ITALO SVEVO

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ITALO SVEVO
ITALO SVEVO
IL PENSIERO
Alla base del pensiero sveviano ci sono le idee di tre pensatori, Schopenauer, Darwin e
Freud, dai quali egli trasse temi e motivi che sviluppò variamente. Dal filosofo tedesco egli
riprese il motivo fondamentale della volontà come forza cieca che trascina e travolge l’uomo,
senza che questi possa resisterle in alcun modo, a causa dello scarto esistente tra le
difficoltà del vivere e l’esiguità e debolezza degli strumenti di cui egli dispone per
affrontarle. Il pessimismo schopenaueriano produce l’idea di una vita che oscilla in una sorta
di moto pendolare fra il dolore che nasce dal bisogno e la noia che è il sentimento rivelatore
dell’insignificanza e vacuità dell’esistenza.
D’altra parte, essere autenticamente uomo significa per Svevo esercitare ciò che è
specificamente umano, cioè la coscienza, sottraendosi così al sistema deterministico della vita
vegetale e animale e creando delle rappresentazioni del reale; ciò non vuol dire coltivare
finalità trascendenti, conseguire la felicità o uno statuto privilegiato dell’esistenza umana
rispetto alla vita nel mondo naturale, ma solo per guadagnare in autenticità.
La dicotomia basilare in Svevo è tra salute e malattia. L’individuo sano è per Svevo
colui che, non solo sa soddisfare i propri bisogni elementari come creatura del mondo naturale,
facendo ciò che l’impulso vitale gli detta: mantenersi in vita come individuo ed assicurare la
permanenza della specie attraverso la riproduzione. L’individuo sano dei romanzi sveviani è il
prototipo dell’uomo perfettamente integrato nella società in cui vive, omologato ai suoi principi
e valori (quelli borghesi). Esso tuttavia sembra forte e ben attrezzato per la darwiniana lotta
per la vita, ma in realtà è solo più “specializzato” e l’evoluzionismo insegna che quanto più
l’essere vivente si specializza, tanto più si espone a rischio nel caso di cambiamenti, perché
incapace, o maggiormente in difficoltà, ad adeguarsi alle mutate delle circostanze e
dell’ambiente. Un sano, dunque, che appare “forte” solo in determinate favorevoli condizioni,
ma che nasconde una “fragilità” che può manifestarsi improvvisamente e disastrosamente.
Dall’altra parte sta il “malato” (di malattia nervosa però, non fisica), la cui malattia
consiste propriamente nell’inettitudine a vivere, ossia ad assecondare positivamente il flusso
vitale. Il malato è infatti colui che si ritrae dalla vita, rinuncia all’invito a godere dei suoi doni,
vive in un perenne stato di malcontento e insoddisfazione. Paragonandosi al “sano” si sente
scontento e debole, ma di fatto è solamente “non specializzato” e perciò sempre in difficoltà,
ma d’altra parte sempre con il cervello in funzione per inventare nuovi modi per sopravvivere.
Tali modi, una volta sperimentati, diventano “forme”, schemi di comportamento, modi di fare e
di essere che, cumulandosi nel tempo e costituendosi in sistema, diventano le sovrastrutture
culturali che danno all’uomo un’apparente padronanza di sé e del suo destino, consegnandolo in
realtà all’alienazione dai propri desideri più autentici quelli che in realtà più lo connotano
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come individuo. Questo genere di sicurezza è quello che può trasformare un “malato” in un
“sano” nella prospettiva sveviana. Una prospettiva non necessariamente allettante allora.
Riassumendo, vediamo che, se la “malattia” (cioè l’inettitudine, l’irresolutezza,
l’incapacità di godere) presenta caratteri svantaggiosi indubitabili, è pur vero che la “salute”
che Svevo le contrappone, anche se magari agognata dal protagonista malato di turno, è la
salute di chi si ritiene a posto per il fatto di aver ottemperato agli obblighi e alle consuetudini
sociali, facendo propri i valori (etica del denaro e del successo) dominanti nella società e
rinunciando a pensare in proprio. I personaggi dei giovani di successo che si contrappongo ai
protagonisti sono presentati sempre molto esteriormente, sono piuttosto privi di spessore
umano: sono descritti così come li vede l’inetto protagonista. Si finisce quindi con il
parteggiare per costui, le cui miserie umane sono peraltro assai grandi, ma che mantiene un
privilegio nei confronti del “sano”: la coscienza. Per Svevo, ma non solo per lui, non si offre
una terza via tra queste due posizioni.
Per quanto concerne i rapporti con la psicoanalisi di Freud è bene precisare che, se
Svevo non avesse conosciuto il pensiero di Freud, non avrebbe presumibilmente mai scritto il
romanzo La coscienza di Zeno o non sarebbe comunque come lo conosciamo. Va riconosciuto
peraltro che c’erano già stati L’assassinio di via Belpoggio, Una vita e Senilità prima del suo
capolavoro, e anch’essi presentano un tratteggio psicologico dei personaggi approfondito e
sono stati scritti prima che si sentisse parlare di psicoanalisi ( L’interpretazione dei sogni,
opera che rappresenta il vero e proprio esordio pubblico della psicoanalisi di Freud porta la
data del 1900, mentre l’ultima delle opere sveviane citate è del 1898): possiamo dire allora
che l’insegnamento freudiano intervenne a chiarire e precisare una tendenza già esistente in
Svevo. Resta da spiegare il suo atteggiamento ambivalente nei confronti della psicoanalisi
stessa: egli, per un verso ammetteva candidamente di aver preso di peso da essa due o tre
idee per la sua Coscienza, ma d’altra parte rifiuta recisamente la qualifica di scrittore
freudiano e nello stesso romanzo ironizza non poco a proposito della psicoanalisi e della sua
validità terapeutica. Del resto Freud è uno scienziato e le sue ricerche sull’inconscio sono
finalizzate alla terapia delle nevrosi; Svevo invece è un artista e, se pure parte della
problematica coincide, il suo scopo ultimo è la conoscenza finalizzata alla produzione
letteraria. A Svevo interessava il versante filosofico del pensiero freudiano, non quello
terapeutico, tanto più che, come abbiamo visto, nella sua ottica il “malato” è di fatto un
individuo autentico, quanto meno più del “sano”, che esercita la coscienza. In questo modo
Svevo non poteva che allontanarsi da Freud, perché di fatto, sostenendo che l’inetto è uomo
autentico, afferma che la nevrosi è la condizione umana più vera e che fuori di questa non vi è
che ottusità e comportamenti falsamente sani perché cristallizzati in cliché. Tutto ciò
corrisponde al vero, ma solo in una prospettiva in cui a confrontarsi siano soltanto le
autentiche “debolezze” del “malato” con le false “sicurezze” del “sano”. E comprensibile il
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rigetto della psicoanalisi, se il suo scopo viene concepito come quello di trasformare quel
“malato” in questo “sano”.
Va aggiunto poi che , molto probabilmente, Svevo non gradiva molto l’interpretazione di
Freud dell’arte (e della scienza del resto) come di forme di sublimazione di pulsioni più basse,
connessa al processo di civilizzazione come evoluzione intellettuale ottenuta attraverso
progressiva inibizione e dominio sulle pulsioni da parte dell’essere umano.
I racconti
Come Pirandello. anche Svevo appoggia la sua attività di romanziere su una base di
produzione novellistica e teatrale, ma differenza di quello esiste qui uno scarto qualitativo
più consistente sia sulla linea romanzi-drammi (la produzione teatrale di Svevo è stata a
lungo trascurata dalla critica e anche se di recente si è assistito ad un certo recupero,
siamo ben lungi dall'equiparazione dei risultati, normalmente accettata per lo scrittore
siciliano), sia su quella novelle-romanzi. Un'altra importante differenza tra Pirandello e
Svevo riguarda la consistenza del corpus di novelle, che nel caso di Svevo non va oltre una
trentina di testi (meno di un decimo della produzione pirandelliana). Oltre a ciò, va precisato
che, tranne alcune che furono pubblicate in vita dall'autore, il grosso è apparso postumo
prima in due raccolte (la novella del buon vecchio e della bella fanciulla - 1929 - a cura di E.
Montale e Corto viaggio sentijBentale nel 1949) poi nell'opera omnia nel '68. La cronologia
dei singoli testi è assai ardua da stabilire in mancanza di indicazioni precise e perché Svevo
soleva tornare più volte a distanza di tempo sui propri lavori, correggendo cambiando,
riscrivendo.
UNA VITA
Secondo le intenzioni originarie di Svevo. il romanzo avrebbe dovuto intitolarsi "Un
inetto", iscrizione senz'altro assai pertinente. Quando però lo scrittore sottopose il
manoscritto all'esame dell'editore Vram di Trieste per farlo pubblicare a sue spese,
questi suggerì il nuovo titolo, forse per ragioni commerciali (qualche anno prima Maupassant
aveva pubblicato un romanzo intitolato Una vita), ma anche perché gli era parsa una
narrazione di tipo naturalistico e dunque risultava vantaggioso per un esordiente
presentarsi al pubblico con riferimenti riconoscibili immediatamente, a pagina chiusa. Nel
1892 esce così Una vita, romanzo che suscitò qualche eco appena a Trieste, non più di un
trafiletto su giornali a più ampia tiratura e venne totalmente ignorato dalla critica
"ufficiale", giacché, oltre a sembrare un tardo epigono del naturalismo, l'autore
sembrava non essere pienamente padrone dei mezzi espressivi e formali.
Il protagonista è Alfonso Nitti. giovanotto trasferitosi dal paese in città (Trieste)
e passato a lavorare in una banca. Non è felice però, perché il lavoro non gli piace (è
impiegato di infimo grado con mansioni piuttosto meccaniche, burocratiche; lui che ha
fatto gli studi classici e coltiva persino velleità filosofico-letterarie) e non gli piacciono
i colleghi, che egli poco considera e dai quali è. di ricambio, snobbato e rimproverato di
scarsa efficienza. Il romanzo si apre con un lunga lettera che Alfonso scrive alla madre,
rimasta al paese, per narrarle il suo malessere e chiederle un consiglio circa il ritorno a
casa. Mailer, il proprietario e direttore della banca (nella cui casa vive Francesca. ex-go3
vernante dei figli e ora sua amante, compaesana di Alfonso), informato del tenore della
lettera, rimprovera bonariamente il giovane impiegato di procurare pensieri all'anziana
madre e lo invita a casa propria.
A Trieste., Alfonso ha preso alloggio in una camera mobiliata subaffittata dai Lanucci.
piccolo-borghesi precipitati in gravi ristrettezze per l'incapacità del capofamiglia. La
signora Lanucci ha una figlia e non vedrebbe di malocchio se l'ospite, che crede destinato a
brillante carriera, se ne innamorasse, riscattandola dalla miseria.
La prima visita di Alfonso in casa Mailer è una vera delusione: tutte le attenzioni
sono rivolte alla padroncina di casa. Annetta, la quale, bella e imperiosa, ha occhi solo per il
cugino Macario. avvocato che lavora nella banca Mailer e che è il ritratto dell'uomo di
successo (antagonista tipico del protagonista inetto, che si ritroverà anche nei romanzi
successivi): buon parlatore, arguto e "belloccio". Costui, forse intenerito dalle vistose
difficoltà in cui versa il goffo e impacciato Alfonso, stringe amicizia con lui e si propone di
insegnargli come aver successo con le donne e nel lavoro.
Sempre più scontento. Alfonso ripiega sulle letture e i progetti letterari. Fino
all'esaurimento che lo spinge a chiedere un periodo di congedo per riprendersi. Durante la
convalescenza si improvvisa, ma senza successo, precettore di italiano per Lucia, l'insulsa
figlia dei Lanucci. e scopre così le mire della madre di lei nei suoi confronti, reagendo con
un misto di repulsione e pietà.
Tempo dopo incontra di nuovo Annetta la quale, avendo saputo che Alfonso è
"letterato", dal momento che anche lei ha velleità in tal senso, lo tratta con maggior
considerazione, lo invita di nuovo a casa e così decidono di scrivere un romanzo "a quattro
mani" sull'amore di un giovane povero per una donna borghese. Nonostante le discussioni (ad
Annetta interessa il successo editoriale e commerciale, ad Alfonso l'artisticità dell'opera), i
loro rapporti, galeotto il romanzo, si fanno sempre più stretti. Alfonso è affascinato dal
mescolarsi in Annetta di autoritarismo e affetto matemo-protettivo e, complice Francesca
(la quale vedrebbe di buon occhio un matrimonio tra i due, perché le sgombrerebbe il campo
da una oppositrice e quindi sarebbe facilitata la sua conquista del Mailer), una sera giunge con
lei al rapporto carnale.
A questo punto Annetta chiede ad Alfonso un po' di tempo per vincere le opposizioni
prevedibili del padre e del fratello alle nozze, mentre Francesca consiglia di battere il ferro
finché è caldo. Alfonso non sa cosa fare e così toma al paese, dove trova la madre condannata
da un male incurabile, l'assiste amorevolmente e ne piange la morte.
Quando Alfonso toma a Trieste, dopo un periodo di malattia che ne ha prolungata la
permanenza al paese, trova che Annetta ha ceduto alle pressioni dei suoi e si è fidanzata
con Macario. La cosa gli reca un certo sollievo, sia perché lo sgrava del rimorso, sia perché
preferisce sentirsi vittima piuttosto che "profittatore". In uno slancio megalomane decide
di "salvare" pure Lucia, sedotta da un losco figuro che ora non vuole sposarla senza dote,
regalandole un cospicuo gruzzolo, parte della sua eredità materna. Questa serenità di
spirito si dilegua però ben presto a causa dell'ostilità che incontra nell'ambito del lavoro,
giacché Mailer non gli perdona di aver osato "violare la sua casa". Alfonso vorrebbe
almeno chiarire la sua posizione con Annetta e le chiede un incontro, ma al posto della donna,
all'appuntamento va il fratello di lei che l'insulta e sfida a duello. Tornato a casa. nella
solitudine della sua stanza. Alfonso si convince di aver sbagliato e si uccide asfissiandosi con
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il gas. Il romanzo si conclude, come era iniziato, con una lettera stringata e formale con la
quale Mailer notifica al tutore del giovane che Alfonso è stato trovato esanime nel letto e
che ignote risultano le cause dell'insano gesto.
Assolto il compito logico-cronologico del riassunto, va precisato però che non siamo di
fronte ad una narrazione esclusivamente partecipe dei canoni naturalistici di riproduzione
obiettiva dei fatti, mentre le qualità psicologiche del personaggio non sono quelle
cristallizzate dal romanzo sentimentale romantico, c'è del nuovo; un nuovo che colloca l'opera
in un dimensione già novecentesca.
Il protagonista presenta infatti caratteri di ambiguità che ne fanno per un verso un
inetto, cioè un non atto a vivere, perché continuamente sfasato rispetto alle necessità
contingenti che lo trovano disarmato e sprovveduto, e che finisce quindi per affrontare
spendendo grandi energie nervose per ottenere risultati esigui (la sua energia è quindi
prevalentemente entropica); d'altra parte Alfonso è anche un incorreggibile sognatore, abile
rovesciare a suo vantaggio gli scacchi subiti, leggendoli nel modo desiderato e più favorevole
al precario equilibrio psichico che si sforza di mantenere. Se sono importanti perciò i fatti,
quelli esposti nella trama, non lo sono meno le loro "letture", che evidenziano il contrasto nel
protagonista tra un forte impulso all'autoaffermazione e una tendenza non meno forte
all'autolesionismo. Egli è al tempo stesso infelice ed ipercritico, sia nei confronti degli altri
che di se stesso, e la sua tendenza a razionalizzare è fortemente influenzata
dall'immaginazione; non riesce a vivere puramente e semplicemente (come del resto nessuno
dei personaggi della letteratura dal Romanticismo ai giorni nostri), non sa godere:
Si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa che [...] aveva inutilmente cercato di comprendere,
gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere.
Il suicidio suggella la sconfitta dell'inetto, ma rappresenta anche, illusoriamente, la
massima affermazione della libertà (Schopenahuer) come non rassegnazione, al reale. Il
personaggio è un inetto, è inetto a vivere, perché non sa ciò che desidera ed è troppo
preso nelle sue elucubrazioni per poter desiderare e godere di ciò che la vita gli offre ed
egli ha a portata di mano.
SENILITÀ
Come Alfonso Nitti, anche Emilio Brentani, il protagonista del secondo romanzo
sveviano. Senilità, è una controfigura dell'autore: è anche lui modesto impiegato
trentacinquenne, che ha scritto in gioventù un romanzo che gli rese una certa notorietà
cittadina e che vive in una riconoscibilissima Trieste. Però, rispetto al primo, è più
"maturo" e nei confronti della "normalità", non assumendo lo stesso atteggiamento di
tragico rifiuto di Alfonso, ma piuttosto quello della disponibilità, di una timida apertura, che
nel corso della vicenda cresce gradatamente, fino a divenire aspirazione alla normalità,
destinata naturalmente allo scacco, data la medesima inettitudine di fondo. La maturità
del protagonista è riflessa nella struttura del romanzo, non più incentrata romanticamente
sull'eroe, ma su un quartetto di soggetti che duplicano l'antitesi sano-malato,
costitutiva di tutta l'opera sveviana.
Emilio Brentani vive a Trieste la sua vita di mediocre impiegato. insieme con la
sorella Amalia, una grigia personcina, nata vecchia, che lo colma di premure e di affetto. A
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turbare il loro squallido ma sereno menage interviene Angioìina Zarri, una giovane e procace
popolana, avida di piaceri, di lusso e di denaro. Quando ne fa la conoscenza, Emilio pensa ad
una facile avventura che però, da buon razionalizzatore. ammanta di velleità
pedagogico-morali: la fanciulla gli appare pateticamente indifesa ed esposta ai pericoli
della giovinezza; egli dunque intende insegnarle la «conoscenza della vita e l'arte di
approfittarne». Man mano che la relazione procede, Emilio è sempre più invaghito della
donna che, nonostante numerosi segnali contrari, continua a considerare candida e pura (egli
è innamorato infatti, e perciò preso ben più da ciò che egli desidera che l’altro sia, che
consapevole di ciò che effettivamente è).
La sua vita cambia bruscamente, sembra ringiovanito, rivitalizzato, perfettamente in
grado di mettere a frutto gli insegnamenti del suo amico Stefano Balli, scultore malnoto ma
uomo gaudente e fortunato conquistatore di cuori femminili. Il cambiamento nella vita di
Emilio ne provoca uno parallelo nella vita della sorella che, senza mai darlo a vedere, si
innamora disperatamente di Stefano Balli.
Il quartetto è così composto dai "malati" Emilio ed Amalia da un lato e dai "sani'
Angiolina e Stefano dall'altro. Emilio, accortosi dei sentimenti della sorella, che le si
manifesta così in modo diverso rispetto a quanto aveva creduto di lei fino ad ora, ne diventa
geloso, ma copre, al solito, queste sue tendenze "basse" con un atteggiamento
distaccato e cinico: consiglia alla sorella il fidanzamento con un pretendente ricco, salvo poi
tormentarsi di gelosia e tentare penosi e degradanti, quanto inutili, inseguimenti e
pedinamenti. Proprio al rientro da uno di questi inseguimenti sente che la sorella vaneggia
nel sonno e scopre che è infatuata di qualcuno.
Impietositesi, decide di lasciar perdere Angiolina e dedicarsi alla sorella
completamente; non vi riesce però, nonostante scopra le tresche della "sua" donna.
Durante un altro delirio notturno della sorella scopre che colui che ella desidera è
Stefano Balli che, messo al corrente da Emilio, dirada le visite nella sua casa. Amalia non
regge il colpo e comincia a consolarsi con l'alcool.
Emilio. troppo preso dalla pur umiliante e infelice relazione con Angiolina. non s'accorge
di quanto sta accadendo in conseguenza della sua azione alla sorella, fino a che ella non cade
in deliquio e muore. Solo allora, tormentato dai rimorsi, trova la forza di rompere con
Angiolina. I due eventi lo lasciano gravemente prostrato e in preda a costanti pensieri di
morte. Continua tuttavia a vivere anche se nella più completa abulia. Molto tempo dopo. la
notizia che Angiolina è scappata con il suo ennesimo amante, un cassiere disonesto riparato in
Svizzera con i soldi sottratti alla banca in cui lavorava, lo rituffa nelle inebrianti sensazioni
del passato. Col trascorrere del tempo, questo passato subisce però nella sua memoria una
metamorfosi: Angiolina vi appare sempre con la sua luminosa bellezza e porta con sé il sapore
fragrante della vita, ma va sempre più spiritualizzandosi e assumendo anche la delicatezza
dei tratti di Amalia «che muore in lei una seconda volta». Emilio vive così nel ricordo di
questa donna, emblema dei suoi puri ideali di un tempo.
Anche Senilità è dunque incentrato sul tema dell'inettitudine, dell’incapacità di
inserirsi nel ritmo "normale" dell'esistenza: la "senilità" non riguarda infatti l'età del
protagonista, trentacinquenne. ma piuttosto il suo sottile disagio esistenziale, alimentato
dalla forte tendenza introspettiva e autocritica che sfocia in una inconcludenza endemica,
nel malinconico rimpianto del tempo e delle occasioni perdute, nell'inquietudine che scaturisce
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da desideri inappagati. Emilio è un uomo combattuto e insoddisfatto, perché desidera ma non
ha il coraggio di appagare i propri desideri; se decide di afferrare ciò che desidera, lo
maschera d'altre sembianze per giustificarsi a se stesso; se non ottiene nulla è pronto a
creare immaginariamente dei sostitutivi, fantasticare delle consolazioni: egli è incapace di
abbandonarsi, di lasciarsi vivere e godere di ciò che la vita offre e la sua razionalità, con cui
vuole controllarsi e dominarsi, è quindi fortemente influenzata dall'immaginario, assediata
da mille fantasmi e incubi.
LA COSCIENZA DI ZENO
Dopo un silenzio durato venticinque anni, nel 1923, presso l’editore Cappelli di
Bologna usciva, sempre a spese dell'autore, La coscienza di Zeno, il terzo romanzo di Svevo,
che costituisce non solo un frutto maturato sul terreno delle prove precedenti ma anche la
conseguenza di esperienze più recenti, come la lettura dei grandi romanzieri russi,
l'approfondimento del versante pessimistico del proprio pensiero e la conoscenza del
pensiero di Freud.
Rispetto alle opere precedenti, che pur con le loro novità tematiche e strutturali
ancora si collocavano sul versante del romanzo tradizionale. questo si pone come prototipo
italiano dell'anti-romanzo. L'autore abolisce la terza persona a favore della prima, rinuncia al
tempo «oggettivo» e adotta invece la durata; lo stesso avviene per la trama e qualsiasi
gerarchla logica dei fatti e dei personaggi, giacché gli eventi vengono registrati facendo
riferimento non ad un criterio esterno, ma piuttosto al loro grado di incidenza nella dinamica
psichica del protagonista: in altre parole, potremmo dire che viene lasciata parlare la
coscienza di Zeno. Fatti minori e minimi vengono elencati per giustapposizione e accumulo,
come elementi di una sintomatologia, diagnosticabile solo a posteriori: hanno perciò un valore
decisamente simbolico, vanno interpretati (come accade in psicoanalisi).
La tecnica espressiva si basa sul monologo interiore (non più quella sorta di monologo
ibrido impiegato in Senilità), che però non è ancora il flusso di coscienza di Joyce, perché
Svevo continua ad aderire ad un rigoroso procedimento analitico-descrittivo (manifestarsi
dell'evento - analisi dell'evento - descrizione dell'evento).
Il romanzo è composto di otto sezioni di diversa lunghezza, delle quali le prime due,
molto brevi, hanno carattere funzionale (Prefazione e Preambolo), mentre le altre sono
capitoli tematici, cioè propongono dei ricordi dell'io narrante, che ruotano attorno a temi già
indicati dai titoli (3. Il fumo; 4. La morte di mio padre; 5. La storia del mio matrimonio; 6. La
moglie e 1'amante; 7. Storia di un'associazione commerciale; 8. Psicoanalisi). La Prefazione
di poche righe e a firma dello psicoanalista, il dottor S., illustra l'intento "vendicativo"
della pubblicazione di quelle memorie ed ha un passaggio particolarmente significativo
nell'ultima battuta:
«Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e
bugie ch'egli ha qui accumulate!..».
con la quale viene incrinata anticipatamente e ironicamente la credibilità delle affermazioni
contenute nella narrazione.
Seguono poi i capitoli veri e propri che per affinità tematica possono essere
raggruppati per due e costituire così una prima parte, quella centrale e quella finale.
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PRIMA PARTE (capp. III-IV).
Il capitolo terzo introduce il vizio del fumo, la cui origine risale alla prima infanzia ed
è associato ad un sentimento di opposizione nei confronti del padre. In seguito il
protagonista afferma di aver tentato infinite volte di togliersi il vizio, ma di aver
scoperto che i suoi buoni propositi e «l'ultima sigaretta» erano soltanto un alibi escogitato
dalla propria cattiva coscienza per mascherare la propria abulia e ... per gustare più
intensamente il fumo (una sigaretta è più buona se la si fuma pensando che sia l'ultima).
Si ripropone qui uno dei grandi temi sveviani, quello del riscatto mancato con la
conseguente frustrazione del protagonista, che non è tuttavia svolto in chiave
drammatica, come ad esempio in Una vita, ma in quella comico-ironica, fino al racconto
dell'episodio del volontario internamento in una clinica e della rocambolesca fuga in seguito
alla crisi d'astinenza dal fumo e al dubbio atroce che la moglie l'abbia tradito col dottor
Muli, il primario della clinica. Fa qui capolino il tema della gelosia che verrà ripreso e
sviluppato nella seconda parte (cap.VI).
Il capitolo quarto è invece dominato dalla scena della morte del padre di Zeno
Cosini. Egli, percorrendo a ritroso la storia del suo vizio del fumo, ne ha intravisto una
probabile origine nel rapporto conflittuale con il padre: questi era un uomo sano, forte,
dotato di senso pratico, e perciò critico verso quel figlio che era il suo esatto contrario, fino a
compiere, come ultimo gesto, quello di assestargli un tragicomico schiaffone nell'atto di
morire. Zeno, perciò, ritiene che il suo scarso equilibrio psichico e la sua insicurezza
derivino proprio da quel profondo senso di colpa. Egli tende allora a rivedere la figura del
padre in qualsiasi uomo che ammira in quanto diverso da sé: dapprima il futuro suocero
Giovanni Malfenti, commerciante rozzo ma abile e gioviale; poi il futuro cognato Guido Speier,
uomo di successo e pieno di fascino. Si costituiscono quindi le polarità concettuali che
caratterizzano i rapporti di Zeno con gli altri uomini: figlio-padre, malato-sano, debolezzaforza, inettitudine-abilità. ecc.
PARTE CENTRALE (capp. V-VI).
È dominata dal matrimonio di Zeno e dalla descrizione del suo ménage familiare: il
cap. V narra infatti la storia del suo matrimonio. Dopo la morte del padre, poiché l'azienda
familiare era amministrata dall'Olivi, abile impiegato, non sapendo come trascorrere il
tempo, Zeno frequenta distrattamente la borsa merci. Qui fa conoscenza con Giovanni
Malfenti, ricco e abile commerciante, il quale lo invita a casa propria. Malfenti ha quattro
figlie, aventi tutte un nome che comincia per A (per via delle sigle sul corredo, precisa il
padre, mostrando tutta la sua grettezza calcolatrice). Zeno è subito colpito da Ada, che a
suo parere è decisamente la più delle quattro, ma essa mostra di preferirgli un
giovanotto aitante e di successo (esatto contrario del goffo Zeno), Guido Speier. La scena
delle "rivelazioni" è tra le più divertenti del romanzo e si svolge in due riprese: la prima è
una seduta spiritica nella quale l’impacciato Zeno, nell'intento di stabilire un contatto
furtivo con Ada, perde l'equilibrio e finisce sotto il tavolo dove si improvvisa spirito e si
prende gioco del rivale Guido, suscitando le ire delle sorelle; la seconda è dominata
invece da Guido, che tra l'altro suona benissimo il violino (cosa che il nostro Zeno non
riesce a fare nonostante il prolungato studio). Così alla fine della serata, Ada rifiuta la
dichiarazione di Zeno, che, frastornato, ripiega sulla sorella più vecchia e bruttina Augusta
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(dopo perlatro aver tentato con poca fortuna anche con la seconda sorella, la tenera e
verginale Alberta).
Il fidanzamento scorre veloce e senza intoppi, ma la mattina del matrimonio,
torturato da gravi dubbi, Zeno giunge con molto ritardo alla cerimonia, ma si ritrova alfine
sposato, quasi suo malgrado, con una moglie che non ama ma che poi si rivela "ottima" sotto
tutti i punti di vista.
Il capitolo sesto inizia con la descrizione della tranquilla e “soddisfacente” vita
familiare. Augusta si rivela una buona moglie, non altrettanto Zeno come marito, che
dapprima la tradisce col pensiero, poi di fatto con una bella e povera fanciulla, Carla
Gerco, che vuole intraprendere la carriera di cantante. Zeno se ne improvvisa mecenate, ma
la ragazza gli piace e, col tempo, ne diventa amante. Questo lo fa però sentire in colpa nei
confronti della moglie, che colma perciò di attenzioni. Così, diversamente da quanto suole
accadere, l'adulterio finisce per migliorare notevolmente l'intesa familiare, mentre
sull'altro versante, Carla si innamora del maestro che Zeno le aveva procurato e lo sposa.
Per Zeno quindi «tutte le ciambelle riescono col buco», nonostante i suoi scarsi meriti.
Viene a saper che pure il cognato tradisce Ada con una domestica e se ne indigna,
rimproverandolo di insudiciare il tetto coniugale con amorazzi volgari: è più che mai
convinto nel proposito di purificarsi, vorrebbe confessare alla moglie la sua storia con Carla,
ma non ne ha coraggio.
TERZA PARTE (Capp.VII-VIII)
Questa sezione del romanzo stringe assieme tutti le molteplici e complesse
diramazioni tematiche della narrazione e il trionfo di Zeno si profila totale e perentorio.
Il cap.VII narra la storia dell'associazione commerciale tra Zeno e Guido, che lentamente va
allo sfascio per la cattiva gestione di Guido, il quale tra l'altro diviene l'amante della
dattilografa della ditta, Carmen. La moglie Ada viene a sapere di questo tradimento, se ne
duole e alla fine si ammala del morbo di Basedow ed è costretta ad assentarsi per un
lungo periodo di cure. Alla fine del primo anno l’associazione commerciale è in grave
deficit: Guido rischia la rovina e chiede ad Ada di intervenire con la sua dote, ma lei rifiuta.
Per forzarle la mano, Guido tenta un finto suicidio, riuscendo così ad ottenere il denaro
necessario a rimandare la catastrofe finanziaria. L'azienda continua però a perdere e sono
necessari altri fondi. Zeno si mostra disposto a dare una parte, purché Ada e la suocera
facciano altrettanto: queste però tengono duro. Guido ricorre una seconda
volta allo
stratagemma del finto suicidio che però, per l'intervento tardivo del medico, diviene
vero. A questo punto Zeno, che non si era mai occupato di "affari", per una serie di eventi
fortuiti e favorevoli, recupera gran parte delle perdite di Guido. Nel recarsi alla cerimonia
funebre, però, arriva in ritardo e per di più si accoda al feretro di uno sconosciuto,
mancando così al funerale del cognato. Riesce a calmare le ire "della suocera e della moglie
con la notizia del sensazionale recupero del capitale, ma Ada, la diretta interessata, non gli
perdona l'assenza al funerale, né mostra di gradire il successo di Zeno nel riassestare la
situazione finanziaria della ditta che, a suo dire, avrebbe ucciso una seconda volta Guido,
mostrando che era morto per nulla.
Nell'ultimo capitolo, intitolato Psico-analisi, mentre intorno a Zeno si scatena il dramma
della prima guerra mondiale, egli, attraverso un'ennesima ricapitolazione degli eventi
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capitati a lui e agli altri, giunge alla folgorante scoperta che la mancanza di un punto fermo
e di un qualsiasi ideale, l'instabilità di propositi, l'incapacità di autodeterminazione e di
scelta, invece di essere sintomi di debolezza e di "malattia", come ha sempre pensato, sono
la vera forza. Ancora una volta però, Svevo rovescia le convinzioni del suo protagonista: è
vero che egli ha trionfato negli affari, è guarito dagli acciacchi, ha persino smesso di
fumare, ma il prezzo di questa apparente armonia è che la natura è venuta meno, assalita
dalla violenza dell'uomo. Non è lontano il giorno in cui qualcuno, più ammalato degli altri,
ruberà un esplosivo potentissimo, lo collocherà al centro della terra, e la farà saltare,
riportandola allo stato di nebulosa. Solo così, cesseranno di esistere malati e malattie.
TECNICHE NARRATIVE
a. Uso dell’ironia e dell’umorismo
L’ironia scaturisce dalla constatazione della sproporzione tra la volontà di analizzare e
comprendere i fatti e la possibilità reale di farlo, cioè di esaurire la loro enigmatica
complessità. L’ironia ha una funzione diagnostica e critica e può essere interpretata in due
modi opposti:
1. Come mezzo per guadagnare la simpatia del lettore e provocare la sua identificazione
col protagonista;
2. Come risultato involontario della cecità di Zeno, della sua incapacità a capire, della sua
falsa coscienza.
b. Narrazione in prima persona
Il protagonista narra in prima persona, rievocando il passato e analizzando se stesso e gli
eventi. Il lettore si trova così chiuso dentro il mondo del protagonista, abbandonato al
fluire del suo discorso e non possiede altra nozione della realtà che quella che emerge dal
discorso di Zeno.
Se quello di Joyce nell’Ulisse è un tentativo di scrittura immediata, in presa diretta col
pensiero, esperimento del riferire per iscritto il pensiero e le parole nel loro scorrere,
quello di Svevo è uno scrivere a distanza e a posteriori che mira ad un’analisi della propria
coscienza, dei propri ricordi; discorso volontario, esempio di autocoscienza che, nell’atto di
rivelarsi e tradursi in parole, lascia tutti i segni dell’autodeterminazione, della
contraddizione.
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