libros Captivitatis Iudaicae mirabili nitore
conscripsit, quam translationem alii Hieronymo, alii Ambrosio, alii deputant Rufino; quae dum talibus viris
ascribitur, omnino dictionis eximia merita declarantur. post haec autem legenda est historia quae ab Eusebio
quidem decem voluminibus Graeco sermone conscripta, a Rufino autem cum adiectione temporum quae
secuta sunt undecim libris monstratur explicita. post historiam vero Eusebii apud Graecos Socrates,
Sozomenus et Theodoritus sequentia conscripserunt; quos a viro disertissimo Epiphanio in uno corpore
duodecim libris fecimus Deo auxiliante transferri, ne insultet habere se facunda Graecia necessarium, quod
vobis iudicet esse subtractum. Orosius quoque, Christianorum temporum paganorumque collator, praesto
vobis est, si eum legere volueritis. Marcellinus etiam, quattuor libros de temporum qualitatibus et positionibus
locorum pulcherrima proprietate conficiens, itineris sui tramitem laudabiliter percurrit; quem vobis pariter
dereliqui.
2. Chronica vero, quae sunt imagines historiarum brevissimaeque commemorationes temporum, scripsit
Graece Eusebius; quae transtulit Hieronymus in Latinum, et usque ad tempora sua deduxit eximie. hunc
subsecutus est suprascriptus Marcellinus Illyricianus, qui adhuc patricii Iustiniani fertur egisse cancellos, sed
meliore conditione devotus a tempore <Theodosii> principis usque ad fores imperii triumphalis Augusti
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Iustiniani opus suum Domino iuvante perduxit, ut qui ante fuit in obsequio suscepto gratus, postea ipsius
imperio copiose amantissimus appareret. sanctus quoque Prosper chronica ab Adam ad Gensirici tempora
et urbis de redationem usque perduxit. forte inveniatis et alios subsequentes, quia non desunt scriptores
temporum, cum saecula sibi iugiter peracta succedant. sed cum te de memoratis rebus, diligens lector,
expleveris, ingeniumque tuum divina fuerit luce radiatum, lege librum de Viris illustribus sancti Hieronymi, ubi
diversos Patres atque opuscula eorum breviter et honoravit et tetigit: deinde alterum Gennadii Massiliensis,
qui idem de scriptoribus legis divinae, quos studiose perquisiverat, certissimus indicavit. hos in uno corpore
sociatos dereliqui, ne per diversos codices cognoscendae rei tarditas afferatur.
3. Sequuntur enim multarum lectionum venerabilium conditores. modo enim doctissimi viri aut libros divina
inspiratione conficiunt, aut invicem se epistularum gratia consolantur, aut populos dulcissimo sermone
deliniunt, aut cum hereticis vivacissima nimis altercatione confligunt, ita ut quidam eorum singulari certamine
controversias subeant, et iudicibus mediis gloriosa disceptatione confiigant. sic, cum pravus quisque
destruitur, praestante Domino fidelissimus inde solidatur. tunc in illo choro sanctissimo atque facundissimo
Patrum tibi eligere poteris, cum quo suavissime colloquaris. difficile quoque dictu est, quam frequenti
occasione reperta Scripturas sanctas locis aptissimis potenter aperiant, ut subito transiens discas, quod te
neglegenter praeterisse cognoscis. testes sunt doctissimi viri diversa laude praecipui, quibus velut stellis
micantibus caelum fulget ecclesiae.
XVII. SUGLI ST0RlCl CRISTIANI
1. Gli studi cristiani, oltre ai diversi scrittori di trattati, hanno anche scrittori di storia che, vivendo
serenamente nella loro dignità ecclesiastica, narrano con amabile, ma prudentissimo splendore, il
susseguirsi degli avvenimenti e la storia dell'instabilità dei regni. Poiché questi riferiscono la storia
ecclesiastica e descrivono i cambiamenti che si verificano in diversi tempi, è necessario che istruiscano
sempre le menti dei lettori sugli affari divini, per affermare che ogni cosa dipende, in verità, non dal caso
fortuito, non dai poteri senza valore degli dèi - come ritenevano i pagani -, ma dalla volontà del Creatore. È
quanto ha fatto Giuseppe, quasi un secondo Livio, in maniera molto ampia nei libri delle Antichità giudaiche,
che il padre Girolamo, scrivendo a Lucino Betico, dice di non aver potuto tradurre data la loro vastità.
Quest'opera, tuttavia, abbiamo fatto tradurre in latino con grande fatica da amici nostri in ventidue libri, in
considerazione della sua eccezionale finezza ed ampiezza. Giuseppe ha scritto con straordinaria eleganza
anche altri sette libri Sulla cattività giudaica la cui traduzione alcuni attribuiscono a Girolamo, altri ad
Ambrogio, altri a Rufino 3. Dal momento che essa è assegnata a tali autori, vengono interamente
riconosciuti gli eccezionali meriti della sua esposizione. Si deve inoltre leggere la storia scritta da Eusebio in
greco in dieci libri e tradotta e completata da Rufíno in undici libri, con l'aggiunta della trattazione riguardante
gli avvenimenti dei tempi successivi. Dopo la storia di Eusebio hanno trattato le epoche successive, presso i
Greci, Socrate, Sozomeno eTeodoreto. Con l'aiuto di Dio abbiamo fatto tradurre le opere di questi storici in
un unico codice, in dodici libri, da Epifanio, scrittore eloquentissimo, affinché la faconda Grecia non si vanti
di avere qualche cosa di fondamentale che ritiene assente presso di voi. Anche Orosio, che mette a
confronto i tempi cristiani e pagani, vi sia a portata di mano, se vorrete leggerlo. Anche Marcellino ha
percorso la via del suo viaggio in maniera lodevole, portando a compimento quattro libri sulla natura degli
avvenimenti e sulla posizione dei luoghi con decorosissima precisione. Pure quest'opera vi ho lasciato.
2. Eusebio ha scritto in greco cronache che sono immagini di storia e brevissime memorie dei tempi. Sono
state tradotte in latino da Girolamo il quale le ha continuate fino ai suoi giorni in maniera eccellente. Lo ha
seguito il suddetto Marcellino, l'illirico, che si dice essere stato in precedenza segretario del patrizio
Giustiniano. Con l'aiuto del Signore, dopo il miglioramento della condizione civile del suo padrone, egli ha
continuato l'opera dal tempo dell'imperatore Teodosio. A fino all'inizio del governo trionfale dell'Augusto
Giustiniano, affinché colui che era stato prima gradito nel servizio del suo padrone si mostrasse poi
fervidissimo devoto durante il suo governo imperiale. Anche san Prospero, ha compilato cronache che
vanno da Adamo fino al tempo di Genserico e del saccheggio di Roma. Potreste trovare forse anche altri
storici successivi, poiché non mancano scrittori di cronache malgrado il succedersi ininterrotto di un'epoca
dopo l'altra. Ma tu, diligente lettore, quando sarai sazio di queste opere e la tua mente sarà irradiata dalla
luce divina, leggi il libro di san Girolamo Sugli uomini illustri, nel quale egli ha reso onore a diversi Padri e ai
loro scritti con brevi trattazioni. Leggi poi un secondo libro, scritto da Gennadio di Marsiglia che con la
massima attendibilità ha trattato gli scrittori della legge divina, che aveva ricercato con grande passione. Ho
lasciato entrambi i libri riuniti in un unico volume per il timore che la necessità di usare vari codici provochi
ritardi alla conoscenza della materia.
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3. Seguono autori di molti testi venerabili. Ora, infatti, uomini dottissimi o scrivono libri con ispirazione divina
o si confortano a vicenda mediante l'eleganza delle lettere o descrivono i popoli con piacevolissimo eloquio o
combattono con animatissime dispute contro gli eretici, così che alcuni di loro intraprendono discussioni con
singolare tenacia e combattono con glorioso dibattito in mezzo ai giudici. In tal modo, con l'aiuto del Signore,
un fedele viene fortificato nella fede mediante la sconfitta di un infedele. Allora fra questa santissima e
facondissima schiera di Padri potrai sceglierti uno col quale colloquiare in maniera piacevolissima. Sarebbe
inoltre difficile a dirsi in quante numerosissime occasioni essi abbiano illustrato in maniera efficace nei punti
più idonei le sacre Scritture, in modo che durante la lettura tu possa apprendere inaspettatamente ciò che
riconosci di aver negligentemente trascurato. Ne sono testimoni scrittori dottissimi che si distinguono per vari
meriti, mediante i quali, come per mezzo di stelle lucenti, il cielo della Chiesa risplende.
Trad. M. Donnini, Roma, Città Nuova, 2001 [BCTV]
Cassiod., Inst., 1,10. [Intratext]
De modis intellegentiae.
1. Primum est post huius operis instituta ut ad introductores Scripturae divinae, quos postea repperimus,
sollicita mente redeamus, id est Ticonium Donatistam, sanctum Augustinum de Doctrina Christiana,
Adrianum, Eucherium et Iunilium; quos sedula curiositate collegi, ut quibus erat similis intentio, in uno
corpore adunati codices clauderentur; qui modos elocutionum explanationis causa formantes per
exemplorum diversas similitudines intellegi faciunt, quae prius clausa manserunt.
2. Quod si ab introductoribus fortasse praetermissa sunt, tunc librorum expositores sedulo requiramus, et
aperiri nobis incipiunt quae prius clausa manserunt.
3. Deinde studiosissime legamus catholicos magistros, qui propositionibus factis solvunt obscurissimas
quaestiones.
4. Quinto per libros singulos atque epistulas diversorum Patrum loca praecipua, quae exempli causa
commemorant, diligenti cura notanda sunt. ita fit ut diversorum catholicorum libri commodissime perlegantur,
quando et intentiones suas decenter aperiunt et ex incidentibus apud illos quaestionibus nobis notitia magna
praestatur.
5. Postremo collocutio peritissimorum seniorum crebrius appetatur, quorum confabulatione subito quod non
opinabamur advertimus, dum nobis studiose referunt quod longis aetatibus suis discere potuerunt. utile est
enim per istos sex modos intellegentiae studiosa voluntate discurrere, potius quam irreligioso stupore
torpere.
X. SUI MODI DELL’APPRENDIMENTO
1.Occorre anzitutto, dopo le istruzioni ricevute da questa nostra opera, ritornare sollecitamente agli scrittori
che introducono alla sacra Scrittura, da noi trovati successivamente, cioè il donatista Ticonio, sant'Agostino
Sulla dottrina cristiana, Adriano, Eucherio e Giunilio. Ho raccolto i loro scritti con diligente cura affinchè i
codici che erano animati dalla medesima intenzione fossero riuniti in unico gruppo. Questi scrittori,
attraverso le loro varie spiegazioni ed attraverso vari esempi, fanno comprendere argomenti che prima erano
rimasti oscuri.
2. Se poi qualcosa fosse stato trascurato dagli scrittori che introducono alla sacra Scrittura, cerchiamo
diligentemente i commentatori dei rispettivi libri. Allora cominceranno ad aprirsi a noi argomenti che prima
erano rimasti chiusi.
3. Leggiamo quindi con il massimo amore i maestri cattolici che con le loro proposizioni hanno risolto
questioni oscurissime.
4. In un quinto momento dobbiamo notare con diligente cura i passi fondamentali riportati come esempi nei
singoli libri e nelle singole lettere dei vari Padri. Così risulta che i libri dei vari cattolici vengono letti nel modo
più proficuo perché mostrano in maniera conveniente le loro intenzioni e perché dalle questioni che essi
hanno affrontato ci viene offerto un grande insegnamento.
5. Da ultimo si cerchi spesso di conversare con anziani particolarmente saggi. Dalla conversazione con loro
apprenderemo subito nozioni che non immaginavamo nemmeno, perché essi trasmettono con amore ciò
che hanno potuto apprendere durante la loro lunga esistenza. È utile allora muoversi con ardente desiderio
attraverso questi sei modi di apprendimento piuttosto che restare immobili in stato di irreligiosa stupidità.
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Trad. M. Donnini, Roma, Città Nuova, 2001 [BCTV]
I'rímasio (VI secolo) fu vescovo di Adrurneto nella liizacena. Cotnmentù I'llpucalìs_cc e completo il
Dc baeresìhus di .Agostino.
LX] t (a., suprit, I, IX, nota 3, p. îî.
Adriano (t 440-450), nx,naco e prete di origine sira, appartenente alla scuola esegetica di
Antiochia, è autore di una lrrtrodzezionc° alla sucra.Scrìttura, in lingua greca. Senihra che
(;assíodoro abbia conosciuto anche una traduzione latina di quest'opera. (ìt. I'. (:ourcelle, Lc°.s
lc°ttrcs Qrecyuos en Occidcat de Macrobc à Gac.siudorc•, I'aris 1948. p. 336, nota 3.
' Lucherio, vescovo di Lione dal 434 al 450ca, è autore anche di due opere esegetiche: Ivmnnrlac
spiritalis iretcllìKcrzture c lastructìozu•c
Cassiod., inst., 1,24. [Intratext]
Recapitulatio generalis, quo studio Scriptura sancta legenda sit.
1. Demus itaque operam, et post introductorios libros auctoritatem cum expositoribus suis sedula intentione
curramus, viasque intellegentiae Patrum labore repertas pio studio subsequamur, non ad quaestiones
inanissimas avida superfluitate tendamus. quod dictum rationabiliter in tractatoribus probatissimis invenitur,
hoc procul dubio credamus esse divinum; si quid dissonum aut discordans Patrum regulis contigerit inveniri,
vitandum esse iudicemus. origo enim saevissimi erroris est in suspectis auctoribus amare totum, et sine
iudicio defendere velle quod invenis; scriptum est enim Omnia probate, quod bonum est tenete.
2. Sed ut in summam quae sunt dicenda complectar, cuncta quae antiqui expositores probabiliter dixerunt,
sollicita mente tenenda sunt; illa vero quae ab eis intractata relicta sunt, ne infructuoso labore fatigemur,
primum rimanda sunt, quas virtutes habeant aut ad quae nos instituta perducant, deinde quid nos velint de
se legendo contrahere. nam licet textus planissimus esse videatur et historica relatione reluceat, modo
tamen aut iustitiam persuadet aut impietatem redarguit, aut tolerantiam praedicat aut vitia mobilitatis
accusat, aut superbiam damnat aut bona humilitatis exaltat, aut impacatos reprimit aut caritate plenissimos
consolatur, aut aliquid tale commemorat quo ad probos mores incitet et a nefariis cogitationibus respectu
pietatis abducat. Deus enim si solis bonis praemia polliceretur, benignitas ipsius neglecta tepesceret; si vero
malis iugiter minaretur exitium, desperatio salutis praecipitaret ad vitia. et ideo pius Redemptor pro salute
nostra utrumque moderatus est, ut et peccatores denuntiata poena terreat et bonis digna praemia
compromittat.
3. Quapropter ad intentiones librorum generaliter semper animus erigatur, mentemque nostram in illa
contemplatione defigamus, quae non tantum auribus sonat sed oculis interioribus elucescit. nam etsi simplex
videatur esse relatio, nihil vacuum nihil otiosum divinis litteris continetur, sed semper ad utilitatem aliquam
dicitur quae rectissimis sensibus salubriter auriatur. et ideo quando bona referuntur, ad imitationem protinus
erigamur; quando facinora punienda narantur, operari talia formidemus. ita fit ut semper aliquid utilitatis
adquiramus, si quapropter referuntur advertimus.
XXIV. RIEPILOGO GENERALE. L'AMORE CON CUI SI DEVE LEGGERE LA SACRA SCRITTURA
l. Prestiamo allora attenzione e dopo i libri introduttivi leggiamo con ardente zelo la sacra Scrittura ed i suoi
commentatori e seguiamo con devoto amore le vie della conoscenza trovate dalla fatica dei Padri, senza
tendere con avida esagerazione verso questioni del tutto prive di valore. Riteniamo certamente divino quello
che troviamo detto in maniera razionale nei migliori esegeti. Giudichiamo degno di essere rigettato tutto
quello che troviamo in dissonanza ed in contrasto con le regole dei Padri. La fonte, infatti, dell'errore più
bestiale è approvare tutto negli autori sospetti e voler difendere senza discernimento tutto quello che trovi in
essi. E’ scritto, infatti: Esaminate lutto e ritenete ciò che è buono.
2. Ma per riassumere tutto quello che dovrebbe essere detto, sono da trattenere con scrupolosità tutti i temi
che gli antichi commentatori hanno esattamente divulgato. Circa le parti che essi hanno invece lasciato
senza spiegazione, per non affaticarci inutilmente, dobbiamo dapprima scoprire quali pregi esse abbiano o a
quali abitudini ci conducano e poi vedere che cosa esse desiderino che noi ricaviamo dalla loro lettura.
Sebbene, infatti, il testo sia estremamente semplice e chiaro nella sua narrazione storica, tuttavia
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immediatamente esso o esorta alla giustizia o denuncia l'empietà o predica la tolleranza o accusa i vizi
dell'incostanza o condanna la superbia o esalta i benefici dell'umiltà o reprime i turbolenti o consola chi è
pieno di carità o raccomanda una qualche cosa che ci inciti ai buoni costumi e ci allontani dai pensieri empi
nel rispetto della pietà. Se, infatti, Dio promettesse premi soltanto ai buoni, la sua bontà si raffredderebbe
per negligenza. Se invece minacciasse continuamente la perdizione dei malvagi, la disperazione di ottenere
la salvezza trascinerebbe precipitosamente al vizio. Per questo il pio Redentore ha regolato entrambe le
categorie di persone per la nostra salvezza: per spaventare i peccatori con la minaccia del castigo e per
promettere ai buoni la degna ricompensa.
3. Perciò, in generale, la nostra mente sia sempre attenta alle intenzioni dei libri e fissiamola in quella
approfondita considerazione che non solo risuona alle orecchie, ma risplende anche agli occhi dell'anima.
Infatti, sebbene la narrazione appaia semplice, nulla di vano, nulla di inutile è contenuto nelle lettere sacre,
ma in esse si parla sempre tenendo in vista una qualche utilità che possa essere ricevuta salutarmente con i
sensi massimamente conformi a rettitudine. Pertanto quando si parla di virtù, siamo subito pronti ad imitarle;
quando si parla delle colpe che esigono una punizione, temiamo di compierle. In tal modo accade che
acquisiamo sempre qualche vantaggio se avvertiamo le ragioni dei fatti esposti.
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Cassiod., inst., 1,28. [Intratext].
Quid legant qui scripturas logicas introire non possunt.
1. Quod si quorundam simplicitas fratrum non potuit quae sunt in sequenti libro deflorata cognoscere, quia
paene brevitas omnis obscura est, sufficiat eis summatim earum rerum divisiones, utilitates virtutesque
perpendere, ut ad agnoscendam legem divinam fervida mentis intentione rapiantur. per diversos enim
sanctissimos Patres invenient, unde desiderium suum plenissima possint ubertate satiare. tantum sit legendi
sincerus affectus et intellegendi sobrium votum; tunc salutaris assiduitas eruditos efficiat, quos in prima
fronte profunditas lectionis exterruit.
2. Sciamus tamen non in solis litteris positam esse prudentiam, sed perfectam sapientiam dare Deum
unicuique prout vult. nam si tantum in litteris esset scientia rerum bonarum, qui litteras nesciunt utique
rectam sapientiam non haberent. sed cum multi agrammati ad verum intellectum perveniant rectamque
fidem percipiant caelitus aspiratam, dubium non est puris ac devotis sensibus Deum concedere, quod eis
iudicat expedire. scriptum est enim: Beatus homo quem tu erudieris, Domine, et de lege tua docueris eum.
quapropter actibus bonis. et orationbus assiduis expetendum est, ut ad veram fidem operasque
sanctissimas, ubi est vita nostra perpetua, Domino comitante veniamus. legitur enim: Nisi Dominus
aedificaverit domum, in vano laborant qui aedificant eam.
3. Verumtamen nec illud Patres sanctissimi decreverunt, ut saecularium litterarum studia respuantur, quia
non exinde miminum ad sacras Scripturas intellegendas sensus noster instruitur; si tamen, divina gratia
suffragante, notitia ipsarum rerum sobrie ac rationabiliter inquiratur, non ut in ipsis habeamus spem
provectus nostri, sed per ipsa transeuntes desideremus nobis a Patre luminum proficuam salutaremque
sapientiam debere concedi. quanti enim philosophi haec solummodo lectitantes ad fontem sapientiae non
venerunt, et vero lumine privati ignorantiae caecitate demersi sunt! quoniam, sicut a quodam dictum est,
numquam potest plenissime investigari, quod non per viam suam quaeritur.
4. Multi iterum Patres nostri talibus litteris eruditi et in lege Domini permanentes ad veram sapientiam
pervenerunt, sicut beatus Augustinus in libro de Doctrina Christiana meminit, dicens: «Nonne aspicimus
quanto auro et argento et veste suffarcinatus exierit de Aegypto Cyprianus, et doctor suavissimus et martyr
beatissimus? quanto Lactantius, quanto Victorinus, Optatus, Hilarius?» nos addimus Ambrosium ipsumque
Augustinum atque Hieronymum multosque alios «innumerabiles Graecos». hoc etiam «ipse fidelissimus Dei
famulus Moyses fecit, de quo scriptum est quod eruditus fuerit omni sapientia Aegyptiorum». quos nos
imitantes cautissime quidem sed incunctanter utrasque doctrinas, si possumus, legere festinemus - quis
enim audeat habere dubium, ubi virorum talium multiplex praecedit exemplum2D2Dscientes plane, sicut
saepe iam dictum est, rectam veramque sapientiam Dominum posse concedere, sicut ait liber Sapientiae:
Sapientia a Domino Deo est et cum ipso fuit semper et permanet in aeternum.
5. Quapropter toto nisu, toto labore, totis desideriis exquiramus, ut ad tale tantumque munus Domino
largiente pervenire mereamur. hoc enim nobis est salutare, proficuum, gloriosum, perpetuum, quod nulla
mors, nulla mobilitas, nulla separare possit oblivio, sed in illa suavitate patriae cum Domino faciet aeterna
exuitatione gaudere. quod si alicui fratrum, ut meminit Vergilius,
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«Frigidus obstiterit circum praecordia sanguis»,
ut nec humanis nec divinis litteris perfecte possit erudiri, aliqua tamen scientiae mediocritate suffultus eligat
certe quod sequitur:
«Rura mihi et rigui placeant in vallibus amnes,»
quia nec ipsum est a monachis alienum hortos colere, agros exercere et pomorum fecunditate gratulari.
legitur enim in psalmo cxxvii: labores fructuum tuorum manducabis; beatus es et bene tibi erit.
6. Quod si huius studii requirantur auctores, de hortis scripsit pulcherrime Gargilius Martialis, qui et
nutrimenta holerum et virtutes eorum diligenter exposuit, ut ex illius commentarii lectione praestante Domino
unusquisque et saturari valeat et sanari; quem vobis inter alios codices reliqui. pari etiam modo in agris
colendis, in apibus, in columbis necnon et piscibus alendis inter ceteros Columella et Emilianus auctores
probabiles extiterunt. sed Columella sedecim libris per diversas agriculturae species eloquens ac facundus
illabitur, disertis potius quam imperitis accommodus, ut operis eius studiosi non solum communi fructu sed
etiam gratissimis epulis expleantur. Emilianus autem facundissimus explanator duodecim libris de hortis vel
pecoribus aliisque rebus planissima lucidatione disseruit, quem vobis inter alios lectitandum Domino
praestante dereliqui.
7. Haec tamen cum peregrinis atque aegrotantibus praeparantur, fiunt caelestia, quamvis videantur esse
terrena. quale est enim languentes aut dulcibus pomis reficere aut columborum fetibus enutrire, aut piscibus
alere aut mellis suavitate mulcere! nam cum vel aguam frigidam in nomine suo Dominus pauperi praecipiat
offerri, quanto gratius erit diversis egentibus escas suavissimas dare, pro quibus in illo iudicio fructum
multiplicata possitis mercede recipere! non debet neglegi, undecumque potest homini probabiliter subveniri.
XXVIII. CHE COSA DEBBON LEGGERE COLORO CHE NON SONO IN GRADO DI ADDENTRARSI NEGLI
SCRITTI DI FILOSOFIA
1. Se poi la semplicità di alcuni fratelli non sarà in grado di conoscere gli argomenti da me scelti nel
successivo libro, dal momento che quasi ogni brevità risulta oscura, sia sufficiente per loro esaminare in
maniera sommaria la ripartizione, l’utilità e il valore di questi studi, affinché siano trascinati, con un fervido
sforzo della mente, verso la conoscenza della legge divina. Grazie ai numerosi santissimi Padri troveranno,
infatti, dove poter saziare con estrema abbondanza il loro desiderio. Abbiano un sincero amore per la lettura
ed una saggia aspirazione di capire. Una salutare assiduità renda istruiti coloro che all'inizio sono stati
atterriti dalla profondità del testo.
2. Sappiamo, tuttavia, che la saggezza non risiede soltanto nelle lettere, ma Dio dà la perfetta sapienza a
ciascuno come vuole. Se, infatti, la conoscenza delle cose buone stesse solo nelle lettere, coloro che le
ignorano non sarebbero di certo in possesso di una retta sapienza. Ma poiché molti illetterati raggiungono
una vera conoscenza e sentono una retta fede infusa direttamente dal cielo, non v'è dubbio che Dio concede
ai puri e devoti sentimenti quello che ritiene vantaggioso per loro. E’ infatti scritto: Beato l'uomo che tu
istruisci o Signore, e addestri nella tua legge. Perciò attraverso le buone azioni e le assidue preghiere si
deve chiedere di giungere, in compagnia del Signore, alla vera fede e alle santissime opere, ove è la nostra
vita eterna. Si legge infatti: Se il Stgnore non .fabbrica la casa, invano faticano coloro che la costruiscono.
3. Tuttavia i santissimi Padri non hanno stabilito di dover rifiutare lo studio delle lettere secolari, poiché da
queste viene aiutata non poco la nostra mente alla conoscenza delle sacre Scritture. Occorre tuttavia
ricercare, con l'aiuto della grazia divina, la conoscenza delle lettere secolari in modo saggio e giusto, non per
ottenere da loro la speranza del nostro progresso spirituale, ma per desiderare che attraverso il loro
apprendimento il Padre della luce debba concederci la proficua e salvifica sapienza. Quanti filosofi, infatti,
non giunsero alla sorgente della sapienza leggendo solo le lettere secolari e, privati della vera luce, furono
sommersi nella cecità. dell'ignoranza! Mai, infatti, come qualcuno ha detto, si può scoprire completamente
ciò che non viene cercato nella giusta direzione.
4. Molti nostri Padri, del resto, istruiti in tali lettere e rimanendo fermi nella legge del Signore, sono pervenuti
alla vera sapienza, come ricorda sant'Agostino nel libro Sulla dottrina cristiana, dicendo: «Non ci accorgiamo
forse come fosse sovraccarico di oro, di argento e di vesti Cipriano, maestro piacevolissimo e martire
beatissimo? Come lo fossero Lattanzio, Vittorino, Ottato e Ilario?» . Noi aggiungiamo Ambrogio e lo stesso
Agostino, Girolamo e tanti altri innumerevoli Padri greci. Si comportò così anche il fedelissimo servo di Dio,
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Mosè, del quale è scritto che fu istruito in ogni tipo di sapienza degli Egiziani 6. Noi, imitandoli con estrema
cautela, ma senza esitazione, affrettiamoci per quanto ci è possibile a leggere entrambi i gruppi di lettere chi infatti osa aver esitazioni se è preceduto dai molteplici esempi di tali scrittori? - pur sapendo chiaramente,
come si è più volte detto, che la retta e vera sapienza ci viene concessa dal Signore, come afferma il libro
della Sapienza: La sapienza viene dal Signore e con lui fu sempre e rimarrà per tutti i secoli.
5. Perciò con ogni sforzo, con ogni fatica, con ogni desiderio cerchiamo di meritare, con la bontà del
Signore, di ottenere un così utile e grande dono. Questo, infatti, è per noi salutare, proficuo, glorioso, eterno
perché nessun tipo di morte, nessun cambiamento di vita, nessuna dimenticanza possono allontanarlo, ma
in quella letizia della patria esso ci farà gioire nel Signore con eterna esultanza. Se poi a qualche fratello,
come ricorda Virgilio,
Intorno al cuore il sangue si gela,
da non poter essere perfettamente istruito né nelle lettere umane né in quelle divine, ma è sostenuto
comunque da una modesta scienza, legga certamente il seguito:
Mi piacciono i campi e i fiumi che scorrono nelle valli,
poiché non sono proibiti al monaci la coltivazione degli orti, il lavoro dei campi ed il piacere di abbondanti
frutti. Si legge, infatti, nel salmo 127: Mangerai delle fatiche delle tue mani; sei felice e bene avrai.
6. Se poi si cercano i cultori di questo studio, Gargilio Marziale ha scritto sugli orti in maniera bellissima ed
ha illustrato diligentemente anche il nutrimento dei legumi e le loro virtù in modo che dalla lettura del suo
trattato, con l'aiuto del Signore, ciascuno possa essere saziato e guarito. Fra gli altri codici vi ho lasciato
anche questo trattato. Similmente nella coltivazione dei campi, nell'allevamento delle api, dei piccioni e dei
pesci sono scrittori attendibili, fra gli altri, Columella ed Emiliano. Columella, in sedici libri, scorre eloquente e
facondo sui diversi tipi di agricoltura, adatto più agli esperti che agli inesperti, per cui i lettori della sua opera
sono ricolmi non solo di frutti ordinari, ma anche di piacevolissimi cibi. Emiliano, scrittore facondissimo, ha
trattato con estrema chiarezza, in dodici libri, degli orti, delle greggi e di altri argomenti. Anche questa opera,
grazie al Signore, vi ho lasciato da leggere assieme ad altre.
7. Queste cose, quando sono preparate per i pellegrini e per gli ammalati, diventano celestiali sebbene siano
terrene. Come è bello, infatti, ridare forza al malati con dolci frutti o nutrirli con i piccoli dei piccioni o con i
pesci o ricrearli con il dolce miele! Infatti se il Signore raccomanda di offrire al povero acqua fresca in suo
nome, quanto più prezioso sarà dare cibi dolcissimi ai diversi poveri, grazie ai quali potrete ricevere la
ricompensa moltiplicata nel giorno del giudizio' Non si deve fare a meno di nessun mezzo per aiutare un
uomo in maniera sicura.
Trad. M. Donnini, Roma, Città Nuova, 2001 [BCTV]
At7, 22. I1 ricordo di Mosè che si era imbev•uto della saggezza degli Egiziani, assierne a quello
degli Ebrei che, prima di fuggire dall'Egitto, si erano impadroniti dei vasi d'oro e d'argento e dei
vestimenti avuti in prestito dagli Egiziani (t;s 3. 22 e 12, 35), costituisce un topos usato dagli
scrittori cristiani per giustificare il loro atteggiamento nei confronti di un programma di studio che
comprendeva anche la cultura secolare. In definitiva il cristiano avrebbe dovuto acquisire la
scienza protana per servirsene nello studio dì quella sacra e nella predicazione.
Cassiod., inst., 1,29. [Intratext]. Il monastero di Vivario.
De positione monasterii Vivariensis sive Castellensis.
Invitat siquidem vos locus Vivariensis monasterii ad multa peregrinis et egentibus praeparanda, quando
habetis hortos irriguos et piscosi amnis Pellenae fluenta vicina, qui nec magnitudine undarum suspectus
habeatur nec exiguitate temnibilis. influit vobis arte moderatus, ubicumque necessarius iudicatur, et hortis
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vestris sufficiens et molinis. adest enim cum desideratur, et cum vota compleverit remotus abscedit; sic
quodam ministerio devotus existens, nec horret importunus nec potest deesse cum quaeritur. maria quoque
vobis ita subiacent, ut piscationibus variis pateant et captus piscis cum libuerit vivariis possit includi. fecimus
enim illic iuvante Domino grata receptacula, ubi sub claustro fideli vagetur piscium multitudo, ita
consentaneum montium speluncis ut nullatenus se sentiat captum, cui libertas est et escas sumere et per
solitas se cavernas abscondere. balnea quoque congruenter aegris praeparata corporibus iussimus
aedificari, ubi fontium perspicuitas decenter illabitur, quae et potui gratissima cognoscitur et lavacris. ita fit ut
monasterium vestrum potius quaeratur ab aliis, quam vos extranea loca iuste desiderare possitis. verum
haec, ut scitis, oblectamenta sunt praesentium rerum, non spes futura fidelium; istud transiturum, illud est
sine fine mansurum. sed illic positi, ad illa potius desideria transferamur, quae nos faciant regnare cum
Christo.
XXIX. SULLA POSIZIONE DEL MONASTERO Dl VIVARIO E DI CASTELLO
1. La posizione del monastero di Vivario vi invita a preparare molte cose per i pellegrini ed i poveri, poiché
avete orti provvisti di acqua ed il vicino corso del torrente Pellene 1, ricco di pesci, non ritenuto pericoloso né
per la potenza della sua corrente, né preoccupante per la scarsità delle sue acque. Scorre tenuto
rigorosamente entro il suo letto, giudicato utile ovunque ed idoneo per i vostri orti e per i vostri mulini. È
presente all'occorrenza e, una volta soddisfatti i vostri desideri, si allontana. Dedito così ad un ben preciso
servizio, non genera timore mostrandosi violento né può venir meno quando ce ne è bisogno. Avete il mare
talmente vicino che si presta a vari tipi di pesca ed il pesce pescato può essere riversato, a vostro
piacimento, nei vivai. Abbiamo infatti lì costruito, con l'aiuto del Signore, piacevoli vivai ove vagano
moltissimi pesci entro uno sbarramento sicuro, reso idoneo dalla presenza di grotte montane, per cui il
pesce non si sente affatto prigioniero potendo liberamente mangiare e nascondersi nelle abituali grotte.
Abbiamo fatto costruire anche bagni perfettamente adatti per gli ammalati, ove scorrono convenientemente
limpide acque gradevolissime sia per bere sia per bagnarsi. Pertanto il vostro monastero è ricercato da altri
più di quanto voi possiate giustamente desiderare altri luoghi 2. In verità, questi sono, come sapete, piaceri
del presente, non la speranza futura dei fedeli; i primi sono destínati a passare, la seconda a rimanere per
sempre. Ma, dimorando noi nel monastero, volgiamo piuttosto la mente a quei desideri che ci fanno regnare
con Cristo.
2. Leggete con attenzione ed ascoltate di buon grado il presbítero Cassiano 3 che ha scritto sull'istruzione
dei fedeli monaci. Egli all'inizio della sua trattazione afferma che bisogna fuggire gli otto vizi principali. Fa
conoscere i nocivi moti dell'animo in maniera così conveniente da indurre gli uomini a vedere i loro peccati
che prima non conoscevano, essendo avvolti nella caligine dell'ignoranza, e ad evitarli. Fu tuttavia
giustamente condannato a proposito del libero arbitrio da san Prospero 4, per cui vi avvertiamo di leggerlo
con cautela dal momento che egli oltrepassa su tali argomenti i confini della fede. Vittore Mattaritano,
vescovo dell'Africa, con l'aiuto del Signore ha corretto gli scritti di Cassiano e ne ha colmato le parti
insufficienti in modo tale che meritatamente va assegnata a lui la palma in questi argomenti. Abbiamo
creduto subito di dover sistemare Cassiano assieme ad altri provenienti dall'Africa. Egli accusa in maniera
violenta gli altri tipi di monaci. Ma voi, carissimi fratelli, con l'aiuto del Signore, scegliete quelle parti che
Vittore Mattaritano, come è noto, ha salutarmente elogiato.
3. Se con la grazia di Dio la vita cenobitica nel monastero di Vivario vi istruirà convenientemente, come è
giusto pensare, e se gli animi purificati desidereranno una vita più elevata, avete a vostra disposizione i
piacevoli eremi di Montecastello, dove, con l'aiuto di Dio, potrete vivere felicemente come anacoreti. Sono,
infatti, luoghi appartati che assomigliano all'eremo, poiché risultano chiusi da antiche mura che li circondano.
Perciò sarà conveniente per voi, ormai istruiti e divenuti sicurissimi nella fede, scegliere quella dimora se nel
vostro cuore sarà stata precedentemente preparata questa ascesa. Leggendo, infatti, conoscete una di
queste due cose: ciò che potete desiderare e ciò che potete sopportare. Importante è che, osservata la
santità di vita, chi non può insegnare con le parole, lo faccia con la santità del suo comportamento.
Il Pellene è identificato nel fiume Alessi che scorre ai piedi di Squillace. Questa del monastero di Vivario risulta in alcuni
punti simile alla descrizione di Squillace, che si legge in Cassiod. Var. Xll, 15:
Trad. Di M. Donnini, Roma, Città Nuova, 2001 [BCTV]
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Cassiod., inst,1,30,2. [IntraText]. Preoccupazioni per il lavoro di amanuensi
De antiquariis et commemorationem orthographiae
2. Sed ne tanto bono mutatis litteris scriptores verba vitiosa permisceant aut ineruditus emendator nesciat
errata corrigere, orthographos antiquos legant, id est, Velium Longum, Curtium Valerianum, Papirianum,
Adamantium Martyrium de V et B, eiusdem dc primis mediis atque ultimis syllabis, eiusdem de B littera
trifariam in nomine posita, et Eutychen de aspiratione, sed et Focam de differentia generis; quos ego
quantos potui studiosa curiositate collegi. et ne quempiam memoratorum codicum obscuritas derelicta
turbaret, quoniam antiquarum declinationum permixtione pro maxima parte confusi sunt, magno studio
laboris incubui, ut in libro sequestrato atque composito, qui inscribitur de orthographia, ad vos defloratae
regulae pervenirent, et dubietate sublata liberior animus viam emendationis incederet. Diomedem quoque et
Theoctistum aliqua de tali arte scripsisse comperimus; qui si inventi fuerint, vos quoque eorum deflorata
colligite. forte et alios invenire possitis, per quos notitia vestra potius instruatur. isti tamen qui memorati sunt,
si assiduo studio relegantur, omnem vobis caliginem ignorationis abscidunt, ut quod hactenus ignoratum est
habeatur ex maxima parte notissimum.
XXX. SUI COPISTI E SUL RICORDO DELL'ORTOGRAFIA
1. Io confesso che, fra tutti i lavori fisici da voi svolti, preferisco, non senza una giusta ragione, quello dei
copisti, quando ovviamente scrivono senza errori, poiché essi, leggendo le divine Scritture, istruiscono in
maniera salutare la loro mente e scrivendo seminano in lungo ed in largo gli insegnamenti del Signore.
Santa attività, lodevole occupazione quella di predicare agli uomini con la mano, parlare con le dita, elargire
la salvezza ai mortali senza parlare e combattere contro le illecite insidie del diavolo con penna e inchiostro.
Satana, infatti, riceve tante ferite quante sono le parole del Signore scritte dal copista 1. Pur stando fermo in
un luogo attraversa varie province in virtù della propagazione della sua opera; il frutto della sua fatica viene
letto nei luoghi sacri; i popoli apprendono come allontanarsi dai desideri malvagi e come servire il Signore
con mente pura. Egli lavora benché assente dal suo lavoro. Non posso dire che egli non sia in grado di
ricevere da tutte queste buone azioni un cambiamento di vita se le compie non con inutile ambizione, rna
con amore sincero. Pur essendo un uomo moltiplica le parole divine e, per parlare in senso figurato - se mi è
lecito dire - con tre dita viene scritto quello che di ce la virtù della santa Trinità. O spettacolo glorioso per chi
lo osserva attentamente! 2. Con la canna che scorre vengono scritte le parole divine, di modo che con lo
stesso strumento con cui il diavolo fece percuotere durante la passione la testa del Signore, possa essere
sconfitta la sua astuzia. I copisti sono degni di lode anche perché sembrano imitare in un certo qual modo
l'azione del Signore che scrisse - sebbene sia stato detto in senso figurato - la sua legge col suo dito
onnipotente 3. Molte sono le cose che si potrebbero dire a proposito di quest'arte così gloriosa, ma è
sufficiente ricordare che sono chiamati copisti (librarii) coloro che servono con zelo la giusta bilancia (libra)
del Signore 4.
2. Ma perché in un lavoro così nobile i copisti non inseriscano parole errate cambiando lettere o perché
l'ignorante correttore non sappia correggere gli errori, leggano gli antichi scrittori di ortografia, cioè Velio
Longo 5, Curzio Valeriano 6 Papiriano 7, Adamanzio Martirio 8 sulle lettere V e B, sulle prime, medie e
ultime sillabe, sulla lettera B nelle tre posizioni nel nome e nell'aggettivo, Eutiche 9 sull'aspirazione e Foca
10 sulla differenza di genere. Per quanto mi è stato possibile li ho riuniti con diligente cura. E per impedire
che l'oscurità dei libri or ora menzionati turbasse qualcuno, essendo essi in massima parte non chiari per la
confusione delle antiche desinenze, mi sono impegnato con grande zelo e fatica a far sì che in un libro
compilato a parte, intitolato Sulla ortografia, fossero a vostra disposizione regole scelte e la mente,
allontanata dal dubbio, potesse procedere più libera nella via della correzione. Sappiamo che anche
Diomede 11 e Teoctisto 12 hanno scritto su quest'arte. Se le loro opere verranno ritrovate, anche voi
riunitene assieme passi scelti. Forse potrete trovare anche altri autori attraverso i quali la vostra conoscenza
potrà arricchirsi. Questi, tuttavia, che ho menzionato, se verranno letti con costante zelo, toglieranno tutta la
caligine della vostra ignoranza, per cui quello che prima era ignoto potrà ora diventare in massima parte
notissimo.
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3. Abbiamo inoltre procurato operai specializzati nella rilegatura di libri, affinché una decorosa forma
esteriore rivestisse la bellezza delle lettere sacre, imitanti peraltro in qualche modo l'esempio del Si gnore
che nella gloria del banchetto celeste coprì con stole nuziali quelli che ritenne degni di essere invitati a cena
13. Ho raffigurato in un libro, in maniera appropriata, se non erro, vari modelli di copertine dipinte, affinché il
rilegatore possa scegliere la forma che vorrà.
4. Abbiamo anche preparato, per le veglie notturne, lucerne ingegnosamente costruite che mantengono le
loro fiamme luminose e alimentano da sole il fuoco. Esse, pur senza l'intervento dell'uomo, conservano a
lungo l'abbondantissimo chiarore della ricchissilna luce ed il grasso dell'olio non vien meno, sebbene venga
bruciato continuamente dalle fiamme ardenti.
5. Non abbiamo nemmeno permesso che voi ignoraste del tutto la misurazione delle ore, ritenuta
un'invenzione di grande utilità per il genere umano. Percíò ho preparato per voi un orologio che funzio na
con la luce del sole e un altro ad acqua, che indica continuamente le ore del giorno e della notte, poiché
spesso, come si sa, in alcuni giorni la luce del sole viene a mancare e la pioggia cade in terra in modo
mirabile, per cui l'ardente forza del sole, regolata dall'alto, diventa debole. In tal modo l'arte dell'uomo ha
fatto andare concordemente elementi che per natura sono separati. La misurazione delle ore mediante
questi sistemi risulta talmente attendibile che voi potete considerarli ambedue costruiti da angeli. Questi
strumenti sono stati, dunque, preparati affinché i soldati di Cristo, guidati da segni sicurissimi, siano chiamati
al compimento dell'ufficio divino come da suoni di trombe.
Trad. M. Donnini, Roma, Città Nuova, 2001 [BCTV]
Di Adamanzio Martirio, grammatico della prima metà del VI secolo d.C., Cassiodoro riporta alcuni excerpta nel De
orthographia (capp. V-VII).
Teoctisto fu maestro di Prisciano.
Cassiod., inst., 1, pr.,9. [IntraText]. I segni di interpunzione, i cola e i commata.
Illud quoque credidimus commonendum, sanctum Hieronymum simplicium fratrum consideratione pellectum
in Prophetarum praefatione dixisse, propter eos qui distinctiones non didicerant apud magistros saecularium
litterarum colis et commatibus translationem suam, sicut hodie legitur, distinxisse. quod nos quoque tanti viri
auctoritate commoniti sequendum esse iudicavimus, ut cetera distinctionibus ornentur. ista vero sufficiant
simplicissimae lectioni, quae supradictus vir, sicut dictum est, ad vicem distinctionum colis et commatibus
ordinavit, ne supra iudicium tanti viri vituperabili praesumptione venisse videamur.
Reliquos vero codices, qui non sunt tali distinctione signati, notariis diligenti tamen cura sollicitis relegendos
atque emendandos reliqui; qui etsi non potuerint in totum orthographiae minutias custodire, emendationem
tamen codicum antiquorum, ut opinor, adimplere modis omnibus festinabunt. habent enim scientiam notarum
suarum, quae ex maxima parte hanc peritiam tangere atque ammonere noscuntur. sed ut error inolitus
aliquatenus de medio tolleretur, factum est ut in sequenti libro de orthographiae regulis perstrictim pro captu
ingenii nonnulla poneremus, ne praecipitanter emendantium impolita praesumptio posteris carpenda
traderetur. paravi quoque quantos potui priscos orthographos inverire, per quos etsi non omnino correcti
tamen ex magna parte meliorati esse videantur. orthographia siquidem apud Graecos plerumque sine
ambiguitate probatur expressa; inter Latinos vero sub ardua difficultate relicta monstratur, unde etiam modo
studium magnum lectoris inquirit.
Abbiamo creduto che anche questo dovesse essere ricordato: san Girolamo, spinto dalla premura verso i
fratelli incolti, disse nella prefazione ai Profeti di aver indicato nella sua traduzione, a causa di quelli che non
avevano appreso i segni di interpunzione dai maestri delle lettere profane, i punti di divisione mediante cola
e commata, come oggi si legge. Anche noi, spinti dall’autorità di un così grande scrittore, abbiamo deciso di
adottare questo metodo, sebbene le altre opere siano abbellite dai segni d'interpunzione. A rendere la lettura
più semplice possibile siano suffîcienti questi mezzi che il suddetto scrittore, come è stato ricordato, ha
disposto in cola e commata al posto dei segni d'interpunzione, perché non sembri che noi ci eleviamo con
condannevole presunzione al di sopra della decisione di un così grande scrittore. GIi altri libri invece, non
segnati da una simile interpunzione, ho lasciato da leggere e da emendare a copisti che comunque si
ímpegnano con diligente cura. Questi, anche se non potrarmo prestare la massima attenzione a tutte le
minuzie ortografiche, porranno la massima premura - come penso - nell'emendare gli antichi codici. Ben
conoscono, infatti, i segni critici a loro disposizione, che, come si sa, in gran parte facilitano la perizia nella
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correzione e li incoraggiano. Ma per togliere di mezzo in una qualche misura un errore abbarbicato, abbiamo
deciso di esporre succintamente ed in maniera adeguata alle loro capacità mentali, alcune osservazioni, nel
libro che segue, sulle regole dell'ortografia, affinché la rozza presunzione di coloro che correggono
frettolosarnente non venga tramandata ai posteri. Mi sono auche procurato tutti gli antichi maestri di
ortografia che ho patuto trovare, affinche con il loro aiuto i copisti, anche se non saranno completamente
corretti, potranno, comunque risultare in gran parte migliorati. Mentre presso i Greci l’ortografia viene
generalmente messa in evidenza senza ambiguità, presso i Latini, invece, essa appare trascurata a causa
della sua grande difficoltà, per cui anche ora richiede una grande attenzione da parte del lettore.
Trad. Di M. Donnini, Roma, Città Nuova, 2001 [BCTV]
Cassiod., inst.,2, pr.,4. [IntraText]. Le arti liberali.
Modo iam secundi voluminis intremus initia, quae paulo diligentius audiamus. Sunt enim etymologiis densa
et definitionum plena tractatibus. In quo libro primum nobis dicendum est de arte grammatica, quae est
videlicet origo et fundamentum liberalium litterarum . Liber autem dictus est a libro, id est, arboris cortice
dempto atque liberato, ubi ante inventionem cartarum antiqui carmina describebant. Ideoque licentia est
nunc et breves libros facere et prolixiores extendere, quoniam, sicut cortex et virgulta complectitur et vastas
arbores claudit, ita pro rerum qualitate permissum est modum libris imponere. Scire autem debemus, sicut
Varro dicit, utilitatis alicuius causa omnium artium extitisse principia. Ars vero dicta est, quod nos suis regulis
artet atque con stringat: alii dicunt a Graecis hoc tractum esse vocabulum, apo tes aretes, id est, a virtute,
quam diserti viri unuscuiusque rei scientiam vocant. Secundo de arte rethorica, quae propter nitorem et
copiam eloquentiae suae maxime in civilibus quaestionibus necessaria nimis et honorabilis aestimatur.
Tertio de logica, quae dialectica nuncupatur; haec, quantum magistri saeculares dicunt, disputationibus
subtilissimis ac brevibus vera sequestrat a falsis. Quarto de mathematica, quae quattuor complectitur
disciplinas, id est, arithmeticam, geometricam, musicam et astronomicam. Mathematicam vero latino
sermone doctrinalem possumus appellare; quo nomine licet omnia doctrinalia dicere possimus quaecumque
docent, haec sibi tamen commune vocabulum propter suam excellentiam proprie vindicavit, ut poeta dictus
intellegitur apud Graecos Homerus, apud Latinos Vergilius, orator enuntiatus apud Graecos Demosthenes,
apud Latinos Cicero declaratur, quamvis multi et poetae et oratores in utraque lingua esse doceantur.
Mathematica vero est scientia quae abstractam considerat quantitatem. Abstracta enim quantitas dicitur,
quam intellectu a materia separantes vel ab aliis accidentibus, sola ratiocinatione tractamus.
4. Entriamo ora nella parte iniziale del secondo libro e prestiamo ad essa un po' più di attenzione. Essa è,
infatti, ricca di etimologie e piena di trattati contenenti definizioni. In questo libro dobbiamo innanzitutto
parlare della grammatica che è senza dubbio l'origine e il fondamento delle lettere liberali 14. Il vocabolo
«libero» deriva da «libro» 15, vale a dire dalla corteccia dell'albero, staccata e resa libera, sulla quale gli
antichi, prima della invenzione della carta, scrivevano i responsi degli oracoli. Per questo è ora possibile fare
libri brevi o dare maggior grandezza a quelli più lunghi, dal momento che, come la corteccia può avvolgere
sia virgulti sia grossi alberi, così a seconda della materia trattata è possibile dare una certa dimensione ai
libri. Si deve sapere che, come afferma Varrone 16, gli inizi di tutte le arti sono stati determinati da una
qualche utilità 17. Il termine «arte» deriva dal fatto che essa con le sue regole limita 18 e costringe
fortemente. Secondo altri questo vocabolo deriverebbe dal greco apò tès aretès [greco], cioè «dalla virtù»
che uomini esperti chiamano conoscenza di ogni materia 19. Come seconda dobbiamo parlare dell'arte
retorica che per lo splendore e la ricchezza dell'eloquio è necessaria specialmente nelle questioni civili 20 ed
è ritenuta degna di grandi onori. In terzo luogo dobbiamo trattare della logica che viene chiamata dialettica.
Quest'arte, secondo i maestri secolari, separa il vero dal falso per mezzo di brevi e sottili discussioni 21. In
quarto luogo dobbiamo trattare della matematica che abbraccia quattro discipline, e precisamente
l'aritmetica, la geometria, la musica e l'astronomia. In latino si potrebbe chiamare la matematica doctrinale.
Pur potendo designare con questo termine tutte le arti che insegnano a fare speculazioni teoriche, la
matematica, in virtù della sua eccellenza, ha rivendicato esclusivamente per sé questo termine comune,
come col vocabolo "poeta" si intende presso i Greci Omero e presso i Latini Virgilio e col termine oratore si
vuole indicare presso i Greci Demostene e presso i Latini Cicerone, sebbene si insegni che nurnerosi furono
i poeti e gli oratori dell'una e dell'altra lingua. La matematica è la scienza che considera la quantità astratta;
quantità astratta, infatti, è detta quella che noi, staccandola con l'intelletto dalla materia e dagli altri accidenti,
trattiamo con il solo ragionamento 22.
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Trad. M. Donnini, Roma, Città Nuova, 2001 [BCTV]
Magni Aurelii Cassiodori Senatoris
V. C. ET INL. EXQUAEST. PAL. EXCONS. ORD. EXMAG. OFF. PPO ATQUE PAT.
VARIARUM
Libri duodecim
Praefatio
[1] Cum disertorum gratiam aut communibus fabulis aut gratuitis beneficiis, nullis tamen veris meritis
collegissem, dicta mea, quae in honoribus saepe positus pro explicanda negotiorum qualitate profuderam, in
unum corpus redigere suadebant, ut ventura posteritas et laborum meorum molestias, quas pro generalitatis
commodo sustinebam, et sinceris conscientiae inemptam dinosceret actionem. [2] Dicebam dilectionem
ipsorum mihi potius fore contrariam, ut, quod modo propter desideria supplicantium putabatur acceptum,
postea legentibus videretur insubidum. addebam debere illos Flacci dicta recolere, qui monet, quid periculi
vox praecipitata possit incurrere. [3] Respondendi celeritatem cunctos videtis exigere, et creditis me
impaenitenda proferre? dictio semper agrestis est, quae aut sensibus electis per moram non comitur aut
verborum minime proprietatibus explicatur. loqui nobis communiter datum est: solus ornatus est, qui discernit
indoctos. [4] Nonus annus ad scribendum relaxatur auctoribus: mihi nec horarum momenta praestantur: mox
ut coepero, clamoribus imminetur et festinatione nimia geritur, ne cautius coepta peragantur. alter nos
frequentia invidiosae interpellationis exaggerat: alter miseriarum mole castigat: alii furiosa contentionum
seditione circumdant. [5] Inter haec cur requiritis dictationis eloquium, ubi copiam vix possumus habere
sermonum? ipsas quoque noctes inexplicabilis cura circumvolat, ne desint alimonia civitatibus, quae supra
omnia populi plus requirunt, studentes ventri, non auribus. hinc est quod cogimur animo per cunctas ire
provincias et iniuncta semper inquirere, quia non sufficit agenda militibus imperare, nisi haec iudicis
assiduitas videatur exigere. nolite, quaeso, noxie nos amare. declinanda est suasio quae plus habet periculi
quam decoris. [6] Sed illi me potius tali disceptatione fatigabant: ëpraefectum te praetorianae sedis omnes
noverunt, cui dignitati occupationes publicae velut pedisequae semper assistunt. ab hac enim exercituales
flagitantur expensae: ab hac victus quaeritur sine temporis consideratione populorum: huic etiam vel solum
grave iudiciorum pondus adiectum est. cui ideo leges visae sunt inmensum onus imponere, dum ad ipsam
honoris gratia maluerunt paene omnia pertinere. quod enim spatium possis publico labori subripere, quando
in unum pectus confluit, quicquid utilitas generalitatis exposcit? [7] Addimus etiam, quod frequenter
quaesturae vicibus ingravato otii tempus adimit crebra cogitatio, et velut mediocribus fascibus insudanti illa
tibi de aliis honoribus principes videntur imponere, quae proprii iudices nequeunt explicare. haec autem facis
nulla vendendo, sed exemplo proprii genitoris ab sperantibus accipis solos labores: sic petentibus
praestando gratis sub continentiae munere cuncta mercaris. [8] Regum quin etiam gloriosa colloquia pro
magna diei parte in bonum publicum te occupare noverunt, ut fastidium sit otiosis expectare, quae tu
continuo labore cognosceris sustinere. verum hoc magis tibi ad suffragium laudis potest proficere, si inter
tanta et talia valueris legenda proferre: deinde quod rudes viros et ad rem publicam conscia facundia
praeparatos labor tuus sine aliqua offensione poterit edocere, et usum, quem tu inter altercantium pericula
iactatus exerces, illos, qui sunt in tranquillitate positi, contingit felicius adipisci. [9] Proinde, quod salva fide,
qua frueris, dissimulare non poteris, tanta regum beneficia, si pateris ignorari, frustra maluisti benigna
festinatione concedi. noli, quaesumus, in obscurum silentii revocare, qui te dicente meruerunt illustres
dignitates accipere. tu enim illos assumpsisti vera laude describere et quodam modo historico colore
depingere. quos si celebrandos posteris tradas, abstulisti, consuetudine maiorum, morientibus decenter
interitum. [10 Deinde mores pravos regis auctoritate recorrigis, excedentis audaciam frangis, timorem legibus
reddis. et adhuc dubitas edere quod tantis utilitatibus probas posse congruere? celas etiam ut ita dixerim,
speculum mentis tuae, ubi te omnis aetas ventura possit inspicere. contingit enim dissimilem filium
plerumque generari: oratio dispar moribus vix potest inveniri. est ergo ista valde certior arbitrii proles: nam
quod de arcano pectoris gignitur, auctoris sui posteritas veracius aestimatur. [11] Dixisti etiam ad
commendationem universitatis frequenter reginis ac regibus laudes: duodecim libris Gothorum historiam
defloratis prosperitatibus condidisti. cum tibi in illis fuerit secundus eventus, quid ambigis et haec publico
dare, qui iam cognosceris dicendi tirocinia posuisse?í [12] Victus sum, fateor, in verecundiam meam: nec
obsistere tantis prudentibus potui, cum me viderem ex affectione culpari. nunc ignoscite, legentes, et si qua
est incauta praesumptio, suadentibus potius imputate, quia mea iudicia cum illo videntur facere, qui me
decreverit accusare. [13] Et ideo quod in quaesturae, magisterii ac praefecturae dignitatibus a me dictatum
in diversis publicis actibus potui reperire, bis sena librorum ordinatione composui, ut, quamquam diversitate
causarum legentis intentio concitetur, efficacius tamen rapiatur animus, cum tendit ad terminum. [14] Illud
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autem sustinere alios passi non sumus quod nos frequenter incurrimus in honoribus dandis, impolitas et
praecipites dictiones, quae sic poscuntur ad subitum, ut vix vel scribi posse videantur. cunctarum itaque
dignitatum sexto et septimo libris formulas comprehendi, ut et mihi quamvis sero prospicerem et sequentibus
in angusto tempore subvenirem: ita quae dixi de praeteritis conveniunt et futuris, quia non de personis, sed
de ipsis locis quae apta videbantur explicui. [15] Librorum vero titulum, operis indicem, causarum
praeconem, totius orationis brevissimam vocem, variarum nomine praenotavi, quia necesse nobis fuit stilum
non unum sumere, qui personas varias suscepimus ammonere. aliter enim multa lectione satiatis, aliter
mediocri gustatione suspensis, aliter a litterarum sapore ieiunis persuasionis causa loquendum est, ut
interdum genus sit peritiae vitare quod doctis placeat. [16] Proinde maiorum pulchra definitio est sic apte
dicere, ut audientibus possis concepta vota suadere. neque enim tria genera dicendi in cassum prudens
definivit antiquitas: humile, quod communione ipsa serpere videatur: medium, quod nec magnitudine
tumescit nec parvitate tenuatur, sed inter utrumque positum, propria venustate ditatum suis finibus
continetur: tertium genus, quod ad summum apicem disputationis exquisitis sensibus elevatur: videlicet, ut
varietas personarum congruum sortiretur eloquium et, licet ab uno pectore proflueret, diversis tamen alveis
emanaret, quando nullus eloquentis obtinet nomen, nisi qui trina ista virtute succinctus causis emergentibus
viriliter est paratus. [17] Huc accedit, quod modo regibus, modo potestatibus aulicis, modo loqui videamur
humillimis, quibus alia contigit sub festinatione profundere, alia vero licuit cogitata proferre, ut merito
variarum dicatur, quod tanta diversitate conficitur. sed utinam, sicut ista regulis accepisse probamur antiquis,
ita eadem promissae resignent merita dictionis. [18] Quapropter humile de nobis verecunde promittimus:
mediocre non improbe pollicemur: summum vero, quod propter nobiltatem sui est in editiore constitutum, nos
attigisse non credimus. verum tamen sileant praesumptiones illicitae, qui legendi sumus. incongruo namque
nostras de nobis disputationes ingerimus, qui vestra potius iudicia sustinemus.
Letture critiche - C. Moreschini, Le opere di Vivarium
Il significato di questo monastero è, per certi aspetti, fuori dell'ordinario, ma il suo ruolo è stato spesso
esagerato, come se fosse stato un centro di cultura greca (mentre i monaci non parlavano e non leggevano
il greco, tanto è vero che ad essi furono destinate delle traduzioni in lingua latina); lo si è esagerato anche
perché è stato considerato come una vera e propria biblioteca a cui avrebbero attinto i grandi cenobi
successivi, da Bobbio a san Gallo a Corbie: in realtà, alla morte di Cassiodoro il monastero di Vivarium fu
distrutto ed i suoi libri andarono dispersi (alcuni furono raccolti nella biblioteca del Laterano, a Roma). Non
c'è dubbio che i monaci si dedicarono ad un impegnativo lavoro di copiatura ed emendazione dei codici
antichi, e che tale lavoro fosse stato particolarmente a cuore a Cassiodoro per primo, ma il monastero di
Vivarium non costituì per questo una grande novità, perché questa prassi era costante in tutti i cenobi latini
che sorsero accanto ai grandi letterati come Gerolamo, Rufino, Agostino.
Il Vivarium, pur essendo una fondazione laica, non riprendeva il programma culturale enunciato nel
rescritto di Atalarico messo in forma retorica da Cassiodoro stesso, a cui sopra si è accennato, ma si
conformava alla prassi dei monasteri dell'epoca, nonostante che la grande personalità di Cassiodoro
potesse aver dato impulso ad un certo tipo di attività culturale, e cioè a quella incentrata sulla
`grammatica'. Ma si trattava pur sempre di un'attività rivolta allo studio dei testi religi osi. «Se continuità
si vuole scorgere», osserva il Pricoco, «essa non fu certo tra la schola romana ed il monastero
calabrese, ma fu nella persistente vocazione di Cassiodoro agli studi biblici e religiosi ...». Sarebbe
riduttivo, quindi, fare del Vivarium un'istituzione puramente intellettuale o una scuola laica, e
dimenticarne l'ispirazione monastica. La sua pretesa `novità' va, da questo punto di vista, largamente
ridimensionata.
Nel suo nuovo ruolo di guida del monastero da lui stesso fondato, e rispond endo alle esigenze che
riteneva imprescindibili per la cultura monastica, così come era da lui intesa, Cassiodoro compose
alcune opere, che egli stesso elenca nella prefazione a quella Sull'ortografia, scritta proprio alla fine
della sua vita. Per tali opere egli attinse, nella misura del possibile, alla letteratura greca, esplicando
una intensa attività di traduzioni dai testi greci (per lo più affidate a suoi collaboratori), facendo copiare
e diffondere le opere di Origene, che in parte erano state tradot te due secoli prima da Rufino, e poi
quelle di Flavio Giuseppe, del Crisostomo e di altri, che poterono così essere lette nel Medioevo. Inoltre,
insieme al monaco Epifanio, Cassiodoro compose personalmente la Storia della Chiesa, divisa in tre
parti (Historia ecclesiastica tripartita), basata sulla Storia della Chiesa di Socrate, Sozomeno e
Teodoreto (cf. p. 962 ss.), analogamente a quella eseguita da Teodoro lettore proprio in quegli anni.
Cassiodoro, tuttavia, modificò il piano del suo lavoro in corso d'o pera: all'inizio avrebbe voluto
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semplicemente tradurre in latino la compilazione di Teodoro lettore, ma successivamente dette incarico
ad Epifanio di tradurre le opere dei tre storici, ed egli stesso fece una compilazione sulla base di quanto
Epifanio gli aveva messo a disposizione. Ne risultò un'opera in dodici libri, che, anche se con alcune
lacune e segni di composizione frwtolosa, fu di fondamentale importanza per la cultura medioevale.
Altri scritti di Cassiodoro a Vivarium sono opere originali, anche se tradiscono pur esse una mentalità
compilatrice, più che una capacità di organizzare in modo nuovo una dottrina personale. Ci riferiamo ai
Commenti ai Salmi (Commenta Psalterii), composti nel 554-555. Essi sono basati soprattutto - ma non
ciecamente - sulle Spiegazioni dei Salmi (Enarrationes in Psalmos) di Agostino (p. 525); la
interpretazione è esclusivamente allegorica e spirituale, ricca di simbolica e di aritmologia; alcune
divagazioni di contenuto teologico sono suggerite da alcuni dei Salmi stessi; emerge la conoscenza
delle teorie retoriche di Cassiodoro, che egli adatta all'interpretazione del testo. In questo atteggiamento
consiste la sua novità, in quanto, per Cassiodoro, la retorica diventa un sussidio necessario all'esegesi.
A questi interessi risponde anche l'apposizione al testo di certe `note', cioè di segni specifici che
avevano lo scopo di favorire l'interpretazione dei passi difficili. Anche in quest'opera, come in quella
sull'anima, Cassiodoro cerca di eseguire un lavoro sistematico e si ntetico insieme, sia commentando
tutti i Salmi sia, per evidenti esigenze di brevità, abbreviando certe trattazioni che i suoi predecessori,
come Agostino e Origene, avevano svolto con ampiezza. Altri testi di esegesi sono la Esposizione
dell'Epistola ai Romani (Expositio epistolae ad Romanos), che vuole essere una rielaborazione purgata
di un commento di Pelagio alle epistole paoline: Cassiodoro riservò per sé la revisione della Epistola ai
Romani, agli altri monaci quella delle altre epistole; un Riassunt o delle epistole apostoliche e dei loro
Atti e dell'Apocalisse (Complexiones in epistolis apostolorum et actibus eorum et Apocalypsi), che,
come dice il titolo, risponde a dei criteri di brevità, ed è composto soprattutto di annotazioni al testo.
L'unione di interessi sacri e di cultura profana, soprattutto retorica, che si coltivava a Vivarium, è
manifestata al massimo grado nelle Istituzioni (Institutiones), più precisamente Istituzioni sul modo in cui
debbano intendersi i testi sacri e i testi profani, in due libri. Esse vogliono, negli intenti dell'autore,
rispondere all'esigenza di creare una scienza teologica per i monaci di Vivarium, per cui i due libri sono
entrambi di introduzione alle scienze. Nel primo libro si spiegano gli scrittori dai quali si possono
apprendere le varie discipline: innanzitutto la Bibbia, con Ie esegesi dei Padri, che ad essa si
riferiscono, poi le opere teologiche, le storie politiche e le storie letterarie, i grandi scrittori della Chiesa; il
secondo libro tratta delle sette arti liberali, illustrandone le teorie per mezzo di esemplificazioni ricavate da
scrittori greci e latini, ma la cultura sacra ha pur sempre la preminenza su ogni altra forma. Non altrimenti si
deve intendere la composizione, da parte di Cassiodoro, anche di una breve e sintetico Trattato di ortografia
(De orthographia), scritto proprio alla fine della sua vita; esso era stato reso necessario dal fatto che presso i
monaci l'istruzione elementare era divenuta sempre più rara, segno della decadenza della cultura e
dell'imbarbarimento dell'Italia.
Moreschini - Norelli, Storia della letteratura cristiana antica greca e latina, 2/2, pp.691-94.
M. Donnini, Le Institutiones
Composte prima del 551 e nella redazione definitiva intorno al 562 17, le Institutiones divinarum et
humanarum lectionum presentano, dal punto di vista testuale, almeno tre diverse redazioni, vale a dire le
due consistenti, secondo il Courcelle, rispettivamente in un brogliaccio iniziale formato da un unico libro sulle
sette arti liberali, dal quale dipenderebbero le due famiglie delta e phi, e nella redazione definitiva in due libri,
costituente la redazione omega, dalla quale dipenderebbe la recensione dell'edizione del Mynors e la terza
redazione, individuata da Holtz, documentata dalle citazioni di Isidoro di Siviglia e di Paolo Diacono. Singoli
allievi di Cassiodoro, poi, alla morte del maestro, operarono varie interpolazioni, anche di una certa
ampiezza, non prive di vistose divergenze testuali.
Recentemente il Troncarelli ha sostenuto, in maniera peraltro assai convincente, che il brogliaccio di cui
parla il Courcelle e da cui dipenderebbero, come si è detto, le redazioni delta e phi, non sarebbe stato altro
che un testo a parte, originariamente scritto per la scuola di teologia che Cassiodoro intendeva istituire a
Roma sotto gli auspici di papa Agapito, e che sarebbe poi stato trasferito a Vivario, dove, da una parte
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sarebbe stato inserito con appositi adattamenti nell'edizione ufficiale dei due libri, dall'altra sarebbe stato di
nuovo utilizzato nello stesso monastero, arricchito da ulteriori interpolazioni.
Va aggiunto che, mentre il primo libro, dopo la dispersione della biblioteca di Vivario, venne a perdere di
interesse a causa del suo indirizzo culturale quasi esclusivamente ancorato alla Bibbia, il secondo, invece,
configurandosi come un'introduzione alle arti liberali, continuò ad essere ritenuto utile in ogni campo di studi.
Il primo libro, dedicato alle scienze sacre, comprende 33 capitoli, corrispondenti agli anni di Cristo. La
Praefatio si apre con la triste constatazione della mancanza a Roma di un insegnamento religioso di alto
livello capace di affiancare degnamente, in maniera anche competitiva, l'insegnamento profano lì impartito.
Per questo, Cassiodoro ricorda il proposito di fondare a Roma una scuola superiore cristiana. Doveva avere
le idee chiare sul come organizzarla: aveva davanti a sé due celebri modelli, la scuola di Alessandria e
quella di Nisibi, e, da uomo esperto nella vita politico- amministrativa (era allora prefetto del pretorio), doveva
ben conoscere, oltre alle persone che gli potevano essere di aiuto, anche i fondi e gli strumenti didattici
necessari. Ma tutto questo non bastò perché, come egli stesso dichiara con una punta di amarezza, «non c'è
spazio per occupazioni pacifiche in tempi turbolenti», e così fu inevitabile il fallimento a causa
dell'«eccessivo dilagare delle guerre e dei combattimenti nel regno d'Italia».
Per non rinunciare definitivamente a questa iniziativa, scrive le lnstitutiones, una specie di manuale
introduttivo allo studio della sacra Scrittura e delle arti liberali, avvalendosi non della propria erudizione, che
poteva generare in lui orgoglio intellettuale, ma attingendo allo studio degli antichi per giungere ad una
migliore comprensione della Bibbia e dei suoi commentatori. Formula anche un programma didattico ispirato
ai tradizionali dettami della pedagogia che racccnnanda di procedere per gradi. Per questo esorta a partire
dall'apprendimento rnnemonico dei Salmi, per poi passare allo studio continuo dell'intera Bibbia, la cui
perfetta conoscenza, conservata su codici emendati, egli ritiene estremamente necessaria per la soluzione
di questioni oscure, potendo un passo difficile ricevere luce da un altro.
Si debbono inoltre conoscere i commenti ai singoli libri della Bibbia, dando la preferenza a quelli latini, da
integrare comunque con quelli greci nei casi in cui ci si accorga della loro carenza.
Se la lettura deve essere effettuata sii testi corretti e riconosciuti conforrni ai principi di fede cristiana, risulta
del tutto giustificata l’importanza attribuita da Cassiodoro alla correttezza ortografica ed alla punteggiatura.
Detto ciò, egli enumera in maniera organica i vari libri della Bibbia, aggiungendo l'indicazione delle opere
compilate dai Padri a chiarimento di ciascuno di essi.
Tale materia occupa i primi nove capitoli, corrispondenti rispettivamente all'Ottateuco, ai Re, ai Profeti, al
Salterio, a Salomone, agli Agiografi, ai Vangeli. alle Lettere di Paolo e agli Atti degli Apostoli, all'Apocalisse.
Giova qui ricordare che per lo studio della sacra Scrittura erano a disposizione dei monaci di Vivario tre
Bibbie in latino, e precisamente un'edizione completa in nove volumi ricordati or ora a proposito dei primi
nove capitoli, una Bibbia anch'essa completa, a caratteri più piccoli, contencnte il testo di san Girolamo, ed
un'altra, a caratteri più grandi che trasmetteva un resto più antico arricchito da miniature. C’era anche una
Bibbia greca completa, la quale doveva servire per controllare su di essa il testo latino nei casi dubbi.
Quanto ai comrnentatori, ricorrono con rnaggior frequenza Ambrogio, Agostino, Girolamo, Ilario, Vittorino,
Prospero e, fra i Greci, Origene, Basilio, Atanasio e Didimo, ovviamente nelle traduzioni latine che anche
Cassiodoro si dà premura di far eseguíre da amici di comprovata competenza e di indubbia fede.
L’impegno didascalico, che conferma virtualrnente i legami con l'antico progetto scolastico, si avverte anche
nelle espressioni che a guisa di rapidissirno riepilogo dell'argomento trattato fungono da cerniera fra il primo
gruppo dí nove capitoli ed il decimo. ln questo vengono ricordati gli scrittori di opere introduttive alla sacra
Scrittura: Ticonio, Agostino, Adriano, Eucherio e Giunilio, e viene altresì riconosciuta l'utilità della
conversazione con anziani noti per la loro saggezza.
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