Giovanni Conso - Settimane Sociali dei cattolici italiani

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Giovanni Conso - Settimane Sociali dei cattolici italiani
Democrazia e Governance Internazionale
Giovanni Conso
Presidente Accademia Nazionale dei
Lincei
Conferenza Episcopale Italiana
IL COMITATO
SCIENTIFICOORGANIZZATORE DELLE
SETTIMANE SOCIALI
INTERVENTO DEL PROF. GIOVANNI CONSO
Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei
(Napoli, Castel dell’Ovo, 31 gennaio 2004)
Il dato da cui parto: lo scenario è purtroppo molto pesante, per non dire molto
drammatico, per non dire molto deludente, è quello che è. È venuto fuori in questo
modo: tanti eventi, tanto impegno, tanto controimpegno, ma il risultato è quello di
trovarci calati in una situazione di estrema preoccupazione. Cresce, altro che ridursi,
il gap tra Paesi ricchi e Paesi poveri; sta crescendo in modo smisurato. E anche tra gli
stessi Paesi ricchi, all’interno, ci sono distacchi molto forti tra i ricchissimi e i ricchi
così così. È democrazia tutto questo? No, sono colpi di piccone alla democrazia.
Allora visto che questo incontro è dedicato a «Democrazia e governance», io metterò
come pilastro di riferimento del mio modesto dire il concetto di «democrazia».
Abbiamo ascoltato una serie di considerazioni indubbiamente molto efficaci, molto
importanti, anche per quanto riguarda la varietà di significati e di approcci che il
concetto di governance implica, ma io penso che bisogna porre l’accento soprattutto
sul concetto di democrazia. Perché se non ci intendiamo su questo, anche il concetto
di governance va allo sbando. Quindi deve essere una governance in forma
democratica. Cose ovvie; ma poi nella vita quotidiana, col disordine crescente e
assoluto per la varietà di fenomeni, di scoperte, di innovazioni ecc., si finisce poi
magari per dimenticare anche la cosa più ovvia.
Allora il panorama è certamente molto preoccupante, ed è ancor più
preoccupante perché in realtà sono passati circa 50 anni da quando è cominciata l’era
nuova, dopo la seconda guerra mondiale: tante speranze, tante aspirazioni e — poiché
la situazione è critica — tante delusioni, tante disillusioni. E io credo che la delusione
e la disillusione siano compagni di percorso negativi, perché alla lunga ci si deprime,
viene meno lo slancio, soprattutto per chi non è giovane. Quante delusioni provate
ripensando a quando, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, partiva
l’ONU. E dobbiamo partire dalle Nazioni Unite, e molti lo hanno già fatto. Tutti
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praticamente lo fanno. Sono state ricordate date: 50 anni non è un periodo enorme,
però la vita nel mondo è stata intensa in questo periodo. Fin dalla prima relazione è
stato sottolineato l’11 settembre 2001, momento forte della storia, che ha cambiato lo
scenario internazionale. Le cose da quel momento sono ulteriormente peggiorate. Ma
non è che prima andassero così bene. La ricerca di una governance mondiale nella
democrazia c’era anche prima; magari non c’erano state tragedie come quella:
l’emersione di un terrorismo mondiale, anche se terrorismo c’è stato anche in Italia
(quante tragedie ci sono state a questo proposito!); però l’11 settembre certamente ha
acuito, e da qui anche un altro aspetto fra i tanti: Guantanamo, che è una irrisione
completa ai diritti più elementari degli individui e ai doveri più elementari degli Stati.
Ma poi, proprio in questi giorni, l’attualità immediata dirige la nostra
attenzione sulla tragedia africana: non soltanto più soltanto la fame e la sete, ma
l’AIDS che sta demolendo generazioni fin dall’inizio della vita. Che sarà del futuro,
se tutti i bambini stanno morendo o stanno crescendo ammalati. I problemi della
governance mondiale dovrebbero essere innanzitutto quelli della vita quotidiana.
L’economia è importante, non c’è dubbio; la finanza è importante, non c’è dubbio; la
politica è importante non c’è dubbio; la cultura è importante, non c’è dubbio; ma
cominciamo dalla vita. Se si muore così: ci sono statistiche pubblicate in questi giorni
orripilanti. Si può andare avanti così? Lo sterminio, non solo delle armi che uccidono,
che è un’altra bruttura enorme, con cui purtroppo c’è un’assuefazione, perché i
mercanti delle armi continuano. Ma adesso malattie endemiche, come l’AIDS, stanno
dilagando. Non solo: è possibile che non si faccia niente? Non sarebbe poi difficile,
penso. La medicina scoperte ne fa, rimedi sono stati trovati; nei Paesi ricchi questi
malanni vengono controllati, vengono ridotti. Come mai in Africa, no; magari anche
in Asia; nell’America del Sud chi lo sa? In ogni caso, le cifre in Africa sono
spaventose. Ma come mai, non si riesce a far nulla su questo? I rimedi ci sono: se
funzionano in America e in Europa, perché non possono funzionare anche lì? Eh, i
prezzi ecc., altro che politica economica! Altro che diritti degli uomini! Altro che
diritti dei popoli! Non si è in grado di fare persino le cose più facili e più importanti:
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è un fallimento della governance fin qui. Si va di male in peggio: e questo è
terribilmente scoraggiante.
Abbiamo avuto una serie infinita di Convenzioni, di Dichiarazioni universali, a
cominciare da quella dei diritti dell’uomo, dei diritti dei popoli e via dicendo. Quanti
organismi sono stati creati, eppure se il risultato è questo, con mezzi abbastanza forti,
e si va soltanto indietro, dov’è il difetto? Il difetto è nella governance; è fallimentare
la governance. Non parliamo poi di vicende come quella della Enron o della
Parmalat, che fanno anch’esse — sia pure in altro modo — inorridire. Come possono
accadere queste cose? Allora vediamo se è possibile sperare di vedere un po’ di luce
in fondo al tunnel in cui siamo infilati. Anche per recuperare la delusione. I giovani
sono sempre portati all’entusiasmo e alla speranza; ma quando lo scenario è più buio
di quello di quando ero giovane io, non è facile trovarli. Soprattutto per chi li ha
perduti dopo tanti insuccessi, dopo tanti fallimenti. Questi non sono stati soltanto
quelli del non fare nulla, ma quelli di aver fatto e di non aver saputo far produrre
quello che si è fatto. Era tutto inutile allora.
Che cosa ci insegna allora l’esperienza di questi ultimi 50 anni? Diciamo che la
delusione aumenta soprattutto se pensiamo a quell’altra data che ci aveva esaltato: la
caduta del Muro di Berlino, il crollo dell’Unione Sovietica. Aveva fatto sperare in un
futuro migliore, di democrazia, di rapporto tra le genti, e invece stiamo peggio di
prima, in un certo senso. Oggi abbiamo uno Stato che sta dominando il mondo, altro
che governance mondiale, mentre prima c’erano due blocchi. Certo che non era bello
per carità; non voglio fare l’elogio del tempo antico, quello prima della caduta del
Muro di Berlino. È bene che il Muro sia caduto, ma è caduto male; si è persa una
grande possibilità; qualcuno ne ha approfittato troppo, e continua ad approfittarne
troppo, dimenticando che la governance deve essere mondiale, e non di qualche Stato
che prevale sugli altri, che è il contrario della democrazia. Ecco perché è importante
parlare di democrazia a proposito della governance; perché non è democrazia quando
uno Stato, approfittando della caduta dell’altro mondo che lo controbatteva, ritiene di
essere il padrone del mondo: è il contrario della democrazia.
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Allora io farei una considerazione molto semplice, ma credo che le cose più
ovvie alcune volte vengono magari dimenticate o ritenute non all’altezza di
un’operazione importante come quella della governance mondiale. Certo che il
diavolo esiste: il Santo Padre l’ha detto varie volte, incorrendo addirittura nella
irrisione di coloro che non credono a queste cose. «Ci tira ancora fuori dopo l’anno
2000, nel terzo millennio, addirittura l’Inferno, il diavolo». Diavolo o no, le forze del
male ci sono, eccome. Ma le forze del male, quando parliamo di governance
mondiale, non sono soltanto i Paesi «canaglia», non sono solamente il terrorismo; il
guaio è che le forze del male giocano anche là dove ci sono in operatività gli Stati che
non sono ritenuti Stati «canaglia», gli Stati che combattono il terrorismo; eppure
anche lì il male si insedia. E allora forse il male va cercato non soltanto nel
combattere gli Stati «canaglia» e il terrorismo, ma anche nel modo in cui operano
quelli che si credono gli Stati «buoni», «lupi travestiti da agnelli». Gli Stati
«canaglia» e i terroristi non sono «lupi travestiti da agnelli», sono lupi che si
comportano da lupi; magari non sono facili da stanare, però sono dichiaratamente
lupi. Aiuto! Fanno paura gli agnelli travestiti da lupi. Le isole felici: ne abbiamo nel
nostro Paese una che è apparsa per 20 anni tale e sta venendo fuori invece la più
torbida delle situazioni nazionali; era un lupo travestito da agnello, che è ancora più
pericoloso perché non si sa snidare.
È vero che la giustizia non è di questo mondo, però migliorare si può e si deve.
Bisogna fare in modo che tutti gli accorgimenti, tutti gli ideali, tutte le idee, tutte le
costruzioni, tutte le convenzioni, tutti gli enti creati servano a far migliorare le cose.
In questi 50 anni questo non è avvenuto. Dopo le prime enunciazioni che hanno
sollevato gli spiriti e che hanno posto punti di riferimento, però poi all’atto pratico…
I no global crescono e non hanno tutti i torti, anche se il modo di agire, quando
arrivano alla violenza, certamente è da sconfessare. Hanno ragione quando
denunciano il gap spaventoso che conduce a calpestare i deboli. Non dimentichiamo
mai, allora, che i diritti di ogni uomo sono anche diritti dei popoli. E questa battaglia
è stata combattuta dalla Chiesa cattolica e dal Vaticano in prima linea per parecchio
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tempo, e tale impegno resta come patrimonio forte. Allora arrivo al punto chiave del
mio intervento, che si accompagna a un’altra indicazione. Bisogna evitare errori di
partenza, perché se si sbaglia la prima mossa, a parte che si perde tempo perché
bisogna ricominciare, ma poi è molto difficile, quasi impossibile, ripartire da zero. Le
macerie accumulate non si eliminano come se niente fosse. Facciamo altre
costruzioni, ma le macerie restano. Faccio un esempio: quante volte, percorrendo le
nostre strade e autostrade, vediamo ai lati edifici abbandonati, ma non perché sono
decaduti o crollati, ma perché non sono stati portati a termine e restano lì come opere
incompiute, che via via si sfasciano e danno un’impressione di bruttura, di
avvilimento, di spreco, e nessuno li può poi eliminare, perché costa eliminarli, e lo
spazio resta occupato sine die. Ci vuole allora più avvedutezza. Ricaviamo esperienza
positiva dagli errori commessi e non ripetiamoli più.
E dico questo, in modo più specifico, guardando all’Unione Europea, che si sta
allargando ad altri dieci Stati. Siamo reduci da una sconfitta per il fallimento della
Convenzione che aveva preparato la bozza di Costituzione europea, la quale doveva
diventare la base forte di un’Unione Europea allargata e moderna, che conglobasse la
Carta di Nizza, con la sua dichiarazione dei diritti umani fondamentali e aggiornati
rispetto a quelli della Dichiarazione del 1948, per l’Europa almeno. Non si è stati
capaci in 15, nonostante la nostra civiltà, i nostri valori, le nostre tradizioni, di
approvare la Costituzione. La polemica più grossa è sorta perché due Stati — Spagna
e Polonia — non hanno voluto aderire a questo testo, perché esso toglieva ad essi un
qualcosa che avevano ottenuto in partenza, cioè di avere un peso all’atto della
formazione del Parlamento e poi degli organi che contano nelle delibere. Essi
vedevano ridotto quello che era stato dato ad essi. Quello che si dà non si può più
togliere: questo è il dramma. Ci vuole molto cautela prima di fare concessioni. Qui
viene fuori il più grave difetto — che mi auguro che lo si eviti per l’Europa — : la
faccenda del potere di veto.
L’ONU è partito il 26 luglio del 1945: era una organizzazione di 48 Stati, che
poi via via si è allargata, su quelle basi che sono rimaste immutate — il testo base, la
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Carta di San Francisco, è rimasto lo stesso —, sino a giungere oggi a 192. E l’ultima
o la penultima a entrare è stata la Svizzera. Cosa positiva. Persino la Svizzera, lo
Stato neutrale per eccellenza, ha riconosciuto che l’ONU è una forza: «Noi non
possiamo pretendere di rimanere da soli, anche se siamo stati per anni autonomi,
neutrali in modo assoluto, dobbiamo tener conto della necessità di una governance
mondiale». È un riconoscimento significativo. Ciò non toglie che l’ONU vada
malissimo, perché ha un tarlo, che è il diritto di vero, di cui sono titolari i cinque
Paesi vincitori della seconda guerra mondiale, gli stessi che dettero vita alle Nazioni
Unite. Sappiamo che essi saranno sempre contrari a rinunciare a una tale situazione
favorevole. Al di là del peso economico di ciascun Paese, ogni Stato, e quindi ogni
popolo, sul piano politico deve avere lo stesso trattamento. Credo perciò che
l’unanimità che qualcuno persegue all’interno dell’Unione Europea per la
Costituzione uscita dalla recente Convenzione, sia un errore piramidale anche da un
punto di vista concettuale: che razza di democrazia è quella che si basa sull’esigenza
di una unanimità di voti. L’unanimismo è un qualcosa che è più facile realizzare in
una dittatura, ma anche quando non c’è una dittatura si chiede che tutti siano
d’accordo. Magari! Ma se non funziona si blocca tutto. Oppure viene proposta una
soluzione banale oppure si attua una semplificazione dei problemi. Su una
impostazione seria è difficile raccogliere il consenso di tutti. Allora, no al diritto di
veto; no all’unanimismo.
Ecco il punto centrale: tramonto degli Stati sovrani. Ma ogni Stato continua a
rivendicare una piena sovranità; e al momento opportuno si oppone, fa ostruzionismo,
anche se non ha il diritto di veto. Allora sino a quando non ci sarà una cessione di
sovranità, anche se parziale, la governance internazionale non potrà funzionare. Non
si tratta di abdicare alla propria sovranità da parte del singolo Stato, ma di riconoscere
che nel consesso di cui faccio parte devo rispettare le esigenze comuni. Questo è il
senso del partecipare in clima di democrazia. Dobbiamo però renderci conto che
convincere a tutto questo è molto difficile. Inoltre c’è una forma di contraddizione
che dev’essere meditata a fondo dai sociologi e dai politologi. Nel momento in cui si
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tende a una governance mondiale, a una governance europea, dove la globalizzazione
è una realtà, è necessaria la cooperazione, non certo i diritti di veto.
Infine, a proposito della Corte Penale Internazionale, creata nel 1998, va detto
che è nata all’insegna del tradimento. Infatti Stati Uniti e Cina hanno partecipato ai
lavori preparatori, e quindi erano d’accordo sulla finalità assegnatale: dar vita a una
Corte permanente, non creata ad hoc, quindi con un giudice terzo, perché
precostituito rispetto ai crimini da giudicare. Essi hanno ottenuto anche soluzioni di
compromesso secondo le proprie tesi, rendendo magari meno brillante il testo
definitivo istitutivo della Corte e, nello stesso tempo, hanno votato contro e non
hanno voluto ratificarne l’istituzioni. Si è poi passato alla fase del boicottaggio di
alcuni Paesi che volevano ratificare la convenzione con minacce di tipo economico.
Quindi si è passati alla fase dell’intimidazione nei confronti di Paesi che avevano
ratificato la convenzione. La situazione che si è determinata è questa: lo statuto è
stato approvato, è entrato in vigore; si è costituita la Corte, si è nominato
all’unanimità il procuratore, i suoi sostituti. I giudici sono insediati da oltre un anno,
il procuratore da oltre sei mesi, naturalmente con i relativi compensi economici e le
strutture per i collaboratori, ma non funziona ancora nulla. Perché? Perché se il
procuratore, trattandosi di un processo di tipo accusatorio, non inizia l’azione penale,
tutto è fermo. Abbiamo così 18 giudici, di alto livello, che siedono all’Aja, con i loro
uffici, che stanno aspettando l’iniziativa del procuratore. Allora, se rimangono
inefficaci questo tipo di strutture, che le formiamo a fare?
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