IL SECOLO D`ORO DELLA MAIOLICA Ceramica italiana nei secoli

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IL SECOLO D`ORO DELLA MAIOLICA Ceramica italiana nei secoli
IL SECOLO D’ORO DELLA MAIOLICA
Ceramica italiana nei secoli XV – XVI dalla raccolta del museo statale
dell’ERMITAGE
Nel 1764 Caterina II la Grande, zarina
di Russia (1762-96), acquistò da
Berlino una splendida collezione di 225
opere di maestri olandesi e fiamminghi,
che costituirono il nucleo centrale della
sua collezione privata, conservata allora nel Palazzo d’Inverno, la nuova residenza imperiale sulle rive della Neva,
a San Pietroburgo. Progettato dall’architetto italiano Bartolomeo Francesco
Rastrelli, questo immenso palazzo barocco fu completato nel 1762.
La fondazione dell’Ermitage – piena
espressione della cultura enciclopedica
illuministica – si inserì nel rinascimento
culturale che caratterizzò il regno di
Caterina, e che vide un forte impulso
dato al mecenatismo di stato. Durante
la seconda metà del XVIII secolo vi fu
un rapido ampliamento delle collezioni
presenti nel museo. Per ospitare il numero sempre crescente di opere fu necessario aggiungere nuovi edifici al Palazzo d’Inverno sul lungo-Neva: sorse così
il Piccolo Ermitage, terminato nel 1769, e il Grande (o Vecchio) Ermitage nel
1787. Nello stesso anno fu eretto il Teatro dell’Ermitage, dove sorgeva il Palazzo
d’Inverno di Pietro il Grande, collegato al Vecchio Ermitage da un ponte sul
Canale d’Inverno. La collezione privata di Caterina divenne ufficialmente museo
imperiale durante il regno di suo figlio, Paolo I (1796-1801), e del nipote
Alessandro I (1801-1825). La prima metà del XIX secolo segnò una nuova tappa
nello sviluppo dell’Ermitage: vi entrarono infatti numerosi oggetti dell’antichità
classica e dell’antico Oriente, assieme a reperti provenienti dagli scavi
archeologici del Caucaso settentrionale, della Crimea e dell’Ucraina meridionale.
Nel 1852 lo zar Nicola inaugurò un’altra tappa nella storia della collezione
imperiale, destinando un nuovo edificio a museo aperto al pubblico: il Nuovo
Ermitage. L’Ermitage fece acquisti importanti alla metà del XIX secolo; le
acquisizioni di opere d’arte non cessarono nel XX secolo.
Oggi l’Ermitage, con circa tre milioni di opere d’arte, molte delle quali ospitate in
353 sale di imparagonabile splendore, è un vero e proprio testamento storico di
un paese, e sacrario artistico e culturale di molti altri. La piccola collezione
imperiale della metà del XVIII secolo e bizzarramente denominata “romitaggio” dai
suoi regali possessori, alla fine del XX secolo è assurta a uno dei più grandi e
superbi musei del mondo.
La maiolica italiana del Rinascimento
Superata la fase medievale (“arcaica”), gli artefici italiani, attivi nelle numerose boteghe degli inizi del ‘400, mostrano soprattutto di puntare sulla qualità tecnica dei
loro prodotti, che si esprime nella bianchezza e nella corposità coprente del rivestimento bianco, in smalto stannifero, al quale si viene a sovrapporre via via una
sempre più ricca gamma cromatica.
Questo traguardo, confermato da un’abbondante documentazione emersa dagli
archivi e dagli scavi archeologici, attesta il prevalere all’interno della cultura
ceramistica quattrocentesca soprattutto dell’ampia corrente che scaturisce
dall’innesto del substrato gotico, già presente nella fase medievale, con gli influssi
decorativi esotici derivati prevalentemente dalla cultura araba degli artefici
moreschi delle officine spagnole: questa contaminazione darà origine nel corso
del XV secolo a gruppi decorativi, o “famiglie” (“italo-moresca”, “floreale-gotica”,
“occhi di penna di pavone”, “palmetta persiana”, ecc.).
Dal mondo mauro-iberico venne anche la ricerca dell’effetto dell’oro sulle superfici
degli oggetti maiolicati, cioè del “lustro” metallico iridescente.Tale tecnica, dapprima di origine medio-orientale e poi imitata sull’osservazione dei prodotti lustrati
delle officine spagnole, soprattutto valenzane, era conosciuta in Italia attraverso i
traffici maiorchini (da cui il termine “maiolica”) e si vide riprodotta per alcuni decenni del ‘500 con grande sapienza tecnica in Umbria, specie a Gubbio e a Deruta.
Contemporaneamente, all’inizio del ‘500 un nuovo slancio creativo pervade i
maiolicari italiani; così, anziché indugiare sul repertorio gotico-moresco, i maestri
della maiolica si aprono verso il nuovo e a loro sconosciuto universo di “istorie”,
cioè verso un filone figurativo sempre più gradito e richiesto dalla stimolante pressione di una committenza colta ed ansiosa di manifestare un’erudita frequentazione di testi letterari molto in voga: il “Sogno di Polifilo”, le “Metamorfosi” di Ovidio,
le “Deche” di Tito Livio, le “Figure della Bibbia”, ecc.
Dal 1530 in poi va riconosciuto agli artefici delle botteghe dei centri produttori
della maiolica italiana quali Cafaggiolo, Faenza, Casteldurante (Urbania), Urbino,
Siena, Pesaro, Venezia, Gubbio, Deruta, ecc., una notevole capacità di
aggiornare con pronta intuizione i repertori dell’ “istoriato” di fronte al vario mutare
degli orientamenti della cultura figurativa e, specie in ambito marchigiano, di
tenere sempre più conto della portata diffusiva delle stampe di Marcantonio
Raimondi sulle “bozze” raffaellesche.
L’assimilazione delle forme manieriste e poi barocche, fa sì che alla fine del ‘500
si superino le tradizionali fogge del vasaio per altre più articolate, arricchite per via
di stampi, di elementi plastici, quali anse serpentiformi, beccucci a mascherone,
arpie, putti, teste di capro, ecc. Anche quest’ultima metamorfosi, congiunta all’immaginario universo delle Muse dello stile “istoriato”, contribuì non poco all’affermarsi del gusto e del fascino ancora oggi seducente della maiolica italiana.
Faenza
La ceramica a Faenza può vantare senza soluzione di continuità una plurisecolare
tradizione.
Fonti letterarie e indagini archeologiche testimoniano l’alto grado di civiltà ceramica raggiunta nei secoli dalla piccola città romagnola.
Dal ‘300 si sono succeduti forme, stili e tecniche, a partire dal sobrio “stile arcaico”
tardo medievale, dalla veste cromatica generalmente bicroma ed il suo repertorio
astratto, formulato secondo gli stimoli dell’arte romanica e gotica. Lo “stile severo”
accoglie nell’arco di tutto il ‘400 sino agli inizi del ‘500 “famiglie” decorative policrome, elaborate in un primo tempo sotto l’influenza del mondo bizantino e della cultura araba degli artefici mauro-iberici, ed in un secondo tempo plasmate dagli stimoli della cultura gotico-cortese e dalla civiltà artistica medio ed estremo orientale.
Nel ‘500 si susseguono lo “stile nuovo”,
in cui compaiono ornati tipicamente
rinascimentali e lo “stile bello” in cui, a
seguito di una maggiore apertura culturale ed un più stretto legame con le arti
maggiori e minori, si avvia un nuovo
filone figurativo che, per il suo gusto
narrativo è detto “istoriato”. Segue lo
“stile fiorito” che vede l’affermarsi di
repertori decorativi che faranno la fortuna di Faenza: le “grottesche” su fondo
azzurro “berrettino”, i “quartieri”, i “trofei”, i fogliami, ecc., complessivamente
detti nelle vecchie carte “vaghezze e
gentilezze”.
A metà del ‘500 i maiolicari faentini, per
mutamento di gusto e per necessità di mercato, sentono di dover imprimere una
svolta sostanziale ai loro prodotti. Nasce, dunque, la novità di successo: i
“bianchi” di Faenza. Novità che fu presto battezzata “faïence” in tutta Europa: un
neologismo, faïence per maiolica, che ha legato per sempre il nome della città al
suo prodotto artistico maiolicato. Le forme dei “bianchi” sono ricavate su prototipi
in metallo, per lo più argenti, mentre la decorazione si caratterizza per una fattura
rapida, abbreviata, da cui l’adozione del termine di “stile compendiario”. La grande
svolta dei “bianchi” si esaurirà alla fine del ‘600, con l’avvento della porcellana.
Dal ‘700 la ceramica di Faenza saprà darsi ancora caratteri distintivi per qualità
del prodotto artistico, per la continua ricerca tecnica e per la reinvenzione delle
forme e dei repertori sollecitati da mode europee. Il prestigio della maiolica
faentina è affidato nei suoi prodotti migliori alla Manifattura Ferniani a partire dalla
fine del ‘600 sino alla fine del secolo successivo. L’ ‘800 si muove tra il gusto
popolare e l’eclettismo che si alimenta sulla ripresa degli stili del passato; inoltre il
secondo ‘800 faentino vive un’altra brillante esperienza con la “pittura su
ceramica”, capace di ottenere effetti pittorico-cromatici simili a quelli della pittura
da cavalletto. Le officine del ‘900, depositarie dell’antica tecnica, sono tuttora
terreno di conservazione della tradizione ma anche laboratori di nuove esperienze
e sede di formazione per le giovani generazioni.
Castelli
Nel territorio di Castelli d’Abruzzo
le tracce di antiche ceramiche appartenenti alle epoche più remote,
dimostrano come il sorgere di una
tradizione manifatturiera non sia
sbocciata improvvisamente.
Durante il Medioevo, epoca in cui si
forma il nucleo abitato attorno ad
una fortificazione, la produzione di
di una ceramica d’uso, prima, e con caratteristiche estetiche poi, dovette essere
abbastanza precoce. Le recenti ricerche condotte nel territorio di Castelli hanno
confermato l’antichità della locale produzione ceramica fino dal periodo pre-rinascimentale. Gli scavi condotti presso le discariche della fabbrica dei Pompei hanno accertato l’esistenza di una produzione ceramica di notevole qualità: maioliche
e ceramiche ingobbiate e “graffite”. Tra la fine del ‘400 e i primi del ‘500 le fabbriche castellane imprimono una svolta ai loro prodotti maiolicati, particolarmente
con la serie da farmacia, nota come tipologia “Orsini-Colonna”, qui in Mostra
largamente esemplificata. A metà del ‘500, Castelli, attraverso l’arte della maiolica
intratteneva scambi culturali con importanti centri della penisola, quali Roma e
Napoli, e godeva di un notevole giro d’affari, sostenuto anche da committenze
prestigiose come i Farnese, per i quali si produssero le famose “turchine”,
testimoniate in questa esposizione da un rinfrescatolo “a navicella” che fa pendant
con altro identico delle raccolte del MIC: capi d’opera unici al mondo che in origine
facevano parte del fastoso e monumentale servizio (“credenza”) per il cardinale
Alessandro Farnese, prodotto nel terzo quarto del ‘500. Nello stesso periodo
Castelli accoglie e fa propria la corrente dei “bianchi” faentini, che trova la sua
massima espressione, soprattutto, nei mattoni del soffitto di San Donato dei primi
del ‘600. Col ‘600 inizia un’altra stagione aurea della maiolica castellana, ad opera
principalmente di due dinastie che per quasi due secoli terranno alto il nome del
piccolo centro abruzzese, quella dei Grue e quella dei Gentile, diffondendo la
produzione ceramica anche in altri centri. Sono vasellami che si ispirano alle
stampe dei grandi maestri della pittura, dal Barocci ai Carracci, dal Tempesta a
Pietro da Cortona, fino ai francesi Poussin e Lorrain. Con l’ ‘800 il messaggio
artistico di Castelli si affievolisce. I motivi della decadenza vanno identificati nella
concorrenza della porcellana e della produzione industriale, nella mancanza di
artisti e di nuovi motivi decorativi, nel tramonto della bottega artigianale, dove
avveniva la formazione artistica e la trasmissione dello stile castellano. Tuttavia
nel ‘900 Castelli ha saputo conciliare la produzione di tipo industriale e la pittura
tradizionale, specie quella del paesaggio castellano, rifiutando lo scadimento
seriale, come le tante opere sparse in Musei e collezioni private stanno a
dimostrare, rappresentando una tradizione che ha saputo costantemente
concordare arte e tecnica.
Gubbio
Le più antiche ceramiche rinvenute nel
territorio eugubino risalgono al periodo
neolitico. Da scavi archeologici sono
inoltre emerse testimonianze che da
epoche remote vanno sino all’epoca
romana.
Dopo il Mille, numerosi frammenti, soprattutto privi di rivestimento o invetriati,
sono venuti alla luce nel corso di indagini in città e nel territorio circostante.
L’attività produttiva nel campo della ceramica è testimoniata archivisticamente
in Gubbio sin dal XII secolo, ma con abbondanza di riferimenti solo a partire
dalla prima metà del ‘300, come confermano anche numerosi reperti medievali,
dipinti nello stile “arcaico”, sobrio di forme e colori. Ma il vero grande sviluppo
dell’arte della maiolica si registra tra la fine del ‘400 e i primi del ‘500, in concomitanza con l’avvio dell’attività della bottega di mastro Giorgio Andreoli, celebrato
per i suoi “lustri” iridescenti, e di quelle di altri maestri locali, quali Giacomo di
Paoluccio, i Traversi, i Floris e altri. Infatti in questo periodo la fama della città
eugubina è soprattutto legata ai “lustri” dorati, argentei e rosso rubino, ottenuti in
“terza cottura” secondo la tecnica araba, codificata dal didascalico durantino
Cipriano Piccolpasso, anticamente chiamata “maiolica” e conosciuta poi come
“lustro ad impasto” o “lustro metallico”. Esso si applicava alle opere dipinte nello
stile manierista dell’ “istoriato”, come questa Mostra ampiamente testimonia, ma
anche su “grottesche”, “trofei” musicali e d’armi antiche, motivi “a candeliere”,
ecc. Dopo il decremento produttivo dei secoli XVII e XVIII, dalla metà dell’ ‘800 si
assiste ad un rinnovato impulso sull’onda della ripresa storicistica. A partire dagli
inizi del ‘900 si aprono numerose fabbriche, nelle quali si attua una notevole
sperimentazione e innovazione tecnica.
Casteldurante
Urbania, già nota nel Rinascimento con
il nome di Casteldurante, vanta una tradizione ceramica di molti secoli, che ha
rappresentato nella storia del Ducato di
Urbino un’attività di rilevante importanza
economica. Il periodo più fecondo della
ceramica durantina è stato il ‘500, benché tracce di documentazione si possano far risalire fino al Medioevo. La ceramica durantina nel Rinascimento, giovandosi della committenza del Ducato di
Urbino, conobbe una fioritura di particolare livello qualitativo, favorita dal facile
reperimento dell’argilla da fiume Metauro e nutrita dal “raffaellismo”, dai grandi modelli della pittura e dalla cultura degli
umanisti di corte. Verso la metà del ‘500, Casteldurante, insieme ad altri centri
dell’area metaurense nelle Marche, specie Urbino e Pesaro, produsse tra le più
belle maioliche del Rinascimento distinguendosi da altre aree di produzione, per
l’invenzione di repertori decorativi propri, particolarmente per la raffinatezza del
genere figurativo detto “istoriato”. Eccellono in tal genere maestri come Zoan
Maria Vasaro, il “Pittore in Castel Durante”, Simone da Colonnello, i Picchi,
Sebastiano Marforio e altri: pittori di eccezionale bravura nelle figure e nelle
prospettive fuse in una gamma policroma di colori smaglianti, ingentilita dall’uso
sapiente del bianco; non solo, ma nel ‘500 vari artefici durantini lasciarono il
piccolo centro marchigiano per impiantare officine e diffondere la loro arte sia in
Italia sia all’estero. Accanto all’ “istoriato” si produssero con altrettanta perizia
svariate decorazioni: araldica, festoni, foglie di quercia e ghiande, quest’ultime in
omaggio ai Della Rovere. Nel ‘600 altri valenti modellatori e pittori su maiolica,
come Ippolito Rombaldoni, proseguono la tradizione, specie del “tardo-istoriato”.
Anche tra il ‘600 e il ‘700 nelle ceramiche urbaniesi secolari famiglie di ceramisti
mantengono e rinnovano l’arte. Alla fine del secolo gli Albani impiantano la
terraglia “all’uso di Inghilterra”, attività che proseguirà fino ai primi del ‘900. Per
tutto il secolo scorso perdura il filone popolare della ceramica d’uso, a lungo
variamente prodotta in ambito metaurense. Gli artigiani ceramisti di oggi hanno
fatto grandi passi nella ricerca e ripropongono ancora le antiche forme e i decori
del periodo d’oro di Casteldurante.
Deruta
I primi insediamenti ceramici a Deruta furono sicuramente favoriti dalla facile
reperibilità dell’argilla nelle colline circostanti, dove veniva ancora estratta nei
primi del ‘900, compresi i depositi alluvionali del Tevere.
Se scarsi sono i reperti relativi ai secoli prima del Mille, un considerevole numero
di testimonianze, quali documenti d’archivio, reperti di scavo, e molte opere
superstiti conservate nei Musei e nelle collezioni private, documentano come la
ceramica sia stata prodotta a Deruta ininterrottamente dal Medioevo ad oggi.
Il Medioevo è caratterizzato dalla cosiddetta “maiolica arcaica”, con vasellami dipinti nell’usuale, sobria bicromia bruno-verde, ed ornati di motivi geometrici, zoomorfi, fantastici o simbolici, sacri e profani. Nel ‘400 si afferma lo “stile tardo-gotico”, caratterizzato dalla ricchezza delle varianti formali e soprattutto iconografiche.
Nasce il piatto “da pompa” che riesce ad
accogliere soggetti allegorici, amorosi,
scene guerresche, simboli araldici, ecc.
Nella seconda metà del secolo, Deruta e
i suoi maestri vasai furono al centro di un
intenso movimento artistico e commerciale. In questo ambito la produzione derutese del periodo è quanto mai variegata
per qualità e tecniche. Dalla fine del ‘400
in poi nuove forme e decorazioni si sovrapposero alle precedenti: si attesta una
raffinata produzione policroma, detta
“petal back” per la presenza di decorazioni a forma di petali sul retro dei piatti, e
di nuove tecniche, come il “lustro”, che
renderà giustamente famose le fabbriche derutesi; grazie a quest’ultimo,che consentiva di ottenere il colore fulvo dell’oro o il rosso del rubino con sfumature cangianti e iridescenti, si affermarono nuovi protagonisti, dando vita ad una attività artistica e commerciale senza precedenti. Un posto d’eccezione è occupato dalla
produzione “istoriata” di Giacomo Mancini detto “il Frate”, con opere la cui decorazione, estesa all’intera superficie dei suoi grandi piatti “da pompa”, evoca personaggi ed episodi dell’epopea cavalleresca, scene profane da Ovidio e temi della
grande pittura, soprattutto temi raffaelleschi, spesso arricchiti col “lustro”, come
questa Mostra ben documenta. Nel ‘600 a Deruta prevale lo stile sintetico della
pittura “compendiaria” dei “bianchi” che a Faenza si erano avviati con largo successo sin dalla metà del ‘500. Nel ‘700 si osserva il progressivo abbandono dello
stile “compendiario” per giungere ad uno stile maggiormente colto, con una certa
apertura alle contemporanee tendenze della pittura vedutista. Dopo queste esperienze, nell’ ‘800 la produzione derutese declina rapidamente; nei primi del ‘900
però si tornarono a formare nuove maestranze, che si orientarono verso il filone
revivalistico e classicheggiante, ad imitazione degli originali cinquecente- schi, ed
anche a produzioni più innovative.
Urbino
Urbino fu un grande centro della maiolica rinascimentale, grazie al patronato dei
Duchi Della Rovere, in omaggio al cui nome assunse particolare importanza la
decorazione “a cerquate”, basata sul motivo della quercia.
L’importanza di Urbino come città ceramica inizia nei primi del ‘500, con una serie
di anonimi maestri. Essi si specializzarono nella decorazione “a grottesche”,
festoni, “a trofei”, mascheroni, “a raffaellesche”, derivate dalle “raffaellesche” delle
Logge Vaticane.
Ma sarà dopo il 1520 che si sancirà la
fama e la fortuna delle botteghe urbinati,
soprattutto con il loro stile “istoriato”, generato sulla spinta del “raffaellismo” e
trasfuso in generale sulle arti applicate
attraverso la mediazione delle stampe
diffusive delle opere di Raffaello. Sulle
superfici dei vasellami, che ora sono
animati da manici plastici a serpente,
versatoi a teste di chimera o di fauno,
modellati sui contemporanei esempi in
bronzo o in metalli pregiati, si vedono
dipinte “istorie” di netta ispirazione raffaellesca. Alle botteghe urbinati furono
commissionati superbi servizi (“credenze”) per i più prestigiosi personaggi e
le più importanti famiglie del tempo: il Connestabile di Francia Anne de Montmorency, il Cardinale Duprat, gli Strozzi, i Pucci, i Gonzaga, i Paleologo del Monferrato, Guidobaldo II Della Rovere, ecc., composti di svariate centinaia di pezzi,
spesso caricati di stemmi ed “imprese” che esaltavano la dignità storica delle
famiglie e costituivano l’orgogliosa espressione del loro splendore. Nel genere
“istoriato” si cimentarono grandi pittori-maiolicari come Nicola di Gabriele Sbraghe che si firmava “Nicola da Urbino”, Francesco Xanto Avelli da Rovigo, attivo in
Urbino dal 1530 circa, Guido Durantino e i Fontana, ed infine la bottega tardorinascimentale dei Patanazzi, attiva sino al terzo decennio del ‘600, che accentuarono il gusto dei modi ultraornati dell’ “istoriato” e della “raffaellesca” in forme modellate a tutto tondo, già con impronta barocca. L’arte dei maiolicari urbinati interpreta ed esalta così pienamente il clima, il gusto, l’erudizione umanistica dell’ambiente della corte d’Urbino: valori che giustificano il maggior rilievo dato a tale
ambito in questa Mostra. Le maioliche d’Urbino divennero note in tutta Europa ed
ancora oggi la ceramica urbinate è presente nei Musei più importanti nel mondo,
proprio come l’Ermitage di San Pietroburgo sta a dimostrare.
Pesaro
Fu uno dei più importanti centri della maiolica nelle Marche, con Casteldurante
(Urbania) e Urbino.
Dopo una significativa fase “arcaica” o tardomedievale, la maiolica di Pesaro
concilia la cultura gotica con quella “moresca”, sfociando nella seconda metà del
‘400 in un raffinato repertorio di “foglie gotiche”, “occhi di penna di pavone”, motivi
“alla porcellana” e vari temi rinascimentali.
Nel 1496 vi si crearono le mattonelle per gli appartamenti d’Isabella d’Este Gonzaga a Mantova, e attraverso la sorella di lei, Beatrice, sposa di Lodovico il Moro
duca di Milano, le botteghe pesaresi godettero la protezione degli Sforza. Nel
‘500, accanto ai “trofei ocracei”, ai “quartieri” a fondi policromi, alle cosiddette
“belle donne”, a festoni, ed ai più rari vasellami “ a dorature” e “a lustro”, a Pesaro
fiorì lo “stile istoriato” ad opera di eccellenti maestri, anonimi (“Il pittore del pianeta Venere”, il “Pittore di Argo”, il “Pittore di Zenobia” e altri) e non, come Sforza
di Marcantonio e Girolamo Lanfranco
delle Gabicce: quest’ultimo è figura centrale nella produzione ceramica pesarese, la cui fiorente bottega sfornò opere
con caratteri più vivacemente pittorici,
fortemente ombreggiati e di forte effetto
cromatico, con l’uso abbondante dell’
arancione e con frenetica animazione
delle scene. L’antica tradizione rifiorì nel
XVIII secolo soprattutto con la prospera
bottega di Antonio Casali e Filippo Callegari, e proseguì fino alla metà dell’ ‘800.In questo periodo si crearono maioliche
con policromie “a terzo fuoco” e con dorature, con mazzetti, paesaggi e soggetti
arcadici.
Fabriano
Secondo scrupolose indagini archivistiche, è ormai riconosciuto che a Fabriano
esisteva un’importante tradizione d’arte
ceramica già dal XIV secolo, addirittura
famiglie e “società di vasari” che si sono
tramandate l’arte per secoli.
Tuttavia il nome del piccolo centro marchigiano nella storia della maiolica italiana viene sancito dalla iscrizione “Fabriano 1527” su di un piatto dell’Ermitage,
che la presente Mostra consente di ammirare, “istoriato” con il noto tema raffaellesco della “Madonna della Scala”. Sul
verso esso porta la marca “V sbarrata”,
la stessa che contrassegnando un piatto del Victoria and Albert Museum di
Londra, raffigurante il “Ratto di Proserpina”, rafforza l’esistenza d’una fabbrica
locale che a Fabriano lavorò nello stile del contemporaneo “istoriato” urbinate,
particolarmente di “Nicola da Urbino”.
Non meno pregevoli sono i vasellami da “credenza”, che gravitano sulle più
importanti committenze locali, soprattutto quella della famiglia Agostini, che si
contraddistingue per lo stemma della prestigiosa casata, attorniato da “trofei”,
vessilli, strumenti musicali, ecc.
Venezia
Il grande centro lagunare fu sede di
attivi “scudeleri” e “bocaleri” sin dal
Medioevo, che fabbricavano soprattutto
vasellami ingobbiati e “graffiti”.
Le botteghe veneziane tuttavia andarono famose a partire dal ‘500, grazie
all’apporto di maestranze che si erano
trasferite in laguna già con un ricco
bagaglio di esperienze, provenienti da
altri centri, specialmente dall’area
marchigiana.
Così, accanto alla decorazione “alla
porcellana”, “a grottesche”, “a trofei”,
ecc., si sviluppò il genere figurato o
“istoriato”, ma in modo piuttosto indipendente rispetto agli altri centri italiani e con
una qualità tecnica ricca di materia cromatica e di particolare lucentezza degli
smalti. L’ “istoriato” veneziano vede emergere personalità quali Maestro Ludovico
e Jacopo da Pesaro, che amano ornati in turchino o in bianco su fondo grigio o
azzurrino (“berettino”), talvolta a fare da cornice a solitarie figure, delineate
anch’esse in dominante monocromia blu. Nella seconda metà del ‘500 spiccano
soprattutto Mastro Domenico “da Venezia” e la sua fiorente bottega, cui sono
attribuiti interi corredi da farmacia, composti di vasellami decorati “a foglie e frutta”
policrome di lussureggiante festosità, abbinate a medaglioni con ritratti o figure
che, nel loro pittoricismo caldo e nel ductus sciolto, rivelano sensibili apporti ed
influssi della coeva pittura veneziana. La maiolica veneta sei-settecentesca si
specializza in raffinati vasellami dal fondo azzurro-perlino, detti “latesini”; con le
veneziane Manifatture Vezzi e Cozzi, quest’ultima attiva sino al 1812, si assiste
anche allo sviluppo sia della porcellana sia della terraglia “ad uso d’Inghilterra”.
Rimini
A Rimini, favorita da un’eccellente argilla
figulina, fiorì una notevole attività ceramica
sin dal Medioevo, la cui fortuna si legò
soprattutto alla produzione che esaltava
nella decorazione l’araldica e le “imprese”
della dinastia malatestiana.
La ceramica riminese è testimoniata sia
dalle fonti archivistiche, che attestano
l’attività di numerose fornaci, sia da innumerevoli reperti recuperati in aree urbane,
che documentano tangibilmente la parte
importante sostenuta dai ceramisti locali
allo sviluppo dell’arte.
Nel Rinascimento la maiolica riminese rafforzò sensibilmente la qualità e il tessuto decorativo dei suoi prodotti, facendo
proprie le tematiche più in voga tra la fine del ‘400 e i primi del ‘500: fogliami
tardo-gotici, profili di donna (le cosiddette “belle donne”), motivi araldici e rinascimentali, ecc.
Inoltre, splendidi esempi in raccolte italiane e straniere attestano come, sin dai
primi del ‘500, a Rimini si sviluppasse il filone della maiolica “istoriata”. In questo
ambito domina la personalità di maestro Giulio da Urbino, che, attorno al 1535,
presso la bottega riminese di maestro Alessandro, sforna una serie di opere
pregevolissime, firmate, datate e contrassegnate dalla dicitura “in Arimino”. Le
opere assegnabili al suo soggiorno riminese rivelano come la sua formazione
pittorica si affacci già matura e si esprima in una sicura vena interpretativa in cui
sono costanti la bella grafia, il ductus scorrevole, elegante, che si esplica con
sagacia nei bizzarri dettagli “musicali” delle architetture, e in una tavolozza piena,
congiunta ad un uso equilibrato del bistro, specie nei corpi dei protagonisti delle
sue “istorie”, per lo più profane, quasi memoria dei suoi trascorsi urbinati.
Dopo la breve stagione di maestro Giulio, l’arte della maiolica a Rimini proseguirà
sia nel filone popolare sia in quello devozionale.
Ferrara
In epoca medievale a Ferrara si produsse vasellame di terracotta invetriata,
nonché prodotti ingobbiati e “graffiti”,
con decorazioni comuni anche ad altre
zone padane, con motivi geometrici,
vegetali, animali, temi simbolici, araldici
e religiosi.
Nel periodo rinascimentale furono gli
Estensi ad amare e a proteggere l’arte
della ceramica. Ferrara ebbe così
fabbriche prestigiose, in cui lavorarono
modellatori e “magistri alemanni”, pittori
ed artisti di grande perizia, che
prestarono i loro modelli all’arte della
ceramica.
L’apporto culturale della feconda “officina ferrarese” è dimostrato sia attraverso il vasellame “graffito” figurato,
legato all’ iconografia dei grandi cicli pittorici estensi, sia da una serie di piccole sculture a tutto tondo, oggetti con
funzione di calamai, per lo più elaborate sul tema delle figure femminili allegoriche
o del “San Giorgio che uccide il drago”; d’altronde il Santo a Ferrara, in forza di un
particolare sentimento religioso, è glorificato da una schiera di artisti quali il Tura,
il Dossi e il Paris, e da artigiani, come medaglisti, miniatori, arazzieri, ecc.
Dai documenti del XV e XVI secolo risultano attive a Ferrara maestranze
provenienti da Faenza e da Urbino. Botteghe ducali furono attive al tempo di
Ercole I, Alfonso I e Alfonso II. Al loro interno, a parte gli esperimenti per
fabbricare porcellana, si lavorarono vasellami comuni e mattonelle da
rivestimento, servizi e piatti da parata, sia ingobbiati sia maiolicati.
Toscana
La grande tradizione della ceramica toscana si colloca precocemente e con
un ruolo centrale all’interno del panorama italiano sin dal periodo tardo-medievale (“arcaico”) e poi gotico.
Nella prima metà del ‘400, la qualità
raggiunta del linguaggio dell’arte della
maiolica è testimoniata soprattutto dal
vasellame in blu (“zaffera”), per lo più
destinato alle farmacie di Firenze.
Famosa è la fornitura di molte centinaia
di pezzi, che, secondo i documenti, si
può far risalire al 1431, contrassegnati
dall’emblema della gruccia, per la “spezieria” dell’Ospedale di Santa Maria Nuova: commissione della quale, oltre
all’Ermitage anche il Museo faentino può vantare alcuni pregevoli vasellami.
Circa le influenze che possono avere incentivato la diffusione di tale produzione,
caratterizzata dal blu dato a corpo, per questo detta “zaffera a rilievo” (o “goccioloni”), ricordiamo che per taluni studiosi si tratta di una derivazione tecnologica da
prodotti vetrari bizantini, mentre secondo altri si spiega piuttosto coi numerosi
paralleli che si possono istituire tra il repertorio decorativo delle maioliche toscane,
soprattutto di area fiorentina o montelupina, e quello diffuso e trasfuso dai motivi
dei tessuti tardo-medievali, presenti negli arredi o effigiati nella pittura fiorentina.
Le officine toscane, intendendo soprattutto quelle di Montelupo, dal secondo ‘400
al primo ‘500 si attestano con una delle più ricche documentazioni relative alle
cosiddette “famiglie” decorative rinascimentali: alludiamo alla tematica “italomoresca”, alla foglia gotica “accartocciata”, alla “palmetta persiana”, all’ “occhio di
penna di pavone”, al genere “alla porcellana”, ecc.
A Siena, inoltre, agli inizi del ‘500 si colgono stretti legami tra l’ambiente artistico
locale e gli esiti decorativi, specie le “grottesche”, che si riverberano analogamente sia sui vasellami sia sui pavimenti maiolicati di importanti edifici senesi.
L’ “istoriato” nel ‘500, policromo secondo la moda urbinate, attecchirà anche nelle
fornaci toscane: Montelupo, Cafaggiolo, Siena e altre, registrando nel ‘700 una
raffinata ripresa nel Senese, su modelli di matrici raffaellesche, presso la Fabbrica
dei Chigi Zondadari.
Testi a cura di Carmen Ravanelli Guidotti
Elenco delle opere del catalogo della mostra a cura di Elena Ivanova
1. Ferrara – fine del XV secolo
Calamaio. “S. Giorgio che uccide il
drago”
2. Firenze - 1425-50
Vaso biansato da farmacia. Uccello e
foglie di quercia
3. Firenze - 1425-50
Vaso biansato da farmacia. Aquila e
foglie di quercia
4. Toscana – 1480 ca.
Vaso con manici a forma di drago
5. Faenza - 1520-25
Coppa. “Giudizio di Salomone”
6. Faenza - 1520-25
Coppa. “Il sacrificio di Marco Curzio”
7. Faenza – 1550 ca.
Vaso da farmacia. “Camilla” e motivi
“a quartieri”
8. Faenza – 1563
Grande coppa. Motivo a rete e piccoli
animali
9. Faenza - 1535-40
Coppa. “Atena” e “grottesche”
10. Faenza, bottega di Baldassarre
Manara - 1540-45
Grande vaso cilindrico da farmacia
(“albarello”). “Natività” e motivi ”a
quartieri”
11. Castelli - 1530-60
Grande fiasca biansata da farmacia.
“Lucrezia” e motivi vegetali
12. Castelli - 1530-60
Grande fiasca biansata da farmacia.
Figura di santo martire e motivi
vegetali
13. Castelli - 1530-60
Brocca da farmacia. Coppia di busti e
motivi vegetali
14. Castelli - 1530-60
Vaso biansato da farmacia. “Camilla”
e motivi vegetali
15. Castelli - 1530-60
Vaso cilindrico da farmacia
(“albarello”). Busto virile e motivi
vegetali
16. Castelli - 1530-60
Vaso sferoidale biansato da farmacia.
Busto virile
17. Castelli – seconda metà del XVI
secolo
Grande rinfrescatoio a navicella con
stemma Farnese
18. Deruta - 1500-10
Piatto. “Flagellazione di Cristo” e
cornice “a grottesche”
19. Deruta – 1510-20
Piatto. “Trionfo di Castità”
20. Deruta – 1500 ca.
Vaso cilindrico da farmacia
(“albarello”). Busto femminile e
festoni
21. Deruta – 1500 ca.
Vaso cilindrico da farmacia
(“albarello”). Busto virile e festoni
22. Deruta – prima metà del XVI secolo
Vaso biansato. Busto di S. Francesco
e motivi vegetali
23. Deruta - 1530-40
Saliera triangolare. Motivi vegetali
24. Deruta, Giacomo Mancini detto “El
Frate” – 1545
Piatto. “Erisitone abbatte gli alberi
sacri a Cerere”
25. Deruta, Giacomo Mancini detto “El
Frate” – metà del XVI secolo
Piatto. Santa Cecilia
26. Deruta – 1520 ca.
Versatore monoansato. Motivi “a
grottesche”
27. Deruta - 1520-25
Piatto. Busto di guerriero e cornice ad
“embricazioni”
28. Deruta – 1560-70
Brocca da farmacia. Emblema di Porta
Sole a Perugia e “grottesche”
29. Urbino, Nicola da Urbino – 1521
Coppa. Re in trono
30. Fabriano, bottega di Nicola da Urbino
- 1527
Coppa. Presentazione della Vergine al
tempio
31. Urbino - 1530-35
Coppa. “Laocoonte”
32. Urbino, Ambito di Nicola da Urbino 1530-35
Piatto. “Pasife”
33. Urbino, Ambito di Nicola da Urbino 1530-35
Piatto. “Ercole e Onfale”
34. Urbino, Nicola da Urbino (?) – 1525
ca.
Coppa. Donna con due spugne
35. Urbino, Ambito di Nicola da Urbino 1520-30
Coppa. “La salita al Calvario”
36. Urbino, bottega di Nicola da Urbino 1530-35
Piatto. “Pasife e Dedalo” e stemma
Gonzaga-Paleologo
37. Urbino, Francesco Xanto Avelli,
decorato con lustro a Gubbio – 1534
Piatto. “Carlo V punisce Roma
corrotta”
38. Urbino, Francesco Xanto Avelli - 153032
Piatto. “Le tre Parche”
39. Urbino, Francesco Xanto Avelli,
lustrato da Mastro Giorgio da Gubbio
– 1531
Piatto. “Anfiarao ed Erifile”
40. Urbino, Francesco Xanto Avelli – 1534
Piatto. La caduta di Firenze del 1530
41. Urbino, Francesco Xanto Avelli – 1532
Piatto. “Morte di Calano” e stemma
Pucci
42. Urbino, Francesco Xanto Avelli –
1530-40.
Piatto. “Laocoonte”
43. Urbino, Francesco Xanto Avelli, –
1532
Piatto. “Ercole e Cerbero”
44. Urbino, Francesco Xanto Avelli,
lustrato da Mastro Giorgio da Gubbio
– 1535
Piatto. “Polifemo, Galatea e Aci” e
stemma di Jacopo Pesaro Vescovo di
Pafo
45. Urbino, bottega di Xanto Avelli,
lustrato a Gubbio – 1535
Piatto. “Enea incontra Anchise ai
campi Elisi”
46. Urbino, Francesco Xanto Avelli – 1534
ca.
Piatto. “La vestale vergine sepolta
viva”
47. Urbino, Francesco Xanto Avelli – 1537
Piatto. “Sansone distrugge il tempio
dei Filistei”
48. Urbino, Francesco Xanto Avelli –
prima del 1531
Lastra. “Il combattimento tra Achille
ed Ettore”
49. Urbino, Francesco Xanto Avelli – 1542
Piatto. “Vulcano forgia le frecce per
Cupido”
50. Urbino, Francesco Xanto Avelli – 1534
Piatto. “Morte di Cleopatra”
51. Urbino, Francesco Xanto Avelli – 1538
Piatto. “La vestale Tuccia porta al
tempio l’acqua del Tevere con un
setaccio”
52. Urbino, Francesco Durantino nella
bottega di Guido di Merlino – 1540 ca.
Coppa. “L’imbarco delle truppe di
Scipione”
53. Urbino, Francesco Durantino – 1544
Piatto. “Proserpina”
54. Urbino, Francesco Durantino – 1540
ca.
Piatto. “Filomena e Procne”
55. Urbino, bottega di Guido Durantino –
1527-35
Piatto. “Il trionfo di Davide” e stemma
del Cardinale Antoine Duprat
56. Urbino, bottega di Guido Durantino –
1527-35
Piatto. “Presentazione di Samuele al
tempio” e stemma del Cardinale
Antoine Duprat
57. Urbino, bottega dei Fontana – 1560
ca.
Piatto. “Il ratto di Europa”
58. Urbino, bottega di Guido Durantino 1530-1540
Piatto. “La strage degli innocenti”
59. Urbino, bottega di Guido di Merlino (?)
– 1540 ca.
Piatto. “Perseo e Andromeda”
60. Urbino, bottega di Guido di Merlino –
1540 ca.
Rinfrescatoio biansato. “Orazio
Coclite sul ponte”
61. Urbino, bottega di Guido di Merlino 1540-50
Piatto. “Alessandro e Diogene” e
stemma Asburgo Hervardt e
Schellenberg
62. Urbino, bottega di Orazio Fontana 1565-71
Rinfrescatoio a triangolo. “Il trionfo di
Galatea”
63 Urbino, bottega di Orazio Fontana 1565-71
Rinfrescatoio a triangolo. “La discesa
di Carlo V in Italia” e stemma di
Guidobaldo II Della Rovere
64 Urbino, bottega di Orazio Fontana 1560-80
Piatto. “Giosuè ferma il sole”
65 Urbino, bottega di Orazio Fontana 1565-70
Grande vassoio ovale. “Minerva e le
Muse” e motivi “a raffaellesche”
66 Urbino, bottega di Orazio Fontana (?),
- 1580-90
Anfora. “Scene della vita di Santa
Lucia”
67 Urbino, bottega dei Fontana – 1540
ca.
Piatto. “La condanna di Perillo” e
stemma Medici-Pucci
68 Urbino – fine del XVI secolo
Piatto. “Il peccato originale”
69 Urbino, lustrata da Mastro Giorgio da
Gubbio – 1534
Coppa. “Marte e Venere nella rete di
Vulcano”
70 Urbino o Venezia, bottega di
Domenico da Venezia - 1560-65
Coppa. “Esaù e Giacobbe”
71 Urbino – fine del XVI secolo
Coppa. “Volumnia e i figli dinnanzi a
Coriolano”
72 Urbino - 1535-40
Piatto. “Perseo e Andromeda”
73 Urbino – 1541
Piatto. “Psiche e le sorelle”
74 Urbino – 1540-50.
Piatto. “Venere e Psiche“
75 Urbino – 1550-60
Piatto. “Aretusa e Alfeo”
76 Urbino - 1575-1600
Coppa. “Il banchetto nella casa di
Abramo”
77 Urbino – 1550-60
Coppa. “Marte, Venere e Vulcano”
78 Urbino – 1542
Coppa. “Allegoria delle quattro
stagioni”
79 Urbino – 1540-50
Piatto. “Battesimo di Cristo”
80 Urbino - 1535-40
Coppa. “Priamo e Achille”
81 Urbino – 1551
Piatto. “Mosè riceve le Tavole da Dio”
82 Urbino, lustrato a Gubbio – 1534
Piatto. “Marte e Venere nella rete di
Vulcano”
83 Urbino , lustrata da Mastro Giorgio da
Gubbio – 1530-40.
Coppa. “Muzio Scevola al cospetto di
Porsenna”
84 Urbino - 1530-40
Coppa. “La deposizione di Cristo”
85 Urbino – seconda metà del XVI secolo
Coppa. “Rebecca partorisce Esaù e
Giacobbe”
86 Urbino – 1542
Piatto. “Muzio Scevola al cospetto di
Porsenna”
87 Urbino – 1539
Coppa. “Latona e i pastori”
88 Urbino – 1540-50
Coppa. “Dio appare ad Isacco”
89 Urbino – seconda metà del XVI secolo
Piatto. “la cacciata di Adamo ed Eva”
90 Urbino – 1543
Coppa. “Diana trasforma Callistone in
orsa”
91 Urbino o Pesaro – 1541
Piatto. “I figli di Niobe colpiti dalle
frecce di Apollo”
92 Urbino – 1541
Coppa. “Scena dal mito di Cupido e
Psiche”
93 Urbino, bottega dei Fontana – 1540-50
Fiasca. “Storie della vita di Esopo”
94 Urbino – 1540-50
Fiasca con tappo e piede in bronzo.
“Noè ebbro”
95 Urbino, bottega dei Patanazzi - 15751600
Guttatoio. Bacco appoggiato alla
botte
96 Urbino, bottega dei Patanazzi - 15751600
Gruppo plastico. Maria Maddalena
inginocchiata davanti al Crocefisso
97 Urbino, bottega dei Patanazzi – 1575 –
1600
Guttatoio. “S. Girolamo”
98 Urbino, bottega dei Patanazzi - 158090
Calamaio. “L’Arcangelo Michele
sconfigge il diavolo”
99 Rimini – 1535
Coppa. “Il Cavallo di Troia”
100 Casteldurante – 1579
Anfora da farmacia. Figura allegorica
della Fortuna e motivi “a trofei”
101 Casteldurante - 1569
Vaso cilindrico da farmacia
(“albarello”). Motivi ”a trofei”
102 Casteldurante – 1531
Coppa. Ritratto di CarloV
103 Casteldurante – 1525 ca.
Coppa. “La strage degli Innocenti”
104 Casteldurante (?), lustrata a Gubbio 1535-40
Coppa. Busto di donna (“Letizia
bella”)
105 Casteldurante - 1530-37
Coppa. Busto di donna (“Cassandra”)
106 Casteldurante – 1531
Piatto. “Giochi di Cupidi”
107 Casteldurante - 1530-40
Coppa. Coppia d’innamorati
108 Casteldurante – 1535 ca.
Coppa. Busto di S. Paolo
109 Casteldurante – 1526
Vassoio. Motivi a rilievo di rami di
rovere
110 Casteldurante – 1525
Coppa. “S. Martino divide il suo
mantello”
111 Casteldurante, bottega di Giovanni
Maria Vasaro - 1510-20
Coppa. Busto di Marcovaldo
112 Casteldurante, bottega di Andrea da
Negroponte – 1551
Piatto. “Sansone e Dalila” e stemma
“Sapiens”
113 Casteldurante, bottega di Andrea da
Negroponte – 1560-70.
Coppa (“crespina”). “Il sacrificio di
Marco Curzio”
114 Urbino o Pesaro (?), bottega di
Sforza di Marcantonio – 1570-76
Piatto. “Ero e Leandro”
115 Pesaro, Sforza di Marcantonio (?),
lustrato a Gubbio – 1550-60
Piatto. “Saturno e Filira”
116 Pesaro, Maestro di Zenobia –
1550-60.
Piatto. “Attilio Regolo”
117 Gubbio, Mastro Giorgio - 1522
Piatto. “La caduta di Fetonte”
118 Gubbio – 1520-30
Calamaio. Putto seduto e stemma
cardinalizio
119 Gubbio o Cafaggiolo – prima metà
del XVI secolo
Vaso sferico. Baccellature in rilievo e
motivi floreali
120 Gubbio, Mastro Giorgio
Andreoli – 1520
Piatto. Tre Cupidi che giocano e
stemma
121 Venezia, bottega di Domenico da
Venezia - 1565-75
Vaso sferoidale. Motivo a paesaggio
122 Venezia – seconda metà del XVI
secolo
Vaso ovoidale. “S. Rocco” e motivi a
fogliami
123 Venezia – 1580 ca
Piatto. Allegoria del Tempo
124 Venezia – 1530 ca.
Vaso cilindrico da farmacia
(“albarello”). Motivi di fogliami e
frutta
125 Venezia – fine del XVI secolo
Rinfrescatoio biansato. Motivi floreali
entro baccellature e stemma al centro
Ferrara – fine del XV secolo
Calamaio. “S. Giorgio che uccide il
drago”
M.I.C.- Donazione Galeazzo Cora, 1983
Stampato dal M.I.C. il 29/V/2003