Dancalia, il centro del mondo
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Dancalia, il centro del mondo
DANCALIA, IL CENTRO DEL MONDO Perché si va in Dancalia? Terra estrema. Deserto di sale e lava. Una delle depressioni più profonde della Terra. Paesaggio di vulcani. I cieli, per mesi e mesi, sono lividi. Il sole non riesce a colorarli. E’ la Dancalia a togliere i raggi del sole dalla gamma dei colori. Perché si va in Dancalia? Per avventura. Per i suoi orizzonti da stupore. Perché è una delle ultime terre africane che dona l’illusione di essere vecchi esploratori. Per un desiderio di ignoto e una terribile bellezza. Quante ragioni. Io ne avevo un’altra. Me ne ero inventata un’altra. Ho scritto un libro attorno alla Dancalia. Un lungo racconto. Una lunga storia. Spiegavo in quelle pagine che avevo voluto raggiungere questa terra perché un giorno mi ero trovato, in un paesaggio desolato, a fianco di un giovane pastore afar. Eravamo ai bordi di una colata di lava che si era arenata di fronte al mare dell’Eritrea. Quell’uomo magrissimo e dalle gambe come elastici apparve all’improvviso. Dal nulla. Accade spesso in Africa. Perché gli occhi occidentali non sanno vedere. Vi erano ciuffi d’erba fra i ciottoli di lava. Il pastore pascolava le sue capre. Si avvicinò e mi guardò senza guardarmi. Si accucciò sui talloni. Io mi sedetti a poca distanza. Rimanemmo lì per un tempo indefinito. Senza dirci una sola parola. Anche se avessimo conosciuto la stessa lingua, non avevamo nulla di cui parlare. Eravamo vicini e diversi. Una diversità assoluta. La nostra differenza era incolmabile. Alla fine, lui si alzò, agitò il bastone in aria, radunò le sue capre e si incamminò verso il vuoto di quella terra. Non so se fece un impercettibile segno di saluto. Forse alzò le sopracciglia, come si usa in queste solitudini. Lo guardai mentre si allontanava in un tremolio di calore. Ci credete se vi confesso di aver voluto raggiungere il cuore della Dancalia (la Piana del Sale, i geyser di Dallol, la lava mugghiante dell’Erta Ale) solo perché ero certo di aver stretto un assurdo patto di fratellanza con quel pastore afar e volevo seguirne le tracce? Ahmed Ela, ‘il pozzo di Ahmed’, è il villaggio dei cavatori. Sorge a un passo dalla Piana del Sale. E’ un paese invisibile. Ti accorgi della sua esistenza solo quando sei vicino. Non ha colori. E’ cresciuto su ciottoli grigi. Le sue capanne sono rami contorti, pietre a segnarne i confini casalinghi, pareti protette da stuoie intrecciate di foglie di palma. Pochissime le case in muratura: la moschea, il forno, un bar sgangherato, un negozio, la scuola, una clinica che ho sempre visto sbarrata. E’ un villaggio stagionale. Qui, sei mesi all’anno, fra ottobre e marzo, vivono gli uomini della fatica, i cavatori del sale. Nei mesi del Grande Caldo vi trovi solo venti famiglie stanziali. Non di più. Sta cambiando in fretta Ahmed Ela (cambiamento è un’altra parola-guida per chi vuol capire la Dancalia): sono arrivate le compagnie minerarie alla ricerca del potassio, è stata tirata su un’antenna per i cellulari, ai suoi confini è stata piallata perfino una pista di atterraggio per aerei privati. Le carovane ora sono una fila indiana. Diventano parte dell’orizzonte. Lo fanno tremolare come un’onda leggera. La scia dei dromedari è uno spettacolo formidabile. Sono animali lenti, dall’aria rassegnata, eppure regalano l’impressione di una forza tranquilla. Camminano. E’ il loro mestiere. I cavatori li precedono, gli intagliatori impugnano lunghe pertiche con le quali solleveranno la crosta del sale. La cava, a una decina di chilometri, da Ahmed Ela, è una irregolarità del deserto, spezza la geometria, costruita con migliaia di esagoni uno accanto all’altro, della Piana. Ecco, il lavoro del giorno. La cava è un alveare ardente di uomini, sudore, tendini in tiro, occhi che già intuiscono la fatica. Gli uomini sono api laboriose. Nessuno sta fermo. Nessuno ha incertezze. Solo i cammelli mugghiano, costretti a stare immobili ai margini di questo maremoto di sale. I carovanieri sciolgono le corde, osservano il lavoro degli intagliatori, contano i pani di sale via via che vengono impilati uno sull’altro, cominciano a legarli. E’ un lavoro disperato e ordinato. Gli estrattori, i fokolo, graffiano con il filo dell’ascia la crosta del sale. Tracciano un segno, colpiscono con precisione, usano la lama come se fosse un cuneo. Le pertiche sono leve. Questa è fatica vera. Ci vuole forza per sollevare una lastra di sale. Tre uomini gridano per incoraggiarsi. Vedo i muscoli delle gambe tendersi fino a spezzarsi. Vedo le braccia incepparsi nello sforzo. Alla fine, la crosta cede con uno schianto. E’ capovolta. Il deserto si è capovolto. La superficie del mare salato è stata sollevata. E’ un grande frammento, un rozzo poligono privo di forma. Gli estrattori prendono fiato. Si appoggiano alle pertiche. Ma già guardano un altro angolo della cava. Il lavoro prosegue. La lastra passa nelle mani degli hedelè, gli scalpellini afar. C’è una regola non scritta in questa catena di montaggio: gli estrattori sono, in genere, cristiani dell’altopiano. Gli intagliatori sono gente della Dancalia vera e propria. Musulmani. Nessuno controlla tutta la filiera del lavoro. Non ci possono essere soprusi in questa fatica immane. Saggezza all’estremo del mondo. Gli hedelè sono lavoratori specializzati. Hanno il dono, l’abitudine, la pazienza del saper fare. A loro tocca dar forma a ciò che non la possiede. Loro trasformano la lastra di sale in mattoni, in ganfur dalle diverse dimensioni. Il loro lavoro, in mezzo a questo deserto, è una sorta di cesello. Sono artigiani provetti, questi intagliatori. Al solito, siedono sui talloni, posizione insostenibile per un bianco. Passano ore così accucciati, impugnano la loro piccola accetta, alzano e abbassano il braccio con un ritmo regolare, privo di esitazione, continuo. Non mi accorgo di nessun sbaglio. Non commettono errori. In un giorno possono scolpire oltre cento ganfur al giorno. A volte di più. Sono instancabili mentre il sole, ogni ora di più, diventa impietoso. Solo un cencio sulla testa per difendersi dai suoi raggi. Le loro mani sono di cartavelina, sono ferite, colme di rughe, sono pergamena che, spesso, si lacera, ma le dita hanno ancora la forza delle tenaglie. I piedi sono protetti da calzini variopinti. Il sale corrode la pelle e si cerca qualche vana protezione. I più fortunati hanno un paio di occhiali. Occhi, mani e piedi portano i segni di questo lavoro durissimo. Il carico del dromedario, per il cammino del ritorno, è un equilibrio geometrico. Quindici ganfur da un lato e quindici dall’altro. L’animale protesta per il peso. Barrisce, ma sa che deve alzarsi e lo fa con i suoi movimenti da marionetta senza fili. Il cammelliere ruota il braccio, indica una direzione, la piccola carovana si rimette in moto. E’ già metà giornata, il caldo non dà pace, ma bisogna andare. Il viaggio ricomincia. Testardaggine dell’andare: si calpestano le tracce lasciate al mattino. Qualche intagliatore, allora, si regala un momento di tregua. C’è persino un bar nella cava. Un muretto di sale protegge un fuoco su cui sobbolle una teiera. Borgutta e tè, come abitudine di cibo. La carovana è già lontana. C’è qualcosa di epico in questo andare e venire infinito. Una Bibbia nera che è vita quotidiana di una comunità di uomini in un luogo che appare ai confini del mondo. Ma che meriterebbe essere il centro del mondo. Andrea Semplici