evado e torno - sitenvasnotornis

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EVADO E TORNO
Rolando d’Alessandro
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Govern Civil. Barcellona
Carcere
Un’altra evasione facile
Latitanza
Un’altra frontiera
Barcellona
Ritorno
È sera
EVADO E TORNO
Sono le sei. Un caffèlatte e un po’ di frutta, due biscotti e via in bicicletta nella
notte che sfuma in alba per le vie che si popolano d’umanità assonnata. Fino al
Gobierno Civil, in fila fra i migranti. Alle otto un poliziotto di mezza età apre le
porte e ci fa entrare a gruppetti. Seguo una coppia d’ucraini attempatelli. La fila
scorre. Il poliziotto la blocca davanti a me. Qualche minuto d’attesa e mi fa
cenno di entrare. Zainetto e giubba sul tappetino della macchina a raggi X, caso
mai contenessero trinitrotoluene. Telefonino e chiavi sul vassoio accanto al
metal detector. Passo attraverso il suddetto. Con un po’ d’apprensione, ma non
suona niente. Allo sportello un nero spiega pazientemente a una signora che dà
i numeri, nel senso cioè che distribuisce parsimoniosa dei pezzettini di carta
con sopra scritto un numero, che da Mataró l’hanno mandato a Barcellona,
nell’edificio accanto e che nell’edificio accanto gli hanno detto di venire qua e
che non vorrebbe, come insinua la signora, dover tornare a Mataró e
ricominciare daccapo la trafila. La donna infine cede e gli rifila il suo numerino.
Tocca a me. Numerino. Mi siedo stropicciandolo fra le dita. I “chi l’avrebbe mai
detto” s’ingolfano nel mio cervello non abbastanza caffeneizzato. Chi l’avrebbe
mai detto una ventina d’anni fa, quando prendevo a sassate, dalla retroguardia
di un corteo, trasformata in un batter d’occhio in avanguardia da una carica
della polizia che allora vestiva di marrone, le finestre della sede emblematica
del truce potere statale e per me potere tout court, chi l’avrebbe mai detto che
un giorno, un giorno come oggi di quasi autunno arido e caldo, mi sarei ritrovato
a far la fila fra gente d’ogni origine, razza e religione, per tacere di sesso ed età,
in paziente attesa del NIE. Cioè del tesserino cifrato che m’identificherà come
straniero residente. Non mi piace. Starmene qui seduto su di una panca, dietro
ad una serie di panche messe in fila, di legno, come in chiesa, lo sguardo con
quello degli altri fisso sul lampeggiare di queste lavagne luminose su cui le cifre
si avvicendano irregolari col passar dei minuti.
Aspetto, arriva il mio turno. Il sorvegliante gioviale e affabile di una ditta privata
di sicurezza, mi accompagna al tavolo numero 8 in una stanza affollata di gente
che non capisco da dove sia sbucata. Un ragazzo si siede davanti al computer
del tavolino numero 8 e chiama il 23. Che sarei io. Stampato in duplice copia,
carta d’identità, fotocopia della carta d’identità. Il ragazzo strimpella sulla
tastiera e mette un paio di timbri e mi da un foglio e mi dice di andare a fare il
versamento fuori, in qualsiasi banca e mi fornisce l’indirizzo del commissariato
dove mi concederanno l’agognato permesso. Bene. Ringrazio. Mi alzo. Esco.
M’avvio verso il commissariato ed entro nella prima cassa di risparmio che trovo.
Di banche, casse di risparmio e bar ne trovi a palate in questa città. Pago. Esco.
Individuo la destinazione dalla fila di gente che si snoda davanti. Questa è
abbastanza corta, meno male. Mi accodo. Davanti c’ho un plotone di studenti
inglesi. Dietro una squadra di pizzaioli italiani. Sulla porta un poliziotto statale
con pancia e barba imponenti regola con fiero cipiglio il traffico d’umanità
straniera. Educato, del resto. Sorride perfino ai bambini.
Anche lui mi blocca sul primo scalino. Attendo composto. A gesti mi dice di
entrare. Entro. In una sala arredata sobriamente e con gusto: un cartello con
foto di gente scomparsa, un altro con istantanee di militanti dell’ETA (i
professionisti non cedono alla tentazione del qualificativo dequalificante: il
cartello non recita “banda terrorista e assassina” come le prime pagine dei
giornali, solo “organizzazione”). Sul fondo c’è un bancone con quattro impiegati
ambosessi in postazione davanti ad altrettanti schermi.
Dietro di loro, sulla parete, campeggia la foto del re da giovane.
Divago pensando che in fondo e in un certo senso avere un re è un risparmio.
Un presidente della Repubblica, eletto ogni sei anni, ti obbliga a cambiare le
foto incorniciate di migliaia di pubblici uffici. Un’effigie del re invece dura una
vita.
Tocca a me. L’impiegato aspetta paziente che gli sciorini davanti i vari
documenti. Quindi estrae dal mucchietto quelli di suo maggior gradimento e si
mette a ticchettare. La risposta del computer a quanto pare non lo persuade
perché riticchetta e poi mi chiede se avevo il numero 23 nel precedente ufficio.
Sissignore rispondo, anzi ci ho ancora il bigliettino, se vuole glielo mostro,
aspetti un po’ che l’avevo qui in tasca.
Ma non ha bisogno del numerino. Solo di consulenza, perché si alza ed esce
borbottando che deve controllare una cosa. Ci siamo, penso. E infatti quello
non torna e invece sento aprirsi una porta alle mie spalle e un giovanotto
atletico coi capelli lunghi mi si accosta e m’invita a seguirlo “per sistemare la
faccenda” fuori. Raccolgo le mie cose e lo seguo attraverso la porta laterale e
poi lungo un corridoio. Con la coda dell’occhio vedo infilare la nostra scia il
poliziotto grosso dell’ingresso. E ora chi la regola la fila? penso..
Entriamo in uno stanzino e una signora cortese mi dice di accomodarmi su di
una sedia e mi chiede la carta d’identità e se è la prima volta che arrivo in
Spagna.
Il ragazzo coi capelli lunghi è accanto a me. Sulla porta i poliziotti in divisa sono
due.
“Guardi” le dico “la mia è una situazione un po’ particolare”.
E spiego e mentre spiego tiro fuori la sentenza di estinzione della condanna. Il
giovanotto in borghese, che parla un po’ d’italiano, la prende e l’esamina e la
traduce ai poliziotti sulla porta. Uno dei due entra e si siede a un tavolo
guardandomi di sfuggita.
Un paio di minuti e rientra il capellone con i miei fogli spiegazzati in mano. Mi
comunica che stanno cercando di mettersi in contatto con l’Interpol e che se è
tutto in regola mi rilasceranno subito il NIE. Altrimenti... non dipende da loro.
Beh, allora speriamo che sia tutto in regola, dico io. Tiro fuori il mio libro del
Preston sulla Guerra Civile spagnola e mi metto a leggere. Quando entra o
esce qualcuno alzo gli occhi e sorrido. Son fatto così.
Alla fine il poliziotto più giovane tira su il telefono. Parlotta, lo sento pronunciare
il mio nome, quello antico, quello che non uso da più di trenta anni. Dice che a
loro risulta un mandato di cattura internazionale per assassinio. “Detto così fa
un po’ effetto, no?” mormoro sorridendo alla signora gentile che sta
esaminando scartoffie in un angolo della stanza e che finge di non aver sentito.
Il difensore dell’ordine tace, in attesa, colla cornetta in mano. Taccio anch’io.
Poi alla fine dice “cesado?” “cesado!”.
Sospiro e poi ricordo il sospiro di sollievo esalato durante la lettura della
sentenza in corte d’assise. Una lettura prolissa, piena zeppa di articoli del
codice penale, di quello di procedura idem, di procedura civile e chissà che altro.
A un certo punto mi era sembrato che la cosa finisse in assoluzione. E invece
un paio di minuti dopo ripartivo ammanettato e scortato da un nugolo di
carabinieri, di ritorno in galera.
Ma stavolta è diverso. Il poliziotto si alza e viene verso di me sorridente. È moro,
con gli occhi chiari, sembra una brava persona. Mica sarò caduto sotto la
sindrome di Stoccolma? Dice che è tutto a posto. Che nei loro archivi risultavo
ancora ricercato ma che adesso la sede centrale ha dato l’ordine di
annullamento del mandato. Si scusa perfino. Ma le pare, gli dico. È una storia
molto vecchia, mi fa. Si, una brutta e vecchia storia. Lo ringrazio.
Mi riaccompagna fuori, nello stanzone dove, ignari dell’incidente, i comunitari
continuano a sfilare. Stavolta al computer si siede il ragazzo atletico dai capelli
biondi. Io non trovo i documenti. Mi chiede se non li ho messi nello zainetto. Io
sto al gioco e faccio finta di cercare e lo svuoto sul ripiano: quaderno, cartelline,
penne, libro, un fazzoletto sporco, spazzolino da denti, ricambio di biancheria
perché avevo messo in conto che un giorno o due in commissariato ce li avrei
pure potuti passare in attesa di chiarimenti.
Entra il poliziotto moro. Comincia a sembrare una commedia dei De Filippo. I
documenti ce li ha lui. Me li dà e sempre sorridente mi chiede se vivo qui da
parecchio. Gli rispondo di sì, tanto ormai non ci rimetto nulla. Lui mi racconta
che ha lavorato con gli italiani della DEA, mi sembra che dica DEA, e che a
Barcellona ci sono un sacco di latitanti. Lo dice in italiano. Ma senti? Faccio io.
Riesce. Ci salutiamo cordialmente.
Mi danno il NIE. Un foglio con sopra stampato un numero. Si rinnova fra cinque
anni. Nient’altro. Il ragazzo capellone in borghese si scusa di nuovo. Resisto
alla tentazione di proferire il fatidico “ma le pare! Ha fatto solo il suo dovere!”.
Il grande cancello si aprì lentamente cigolando come cigolano i grandi
cancelli nei film di terrore e si richiuse sferragliando appena passata l’auto. I tre
poliziotti in borghese scesero e dietro io, manette ai polsi, stordito.
Intorno guardie vestite di grigio. Strane. Non ne avevo mai viste prima. Parole,
occhiate scrutatrici e stancamente curiose. Poi una porta, una stanzina, una
grande scrivania coperta di registri enormi, polverosi. La firma e le impronte, di
nuovo. Un’altra porta, tutta di ferro e con lo spioncino e dietro un occhio.
Il corridoio. Un ufficio.
L’ufficio matricola.
I poliziotti mi tolsero le manette e se ne andarono salutando l’agente dietro il
banco. Non salutarono me. Erano venuti a depositare un pacco. Il pacco ero io.
Ci avrei fatto l’abitudine.
Il primo giorno in carcere è una cosa che si ricorda. Ricordo deformato però
anche a distanza d’anni nitido. E irreale, come una scena vista al cinema.
Credo che per tutti siano gli stessi sentimenti, paura, dolore, angoscia,
disperazione e perfino, a volte, sollievo. Per me fu soprattutto stupore. Per gli
odori, i colori impoveriti, le sbarre, lo sbirro che mi ordinò di spogliarmi, il prete
che mi chiedeva che cosa avevo fatto.
Mi tolsero tutto: soldi, orologio, le stringhe delle scarpe, le chiavi di casa. Mi
dettero in cambio una coperta, una gamella di alluminio, un bicchiere e posate
di plastica.
Mi fecero scendere, scortato da tre o quattro guardie, in un sotterraneo. Ordine
espresso del giudice, mi portarono in cella d’isolamento.
La porta era di ferro. La cella un buco di tre metri per due. Nel mezzo, unico
mobile, un lettuccio di ferro cementato a terra. Niente finestra. La lampadina
schermata da una griglia. I muri scrostati pieni di nomi e date e di un enorme
rozzo disegno di una donna nuda. In un angolo c’era il bugliolo. Un grosso
recipiente di terracotta. Tirai su il coperchio ed era mezzo pieno. Ci pisciai. Poi
mi distesi sul materasso lurido, avvolto nella coperta. Mi addormentai.
Il giudice mi voleva “ammorbidire” con questo trattamento. Ma io le uniche idee
sul carcere me l’ero fatte leggendo cose del tipo “Ti scrivo da un carcere in
Grecia”, “Le mie prigioni”,
Dostojesky, descrizioni dei lager nazisti o le
testimonianze di chi aveva subito la prigione fascista. Poi dicono che leggere
non serve... Per me quella cella di punizione non era niente di terribile
confrontata agli inferni descritti da Silvio Pellico o Primo Levi.
Poi cominciarono a scorrere le ore, i giorni. Lo squallore o l’orrore di una foto, di
un’istantanea sono una cosa. Diverso il loro ripetersi o mantenersi, fissi, uguali
a se stessi, nel tempo.
Studiavo le pareti. Le macchie di umidità e di chissà che. I disegni, i graffiti.
Cercavo pazientemente di decifrare segni e parole. Di tradurre a mente parole.
In latino, in greco, le lingue morte imparacchiate al liceo. Recitavo poesie ad
alta voce.
La luce sempre accesa e la sensazione di essere sempre spiato. I rumori, fatti
apposta per tenermi sveglio. Allora non lo sapevo.
Con le guardie più giovani a tu per tu nel cortile durante l’ora d’aria a volte
parlavo. Come ti chiami, quanti anni hai, di dove sei, ci hai la fidanzata e la
famiglia? Per chi fai il tifo. Di queste cose insomma. I più vecchi invece non
spiccicavano quasi parola limitandosi a volte a truci commenti circa il destino
che mi attendeva, corredati in qualche caso dal consiglio di collaborare con la
giustizia. A questo punto io tacevo, loro non insistevano e la conversazione
languiva.
Il cibo lo passavano attraverso lo spioncino e uno scopino, accompagnato da
due guardie, veniva ogni tanto a svuotare il bugliolo. Potevo scrivere lettere. Il
Pubblico Ministero aveva dato il permesso con la speranza che scrivessi
qualcosa che m’incriminasse. Allora mi era sembrata un gentile strappo a un
regime severo.
Per un mese non potei lavarmi né radermi. Mi facevo un po’ schifo. Poi
cominciarono le nevralgie, le vertigini, i vomiti dopo ogni pasto. Di notte dormivo
sonni agitati e di giorno restavo ore in un dormiveglia apatico. Tossivo. Fumare
potevo.
Potevo ben poca cosa.
Non c’era granché da fare. Né radio né televisione. Nessuno con cui parlare fra
un interrogatorio e l’altro, salvo appunto le guardie che mi sorvegliavano
durante l’ora d’aria, in un cortiletto minuscolo, da solo e non tutti i giorni.
Un paio, forse tre settimane di questo trattamento e i pensieri e gli stati d’animo
cominciarono a cambiare. Strana sensazione sentirli staccare dal corpo e dal
cervello. Pensavo a cose da dire al giudice e me le dimenticavo subito,
confondevo situazioni immaginate e altre già vissute. Non ricordavo chi, come o
quando avesse detto una certa cosa che sapevo importante. Da momenti di
euforia ingiustificata passavo a crisi depressive, giustificate loro. Di quelle che
la disperazione ti mozza il fiato e ti prende la voglia di spaccarti la testa contro
la parete e rifletti a lungo se farlo e soppesi i pro e i contro e i contro sono che
invece di restarci secco puoi diventare paralitico o mezzo scemo.
Una mattina con un minuscolo pezzettino di vetro raccattato in cortile mi
tagliuzzai con accanimento avambracci e polsi; il vetro era piccolo e non toccò
le vene. Mi feci solo un po’ di male e sporcai tutto di sangue. Però mi ero
sfogato e alla fine mi buttai sul letto e dormii.
Quando entrarono per la conta, il brigadiere mi fece alzare ed esaminò le
braccia. Con fare annoiato ordinò che raccattassero il pezzo di vetro (allora non
c’era tanta paura del sangue infetto) e mi chiese che cosa speravo di ottenere.
L’unica cosa che ne avrei ricavato, aggiunse, sarebbe stata di farmi sbattere in
un manicomio criminale. Lo ascoltai senza capire, nessuno m’aveva detto che
l’autolesione è una delle forme di protesta più diffuse in carcere. Nessuno ne
parlava di queste cose sui giornali, alla televisione, in sezione, al bar, al liceo.
Nemmeno sui libri le avevo mai lette.
Ero agli inizi, sull’orlo di un universo nuovo e temuto. Pensavo solo, durante
l’isolamento, a come uscirne. A come far capire le mie ragioni. Credevo i primi
giorni che fosse un problema di linguaggio, che non mi spiegavo bene o che
loro, giudici e poliziotti avevano un qualche difetto di comprensione. Ma prima o
poi sarebbe saltato fuori qualcuno con un briciolo di intelligenza! Ma presto mi
accorsi che il problema era altro: il mio linguaggio non esisteva. Non mi
ascoltavano.
Al
massimo
registravano
quel
che
dicevo
per
trovare
contraddizioni, per forzare interpretazioni. Guardie, giudici, direttori. Gli
interrogatori erano scene da teatro dell’assurdo: facevano le domande, in
genere idiozie ripetute decine di volte, io rispondevo, il carabiniere trascriveva
picchiettando coi due diti sulla tastiera dell’Olivetti. Ogni tanto leggevano il
verbale per farmelo firmare. E su ogni frase s’ingaggiava una lotta feroce...
No guardi io questo non l’ho detto.
Ma lei non fa altro che contraddirsi.
No è lei che non capisce o non vuol capire quello che dico.
E come ti permetti? io non ti faccio più uscire di qui, capito?.
...Ore ed ore d’insulti, insinuazioni, atteggiamenti istrionici, minacce proferite ad
ogni piè sospinto in presenza di un avvocato, il mio, che ammazzava il tempo
guardando fuori dalla finestra (per tutto il periodo d’isolamento non mi
concessero nessun colloquio con il difensore, che vedevo solo durante gli
interrogatori e che a quanto pare in quelle occasioni non poteva comportarsi
come Perry Mason, ma solo verificare che non mi pestassero).
Non mi toccarono un capello negli interrogatori, a volte convocati a mezzanotte.
Il giudice che mi fece arrestare e che lottò strenuamente per farmi dare
l’ergastolo non era di questo genere di sadici. Era di quelli che quando arrivavi,
ogni volta più sporco, più stralunato, trasandato, ti accoglieva con un sorrisino
soddisfatto. E cominciava con le domande subdole o semplicemente sceme,
insistenti, con le provocazioni e le affermazioni martellanti. Lo guardavo, grasso
e lustro, i vestiti di prezzo, la cravatta ben annodata. Era giovane, provinciale e
voleva farsi strada in quell’aristocratica e sprezzante cittadina continentale. Io
per lui ero un buon caso. Una condanna avrebbe dato una bella spinta alla sua
carriera. La condanna l’ottenne, anche se non quella che avrebbe voluto lui. E
carriera fece. Fino a tornare in Sicilia come magistrato antimafia. Peccato che
poi lo processassero con l’accusa di aver preso un pacco di soldi da un mafioso
in cambio di una assoluzione o riduzione di pena. Ma questa è un’altra storia.
Non era solo arrivismo il suo. C’era qualcos’altro di più aberrante, che allora,
ragazzo di paese da poco uscito dall’adolescenza, riuscivo appena ad intuire.
La perversione del potere. Il sapere che hai nelle tue mani il destino di una o
dieci o cento persone non può non procurare sensazioni di tipo forte, dure,
come con l’eroina. E come con l’eroina ci vorrebbe gente integra, con una
morale di acciaio, per resistere e mantenere umanità. Ma sono pochi i probi.
Ammesso che ce ne siano, perché conoscerne non ne ho conosciuti. Gli altri,
poverini, si assuefanno e non riescono più a vivere senza la loro dose
quotidiana d’implorazioni, lacrime, urla, sguardi di gente riportata di peso in
cella.
E, soprattutto, il sentimento altissimo di star compiendo una missione, altissima
pure quella “... e che mi buttino fuori dai piedi quella donna coi suoi quattro
marmocchi che tanto la libertà provvisoria al marito non gliela do... Certa gente
non ha proprio nessuna dignità”.
Insomma la relazione con quel giudice era un po’ quella che si può stabilire tra il
padreterno ed un qualsiasi peccatore che oltretutto osi negare di averlo
commesso, il peccato.
Non so quante volte ricevetti la visita di quel pingue magistrato durante il primo
mese d’isolamento. Tante. Tante da farmi perdere pazienza ed autocontrollo.
Stanchezza
per
quel
clima
d’umiliazione
ininterrotta,
d’annientamento
programmato. Stanco di vedere insudiciato, deriso maltrattato il mio io, di
ascoltare minacce ed insulti contro la famiglia. Stanco di sentirmi impotente. E
finì con la seggiola rovesciata di colpo, l’avvocato appeso al mio collo “non ti
rovinare, stai fermo”, il maresciallo che annaspava cercando di sbarazzarsi dal
tavolino con la macchina da scrivere, la faccia tonda dell’aguzzino piena di
stupore e spavento mentre cadeva all’indietro e di un odio senza limiti quando,
fra urli ed imprecazioni, le guardie accorse in massa mi trascinarono fuori. Non
mi malmenarono, solo qualche spintone e l’annuncio che ormai ero fregato: il
mio futuro era lì e tanto valeva che mi mettessi il cuore in pace.
Ma non mi sono mai pentito di quello scatto, di avergli sciupato anche se solo
per un istante il giochino da gatto col topo.
Per rappresaglia mi tennero isolato qualche altra settimana, dimenticandosi
spesso di portarmi all’aria e qualche volta anche di darmi da mangiare.
Al termine del secondo mese, per intercessione di un sottufficiale “buono” e di
un prete che aveva sostituito temporaneamente quello di ruolo, ammorbidirono
il regime permettendo ai miei di portarmi pacchi di viveri e qualche giornale,
allungando un po’ i tempi d’aria e scortandomi una volta alla settimana alle
docce, anche se sempre separato dagli altri.
Non smisero però le provocazioni del guardione specialista che, non avendo di
meglio da fare, se ne stava appostato per ore allo spioncino “tu devi essere
matto a comportarti così col giudice.. vedrai che ti daranno il massimo...
confessa che è meglio... sai cosa gli fanno a un ragazzo come te in un penale?”.
E le lettere esaminate parola per parola: “cancella questa frase.. a chi si
riferisce questo commento?”.
Ma la mia capacità di risposta si era esaurita nel tentativo di aggressione al
magistrato. Così finalmente qualcuno decise che era giunto il momento di
lasciarmi un po’ in pace e di tirarmi fuori dall’isolamento.
Il giorno precedente al trasloco nel braccio i miei riuscirono a strappare dal
labirinto della procura il permesso per un colloquio...
Vidi così lo stanzone dalle pareti imbiancate a calce, l’intonaco scrostato, le
panche ed il lungo tavolato che andava dalla parete alla faccia dello sbirro
piantato lì come un palo. E loro, più piccoli, dimagriti, la mamma col suo sorriso
sereno, il babbo che si mordeva le labbra per non piangere. Eravamo soli.
Impacciati, chiesero alla guardia se potevano abbracciarmi. No, non si poteva.
Seduti, separati dal bancone provammo a rompere il silenzio tutti e tre alla volta.
Tante cose da dire, da raccontare. Ma c’erano da superare il groppo alla gola,
la curiosità fatta di timori di chi è fuori e l’altra fatta di speranza di chi è dentro.
Un’ora trascorsa a rasserenarli, a tranquillizzarmi. Un’ora di “stai bene? Mangi?
Come ti trattano? C’è luce nella tua ... stanza? Di cosa hai bisogno?”. Domande
vecchie quanto il carcere. Come le mie: “che dice l’avvocato? E a casa come
state? E i bambini? E la Rita? E gli zii?.
E risposte vecchie, cariche d’angoscia. Un gioco di menzogne pietose. Molte
volte ancora le avrei ripetute, le avrei riascoltate. Sempre le stesse. Tutto bene,
tutto finirà presto e saremo felici come non lo siamo mai stati. Com’è
impossibile esserlo.
Ci attaccavamo a quel povero stare insieme parlando in fretta, a scatti,
cercando così di allontanare l’ora della separazione.
Parlava la mamma soprattutto ed il babbo assentiva o sottolineava con forza,
ripetendoli, gli incoraggiamenti, le esortazioni ad aver fiducia in loro, negli
avvocati, in dio. Non nella giustizia. Sentivamo tutti che sarebbe stato grottesco
farlo. Nessuno lo fa. Non m’è mai capitato lì dentro di ascoltare nemmeno
mezza volta nessuna di quelle dichiarazioni di fede nella giustizia, nell’obiettività
dei giudici e dei tribunali che escono dalle bocche di tanti personaggi di film o di
romanzi.
Dopo un’ora scarsa arrivò il brigadiere battendo le mani e con stampata in
faccia un’ineffabile espressione da ebete. Il babbo mormorò “di già?”, tentando
un sorriso. La mamma si alzò a fatica e senza una parola.
È il momento che temi di più. Il babbo mi strinse forte le mani al di sopra del
tavolo, la mamma le accarezzò. Poi la porta si richiuse sulle loro spalle, curve,
dimesse.
Sarebbero seguiti decine di colloqui in sale altrettanto squallide di diverse
prigioni di diverse città. Mia madre non avrebbe mai versato una lacrima, anche
se alcuni secondini si premuravano di comunicarmi che fuori sì che piangeva,
mentre si allontanava a passi affrettati tenuta a braccetto da mio padre. Ma non
dimentico l’espressione del suo viso quando, vigliacco che sono, gli riferii della
persecuzione di cui ero oggetto da parte di uno scopino ergastolano che aveva
assassinato diversi i ragazzi che gli avevano resistito. Sulle prime non capiva,
poi fu sul punto di svenire. Ma non pianse. E non pianse nemmeno il giorno che
un magnaccia seduto accanto a me saltò su ad insultare sua moglie e tirò
urlando una bottiglia che andò a frantumarsi alle loro spalle. Né quando io ed
altri due gli fummo addosso, la guardia scappata via al primo urlo e si scatenò
una rissa selvaggia brutale, una rissa fra carcerati.
... Se non non ti sei potuto procurare un coltello te lo fai con un cucchiaio
affilandone il manico per ore sulla pietra del davanzale, sul pavimento. Oppure
col ferro di uno stipetto o un pezzo di branda o ancora il manico dello
spazzolino da denti appuntito a punteruolo o il pettine che usato bene taglia. O
sennò una bottiglia rotta. Ma poi per picchiare e far male va bene qualunque
cosa, la macchinetta del caffè per esempio la gamba di un tavolo una seggiola
la bottiglia prima di romperla e se non hai nulla in mano calci pugni ginocchiate
gomitate testate o dita infilate negli occhi nel naso in bocca a lacerare strappare
capelli orecchie tirare graffiare stringere gole coglioni strangolando mordendo…
La mamma mi chiamava con un filo di voce, implorante, ma io non la sentivo,
preso solo dal desiderio rabbioso di buttar fuori e farla pagare a quel disgraziato.
E non pianse neanche quando, mesi dopo, un altro prigioniero ebbe una crisi
epilettica ed io cercavo di sostenerlo perché non sbattesse la testa per terra ma
era una quercia d’uomo e da solo non ce la facevo ed i suoi due fratelli, gente
già anziana nei loro cappottoni da contadini, in piedi impauriti non facevano
altro che balbettare “Oh signore o dio mio aiutaci tu”. Dio non li aiutò. Le
guardie neppure. In compenso irruppero diversi agenti e sospesero il colloquio.
Ed oltretutto dovetti faticare, nel corridoio, per convincere la squadretta già
pronta che l’uomo era vittima di una crisi provocata da una malattia e che a
picchiarlo c’era il rischio che gli crepasse fra le mani.
Nei giorni di colloquio si respira un’aria diversa. Le tensioni si allentano, la noia
si rompe. Ognuno pensa alle domande che gli stanno a cuore: le possibilità di
uscire in libertà provvisoria, una riduzione di pena; come vanno le cose a casa;
il nipotino nato che tu eri già dentro, il vicino morto d’un collasso ed i cugini che
mandano sempre i saluti ed un dolce fatto in casa. Ed aspetta col batticuore,
anticipandole, assaporandole, le sensazioni che si provano di fronte ai volti, alle
voci che richiamano il passato, l’era della felicità.
E le lettere, i pacchi; pezzetti di libertà che s’attendono con ansia, che si
ricevono con gioia, che si aprono con amore. Non mancano per i più fortunati
quelli degli amici, dei compagni, ma generalmente sono pochi e di rado durano.
I genitori, i fratelli, a volte una donna, sono l’alleato sicuro, il legame profondo
che unisce alla vita. Un legame che quando si rompe lascia sempre un vuoto
spaventoso. Non è un caso che il sistema si mostri così meticoloso, duro,
crudele nel controllo di queste relazioni in principio sacre ed intoccabili. Se vuoi
provocare, umiliare, tormentare fino alla distruzione un prigioniero, limitagli i
colloqui, strappagli le lettere, trasferiscilo da un posto all’altro ad insaputa dei
suoi e ben lontano in modo che ogni visita si trasformi in un calvario. O ancora
fai apprezzamenti pesanti su mogli fidanzate sorelle. Prendi in giro la povertà e
l’ignoranza dei genitori.
E così fanno.
Accolsi con indifferenza la fine dell’isolamento. Non m’attirava per niente la
compagnia degli altri, specie dopo aver udito le orripilanti storie che le guardie
più anziane s’erano prese la briga di raccontarmi, giorno dopo giorno, per
allietare la monotonia della passeggiata nel cortiletto.
E poi avevo voglia di star solo, mi sembrava di poter sfuggire così, chiuso in un
mondo di sogni e fantasticherie, allo squallore che mi circondava. Però quando
mi dissero di preparare la roba non aprii la bocca e, raccolte le mie quattro cose
su di una coperta, ne feci un fagotto, me lo caricai in spalla e seguii le guardie.
Il miserabile corridoio della sezione sembrava spazioso e pieno di luce. Due
mesi di cella di punizione, di luce elettrica 23 ore al giorno con il lusso non
sempre goduto di un’ora di aria in una scatola di cemento 4x4 scoperchiata. La
luce del sole m’aveva sfiorato una sola volta, un mattino che m’avevano fatto
uscire un po’ prima.
All’entrare nella camerata mormorai un buongiorno a tutti che ottenne di
rimando un altro mormorio. Ad occhi bassi posai le mie cose sulla branda che
mi era stata additata. Sentivo gli sguardi degli altri addosso mentre le guardie
uscivano richiudendo la porta. Mi girai allora e guardai i nuovi compagni, tre:
quello con la faccia da malavitoso si avvicinò con qualcosa somigliante ad un
sorriso sulle labbra e la mano tesa: “Mi chiamo Andrea, lui è Raffaele e il
vecchio Giovanni, tutti bravi ragazzi, vedrai che qui starai bene”.
Più o meno della mia stessa età Raffaele, sdraiato sul letto, lasciò per terra il
libro che stava leggendo e accennò un saluto. Sapevano già chi ero, di che
cosa ero accusato, della mia posizione processuale. Radio carcere funzionava
davvero.
Il vecchio, a occhio e croce una sessantina d’anni passati fra campi, arature ed
a maltrattare bestiame si rivelò il più chiacchierone e, come no, il più curioso.
Sotto lo sguardo a volte francamente seccato del malavitoso dette il via ad una
girandola di domande e commenti, inframmezzati dalla descrizione meticolosa
ed esauriente delle disgraziatissime, sfortunate circostanze che avevano
portato una persona rispettabile e ligia alle leggi come lui in quel luogo d’infamia
e perdizione. Me ne liberai a fatica con il pretesto di un mal di testa e mi sdraiai
sulla mia branda, sbirciando i miei nuovi coinquilini.
Andrea, guappo napoletano, non poteva avere più di trenta anni ma così a
occhio doveva averne passati un bel po’ in carcere: coperto di tatuaggi dalla
testa ai piedi, con un serpente attorcigliato intorno a una gamba, sull’altra un
teschio con un pugnale conficcato e scritte del tipo “donna che manca pace non
troverà”... sulla schiena invece un magnifico drago, con lingue di fuoco e tutti gli
attributi di un drago come si deve, a colori sgargianti, sulle braccia frasi
minacciose, scongiuri e una pistola e un coltello. Anche sul viso aveva i cinque
punti della malavita (omertà, vendetta, onore e non mi ricordo gli altri). Oltre ai
tatuaggi aveva sul ginocchio e sul fianco due cicatrici rotonde da pallottola. Una
striscia biancastra che attraversava il teschio era il ricordo di una vecchia
coltellata.
L’altro ragazzo, che si era rimesso placidamente a leggere era in blue jeans,
maglietta. Aria da studente, forse un politico - pensai– ma no, me l’avrebbe
detto appena entrato -.
Più tardi, quando aprirono le celle, ebbi modo di conoscere la maggior parte
degli ospiti della sezione. Curiosi per quello che avevano letto sui giornali o
sentito dire da guardie e scopini.
C’era un gruppo di tossici, sei o sette, alcuni della mia età, che m’invitarono
subito a prendere un caffè nella loro cella.
Erano in attesa, equipaggiati con radio, sigarette, qualche acido passato di
straforo, un po’ di marijuana e molto vino, che il giudice istruttore gli
concedesse la libertà provvisoria. Erano dentro per furto, due anche per
spaccio e uno per rapina, a quanto pare aveva minacciato un farmacista con il
coltello.
Sulle pareti della loro cella troneggiavano ritagli di riviste, foto di cantanti e,
disegnata a carboncino, una grande siringa. Uno di loro, capelli lunghi biondicci
e la faccia scossa da una serie di tic mi porse con una smorfia nervosa la tazza
di caffè; aveva la barba lunga e incolta, braccia tatuate: cuore con tanto di
“love” nomi e simboli vari. Ma nella piega della bocca, nello sguardo c’erano
disperazione e a lampi odio. Che straripava quando parlavano di quelli
dell’antidroga e di certi giudici. Faceva uno strano effetto non solo sentire
crescere dentro questo nuovo sentimento ma vederlo anche in altri. In poco
tempo avrei scoperto che l’odio, con la paura, era quello che più ci accomunava,
uomini o belve, lì dentro.
C’era un ragazzone alto e grosso dall’aspetto terribile e sorriso da bambino. Il
giorno prima si era fatto un acido e, seduto sul davanzale di una finestra,
appoggiato all’inferriata, aveva visto le sbarre diventare fini e fragili, sarebbe
bastato allungare una mano per piegarle ma in quel momento Pastore, il
secondino pacioccone, salì su per le scale; saliva come alla moviola, piano
piano e si deformava ad ogni scalino, gonfiandosi come un pallone rinchiuso in
una divisa. E allora lui era scoppiato a ridere fino a piegarsi in due, e l’altro,
sorridendo affabile e paterno: “e così siamo contenti oggi eh! Bravo, bravo!”.
Così passarono quel paio d’ore di nuova socievolezza. Poi di nuovo la chiusura,
la conta, il rancio.
E questo fu, grosso modo, l’inizio dell’attesa. Punteggiata di riti officiati con
serietà, disperazione, fanatismo, in una quotidianità ritmata e sempre uguale a
se stessa. E fu la scoperta d’un altro mondo ancora intuito, mai immaginato.
Forse perché inimmaginabile. Per la prima volta mi sentivo ed ero parte di
un’intera collettività su cui pesava un dominio ridotto all’essenza, privo di
travestimenti, maschere o pudichi veli. La miseria, non solo quella delle cicche
raccattate e riciclate in infernale mistura sfondapolmoni, dei pantaloni-uniforme
per chi non aveva nemmeno uno straccio suo per coprirsi, del vitto che dà il
voltastomaco, ma anche quella dello sfruttamento o dell’emarginazione da cui
avevano cercato di fuggire, andando a sbattere lì, la maggioranza dei miei
nuovi compagni. Realtà di lavoro nero, di baracche o casupole decrepite, di
nidiate di figli cui dar da mangiare, di freddo, sporcizia, umiliazioni, ignoranza.
“La legge sarà anche uguale per tutti, come dice chi la fa. Ma la galera di sicuro
è privilegio dei poveri”.
“Mi raccomando, evita le cattive compagnie”, le povere madri dei ragazzi
incensurati durante i primi colloqui pronunciavano spesso questa frase che
procurava momenti di amara ilarità ai codetenuti. Eppure sono proprio i rapporti
con i compagni di pena l’aspetto più problematico della vita del recluso. Pare
che l’aggressività di un detenuto si moltiplichi per otto (od ottanta, insomma
parecchio), rispetto alla media dell’uomo della strada. Non so cosa intendono gli
psicologi per aggressività media, né se l’aggressività sia cosa da poter
sommare, dividere, moltiplicare o comunque quantificare e dubito che in ogni
caso sia possibile superare quella di tanti personaggi che deambulano (su due
zampe o quattro ruote) per le vie e le piazze delle nostre città e paesi, facce
atteggiate a perenne smorfia di disgusto, amarezza, diffidenza, onesti cittadini
che firmano per la instaurazione della pena di morte.
Non so davvero se siano meno aggressivi il contribuente modello, la brava
massaia, il pacifico commerciante, l’onesto operaio o il galeotto, essere abituato
alla solitudine ed all’ostilità estrema dell’ambiente in cui si muove, costretto a
sopravvivere in una mini società definita da limiti e norme del tutto naturali e su
cui impera, senza mediazioni né falsi pudori la legge del più forte, dove i giorni
si succedono nella preoccupazione di non buscarsi una coltellata, di non cedere
agli impulsi di autodistruzione, di non permettere alla macchina di annientarti
completamente. Non lo so.
Ma non credo che esista specie animale che non reagisca in modo violento a
situazioni anomale, come il sovraffollamento, la privazione d’una vita sessuale,
la limitazione drastica della libertà di movimento o delle facoltà sensoriali e della
riduzione, altrettanto drastica, degli stimoli ambientali.
Il carcere è violenza che genera violenza. Cosa detta, ripetuta e saputa. L’uomo
è un animale sociale, ma lì dentro chi non è già asociale o sociopatico lo
diventa. I regolamenti, le autorità penitenziarie fanno tutto il possibile ed anche
di più per svilire impoverire snaturare quando non addirittura annullare tutti gli
spazi e momenti di comunicazione. Con l’esterno per mezzo di un interminabile
elenco di regole, provvedimenti, ricatti, divieti, abusi e soprusi. Dentro
attraverso il sapiente impiego dei settori più marci e collaborazionisti dei
detenuti (mafiosi e fascisti ed infami d’ogni risma) e delle contraddizioni, delle
tensioni che insorgono inevitabili in una coabitazione coatta fra gente
proveniente dalle più disperate e disparate esperienze.
Ma, anche se con la merda fino alla gola, continuano ad esserci, in quella
società di asociali, il bisogno di stare con gli altri, il desiderio di vivere assieme
agli altri, di capire e far capire.
Imparai presto a “comportarmi”. Sapersi comportare è la regola numero uno
ovunque ma in carcere in particolare, visto che altrimenti salute e pelle vanno a
rischio. E comportarsi significa salutare i conoscenti con cordialità ma senza
eccessive effusioni, non “attaccar bottoni”, parlare sempre con rispetto, non
prendere mai in giro nessuno. E anche munirsi di un adeguato sistema di
segnali per comunicare agli altri i limiti del tuo territorio. Sguardi, silenzi,
espressioni, gesti, più che parole.
Mi presero a benvolere in molti e per parecchi divenni una specie di confessore
e consulente legale. Anche se avevo diciannove anni ed un’accusa di omicidio
mi venivano a raccontare le loro storie da imputati di furti, truffe, traffici. Mi
portavano a leggere le lettere della famiglia, della moglie e mi chiedevano di
scrivere le risposte “con parole mie, ché loro non sapevano manco parlà”.
Sì, sono le regole di comportamento, non scritte ma rigide, la prima cosa da
imparare.
Sennò poi succede che gente in gamba dal carattere troppo espansivo e
atteggiamenti di generoso altruismo si ritrova nei guai, magari con la faccia
spaccata, senza capire perché. E allora si lamenta e afferma che il famoso
codice d’onore della malavita è ormai scomparso e che i delinquenti odierni
altro non sono che un’accozzaglia di bruti fascisteggianti, incapaci di alcuna
solidarietà. E magari non è né una cosa né l’altra e meglio sarebbe non
mitizzare né disprezzare niente e nessuno.
Allora si faceva un gran parlare di proletariato extralegale e gli si attribuivano le
stesse virtù taumaturgiche che venivano allegramente attribuite al proletariato
“ufficiale”. Ma il fatto è che le società di delinquenti, come quelle di operai o le
classi abbienti dei quartieri alti si regolano con norme che non sono poi così
diverse; solo più dure nel caso delle prigioni perché adattate ad una realtà idem
e che non ammettono scimmiottamenti o imposizioni di comportamenti estranei
da parte del primo venuto.
C’era tanta gente strana.
Trombetta era un pappa romano dall’espressione d’eterno pagliaccio. Si
lanciava in danze improvvisate, canti e racconti di avventure, come furti in pollai,
di cui era stato protagonista. Esperto edificatore di baracche abusive, affermava
con orgoglio di essere capace di costruirne una dotata – a suo dire – di tutti i
requisiti di legge (che cioè non poteva essere demolita senza la delibera di un
tribunale) nell’arco di una notte. Passava di botto, provocando generale
perplessità, dalla risata al pianto sconsolato. Una volta a cena scoppiò in
lacrime abbattendosi, dopo aver scansato il piatto di fettuccine (fatte a mano,
con le uova, impastate sulla tavoletta del vater) con la faccia tra le mani, sul
tavolo: gli era venuta in mente l’immagine del padre di un suo compagno di
cella che, con un fazzoletto in mano era rimasto fino a notte a salutare il suo
ragazzo da un prato antistante il muro di cinta “paretto, come piagneva,
seccepenso me prenne na cosa!”. Era un delinquente abituale, il Trombetta, il
che però non significava che si fosse abituato alla galera, dove d’altra parte
aveva passato un quarto della sua vita.
Alla galera non si fa l’abitudine. Però si era dovuto arrangiare ed inventarsi un
equilibrio.
Equilibrio che invece non riusciva a trovare Mario. Grasso, pacioccone, con i
suoi occhiali spessi un dito e quasi quarant’anni era la prima volta che entrava e
ne aveva per un pezzetto.
Ti ritrovi con molti esempi di ingiustizia in carcere. Un sacco di gente povera,
emarginata, ignorante. Incapace di difendersi di fronte a regole che non capisce.
Condanne
sproporzionate.
Punizioni
che
vanno
ben
al
di
là
della
“neutralizzazione” del soggetto deviante. E non parliamo di reinserimento.
Prepotenze gratuite di magistrati arroganti. E poi ci sono gli sbagli. Decine,
centinaia, migliaia di “sbagli”.
Quando se ne scopre qualcuno, e se è un caso clamoroso (come quello del tipo
condannato all’ergastolo e che si sorbì 24 anni in un penale, finché la sua
“vittima” non tornò in paese: era emigrata), merita un trafiletto sul giornale e
commenti del tipo “ma guarda un po’!”.
Non si scomodano in questi casi i mezzi, i paroloni, le evocazioni dei sacri valori
che sono invece all’uso quando i sequestrati sono altri.
“Ma non è mica la stessa cosa”, mi dicono quando azzardo osservazioni in
questo senso, “qui si tratta di errori!”
Embè? Il CP non considera attenuante nei casi di omicidio, lesione, sequestro
ecc. il fatto che tu ti sia sbagliato di vittima. Che succederebbe, mi chiedo, se
una banda terrorista sequestrasse il sosia di un, mettiamo il caso, noto
torturatore (straniero ovvio, da noi di torturatori non ce ne sono) e dopo averlo
tenuto rinchiuso in uno scantinato qualche mese a pane, acqua e legnate,
scoprisse di aver preso un abbaglio e dicesse all’innocente cittadino “oh scusi
tanto, c’è stato un disguido, abbia pazienza e tenga questi due milioni, no
meglio uno, per il vitto e l’alloggio, capisce”?
Conobbi un gruppetto di sardi, un paio già anziani con i capelli quasi del tutto
bianchi, gli altri piccoli e mori e sguardi profondi. Erano la gentilezza in persona,
educatissimi, non alzavano mai la voce; se si avvicinavano a qualcuno con
l’intenzione di scambiare quattro chiacchiere, prima salutavano cerimoniosi e
poi chiedevano il permesso di affiancarlo nella passeggiata o di sedersi sulla
stessa panca. Erano tutti pastori. Discreti e generosi (quando gli arrivavano i
pacchi ci offrivano le forme di cacio fatte dalle loro famiglie), sempre corretti e
dignitosi nei gesti e nei discorsi. Scontavano tutti condanne dai venti ai
trent’anni per avere, secondo l’accusa, rapito e tenuto prigioniero uno
speculatore per ricavarne un riscatto.
La vittima del sequestro, intervistata da televisioni, radio e giornali, aveva
affermato che era stata un’esperienza durissima: aveva dormito tutte le notti in
capanne, su di una coperta stesa a terra, aveva mangiato solo pane e
formaggio e bevuto solo acqua e latte... Insomma aveva fatto per qualche
settimana la vita che i suoi rapitori avevano fatto da sempre, da generazioni.
Il rapimento di un palazzinaro fa notizia, mobilita la stampa, oltre a polizia,
magistratura e carabinieri. L’arresto di un borgataro, di un baraccato, di uno
zingaro o di un disgraziato qualunque no. Eppure spesso il dramma umano
provocato dalla perdita di un lavoro, dalle spese per un avvocato, conseguenze
solite di una carcerazione anche breve, è ben superiore a quello che
rappresenta l’esborso di qualche milione per uno che di milioni ne ha a palate.
I rapitori di un palazzinaro pagheranno, e caro, perché le nostre polizie, così
inefficaci nel perseguire le frodi fiscali, il traffico internazionale d’armi o i
responsabili delle stragi di esseri umani, ottengono invece risultati da dieci e
lode nei casi di sequestro. E invece nessun giudice, nessun carabiniere e
nessun secondino pagherà mai per aver privato senza motivo persone di libertà,
dignità, speranza.
Mi sono interrogato spesso su questo paradosso e credo di aver trovato la
risposta leggendo centinaia di articoli di stampa o ascoltando centinaia di servizi
televisivi: i suddetti quando minacciano, sequestrano, torturano o ammazzano
non lo fanno in veste di uomini ma di solerti funzionari. Servi dello Stato, che
tradotto vuol dire qualcosa che sembra un essere umano ma che non lo è e che
non può, anzi non deve, provare sentimenti, emozioni. Insomma macchine. E
come si sa le macchine, gli scimpanzé e gli indiani dell’Amazzonia non sono
perseguibili a norma di legge.
Salvo poi, a sorpresa, scoprire che tali funzionari-macchine ridiventano di colpo
esseri umani con tanto di madri vestite di nero, sorelle e mogli in lacrime, vecchi
padri affranti, zie sconsolate e nidiate di figli nei confronti dei quali erano tutto
cuore e premurose attenzioni allorché qualcuno gli spara addosso, magari un
idiota che s’immaginava che un robot al mattino continua ad esser tale anche di
sera.
Ma torniamo al Mario. Aveva emesso degli assegni a vuoto per un valore di
200.000 Lit. (mi fece leggere la sentenza, che si era oramai imparato a
memoria, e la cifra era questa). Sostenne di averlo fatto inconsapevolmente: gli
risero in faccia, lo insultarono, lo provocarono come fanno spesso.
E lui reagì, fremente di sdegno, e così si beccò anche qualche mese accessorio
per ingiurie a pubblico ufficiale. Non ho mai avuto il coraggio di chiedergli che
tipo di ingiurie, dato che non me lo immaginavo proprio a insultare nessuno:
inoffensivo, col suo faccione roseo, la voce acuta, incapace di pronunciare non
una bestemmia ma neanche un’oscenità (il cazzo lo chiamava, arrossendo, il
pene). Lo ebbi come compagno di cella e le notti in cui prender sonno era più
difficile e il silenzio spinge a guardare indietro e parlare aiuta a sopportare
meglio i ricordi, mi raccontava la sua storia. Una storia come tante altre, condita
di povertà, passioni infelici, malattia.
Lui, che era sempre vissuto con sua madre, un giorno si innamorò; la chiese in
sposa (diceva proprio così) e a pochi mesi dal matrimonio, quando aveva già
arredato l’appartamento che doveva essere il loro nido d’amore, organizzato il
viaggio di nozze e fatto tutti i preparativi, la donna se ne andò con un altro (una
volta gli dissi che la capivo perfettamente dopo averlo sentito russare ma ci
rimase così male che non scherzai più sull’argomento).
Cadde in una depressione e poco dopo ebbe un incidente d’auto, non si
ammazzò per miracolo ma il suo calvario per ospedali e centri di riabilitazione
durò più di un anno. Diceva che non gli importava assolutamente nulla di vivere
o morire. Fu all’uscita dell’ospedale che, pagando fatture che si erano
accumulate, emise gli assegni che gli valsero incriminazione, arresto e
condanna. Era contento che l’ascoltassi e gli dimostrassi comprensione
partecipe e cercava di dimostrarmi la sua gratitudine preparandomi tazze di
cioccolata coi biscotti sul suo fornellino a gas, o raccontandomi barzellette o
ancora leggendomi brani dei libri che divorava instancabile. Ogni tanto riceveva
un pacco da casa e passava lunghe ore a scrivere a sua madre pagine fitte di
una calligrafia minuta e regolare. Ricevette anche un paio di lettere dalla sua ex
promessa sposa. Me le fece leggere e gli dissi che mi sembrava una persona
dolce e sensibile che non aveva voluto fargli del male. E lui mi confessò
commosso che l’avrebbe amata per sempre.
Si, dentro trovai degli amici. Con cui parlare della vita, quella che avevamo
lasciato fuori e quella che ci aspettava, fuori. Forse era il bisogno di poter
contare su qualcuno in un ambiente ostile. Forse semplicemente il desiderio di
non star soli. Ci scambiavamo regali, dividevamo i pochi averi: giornali, cibo,
sigarette, facevamo fronte comune dinanzi al nemico. Il delinquente, dicono, è
egoista per definizione. Sarà, ma difficilmente dopo ho riscontrato il grado di
solidarietà ed abnegazione cui riescono a dar fondo i detenuti quando se ne
presenta l’occasione. Ancor oggi fra le cose che mi sono portato dietro ad ogni
trasloco, nel mio piccolo bagaglio da nomade conservo, accanto ai ricordi della
famiglia, un braccialetto di rame che Vincenzo fece per me intrecciando i fili
strappati dall’altoparlante della sua cella. Era un eroinomane, di famiglia
poverissima, con un mucchio di fratelli e sorelle; sua madre, vedova, veniva a
trovarlo regolarmente (fra lui e suo fratello la povera donna aveva fatto il giro
dei parlatori di mezza Italia) e gli portava quello che poteva: un po’ di cioccolata,
qualche pacchetto di nazionali, un dolce fatto in casa, frutta. E lui insisteva per
spartire il tutto con gli amici e con i compagni che avevano ancora di meno. Il
braccialetto me lo regalò il giorno in cui gli comunicarono che gli era stata
concessa la libertà provvisoria. Se ne andò salutandomi con i lucciconi agli
occhi. Appena fuori trovò lavoro, un lavoro infame e malpagato che conservò
nonostante tutto finché dei poliziotti, piccati per il suo rifiuto a “collaborare con la
giustizia” (cioè di diventare loro informatore), consigliarono al padrone di
buttarlo fuori. E quello seguì il consiglio. Lui si fece pagare la mesata ed andò a
casa dei miei e pregò e tempestò finché non accettarono diecimila lire per me.
Ma c’erano anche gli altri. Con la loro prepotenza. L’esercito di infami, mafiosi,
fascisti, stupratori. Detenuti che rendono l’inferno carcerario ancora più inferno.
Come in molti penali e giudiziari del sud, dove accade che direttori e marescialli
diano del voi e si sberrettino davanti a padrini che la fanno da padroni
garantendo in cambio il mantenimento dell’ordine: niente evasioni, niente rivolte,
niente proteste. Solo, ogni tanto, sangue.
Mi trasferirono una volta, avevo iniziato uno sciopero della fame, in un
penitenziario ospedale a Pisa. Era pieno di ergastolani che avevano beccato la
tubercolosi, drogati con l’epatite (allora non si sapeva dell’AIDS), gente
convalescente da ferite di ogni tipo, dalle autolesioni, con vene tagliate, chiodi e
lamette inghiottite, labbra cucite, anche qualche mutilazione: un pezzo
d’orecchio, un dito. E ferite da rissa, da coltello, da bottiglia, ossa rotte, crani
incrinati.
Una guardia dall’aria schifata mi portò in una cella dov’erano ammucchiate sei
brande e cinque uomini intenti a diverse occupazioni come la lettura di un
giornale porno, la costruzione della solita nave fatta di fiammiferi o l’accurato
esame del soffitto (si fa da sdraiato sulla branda, con le mani intrecciate dietro
la testa). Cauto come al solito scambiai quattro chiacchiere con il vicino di
branda, rispondendo con sorrisi brevi e luoghi comuni alle domande, non molte
e generiche anch’esse. Sistemai i miei quattro stracci e mi distesi sul letto, di
fianco, con la schiena appoggiata alla parete e mi appisolai fino all’ora del
rancio. Brodaglia inqualificabile con dentro pezzi di patata e un tocco di carne
coriacea. Ancor peggio che al giudiziario. Lo scopino che la distribuiva era un
gigante che sembrava uscito di fresco da un film di pirati, nella parte del più
brutto. Completamente calvo, cicatrici dappertutto, l’espressione più abbrutita
che mi sia mai capitato di vedere. Cominciò, nei vari passaggi davanti al
cancello chiuso (non avevamo porta, solo un cancello) della mia cella, a
fermarsi ed a chiedermi le solite cose: perché ero dentro, da dove venivo, per
quanto tempo ne avevo. Io cercavo di non fargli caso, di far finta di non sentire
e non rispondergli. Gli scopini sono quasi sempre infami, culo e camicia con i
secondini, ragione più che sufficiente per essere trattati con disprezzo da tutti
gli altri. Alcuni non avevano nessun contatto con il resto dei reclusi e passavano
le giornate negli uffici o in cucina rientrando in cella la notte per ultimi ed
uscendone quando noialtri eravamo ancora chiusi, al mattino. Molti erano
dentro per stupro o assassinio di bambini, altri fascisti. Esseri disprezzati da tutti
che rischiavano di lasciare la pelle in qualsiasi angolo della sezione, se lasciati
a se stessi...
Una volta, camminando per strada passai accanto ad un capannello di gente
che si era formato intorno a due poliziotti che stavano ammanettando un topo
d’appartamento, un ragazzo di una ventina d’anni; accanto a me un ometto
sbraitava che bisognava ammazzarlo lì, subito, che lo lasciassero a loro.
Molte volte mi sono ritrovato ad ascoltare gente, giovani, vecchi, uomini, donne,
operai e borghesi, sostenere convinti la pena di morte.
La differenza è tutta qui: la gente per bene e moralista che vuole il sangue del
colpevole ne delega l’esecuzione a qualcun altro o vi partecipa, ma protetta
dall’anonimato della folla; il delinquente invece ammazza in prima persona, se
crede che deve farlo, indifferente alle conseguenze.
Scoprii che lo scopino era molto amico d’un siciliano coi baffetti, aspetto da
ruffiano e serpente, che stava nella mia cella. Mentre scrivevo o leggevo veniva
e mi chiedeva se non sarei stato meglio, più tranquillo in una cella dove non ci
fosse tanta gente e tanto rumore. Gli rispondevo che stavo perfettamente
dov’ero e che non avevo nessuna intenzione di cambiare. All’ora d’aria o della
televisione insisteva perché uscissi a fare quattro passi ma io, diffidente, mi
rifiutavo sistematicamente di seguirlo e restavo a far ginnastica accanto alla mia
branda. Allora cominciò ad insinuare che un ragazzo come me in un posto
come quello aveva bisogno di qualcuno che lo proteggesse. Sulle prime finsi di
non sentire, e quando cominciò a diventare troppo ripetitivo lo squadrai e gli
dissi che mi sentivo perfettamente in grado di badare a me stesso. Non lo
impressionai minimamente e tornò presto alla carica affermando di aver sentito
da fonte sicura che già diversi ergastolani si erano interessati a me e che la
cosa poteva finire molto male se non mi sbrigavo ad accettare la protezione di
qualcuno potente e rispettabile. Come lo scopino, tanto per fare un nome.
Avevo sentito decine di storie di sopraffazione, prostituzione, violenze, di
ragazzi ridotti a puttane, schiave a tutto servizio o ammazzati o rovinati per
sempre, ridotti a bestie; e le parole del siciliano coi baffetti mi gelarono…
... Capita spesso, soprattutto nei telefilm americani, sentire dalla bocca di
personaggi, in genere poliziotti, la spiegazione di come funzionano in galera le
faccende di sesso, sempre in chiave sadico-sarcastica. Ma già, che t’aspetti da
sceneggiatori che mettono in bocca ai loro eroi frasi del tipo: “lo voglio vedere
friggere sulla sedia elettrica” oppure “sentirai il nodo scorsoio che ti stringe la
gola e come ti scoppieranno i polmoni”...?
Alla fine decisi di affrontare direttamente la bestia. Uscii nel corridoio quando
aprirono e gli risposi quando mi parlò. Era, come dire... immondo? Spregevole?
Doveva scontare una condanna a trent’anni. Aveva come curriculum cinque
omicidi: uno fuori e quattro dentro: tutti giovani che non si erano sottomessi.
Lo odiavano in molti, dato che oltretutto era una spia e killer della direzione. Il
maresciallo gli permetteva di trafficare tranquillamente con alcool e droghe e di
portare addosso un coltello a serramanico che esibiva spesso e volentieri. I suoi
servizi di delatore e gorilla consistevano nel provocare ed aggredire tutti i
personaggi ritenuti “scomodi” e partecipava ai pestaggi nelle celle di punizione.
Ogni tanto, per ricompensarlo e tenerlo buono, gli mettevano un ragazzetto in
cella. Nel suo dialetto pressoché incomprensibile mi disse che con lui sarei
stato bene: cognac, musica, mangiare in abbondanza, solo tutto il giorno senza
nessuno che mi rompesse le scatole. Aveva già chiesto che mi trasferissero
nella sua cella, disse, e sarebbero venuti a comunicarmelo l’indomani.
Provai a discutere, a spiegargli che non avevo bisogno di nulla né dell’aiuto di
nessuno. Ma era un muro d’ottusità, minacciosamente stupido. La notte non
chiusi occhio pensando a cosa fare. Chiedere un colloquio con il giudice di
sorveglianza? Magari appoggiando la domandina con qualche taglio o
ingoiando chiodi per farmi trasferire in un ospedale civile. Sequestrare una
guardia? Cercare di ammazzare il porco? Ero sicuro di potercela fare, il
miscuglio di odio e paura mi caricava di adrenalina. Anche se aveva l’astuzia e
l’istinto di un animale da preda, era troppo abituato al ruolo di boia. Però dovevo
trovare un coltello. Nella mia camerata c’era un altro siciliano, ergastolano,
trenta anni già scontati. Un uomo silenzioso e gentile che ogni tanto mi
raccontava episodi e storie della sua Sicilia del dopoguerra. Gli chiesi se poteva
aiutarmi a trovare se non una molletta almeno un punteruolo.
“Tu non hai idea di quanto può essere pericoloso; il coltello bisogna saperlo
usare e qui c’è gente che col coltello in mano c’è nata; e poi, anche se riesci a
farlo fuori?”
- “Me la sarò cavata, almeno questa volta. E in questo schifo di mondo ci sarà
un maiale di meno”.
“... ed un ergastolano in più. Pensa a salvarti. Passare la vita dietro le sbarre e
morire senza rivedere la libertà è il peggior destino che possa toccare a un
uomo; tu sei ancora giovane, puoi uscirne; ma se oggi ammazzi uno metti in
movimento una catena che ti stritolerà: quello ha dei fratelli, amici che te la
vorranno far pagare e nessuno ti difenderà; pensaci bene, il mio consiglio è
questo”
Il brigadiere, passata la conta, mi comunicò freddamente che potevo cambiar di
cella. Gli sibilai che non ne avevo la minima intenzione. Fece per andarsene
bofonchiando che se ne sbatteva. Mi frapposi fra lui e la porta. Le guardie
rimasero interdette. Con i nervi a fior di pelle e la voce arrochita gli dissi che di lì
mi sarei mosso solo per cambiare di carcere o per un colloquio con il direttore.
Altrimenti ci sarebbe stato spargimento di sangue e non solo il mio.
Mi lasciarono in pace. In fondo io avevo una famiglia di classe media, dei
compagni, ero uno studente. E successe che precisamente lo stesso giorno
arrivò un ragazzo con una condanna a otto anni per furto. Glielo dettero.
Durante tutto il periodo che ancora mi toccò trascorrere in quel penale non lo
vidi nemmeno una volta in cortile, nel corridoio o alla tivù. Lo scopino ormai mi
ignorava completamente e la mia prima reazione fu di sollievo. Di cui mi sarei
vergognato, dopo. Con l’amaro in bocca. Senso d’impotenza. Di rabbia, schifo e
paura. E anche lo stupore per quel desiderio nuovo, bruciante, di uccidere. Poi,
con il tempo rimase ... quel ragazzo che a volte sentivamo piangere ed un odio
senza nessuna purezza.
Mi rimandarono al giudiziario. Qui c’erano ancora le celle colle bocche di lupo,
finestre semichiuse dall’esterno in modo che entrino aria e luce – poche – ma
che tu non possa vedere né buttar fuori nulla.
Ma c’era meno gente, la vita era più tranquilla. Durante le ore di “apertura”
passeggiavi su e giù per i raggi, andavi in visita da quello o da quell’altro ad
accettare un invito a un caffè o li ricambiavi, manco fossimo stati un branco di
vecchie zitelle. Ci mandavano un paio d’ore in cortile, che era grande
abbastanza per tirare qualche calcio a un pallone, fare il bucato, prendere il
sole quando c’era e soprattutto camminare su e giù.
Sembravamo scemi, decine di uomini a camminare in parallelo, a coppie,
chiacchierando, in silenzio, soli, gli sguardi fissi, qualche saluto, qualche battuta,
ogni tanto sguardi di traverso ed allora la tensione si sentiva e ci si faceva da
parte.
Scoppiava qualche rissa, poche, e sapevi quali erano quelle in cui potevi
intervenire a fare da paciere e quelle invece da cui era meglio stare alla larga
ed aspettare che tutto finisse.
Arrivò un gruppo di romani, trasferiti da San Vittore. Facevano la loro
passeggiatina in gruppo nel corridoio a pianterreno. Era l’ora della televisione e
la gente stava prendendo posto sulle panche. I romani ad alta voce dicevano
“ma guarda che posto di merda, è proprio una città che fa schifo” e tu ti chiedevi
se avevano visto nulla della città perché nel furgone non ci sono manco i
finestrini, solo qualche presa d’aria. E sulle ultime panche c’erano tre o quattro
membri di spicco della tifoseria locale finiti dentro per una storia di furto e per un
po’ se ne stettero zitti e buoni, ma al terzo giro ed al quarto “ma che schifo di
paesone” si alzò il Dela che era piccoletto ma con braccia da scimpanzé e che
una volta era stato arrestato perché in un tafferuglio colla polizia, roba sempre
da stadio, aveva mollato un cazzotto a un celerino e gli era rimasto incastrato il
pugno nel casco. Si alzò e stese quello più grosso. L’amico del cuore del Dela,
nonché secondo gli inquirenti suo complice, saltò su e sbatté la panca sulla
testa del romano e si sentì un suono secco e uno che aveva già preso posto in
prima fila si girò e disse “oh coso ‘unnè mica una noce”.
Gli altri romani presero su il loro compagno, la guardia aprì il cancello, lo
portarono in infermeria e non si rividero più in sezione.
Un altro problema era il rumore. Molto probabilmente devo la mia attuale
allergia a flamenco, fado ed altre espressioni canore dell’angoscia popolare,
alle ore di canzoni straripanti lamenti e storie di morti ammazzati e cuori infranti
e disgrazie d’ogni genere che per un paio di mesi allietarono l’atmosfera del
giudiziario ad opera di un gruppo di napoletani sistemati nella cella proprio
sopra la mia.
Avevano un nastro che io pregavo gli fosse sequestrato o spaccato nel corso di
una fruga, anche se quando cantavano loro era pure peggio, e lo mettevano a
tutto volume perché le loro storie musicate di guapperia fossero perfettamente
udibili anche fuori le mura. Non legavamo molto. Per fortuna li trasferirono.
Non si potevano tenere soldi, ma il commercio non mancava dato che ognuno
aveva una specie di conto aperto, alimentato dalle famiglie ma non troppo
perché era bene che non circolasse la voce che uno era ricco, e con quello si
poteva chiedere allo spesino, un detenuto che passava tutti i giorni con un
quaderno dove segnava gli ordini, dentifricio, sapone, carta igienica, qualcosa
da mangiare e un quartino di vino a testa. E poi c’era un giro di francobolli,
sigarette.
Ognuno ammazzava il tempo come poteva. C’era anche chi leggeva. Non tutto
quello che avrebbe voluto, perché i brigadieri ed il cappellano facevano anche
da censori e intercettavano quello che secondo i loro criptici criteri “non era
adatto”. Si ascoltava la radio, si facevano flessioni. Si fumava.
Tutti trovavano qualcosa da fare. Modellini di navi. Posacenere. Anche se di
gran lunga l’attività preferita erano le partite a carte, che a me non mi
prendevano punto nemmeno come spettatore perché poi andava sempre a
finire che qualcuno barava o sbagliava o s’incazzava e finiva tutto a sberle.
Il primo invito a partecipare ad una evasione mi arrivò da una banda di
rapinatori in attesa di giudizio. Risposi di no spiegando che ero certo che la
corte d’assise m’avrebbe scagionato e che presto sarei tornato in libertà. Grazie
comunque. Dovettero pensare che ero scemo.
Il fatto è che non me ne fidavo manco un po’. Una strana società la loro: un
pugliese, poco più che un ragazzino ma la faccia da duro, sempre taciturno e
serio, due toscanacci di san Frediano, un milanesino figlio di papà. Ubriachi da
mattina a sera, non smettevano mai di vantarsi delle passate gesta. Una sera
uno dei due toscani, un tracagnotto dal naso schiacciato, completamente sfatto,
obbligò compagni di cella e di sezione rastrellati nel corridoio ad assistere alla
ricostruzione, in esclusiva, di una delle loro rapine. Per dare un tocco di
maggiore realismo alla scena si coprì la faccia con un fazzoletto sporco, quindi
spiccò un acrobatico salto al di sopra della tavola che fungeva da bancone.
Forse fu il fazzoletto che gli si era spostato sugli occhi o i bicchieri di troppo,
fatto sta che invece di scavalcare la tavola/banco ci inciampò, cadde
rovinosamente mandando in frantumi una preziosa bottiglia di vino ancora
mezzo piena e, imbestialito per la risposta del pubblico che si stava sbellicando
dalle risate, ingaggiò un furioso pugilato con uno dei suoi coimputati che lo
esortava a piantarla di fare il buffone.
Questo ed altri episodi del genere ne facevano insomma dei ragazzi con cui
potevi scambiare quattro chiacchiere e bere un goccio, ma non certo dei
complici ideali per una cosa come un’evasione. Che è seria e rischiosa.
Ci restarono un po’ male e insistettero, perché secondo loro quelli là del
Tribunale la parola assoluzione da tempo l’avevano cancellata dai loro
vocabolari. Non mi convinsero e dettero subito il via al piano. Che non ebbe una
esecuzione brillante. Semplice sì che lo era: si trattava di aprire un buco nel
muro, giusto sotto una branda della loro cella e, approfittando il cambio della
guardia verso mezzanotte, uscire e scalare il muro di cinta. Io e gli altri, in
pratica tutti quelli del braccio, per due giorni facemmo del nostro meglio per
distrarre l’attenzione di guardie, scopini e per sviare la curiosità dei tre o quattro
potenziali infami. Chi aveva la radio l’attaccava a tutto volume, altri
organizzavano veri e propri recital di musica folk con danze comprese.
Particolare successo riscossero le sfrenate tarantelle di un paio di magnaccia
napoletani. Ma era tutta fatica e tempo sprecato: la cella degli aspiranti evasi
sembrava un cantiere. I tonfi si dovevano sentire fin dalla strada, dalla porta
uscivano ogni tanto sbuffi di polvere. E loro, nonostante i consigli di prudenza,
erano sbronzi da mattina a sera.
Il primo giorno si comportarono in modo più o meno normale. Misero due a fare
il palo mentre gli altri due lavoravano, ma poi già di notte lasciarono perdere le
cautele e cominciarono a sfondare utilizzando come attrezzi pezzi sempre più
grossi delle brande.
Il secondo giorno, era già buio, uscirono tutti e quattro a prendere il fresco nel
corridoio: uno con i vestiti stracciati e impolverati, uno con una mano
sanguinante e fasciata alla peggio, tutti con i capelli e le facce infarinate di
gesso. Insomma fu precisamente la guardia più rincoglionita e menefreghista, di
servizio quella notte, che uscì alla chetichella dalla sezione ed andò a dare
l’allarme. Non fu bello. Dai finestroni del raggio vedemmo una fila di uomini in
divisa appostarsi lungo il muro di cinta e puntare contro di noi i mitra e i riflettori.
Con gli altoparlanti ci intimarono di star buoni e di rientrare nelle nostre celle. Ci
riunimmo nel corridoio in basso, la cinquantina di detenuti, meno un paio che
preferirono rinchiudersi in cella. Non c’era nessun secondino e discutemmo per
un po’ sul da farsi. Quelli che avevano esperienza in rivolte ed evasioni dissero
che dovevamo rifiutarci di rientrare finché il maresciallo o il direttore non avesse
dato delle garanzie, almeno per quanto riguardava pestaggi e trasferimenti.
Altre rappresaglie erano inevitabili, legali e amministrative. Questo lo sapevamo
tutti: meno colloqui, meno ore di aria, meno televisione... Insomma meno di
tutto quello che può rendere un tantino più sopportabile la galera.
Gli altoparlanti da fuori sputavano ormai ultimatum, cosicché facemmo entrare i
quattro, ancor più bianchi (meno il pugliese, silenzioso e freddo come sempre)
in una cella in cui si sarebbero potuti barricare con facilità se al loro arrivo le
guardie si fossero mostrate troppo violente.
E la squadretta arrivò, armata di scudi, caschi, manganelli, catene e
capitaneggiata da un brigadiere ed un appuntato dei più rognosi, con ghigni da
maiali soddisfatti. Erano una ventina e non ci dettero il tempo di reagire.
Sciolsero la barriera umana che con scarsa perizia
avevamo formato,
liquidando i nostri tentativi di parlamentare a botte, urlacci e spintoni. Ci fecero
entrare tutti alla rinfusa nelle prime celle che trovarono aperte. Poi si
concentrarono davanti al camerone da cui provenivano rumori di barricamento.
Era una cella con la doppia porta: quella di legno col chiavistello dava sul
corridoio e poi c’era un cancello che si apriva verso l’interno e che era più facile
da bloccare. I quattro ragazzi ci stavano ammucchiando contro le brande, gli
stipetti, il tavolo, tutto quello che trovavano.
Il brigadiere con un paio d’agenti andò prima a verificare che nella cella del
buco non ci fosse rimasto nessuno e poi si piazzò davanti a quella dei rapinatori.
Le trattative non andarono troppo per le lunghe. Il capo squadra si limitò a dire
che se fossero usciti subito e con le buone avrebbero portato alle celle di
castigo solo loro quattro, altrimenti sarebbero entrati con le cattive, portato loro
alle celle e messo tutti in isolamento.
Mario, che evidentemente era stato scelto come portavoce, rispose che gli altri
non c’entravano e che loro tutto quello che chiedevano era di parlare con il
direttore e di rimanere, magari anche chiusi, ma in sezione. Aggiunse che se
fossero entrati con la forza due di loro erano pronti a tagliarsi.
Errore. La prospettiva di un po’ di sangue caldo non intimorisce una squadretta
di agenti ben predisposti allo scontro. Anzi. E infatti si affrettarono a trascinare
lungo il corridoio lo sbarricatore, un attrezzo che ricorda una macchina da
guerra romana, specie di grossa leva che permette di togliere di mezzo, da una
prudente distanza, le brande e gli altri ostacoli addossati alle inferriate.
Non ci misero molto. Appena videro che non c’era più nulla da fare i quattro
uscirono con le mani alzate a coprirsi la testa. Non avevano chiuso gli spioncini
delle nostre celle ed era la prima volta che assistevo ad un pestaggio. Ci
mettemmo ad urlare ed a battere le sbarre ma credo che l’unico effetto fosse di
eccitare ancor di più gli agenti scatenati. Poi qualcuno passò a chiudere tutte le
finestrelle e per un po’ si udirono solo i colpi sordi delle manganellate, le
imprecazioni, le grida, gli insulti dei picchiatori e poi i corpi che ruzzolavano giù
per le scale. Lamenti.
Quando arrivò il silenzio da fuori continuammo per un po’ a sgolarci. Porci,
assassini, la pagherete. Calci contro le porte. Le gamelle di metallo sbattute
contro le sbarre. Ogni tanto passava una delle guardie “buone” a dire di star
calmi, che era tutto finito, che non succedeva niente di grave. Poi un po’ alla
volta si rifece il silenzio e cominciarono i richiami da porta a porta, da finestra a
finestra. Voci che chiedevano chi era stato portato giù assieme ai rapinatori,
che dicevano i nomi delle guardie riconosciute nella squadretta, che
suggerivano uno sciopero della fame.
E io pensavo alle scale che portavano giù al sotterraneo e che la prima volta mi
avevano colpito con le loro pareti completamente annerite da segni strani...
Manganellate andate a vuoto, pestaggio dopo pestaggio, anno dopo anno. Ogni
due o tre gradini si mette una guardia e la vittima deve passare fra muro e
manganello. Se cade, e quasi sempre cade, il divertimento è doppio: le lesioni
sono ancora più dolorose e la si può prendere con tutta comodità a calci,
pestarle le mani o schiacciarle i coglioni.
Ci sono, o meglio c’erano, dicono, tribù dell’America del nord (quelle delle
praterie, non quelle urbane) che sottoponevano guerrieri amici e nemici a una
prova di questo genere. Con la differenza che, se il guerriero era capace di
resistere alla gragnola di legnate che gli piovevano addosso e di arrivare alla
fine del corridoio formato dai suoi aguzzini, non solo era a salvo ma gli erano
pure tributati onori. Ma quelli erano selvaggi. Nel nostro mondo civile invece
l’unica speranza per l’involontario protagonista della cerimonia è che gli
officianti si stanchino il prima possibile.
Era la seconda volta che partecipavo a una protesta collettiva. Alla prima
avevo assistito e partecipato pochi giorni dopo il mio arrivo in sezione. Una
notte ci svegliarono di soprassalto urla molto vicine. Non esattamente urla,
piuttosto una sorta di gemito prolungato, violento, ripetuto e che terminava in
lunghi rantoli. E subito colpi disperati contro una porta. Saltammo tutti in piedi
cercando di capire cosa succedeva, alla luce della lampada del corridoio.
Rumori e grida provenivano dalla stanza dei tossici, la guardia del turno di notte,
uno dei più giovani, arrivò di corsa e da dentro gli dissero di andare subito a
chiamare il medico perché uno dei ragazzi era in piena crisi d’astinenza e non
ce la facevano a controllarne gli spasimi e le convulsioni. Quello schizzò via a
chiamare il brigadiere che poco dopo arrivò assicurando che il dottore era già
stato avvisato e che sarebbe arrivato a momenti. Senza aprire la porta dette
un’occhiata dentro e se ne andò. Passò un’ora. Ogni tanto il più giovane della
cella s’affacciava e piangendo e bestemmiando chiedeva quando arrivava quel
cazzo di medico, che il suo amico stava morendo, che non ce la facevano più a
tenerlo, che si stava soffocando e che dappertutto era pieno di vomito e merda.
Qualcuno preparò un tè, qualcun altro tirò fuori la scorta di valium ed analgesici,
la guardia andava su e giù a portare ora una cosa ora l’altra e non sapeva che
altro fare a parte correre ogni due minuti al cancello della sezione per vedere se
si facevano vivi.
Ed alla fine, attorniato da un nugolo di sbirri, fece la sua trionfale comparsa
l’ammazza sani del carcere. Gli aprirono la porta e, scortato, lui entrò. Non
rimase dentro nemmeno due minuti e uscì gesticolando, infuriato. Era un
omone con pochi capelli grigi e faccia da pazzo. Gridava “una crisi d’astinenza?
E allora? Quello che cercano questi farabutti è la loro dose e mi fan tirar giù dal
letto a quest’ora. Bastardi, che crepino!”. Non è che il suo comportamento
stupisse nessuno. Era il prototipo del dottore di una galera, quasi una
macchietta da quanto somigliava al cliché del medicastro incompetente, mezzo
lavativo e mezzo sadico, corroso di cinismo fino al midollo. Il suo personale
vangelo diceva che il detenuto è sempre e comunque un simulatore e che è
preferibile che ne crepino dieci malati davvero che concedere quello che vuole
a uno sano che finge per ottenere un trasferimento, un ricovero o una dose di
qualcosa. Prescriveva sempre le stesse pastiglie, sia che avesse a che fare con
dolori di testa o di stomaco, o con vomiti, vertigini o difficoltà respiratorie. E
Valium per tutto il resto, dall’epilessia all’insonnia. I compagni del tossico con la
scimmia tentarono di sfondare la porta. La guardia di servizio sembrava un
arcobaleno. In ogni cella si aprirono le finestre e la gente si aggrappò alle
inferriate battendole freneticamente con tutto quello che trovava di più
chiassoso, urlando verso la città che un compagno stava morendo, che lo
stavano ammazzando. Buttammo fogli di giornale accesi nel corridoio. Poi,
un’eternità dopo, il ragazzo superò la crisi. E quella volta non ci furono
rappresaglie.
Il dopo tentativo di evasione fu triste. Si possono subire castighi ed angherie
con un’alzata di spalle. Si possono accettare con indifferenza le privazioni, i
divieti che restringono ancor di più i tuoi già ristretti spazi di vita, se nelle parole
e nei gesti dei “superiori” si leggono la rabbia, la frustrazione ed a volte la paura
dopo una piccola o grande vittoria di uno o molti di noi: una rivolta, una fuga,
una protesta riuscite. Ma l’umiliazione pesa quando sulle loro facce leggi solo la
volontà di schiacciarti, di farti chinare la testa, di farti ammettere la loro
“superiorità”. Non per nulla volevano che i secondini fossero chiamati così.
Superiori.
Al mattino arrivarono più numerosi del solito a sbattere le sbarre e a fare la
conta. In silenzio, interrotto solo dagli ordini secchi del brigadiere, si divisero in
due squadre e cominciarono le perquisizioni. Ci fecero alzare ed uscire in
corridoio, in mutande, scalzi. Tutti in piedi per un paio d’ore davanti alle celle da
cui uscivano i rumori inconfondibili della fruga. Gli stipetti di metallo svuotati. Le
brande rigirate. I tavolini o le sedie rovesciati per terra. Buttarono tutto all’aria.
Alla fine, l’intero raggio passato al setaccio, nelle mani del brigadiere rimase il
bottino: delle lettere, qualche manico di cucchiaio affilato, dei chiodi, un paio di
biglietti da mille lire. Rientrammo e cominciammo, taciturni, imprecando o
piangenti a raddrizzare stipetti e tavoli ed a raccattare da terra i vestiti, le
lenzuola, le coperte. Spazzammo via la pasta, lo zucchero,
la roba da
mangiare che avevano calpestato. Raccogliemmo le navi fabbricate con infinita
pazienza con migliaia di fiammiferi. Incollati uno a uno. Risparmiando la colla
perché costava e ci voleva la domandina. Avevano anche staccato e stracciato
poster e disegni. E le foto. Sedetti sulla branda, accanto al mucchietto delle mie
cose raccolte qua e là. La radio l’avevano scaraventata in un angolo, uno dei
compagni di cella cominciò ad armeggiarci cercando di aggiustarla. Non ci
avevano portato il surrogato di caffè del mattino e si avvicinava l’ora dell’aria
senza che nessuno si facesse vivo.
Il compagno guardava e rigirava la sua radiolina ripetendo “porci, porci, porci”.
Mi innervosiva.
La gente parlava da una cella all’altra, nelle camerate. I più esperti sapevano
che non era finita, che avrebbero continuato a provocarci. Non perdevano mai
l’occasione di dare giri di vite. Di dimostrare quanto labili fossero e come
dipendessero dal loro ben volere le piccole eccezioni al rigido regolamento
carcerario. Di ricordare in mano di chi era, il manico del coltello.
Non arrivò l’ora dell’aria. Al suo posto scortarono tutti quelli della sezione, uno
dopo l’altro, nell’ufficio del direttore. Una sfilata che durò due giorni. Non
chiedeva molto sua Eccellenza, solo che qualcuno gli raccontasse, semplice
prova di buona volontà, dato che sapevano già tutto quello che c’era da sapere
sul tentativo di fuga, chi era al corrente del piano ed i nomi degli eventuali
aspiranti compagni d’evasione dei quattro; e che quelli che non sapevano
proprio niente dimostrassero almeno disinteresse se non compiacimento, per la
“sventata fuga” e per la sorte dei colpevoli che “dopotutto se la sarebbero
svignata fregandosene di voialtri, ben sapendo che dopo ogni evasione il
regolamento viene applicato in modo implacabile, i trasferimenti abbondano ed i
colloqui scarseggiano”.
Anch’io ebbi la mia dose:
“e lei che è una persona così diversa da questa feccia non aveva intuito proprio
nulla?... Ma cosa le importa di come stanno? Piuttosto dovrebbe pensare ad
evitare ogni contatto con questa gente, anzi accetti pure un consiglio, stia
sempre sul chi vive che ce ne sono capaci di tutto... Sciopero della fame? ...
Per solidarietà? No dico, ma sei impazzito? Ma vuoi che io ti rovini del tutto? Ma
lo sai che io ti posso fare schiaffare in Sicilia? Là ci pensano loro a conciarti per
le feste. Qui comando io hai capito? E se mi rompete il cazzo vi taglio i colloqui
e vi tolgo i libri e i giornali e pure le lettere!... E non mi rispondere che io ti
sbatto alle celle, ti faccio pentire di essere nato! Ho più di cento denunce di
detenuti io, ho fatto piangere guappi che erano il terrore di Porto Azzurro,
dell’Ucciardone, di Poggio Reale”.
Comunque andò meglio del previsto. Non ci furono pestaggi né trasferimenti
all’Ucciardone. Qualche spinta, qualche schiaffo, minacce. Ma niente sangue.
Nessuno parlò e per punizione ci lasciarono un paio di settimane chiusi senza
aria né televisione. Ma alla fine anche i rapinatori, un po’ malconci e
demoralizzati vennero riportati su. Li aspettava il processo e si prepararono a
modo loro. Carlino, quello del salto quasi mortale non faceva altro che ripetere
a destra e a manca che la libertà per lui era questione di giorni e che giudici,
testimoni e poliziotti al massimo gli avrebbero potuto fare una sega. La mattina
del giorno del processo li trovò sbarbati, profumati, elegantissimi nei loro vestiti
da colloquio straordinario e su di giri per i bicchierozzi già ingurgitati. Uscirono,
fra gli incoraggiamenti della popolazione del raggio, con incedere trionfale.
Tornarono a mezzogiorno mogi come cani bastonati. Soprattutto Mario, il capo.
Che, alle domande dei vicini di cella su come era andata alzò a V le due dita
della mano della destra... “no, ma che vittoria! Due! Come due che? Due anni,
cazzo! Là mica danno le noccioline!!”. Ci fu spiegato poi che, durante la
deposizione del poliziotto che li aveva arrestati s’era alzato dicendo (secondo
lui educatamente) “oh maresciallo, ma che dà i numeri?”.
Il giudice gli aveva intimato di tacere, aveva sospeso il processo e chiamato la
giuria in camera di consiglio. Dopo un po’ erano riusciti con i due anni.
“Oltraggio a pubblico ufficiale” e aggravanti varie. Poi dicono che le parole non
pesano. Il Carlino continuava a sostenere imperterrito che comunque a lui al
massimo potevano fargli una sega. Il giorno della sentenza partirono cantando.
Non il pugliese che doveva maledire in silenzio il giorno in cui aveva conosciuto
quella gente. Durante tutto il processo si era limitato a rispondere con dei no o
dei semplici gesti di diniego con la testa a tutte le domande, seguendo le
diverse fasi del dibattimento come se stessero parlando di qualcun altro.
Il ritorno fu chiassoso anche se non allegro. Tre scopini salirono su a preparare
la roba del pugliese, c’era già la scorta per il trasferimento verso chissà dove ad
aspettarlo e lo avevano lasciato in portineria, con gli schiavettoni ai polsi. Gli
portarono il fagotto, i carabinieri lo spinsero nel furgone ed una noia di meno.
Qualche mese dopo mi dissero che l’avevano visto a San Vittore, irriconoscibile.
Avevano cercato di violentarlo in tre e lui li aveva spediti all’infermeria, uno
grave, a coltellate. Ma poi gli amici, i picciotti, i gregari lo presero disarmato e lo
pestarono fino a lasciarlo in coma e sfigurato.
Gli altri li mandarono in cella a meditare sulla sentenza: una ventina d’anni a
testa, cinque in più della stessa richiesta del Pubblico Ministero. Non avevano
avuto fortuna con il presidente del tribunale, una celebre carogna che, a
seconda degli stati d’animo, accettava la richiesta del pubblico ministero o
l’aumentava secondo personalissimi criteri. Gli era perfino accaduto di infliggere
condanne ben oltre i massimi di legge.
Chiusi, i due più giovani si accasciarono sulle brande, uno con la testa fra le
mani e l’altro in lacrime, mentre il capo banda camminava su e giù come un
animale in gabbia. Poi si bloccò e prese a frugare febbrilmente nel suo
materasso. Ne tirò fuori un pezzo di lametta, si avvicinò alla porta e si fece un
taglio un po’ più su del polso. Gli altri seguirono l’operazione con sguardo
assente.
In seguito avrebbe sostenuto di averlo fatto per obbligare il direttore a dare
l’ordine di ricoverarlo in ospedale, da dove lui sperava di poter fuggire con
relativa facilità. Secondo la versione degli altri invece era ubriaco e non sapeva
che cazzo stava facendo. Comunque fosse la vena se la tagliò sul serio.
“Oddio ragazzi fate qualcosa madonna mia quanto sangue oddio aiutatemi che
muoio ma ‘un lo vedete che moio!” e giù a urlare. I suoi coimputati
impietosamente lo mandarono a farsi fottere lui e le sue puttanissime idee che li
avevano messi in quel casino e ora che cazzo voleva con le sue scene madri,
ammazzati sul serio una volta per tutte e smettila di rompere i coglioni a noi che
di pensieri ne abbiamo già troppi. Alla fine le guardie dettero un’occhiata dentro
e visto che di sangue ce n’era parecchio lo trasportarono in infermeria, bianco
come un cencio e stringendosi il braccio con un fazzoletto. Il maresciallo non ci
pensò nemmeno a chiamare una scorta e a farlo portare al pronto soccorso e lo
ricucì alla bell’e meglio senza neppure aspettare l’arrivo del medico. Dopo pochi
giorni li trasferirono. In appello a Firenze gli dimezzarono la condanna.
In carcere le storie di evasioni, fughe, latitanza attirano sempre l’attenzione
del pubblico. Sono in molti quelli che ci hanno almeno provato. La “libbertà” lì
dentro è un concetto tangibile, semplice, vuol dire riuscire a passare dall’altra
parte del muro senza manette ai polsi e poliziotti al fianco.
“Ce la feci a saltare ma mi slogai la caviglia, mi ripresero dopo appena
mezz’ora ma fu una mezz’ora di libertà e ne valeva la pena”
L’evasione, l’atto cioè di sottrarsi all’esecuzione della pena, è considerato in se
reato lieve. Stranezza forse retaggio di diritti antichi per cui la fuga dalla
prigionia era una forma di difesa legittima. Le condanne in genere oscillano da
qualche mese a pochi anni.
Una mitezza che non ha riscontro nella reazione contro chi ha osato e fallito o
che è stato ripreso: pestaggi, isolamento, trasferimenti, sezioni speciali e
soprusi, angherie, sopraffazioni, provocazioni.
Quando lo conobbi doveva avere un 24-25 anni. Era simpatizzante di LC, come
molti altri coatti reclutati in carcere da organizzazioni che li trattavano come
soggetti politici e gli ridavano una certa dignità. Al di là delle mura di cinta, sulle
piazze, in fabbriche, università e quartieri, si attaccava il sistema, si lottava
contro la legalità borghese. Era un buon punto di incontro.
Lui era già scappato due volte. La prima lo avevano ripreso ad un posto di
blocco un anno più tardi, la seconda lo avvistarono mentre scalava il muro di
cinta e gli spararono ferendolo a una gamba. Però ce la fece a depistarli e si
nascose in un capannone abbandonato. Ci rimase tre giorni, senza mangiare e
con la ferita che gli si era infettata. Una donna lo trovò che stava delirando e
chiamò la polizia. Nell’infermeria, ancora convalescente, sputò in faccia ad una
guardia che lo sfotteva, lo trascinarono pestandolo meticolosamente fino alle
celle dove lo rinchiusero, ma fece ancora in tempo ad afferrare attraverso lo
spioncino il braccio di un appuntato e a slogarglielo. Allora lo mandarono al
manicomio criminale, con diritto al trattamento completo. Malconcio com’era lo
picchiarono ben bene, con metodo, accanendosi particolarmente sulla ferita alla
gamba, sul fegato, sullo stomaco. Gli avvolsero una coperta intorno al capo e lo
colpirono a lungo né troppo piano, né troppo forte. Lo raparono a zero, gli
infilarono a forza un’uniforme marrone, ruvida, di sacco e lo accompagnarono a
calci in cella. Una scorta lo seguiva ad ogni spostamento: da una cella all’altra,
dal dottore, all’aria ed uno degli agenti, sempre lo stesso, ogni tanto gli rifilava
un calcio, così, tanto per ridere. Finché un giorno lui si girò e gli sferrò un diretto
sul naso. Era un ragazzo robusto. Mentre la guardia andava all’ospedale col
setto nasale rotto lui finì alla sezione speciale, quella dei letti di contenzione.
Lì ti spogliano nudo e ti legano con cinghie di cuoio. Ai polsi, alle caviglie ed alla
gola, in modo che tu non possa neppure alzare la testa. 24 ore al giorno. A
volte per settimane. In certi casi mesi. Una coperta buttata sopra. Feci e orina
attraverso un buco nel mezzo del lettino. Gli scopini, accurata selezione di
personaggi abietti e ripugnanti, ti ripuliscono ogni tanto con la scopa o lo
straccio da dare in terra. Sempre loro si incaricano anche di alimentarti. Ti
infilano in bocca una brodaglia, fredda o bollente e la ingozzi o ti strozzi.
Un po’ di tempo dopo andò a trovarlo lo psichiatra. Cercò di mostrarsi calmo e
sereno rispondendo alla serie di domande con un atteggiamento arrendevole e
paziente; parlò della fragilità dei propri nervi ma anche delle vessazioni di cui
era stato oggetto; chiese anche come stava l’agente colpito. Ma, per favore,
che lo slegassero, che non ne poteva più di quel tormento, che il dolore dei
crampi lo stava facendo impazzire. Lo psichiatra sembrava comprensivo e
prendeva appunti. Continuarono a discorrere un pezzetto ed alla fine, alzandosi,
gli garantì che sarebbe stato trasferito il giorno dopo in un’altra sezione. “Ma nel
tuo fascicolo dovrò segnalarti come elemento socialmente pericoloso” aggiunse.
“Pericoloso socialmente? Perché? Se fuori di qui non ho mai torto un capello a
nessuno!”.
“Si ma capisci qui anche un santo diventerebbe una belva sanguinaria quindi io
la pericolosità sociale la metto a tutti”
“Ma è assurdo, così ci condannate all’emarginazione per sempre”
“E cosa vuoi che ci faccia io, la realtà è questa, le cose stanno così”.
Allora cominciò a dibattersi, urlando che erano tutti porci bastardi assassini.
Urlò chiedendo aiuto e allora arrivò un infermiere che con una siringa lo spedì in
un mondo d’incubi preceduto da una sensazione angosciosa di soffocamento.
Non sapeva dire quanto tempo durò la “cura”. Ricordava solo un lento colar via
di urla, imprecazioni, di sogni sullo sfondo del soffitto bianco, le crepe, le
mosche, le macchie di umidità. Quando gli tolsero i legacci non si reggeva
quasi in piedi e barcollava travolto da vertigini, nausea e capogiri.
Lo avevano slegato perché il giudice aveva concesso un colloquio a sua moglie
che era andato a trovarlo con il bambino, un viaggio massacrante dopo la
kafkiana trafila per ottenere il permesso. Per l’occasione lo agghindarono con
una camicia di tela due taglie più grandi della sua ed un paio di pantaloni di
colore indefinibile, sformati e che gli lasciavano allo scoperto un bel po’ di
caviglie e gli misero il cinturone. Che è appunto una cintura di cuoio con ai lati
due cinghie, pure di cuoio, con cui si immobilizzano i polsi. È più elegante delle
catene, della palla al piede e della camicia di forza e se i pantaloni hanno le
tasche puoi perfino atteggiarti a disinvolto con le mani infilate dentro.
Entrò nella sala e vide sua moglie dall’altra parte del vetro con il piccolo in
braccio; la donna lanciò un’occhiata compassionevole verso quell’infelice che
entrava nel parlatorio e riprese a coccolare il bambino. Lui le si avvicinò esitante.
Le si sedette di fronte e davanti ai suoi occhi sbarrati la pregò di non
spaventarsi, di stare calma che non era successo nulla. La ragazza, livida, per
un po’ non riuscì a spiccicare parola e poi esplose e cominciò a gridare che
l’avrebbero pagata, il bimbo impaurito piangeva e lui con le mani in tasca, dritto
davanti al banco, dondolando da un piede all’altro e senza sapere a che santo
votarsi. Il colloquio finì lì. Lei sconvolta corse via e nel corridoio per un po’
risuonarono i berci del bambino ed i suoi che esigevano la presenza del
direttore, del giudice di sorveglianza, di quelle canaglie dei ministri, della
vergine Maria.
Quando lo conobbi era un compagno dal fisico ancora forte e dal carattere
indomabile, anche se ormai si stancava molto anche solo a parlare e per
dormire non poteva fare a meno, la sera, delle due compresse di Valium 10 che
gli infermieri gli fornivano senza lesinare. Ne aveva ancora per quattro o cinque
anni. Non so più il suo nome ma rivedo quelle ore, quelle giornate seduti o a
camminare su e giù, a turno, nella cella.
Eravamo a Reggio Emilia, nel manicomio giudiziario dove mi avevano mandato
a fare la perizia psichiatrica richiesta dal Pubblico Ministero nella speranza di
trovare qualcosa a sostegno delle sue accuse e le prime notti nel buio sentivo le
urla di uno che ripeteva senza sosta “voglio morire, voglio morire”. Ogni tanto
qualcuno urlava di rimando “e ammazzati”. Al che la voce replicava rapida “col
cazzo”, prima di riattaccare con i “voglio morire”.
Parlavamo molto, di cose di cui dopo non ho mai più parlato. Come della libertà,
bene troppo prezioso per aspettarsi che nessuno te la regali. Bene che va
conquistato. E di conquistarla si trattava.
Qualche tempo dopo si presentò un’altra opportunità. Era un piano “sporco”,
con cattura di ostaggi fra i familiari in visita, durante l’ora di colloquio. Lo
stavano preparando dei fasci che avevano buoni contatti che gli avrebbero
passato delle pistole. Dissi di sì. Perché mai avrei fatto la spia, neppure per
denunciare un fascio. Ma non avrei neppure permesso che mettessero in
pericolo povera gente che non c’entrava per nulla. Ma non ci fu bisogno di atti
d’eroismo. Un giudice, diciamo che simpatizzante del loro movimento, convocò
in un ufficio del carcere i manovali destrorsi e li avvisò che il piano era andato a
monte e che se ne stessero zitti e buoni e che si fidassero di chi fuori lavorava
per loro. Altrimenti.
Se ne stettero zitti e buoni ma non perché si fidassero molto dei camerati di
fuori, piuttosto per l’altrimenti.
In carcere non smisi di “fare politica” con i criminali, i ladri, i terroristi, gli
autonomi, gli anarchici. Ed anche i secondini, i neri, i mafiosi. Ribelli, molti.
Arrabbiati altri. Che non hanno avuto paura a dire di no anche da soli. Certo, fra
i comuni pochi erano i rivoluzionari da partito. Anche se ce n’erano.
E si creavano organizzazioni o, come si diceva all’epoca, momenti di
aggregazione. Gruppi, circoli, cellule e comitati, collettivi, gruppi di studio.
Nel giudiziario ci riunivamo in sette: uno più o meno anarchico, due più o meno
di lotta continua, uno più o meno autonomo, e gli altri più o meno fra trotzkisti
ed ellemme. Non si dava molta importanza alle sigle, lì, la maggior parte si era
politicizzata
dentro
ed
era
incapace
di
cogliere
le
sottigliezze
che
frammentavano il mondo delle organizzazioni rivoluzionarie ed antagoniste.
E qui ci andrebbe un inciso perché c’era una cosa allora molto forte e diffusa ed
era proprio questo rendersi conto di essere classe, o almeno alleati di classe, di
gente da sempre vissuta ai margini della società e che si impegnava sul serio e
molti sarebbero stati utilizzati per fare quello che sapevano fare cioè rubare,
falsificare, rapinare, sparare non più per il proprio tornaconto ma per una causa
e ci credevano e scoprivano una nuova dignità e ammazzavano e si facevano
ammazzare per idee, per principi.
E dentro non c’erano quelle divisioni che poi avrebbero introdotto i signorini
intellettuali dell’autonomia creativa fra politici e comuni e le stesse brigate rosse
nei comitati di lotta stavano insieme a delinquenti di ogni risma purché non
fossero mafiosi o stupratori oppure ovviamente fascisti. Ma questo è un’altra
delle cose difficili da spiegare in un mondo che sa leggere ormai solo con le
lenti di categorie prefabbricate, fisse, immobili.
Insomma era politicamente indefinibile quel nostro pomposamente chiamato
collettivo. Nessuno era dentro per motivi politici. Nelle riunioni intorno ad un
caffè discutevamo di carcere, della sua natura, del modo di vincerlo. Niente di
che. Era solo un gruppo fra i tanti, senza nessuna pretesa d’avanguardia, né di
agit prop. Però la semplice consuetudine di trovarsi, di parlare faceva “gruppo”
e ogni volta che ci trovavamo in una cella o nell’altra il secondino dalle orecchie
più lunghe si appostava accanto alla porta o entrava con un pretesto qualsiasi.
Alcuni dei detenuti più giovani ci avvicinavano, un po’ per curiosità ed
inquietudine, un po’ per avere compagnia, e un po’ per trovare una difesa da
aggressioni e sopraffazioni da parte di clan o guappi vari.
E successe che, divenuti interlocutori organizzati, confrontandoci, dialogando,
discutendo, minacciando o non cedendo a minacce, successe che il clima in
quel pezzetto di inferno carcerario divenne meno pesante.
Certo non c’era la presenza massiccia di mafie e fascisti.
C’era un sardo di 19 anni, mingherlino, semianalfabeta, arrivato da poco con
un’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e di lesione aggravate e la testa
gonfia come un popone policromo... blu, nero, rosso, viola. In poche ore lo
avevano pestato prima i caramba per strada, poi la polizia in questura e, dulcis
in fundo, la squadretta del brigadiere gli aveva riservato un piccolo ricevimento
nel corridoio all’uscita della matricola.
Venne da noi un pomeriggio piagnucolando che il suo compagno di cella aveva
minacciato di sfregiarlo se non si faceva inculare. L’anarchico del gruppo,
baraccato romano, andò a parlare con il tipo che aveva poco più di venti anni,
ladruncolo che si scusò: il vino, la solitudine. La tristezza. Capisci, uno diventa
un animale, incapace di controllare gli impulsi.
Il nostro gruppetto cresceva, i nuovi arrivati, ancora sotto il trauma dell’arresto,
venivano subito non appena scoprivano che c’era uno spazio di gente normale.
La cella più grande dove dormivano 4 compagni era il posto di ritrovo. Si
prendeva un caffè, un goccio di vino, un infuso. C’era sempre qualcuno che
filava una sigaretta, giornalini o un boccone di qualcosa. Si ascoltava musica, si
parlava dei nostri problemi, scaricando angosce, dei nostri sogni. Delle paure e
delle illusioni. Accovacciati per terra, sulle brande, seduti sulle panche fra quelle
quattro pareti tappezzate di ritagli di giornali, di foto e di disegni appiccicati con
gomma da masticare e strappati regolarmente dalle guardie, ci eravamo
ritagliati una dimensione nostra.
Non durò molto.
Uno passò in tribunale dove lo condannarono a sette anni per furto. Il direttore,
il prete, il giudice di sorveglianza gli avevano garantito più volte che, se
l’avessero condannato, non sarebbe stato comunque trasferito, dato che in città
viveva sua madre, unica parente, malata per giunta e povera in canna.
Raccontò poi l’aiutante cuoco (il più sciatto e zozzo dei detenuti, dato che per
gli incarichi in cucina ed infermeria una spiccata attitudine al luridume sembra
che sia requisito indispensabile), che passava di lì, che avevano telefonato dal
tribunale e che quando il compagno era arrivato, schiavettoni ai polsi, c’era già
pronta una seconda scorta di carabinieri ad aspettarlo in matricola.
Firmò senza fiatare, sapendo cosa ci avrebbe guadagnato ad aprire la bocca, di
soldi non ne aveva, le sue cose, dissero, gliele avrebbero spedite; lo caricarono
sull’Alfa Romeo e via di corsa verso il sud. All’Ucciardone lo mandarono.
Non ne seppi più nulla. Era stato operaio, meridionale, compagno un po’
ingenuo, come molti allora. Era stato nel PCI per, come diceva, motivi tattici.
Per, criticando da dentro, cercare di salvare quello che sempre credi che resti di
rivoluzionario.
Ma il più grande partito d’occidente aveva troppi anticorpi per risultare
minimamente scalfito dall’azione di virus o batteri come il nostro ex compagno
di base.
Eravamo stati in molti del resto a cadere in questo errore. A credere che una
istituzione possa essere modificata con volontà, buon senso, lavoro tenace.
Che il partito fosse davvero uno strumento al servizio di un interesse superiore
e non un ente dotato di una logica, forza, istinto di sopravvivenza tutti suoi…
Un po’ come Harry, il computer di 2001 Odissea nello spazio.
In quegli anni il PCI stava sostenendo la sua ultima battaglia vittoriosa
impegnandosi a fondo per sconfiggere in nome della legalità democratica e
costituzionale il movimento degli anni settanta, cioè gli autonomi, i gruppi armati,
l’insurrezione che scaturiva qua e là. Il PCI, partito d’ordine, spezzò le reni alle
frange estremiste... di sinistra. Non ebbe lo stesso successo, ovvio, nei
confronti dell’eversione nera, dei protagonisti della stagione delle stragi di stato
a tutt’oggi impunite, degli ideatori e componenti della rete Gladio, della P2.
Centralismo democratico era la formula dell’organizzazione. Potevi dire, senza
esagerare, quello che volevi e poi fare quello che ti dicevano di fare. E ad
assicurare il centralismo c’era la casta dei funzionari. Giacca e cravatta o
maglioni a collo alto per le visite in fabbrica. Oscuri sacerdoti della
ristrutturazione, del controllo, capaci di trasformare scelte di bassa politica in
dogmi sacri ed inviolabili ed una cosca di professionisti dell’intrallazzo, di
manager e di tecnocrati in un olimpo di compagni pressoché infallibili; capaci di
tessere ragnatele di controllo su scuole, fabbriche, quartieri.
Il modello Orwell, o meglio modello “Fattoria degli animali” è il grande contributo
del Pici alla cultura politica generale di un’italietta che non si è mai scrollata di
dosso la nostalgia della mano dura e del grande capo.
In quegli anni sezioni e federazioni erano anche centri di informazioni, raccolta
ed elaborazione di dati utili alla “lotta al terrorismo”. Altra vecchia evocazione
stalinista, che dà sempre eccellenti risultati. Molti giovani di base erano in preda
ad eroici furori detectiveschi. Voci, sospetti, indizi vagliati, confrontati.
Compilazione di liste di ex militanti in odore di sinistrismo.
Lui, il nostro compagno finito all’Ucciardone, si era rifiutato di far parte di una
specie di volante che pattugliava punti sensibili, come prefetture, caserme,
tribunali.
Ci fu una discussione, scambio di insulti e di minacce. Lui strappò la tessera.
Nessuno lo seguì, anche se alcuni vecchi partigiani scuotevano il capo e giù in
strada gli dissero che aveva ragione.
Ma il partito non si toccava, contro il partito non si poteva andare. Bisognava
difendere il partito al di sopra di tutto, a qualsiasi costo. Anche a costo di
abbandonare o additare al nemico dei compagni che sbagliavano. Poi, qualche
tempo dopo quelli che del sacro partito tenevano le redini, lo liquidano,
smobilitano. Tutti a casa. La guerra di classe è finita. Buona parte del popolo di
sinistra allo sbando. Un quarto di secolo dopo stiamo ancora aspettando una
spiegazione.
Ma questa è un’altra storia e la racconteremo in un’altra occasione.
Lo trasferirono insomma ed il giorno seguente toccò a un altro. Un terzo lo
cambiarono di sezione.
Disperdevano il gruppo. Infine m’arrivò il turno.
Trasferimento verso non sapevo dove. Ma anche la prima volta in molti mesi
che sarei uscito dalle mura del carcere. Avrei lasciato i compagni. Mi avrebbero
allontanato dai miei. Ma avrei rivisto le strade, la gente, le case, la campagna.
Se non avessero deciso di portarmi in cellulare, cioè un furgone senza finestre
in cui stai rinchiuso tutto il viaggio e vedi solo le facce dei carabinieri di scorta.
C’era perfino chi veniva tradotto in treno, in vagoni speciali con finestrelle
sbarrate, come quelle dei carri bestiame.
Trasferimento non è semplicemente il passaggio da un carcere all’altro.
Quando sono corretti ti notificano il provvedimento il giorno prima, con la
destinazione da poter comunicare alla famiglia con un telegramma e la
possibilità di preparare le proprie cose. Ma c’è anche la possibilità che ti
prelevino senza preavviso, con quello che hai addosso senza sapere dove ti
portano, senza che nessuno lo sappia.
In
matricola
mi
aspettavano
puntuali
tre
carabinieri
in
amichevole
conversazione con il brigadiere di turno. Firma qui e qui. Mi dettero l’orologio. I
soldi invece alla scorta. E poi gli schiavettoni. Gli americani hanno le manette.
C’è chi preferisce legare con le corde. O chi utilizza le fascette di plastica da
elettricista, di quelle che stringono e ti si conficcano nella carne e per toglierle
vanno tagliate. O infine chi porta a morire gente con i pollici legati con un pezzo
di spago. In Italia, per le traduzioni usavano gli schiavettoni. Un pezzo di ferro a
forma di E che imprigiona i polsi con una sbarretta mobile regolabile per mezzo
di un ingegnoso sistema a vite. Tu infili una mano in un senso, l’altra nell’altro e
loro stringono e se non ne vuoi sapere o sei riottoso all’idea di farti vedere in
quelle condizioni in giro, ci pensano i ragazzi della scorta a convincerti, magari
con un coscienzioso lavorio ai fianchi ed allo stomaco. Va detto ad onore del
Vero e della Benemerita che su 20 occasioni circa m’è capitato una volta un
agente che, dopo aver serrato allo spasimo il marchingegno chiese “ti fa male?”
e, al mio diffidente “si”, allentò la morsa di qualche giro.
L’aggeggio è corredato da una catenella. All’altro capo c’è di solito un
carabiniere che può sostenerla mollemente o con crudele fermezza.
Sacchetto di plastica-bagaglio in mano ci avviammo in comitiva all’uscita. Nel
cortile esterno l’Alfa con l’autista già pronto al volante. Mi fecero entrare dietro,
nel mezzo, anche se a me piace di più stare dalla parte del finestrino. I due
militi non erano grassi ma non ci stavo comodo lo stesso. Si aprì il portone. Non
era come lo avevo immaginato. Le case, sì, e il traffico e i passanti e le ragazze.
Ma non c’era allegria. Non era il solito caro, noioso, conosciuto mondo.
Ai lati dell’autostrada sfilavano alberi e campi, colline e oliveti. C’era il sole, era
bello. Stavo male. I carabinieri parlottavano fra di se delle cose di cui parla la
gente, carabinieri compresi: pettegolezzi sui colleghi, le prodezze scolastiche
dei figli, la macchina nuova, il campionato di calcio, commenti sui giovani di
oggi tutti drogati e perdigiorno, la gente che non lavora. Senti chi parla, pensavo
io ma stavo zitto e facevo finta di non esistere perché forse quelli erano del
genere cinico professionista ma poi ci sono anche i sadici che si divertono a
provocare magari agitandoti sotto il naso, salvo poi a lamentarsi ed a ricevere
funerali di Stato quando qualcuno riesce a soffiargliela, la pistola; ed anche i
bonaccioni che fra uno scherzo, una battuta ed un incoraggiamento si
intrufolano nei fatti tuoi e poi te li ritrovi a testimoniare in tribunale che il
massacro di Valpisello l’hai fatto te o che sei il complice del mostro di Firenze,
insomma il silenzio è d’oro.
Fermata in una stazione di servizio. Per pisciare tutti e quattro. Avevano
pensato anche a me. O al sedile dell’alfetta. Comunque carini. Scesero tutti, io,
per ultimo al guinzaglio. C’era gente in giro. Mi piace la gente. Mi piaceva
parlare con gli sconosciuti per strada, scambiare sguardi e sorrisi con le
ragazze. Il bar era pieno, al passaggio della nostra comitiva molti si fecero sulla
porta. Come una sfilata di quelle che facevano i circhi quando arrivavano in un
paese, con gli elefanti in fila indiana, quelli dietro che tengono con la proboscide
la coda di quelli davanti. Io imbarazzato, quelli in divisa acceleravano il passo.
Un omaccione con la faccia da sensale di suini chiese all’appuntato “che ha
fatto?”. E chiedimelo a me che ho fatto faccia a culo! Mi strattonarono. Davanti
alla tazza del water mi arrangiai con le mani legate, prova tu a orinare con un
poliziotto che tiene la catena dall’altra parte della porta socchiusa. All’uscita
c’era più gente. Una donna disse “ma è ancora un ragazzino”. Le donne sono
sempre più portate a commuoversi. C’erano bambini fra chi stava a guardare ed
avrei dovuto dire ai genitori che certi spettacoli meglio non farglieli vedere. Mi
guardavano incuriositi ed io li guardavo incuriosito. Se mi ero aspettato
solidarietà, simpatia, calore umano, o anche indignazione per il fatto di vedere
un essere umano in catene, mi ero sbagliato. Per fortuna però non c’era
neanche quell’entusiasmo popolare che accompagnava al patibolo i condannati
in epoca giacobina, con lancio di sputi ed ortaggi vari.
Solo una coppia di vecchietti seduti in una sala d’aspetto di un ospedale dove
ero stato portato, per ferita o malattia, mi lanciò una volta un “coraggio figliolo” .
Il resto del viaggio filò via veloce, entrai nella nuova prigione e mi sottoposi
come in trance alle formalità: registri, perquisizione minuziosa, cancelli che si
aprivano e richiudevano con un tonfo. Mi confiscarono tutti i libri.
Nella cella dormitorio non ero l’unico appena arrivato. C’era molto movimento
nelle prigioni.
Finita l’epoca delle bande Bonnot o dei ladri gentiluomini dicevano e dicono. Il
delinquente è un egotico. Psicopatici. Lumpen massa di manovra del potere.
Gente incapace di solidarietà. Antirivoluzionari.
Sarà. Ma io ricordo assemblee. Discussioni. C’erano i documenti con le firme
che facevano un cerchio perché nessuno era il primo e tutti erano uguali
davanti alla rappresaglia. E rivolte.
Quasi sempre le lotte si estendevano a ondate. Cominciavano in qualche
grande giudiziario e poi si allargavano ai penitenziari.
La repressione aiutava. Dopo una rivolta i più facinorosi o a volte la maggior
parte dei detenuti erano deportati. Ed ogni deportato poteva essere la scintilla
che appiccava la rivolta dove arrivava. Succedeva infatti che invece di
intimorirsi e rinunciare a qualsiasi protesta al vedere come erano conciati, a
volte nemmeno in grado di parlare, i nuovi arrivati, che odio e sdegno
prevalessero. E che il coraggio degli altri stimolasse il proprio.
Si rivendicavano miglioramenti delle condizioni di vita. Un vitto più decente,
qualche ora d’aria in più,
un po’ di riscaldamento. Creazione di luoghi di
riunione, apertura di raggi e di sezione. Più colloqui, diritto a ricevere pacchi,
stampa alternativa, lettere senza censura, poter usare il telefono. E
allontanamento di torturatori, eliminazione del sistema di rappresaglie. Amnistia.
Fuori si gridavano gli slogan “il carcere non si riforma, si distrugge” o “il
comunismo, una società senza galere”.
Arrivò a Mammone. Quarta tappa in un mese. Tutto era cominciato a Venezia.
Avevano spaccato tutto e i celerini per entrare si erano dovuti fare un culo così.
Con le bombolette di gas avvolte in stracci e giornali incendiati avevano bucato
il soffitto e su dal tetto bombardato con le tegole gli agenti che cercavano di
sfondare i cancelli. Avevano sfasciato con metodo porte, letti, finestre, cessi,
lavandini. Tutto. Con metodo perché si trattava di rendere inagibile il carcere.
Ma alla fine nelle camerate i gas lacrimogeni si potevano tagliare col coltello. E
continuavano a tirare candelotti. Era impossibile respirare. Quelli sul tetto
vennero costretti a rientrare perché ormai dal cortile e dal muro di cinta
sparavano. E alla fine gli antisommossa riuscirono a sfondare. Entrarono e
sembravano drogati. Le maschere, gli scudi, i moschetti che sputavano
candelotti a bruciapelo. Colpirono uno in pieno stomaco e subito ebbe uno
sbocco di sangue. Entravano cella per cella e tutto era grida, frastuono, gemiti.
In una trovarono un gigante in attesa di giudizio perché, dicevano, aveva
affondato un motoscafo della guardia di finanza tirando un masso dall’alto del
ponte che sovrastava il canale. C’entrarono in quattro e ne uscirono uno dopo
l’altro ridotti male. Allora gli riempirono la cella di lacrimogeni e lo fecero uscire
a urli sotto la minaccia dei mitra. Sapeva che gli avrebbero sparato. Lo
ammanettarono, lo fecero inginocchiare e lo massacrarono coi calci dei fucili.
I celerini avevano bevuto e si accanivano sui prigionieri arresi, legati. Svenuti.
Troppo malridotti per tenersi in piedi. Poi se ne andarono. Ed entrarono le
guardie e ricominciarono il pestaggio.
Lui era un ragazzone alto e forte. Biondo e con gli occhi chiari e da quel giorno
aveva cominciato a balbettare. Mostrava i segni delle botte. Le cicatrici su tutto
il corpo. Li avevano trasferiti tutti. Lui era arrivato lì in Sardegna dopo un viaggio
di due giorni senza mangiare. I suoi, come molti altri, non seppero per due
settimane dov’era stato portato. Nonostante le visite al carcere, alla procura.
Quando arrivarono erano le dieci di sera e li portarono dal direttore. Un
rinomato boia che li fece mettere tutti sull’attenti. Per il discorsetto. Che
dovevano cacciarsi bene in testa che lì non erano tollerate proteste di nessun
genere. Che gli unici diritti di cui avrebbero goduto dipendevano dal loro
comportamento e dalla buona volontà dei superiori. Che con lui i piantagrane
non duravano molto. Là intorno c’era il mare ed era facile evadere e sparire.
Dico bene maresciallo? Risatine.
Li mandarono alle celle di punizione. Chiesero di poter scrivere a casa per far
sapere alle famiglie che almeno erano vivi. Il sottufficiale disse di no. Loro
rifiutarono il rancio.
Dopo nemmeno mezz’ora un manipolo di guardie grosse come armadi e armate
di bastoni irruppe nella cella. Loro dissero va bene d’accordo mangiamo subito.
Li bastonarono e li lasciarono lì, lui svenuto, fra zuppa, sangue, vomito, orina.
Repressione. Rappresaglie. Ritorsioni giuridiche. Non erano pochi quelli che,
entrati per condanne irrisorie, si erano ritrovati a passare mezza vita in galera.
L’Alberto lo avevano trasferito alle Murate, il giudiziario di Firenze, per un
processo ed era arrivato poche ore prima che scoppiasse il casino. Non aveva
la più pallida idea di quello che stava succedendo e quindi chiese al secondino
di chiuderlo a chiave e cominciò a disfare il fagotto e ad ordinare per benino le
sue cose nello stipetto. Mentre si faceva il letto sentì l’odore acre dei gas e le
urla e il frastuono. Prima entrarono i gas. Piangeva e tossiva quando aprirono la
porta e si trovò davanti tre o quattro antisommossa con i soliti caschi e i
manganelli e qualche catena. Cercò di spiegare che lui non c’entrava, che era
appena arrivato, che chiedessero al superiore. Poi si rannicchiò sotto i colpi
coprendosi il capo con le mani. Gli ruppero due dita.
Il giorno dopo con la camicia nuova comprata per l’occasione – particolare
strappacuore ma rigorosamente vero – dalla madre, camicia adesso a brandelli
e insanguinata, le labbra spaccate e gonfie, un occhio tumefatto e chiuso,
braccia e spalle doloranti e coperte di lividi, mano fasciata, si presentò in
tribunale a regolare i conti che aveva in sospeso con la giustizia.
Cercò di dire che cosa era successo e come mai arrivava in quelle condizioni.
Chiese di poter denunciare i maltrattamenti. Il presidente del tribunale tagliò
corto. Non si trattava di questioni pertinenti alla causa in esame. Aggiunse che,
se voleva, poteva inoltrare una denuncia presso le autorità competenti.
L’Alberto lasciò perdere, come fanno quasi tutti, sapendo che a insistere ci
avrebbe guadagnato solo altre botte, un trasferimento e magari una condanna
per ingiurie o falsa denuncia.
Raccontava piano, esitante. Un vecchio avrei detto allora, di una settantina
d’anni. Pietro si chiamava. Una figura macilenta insaccata alla meglio in un
pigiama. Era capitato in mezzo alla rivolta di Parma, credo. Non era stata
neanche una vera e propria rivolta. Una protesta. Avevano rotto l’indispensabile
per barricare i cancelli e poter salire sui tetti. I celerini rimediarono al loro arrivo.
Razziarono tutto quello che poteva avere un minimo valore: radioline,
mangianastri, accendini, sigarette, francobolli. Il resto lo fecero
a pezzi.
Strappavano le foto delle famiglie, perché quelle cattiverie che fanno gli orchi
delle fiabe ci sono orchi che le fanno davvero. Rompevano le cornici di cartone.
Gli oggetti costruiti con pazienza certosina volarono in pezzi. Ammassarono in
mezzo a un corridoio tutti i cocci e pezzi di vetro che trovarono per formare una
specie di tappeto e si schierarono in fila ai due lati. Fecero passare tutti i
detenuti in mezzo. Colpivano alla testa, alle gambe, allo stomaco. Urlavano e
ridevano. Se qualcuno cadeva gli saltavano addosso con calci, pugni, i calci dei
fucili, sbarre di ferro e bottiglie rotte. Fecero passare tutti. Anche gli anziani.
Anche uno che era stato operato da poco allo stomaco. Gli si ruppero i punti e
strillava come una bestia al macello. Sangue dappertutto. Urla dappertutto.
Quelli che non volevano scendere dai piani superiori li buttavano giù per le
scale e li trascinavano fra i vetri, i rottami. Diceva il vecchio che lui aveva visto
la guerra, aveva visto immagini atroci, che aveva sperato che con la fine del
fascismo e del nazismo non fossero più possibili certe cose. Che non capiva
che razza di odio poteva spingere qualcuno a comportarsi così.
Domanda sbagliata. Non è odio quello che muove una muta di cani a fare a
pezzi la preda.
E a pezzi facevano. Ad Alessandria un nucleo di carabinieri comandati dal
generale Dalla Chiesa assaltò il raggio in cui si erano barricati tre detenuti con
degli ostaggi. Sette morti. Dissero che uno dei detenuti aveva ucciso un
ostaggio, una insegnante, e che per questo il generale aveva ordinato l’assalto.
Con il tempo scoprì che non era vero che “l’unica guardia buona è la guardia
morta”. Dopo di noi, i reclusi, erano la categoria più numerosa fra i frequentatori
del carcere. Avevano uniformi grige allora. E non erano tutti uguali. C’erano i
giovani, i vecchi, i lavativi, gli zelanti, i torturatori, i contestatori, i camorristi, i
sadici, gli apostolici, i corrotti, i diplomatici, i duri, i rassegnati. Moltissimi
meridionali. Molti quasi analfabeti. Ignoranza stupefacente fino al grado di
brigadiere. Figli di contadini che avevano preferito il disonore di quel mestiere
alla durezza della terra.
In genere la massima aspirazione della guardia carceraria era quella di evitare
le grane. Tirare a campare. Imparando le regole di convivenza e rispettandole,
omertà compresa. I primi ad insegnarmi le norme di sopravvivenza in carcere
furono due appuntati, durante l’isolamento. Tieniti in disparte. Non parlare
troppo. Rispetta e fatti rispettare. Non fare commenti. Non guardare fisso la
gente. Tieni i capelli corti e non portare catene al collo. Quando vedi una rissa
chiuditi in cella. Non vedere e non sentire nulla che non debba essere visto o
sentito.
I duri erano una minoranza. Divisa fra incorruttibili ligi al dovere e sadici
picchiatori.
Carmelo era un ragazzo moro, poco più di venti anni. Piccolino e gli occhi chiari.
Sorrideva sempre, timido. Aveva paura dei colleghi, dei superiori, dei detenuti.
Si scusava sottovoce quando gli ordinavano di perquisire una cella o un
detenuto prima del colloquio. Ogni tanto ci parlavo di politica. Ascoltava attento,
la fronte corrugata, concentrato. Poi mi diceva che era d’accordo.
Per spiegargli la logica di chi aveva scelto la via della lotta armata, che lui
diceva di non capire (“ma come si fa ad ammazzare uno che neanche conosci,
che magari c’ha famiglia?”) gli ricordai la notte in cui avevano cercato di
evadere i quattro rapinatori. Lo avevo visto con gli altri sul muro di cinta col
mitra. Gli chiesi che avrebbe fatto se io, che apprezzava e che in un certo
senso considerava amico, avessi tentato di scavalcare il muro e gli avessero
ordinato di sparare. Disse che non voleva pensarci nemmeno. Io insistetti. Alla
fine disse che avrebbe chiuso gli occhi e sparato perché doveva.
“Per loro è lo stesso”, gli dissi.
I suoi colleghi lo consideravano un po’ scemo. Ma anche con loro cercavamo di
fare un po’ di sensibilizzazione. Lavoro politico, lo chiamavamo. Non è che
rifiutassero di ascoltare o respingessero i nostri argomenti. Non li capivano.
Erano fatalisti e per loro l’ingiustizia era un male, non necessario forse, ma
sicuramente inevitabile.
Passacantando era più anziano. Aveva sempre il berretto di traverso e il passo
strascicato che lo portava da una sedia all’altra, da un pisolino all’altro. La sua
frase più gettonata: “fate quello che vi pare ma lasciatemi in pace”.
Il Baiocchi invece era un brigadiere preciso sputato a Mike Buongiorno,
personaggio della prima era televisiva che iniziava e concludeva sempre le sue
trasmissioni con un indicibilmente scemo quanto entusiastico “allegria, allegria!”.
Sempre sorridente, incoraggiava, distribuiva pacche sulle spalle, gli mancava
solo appunto l’”allegria allegria” ad ogni apparizione.
Il Nola invece aveva un unico argomento che gli stava a cuore e con cui era
capace d’intrattenere per ore chiunque si prestasse ad ascoltarlo: la pensione.
D’altra parte non negava un favore a nessuno e non si rifiutava mai di fare da
portapacchi da una cella all’altra durante le ore di chiusa.
Vitaliano era un pugliese che biascicava a stento qualche frase in italiano, un
bestione che per scherzo menava manate che incrinavano le costole,
sanzionato in diversi penitenziari per i traffici che organizzava dappertutto,
come vendere coltelli o bottiglie di liquore o qualsiasi altra cosa che gli
permettesse di arrotondare lo stipendio. Ma a parte questo lato imprenditoriale
del suo carattere anche lui era per il vivi e lascia vivere.
Però c’erano anche i duri, i sadici. Un brigadiere napoletano, originario di
Forcella, uno romano, fra gli altri. Portamento, espressioni da SS. Il primo arrivò
seguito dalle informazioni di radio carcere: era un torturatore, aveva diretto
massacri. A Firenze, alle Murate aveva ordinato di sparare contro i rivoltosi che
erano saliti, naturalmente disarmati, sul tetto.
Le guardie sul muro di cinta, con i mitra, parlavano e ridevano. Uno si accese
una sigaretta, fece un paio di tiri e poi la posò sul muretto. Prese la mira con
cura e sparò. Una, due raffiche. Un altro fece partire una sventagliata alta.
Cambiarono i caricatori. Scambiarono qualche battuta, schiacciarono i
mozziconi sul parapetto. E ricominciarono a sparare. Ci furono un morto e
dodici feriti da arma da fuoco secondo le fonti ufficiali.
Non si fece mai vedere in sezione senza una scorta adeguata. Diverse volte mi
convocò nel suo ufficio. Mi squadrava un momento senza dir nulla e poi mi
lasciava lì in piedi, mezz’ora, a volte anche di più, senza prestarmi la minima
attenzione. Altre volte mi osservava tamburellando le dita e mi interrogava. Su
di me, la mia causa, i miei rapporti con gli altri detenuti, sugli altri detenuti. Poi
magari, prima di congedarmi, mi comunicava che il direttore aveva accettato la
mia “supplica” per un colloquio straordinario.
Il Barbi, toscano lui, era più stalinista, gli piaceva citare articoli del regolamento
quando ti comunicava che aveva respinto, rimandato indietro, a volte come a te
sgradito, il pacco di un amico, un libro regalo dei tuoi. Godeva leggendo davanti
a me ad alta voce le lettere in arrivo. Con gli altri il divertimento consisteva nel
correggere gli errori di ortografia, le espressioni dialettali delle mogli, dei genitori,
delle fidanzate. Gioiva quando poteva aprire un pacco e sbriciolare le torte fatte
in casa, sezionare la frutta. Era il re delle pomiciate, ne ordinava per ogni
sciocchezza e se trovava qualcosa di non previsto dal regolamento, anche se
era un oggettino senza importanza che ti avevano dato al colloquio con il
permesso della guardia, ti faceva rapporto, ti mandava alle celle, ti sospendeva
le visite.
La durezza di un carcere dipendeva anche e soprattutto dalla percentuale di
aguzzini fra le guardie. In quelli più duri abbondavano i provocatori.
Al manicomio criminale ce n’era uno che sbraitava, ogni volta che passavano
per la conta, che la mia stanza era un porcile. Che dovevo alzarmi quando
entravano. Che dovevo mettermi sull’attenti e salutare. Gli altri ridacchiavano.
Doveva essere il loro modo di svagarsi un po’. Io stavo zitto. Lo trovai da solo,
in un corridoio, una volta che tornavo da un colloquio con l’avvocato. Era di
turno e gli toccava aprirmi la porta della cella. Misera soddisfazione vederlo
sbiancare mentre gli battevo una mano sulla spalla e gli sussurravo che cosa
pensava di fare ora che eravamo da soli, a quattr’occhi. Poi lo spinsi da parte,
entrai e feci scorrere il chiavistello da dentro.
Ce n’era un altro che quando toccava a lui il turno per i colloqui gongolava
come un affamato invitato a un banchetto nuziale. Mentre aspettavamo fuori
erano frecciatine, pesanti allusioni alle doti fisiche di mogli o sorelle. Insulti. Ci
rideva in faccia, contento come una pasqua mentre ci palpava.
Dopo il colloquio ci accoglieva a urlacci, maledicendoci e promettendo a tutti
punizioni per aver infranto non si sapeva bene quali regole.
Il giorno del mio compleanno. Uno dei tristi compleanni trascorsi “al fresco”.
Avevo dovuto fare la domandina per ottenere il ricambio di pantaloni e camicia.
Ti davano un modulo su cui era già stampato “Prego la S.V. Illustrissima di...” e
tu la compilavi con la “supplica”. In quel caso supplicavo che mi restituissero i
pantaloni e la camicia confiscati all’arrivo dal precedente carcere, dato che
quelli che indossavo da un mese e mezzo erano già un po’ sporchi e sgualciti e
che i pantaloni erano pure strappati e che non potevo ricucirli dato che aghi e
filo erano severamente proibiti. I miei genitori e mia sorella sarebbero venuti a
fare un colloquio che avevano ottenuto dopo molte visite ed attese in procura
perché era il mio compleanno. E loro ci tenevano.
E così mi ritrovai ad aspettare il mio turno, in cella, con i vestiti puliti. Finalmente
vennero ad aprire. Colloquio. Attraversai i corridoi quasi di corsa. E quasi
sbattei contro il boia. Con il fiatone gli dissi che ero stato chiamato. Non stavo
nella pelle dall’ansia di rivedere i miei. Non farli aspettare ancora. Lui, più lento
del solito, palpò schiena, fianchi, sotto le ascelle, petto, stomaco, le gambe
dalle caviglie al culo. Non per nulla la chiamano pomiciata. Mi frugò fra i capelli.
Mi fece togliere le scarpe. Controvoglia mi fece infine cenno che potevo
passare. Lo stanzone era quasi del tutto pieno. In mezzo al fumo e al rumore
vidi i miei rincantucciati in un angolo. Si alzarono e da sopra il bancone ci
stringemmo le mani. Gli avevano concesso di portare il dolce in sala e lì era, sul
tavolaccio, ridotto in briciole. La mamma lo offrì agli altri. Tutti accettarono,
ringraziarono. Non c’erano candeline, ovvio. Né lo spumante. Né l’allegria. Fu
un colloquio corto. Prima di andarsene il babbo e la mamma mi si
aggrapparono al collo da sopra il bancone. Mia sorella mi abbracciò e mi dette
un piccolo rosario di legno. Non eravamo religiosi né io né lei ma glielo aveva
dato una persona cara per me. Lo mostrai alla guardia che paterna ci diceva
“su su andiamo” e che mi rispose “tienilo pure”. Uscii nel corridoio con il groppo
alla gola. Adesso erano in tre a perquisire. Aspettai il mio turno. Quando avevo
alzato le braccia mi urlarono di tirare fuori quello che mi avevano dato. Subito.
Di farglielo vedere. Mostrai il rosario. Ma non mi ascoltavano. Sentii arrivare
due pugni sui reni. Stetti fermo. Ero forte ed agile. E rabbioso. Sarebbe stata
una bella rissa. Fuori. Non lì. M’insultarono. Spintonarono. Minacciarono.
Tacevo. Non mi proteggevo. Le mani dietro la schiena. Mi fecero spogliare.
Esaminarono ogni indumento. Strapparono perfino gli orli. Non trovarono nulla.
Frenetici palpavano ogni cosa. Io, nudo in piedi sul pavimento, tremavo di
freddo. Zitto. Passò un brigadiere e chiese che stava succedendo. Gli risposero
che mia sorella mi aveva passato una cosa al termine del colloquio. Gli dissi del
rosario. Gli dissi che potevano farmi una radiografia o sbudellarmi, che non
avevo nient’altro. Ordinò che mi rivestissi e che mi riaccompagnassero in cella.
È questo tipo di angherie che spesso fa andar fuori di testa e succedono cose
come la storia dell’ergastolano che aveva ricevuto in dono chissà da chi un
topolino bianco. Gli dava da mangiare, gli aveva fatto una casetta di cartone, lo
teneva libero e quello gli andava dietro quando camminava su e giù per la cella.
Lo prendeva in mano. Ci parlava. Un giorno entrarono a fare una perquisizione,
una di routine. Non scappava nessuno di lì e lui era ormai un vecchio. Ma gli
buttarono lo stesso le cose per terra, gli sfecero il letto meticolosamente lisciato.
Quando la perquisa finì e lui poté rientrare in cella trovò in un angolo il topolino
schiacciato, una poltiglia di sangue. Ripulì. Cominciò ad uscire un po’ di più nel
corridoio, in cortile. A scambiare qualche parola con quello e quell’altro. Finché
non seppe chi aveva schiacciato il topolino. E un giorno che quel secondino
entrò per la conta l’uccise colpendolo con il bugliolo finché non gli schiacciò il
cranio e le altre guardie non riuscirono a trattenerlo e solo quando fu sicuro che
fosse ben morto si lasciò trascinare via. Quando il giudice lo interrogò rispose
“aveva ucciso mio figlio”.
Era accaduto anni prima, non molti, in uno di quei penali che chiamavano
ergastoli dove la gente si ammalava e si ammala di tubercolosi e quasi tutti i
detenuti hanno lunghe, lunghissime condanne o una vita da scontare, lontani da
ogni cosa, con i pensieri ridotti alla sigaretta al bicchiere di vino, all’ultimo
colloquio con un parente con cui non hanno più nulla da dirsi, al pranzo del
prossimo natale o a quello dell’anno scorso. Dimenticati da tutti. Dimenticati
perfino dal prete, dall’assistente sociale, dalle Damine di San Vicenzo. Gli altri
personaggi della galleria di quadri della prigione.
Dei preti ce n’era uno che visitava regolarmente le celle dopo una
perquisizione o un pestaggio a spiegare alle vittime che non dovevano
dimenticare che i cattivi erano loro e che si meritavano inferni molto peggiori e
che l’unica, benché remota, speranza di salvezza consisteva nel pentimento,
nella sottomissione, nell’obbedienza. Spesso l’infelice destinatario del sermone
preferiva un supplemento di botte o di isolamento e lo buttava fuori a calci o a
bestemmie.
Un altro era un menefreghista, diceva la sua messa e non rispondeva mai alle
richieste, che voleva solo per iscritto, di colloquio.
Il meno peggio della categoria fu un francescano che venne come supplente al
giudiziario. Parlava del più o del meno, ci portava libri, aiutava in piccole cose
come far passare lettere all’esterno e messaggi confidenziali. Comunque anche
con lui tutti i salmi, è il caso di dirlo, finivano in gloria. E giù con i “figliolo abbi
pazienza e fede in Dio”, “rassegnazione, figliolo, rassegnazione”.
Le damine di San Vincenzo avevano, rispetto ai preti, la candida ingenuità del
dilettante. La più vecchietta, un po’ curva, minuta, voleva sempre entrare in
sezione a salutarci di persona. Portava qualche dolciume, riviste. Parlava con i
più disgraziati, chiedeva informazioni sulla posizione processuale di ognuno. E
diceva, circondata da braccia tatuate, facce irsute e sfregiate “oh i miei ragazzi!
Quanto mi piacerebbe vedervi fuori di qui... E come vi trattano? Bene vero? Eh
si, anche loro, le guardie, sono brave persone... Per me siete tutti dei bravi
ragazzi che hanno avuto sfortuna, ecco, questo io dico alle mie amiche... e
prego per voi sapete? Prego per voi continuamente”.
Portò un giorno una cesta di rosari che distribuì a tutti e dopo averne spiegato il
modo d’impiego a quelli che se li stavano appendendo al collo o decorandoci le
inferriate, chiese se sapevamo come mantenerli sempre lucidi. Il “Topo”, dopo
qualche istante di imbarazzato silenzio, suggerì sfoderando il suo miglior sorriso
di provare a strofinarli bene col Sidol. Gli altri scoppiarono a ridere. E chi ce
l’avrebbe dato il Sidol? Il maresciallo non faceva passare neanche la colla e le
vernici per i modellini, figurarsi il Sidol! Poi la vecchina spiegò che perché un
rosario fosse sempre bello brillante bisognava usarlo, cioè pregare parecchio.
Freddezza in platea. Andava meglio quando distribuiva cioccolate. Un po’
scadenti ma a molti piacevano.
Di assistenti sociali ne ho vista una, una volta. Compilai la domandina, confesso,
più che altro per vedere da vicino una donna. Dicevano che era giovane e
belloccia. Con un po’ di fortuna ne avrei potuto ricavare un po’ di simpatia, un
sorriso. Una delusione. Non alzò quasi gli occhi dai fascicoli che aveva davanti.
Mi ascoltò un po’. E poi mi interruppe per dirmi che la miglior cosa che avrei
potuto fare era andare alle lavorazioni. Le lavorazioni erano un laboratorio dove
per quattro soldi te ne stavi sei o sette ore al giorno a montare interruttori che
poi venivano venduti a non so quale società. Visto che il costo della mano
d’opera era praticamente zero e che gli impianti ce li metteva lo Stato qualcuno
doveva guadagnarci parecchio con quegli interruttori. Non c’erano pause. Ti
sorvegliavano da vicino. E anche gli altri detenuti premevano perché tu
producessi di più. C’era gente che non aveva nessuno o, peggio, gente da
mantenere fuori e aveva un disperato bisogno di quella miseria.
C’ero stato: file di banconi e in catena ci passavamo i pezzi. Io dovevo
incastrare un mucchietto di affari di plastica uno ad uno nella scatoletta che mi
passava quello in piedi accanto a me, che a sua volta lo riceveva da un altro
che lo tirava fuori da uno scatolone. Ad ogni passaggio io educatamente dicevo
grazie al collega che alla fine mi disse anche un po’ brusco che la smettessi di
ringraziarlo, che gli stavo dando sui nervi. Smisi. Poi quando vidi quello che
pagavano smisi anche di lavorare. Il mix di repressione e sfruttamento alla
cinese era troppo.
L’assistente sociale mi disse che se non davo prova di buona volontà, tornando
alle lavorazioni, ben difficilmente avrebbe potuto dire una parola in mio favore al
giudice di sorveglianza e questo in futuro avrebbe avuto conseguenze sui
permessi, sul certificato di buona condotta. C’aveva il discorso pronto però a
me di tutte quelle cose lì non me ne poteva fregare di meno. Mica pensavo di
restarci, in galera. E lì finì il colloquio. Chissà quanto la pagava la ditta
appaltatrice?
C’è molta gente sì, che gironzola per il carcere. Responsabili o capataz delle
lavorazioni. Avvocati. Insegnanti. Educatori sociali. Poi, nei posti più aperti o
con i direttori più progressisti, ci sono le attività con gente esterna e le ONG e si
fa teatro e concerti e radio e conferenze. Io mai viste cose del genere. E
nemmeno mai visto un giudice di sorveglianza. Mai visto uno. Tutti si
chiedevano come faceva a sorvegliare uno che non lo vedevi mai. Ma forse la
sorveglianza si riferiva a noi, i detenuti e, visto che erano già in tanti a
sorvegliare, lui delegava. Mah?
E infine gli psichiatri, psicologi, insomma gli “psisgherri” che si danno da fare
per reinserire, recuperare, neutralizzare il coatto - deviante per mezzo di
tecniche meno truculente di quelle tradizionali. E forse più efficaci.
Una sera d’estate, ad una festa in un’isola del Mediterraneo avrei conosciuto
uno psichiatra tedesco che aveva “lavorato” a Stammheim. Dopo un po’ non ce
l’aveva fatta più e si era ritirato dal programma e dalla professione, a vivere
lontano dal suo paese. In quel carcere di massima sicurezza, ideato per
annientare i membri della RAF avevano perfezionato, sistematizzato le tecniche
di deprivazione sensoria utilizzate fino ad allora come complemento alla tortura
fisica. E già studiate dagli inglesi in Long H contro prigionieri dell’IRA. Cubicoli
piccoli, pareti, soffitto, tutto bianco. Niente finestre. Nessuna visibilità sul fuori.
Luce accesa 24 ore al giorno. Nessun contatto con altre persone. Silenzio. Né
radio, né libri, né televisione, né oggetti personali. L’occhio di una telecamera
sempre addosso. La chiamarono tortura bianca. Squadre di psicologi e
psichiatri monitoravano il processo di destrutturazione dei prigionieri. Ne
registravano meticolosamente l’insorgere degli stati confusionali, la perdita di
orientamento, le angosce, le crisi depressive.
Preziosi studi che sarebbero stati poi applicati in numerosi penitenziari e bracci
speciali in tutta Europa.
Gli psichiatri che conobbi io però non erano così à la page. Erano di quelli che
tramortivano a pasticche o ricettavano lettini di contenzione.
Sfoglio un fascicolo. Un vecchio quaderno con ritagli di giornale ingialliti incollati
accuratamente, meticolosamente da un capostazione che cercava così di lenire
l’angoscia.
Un volto giovane. Il mio. Di 30 anni fa. Scorro gli articoli, i titoli, i sottotitoli, ma
poi mi stanco. Ormai non ci vedo più granché bene. Non mi si rigira lo stomaco
al leggere le oscenità, le idiozie, la mia vita di ragazzo messa in piazza
snaturata deformata grottesca. Irriconoscibile. Come scrivono male questi
cronisti e come il loro stile meschino riesce ad immiserire la realtà, a renderla
inesorabilmente sordida!
Un titolo però mi fa sobbalzare: “Un’altra evasione facile”
La conta era passata da poco. Avevano aperto, battuto i ferri e i muri. Gli
scopini avevano portato il caffelatte, cioè quella brodaglia che chiamavano
caffelatte ma che comunque era calda, cioè quasi sempre era calda e le porte
erano aperte. Non mi alzai, stringendo gli occhi, cercai di riprendere il sogno
interrotto da luci e rumori. Magari era un bel sogno. Un altro giorno che
cominciava. Non c’era fretta. Qualche libro, la radio, le fantasticherie, le quattro
chiacchiere mentre si andava su e giù per il corridoio o il cortile. Stretta allo
stomaco.
L’Anselmo entrò con gli occhi spiritati, le spalle insaccate nel solito maglione
troppo grande e sformato. Sembrava portare grandi notizie. Si guardò intorno
circospetto. Lo guardai interrogativo, tirandomi le coperte su fino al mento.
Faceva freddo. Si sedette sulla sponda del letto fremendo: ce l’abbiamo. Disse.
Ce l’abbiamo il che? Gli risposi. Il seghetto, avevamo il seghetto, di là, nella sua
cella. Con quattro lame di ricambio. No? Si! Mi alzai e vestii. Chi la sentiva
l’umidità fredda dei pantaloni e della maglia? Preparai la macchinetta del caffè.
Mi aveva chiesto una settimana prima se ci sarei stato ad un’evasione.
Saremmo stati in tre. Ero sotto processo e risposi che avrei aspettato la
sentenza. Adesso il processo era finito. Mi avevano condannato e non avevo
nessuna intenzione di restare. Facevo bene. Ero al giudiziario e lì sarei dovuto
rimanere fino al processo di appello, a Firenze. Ma il mio PM non era del parere
e mi aveva già preparato un trasferimento a Porto Azzurro. Il suo personale
modo per vendicarsi di non essere riuscito a farmi dare l’ergastolo. A 21 anni e
incensurato a Porto Azzurro. Figlio di un cane.
C’era un terzo e sarebbe stato un fascio. Storsi il naso ma l’Anselmo mi disse
che il seghetto era suo. Che glielo aveva filato un secondino simpatizzante,
perché se la svignassero i camerati. Ma lui dei camerati non si fidava e si era
rivolto a lui, prigioniero comune. Immaginai i titoli dei giornali. Ma chi se ne
fregava, a quel punto avrei sottoscritto qualsiasi patto, anche col diavolo pur di
uscire di lì. Però il fascio doveva far credere al secondino complice che
aspettava il momento più adatto per scappare con i suoi. Fra un paio di
settimane, forse.
Insomma si partiva. Ma le cose andavano fatte bene. Il piano era di tagliare le
inferriate in una delle nostre celle al piano terra. Quella dell’Anselmo, che era la
meno frequentata. Poi dovevamo scalare il muro di cinta. Di solito non ci
facevano la ronda. Meno ancora in pieno inverno. Però dovevamo controllare.
Dal muro di cinta saltare in un campo sportivo e poi via. Una macchina ad
aspettarci. Doveva esserci una macchina ad aspettarci.
Facevamo il palo a turno mentre l’Anselmo segava l’inferriata. Ci mise tre giorni.
Durante la chiusa e prima della conta coprivamo i tagli con dello stucco
ammorbidito ricavato dai finestroni del raggio e sopra ci spolveravamo della
ruggine.
Le guardie avevano subodorato qualcosa. Chissà, forse quella del seghetto non
era stata l’iniziativa isolata di un agente fascisteggiante. Battevano le inferriate
più accuratamente del solito. Con delle mazze controllavano anche le pareti.
Fecero una perquisa a fondo nella mia cella. Era l’ultimo giorno. Avevo un
pezzo di seghetto. Riuscii a nasconderlo nella manica prima di uscire sul
corridoio. Poi, mentre entravano e prima che mi perquisissero, riuscii a infilarlo
nello stipite di una cella vuota. Sperando che non arrivasse nessun nuovo.
La sera del terzo giorno, all’ora di apertura per la televisione la via era aperta,
mi bisbigliò l’Anselmo sedendosi accanto nell’ultima panca. Dopo un po’ ci
ritrovammo nella sua cella. La porta spalancata
per non dare nell’occhio.
Un normale scambio di chiacchiere. Ripasso generale: c’era la corda, la
classica corda ricavata da un lenzuolo strappato a strisce ed annodato, ne
avevo assicurato un capo a un gancio, fabbricato con un pezzo di stipetto.
Avevamo qualche soldo, fatto passare durante i colloqui. Francobolli da
barattare in caso di bisogno.
Bisognava partire subito. Chiamai un ragazzo romano, pugile della Garbatella,
come si definiva orgoglioso. Gli dissi che ce ne andavamo. Che avevamo
bisogno di qualcuno che tirasse per le lunghe e deviasse dalla cella del buco
l’attenzione di secondini e curiosi. Non batté ciglio. “Non darti pensiero” mi disse
e mi salutò stringendomi il braccio.
L’ultima conta era verso le undici, forse più tardi. Se tutto andava bene c’erano
due o tre ore di tempo prima dell’allarme. Dovevamo essere già lontani. In
pochi minuti confezionammo ognuno il nostro bagaglio.
Un sacchetto di
plastica. Dentro indumenti di ricambio. Pepe macinato. Per i cani. Una
fotografia, qualche lettera.
Franco, il fascista, era il più nervoso. Chiudemmo la porta. Una ripassata veloce
al “materiale”. Fuori pioveva. Nelle torrette non c’era nessuno. Le sbarre erano
tenute su con del nastro adesivo. Le tirammo via aprendo un quadratino sulla
grata. Era piccolo. Toccava a me uscire per primo. Mi ci buttai a capofitto. Non
ci passavo. Rientrai e provai di nuovo tirando fuori un braccio e la testa mentre
gli altri saltellavano dietro bestemmiando sottovoce. Rimasi incastrato. Mi
tirarono dentro di nuovo e l’Anselmo mi disse di provare con le gambe in avanti.
Lo feci, aggrappandomi alla parte superiore dell’inferriata. Fu facile. Scivolai
fuori fra il vento e l’acqua. Sensazione di pioggia fredda sul viso. Una sferzata
di vita. Da dentro mi passarono la corda arrotolata ed i sacchetti. Pochi passi ed
arrivai sotto il muro di cinta. Non c’era nessuno. Nessuno sul muro, nessuno
fuori, nessuno alle finestre. C’erano i riflettori ma bastava stare nelle zone
d’ombra. Al secondo lancio l’uncino si incastrò fra i ferri della ringhiera. Mentre
gli altri due uscivano mi arrampicai aggrapato alle strisce di lenzuolo. Teneva.
Arrivato in cima vidi che non aveva fatto presa l’uncino ma un nodo della corda.
L’assicurai meglio. Gli altri due arrivarono, sagome scure nel buio. I loro
sacchetti di plastica stretti fra i denti. Ricordai una scena dei “Soliti ignoti” e
cominciai a ridacchiare. L’Anselmo venne su agile nonostante i suoi quaranta
anni. Franco invece non ce la faceva e dovemmo issarlo a braccia.
Piegati in due percorremmo il muro fino alla zona da cui dovevamo saltare. Sul
vicolo sottostante non passava nessuno. Ripiazzammo la corda. In fondo era
un bel salto. Stavolta scese prima l’Anselmo. Poi il nero e quando stava per
arrivare in fondo i suoi 90 chili ruppero la corda. Soffro e soffrivo di vertigini.
Arrivai fino all’ultimo lembo della corda. Mi lasciai spenzolare un momento e poi
saltai.
L’asfalto era bagnato e le scarpe di gomma scivolarono via. Di colpo era tutto
un dolore che saliva su dall’osso sacro. Mi si mozzò il fiato e non ce la facevo
ad alzarmi. Mi aiutarono a girarmi. Ripresi a respirare. Poi mi tirai su. Sentivo le
gambe strane. Cominciammo a camminare. In fondo al vicolo ci trovammo
faccia a faccia con un ometto con un ombrello, guinzaglio e cane che ci
osservava. A quanto pare aveva seguito con interesse tutta la scena.
Ci disse buonasera e fece un gesto di saluto con la mano che sosteneva il
guinzaglio. Gli sfilammo davanti mormorando saluti. E cominciammo a correre.
Qualche occhiata al carcere, sempre silenzioso. Né grida, né spari, né sirene.
Faceva strano vederne da fuori la mole scura. Arrivammo al punto previsto per
l’appuntamento. La macchina non c’era.
Gli altri due non se la presero bene. Io ripiegai subito sul piano B: la ferrovia. Ci
sganciammo da Franco. Ognuno per conto suo. Si sarebbe costituito il giorno
dopo. Dopo fu uno dei pochi estremisti di destra a subire condanne pesanti, che
scontò in penitenziari duri.
C’incamminammo con Anselmo a passo normale verso la stazione. C’erano
vagoni merci e vagoni passeggeri sui binari morti. Salimmo su. Per asciugarci
un po’ e riordinare le idee. Era un convoglio lungo e passammo da un vagone
deserto all’altro avvicinandoci ai marciapiedi della stazione. Spargemmo lungo i
corridoi, al nostro passaggio, il pepe macinato.
Arrivò un treno passeggeri. Andava verso il sud. Avremmo preferito l’altra
direzione ma c’era poco da scegliere. Quando stava per ripartire saltammo giù
e salimmo di corsa sull’ultimo vagone.
Era un accelerato. Il controllore uno giovane. Contrattammo il prezzo del
biglietto fino ad Orte, capolinea. Dando fondo ai pochi soldi ed ai francobolli.
Beh stava per cominciare l’epoca in cui in Italia erano scomparsi gli spiccioli e ti
davano per resto gomme da masticare, caramelle, mini assegni emessi da
banche, casse di risparmio ed istituti di credito di ogni tipo e, naturalmente,
francobolli. E cosi quello mercanteggiò un po’ ma poi ci dette il biglietto. Ci
sedemmo in uno scompartimento. Passò un ragazzo e buttò dentro un’occhiata
distratta. Tornò indietro e aprì la porta. Era uno del mio paese. “To’, non lo
sapevo che ti avessero lasciato andare”. Mi disse. “Veramente non mi hanno
lasciato andare”, risposi.
Non eravamo proprio amici. Era più giovane di me. Mi dette i quattro soldi che
aveva addosso e voleva darmi anche il cappotto, ma i suoi gli avrebbero fatto
un sacco di domande e di storie. Non erano una famiglia ricca. Non aprì la
bocca con nessuno. Né quella notte né mai. Lo ringraziai.
Arrivammo ad Orte. Lì barattammo il resto dei francobolli con una corsa in taxi
che ci avvicinasse a Roma. Dovevano essere passate un paio d’ore. Era l’ora
della chiusa. Scattava l’allarme. Conta e riconta gliene mancavano tre. Alla fine
scoprirono il buco, ci misero un po’ perché l’Anselmo aveva rimesso a posto le
sbarre da fuori e si resero conto di come eravamo usciti solo quando si misero
a sbattere tutte le celle. Si scatenò il solito casino. Guardie sul muro. Al freddo e
al gelo. Guardie nel recinto, riflettori impazziti, luci di lampade, torce, lampadine,
fotoelettriche. Il direttore urlava impazzito. Da contrappunto fuori gli ululati delle
sirene di pantere, gazzelle. Su tutte quella del carcere.
Subito dappertutto piazzarono posti di blocco. Intorno al quartiere. Alle porte
della
città.
Sulle
strade
ad
anelli
concentrici.
Avvisi
alle
stazioni.
Sguinzagliarono un sacco di cani. Carabinieri e polizia. Per giorni in battuta
nelle campagne intorno. Cani lupo bagnati seguiti da poliziotti infangati ed
imprecanti.
Andarono a casa delle famiglie, degli amici. Minacciarono di sfondare la porta
della casa dei miei, gridando “aprite polizia”, fuori era tutto un lampeggio di luci
multicolori e sfoggio di armi. Aprì mio padre, in ciabatte e pigiama. Gli
puntarono sul petto due pistole. Due amici di mia sorella che erano nel salotto
buono a farle compagnia furono messi in ginocchio coi mitra puntati in testa.
Urlavano tutti che dicessero dov’ero. Mia madre, in camera cercò di spiegare
che non sapevano nulla. Ma quelli non l’ascoltavano. E allora in silenzio aspettò
che finissero di buttare tutto all’aria. Un’altra volta. E chiuse la porta in silenzio
dietro il questore che andandosene le ricordava che doveva avvisarli nel caso in
cui avessero saputo dov’ero. Non disse niente.
La Flora aveva gli occhi chiari, il sorriso dolce, la voce pacata. Ascoltava tutti,
sempre, con attenzione. Era la più piccola di quattro sorelle, figlie di un
capostazione, nata fra le due guerre in un’epoca in cui morire giovani era facile.
E vide morire la sorella maggiore, la Laura. Anni dopo, molti anni dopo, quando
la ricordava, quando ricordava gli anni da ragazza, da “citta” nelle visite
settimanali della zia Renata, piangeva ma erano lacrime che sapevano di
vicinanza e di assenza. Sfida umile ma caparbia alla realtà.
Suo padre, il nonno Tito, era un capostazione di ferrovie locali. Trasferito in
Veneto si era portato dietro moglie e figlie e poi era tornato in Casentino. Era
una persona mite che ricordo poco: morì di un tumore che io ero bambino. Poco
dopo lo seguì la moglie, la nonna Gina. Erano brave persone, gente tollerante
con quel senso dell’umore toscano che riveste la realtà, anche la peggiore, di
amabile ironia e che non scade mai nel sarcasmo, anch’esso assai esteso in
Toscana.
Capo rispettato e non temuto della sua stazioncina ai piedi della montagna,
durante l’occupazione tedesca nascondeva nei vagoni armi per i partigiani. Era
una zona di frontiera quella. Finita la guerra avrebbe rifiutato ogni onorificenza
per non “discutere” con la figlia maggiore, giovane fascista idealista e rimasta
nostalgica per il resto dei suoi giorni.
Avevano un cane da caccia, Febo, protagonista di un racconto che la Flora
mandò, noi bambini, unica concessione alle sue velleità letterarie, ad una rivista
femminile per un concorso. Che vinse. Il premio era una polaroid, meraviglia
tecnologica dell’epoca.
Avevano perso Febo nel corso di un bombardamento alleato sul paesino, nella
confusione dello sfollamento. E lo avevano ritrovato, ridotto ad uno scheletro,
un anno dopo che si aggirava fra le rovine della stazione che era stata la loro
casa.
Tutti gli abitanti del villaggio si rifugiarono nei boschi delle montagne della zona.
Mesi e mesi di dura sopravvivenza evitando bombardamenti e i rastrellamenti
dei tedeschi. Adulti vecchi donne e bambini. Freddo, paura, fame e sete. La
Flora era sempre stata schizzinosa, sin da piccolina. Gli altri bevevano l’acqua
delle gore che trovavano ma lei non voleva saperne ed allora suo padre si
allontanava e di nascosto la faceva bollire e la filtrava con un fazzoletto e gliela
portava dicendo di aver trovato una sorgente.
Ma nei suoi racconti sofferenze e patimenti erano solo uno sfondo sfumato di
quadretti di umanità intensa. Come la “matta Fringuelli”, così la chiamavano,
ragazza madre figlia di una famiglia bene del posto e il fatto di essere ragazza
madre era allora prova sufficiente di insanità mentale. Portava a cavalcioni il
bambino durante gli spostamenti del gruppo. Una lunga fila di borghesi,
impiegati, operai, manovali con le famiglie e le quattro cose che erano riusciti a
portarsi dietro in valige e fagotti, arrancando su per viottoli e sentieri, fra boschi
di castagni ed abetaie. Una sera la ragazza scivolò in un passaggio difficile
sulla sponda di un ruscello e cadde con il bimbo. Che rimase a terra, forse
svenuto, forse semplicemente addormentato. Lei si rialzò, lo guardò e disse
“To’ l’è morto” e si rimise in cammino. Gli altri, anche loro stanchi allo sfinimento
raccolsero il bambino e la seguirono.
Avevano un cavallo nel gruppo e la Flora che ha sempre amato gli animali e
piante ci si affezionò. Un giorno arrivarono al loro accampamento dei partigiani.
Dissero che il cavallo andava domato e per domarlo lo legarono con un nodo
scorsoio. L’animale si strangolò e già che c’erano lo macellarono e lo
mangiarono. Brutta cosa la fame. Ma alla Flora la cosa non andò giù e forse per
questo ricordava che quando se ne andarono lasciarono nascoste delle armi
accanto a loro. Se i tedeschi le avessero trovate sarebbe stata la morte per tutti
gli uomini e magari anche per le donne e i bambini. Erano in terra di nessuno,
un nessuno che non aveva scrupoli né pietà.
Ma non c’era mai odio nei suoi racconti. Un miracolo, me ne sarei accorto più
tardi, in una terra dove le SS massacravano intere popolazioni buttando bombe
a mano nelle chiese dopo averci rinchiuso la gente. In cui gli alleati
bombardavano e mitragliavano la popolazione civile in volo radente, in cui le
camice nere impiccavano comunisti o presunti tali o li bruciavano vivi. In cui dei
partigiani avevano sepolto in vita due diciassettenni piangenti arruolati, questo
si, volontari nelle truppe di Salò.
Evitava lo scontro ma se era inevitabile non chinava il capo ed era decisa.
Contro l’omertà corporativa dei suoi colleghi maestri prese un giorno la difesa di
una povera cittarella compagna di classe di mia sorella. Era una bimba border
line si direbbe oggi, di una famiglia povera in canna. Non era brava a scuola.
Grassottella, con il grembiulino sempre macchiato d’unto ed il fiocco rosa fatto
alla meno peggio, di sghimbescio. La maestra, una donna segaligna inacidita
ed incattivita dagli anni, la maltrattava. Non i soliti urlacci o punizioni che erano
in uso all’epoca. Le sue erano vere torture: la strattonava, l’insultava
umiliandola davanti a tutte le altre bambine, obbligandola a restare in ginocchio
per ore, l’irrideva per le treccine sporche, per la faccia paffuta che spesso
schiaffeggiava con rabbia, la picchiava col righello sulle mani, la schiena, la
testa. Non ricordo come si chiamava quella poveretta, solo quella faccia tonda
sempre impaurita. Tutti sapevano e tutti tacevano. I genitori erano gente
semplice che credevano che la figlia si meritasse botte e rimproveri e che non si
sognavano nemmeno di opporsi a quella persecuzione.
Non so bene come andò, eravamo piccoli anche noi. La Flora non denunciò la
maestra seviziatrice. Lei che non era una cattolica granché praticante e che
andava in chiesa più che altro per concessione rassegnata ai codici di
comportamento sociale, applicava invece con fermezza certi principi evangelici
come quello del “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Non la denunciò
ma si dette da fare per strapparle quella creatura dalle mani. Propose di
prendere la bambina nella propria classe e davanti alla riluttanza di direzione e
consiglio minacciò. E la spuntò.
Prima che mi arrestassero le assegnarono una scuola in una frazione poco
lontano da casa, una classe con bambini dalla prima alla quinta. Ci andava in
macchina, aveva preso apposta la patente: mio padre metteva in moto la
millecento di terza mano, lei ingranava la prima, poi la seconda ed a scossoni
imboccava il viale. Percorreva i dieci chilometri in seconda e quando arrivava
spegneva il motore e lasciava la macchina davanti alla scuola. Al ritorno uno dei
padri dei suoi alunni girava la macchina e lei ripartiva. Quando andava bene
rifaceva i dieci chilometri in seconda fino alla porta di casa, spegneva il motore
e scendeva. Se invece trovava il passaggio a livello chiuso erano guai e spesso
il babbo o un manovale dovevano andare a recuperare macchina e maestra.
Ero andato a trovarla a scuola. C’era un silenzio tranquillo: i bambini chini sui
libri, lei che passava fra i banchi mormorando, ascoltando. All’uscita parlava
tranquilla con madri preoccupate e convinte di avere figli capoccioni buoni solo
per il lavoro dei campi.
Quando lasciarono il paese ottenne un trasferimento in città. Poco dopo ci fu il
sequestro di Aldo Moro. In tutte le scuole d’Italia una circolare impose la lettura
di un comunicato di condanna del terrorismo e delle Brigate Rosse. Solo una
manciata di maestri e di professori ebbero il coraggio di opporsi a questa
manifestazione di regime. Alcuni ci rimisero il posto. Lei fu uno di quei pochi e al
posto del comunicato lesse dei brani del Vangelo sul perdono, la parabola della
pagliuzza sull’occhio altrui. Il preside la chiamò, i genitori le dettero il loro
appoggio nonostante l’isterica caccia alle streghe dilagante. Agì così perché
aveva un figlio in galera, un criminale in famiglia? Forse si, ma già anni prima,
convocata a far parte di una giuria popolare si era rifiutata di andarci. “chi sono
io per giudicare un altro essere umano?” ci disse.
Alla terza perquisizione, mi dicono, sputò in faccia al questore. Per lei che
aveva in orrore gli sputi, che le provocavano autentico ribrezzo, fu senza dubbio
la massima espressione di disprezzo, disgusto, sfida.
Anche il babbo era stato sfollato, anche lui in montagna. I suoi erano ricordi un
po’ diversi, forse perché era un uomo anche se ragazzo ed i suoi non si erano
curati più di tanto di proteggerlo dalla vista degli orrori della guerra. Erano
ricordi da incubo. E gli incubi lo visitarono tutta la vita. Immagini di campi minati,
di uomini impiccati col filo spinato, di campi di battaglia cosparsi di morti. Un
soldato tedesco e un nero americano infilzati a vicenda con le loro baionette.
Era sfuggito alla coscrizione dei repubblichini perché era già capostazione e
aveva un fratello prigioniero in India, combattente ufficiale a El Alamein,
scampato nemmeno lui sapeva come a giorni di bombardamento ininterrotto.
Uno della manciata di sopravvissuti prima alle bombe e poi a dissenteria, alla
malaria, agli stenti del campo di prigionia. Non avevo un buon rapporto con
questo zio, alto funzionario del ministero dei Trasporti, però quando ero in
isolamento fu lui a farmi avere le sigarette. Sapeva per esperienza che i piccoli
diversivi, i gesti ritualizzati ti aiutano a sopravvivere.
Anche il gruppo di profughi in cui si trovava la famiglia del babbo si muoveva in
terra di nessuno, fra le incursioni dei guastatori tedeschi, delle camicie nere ed
i raid alleati. Finché una bomba a frammentazione colpì sua sorella. Ventenne
pianista dal viso grazioso incorniciato di riccioli ramati. Una scheggia le sezionò
la spina dorsale. Lo mandarono a cercare aiuto verso il fronte tedesco, quello
più vicino ma un drappello di soldati in ritirata lo prese. Non capivano una
parola d’italiano e si accinsero a fucilarlo. Quando lo raccontava noi lo
prendevamo in giro immaginandolo a scavarsi la fossa con la meticolosità che
lo caratterizzava. Lo salvarono per il rotto della cuffia mia nonna, matrona
napoletana che impensierita per il ritardo era andata a cercarlo e un ufficiale
austriaco che masticava un po’ della lingua.
Intrapresero allora una marcia penosa trasportando la ferita in una lettiga fatta
di rami fino a raggiungere le linee alleate. L’accolsero in un ospedale da campo
medici ed infermieri indiani che li trattarono con umanità e lenirono il dolore
della ragazza con morfina. Per mio padre gli indiani sarebbero stati per sempre
quella gente dalla pelle scura e dai sorrisi grandi che permisero a sua sorella di
non morire come un cane.
Amici e conoscenti, ex compagni di prigionia, furono portati, col cappotto o
un giubbone buttato sulle spalle, in commissariato. Interrogati, minacciati.
Qualche schiaffo. Così non trovano mai nessuno. Ma lo fanno.
Anche a chi era rimasto in carcere la fecero pagare. Interrogatori, meno visite,
meno pacchi, meno aria, meno tutto. Poi costruirono torrette nuove sul muro di
cinta. Chiuse, coi vetri blindati e, immagino, col riscaldamento.
Non ho mai corso come quella notte.
La galera infiacchisce. La vista si
abbassa. La pelle diventa biancastra e insana. Perdi il fiato. Metti su pancia o
dimagrisci, come me, che da settanta ero sceso a meno di sessanta chili. Ma
quella notte correvo leggero sotto la pioggia, nel freddo. L’Anselmo dietro
reggeva. Corremmo per tutta la notte. Sulle traversine, lungo la massicciata. Al
passaggio di un treno ci nascondevamo fra i cannicci o ci buttavamo a terra
dietro un pilone, un rialzo di terra. Evitammo un posto di blocco dei carabinieri,
piazzato in una curva della statale vicinissimo ai binari. Li vedevo. Sentivo le
voci. Si muovevano fra le luci lampeggianti con i mitra imbracciati.
Avanzavamo nel buio ed ai lati scivolavano lenti i campi. Le ombre degli alberi.
Le case ancora immerse nel sonno. Con qualche luce accesa qua e là.
Immaginavo le grandi cucine, i focolari. Uomini taciturni seduti a tavoli di legno
con tazze di caffelatte bollente davanti. Pane inzuppato dentro. La prima
sigaretta accesa sulla soglia. Il bavero rialzato nell’aria frizzante dell’aurora.
Corremmo fino a giorno. Non avevamo quasi parlato. Quando sei braccato
ridiventi animale e ti funziona l’istinto più della ragione e la parola serve a poco.
Avevamo paura, freddo. Eravamo stanchi oltre lo sfinimento. E non volevamo
che ci prendessero. Eravamo evasi. Ci inseguivano. Dovevamo correre.
Correre più di loro. Correre e basta.
Il cielo si era fatto chiaro. Avevamo lasciato indietro il temporale. Le macchie, le
ombre indistinte e inquietanti diventavano alberi, cespugli, capanne. Sulle
colline e sui prati emergevano i colori dell’erba, dei boschi. Aspiravo l’odore
della terra. L’aria fredda che pungeva i polmoni. Ero vivo e libero. E volevo
restarlo.
In un paese salimmo su di una corriera di pendolari. Non avevamo soldi e non
pagammo. Non eravamo gli unici. Erano cominciate le autoriduzioni. Ed erano
migliaia, centinaia di migliaia, forse milioni quelli che si riducevano le bollette
della luce, gli affitti, il telefono, che facevano le spese proletarie, che
occupavano spazi. Era tanta la gente che aveva spostato dalla fabbrica alla vita
quotidiana la lotta per il salario. Si rivendicava anche la gratuità dei trasporti
pubblici. Che li paghino i padroni, tanto servono per portarci a farci sfruttare.
E infatti la corriera era piena di operai e impiegati, le facce assonnate, la borsa
sdrucita col panino o il pentolino a chiusura ermetica.
Entrammo in città. Nelle toilette di un bar ci cambiammo con gli indumenti puliti
dei sacchetti e ci rassettammo un po’. Tirammo su un giornale da un cestino. La
notizia dell’evasione era in quarta pagina. Ci restai un po’ male. Ero anch’io un
coatto e fra i coatti ci sono quelli che fanno le rapine invece dei furti, a rischio di
dieci anni in più di carcere, solo per avere un trafiletto sul giornale col proprio
nome.
Bussammo a diverse porte. Cercando di vendere quel poco che avevamo.
Informazioni, notizie, esperienze. Raccattammo qualche soldo. Poi telefonate
tirando le fila di una ragnatela di contatti. Finché non trovai una compagna di un
collettivo di lotta. Colpo di fulmine. Era bella. Io avevo il fascino del ribelle
fuggiasco. Fascino della rabbia, della voglia di vivere. Ci accolse. Ma non
poteva durare.
I nostri nomi scomparvero dai giornali. Erano cessati i rastrellamenti nei posti
dove potevamo esserci nascosti. Ma le indagini si allargavano e prima o poi
sarebbero arrivati all’appartamentino di un quarto piano di un quartiere popolare
romano.
Mi disse che c’era un suo parente, insospettabile. Che sarei potuto stare a casa
sua finché le acque non si fossero calmate. L’uomo viveva da solo. Aveva una
camera. Non sarei dovuto uscire di casa. E non c’era posto per Anselmo.
L’Anselmo che a ogni condanna ripeteva “questi qui ci hanno preso per
pappagalli”. No. Lui mi disse di non fare lo stupido, che se la sarebbe cavata da
solo. Che era meglio dividerci. Mi sentì traditore ed infame quando lo vidi
andarsene per la strada, le spalle incassate. Si costituì una settimana dopo.
Non aveva trovato nessuno che l’aiutasse ed era solo questione di tempo che lo
riprendessero, senza documenti, senza soldi, senza un buco dove rifugiarsi.
Solo. D’inverno.
Una stanza alla periferia della città. Vista sui casermoni. Poche luci natalizie.
L’appartamentino era un bilocale e passavo le giornate alla televisione a
mangiare a divorare i libri che trovavo. L’uomo che mi nascondeva era sempre
fuori a lavorare, aveva quaranta, forse cinquant’anni taciturno e, mi chiarì
subito, un nostalgico, cioè fascista mussoliniano. Anche mia zia lo era sempre
stata, non ne rimasi sconvolto. Era un romantico quell’uomo, del duce ricordava
gli occhi magnetici secondo lui visti una volta e il timbro della voce e le parole
gonfie di idee che sembravano grandi e le ovazioni, le folle oceaniche e poi la
sconfitta il tradimento l’obbrobrio e per alcuni la persecuzione. E non era
romantico solo per quello. L’altra storia però non me la raccontò lui. Aveva un
amore, un grande amore d’adolescente cresciuto con gli anni per una ragazza,
poi una donna che finì per sposarne un altro più ricco, potente. Ma lui non
cambiò e le restò fedele e dedicò tutta la sua vita ad esserle amico, aiutante,
confidente, solo per starle accanto.
Venne un giorno la compagna. Mi dette una busta e un borsello di pelle. Lo aprii,
dentro c’erano soldi e dei gioielli. Nella busta una lettera. Quattro parole
d’amore e incoraggiamento dei miei genitori. Era andata a trovarli. Era molta la
gente che lo faceva. Amici miei, della famiglia. La polizia non poteva controllarli
tutti. Era entrata in camera di mia madre. Mia madre malata. Angosciata. Il
pensiero fisso su immagini di me braccato, inseguito, magari morto o
agonizzante in un fosso, una baracca, in un bosco. Le disse che ero vivo e al
sicuro. Lei si era alzata di scatto e aveva tirato fuori da un cassetto dei soldi e
qualche gioia. Disse che li aveva messi da parte aspettando questo momento.
L’abbracciò, la ringraziò, la benedì. Le dette un recapito dove avrei potuto
scrivere. Un altro complice al di fuori di ogni sospetto. Rimasi un mese nascosto
in casa di Alberto, chiamiamolo così. Poi, quando non ne potei più di stare al
chiuso a leggere, ascoltare la radio, guardare la strada dalla finestra, decisi di
non abusare oltre dell’ospitalità. Avevo dei soldi, non avevo documenti ma mi
sarei arrangiato.
Uscii e affittai una camera. Prima da una coppia di anziani commercianti della
zona della Piramide. Poi in casa di una famiglia della Garbatella. Strinsi
amicizia con una delle figlie, bruna e sorridente popolana, giovanissima e già
sposata con un bambino. Legammo troppo e alla fine me ne dovetti andare.
In quei pochi mesi frequentai ambienti dell’Università, assemblee di quartiere.
C’era lotta. C’era vita a Roma quell’anno. Speranza. Nei quartieri si
organizzavano le autoriduzioni, i presidi contro i tagli della luce, gli sgomberi. Si
occupavano caseggiati, rioni interi accoglievano la polizia con battaglie campali.
C’erano i raid fascisti. Le cariche dei celerini, i pestaggi. Fiorivano i collettivi, le
radio libere, i muri parlavano, cantavano, urlavano. Circolavano giornali,
volantini. Le librerie erano vulcani di idee con centinaia, migliaia di titoli portatori
di teorie, esperienze, sogni di rivoluzione. Le manifestazioni senza paura. Con
centinaia di compagni armati di caschi, molotov, spranghe e anche qualche
pistola. Che dopo poco avrebbero cominciato ad usare. Me ne stavo in disparte
alle assemblee dell’università, durante i cortei. Partecipai a qualche scontro da
spontaneo. Rischiando di farmi beccare dalla polizia come autonomo e dai
manifestanti come provocatore.
Mi contattò gente di un gruppo. Reclutatori di un gruppo armato. Rifiutai di
arruolarmi. Vollero comunque mantenere il contatto e mi offrirono documenti.
All’ultimo appuntamento venne una ragazza. Avevo Cien años de soledad in
mano, e passeggiavo fingendomi turista in un angolo di Piazza San Pietro.
Sbrigativa, mi disse che niente documenti e che stessi attento perché la polizia
l’aveva seguita.
Non tornai nemmeno nella mia cameretta d’affitto e andai alla stazione, dopo
aver fatto un po’ di salite e discese da autobus, entrate ed uscite da grandi
magazzini, da chiese. Tutto quello che avevo di valore lo portavo addosso: i
soldi e i gioielli che non avevo venduto in un borsetto. Forse fu quel borsetto
che mi salvò dall’arresto. Forse pensarono che ero armato.
Presi un treno, stavolta verso il nord. Cambiai a Firenze. Poi non so dove.
Arrivai a Trieste. Seppi poi che mi tallonarono fin lì. Bravi: non mi accorsi di
nulla. Ma poi a Trieste mi persero di vista. Quello che mi seguiva doveva essere
stanco e assonnato, come me, forse più di me.
Non ero mai stato a Trieste. Veramente ero stato in ben pochi posti. Prima dei
diciannove anni la gente del mio paese viaggiava poco, al massimo emigrava.
Nemmeno i figli dei ferrovieri, che eppure avevano i biglietti gratis per tutta
l’Italia.
Al banco di un bar un ragazzo leggeva Lotta Continua. Alto, moro, robusto. Mi
sedetti accanto, ordinai un caffè e gli dissi se sapeva di qualche posto dove
dormire. Rispose che c’era la casa dello studente. Che era stata occupata e
che potevamo sistemare una brandina nella camera di qualcuno del suo
collettivo.
Una casa dello studente occupata non mi sembrava il massimo della sicurezza.
Comunque avevo poco da scegliere, una notte, due, poi avrei cercato una
stanza.
Mi ci accompagnò. Mi presentò i compagni, le compagne. Chiese dove c’era
posto. Sistemarono la brandina, che era una di quelle militari pieghevoli
requisita chissà dove, nella stanza che un friulano grande e grosso divideva con
un turco mingherlino. Il “turcheto” appunto lo chiamavano, praticamente l’unico
straniero dell’università. Dissi che andavo a prendere i bagagli e in un
supermercato mi rifornii di quattro ricambi e una borsa, spazzolino da denti,
dentifricio, rasoi. In una cartoleria comprai una penna e un quaderno. In una
libreria un paio di volumi. Ecco.
La stanza era piena di piante che il friulano curava con amore, orgoglioso del
suo pollice verde. Era tutto un viavai di visite durante la giornata, di notte. Come
in carcere, con la differenza che qui non c’era pericolo di buscarsi una
bottigliata per una rissa o una faida e che c’erano ragazze. Belle, bellissime
alcune. Sorridenti, con le loro voci dolci, i corpi ed i gesti soavi. L’odore fresco.
Ci stavo bene. La mensa non costava nulla e dopo quella del carcere sembrava
alta cucina. Mi sentivo circondato da una comunità accogliente, amica. Le
giornate passavano fra volantinaggi, letture, discussioni interminabili, riunioni,
cene, bevute. Nottate a parlare di tutto. Della vita, dei sogni, delle utopie, delle
contraddizioni, delle lacerazioni. Il personale era politico e si mescolavano le
idee, i proclami, i pensieri, le letture e le confidenze, le storie, le passioni ed
emozioni. Ed io cominciai a mentire.
Cioè ad inventarmi una storia. Un passato fabbricato, risposta dietro risposta,
con pezzetti di verità deformate e piccole invenzioni. A cominciar dal nome. Ero
Alessio in quei giorni.
La provenienza, cioè la riposta al “di dove sei?” era un problema perché io
conoscevo ben poco al di fuori della mia cittadina e non potevo mica rischiare di
trovarmi qualcuno che, se a domanda rispondevo che ero di Pisa, mi dicesse,
“ah, bello quel posto” o “c’è ancora quel bar?” e io senza averlo mai visto ... Mi
andò bene come primo banco di prova della nuova identità perché c’era tanta
gente curiosa ma non ficcanaso e non rischiavo, anche se mi avessero
smascherato, di vedermi arrivare la polizia in camera. Erano tempi in cui la
delazione era sempre e comunque una cosa brutta.
In quel per me enorme edificio alveare c’era rappresentato tutto l’arco
dell’estrema sinistra. Perfino l’anarchico individualista, uno studente di
matematica che passava le ore chiuso in camera o in biblioteca a calcolare,
matematicamente appunto, i tempi necessari per la rivoluzione. O il ricercato
delle brigate rosse, rinchiuso giorno e notte in camera di una compagna ma che
usciva di soppiatto ogni tanto a scrivere sui muri frasi inneggianti alla lotta
armata.
M’era toccato e mi stava anche bene un collettivo m-l. Mi piacevano le riunioni,
le discussioni. Ero preparato, “sapevo la lingua”. Ero buono anche per i picchetti
e i presidi. Un occhio ai fascisti, uno ai poliziotti, uno agli agenti in borghese e
sempre pronto a scattar via. Coi compagni la vedevamo un po’ diversa rispetto
agli anarchici e ci fu un piccolo scazzo quando mi opposi nettamente a caricare
col servizio d’ordine contro uno spezzone che voleva partecipare a un corteo
con le bandiere nere e le A dentro il circolo. Mi erano simpatici gli anarchici:
sognatori e idealisti, anche se con zero senso pratico. Io almeno li vedevo così.
Chiaro che non ne conoscevo praticamente nessuno. Erano funghi rari nella
mia rossa zona.
A me piaceva ascoltare Guccini. In carcere cantavo la Locomotiva, stonando
quando attaccavo a pieni polmoni “illuminava l’aria la fiaccola dell’anarchia”. Lì
alla casa dello studente c’era un compagno che suonava la chitarra e la
cantavamo in coro e allora saltava su il “commissario politico” e diceva “ma
smettetela con queste cazzate” e giù discussioni. D’altra parte mi era simpatico
anche lui, il commissario politico, soprattutto da quando aveva preso a schiaffi
sulla porta della facoltà uno di Comunione e Liberazione perché gli aveva detto
che i soldi per i volantini glieli aveva dati il KGB.
“Si, ma tu gli avevi chiesto prima se i suoi volantini li aveva pagati la CIA”, gli
ricordava la sua ragazza, una mora alta e decisa che lo aveva trascinato via per
un braccio.
“Che c’entra”, si difendeva lui, “il suo era un insulto e la mia un’analisi politica...”
Nel frattempo aveva cominciato a funzionare la ragnatela di sostegno e
complicità che sola può permettere la sopravvivenza di un fuorilegge. I
fiancheggiatori, diceva la stampa. Chi non li ha è perduto. Cosca, tribù, partito.
Vincoli di interesse, ideali, di sangue che affondano le loro radici in leggi antiche
e poderose.
“Non ti abbandoneremo mai” mi dissero quando mi arrestarono. E furono di
parola. Quando gli occhi del paese cambiarono colore e divennero cupi ed ostili,
tutta la mia famiglia si trasferì in città e grazie al nuovo parziale anonimato
riuscirono ad organizzarsi per sostenere la mia latitanza.
Il primo contatto diretto con la famiglia fu attraverso lo zio Enzo. Avevamo
fissato l’appuntamento su di un treno fra Milano e Venezia. Lui doveva prender
posto in uno scompartimento ed io sarei passato e ripassato per controllare che
non fosse seguito. Ci abbracciammo, aveva con se una valigia piena di regali,
delle lettere, una busta con dei soldi che dovevano aver racimolato in una
colletta familiare.
Era un ufficiale dell’esercito, anche se non l’avevamo mai visto in divisa. Piccolo,
calvo, sempre incredibilmente allegro ci faceva ridere da piccoli con il suo
repertorio di aneddoti di gioventù: usque tandem Catilina che lui e i suoi
compagni del classico traducevano in “perché vai in tandem Catilina”. Erano gli
stessi amici che entravano nei bar d’estate e chiedevano al barista “scusi, ce
l’ha il caffè freddo? SI? Allora me ne scaldi una tazza”.
Al liceo aveva avuto un professore, mutilato della grande guerra, gli avevano
amputato un braccio, mi pare. Quando la classe era troppo agitata era solito,
raccontava lo zio, rammentare con voce stentorea e vibrante che lui aveva
“condotto trecento uomini alla morte”, al che la classe rispondeva in coro
“obbravo!!”. E continuava lo zio “hai capito te? Aveva condotto trecento uomini
alla morte. L’aveva fatto proprio un bel capo di lavoro!”
Nel corso della guerra gli era toccato andare in Yugoslavia dove con i suoi
uomini aveva accuratamente evitato ogni scontro con la resistenza. L’armistizio
li aveva infine sorpresi in Sardegna e lì, con l’esercito allo sbando, compì con la
sua compagnia, lui era tenente, l’unico fatto d’arme catturando una pattuglia
tedesca, giusto per evitare di esser loro a venir fatti prigionieri. Li disarmarono,
se li portarono un po’ dietro ed alla fine li lasciarono andar via. Volevano tornare
a casa e basta. Era un militare pacifista, che avrebbe votato per l’abolizione di
tutti gli eserciti se se ne fosse presentata l’occasione e che nei primi anni della
mia latitanza si mosse da perfetto clandestino. Non ebbe esitazioni nè
tentennamenti anche se ci si giocava il lavoro, lo status sociale di una famiglia
perbene e la libertà. Violava la legge, aiutando il nipote latitante, con lo stesso
buonumore e bonaria ironia con cui copiava gli esami quand’era ragazzino.
In una occasione mi raccontò le istruzioni ricevute dal babbo mimando la scena:
“Guarda Enzo ti scrivo l’indirizzo su ‘sto pezzettino di carta, così se ti prendono
lo ingoi”.
“Alò Enrico oh unn’esagerare! Che vo’ ingoiare! E poi senz’acqua occome si
fa?”, gli ho detto e oh té, o ‘un se l’è messo in bocca e l’ha ingollato davvero? E
io a dirgli “o su Enrico occheffai? ‘un me far paura, via!”.
Era ancora abbastanza giovane quando si ammalò di un tumore allo stomaco e
mi raccontarono che mentre gli iniettavano la morfina aveva ancora la forza di
dire ridendo che alla fine aveva voluto provare anche a fare il drogato.
La zia Renata, sua moglie, lo seguì qualche anno dopo. Non avevano avuto figli
e tenevano a noi come ai loro bambini. Era una “nostalgica” la zia Renata.
Quando passò il fronte ed il loro paese era ormai occupato dagli alleati, andò
alla sede del comando per denunciare la caduta di un aviatore nemico, come
volevano le leggi della Repubblica di Salò. Solo che l’aereo caduto era un
caccia americano di ritorno da un’incursione e gli ufficiali inglesi al principio non
capivano cosa gli stesse dicendo quella ragazzina. Per fortuna il nonno Tito
andò a riprendersela prima che la sbattessero in un campo di concentramento.
Era una fascista strana mia zia, non sopportava i comunisti ma mi regalava i
libri di Marcuse, approvava le manifestazioni del 68 e leticava col macellaio
prendendo le difese dei brigatisti rossi “Sono gli unici in questo schifo di paese
che almeno hanno il coraggio di lottare e di rischiare la pelle per delle idee”.
Credo che quello che non sopportava era l’ipocrisia di un popolo che aveva
osannato il duce e che gli aveva sputato addosso da morto, cosa non bella,
certo. Non ho mai saputo darle del tutto torto.
Crocerossina, sempre indaffarata in opere di carità, fondatrice dell’Ente
nazionale protezione animali della sua città, volle che la seppellissero con
l’uniforme e mi mandò in regalo la medaglia che le avevano dato in segno di
riconoscimento. Era stata maestra anche lei, anche lei benvoluta dalle centinaia
di ex bambini che l’avevano conosciuta sui banchi di scuola.
Quando il tumore prese il sopravvento non volle morfina sperando che il cuore
non avrebbe resistito troppo a lungo al dolore.
Fu un caso. Seguivo un corteo e una ragazza della mia zona, lontana
conoscente e compagna auto esiliata al nord mi riconobbe, mi avvicinò,
parlammo.
Lei e il suo collettivo erano cani sciolti. Cioè gente che partecipava alle lotte di
quartiere, alle assemblee in fabbriche e università ma per conto proprio, non
inquadrata in organizzazioni o strutture rigide e definite. Nulla di strano, erano
molti quelli che stavano imparando a vivere senza strutture né discipline di
partito. In collettivi di base, comitati di quartiere, gruppi di affinità.
Nelle città in una notte potevano bruciare, saltare, finire a pezzi decine o
centinaia di agenzie immobiliari, succursali bancarie, centraline telefoniche.
I giornali lo chiamavano terrorismo diffuso. Per noi era legittima difesa contro il
vero terrore fatto sistema.
Insomma lei era di un gruppo così. Che assisteva anche compagni in fuga,
ricercati. Li aiutava a trovare documenti, soldi, ne organizzava l’espatrio. Cose
del genere.
Quando le feci presente che non ero un rappresagliato politico rispose che
politico è chiunque lotti e si ribelli. Ce n’erano a migliaia in giro. L’anno
successivo alla mia evasione scapparono in più di trecento dalle patrie galere.
Non erano carceri colabrodo, non più di quelle francesi tedesche spagnole
svedesi. Era solo più diffusa e intensa la volontà di esser liberi.
Parlammo un po’ e mi disse che potevano procurarmi una carta d’identità,
portarmi in Svizzera. Da lì sarei potuto andare a Parigi. Ed a Parigi qualcuno mi
avrebbe aiutato a fare il gran salto in America Latina. O in Libano. Sì, perché
allora anche il Libano e la Palestina rientravano nell’immaginario ribelle.
Dubitai. Ci stavo bene a Trieste, con quei compagni. Avevo un contatto stabile
con i miei attraverso un convento. Ma sapevo che non poteva durare, che
dovevo continuare a correre se volevo essere sicuro, ragionevolmente sicuro di
far perdere le tracce. E volevo cominciare a lottare sul serio, a combattere e mi
attirava l’idea di luoghi e situazioni in cui tutto sembrava più chiaro e semplice,
anche se infinitamente più duro.
Allora le dissi di si, una sera a Venezia. Un appuntamento che sembrava
romantico. Due giovani che s’incontrano in una notte di maggio e che
camminano lentamente sui ponti, lungo le calli deserte, nel silenzio. Che si
fermano e si abbracciano e si baciano.
Non sapevo gran cosa di lei. Non parlammo delle nostre vite. C’erano, ed erano
molto più importanti, i sogni collettivi. Non l’avrei più rivista e lo sapevo. Mi
accompagnò al mattino a prendere il treno. Guardai allontanarsi i suoi incredibili
occhi viola.
Mi dettero un documento. Salii in macchina con un ragazzo che chiacchierando
mi portò al valico. Non ricordo nemmeno se i poliziotti ci fermarono o ci dissero
di circolare a gesti. Fu rapido. Niente di solenne. Mi ritrovai in Svizzera, a
Lugano. Andammo a mangiare in un ristorante. Mi dettero i soldi che avevano
portato in un’altra macchina a scanso controlli e che avevano già cambiato in
franchi svizzeri e francesi. Mi accompagnarono alla stazione. Dovevo andare a
Zurigo. Lì due compagne mi avrebbero portato a dormire a casa loro ed il
giorno dopo avrei preso un altro treno per Parigi. Dove avrei trovato il contatto
che mi avrebbe fornito passaporto e destinazione definitiva.
A Zurigo però due ragazze che parlavano appena italiano mi vennero a
prendere alla stazione in macchina e poco dopo mi scaricarono davanti a una
pensione. “C’hai un documento vero?” Mi disse una. Beh, per avercelo ce
l’avevo ma non sapevo fino a che punto era buono. Comunque prima o poi
avrei dovuto provarlo. Nello stabilimento era scritto tutto in tedesco: listino
prezzi, informazioni, indicazioni su per le scale, all’ingresso, dietro la porta della
camera. L’unico cartellino in italiano era al di sopra del minuscolo lavello
incassato in una parete della stanza: “vietato pisciare nel lavandino”. Non dormii
granché, doveva essere la zona di svago notturno perché fino all’alba sentii voci
di avvinazzati.
In piedi all’alba. La stazione era vicina. Feci il biglietto. Solo andata. A Parigi.
Era tutto strano. I suoni. I treni. Poi il paesaggio. Strano e bello. Alla frontiera i
poliziotti francesi dettero un’occhiata distratta alla mia carta d’identità.
Indicarono la mia valigia. La tirai giù dalla reticella. L’aprii. Dettero un’occhiata
dentro. Se ne andarono. Mi rimisi a guardare il paesaggio. Chilometri e
chilometri di pianura. Di campi verdi, di boschi. Rare case, pochi paesini. Così
diverso dalla mia popolata terra dove le notti attraversate dal treno non sono
mai del tutto nere, con puntini di luce che si rincorrono e richiamano ovunque.
Gente che saliva e scendeva. Gente che parlava strano. Che vestiva strano.
Che guardava strano. Strani anche gli odori.
Ed infine Parigi. Polverosa stazione grigia, traboccante di folla, valige, pacchi,
fazzoletti, tonfi, fischi berci lacrime. Caldo.
Andai al bar della stazione e misi alla prova le mie nozioni di francese
faticosamente messe insieme negli anni delle medie. Certo che c’era da
immaginarselo che a fare dettati e ad imparare parole come canif o parbleu non
me la sarei poi cavata granché bene alla prova del fuoco. Chiesi un bicchiere di
latte e il cameriere me lo fece ripetere tre volte, dopodiché chiamò il collega e
tutti e due si misero a gorgogliare qualcosa che poteva anche essere una
battuta scherzosa, ma l’espressione era ostile.
Rinunciai al latte. Uscii dalla stazione pensando a come organizzare la
sopravvivenza. Avevo qualche soldo ma dovevano durare. Entrai in una
boulangerie a comprare un po’ di pane ed a chiedere se per caso sapevano di
qualche stanza in affitto. I bottegai queste cose le sapevano nei paesi. Certo
che a Parigi magari era diverso. La padrona era una bretona grassottella che
non mi prese in giro per l’accento, anzi. Mi disse che sapeva di una chambre de
bonne al che le risposi che una chambre de bonne sarebbe andata benissimo
mentre mi chiedevo fra me e me che cosa diavolo fosse. Mi accompagnò
perfino lasciando al comando del bancone la commessa. Suonò al campanello,
parlò con una portinaia. Capivo ben poco in tutto quel chiacchiericcio pieno di
suoni gorgheggianti. Come in una staffetta, la portinaia prese il testimone e mi
accompagnò fino ad un appartamento del terzo piano. Salutai la fornaia
ringraziandola. La signora dell’appartamento, gentile, mi condusse a sua volta
fino al settimo piano.
L’affitto non era caro, però la stanza aveva le dimensioni di un armadio a muro
con un letto ed un tavolino incastrati dentro. Era una mansarda sotto il tetto
spiovente, potevi starci in piedi solo dal lato della porta. Il gabinetto alla turca ed
il lavandino erano in fondo al corridoio. Per la doccia c’erano a nemmeno tre
isolati di distanza dei bagni pubblici.
Pagai. Rimasto solo iniziai la cerimonia della trasformazione di uno spazio
sconosciuto in casa, rifugio. Nel mio caso secondo la terminologia mediatica in
uso all’epoca, covo.
Tirai fuori dalla valigia le mie cose: radiolina, un paio di libri, una caffettiera,
vestiti che, piegati e risistemati nella valigia, piazzai sotto il letto. Un libro, la
radio e un quaderno sul tavolino. La caffettiera sul fornellino a gas giusto dietro
la porta. La sera l’avrei preparata e messa accanto alla branda. Un’abitudine
che avevo preso in carcere. L’altro libro sul letto. Appiccicai due o tre fotografie
spiegazzate sul muro. Feci un cuscino con il giaccone ed un asciugamano.
Preparai il letto, legando i capi delle lenzuola sotto il materasso di gomma
schiuma perché fossero belle tese. Casa.
Dopo qualche sforzo riuscii ad aprire il lucernaio e mi affacciai su di un
paesaggio di tetti grigi, tante finestre, un cortile, la punta di un grattacielo, la
Tour de Montparnasse, ed un cielo ora grigio e greve, asmatico. Richiusi e mi
sdraiai sul materasso con le mani intrecciate dietro la testa, lo sguardo sul
soffitto.
Mi svegliai il giorno dopo, tardi. Con nel cervello una ridda di cose da fare. Mi
presi il caffè, bollente. Scalzo in mutande e con lo spazzolino in mano barcollai
fino al gabinetto sfilando davanti ad una serie di porte che la sera prima non
avevo nemmeno notato. Una si aprì e sulla soglia apparve una ragazza alta e
sottile con una massa di capelli rossi che frinì qualcosa in risposta al mio ciao.
In programma c’era la visita al contatto. L’indirizzo era in un taschino interno dei
pantaloni. Cifrato. Ma prima avevo bisogno di una doccia. Scesi i sei piani di
scale di legno scricchiolante, gagliardo. La portinaia mi spiegò a gesti dove
erano i bagni pubblici. Mi aspettavo una specie di terme romane o di bagni
turchi. Delusione. Erano solo una serie di cabine con un mini spogliatoio e una
doccia. Simili, ma più disadorni, dei bagni comuni che avevamo alla stazione
quando ero ragazzo, due anni e una vita prima. Uno per i capistazione. L’altro
per i cantonieri. L’acqua si scaldava in una caldaia a legna. Era un luogo
spazioso e accogliente, soprattutto d’inverno. Mi piaceva andarci, anche
quando installarono una vasca da bagno in casa.
Feci comunque la doccia. Avevo bisogno di sciacquarmi via di dosso la
sporcizia ed il sudore del viaggio, dello smog cittadino, del sonno. Erano pochi
franchi, ti davano un asciugamano pulito. Uscii alla ricerca di una cartina della
città. Non fu facile capire dov’ero e poi individuare il quartiere dove abitava la
persona che cercavo. Era a nord. Dall’altra parte. Dovevo prendere la
metropolitana. Un altro mondo sconosciuto. Mi ci avventurai. Ristetti un po’ a
guardare cartelli, cartine, indicazioni finché non pensai di aver capito come
funzionava. Chiesi un biglietto. Di che tipo? Un biglietto, cazzo. No, non da
turista, non abbonamento settimanale, non un ridotto per famiglia numerosa, né
uno scontato per militari. Un biglietto.
Entrai. Di nuovo suoni, odori, colori nuovi. Tanta gente. Avevo imparato ad
annusare la paura negli altri e lì dentro ce n’era mica male. Paura dei blouson
noir, degli arabi, dei poliziotti, dei nazirazzisti, e anche la paura d’arrivar tardi, o
di non farcela ad arrivare a fin di mese.
Sbucai alla fine, salendo su delle scale - oh meraviglia! - meccaniche in mezzo
ad un’altra città. Arabi, neri, mulatte, torme di bambini, vocio incomprensibile,
musiche dell’altra parte del mediterraneo, aromi buoni di cose da mangiare mai
assaggiate. Cercai la via. La trovai. Salii su per delle scale strette, incrociando
sguardi diffidenti. Bussai alla porta. Dallo spioncino un occhio mi chiese chi ero.
Bofonchiai il nome di chi mi mandava e una specie di parola d’ordine. La porta
si aprì. Era una ragazza. Biondina, caruccia. Chiamò un nome, senza aprire del
tutto la porta. Arrivò un bel ragazzo magrebino. Mi chiese cosa volevo. Non era
cosa da discutere sul pianerottolo, cercai di dirgli. Ma lui rispondeva svelto ed io
capivo la metà. Ripetei il nome del contatto ed alla fine dissi che volevo andare
in America latina o in Libano, a imparare a combattere. Mi disse che avevo
sbagliato indirizzo e mi chiuse la porta in faccia.
Già proprio così, volevo andare a combattere in America Latina o in Libano. Nei
diari che riempivo ogni giorno con una scrittura a zampa di gallina, scrivevo
allora cose come “Non credo più nel comodo mito della neutralità. Fin dove si
estende la morsa del dominio, ovunque la norma e la normalità si fondino sulla
divisione in classi, sullo sfruttamento di tutto lo sfruttabile, sulla logica del
massimo profitto non esiste istituzione, organismo, pratica sociale che non sia
inquinata fino al midollo”. Allora sentivo così. Oggi pure, solo che mi esprimerei
altrimenti.
E soprattutto oggi non farei più lo sbaglio di pensare che i nemici dei miei
nemici siano sempre e comunque miei amici.
Come il Khomeini che era in quei giorni ai miei occhi ed a quelli di tanti il
personaggio mitico che sfidava la prepotenza imperialista yankee. Un
simpaticone. Finché non vidi su Liberation le foto di militanti curdi legati davanti
a delle mitragliatrici, fucilati a grappoli. Finché non mi stufai di vedere alla
televisione, giù al bar, cortei di donne isteriche coperte di nero. Finché non mi
spaccai le palle di sentir inneggiare ad Allà ed alla sua infinita potenza e tutte le
cazzate che mi rimandavano agli anni stupidi del catechismo.
Furono mesi e mesi di bohème. Latitante bohemien, suonava bene. Imparai
molte cose... Per esempio che quando un omosessuale ti faceva delle avances
per la via o in un bar non c’era bisogno di rompere una bottiglia e di minacciare
di sfregiarlo, bastava dirgli di no. Imparai a fumare ed a rollare canne. Mi
piaceva imparare.
Mi piaceva la città. Presto vi tracciai i miei percorsi. Le abitudini e gli
appuntamenti che servono a scandire e disciplinare una giornata. I musei
avevano giorni di visita gratuiti. E una volta alla settimana bighellonavo su e giù
per le immense sale del Louvre. Seduto a rincorrere ricordi e pensieri davanti
alla Gioconda o a quadri di Tiziano o a misteriosi reperti egiziani. A Notre Dame
suonavano l’organo la domenica.
La Carte Orange serviva per un numero illimitato di viaggi ed io passavo ore, in
autobus, ad esplorare la città dai finestrini. C’erano parchi dove passeggiare,
sedere sulle panchine, leggere.
C’erano i quais, i bouquinistes. Le Halles, il vecchio mercato centrale che era
stato demolito ed al cui posto si apriva il grande buco in cui proprio allora
stavano girando Touche pas a la femme blanche, strampalato film di culto.
C’era il recentemente inaugurato Georges Pompidou, dove trovavi manuali per
fabbricare esplosivi e dove potevi trascorrere pomeriggi interi a leggere in santa
pace fumetti o classici russi.
Nella zona delle Halles m’incantavo spesso davanti a una botteguccia di
robivecchi dalla vetrina antica e polverosa in cui erano esposti dei topi enormi,
grandi come conigli imbalsamati. Catturati quando era stato sventrato l’antico
mercato. In un altro minuscolo negozio faceva bella mostra di se una testa
rimpicciolita dai Jivaro. Era mummificata. Le palpebre e gli occhi cuciti con uno
spago grossolano.
Anche a Parigi arrivava l’onda lunga del movimento italiano. Il fior fiore della
intellighenzia francese pubblicò un manifesto contro l’attacco alle libertà che
stato e poteri paralleli portavano avanti in Italia. La goccia che colmò il vaso
della sensibilità democratica di Deleuze, Foucault e compagnia fu il processo
del 7 aprile, la cui impalcatura era tutta tesa a dimostrare che dietro ai
movimenti di fabbrica e di piazza ed alle organizzazioni armate c’era una sola
regia. Processo diventato celebre grazie al cosiddetto teorema Calogero.
Secondo il disinvolto ragionamento di quel Pubblico Ministero, membro di
“Magistratura Democratica”, se tu hai gli stessi obiettivi di un gruppo armato, sei
gruppo armato, anche se quelli delle organizzazioni clandestine manco li
conosci e non hai preso mai una fionda e tantomeno una pistola in mano.
Molti dei processati del 7 aprile si rifugiarono a Parigi, e vi rimasero più o meno
indisturbati grazie alla parola data da Mitterand. Perché i francesi c’hanno
anche questo di strano: presidenti ed istituzioni che onorano i loro impegni.
Gruppi di ragazzi, nelle università e nei quartieri, emulavano i loro molto più
numerosi ed organizzati compagni dell’autonomia italiana. Si trovavano a
Jussieu. Ogni tanto partivano in una manifestazione offensiva. Qualche molotov
che bruciava male. Qualche vetrina in frantumi. Scontri con la polizia. Nell’aula
magna dell’università pestarono un pomeriggio con catene da moto due tecnici
di un ufficio che avevano seguito il gruppetto di ragazzi che gli avevano
spaccato tutti i computer.
Mi muovevo ed agivo da solo. Scritte sui muri. Qualche piccolo sabotaggio. Una
macchina bruciata. Vetrine spaccate con ordigni confezionati alla meglio che a
volte scoppiavano e a volte no. E poi, in disparte, cortei, presidi, occupazioni di
facoltà.
Mi aggiravo con cautela per la città fra fiumi di facce grigie, di sguardi spenti. Di
automobili incolonnate. Camminavo molto nel lento avanzare d’immensi blocchi
di cemento o pietra punteggiati rivestiti di vetro e metalli. Nello scorrere di luci
urlanti, di richiami ipnotici. Rumori ovunque. Acuti penetranti laceranti. Ovattati
nella neve o la nebbia come nella pianura dov’ero nato. Assistevo all’esibizione
di ricchezza abbondanza spreco e di miseria solitudine degrado. La metropoli
era un gigante che si vomitava addosso.
Ma era facile scomparire in quel caleidoscopio di umanità diverse Parigi.
Crogiolo di classi razze età culture accenti modi di vivere.
Cercai di raggiungere per telefono i compagni che mi avevano dato il contatto.
Non fu possibile. Il collettivo si era disperso e due erano stati arrestati.
Non potevo tornare. Né andare altrove, con una semplice carta d’identità. Di
nuovo attesa. Condita di stanchezza, paura, amarezza, solitudine. Non peggio
della galera, pesante comunque. Bocconi sul letto ad ascoltare la radio,
decifrando con pazienza i suoni sempre meno strani che ne uscivano. O seduto
sotto un platano nel parco delle Tuileries. Pensavo ai miei, alla vita da ragazzo
che avevo lasciato indietro.
Giorni, settimane e poi mesi a deambulare sotto il cielo, i tetti neri delle case, le
facciate dei palazzi. Nei parchi rallentavo il passo lungo i vialetti coperti di ghiaia
o mi sedevo su di una panchina a respirare immagini, odori e suoni. Le foglie, i
fiori, l’acqua di una fontana. Passò un autunno magnifico di colori, silenzi, alberi
lucenti di pioggia, cerchi disegnati dalle gocce sullo specchio di uno stagno.
Mi ero iscritto ad una biblioteca di quartiere. Una ragazza carina e per nulla
curiosa mi aveva dato la tessera dopo avermi chiesto semplicemente il nome.
Presi l’abitudine di portarmi sempre un libro dietro quando uscivo. Sei molto
meno sospetto se porti qualcosa di inoffensivo o banale in mano: anche una
cartellina, uno sfilatino, un sacchetto della spesa, un giornale. Un libro ti aiuta a
mantenere un atteggiamento normale, disteso quando ti avvicini a dei poliziotti
che quando ti guardano non sai mai cosa fare con le mani: se le metti in tasca
possono scattare sul chi vive, se le fai ciondolare troppo, se ti gratti o fai un
gesto qualsiasi dai nell’occhio.
Lo stesso per lo sguardo: se li fissi è provocazione, se lo scosti troppo è timore.
Con un libro in mano invece ti puoi fingere assorto in un passaggio
particolarmente interessante. E puoi anche sollevare lo sguardo a fissare un
punto proprio al di sopra della testa di chi ti guarda. Non è sfidante ed esprime
calma e sicurezza. Di solito funziona.
Cercai lavoro ma non era facile, per la lingua, per i controlli e perché non
sapevo far nulla di concreto. Facevo durare i soldi dei miei spendendo il minimo
indispensabile: l’affitto, la carta orange, pane, latte e riso, formaggio e un po’ di
frutta. Ogni tanto andavo a prendere un caffè, tanto per sentire un po’ di calore
umano e, d’inverno, semplicemente calore.
E fu in un caffè che conobbi la May, una moretta graziosissima che mi si
avvicinò, si presentò, si complimentò per il mio stentato francese e poi, oh
delusione, mi chiese se volevo bere qualcosa con lei ed il suo compagno.
Simpatica coppietta parigina, anche lui un bel ragazzo, biondo e sorridente.
Parlammo del più e del meno, loro con accento da parigini puro sangue ed io
inciampando ad ogni pie sospinto su fonemi e sintassi. Alla seconda birra lui
andò alla toilette e lei semplice e diretta mi chiese se volevo fare un ménage a
trois. Lì per lì non afferrai il concetto e poi le dissi che spiacente ma che avevo
un grosso problema personale, dei traumi e cose di questo tipo, che mi
impediva di envisager contatti omosessuali. D’altra parte con lei ... Non se
l’ebbero a male e diventammo amici. I primi amici che avevo a Parigi. Mi
invitarono a casa loro, uno studio immochettato pieno di cuscini, di poster e di
odore d’incensi, ed un sabato anche dai genitori di lei. Un’agiata famiglia ebrea,
con un padre colto e cordiale, che a tavola rifilò una kipa a me e a Francis
ignorando le battute sarcastiche della May.
Fu con loro che mi drogai per la prima volta. Beh, per me, educato nella rigida
morale di paese, prima cattolica e poi comunista ed infine cattocomunista,
fumare uno spinello era drogarsi. Ma con quei due mi sentivo sicuro, seduto per
terra su cuscini, ad ascoltare musiche nuove. Pink Floyd, Moustaki, Alan Stivell,
Jacques Brel, insomma nuove per me. L’esperienza non fu così sconvolgente
come avevo temuto. Mi sentivo solo un po’ diverso e di ritorno alla mia tana, a
notte fonda, io che di notte non uscivo mai per norma di sicurezza (di notte c’è
meno gente, i controlli sono più frequenti, meno possibilità di confondersi fra la
folla, i poliziotti più tesi e sospettosi) affrontai la strada senza paura, con l’animo
leggero. Se questa era la droga ben vengano le droghe, pensai.
Il mio francese migliorava e mi sentivo più a mio agio nel muovermi per la città.
E conobbi il Joan, in una fila all’ufficio di collocamento. Veniva dalla Catalogna,
cosa molto esotica, dato che nemmeno sapevo che esistesse un paese
chiamato così, e che mi introdusse nel suo giro di studenti stranieri, a Parigi per
specializzazioni varie. Facevano la bohème pure loro, anche se più d’uno
viveva, lusso inaudito, in appartamenti dotati di doccia. E non erano ricercati
dalla polizia.
Rientrai a far parte di una comunità. La solitudine mi pesava meno e i pomeriggi
e le notti si accorciavano in quelle riunioni in cui si cenava, fumava,
chiacchierava in un misto di francese, spagnolo, catalano, italiano. Si
organizzavano pasti in comune a spese del supermercato accanto, ci si
procuravano biglietti gratis per cinema e teatri o si escogitavano trucchi, come
entrare passando dalle uscite d’emergenza, si scambiavano libri requisiti in
grandi librerie, si falsificavano abbonamenti e una vasta gamma di tesserini che
ti permettevano di frequentare le mense dell’università, delle poste, delle
ferrovie, si facevano circolare informazioni su posti liberi in case occupate, su
ospedali dove ti assistevano senza fare troppe domande, su telefoni pubblici
guasti da cui chiamare gratis all’altro capo del mondo. Così riuscii anche a
parlare con il babbo che andava a fare volontariato ogni pomeriggio in un centro
assistenziale cattolico. Anche se era improbabile che controllassero quel
numero non chiamai più di due volte.
E finalmente traslocai dalla mia mansarda in una stanza di un appartamentino a
Gentilly, proprio dietro la città universitaria, con i suoi giardini, le frotte di
coetanei spensierati o afflitti da preoccupazioni che invidiavo, la tetra sagoma
della casa della Cambogia, chiusa un paio d’anni prima dopo una rissa in cui
era rimasto ucciso un ragazzo.
Una foto. È un uomo col passamontagna, piegato in avanti impugna una
pistola, le braccia tese, puntandola contro un nemico che non si vede. È in
mezzo a una strada, sullo sfondo c’è fumo, altre sagome, disordine urbano.
Un’altra: un ragazzo salta, esultante, sorride con un sorriso da bambino gioioso,
alle sue spalle qualcosa brucia.
Erano le immagini che arrivavano dall’Italia. Nelle manifestazioni di massa si
rispondeva al fuoco della polizia. Bruciare gipponi della celere a colpi di molotov
era motivo di gioia. La rivoluzione era giovane, bella, incazzata e felice.
Un paio di mesi e cambiai di nuovo indirizzo. Un grande appartamento a Place
d’Italie, pieno di brasiliani. Guru, chiamato così per l’incredibile faccia da
santone indiano, era il titolare del contratto d’affitto e primo abitatore
dell’alloggio e, quindi, una sorta di padrone di casa. Piante che circondava di
premure e attenzione occupavano rigogliose tutti gli angoli luminosi della casa.
Aveva una trentina d’anni, forse di più, sempre di buon umore, con le sue
camicie dai colori sgargianti e svolazzanti (mi piacciono le camicie grandi e le
donne minute, diceva) ma ogni tanto doveva sommergersi nella vasca da
bagno con acqua calda e sale per lenire i dolori. Non erano reumatismi. Era di
un gruppo armato marxista, quasi tutti studenti, cittadini. Lo presero, torturarono
selvaggiamente e rilasciarono: volevano che gli altri, che tutti sapessero cosa
succedeva a chi cadeva nelle loro mani. Aveva cicatrici su tutto il corpo, anche
da arma da fuoco. Non parlò mai delle torture. Ne ho conosciuti altri che hanno
subito questa esperienza. Non ne parlano, come le donne stuprate. Sono
dimensioni assolute, inspiegabili. Potere, dolore, umiliazione, disperazione
assoluti. Terrore vero.
Il Guru era scappato dal Brasile e si era rifugiato in Cile. Poco prima del colpo di
stato di Pinochet. Si ritrovò allo stadio di Santiago. Ricordato dai sopravvissuti
come quello che dopo due giorni alle intemperie e senza mangiare, durante la
distribuzione di un minestrone si alzò fra le grade e tirando fuori una rachitica
ala di pollo dalla sua gamella chiese se qualcuno la voleva perché lui era
macrobiotico.
Non so come, uscì dallo stadio e riuscì ad ottenere lo status di rifugiato politico
in Svezia. Dalla Svezia arrivò a Parigi. Dove si guadagnava da vivere facendo
le pulizie in supermercati ed uffici. Quando i dolori glielo permettevano.
Nell’appartamento abitavano altri brasiliani, esiliati anche loro, uno senza
documenti ed a perenne rischio d’espulsione. Telefonavano solo da cabine,
scrivevano numeri e indirizzi su cartine da sigarette, usavano nomi di guerra,
per strada controllavano sempre che nessuno li pedinasse, evitavano di parlare
delle loro storie in casa o in locali chiusi.
E poi due o tre volte alla settimana organizzavano festicciole che finivano
regolarmente con la polizia che bussava alla porta, chiamata da qualche vicino
che doveva alzarsi la mattina alle sei e che non amava la samba.
E allora sulla soglia il Guru, spalleggiato da qualche ragazza ubriaca sfatta,
assicurava agli agenti che non si sarebbe fatto più rumore, che quella era
l’ultima volta e tante scuse per il disturbo.
Insomma non era il posto più adatto per un latitante. Del resto il sodalizio stava
per sciogliersi. C’era stata l’amnistia in Brasile e, contro ogni previsione, c’erano
rientrati tutti, Guru compreso.
Prima di partire mi raccontò la sua storia ed anche di che cosa era stato
accusato. Un agguato ad un ufficiale dell’esercito. Nel conflitto a fuoco lo
avevano ferito. Non aveva una buona mira cosicché
l’ufficiale era
sopravvissuto e a lui era andata come già sapevo. Mi dette un indirizzo. Che
persi.
C’era una ragazza che lasciava la sua chambre de bonne nei pressi del Pere
Lachaise. Mi piaceva camminare lungo i vialetti di quel cimitero e la andai a
trovare. La Margot era infermiera in uno dei grandi ospedali parigini, ma aveva
deciso di andare per qualche mese in Ogaden con Medecins sans Frontières.
Non mi raccontò della sua vita mentre faceva il tè, ma dei feriti, dei vecchi, dei
malati che doveva curare. Sospettava che i clochard più anziani ricoverati
venissero utilizzati come cavie umane, per sperimentare certe nuove tecniche e
quando una mattina seppe che ne era morto uno a lei particolarmente caro
presentò una denuncia. La trattarono da pazza, la denuncia venne archiviata, e
poco tempo dopo la sanzionarono per aver cercato di scassinare l’armadio
dov’erano chiusi gli oppiacei per prendere morfina. Una donna stava morendo
fra dolori atroci e il medico si era dimenticato di firmare l’autorizzazione.
Insomma aveva deciso di andarsene e di lasciare l’appartamento e tutto il resto.
Sarebbe tornata, non sapeva quando.
La rividi qualche mese dopo. Carica di frustrazioni ed impotenza. Nei campi
profughi aveva visto i camion dono della cooperazione internazionale portare
via i ragazzi e gli uomini considerati idonei alla guerra. Attrezzi agricoli regalati a
una popolazione nomade che considerava l’agricoltura attività più ignobile della
prostituzione. Donne che ridevano o si arrabbiavano quando le cooperanti
imboccavano i figli più deboli, abbandonati alla loro sorte. Carichi di bibbie da
distribuire ad analfabeti animisti.
Tornò e scoprì che sul suo conto c’era un bel gruzzolo, lo stipendio versatole
dalla ONG. Erano soldi che non voleva. Era una che di soldi non ne voleva mai,
trovava sempre qualcuno o qualcosa che secondo lei ne aveva più bisogno. Li
offrì a me, che non li accettai ed alla fine li regalò a uno che aveva conosciuto
per strada.
Faceva lo stesso con il proprio corpo. Era carina e trasandata e spesso gli
uomini la utilizzavano e poi la lasciavano, magari con qualche malattia venerea.
Da bambina suo padre l’aveva stuprata. Non lo odiava. Se n’era solo andata,
sedici anni appena compiuti, dal miserabile patelin in cui era nata. Ma non era
una persona triste.
Quando, già nel Midi le scrissi che avevamo avuto una figlia ci venne a trovare,
carica di regali. Ci scambiavamo lettere. Un giorno mi scrisse che aveva un
ragazzo, che lavorava in un ristorante. Una vita normale. Le stava bene così.
Poi un ultimo messaggio. Il suo compagno si era suicidato. Si faceva d’etere
imbevendo un batuffolo di cotone ed aspirando finché non sentiva che il
cervello diventava una specie di groviera pieno di buchi. Non le risposi subito.
Non sapevo cosa dirle. Quando infine la cercai mi dissero che era partita e
nessuno sapeva per dove.
Passavano i mesi ed i soldi dei miei, anche se spartanamente razionati, non
potevano durare eternamente. Non avevo molta scelta: lavoro nero o furti e
rapine.
Feci il mio primo tentativo di vero furto durante un breve soggiorno in
Normandia. Mi avevano prestato una tenda che avevo piantato in un
campeggio vicino ad un paesino sulla costa. C’era un commissariato, in una
palazzina isolata. Di notte i poliziotti se ne andavano a dormire a casa e il locale
restava incustodito. La mia formazione in materia si limitava ai racconti sentiti in
carcere, a libri gialli e film d’azione. Studiai la zona, gli orari, i punti d’attacco. Mi
procurai un paio di sacchetti di plastica da infilare ai piedi per non lasciare orme,
guanti di gomma rosa da massaia – c’erano solo quelli nel supermercato del
posto -, un grosso cacciavite, colla, una lampadina. Una notte burrascosa mi
arrampicai fino al balcone del primo piano. Impiastricciai un vetro con la colla.
Ci appiccicai un cartone. Detti un colpetto. Niente. Il vetro al rompersi sarebbe
dovuto rimanere attaccato al cartone e invece al terzo colpo andò giù tutto con
un fragoroso tintinnio. Dei cani cominciarono ad abbaiare. Saltai giù, pancia a
terra in un’aiuola, fra petunie e gerani. Aspettai. I cani si calmarono e risalii fino
alla finestra rotta. Aprii girando la maniglia dall’interno ed entrai. Spalancai porte,
armadi e cassetti trovando un mucchio di scartoffie, macchine da scrivere e
qualche spicciolo. Alcuni cassetti erano chiusi a chiave. Cercai di forzarli con il
cacciavite, forse dentro c’erano armi o documenti. Il cacciavite si spezzò. Era
tardi per andare a cercare attrezzi da scasso. Mi venne l’idea di dar fuoco a
tutto. Era un edificio isolato, non c’era rischio per nessuno ed io con la polizia,
tutte le polizie, ero in guerra.
In un bagno scovai una bottiglia d’alcool con cui cosparsi carte, archivi,
scrivanie. Mi frugai in tasca. Non c’era l’accendino. E nemmeno una scatola di
fiammiferi in tutto il commissariato.
Riscavalcai il davanzale. Richiusi la finestra. Saltai giù. Prima di rientrare sotto
la luce dei lampioni mi tolsi i guanti rosa da massaia.
Di ritorno a Parigi mi misi d’impegno alla ricerca di lavoro. Ore di metropolitana
fra spinte gomitate e malumore collettivo. Ore di fatica. Il ritorno su per le scale
interminabili fino alla branda e dormire, meglio se senza sogni, fino al mattino
successivo. E ricominciare. Metro, boulot, dodo, era la formula “metropolitana,
sgobbo, nanna” che guidava la vita della gente.
Erano lavori di merda. Pagati di merda e con la cantilena di sottofondo “se non
ti sta bene quella è la porta e fuori ce n’è una decina che aspettano”. Ed era
vero.
Lavare piatti, scaricare casse, distribuire propaganda, fare traslochi, sorvegliare
bambini. In compagnia di immigranti, studenti, giovani disadattati, hippies.
Arrivammo un po’ tardi una mattina e c’erano i TIR parcheggiati fermi in lunghe
file e la gente era seduta immobile sui piani caricatori o a formare capannelli
silenziosi. Antoine, un veterano, un fascio di muscoli di 50 anni era rimasto
intrappolato pochi minuti prima fra il cassone del camion ed il muretto di carica.
L’autista non se n’era accorto. Gli aveva spappolato il torace ma era forte e
aveva resistito fino all’ospedale.
Non era la prima volta che succedeva. Presi i miei guanti, il cartoccio con la
colazione e me ne andai. Non si poteva morire così, schiacciato come uno
scarafaggio, senza un perché accettabile che non fossero quei quattro soldi con
cui far vivacchiare la famiglia. Assurdo. Assurdo dire “che disgrazia” nel
restituire un mucchietto di carne fredda alla donna, nel buttare due secchi
d’acqua sul sangue raggrumato per terra.
Un’altra foto. Consegna delle medaglie dei Giochi della Gioventù, alle scuole
medie. Io spavaldo, le mani sui fianchi, con la medaglia d’oro. Il Nanni, al
secondo posto, sul podio rimediato alla meglio con cassette e sgabelli, piega la
testa per scansare il mio gomito. Eravamo nella stessa classe alle elementari.
Coi capelli corti, il grembiulino sfilacciato sui polsi, era “un bravo bambino, non
dà noia, si applica, però allo studio non c’è proprio portato”. E comunque il suo
avvenire era già tracciato. Finita la scuola dell’obbligo c’era l’officina meccanica.
Cioè sessanta ore alla settimana, i lavori più pesanti, gli urlacci del padrone ed
a mo’ di salario qualche spicciolo per andare a ballare il sabato. Non so
nemmeno se ci andasse a ballare il Nanni.
Era agosto ed una bombola di gas esplose e lo arse vivo. Non aveva nemmeno
sedici anni e non fu colpa di nessuno. Fu una disgrazia.
Come quella che portò via il babbo alla Tina. Abitavano accanto alla stazione,
negli alloggi per i lavoratori della ferrovia. Lui era un cantoniere, un uomo
bonario che stravedeva per la sua unica figliola e che andava al bar a fare una
partitina a carte solo la domenica dopo pranzo. Chissà cosa stava pensando
quel giorno, quando salì sul traliccio e toccò il filo sbagliato e sussultò e si
annerì finché non riuscirono a staccarlo. Quando lo composero nella bara con il
suo vestito buono gli misero due monete sugli occhi. Forse un’antica usanza,
l’obolo che il defunto paga a Caronte. Una delle donne che avevano lavato il
corpo si era sentita male.
Li chiamavamo omicidi bianchi. Chissà cosa ci vedevamo di bianco in corpi
carbonizzati o sfracellati, in arti maciullati, nello sputo dei malati di silicosi, nei
tumori che divoravano le vittime delle “fabbriche della morte”.
Ripresi a passeggiare di notte. Non potevo dormire, i pensieri mi si affollavano
in testa e pigiavano e si spintonavano come in un vagone della metropolitana.
Mi piaceva la notte. Il silenzio. Anche se ora c’era sempre la paura.
E m’imbattei nel primo controllo d’identità. A pochi passi da casa mi si affiancò
una macchina scura. La via era deserta, solo un ragazzo nero a una sessantina
di metri che camminava sul marciapiede opposto.
La macchina si fermò
davanti a me, si aprirono di scatto gli sportelli e saltarono tre brutti ceffi. Mi misi
con le spalle al muro e mentre cercavo una via di fuga con la coda dell’occhio
vidi il nero che girava sui tacchi. Dietro i tre spuntò un poliziotto in divisa,
volevano i documenti, volevano sapere chi ero, dove andavo, cosa facevo.
Avevo la carta d’identità falsa e mentre l’esaminavano uno dei quattro si rese
conto della manovra del ragazzo che si allontanava a passo spedito e, al grido,
le noir, là bas, le noir, buttarono in terra tutto quello che avevano trovato nelle
mie tasche e si lanciarono all’inseguimento ululando.
Rientrai nella mia stanza.
Di giorno però non rinunciavo ad uscire. Frequentavo librerie anarchiche,
andavo a lezioni a Jussieu o a Vincennes, l’università ghetto, astuta mossa del
governo francese post sessantottino: facciamo un bel campus a una settantina
di chilometri dalla città, in mezzo al bosco, ci mettiamo i professori più
rompicoglioni che a loro volta attireranno gli studenti più spacca cazzo e così se
la vedranno fra di se, tanto poi se vogliono arrivare a Parigi per fare cortei e
casini vari gli tagliamo la strada ed è fatta. Era passato poco tempo ma
l’espediente funzionava di già, con le file di pusher a spacciare accanto ai
cancelli e parecchia gente che frequentava solo per il voto politico. Ma c’era
comunque vivacità, gente d’ogni tipo, esperienze d’ogni dove.
Una delle librerie che mi attiravano di più era gestita da un gruppo, Marge,
composto secondo loro da ladri, drogati e puttane. Che sapevano recitare a
memoria “I fiori del male” e citare i classici della letteratura francese o russa. Li
conobbi ad una conferenza di Umberto Eco, venuto a dissertare sui nuovi
linguaggi. La sala era gremita dai soliti italiani di sinistra in trasferta fra cui
spiccavano diversi elementi dai vestiti stazzonati ed espressioni truci che
pensavano e dissero che ci voleva coraggio a teorizzare e disquisire
accademicamente mentre i soggetti d’analisi e disquisizione erano perseguitati,
incarcerati, malmenati e ogni tanto accoppati.
Nemmeno il mio intervento fu all’altezza della conferenza, ma l’allusione ai
compagni di Radio Alice, del 7 aprile e delle organizzazioni armate destò
l’interesse di alcuni dei presenti in servizio. Al grido “fuori gli sbirri bastardi” si
scatenò una parapiglia. Uno spilungone con giacca di cuoio nera sdrucita e
capelli lunghi neri arruffati mi accompagnò all’uscita, mi dette un volantino e mi
disse che se volevo li potevo contattare alla libreria X. Ci andai, facevano una
rivista. Vivevano in comunità. Mi piacevano.
Una delle loro attività preferite era seguire le apparizioni in pubblico di Bernard
Henry Levi, giovane esponente della corrente cosiddetta dei Nouveaux
Philosophes. In una conferenza che il nostro faceva al Georges Pompidou li
accompagnai. Fu divertente, il Bernardo dell’epoca, beau garçon, sempre
attento alle telecamere, si vide sequestrare il microfono da un tipo mingherlino
dagli occhi spiritati e il maglione troppo largo che fra un brano di Rimbaud e una
citazione di Marcuse spiegò che non se ne poteva più di vedere come
monopolizzavano la parola sempre gli stessi prodotti del mercato culturale e
che coi microfoni bisognava cominciare a fare un po’ per uno. E mentre si
passavano il micro l’uno all’altro e l’offrivano a chi avesse qualcosa da dire, in
sala scoppiavano i battibecchi, si accennavano zuffe e si scoprivano affinità.
Come la bionda spettacolare in abito da sera che proclamò in piedi in mezzo
alla sala che lei, come donna, come ebrea e, soprattutto, come donna ebrea
era stufa di quel mondo di falsa cultura mercantilizzata e “forza ragazzi diamogli
addosso a tutta ‘sta merda”.
Un altro ebreo che non sopportava più quella società ipocrita e vigliacca era
stato ammazzato a Parigi poco prima, abbattuto da tre sicari in pieno giorno, in
mezzo alla folla. Il delitto venne rivendicato da una organizzazione denominata
Honneur de la police. Si chiamava Pierre Goldman, ed aveva scritto due libri. Il
primo era una autobiografia: ebreo polacco nato in Francia, figlio di un
partigiano, era stato attivo in diversi gruppi di estrema sinistra e partecipato a
una guerriglia in America latina. Di ritorno in Francia cominciò a fare rapine. Lo
avevano catturato. Accusato di due omicidi. Senza prove. Divenne un caso che
richiamava quello del Dreyfus. Nel comitato di appoggio c’erano la Simone Weil,
Sartre. Rischiava la condanna a morte. In primo grado ebbe l’ergastolo. Poi la
cassazione riaprì il processo, venne prosciolto dalle due accuse di omicidio ma
condannato a dodici anni per tre rapine. Scarcerato, scrisse un altro libro. Un
romanzo carico di odio nei confronti della polizia, della magistratura, di tutte le
istituzioni repressive. Dicono che volesse organizzare una rete di sostegno
armato ai baschi dell’ETA contro la struttura che la polizia spagnola stava
mettendo su ricorrendo a delinquenti della mala marsigliese. Dicono che lo
ammazzarono per questo. Non hanno mai trovato gli assassini.
I suoi libri erano una rarità e quando riuscii a scovarne un esemplare in una
specie di centro sociale mi sentii pure trattare da avvoltoio da un allampanato
capellone “quand il etait vivant vous en foutiez de lui, tous! Et maintenant c’est
la mode!”.
Nonostante i tic da straniero che come tutti avevo e che spingono ad attribuire
al posto in cui stai, alle sue genti, le cause dei tuoi disagi, malesseri, sofferenze,
-in fondo li accusi di non essere come te, come la terra che hai lasciato, per
poco o per sempre-, cominciavo ad amare Parigi. Ad amarla sul serio. Di quegli
amori impossibili che ti fanno star male perché sai che non sono corrisposti o
che non potranno durare.
C’era gente meravigliosa, mi piacevano i colori dei loro vestiti, la diversità
stupefacente, la bellezza di corpi e volti di mille espressioni frammista alla
mostruosità di facce come maschere. E mi piaceva la città, punteggiata di
angoli fatati, di quartieri incantevoli, come Le Marais. Con la moltitudine di bar,
locali. Le boulangerie che emanavano fragranze deliziose.
Perfino i suoi militanti clandestini erano diversi. Ne volli conoscere alcuni che
erano stati amnistiati qualche tempo prima. All’appuntamento avrei dovuto
riconoscere il contatto dal giornale che avrebbe portato sottobraccio. Originali.
Arrivai in anticipo, scovai un tavolino di un caffè con una bella panoramica e mi
misi a controllare.
Un po’ prima dell’ora prevista vidi un tizio che si mise a ciondolare lì in giro con
un giornale sotto il braccio. Mi alzai lo segui lo affiancai e gli dissi “sei tu?”. Fece
un salto. Era il palo. Facile capire come avevano fatto a beccarli tutti. Arrivarono
i due combattenti, una era una ragazza. Carina, con la voce roca. Mi spiegò
arrossendo che faceva la maestra. Parlammo, gli dissi che volevo fare un
articolo ed era anche vero. Mi interessava la loro esperienza di gruppo armato,
diverso da quelli italiani. Erano spiritosi, contenti di poter parlare con qualcuno.
Era un piccolo gruppo ma avevano fatto azioni abbastanza grosse, come la
bomba messa sul pianerottolo della casa di un ministro e non esplosa.
Mangiammo cuscus in un ristorantino arabo, bevemmmo un po’, ridemmo
parecchio. Mi dissero che forse il peggio era stato vedere come i media
avevano trattato la loro lotta, le loro scelte. “Sai che novità” pensai con
tenerezza. Ci salutammo poi con trasporto. Mi dileguai nella metro. Dopo un
paio d’ore e decine di manovre di elusione rientrai nella mia cameretta.
Passeggiavo lungo i quais trovando graziosi perfino i bateaux mouches e le
peniches, chiatte da trasporto. Mi soffermavo sui ponti a guardare come
scorreva l’acqua torbida. Salivo spesso su a Montmartre ad ammirare i tramonti
sulla città, la distesa di tetti neri. Guardavo la variopinta umanità di Pigalle,
Barbais. I locali con le insegne al neon accanto ai piccoli bar coi vetri polverosi.
Guardavo senza osare avvicinarle prostitute bellissime.
Guardavo i clochard. Certo, anche nei paesi toscani c’erano i barboni, gli
scemi del villaggio, anzi nel mio ce n’erano due, l’Ezio e il Roggi. Erano della
zona e con la Nanna formavano il terzetto di emarginati che si guadagnavano
una vita stentata facendo da zimbello ai perdigiorno, veramente non cattivi, solo
ritardati eticomentali che combattevano la noia a suon di scherzi più o meno
innocenti. La Nanna era una vecchietta minuscola che a quanto potevo dedurre
doveva avere esercitato ai suoi tempi la nobile ed antica professione di
meretrice. Lo spasso consisteva, quando passava davanti al bar gremito di figli
delle concorrenti della medesima, stravaccati intorno ai tavolini, nell’interpellarla
e punzecchiarla finché non s’inviperiva e, a dimostrazione dell’infondatezza
dell’accusa di andare in giro senza mutande, s’alzava la gonna affinché i
presenti vedessero che le mutande ce l’aveva eccome.
L’Ezio invece soffriva quello che i tecnici definirebbero un handicap più severo,
incapace di parlare in modo intellegibile, forse anche perché nessuno si era
preso la briga d’insegnarglielo. Era, credo, figlio di una famiglia contadina, ma
se ne stava sempre in giro fra la stazione e il piazzale antistante a guardare i
treni ed a rispondere con un sorriso stupido o stupito agli sbeffeggiamenti di
tassisti e passanti.
A volte giocavano ad aizzarli gli uni contro gli altri e finiva con la Nanna che
menava bastonate a destra e a manca, l’Ezio che barcollava agitando le braccia
a casaccio ed il Roggi, che era più robusto e raccattava qua e là cartoni e
cianfrusaglie ma che era zoppo e che spesso perdeva l’equilibrio, che finiva a
terra sotto l’attacco degli altri due.
Ma questi non erano gli scherzi più crudeli.
Sospetto ora che in qualche serata estiva particolarmente tediosa qualcuno di
quella brava gente normale non abbia cercato di provocare accoppiamenti fra
quei poveri disgraziati. Spesseggiavano comunque le spinte, gli insulti, gli sputi
anche dai ragazzini più carogne, incoraggiati o comunque non scoraggiati da
altrimenti severi genitori.
Una sera d’estate, aspettavamo la notte per andare a cercare le lucciole, un
numeroso gruppo se la stava spassando facendo volare da una parte all’altra il
cappello nuovo dell’Ezio, regalo di qualche paesano di buon cuore, che ce
n’erano, cristiani o comunisti che fossero, restituendoglielo ogni tanto dopo
averlo riempito d’acqua. C’era anche mio padre, che ovviamente non
partecipava alla facezia e che se ne stava in disparte sorseggiando un caffè. La
mamma lo chiamò dalla finestra, gli andò incontro per le scale e gli disse
qualcosa che non capimmo, non alzava mai la voce la mamma, dopo di che il
babbo si diresse verso il taxista che era in possesso del cappello, se lo fece
dare con un gesto e lo rese in silenzio all’Ezio che se lo calcò forte in testa e se
ne andò strascicando i piedi. Il capannello si sciolse. Non so se qualcuno si
vergognò. Forse si, non erano cattivi, solo stronzi che si annoiavano.
I barboni parigini però erano diversi. Di ogni razza, età e sesso. Accomunati dal
vivere per strada, dal vino da cartone, dallo scansarsi degli altri sulle panchine
della metropolitana. Ce n’erano che parlavano da soli, o che ti raccontavano
della guerra in Viet-nam o in Algeria. Alcuni leggevano, altri se ne stavano in
silenzio a fissare il vuoto o contavano e ricontavano con la fronte corrugata le
monete che avevano in mano per poi chiedere al primo passante i centesimi
che mancavano per il litro di rosso. E poi quelli che si tiravano dietro cani e gatti,
quelli che avevano un posto fisso in un parco o in un portone o quelli che
vagavano finché l’alcool non li stendeva in un angolo qualsiasi di un qualsiasi
marciapiede.
E Parigi era anche... una città in cui ghigliottinavano ancora esseri umani. Su
Liberation lessi la cronaca dell’ultima esecuzione, un ragazzo. Gli offrirono
l’ultima sigaretta. La fumò tremando e poi ne chiese un’altra e poi un’altra
ancora ed allora uno dei boia disse il exagere e lo legarono e distesero a faccia
in giù e gli bloccarono la testa sotto la couperette...
E la città che pochi anni prima, in piena guerra d’Algeria, era stata scenario d’un
massacro di cui era quasi riuscita a cancellare la memoria.
Avevano decretato il coprifuoco per gli arabi nel 1961. E gli arabi,
con
l’appoggio di organizzazioni di francesi – beh, cittadini francesi lo erano anche
loro, solo che di seconda classe - solidali, decisero di romperlo e di organizzare
una manifestazione pacifica diretta verso il centro della città. Furono migliaia a
scendere dai quartieri del nord. E proprio nel centro si scatenò la repressione.
CRS e soprattutto gendarmi caricarono, picchiarono, infierirono su decine e
centinaia di manifestanti. La marcia si trasformò in una caccia all’arabo. Molti
vennero pestati a morte, altri gettati nella Senna agonizzanti o già cadaveri.
Nessuno sa quanti morti ci furono quella sera del 17 ottobre 1961 a Parigi. Il
fiume rese molti corpi nei giorni successivi. Venti anni dopo si scoprirono fosse
comuni.
La rabbia non mi abbandonava. Leggevo sui giornali delle morti di molti
compagni, in Italia. Mi colpivano le immagini, le storie, le emozioni che leggevo
dietro le parole squallide o velenose delle cronache. Anche in Germania
morirono a Stammheim quelli della Baader Meinhof. Nelle loro celle
d’isolamento insonorizzate, controllati a vista ventiquattro ore al giorno, la luce
sempre accesa, senza contatti con l’esterno, Irmgard Möller si inferse quattro
pugnalate vicino al cuore. Andreas Baader si sparò alla nuca con una pistola
calibro nove, Gudrun Ensslin si impiccò. Il democratico stato tedesco faceva
così sfoggio di un senso dell’umore tutto particolare. Ma le opinioni pubbliche
non si scandalizzarono per queste piccolezze non più di quanto lo fanno adesso.
Anzi un giornale sensazionalista parigino colse l’occasione per pubblicare
fotografie di Gudrun Ensslin seminuda. Le affiggevano molti edicolanti sulle loro
locandine di legno ed io ne strappai via diverse prendendomi a male parole con
gli adirati esercenti.
Leggevo molto, accovacciato sulla moquette della FNAC o seduto alla
biblioteca del quartiere. O al Beaubourg, l’edificio mostruoso ma accogliente
dove trascorrevo lunghi pomeriggi e fredde serate. Leggevo di tutto. Romanzi,
classici, ma soprattutto testi politici, da Fanon alla Luxembourg, riviste. Di tutto.
Scoprii Jean Genet attraverso una sua introduzione ad un libro sulla RAF.
Parlava di brutalità e di violenza. La brutalità è la forza che impone, che
schiaccia, che immobilizza, che perpetua ingiustizie. La violenza è vita, è
divenire. Il parto è violenza, diceva, ogni nascita è violenza: un fiore rompe la
terra. La brutalità è potere e di solito è legale. La violenza è rivolta e di solito è
legittima.
Mi procurai una pistola, una pistolina piuttosto. Una 22 che sembrava un
giocattolo. Non volevo farmi prendere. Mi terrorizzava l’idea di tornare in galera.
Non sapevo sparare e con quell’affare al massimo sarei riuscito, in caso di
scontro a fuoco, a farmi ammazzare dando tutte le giustificazioni necessarie ai
poliziotti di turno. O a fare la stessa fine di un ragazzo rom che avevo
conosciuto al manicomio criminale.
Circondato dalla polizia (c’era anche l’elicottero, raccontava fiero) in un prato
estrasse una 7,65. Gli spararono coi mitra. Lui rispose ma quelli erano
ovviamente fuori tiro. Lo ferirono. Sua madre conservava ancora la camicia
insanguinata. Lo presero e lo condannarono a 17 anni per tentato omicidio.
Vennero diverse volte a trovarmi a Parigi. Prima lo zio con un valigione zeppo di
roba da mangiare, vestiti, regali, generi di conforto, che nel gergo della zia
erano cioccolate e cioccolatini e bombon e fotografie e lettere.
Seguendo il piano meticolosamente tracciato dal babbo aveva girato per mezza
Italia saltando da un treno all’altro per depistare eventuali segugi e poi aveva
trascinato i bagagli che gli erano stati portati alla stazione di Genova da un
amico fidato, ma non tanto da dirgli dove andava, su e giù per Parigi. In parte
come ulteriore misura di prudenza e in parte perché si era scordato l’indirizzo.
Cioè lo aveva imparato a memoria ma non bene e non voleva prendere un tassì
per non lasciare indizi, e quindi passò una giornata a provare e riprovare finché
finalmente non trovò la portinaia che gli disse che abitavo lì e scalò i sei piani
fino alla mia mansarda che subito gli piacque, con il tamburellare della pioggia
sui tetti di ardesia che, come mi raccontò per l’ennesima volta, gli ricordavano le
notti passate sotto la tenda nel precario tepore della sua branda di soldato.
Quando al mattino doveva rompere il ghiaccio sulla superficie di una tinozza per
darsi una lavata.
Rimase pochi giorni. Giorni di gioia ritrovata. Lessi le lettere di mia sorella, della
mamma, il babbo, la zia, le cugine. Risposi ad ognuna passeggiando lungo la
Senna, fermi al tavolino di un caffè, mentre lo zio si guardava intorno curioso e
contento. Ricordammo le giornate al mare quando lui era l’anima del gruppo dei
ragazzi
Lo portai a mangiare un cuscus. Superò subito le prime perplessità, lo zio,
estasiato dalla scoperta di nuovi sapori.
Infine lo accompagnai al treno, triste immaginando la sua tristezza nel lasciarmi
lì, ad agitare la mano da quel marciapiede gonfio di gente che parlava strano.
Ma ero già meno solo. Avevo amici, ragazze che mi parlavano di esperienze,
storie, emozioni, idee e di paesi lontani, solo immaginati: il Brasile, la Spagna,
Germania dell’Est. Che mi davano momenti di tenerezza e di sensualità.
Un giorno m’innamorai. Una festa dove mi avevano trascinato quasi di forza
perché io di feste non ne volevo sapere. E alla festa c’era una ragazza bruna
coi lunghi capelli ricci. E fu colpo di fulmine. E molte cose cambiarono.
Avevo una compagna. Era di Barcellona. Sarebbe tornata più volte finché non
decise di restare. Poi rimase incinta.
In quel periodo vennero a trovarmi il babbo e la mamma. Le avevano già
diagnosticato il tumore e aveva deciso di non dirmi niente imponendo il silenzio
anche al babbo. Avevo trovato un appartamentino per i giorni della visita.
Quando gli raccontai della gravidanza mio padre sobbalzò ma la Flora disse
subito che era una bellissima notizia e ci abbracciò. Adorò quella città. Beveva
con gli occhi i luoghi, gli scorci, tante volte letti, scenari impregnati di storia e di
storie. Malgrado le paure, il dolore e il sapere vicina la morte gioiva vedendomi
salvo, in un mondo affascinante, centro di nuovi affetti.
Io mi sapevo incosciente. Latitante. Sul filo del rasoio. Incapace di far nulla. E
mettevo su famiglia.
Ma che colpa ne avevano i miei che avevano sognato dei figli normali, la mia
compagna, che voleva essere madre, la bimba che sarebbe dovuta nascere?
E del resto stavo già mimando una vita normale. Dovevo solo risalire qualche
altro gradino: un lavoro, una casa.
Ma a Parigi era troppo difficile.
E così riprese il viaggio.
Carcere di Perpignano. Ici ils ont raccourci le dernier de la bande à Bonnot.
Dice uno nell’autobus mentre ci passiamo davanti.
Era un gruppo di rapinatori, anarcheggianti. Mettevano i soldi dei colpi in
comune, per finanziare altre lotte e magari alla fine per finanziare la loro
sopravvivenza, che era comunque lotta. Ce n’era uno, un polacco, che invece
voleva sempre la sua parte. Ma non era uno che spendesse, che andasse a
puttane, che avesse vizi. E non aveva nemmeno famiglia cosicché i compagni,
curiosi di sapere che ci faceva con i soldi, lo seguirono un giorno fino a un
quartiere di Parigi dove c’era un mercatino di uccelli da canto o da richiamo e lì
scoprirono che comprava tutti quelli che poteva e col carretto se ne andava
fuori Parigi, in un bosco e li liberava.
Una foto. Sono io a 24 anni. Appoggiato a una scala. Accanto una coppia di
contadini, i padroni del pescheto che si vede alle spalle. Lui è il Francis. Piccolo
proprietario che mi assumeva ogni tanto come bracciante.
Da ragazzo aveva fatto la guerra d’Algeria e ce ne parlava a volte, durante le
pause o mentre ci passavamo le ceste di frutta o le casse di patate. Aveva
combattuto e aveva visto cose brutte. Aveva sentito come le pallottole
miagolavano al di sopra della sua testa. Aveva partecipato a rastrellamenti e
una volta aveva fatto scappare un maquisard ferito. L’uomo era acquattato in un
fosso, insanguinato e lo fissava con gli occhi spalancati. Lui gridò ai compagni
che lì non c’era nessuno. Aveva un amico d’infanzia. Andavano a caccia
insieme. Una volta la loro pattuglia aveva catturato un ribelle. Si erano
accampati con il prigioniero legato in un angolo. Prepararono il pranzo, si
misero a mangiare. A un certo punto il suo amico si alzò, prese l’arabo, ancora
legato. Tirò fuori il coltello, gli tagliò la gola e con un calcio spinse il corpo
sussultante nel fiumiciattolo. Lui rimase paralizzato, atterrito. “Non sono mai
riuscito a capire perché lo fece”, mi diceva.
Gli arabi, ce nerano due nella squadra, ogni tanto gli davano del razzista.
“Ah si?”, ribatteva. “E voi allora? Cosa fareste se la vostra sorella andasse con
un negro? Magari uno di quei senegalesi che combattevano per l’esercito
francese e che si lanciavano all’attacco convinti che un amuleto al collo li
avrebbe protetti da pallottole, granate e coltelli? La buttereste fuori di casa.
Minimo. Se qualcuno non l’ammazza prima. Non siete razzisti voi?”
Dei due algerini il più giovane faceva il ramadan e non mangiava e non beveva
neanche sotto il solleone. Noi buttavamo giù un sorso nelle pause quasi di
nascosto chiedendoci come cavolo faceva a restare in piedi.
L’altro, un po’ più anziano, delle loro usanze aveva conservato solo quella di
non mangiare carne di maiale ma stava allo scherzo quando i lavoratori francesi
gli offrivano canzonatori fette di prosciutto, salamini e salsicce. Nei giorni di
festa andava a Marsiglia, “dagli ebrei” ci spiegava, e comprava vestiti a buon
mercato, valige. Cose che poi poteva rivendere ai suoi connazionali in paese o
occasionalmente agli emigranti spagnoli.
Eravamo arrivati per caso a Bages, in pieno Rosselló, un paesino in pianura
circondato da vigne. Il caso era il Joan, ex compagno di facoltà della mia
compagna che se l’era trovato un giorno alla stazione di Barcellona. Aveva
messo su famiglia e coltivava un pezzo di terra nella Catalogna nord con la
donna e due figlioli. Erano dei neo rurali, hyppie per la gente del posto, che
guardava con un misto di sorpresa, simpatia e diffidenza quei ragazzi che
invece di allontanarsi di corsa da quelle terre alla ricerca di un posto da
impiegati, da operai o da poliziotti si mettevano a coltivare con metodi che
definivano biodinamici e che erano quelli dei nonni, un orto, che preparavano la
terra con un aratro tirato da un mulo, il macho.
Salvato in extremis dal mattatoio, zoppo e malconcio, si era trovato a vivere una
seconda esistenza, in una casetta di legno tutta per lui, un sacco di buon fieno
e di grano tutti i giorni nella mangiatoia, paglia in abbondanza, burbere ed
affettuose strigliate e poco lavoro.
Ci trovarono una casetta in paese, una casa che il proprietario teneva per
alloggiarvi i braccianti che venivano dalla Spagna all’epoca della vendemmia.
Tre piani, un water piantato sul pavimento di terra battuta del pianterreno che
completammo con una grande tinozza di plastica per lavarci. Al primo c’era la
cucina, con l’acquaio e un focolare e una camera da letto. Al secondo la soffitta.
Pavimento di legno cigolante. Muri scrostati, porte e finestre malridotte. Ma era
una casa e ci piacque.
A Bages potevamo guadagnarci la vita. Non avevo mai preso una zappa in
mano prima d’allora, ma erano in molti ad avere bisogno di braccia giovani e
schiene forti. Ed io ce le avevo. Lavoravo col Joan nell’orto coltivando fagiolini
insalate patate carote pomodori cocomeri poponi melanzane zucchine peperoni
piselli baccelli ed i contadini degli appezzamenti accanto si stupivano che senza
fertilizzanti chimici e pesticidi le cose ci venissero su così bene. Ridevano ma in
fondo ci rispettavano perché eravamo robusti e non ci tiravamo indietro davanti
alla fatica. Le ragazze andavano a vendere i prodotti sui mercati dei paesi vicini
e nella buona stagione ci si guadagnava di che vivacchiare. Ma non bastava ed
allora c’erano le giornate da bracciante. Raccogliere frutta, tirar su patate.
Tagliare canne per farci sostegni per le piante di pomodoro. Seminare fagioli.
Irrigare. Piantare vigne. Potare. Caricare, scaricare.
Una mattina d’estate mi lasciarono in un campo di albicocchi rachitici che
andavano sradicati facendo tutt’intorno una grande fossa da disinfettare. La
terra era malata. Un piccone e una pala e il sole picchiava e picconando
pensavo a tutte le battute che fa la gente quando vede operai appoggiati al
piccone e mi sarebbe piaciuto far provare a più d’uno come si sta dopo
mezz’ora, mica più, mezz’ora di alzare ed abbassare quei chili sotto il sole o il
vento. Il sudore mi appannava la vista, la luce bruciava ed io scavavo senza
pensare e ad una picconata sentii schizzarmi sul corpo, ero nudo fino alla
cintola, qualcosa e mi guardai ed era sangue, forse di un coniglietto, non ebbi il
coraggio di guardare. Sentii di nuovo l’angoscia dei giorni del carcere, mentre
mi ripulivo alla meglio il petto, il viso, le mani sporche di terra sudore sangue.
Mi procurai una bicicletta e per lunghi periodi la mattina alle sei facevo i miei
dieci chilometri, spesso controvento, una tramontana che faceva impazzire, e
poi le mie 8-10 ore sotto il sole o al freddo, con gli altri in silenzio o scambiando
battute sul programma di radio sempre presente, sul tempo, il raccolto, il
matrimonio, i figli, le tradizioni, la politica, la salute.
Era dura, ma mi aiutava la curiosità per quel mondo nuovo di esperienze, idee,
situazioni, consuetudini. Che poi non erano tanto diverse da quelle del mio
paese.
Anche se nel paese della mia infanzia ed adolescenza c’era la stazione. E le
notti d’estate erano profumate di sentori di terra viva. La stazione era al limite
dell’abitato, in fondo ad un viale illuminato da lampioni inframmezzati da platani
ed ippocastani. Al di là della ferrovia c’erano i campi, il canale che serpeggiava
nella pianura scivolando fra gli argini coperti di erba e di fiori.
C’era molto movimento merci allora, soprattutto di notte. A letto, sin da piccolo,
mi aveva cullato il monotono sferragliare di interminabili convogli carichi di pirite,
barbabietole, patate.
Spesso i vagoni sostavano sul binario morto. A volte per qualche ora, a volte
per giornate e giornate.
C’erano molti carri bestiame: polli, pulcini, maiali, vitelli, ogni tanto cavalli.
Succedeva che uno di questi vagoni venisse sganciato lì accanto al piano
caricatore e noi ragazzi andavamo a vedere gli animali dalle finestrelle inferriate.
Un giorno d’agosto lasciarono lì sotto il sole un vagone pieno di vitelli. Non so
da dove venivano ma c’era la canicola e chissà da quanto non bevevano. Erano
muggiti disperati che si sentivano dalla cucina del nostro appartamento, al
primo piano della stazione. La mamma era inquieta e la vedemmo confabulare
con l’Enrico che era di turno di notte.
Sul tardi, verso mezzanotte, scendemmo, con la mamma e mia sorella, in
silenzio per non svegliare le famiglie degli altri capistazione. Il babbo ci
aspettava con la sua divisa estiva, impeccabile come al solito, ed il manovale
Monti, un brav’uomo che a noi sembrava anziano. In fila indiana, commando
familiare, ci munimmo di secchi e ci avviammo su, al piano caricatore, dietro i
capannoni dove incassettavano gli ortaggi. Il babbo fece saltare i piombi della
porta del vagone e l’aprì. Il Monti che era di famiglia contadina e pratico di
bestie entrò e noi in catena cominciammo a passare secchi d’acqua.
Lavoravamo in silenzio e sudati ed anche i vitelli sembravano aver capito che
non era il caso di fare troppo rumore e si agitavano ma senza muggire
aspettando il loro turno.
Più tardi, molto più tardi a giudicare dalla stanchezza, dissetati fino all’ultimo gli
animali, i grandi richiusero la porta, sistemarono alla meglio i sigilli e ripartimmo.
Non lo sapevamo, ma violare i sigilli era una cosa grossa, specie per uno come
il babbo, legalista quasi maniaco che un giorno aveva anche rincorso un
sensale, che per oliare un po’ la prenotazione di un carro merci aveva lasciato
una bustarella sulla scrivania del titolare, cioè lui. Lo aveva rincorso lungo tutto
il viale che attraversava il paese vociando “guardi che si è dimenticato questa
busta sul tavolo!”.
Era un tipico paesino del Midi, Bages. La sua strada principale, con il comune,
le poste, la scuola appariva minuscola e polverosa dopo i grandi viali parigini.
Le case piccole, viuzze laterali troppo strette perché ci passasse una macchina.
Le tendine delle finestre da casa di bambole si muovevano al nostro passaggio.
Un’isola di tetti rossi in un mare di vigne, di verde che sfumava nei rossi
marronosi dell’autunno e in terra nera costellata di scheletri di legno, d’inverno.
La gente nei negozi, al bar, dal fornaio ci guardava e salutava guardinga ma
senza ostilità. Dagli angoli delle strade, degli altoparlanti diffondevano a
intervalli le note di una sardana, per richiamare l’attenzione dei paesani
sull’annuncio di una morte, di una festa, di un matrimonio, per comunicare la
scadenza di una tassa, l’arrivo del mercato ambulante o di un venditore di
materassi o di arance.
I miei averi a Parigi entravano comodamente in un valigione. L’unica cosa che
avrei potuto accumulare erano i libri, ma avevo preso l’abitudine di regalarli ad
ogni trasloco da una stanza all’altra, salvo due o tre da cui non mi separavo mai
e primo fra tutti la mia bibbia personale, regalo di un professore quando facevo
ancora le medie. Me lo portò a casa quando mi ammalai di una di quelle febbri
altissime ed interminabili che mi stendevano a letto mezzo delirante.
“Tre uomini in barca” di J.K. Jerome, umore di borghese inglese del XIX secolo
e compendio di tutti gli archetipi umani e sociali che puoi incocciare nella vita.
La mia compagna però aveva bisogno di un po’ più di roba e visto che avevamo
messo su casa volle portare da Barcellona i suoi quattro oggetti.
Il “trasloco” da Barcellona a Bages lo aveva fatto il Vicenç, con un furgoncino
che gli aveva prestato un collega di lavoro. Era il marito della sorella maggiore.
Piccoletto, bruno, una ventina d’anni più anziano di noi, era operaio di
un’azienda familiare. Piuttosto metà operaio e metà artigiano, dato che
progettava e realizzava macchine che poi servivano a produrre i diversi pezzi.
Era un tuttofare: elettricista, idraulico, muratore, imbianchino, falegname. Per se
per la famiglia gli amici. Era una delle anime dell’Orfeó del suo quartiere, via di
mezzo fra coro e centro di socializzazione, uno dei tanti che compongono il
peculiare tessuto associativo catalano. Lavoratore instancabile, solidale. A
nemmeno diciotto anni si era fidanzato con una ragazzina che poi sarebbe
diventata sua moglie per sempre, madre dei suoi tre figli. Moderatamente di
sinistra, profondamente catalanista. Cosa che non gli impedì di accogliere con
generosità e senza riserve prima me, il giovane italiano convivente non sposato
della cognata, e poi il figlio d’immigrati andalusi che avrebbe sposato la sua
figlia primogenita, la nineta dels seus ulls, la luce delle sue pupille. Casa,
famiglia, Orfeó, lavoro e le vacanze a Canet o in un camping trasformato in una
comune senza pretese libertarie, dove si trasferivano un mese all’anno con le
famiglie degli amici. I bambini giocavano, gli uomini facevano attività da uomini
e parlavano di sport o di politica e le donne si occupavano di faccende da
donne. Come unico vizio aveva il fumo e un goccio di cognac da poco nel caffè
dopo pranzo. Fumava Ducados o Habanos a pacchetti. Un paio di volte gli feci
il caffè con la crema, come mi avevano insegnato dei napoletani in carcere,
battendo lo zucchero con le prime gocce di liquido nero e denso che viene su
nella macchinetta espresso.
Li avevo invitati a mangiare la parmigiana. Gli piacque tanto che ne parlava con
tutti i suoi amici. Poi si ammalò. Un tumore alla gola. Qualche mese, forse un
paio d’anni di pappine trangugiate attraverso una cannula, di ospedali, di medici,
di parole pronunciate con sforzo tappando con la mano il foro dell’apparecchio
sulla gola. E poi morì. Il verdetto medico lo volle colpevole in quanto tabagista.
Le statistiche lo condannarono come vittima della sua dipendenza. Nessuno si
chiese fino a che punto non c’entrassero nella sua malattia e morte gli anni
passati a contatto con prodotti chimici d’ogni tipo, ad inalare senza protezioni,
che al tempo non usavano, gas e polveri tossiche.
A settembre, finiti i lavori nei frutteti, cominciava la vendemmia. Arrivavano a
migliaia gli spagnoli in una migrazione stagionale che li portava dall’Andalusia al
Rossiglione e poi su per tutta la Francia fino all’Alsazia. Io mi fermavo in zona
ed incatenavo gli ingaggi in pianura con quelli in collina.
Vendemmia. In un quaderno trovo una foto ricordo di una colla: Henriette detta
la Saca perché sua madre si faceva i grembiuli con dei sacchi. Paul, il marito,
detto Paul d’en Roc. Roger, il figlio: 28 anni, grande e grosso e scansafatiche.
Louis, vicino. Jose, fratello minore del precedente. Jeanette. Moglie di Louis.
André, suo figlio 23enne. Juliette: moglie di José. Isabelle, la bambina. Jean
Marie, soldato in licenza, amico di Roger.
Io sono il portatore, cioè quello che trasporta l’uva dai filari ai rimorchi, nonché
unico dipendente in questo gruppo di tre famiglie che si uniscono per
vendemmiare l’uva delle loro vigne.
Al mattino mi carico la hautte, sorta di grosso secchio di plastica che si porta a
mo’ di zaino, sulle spalle. Il contenuto della hautte si scarica nelle tinozze o
direttamente sul rimorchio e allora si deve salire su per una scaletta di metallo
sdrucciolosa. All’inizio della giornata quando sei in forze va tutto liscio, l’aria è
fresca e non ci sono insetti, poi con la stanchezza arrivano le storte alle caviglie
o ai ginocchi, gli strappi muscolari, le vertebre che si comprimono, le cadute, i
rami recisi delle viti che graffiano.
Per tre, quattro settimane. Poi le squadre di vendemmiatori svuotano
lentamente il paese dirette verso il Cognac, l’Alsazia, la Champagne. Io me ne
ritorno a valle.
Un giorno a Bages arrivò un’altra famiglia, che si alloggiò in una delle
casupole della nostra via. Erano parenti del Joan. Lei, la sorella, una ragazza
placida e sempre affaccendata. Lui, un barbuto tranquillo e di poche parole.
Avevano due figli, uno affetto da male incurabile. Avevano deciso di cambiare di
vita con quel peso sul cuore ed avevano scelto quel paesino sperduto, lontano
ma non troppo dal loro passato. Con il ragazzo lavoravamo spesso assieme
come braccianti e mi aveva incuriosito sin dall’inizio una profonda cicatrice che
aveva sul braccio. Un giorno più loquace degli altri mi raccontò che si era
bruciato fabbricando un “petardo”. Pensai a qualche festa paesana ma lui chiarì
che si era trattato di far saltare un simbolo franchista. Non era uno
politicamente molto impegnato, era semplicemente membro di un gruppo di
escursionisti. Giovani di entrambi i sessi che i week end si riunivano ed
andavano a camminare, bivaccare, accampare per le montagne della loro
Catalogna. Non ne sapevano granché di politica, né di lotta di classe, ma
sapevano che il franchismo era il nemico comune e lo attaccavano a modo loro.
Poi un mattino che eravamo a potare le vigne sentimmo la sirena
dell’automezzo dei pompieri, orgoglio di un villaggio che non aveva caserme
della polizia né vigili urbani. Quando tornammo a casa e saltammo giù dal
furgone trovammo il capannello di vicini, con le nostre ragazze, i bambini e la
Magda, sua moglie, in mezzo piangente che ripeteva “la mia casetta, la mia
casetta”. Era bruciato tutto. Un corto circuito e l’impiantito di legno, i mobili, gli
infissi erano andati in fiamme.
Ma non bastò. La burocrazia si mise in moto, passò qualche giorno e arrivò
l’ordine d’espulsione. Non per lui, che era stato assunto da un contadino
compassionevole, ma per la moglie e i bambini. Se ne tornarono in Spagna.
Poco tempo dopo se ne andò anche lui.
Il lavoro che più mi piaceva era la potatura delle vigne. Si lavorava meno, le
giornate erano di sette ore. Le squadre erano poco numerose, i ritmi meno
frenetici di quelli della raccolta. Faceva freddo, questo si, con la tramontana
tagliente d’inverno. Ma era in qualche modo un’occupazione creativa, quasi uno
scolpire la pianta ridotta a scheletro dal freddo. I capisquadra erano pazienti,
piccoli proprietari del posto o immigrati spagnoli ed a forza d’imitarli imparai. Ci
si fermava per la colazione, a volte si accendeva un fuoco, si mangiava e si
beveva vino a garganella dalle fiaschette. Mi piacevano quelle pause al riparo
dal vento, imbacuccato in giacche e maglioni, con il berretto calcato a coprire le
orecchie.
Lavorai anche in una cantina ripulendo i tini. Ci entravi seminudo, dallo
sportellino a un metro da terra, con i piedi in avanti. Dentro, la lampadina
illuminava le pareti circolari foderate di cristalli viola, le nuvolette di anidride
carbonica che si alzavano quando smuovevo con il forcone i mucchietti di
grappoli pigiati. Il capataz mi chiamava ogni tanto e mi faceva metter fuori la
testa perché respirassi e per vedere se ragionavo ancora. Era pericoloso ma
pagavano bene
Intanto cresceva la pancia della mia compagna. I primi mesi di gravidanza
spesso era sui campi con me, a calibrare le pesche o a raccogliere fagiolini
oppure al mercato a vendere ortaggi a paesani che già allora preferivano
pagare qualche cosa di più per i prodotti freschi del terroir.
Non avevamo una “vita sociale”. I giovani del villaggio, i pochi che c’erano,
erano troppo presi dal progetto di tagliare la corda prima possibile e poi
guardavano con diffidenza a quel gruppo di hippie anarchici spagnoli che
oltretutto si ostinavano a parlare catalano.
In paese e soprattutto nei campi il catalano si sentiva. Anche se adulti e vecchi
con i figli si sforzavano di usare solo il francese. E così erano ben pochi i
giovani in grado di parlare scorrevolmente la lingua materna, che per loro
comunque era un semplice patois, che non aveva spazio nelle scuole, nelle
amministrazioni, nei media, insomma negli ambiti pubblici. Confinato alle pareti
di casa dove stava morendo, come l’occitano, passato in poco più di una
generazione da 8 milioni di parlanti a quasi nessuno.
Alcuni dei contadini erano figli dell’immensa colonna di centinaia di migliaia di
profughi che nel 1939 aveva cercato rifugio in Francia, incalzata dalle orde
franchiste. Erano i resti dell’esercito repubblicano e soprattutto civili. Tantissimi.
Alla frontiera li disarmarono e li rinchiusero in improvvisati campi profughi, sulla
spiaggia i più numerosi, ad Argeles. Intorno filo spinato e fucilieri senegalesi.
C’era chi cercava di costruirsi ripari di fortuna con le canne e pezzi di legno
portati dal mare ma le guardie li abbattevano. Il freddo, la sete, la fame, la
dissenteria, la sporcizia fecero strage. Poi i superstiti si dispersero in mille rivoli.
Chi si imbarcò. Chi si arruolò per combattere contro i tedeschi. Chi finì in altri
campi, stavolta di sterminio. Chi trovò lavoro. Alcuni rimasero sul posto, accolti
da famiglie pietose e bisognose di braccia.
Uno dei piccoli proprietari che ogni tanto mi assumevano come bracciante
andava spesso a caccia verso i laghi di Carançà, da dove era passato un
grosso spezzone dell’esercito della Repubblica in ritirata. Avevano nascosto le
armi subito dopo la frontiera, prima di essere avvistati dalle pattuglie francesi.
Lui aveva recuperato una pistola inglese, un mauser, un revolver, tutte armi
antiquate ma in perfetto funzionamento.
Anche a me piaceva, nei radi periodi d’inattività o meglio di disoccupazione,
prendere lo zaino ed andare su in montagna a cercare valichi, funghi o a fare i
conti con me stesso, magari con l’aiuto di un acido. Dormivo sotto gli alberi, in
un sacco a pelo. Vagavo senza bussola né cartine, orientandomi col sole o
l’istinto, ma una volta mi sentii male, colto da una febbre improvvisa con mal di
testa atroce. Non avevo nulla da mangiare né da bere. Mi salvarono due
escursionisti che mi dettero un panino e una tazza di tè caldo.
Avevo preso il mio primo acido a Parigi. Mi ero letto qualche libro di
antipsichiatri: Basaglia, Cooper, Lang. Mi interessarono le terapie di Cooper,
che in certi casi prevedevano l’uso di LSD. Ti apriva la porta a viaggi, incursioni
nei tuoi sogni, nelle paure, certezze e desideri. Erano viaggi in territori
sconosciuti e mi sarei dovuto far guidare, ma io non mi potevo permettere di far
entrare nessuno nel mio mondo nascosto, nel mio mondo di doppie verità. Se
c’erano scoperte da fare dovevo farle da solo.
Anche se una notte di capodanno, finito non rammento più come in una festa in
un appartamento di Montmartre, finestre sulla città illuminata e tranquilla, fra
sudamericani assortiti seduti in circolo su una polverosa moquette a parlare di
politica - allora era semplicemente parlare - in francese e spagnolo accanto ad
un ragazzo italiano, capelli lunghi e la stessa età, ad aspettare uno spinello che
faceva mezzo giro e poi tornava indietro e che non arrivava mai fino a noi che
ogni volta protendevamo speranzosi mano e corpo. Cominciammo a
chiacchierare in italiano, visto che tanto esclusi eravamo, guardinghi all’inizio.
Dopo un ultimo infruttuoso tentativo di fare un tiro, il mio nuovo amico si alzò
dicendo che se ne andava a fare un giro, che aveva un acido e che se volevo
me ne dava la metà. Al diavolo la prudenza, mi dissi pensando che la notte di
capodanno era un buon momento per sperimentare un rischio nuovo. E dopo
un po’ eravamo nella luce fredda e grigia dell’alba ad ascoltare i nostri passi e i
nostri accenti toscani. Attraversammo la città addormentata che respirava lenta
dalle bocche della metropolitana, dalle grate sui marciapiedi, dai portoni dei
palazzi grigi e seri. Lui abitava in periferia, non lontano da casa mia. Lo invitai a
prendere un caffè e mentre ero in cucina che armeggiavo lo sentii dire: ma
questo è un compagno di Lotta Continua di A.!
Bofonchiai che era impossibile, prendemmo il caffè, lo riaccompagnai in strada.
Domani penserà che è stata un’allucinazione fra le altre, pensai.
Quello che aveva visto sulla foto appesa alla parete accanto a mia sorella
incinta era Tiziano.
Passarono gli anni ma il babbo evitò sempre di pronunciare la parola suicidio. E
poi il prete aveva celebrato il funerale in chiesa e lo avevano seppellito in terra
consacrata. Era stato quindi un disgraziato incidente. Una caduta fortuita.
Da anni ormai andava alla deriva. Droga, parola sussurrata cosi, vagamente,
senza dettagli, come si fa per i tumori che diventano semplicemente il “brutto
male”. Comunque un progressivo ed imparabile allontanamento dal mondo. Era
uno degli elementi di spicco di Lotta Continua, comunque una scelta coraggiosa
in quel bastione del partito comunista. Era giovanissimo quando aveva
accettato di avere un bambino, di sposarsi, di lavorare all’edicola della stazione,
dove un giorno che aveva visto passare un ricercato aveva convinto il collega
che lo voleva denunciare a non farlo. I primi tempi della mia latitanza offrì il suo
passaporto.
Il loro bambino doveva essere sottoposto ad un intervento a cuore aperto.
Aveva appena tre anni. C’era la possibilità di farlo operare in un ospedale
pubblico dove le probabilità di sopravvivenza erano del 30%. Del 90% invece
dal noto chirurgo formato negli USA, con la sua clinica privata dotata delle più
moderne attrezzature. Bastava solo trovare i milioni necessari. Tiziano diceva
che avrebbe fatto una rapina ma il babbo e la mamma e gli zii che di galere,
tribunali e parlatori ne avevano visti anche troppi riuscirono ancora una volta a
operare il miracolo con i loro stipendi d’impiegati statali. Racimolarono i soldi
necessari e il bambino fu operato e salvato.
Quel primo “viaggio” psicodelico parigino non fu granché. Forse la dose
insufficiente. Ci riprovai qualche tempo dopo con un paio di quadratini di carta
assorbente con una gocciolina in mezzo e il disegno di un cane. Sulle facce
della gente vedevo maschere, i viali, i parchi, i palazzi si allungavano,
scorciavano, dilatavano. Le macchine rallentavano e si separavano dai suoni di
clakson e di motore.
In seguito, avrei “viaggiato” solo in boschi e montagne, dove gli alberi
respiravano e le nuvole mi chiamavano. Gli acidi, la mescalina erano la prova
del nove nei momenti di crisi. Quando non sapevo dove andare, mi dicevano se
ero sulla strada giusta.
Non mi aveva mai fatto domande indiscrete il Joan ma quando alla fine gli
dissi che per la nascita della bambina mi sarebbe piaciuto andare a Barcellona,
e che era meglio se non passavo la frontiera “ufficiale”, si calò appieno nel ruolo
di guida. Tirò fuori mappe e cartine, se le studiò, andò un paio di volte ad
esplorare dei tratti sul confine. Era bravo e resistente, capace di macinare
chilometri e chilometri su e giù per viottoli di montagna, sempre allo stesso
passo, senza mai perdere l’orientamento. Una macchina ci portò nei pressi
della vecchia cascina che era servita da rifugio al Quico Sabater, uno degli
ultimi maquis spagnoli, abbattuto negli anni sessanta dalla Guardia Civil a Sant
Celoni durante una delle sue incursioni in territorio franchista. Lo seguii, una
lunghissima mattina di fine estate, lui infaticabile ed io col fiato grosso, senza
parlare, senza fermarci. Non trovammo nessuno, solo il silenzio dei boschi,
delle pareti a strapiombo e poi del ruscello che si gonfiava a tratti e si faceva
baldanzoso e io morivo dalla voglia di tuffarmici dentro.
Un cartello di riserva di caccia, diverso da quelli della parte francese mi disse
che eravamo in Spagna. In Catalogna mi corresse la mia guida. Arrivammo al
punto d’incontro, una spianata in cui finiva la stradina di montagna che veniva
su dal paesino a valle, e sulla spianata in un angolo, seminascosta fra gli alberi,
c’era la macchina, con la mia compagna e un amico che non aveva voluto farla
viaggiare da sola, con la sua pancia da più di otto mesi. Accompagnammo il
Joan a Figueres, a prendere il treno che lo avrebbe riportato in Francia, ma
prima ci fermammo in un bar, a brindare con birra fresca per il successo
dell’operazione, per lo scampato pericolo, per l’amicizia e la solidarità, per il
bambino o bambina che doveva nascere. Il bar era carino, con una pergola,
sulla piazza di un paese di strade e di edifici di pietra e di una luce diversa. Mi
guardavo intorno e sentivo nelle voci della gente, leggevo sulle scritte dei
negozi una nuova lingua, respiravo nuovi odori.
Tutto mi sembrò più povero, meno verde. Bello.
A Figueres mentre entrava in stazione il Joan mi fece promettere che lo avrei
avvisato per fare il passaggio di ritorno, qualche mese dopo.
Il Joan morì sui quarant’anni. Un tumore al cervello. In un primo momento lo
trattarono da malato mentale. Un universitario che aveva scelto di vivere
zappando la terra non poteva non avere qualche tara psichica. Poi non ci fu
nulla da fare. Non l’avevo più rivisto da quando ce n’eravamo andati dal
Rossiglione. Telefonò un giorno un’amica, una ragazza del paese e disse che
era in fin di vita. A casa dei genitori, confinato in una stanzetta. Ci andai in treno,
i suoi abitavano in un piccolo centro della costa. Restai ad aspettare in un bar la
Lidia, sua moglie. Venne a dirmi che era meglio che non andassi a trovarlo.
Che a lui non sarebbe piaciuto che lo vedessi così. Era fiero della sua forza,
della sua resistenza alla fatica e al dolore. Adesso era un vinto.
Era figlio di una famiglia operaia catalana. Si diceva anarchico e si sentiva
indipendentista e si era messo con la figlia di gente dell’alta borghesia, di quelli
che in casa parlavano spagnolo. Avevano avuto quattro figlioli e le due più
piccole sarebbero andate a vivere una con un ebreo praticante e l’altra con un
islamista, in due città lontane. Non si parlavano più le due sorelle e la nonsposa dell’islamista faceva il ramadan e sputava di nascosto per non ingoiare la
saliva perché il profeta aveva detto di non farlo. Ci sarebbe rimasto tanto male
Joan, ateo convinto, nemico dei dogmi.
Il giorno che avevano strangolato e spezzato il collo al Puig Antich, in una sala
colloqui della prigione Modelo, vittima di quello strumento di tortura che era il
garrote vil, Joan era a lavorare sul suo campetto e piantava la vanga in terra
con rabbia e piangeva. Impotente come molti, moltissimi della sua generazione.
Aveva anche lui il suo odio. Frutto di umiliazioni e terrore e paure. Ed aveva
anche lui un piccolo arsenale. Lo aveva sotterrato in un angolo del suo
campicello, un vecchio mauser, un winchester, una 7,62. Vi aggiunsi la mia 22.
Ospitava ogni tanto gente che fuggiva dalla Spagna ancora troppo franchista
nonostante la morte del vecchio tiranno. Uno rimase a lavorare con noi qualche
tempo. Era un operaio, basso e tarchiato, di origine andalusa. Di un gruppo che
faceva rapine per finanziare gli scioperi delle grandi fabbriche dell’hinterland
barcellonese. Con il fiato della polizia sul collo passò le montagne e si rifugiò da
noi, assieme ad una ragazzetta giovanissima che non spiccicava mai parola,
timida o impaurita. Anche lui sotterrò il suo revolver calibro 38 nel nostro zulo
domestico. Era un lavoratore e sgobbava sodo meritandosi così il rispetto di
Joan, ma era anche comunista e un po’ rozzo d’idee ed espressione e le
discussioni duravano a volte fino a notte inoltrata.
Per lui tutto era semplice: eravamo in guerra, una guerra in cui “loro” avrebbero
vinto inevitabilmente perché “loro” erano non solo più potenti, più numerosi e
più forti ma anche e soprattutto perché sapevano torturare, terrorizzare i loro
nemici, colpire, minacciare la famiglie, spandere la paura. Senza scrupoli e
remore che infiacchiscono e fanno dubitare. A noi restava solo la possibilità di
restituirgli un po’ di terrore.
Dopo un po’ di tempo se ne andò, da un giorno all’altro e senza dir nulla. Con
tutte le armi. Lì per lì ci restammo male, poi ci dicemmo che forse ne avrebbe
fatto buon uso.
Mi bevvi con gli occhi il pezzo di Catalogna che scorreva ai lati della strada per
Barcellona. Erano i primi di settembre e faceva caldo. La città mi apparve piena
di traffico, polverosa, abbagliante di luce sporca.
Andammo a casa di lei, di sua madre, una donna gioviale ed attiva, infermiera
militare repubblicana al fronte durante la guerra di Spagna, iscritta come tante
altre ragazze piene di speranze e di sogni alla FAI. Quando sua figlia le aveva
detto di essersi innamorata e che aspettava una bambina e che non si sarebbe
sposata, si era limitata a dirle “cosa ti serve?”.
Poco dopo nacque la bambina, un parto non facile, con il padre, cioè io, che
andava su e giù senza sapere bene cosa fare e le infermiere che non ci
prestavano granché attenzione e che non volevano disturbare di notte il medico
e insomma senza anestesia in una sala operatoria in un angolino a guardare lei
che tutta sudata gridava ogni tanto e il dottore che le parlava e le infermiere con
i camici e tanta luce e pensavo quando venne fuori la bambina che ce n’era
troppa di luce e che l’avrebbe abbacinata. Le guardavo e mi sentivo strano
dentro. Quell’esserino lì era arrivato per decisione nostra ed era responsabilità
nostra proteggerlo. Un’altra sfida.
Dopo qualche settimana riattraversai il valico e tornai al lavoro dei campi.
Trovammo una nuova casa, un appartamentino di un paio di stanze ma con un
bagno, una cucina col frigorifero e l’acqua calda e le finestre e la porta che si
chiudevano bene ed una stufa a cherosene che riscaldava e passarono i mesi e
la bimba che cominciava a zampettare imparò la prima parola in italiano ed
era ”brucia” perché io le dicevo “non toccare che brucia” e lei alla fine toccò e
vide che effettivamente bruciava.
Lavoravo, andavo a spasso, facevo la spesa, dormivo, giocavo con la bimba.
Ogni tanto le visite di amici di lei o di Parigi ed anche una dei miei, contenti, la
mamma soprattutto, di vedermi così normale, con una vita ed affetti normali
anche se non esattamente nella posizione sociale che avevano sognato. Che
poi non era mica tanto ambiziosa: giornalista, ufficiale di marina, un mestiere
sicuro con un pizzico di avventura.
Ma a me non bastava. Ora che avevo messo un’altra creatura al mondo avevo
una ragione in più per cambiarlo, perché quel mondo era uno schifo, faceva
schifo e come si fa a metterci dentro qualcuno senza almeno provare a renderlo
un po’ più decente?
La lotta politica si adattava. La chiamavo in quel periodo, quando ci pensavo un
po’ su, perché ogni vera lotta deve avere la sua parte di teoria e riflessione
sennò è semplice ribellismo, “difesa del territorio dall’aggressione capitalista”,
aggressione che poteva consistere nella costruzione di una strada, nel taglio di
un bosco, in un’urbanizzazione, cioè in qualche violenza alla natura. Era una
guerriglia da week end. Nelle rare scampagnate in 2 CV individuavo gli obiettivi
e la settimana dopo ci tornavo in bicicletta, o in pullman se era più lontano,
armato in genere di un pacco di zucchero, tenaglie, sigarette e cerini per gli
inneschi. Il ritardo è di cinque dieci minuti dipende dalla sigaretta e dal vento.
Di notte piantavo chiodi sugli alberi segnati, svellevo paletti, mettevo zucchero
ed acqua nei motori, tagliavo fili elettrici, bruciavo ruspe e macchine isolate e
casotti degli attrezzi, seminavo chiodi a quattro punte fatti in casa con tappi di
sughero sui sentieri di accesso ai cantieri. Mi muovevo con prudenza e
controllavo sempre che non ci fossero sorveglianti, sistemi di allarme, ma
poteva capitare che ci fossero cani e infatti una volta me la stavo filando in
bicicletta e c’era la luna e respiravo il buio della notte e ne sentii e poi vidi uno
che scendeva di corsa verso la strada, cioè verso di me. Non abbaiava, brutto
segno se è vero il detto del “can che abbaia non morde”, era grosso e
sembrava nero ed io avevo solo una fionda e biglie di ferro per rompere
eventuali lampioni o fari cosicché scesi e tesi l’elastico e presi la mira mentre
quello continuava a venir giù e lo sentivo che ringhiava mentre cercava un
posto per saltare e così mi presentò il fianco e tirai e lo beccai in una costola e
rotolò di lato guaendo e poi scappò.
Per il resto avevo scelto una vita normale, da lavoratore. Ma ero ricercato, non
avevo documenti. Sarebbe bastato un controllo, un incidente, anche banale,
come quello del compagno di squadra che s’infilò una scheggia di canna in una
mano e dopo qualche ora aveva il braccio gonfio e dovettero portarlo di corsa
all’ospedale con il tetano, per far crollare tutto il mio nuovo mondo come un
castello di carte.
Tanto sarebbe valso rubare, rapinare, anche se non sapevo. Cioè anche se
sapevo che sono mestieri che non si improvvisano. Ma tutto si impara. E poi
avevo letto Bertolt Brecht:
“è più criminale fondare una banca che svaligiarla”.
L’occasione me la presentò un pomeriggio un ex impiegato di banca dalle idee
radicali. “Ragazzi senza soldi non si fa la rivoluzione”, “per lottare contro il
capitale ce ne vogliono di capitali” e via dicendo. Essì, proprio così, e i soldi ci
sono basta andare a pigliarli dove li tengono ammucchiati, per esempio in una
banca. Per esempio in una banca di cui un ex dipendente incazzato potrebbe
fornire piani e informazioni.
Sentiamo un po’. Un caveau antiquato ma con un sacco di soldi dentro. È facile.
Un piccolo tunnel, poi si sfonda il pavimento, poi si apre con la lancia termica,
poi si insacca, si carica e si parte. Milioni garantiti. Abbastanza milioni da viverci
una vita per la rivoluzione. Occorrerebbe un piano. E ce lo abbiamo. Tre o
quattro compagni decisi. Ci sono. La lancia termica. Ce l’ha lui. E poi bombole
di ossigeno per la lancia, furgoncino, attrezzi vari. Che per rimediarli ci vogliono
soldi. Che, quelli, vanno trovati.
E si trovano dando fuoco a un paio di macchine di nemici del sistema,
operazione commissionata da un gruppetto di intellettuali poco portati all’azione
diretta. I compagni-complici trovano ammirati che non è male come modus
vivendi. Freno il loro entusiasmo.
Decidiamo di attaccare attraverso le fogne. Facciamo il sopralluogo una notte di
dicembre. Nevica. Entriamo da un tombino in un vicolo deserto. Percorriamo
chilometri alla luce delle lampadine, sotto volte fantasmagoriche. Abbiamo
stivali da pesca che sguazzano nell’acqua biancastra, melmosa. Abbiamo la
bussola. Abbiamo tempo, non c’è rischio che nessuno scenda con ‘sto freddo e
i canali gonfi d’acqua. Troviamo il punto. Sopra scorre la strada. Siamo ad una
decina di metri dalle fondamenta della banca. Si può fare. Il più giovane del
terzetto si fa male. Una storta. Devo portarlo a cavalcioni. Fra la nebbiolina
sospesa, le pareti di pietra sgocciolanti, le gallerie piccole e grandi che si
aprono ai lati del tunnel principale come in un labirinto. Fuori scorre il traffico, si
scioglie la neve. L’acqua entra a fiotti da canali e tubazioni.
Raggiungiamo l’uscita sul greto di un fiume. Spezziamo la catena che chiude il
cancello con una tronchesina. Usciamo. Mettiamo un altro lucchetto, uguale
all’altro. Entreremo da qui con tutto il materiale. Da dietro le nuvole scende il
chiaro di luna. Per terra, sul bianco della neve, vedo un rettangolino scuro. Mi
chino a raccattarlo. È la carta d’identità dell’ideatore del piano, che sta
osservando compiaciuto la catena che chiude l’inferriata, con il lucchetto nuovo.
Gli porgo la carta in silenzio, toccandogli un braccio. La prende e ridacchia. Lo
fisso perplesso. Ci togliamo gli stivali e li ficchiamo in buste di plastica. La
macchina è vicina, sarebbe proprio sfiga se qualcuno ci fermasse. Ma tanto
andare in giro con gli stivali da pesca una notte di neve mica è un reato, dice
uno. Non rispondo.
In macchina tacciamo fino ad un bar aperto. Scendiamo, entriamo, ordiniamo
quattro bicchierini di rum flambé, anche se il barista brontola perché i bicchieri
bruciati dopo non c’è verso di pulirli. Accendiamo le sigarette e facciamo il
punto della situazione. Ormai non dovrebbe mancare nulla.
Abbiamo anche provato la lancia termica, in un paesino di montagna
abbandonato. È ingombrante: ci sono le aste di un metallo speciale che si
consumano e bisogna cambiarle, ne abbiamo una dozzina, speriamo che
bastino. Poi le bombole di ossigeno rubate in un cantiere perché non sono mica
cose che si comprano al supermercato e poi ancora la tuta d’amianto.
Interrompo l’esposizione. “Scusa, ma come siamo messi con gli allarmi, li
neutralizzano dall’interno?”. “Ah no, mica lavora più li, il contatto. Comunque
forse non ci sono allarmi”. Fa il regista del colpo.
Sospiro. “Scusa non ho capito bene. Non eri tu che avevi detto che il piano era
pronto e che mancavano solo tre o quattro cosette? Quella degli allarmi mica
sarà per caso una delle tre o quattro cosette? Non avevi pensato agli allarmi.
Come sarebbe a dire che forse non ce n’è? Ecchecazzo ma se ce l’hanno
anche nella libreria del mio paese, gli allarmi! Che sicuro che non ci hanno
speso soldi che tanto si trasferiscono? Ma tu sei o fai da scemo? Ma se
telecamere, sensori di presenza peso calore rumore oggi te li regalano in kit
fai-da-te per le lezioni di applicazioni tecniche!”. La discussione rischia di
degenerare. Il barista ci guarda preoccupato. Paghiamo ed usciamo.
Poco dopo anche il sodalizio con gli altri tre si sciolse. Cominciai ad immaginare
con tristezza un futuro di svegliatacce all’alba e di pastis prima di pranzo e fino
all’alcolismo se andava bene. Fortuna che un amico di passaggio insisté perché
ci trasferissimo a Maiorca. Era di Maiorca, lui, e ci assicurò che lì avremmo
potuto trovare lavoro e casa, “di certo meglio di qui” affermò alludendo all’umile
dimora e alla situazione in genere in cui ci trovavamo, di una evidente sia pur
dignitosa povertà.
Cosicché impacchettammo, chiudemmo la casa, salutammo i vicini e i
conoscenti e via, si riparte! Prima tappa Barcellona, cioè prima la scarpinata in
montagna e poi Barcellona. E da lì il traghetto per Maiorca.
Maiorca è un’isola tranquilla.
L’isola della calma, la chiamano. I controlli per la via erano inesistenti o quasi. Il
quasi è per il re, che lì c’ha sempre avuto i suoi giri e gli piaceva scorrazzare su
e giù, non sempre precisamente in visita ufficiale, trasformando la città e
dintorni in un vespaio di poliziotti in borghese. E così una sera che rincasavo da
solo nell’appartamentino accanto alla ferrovia che va a
Sóller, due giovanotti
mi fermarono chiedendomi i documenti. Dove andavo, da dove venivo e cosi via
interrogando. Erano alti e dall’aria tosta e non si accontentarono della solita
scusa: “sa sono un turista e da noi non c’è l’abitudine di portarsi dietro i
documenti”, come a dire educatamente “da noi dei paesi democratici la gente
normale va in giro liberamente a farsi i cazzi suoi senza che la polizia gli rompa
i coglioni”. Quelli di sicuro avevano viaggiato più di me e questo tipo di
ragionamento non li impressionava più di tanto e decisero di approfondire
anche perché, osservò uno dei due, per essere un turista parlavo molto bene lo
spagnolo. “Il fatto è che sono un turista di mestiere traduttore”, spiegai io, al che
l’altro osservò sarcastico che non sapeva che ci si potesse guadagnare la vita
con un mestiere così. Certo che, pensai guardandomi bene dal dire, in quanto a
modi strani di guadagnarsi il pane il vostro, secondo il mio modesto parere, ha
pochi rivali. Ma, dico, andare in giro a minacciare e picchiare e sparare alla
gente lo chiamate lavoro? E invece alzai le spalle con l’aria di “che ci vuoi fare,
si tira a campa’” e visto che comunque poi in fondo non ero basco mi dissero di
andar via.
L’isola della calma…, sarà stato prima dell’arrivo delle orde di turisti che per
fortuna in genere si limitavano e limitano a scottarsi, ubriacarsi, abbuffarsi di
hamburger e patate, scoparsi fra di se ed ogni tanto affogarsi senza spostarsi
troppo da circuiti strettamente segnalati. Se evitavi le spiagge traboccanti di
alberghi e la zona di svago notturno, piena di discoteche e fauna umana uscita
da un film di un Fellini rincoglionito, potevi anche avere la sensazione di vivere
in un posto da favola.
Il trenino di legno che andava da Palma a Soller, un binario, le carrozze da far
West con una prima classe che era come un salottino e la locomotiva a vapore,
aveva la stazione capolinea, una stazione da cartolina della corsa all’oro, a due
passi da casa nostra. Ogni tanto con la bimba lo prendevamo ed era bello quel
lento scorrere osservando dalle panche di assi lucidate dall’uso la campagna e
poi i tunnel e poi il belvedere sulla montagna che digrada verso il mare e
paesini. Era luminoso e sereno.
La campagna era bella, coi suoi olivi, mandorli, carrube, i campi di fichi coi
contadini che ti dicevano di prenderli, perché tanto li davano ai maiali, i villaggi
dal nome e l’atmosfera romantica. Valldemosa. Deià. E c’erano le cale, in molti
periodi dell’anno deserte. Ce n’era una con una fonte d’acqua dolce che
scaturiva a cascatella proprio sulla spiaggia. Ci si praticava il nudismo in quella
spiaggetta e in una pozzanghera ci s’infangava prima di tuffarsi fra le rocce.
C’era il sole, il mare, l’odore del mare e dei pini. Notti di luna e luoghi incantati.
E le panetterie e i cibi, retaggio cristianizzato nei nomi ma spesso cogli stessi
ingredienti legati dal passato ebraico. Gli ebrei convertiti, cioè quelli che
avevano come alternativa l’espulsione o la morte, qui sono ancora chiamati
xuetes, oggetto di un malcelato razzismo. E sono passati cinque secoli.
La gente è come nel resto del Mediterraneo, immagino. Pacioccona, tranquilla,
amabile e diffidente. E conservatrice, anche se si è venduta al turismo, almeno
in apparenza, anche l’anima. Tranquilla si, anche se questo non significa molto,
perché a quanto mi dicono era tranquilla anche prima del ’36 e, non appena
circolò la notizia del colpo di mano di Franco, in pochi giorni i morti si contarono
a migliaia.
Anche per questo mica ci fece tanto piacere sentire del colpo di stato di Tejero.
Maiorca rientrava nella regione militare di Valencia, dove il generale
ammutinato era Milans del Bosch e la radio diffondeva a ripetizione il suo
proclama di stato d’assedio. Credo che non ci fu nemmeno bisogno di
minacciare i redattori con le armi, si sa, i giornalisti sono lavoratori, mica eroi,
anche se poi si danno tante arie da quarto potere e garanti della democrazia.
Una voce marziale avvertiva che chiunque fosse trovato in possesso di armi
sarebbe stato passato per le idem. “Ma di che cazzo di armi parla ‘sto figlio di
cane?”, chiese uno di noi, scandalizzato. Scandalizzato perché quei militari
sediziosi, che si riempivano la bocca di paroloni come onore e coraggio e valore
e orgoglio, poi il colpo di stato lo facevano, come lo avevano sempre fatto,
contro una popolazione che, se prima di armi ne aveva poche, dopo quaranta
anni di dittatura del vecchio sanguinario era una delle più inermi del mondo. A
Valencia comunque, per dissuadere la plebe dall’impugnare i coltelli da pane e
le bombole di gas, il generale mise in piazza i carri armati. A Maiorca no, anche
se Guardia Civil e polizia, altri eroici difensori della democrazia, erano piuttosto
in agitazione, caso mai alzasse la cresta qualche rosso. Poi il golpe rientrò,
anche se io credo, come molti del resto, che invece riuscisse alla perfezione:
scusa perfetta per legittimare una monarchia insediata da Franco a garantire la
continuità gattopardiana del regime.
Nei giorni successivi c’era chi tirava sospiri di solllievo mentre i fascisti facevano
di quell’idiota del Tejero, coi suoi baffoni da circo equestre, un eroe e sulle
pareti delle case i viva Tejero si sprecavano e una sera partimmo in comitiva,
quattro o cinque, e con la nostra tecnica da commando urbano, cioè aspetto da
giovani coppie coi bambini andammo un po’ a zonzo per la città e sotto ogni
viva Tejero aggiungevamo a spray un y su pastelera madre, formula adottata
dopo un serrato per quanto breve dibattito, perché noi ragazzi propendevamo
piuttosto per il più classico e certamente più offensivo y su puta madre, bocciato
però dalle compagne, di credo femminista e anche un po’ più tendenti al
détournement creativo.
La tecnica del gruppone familiare l’avevamo già sperimentata e l’avremmo
applicata in seguito in piccole iniziative di dispettaggio, via di mezzo fra dispetto
e sabotaggio, come i boicott a agenzie immobiliari o Mc Donalds: si sosta
davanti all’obiettivo a chiacchierare ed intanto uno silicona la serratura o butta
acido sui vetri, o graffia la vetrina con una punta a diamante o piscia
sull’ingresso, a seconda.
La bimba cresceva. La mia compagna dava lezioni private per ripetenti e
recitava in una piccola compagnia teatrale. Io montavo esposizioni oppure
insegnavo italiano a figli e soprattutto figlie della Palma-bene. Una delle mie
alunne era la primogenita di un capitano della polizia. Ce la ingegnevamo per
pagare affitto, luce, mangiare. Non avevamo vizi cari, ogni tanto una birra con
gli amici, un panino al bar. Ogni tantissimo un cinema con la bimba in collo che
se ne stava buona buona e poi si addormentava.
Passeggiavo spesso vicino alla zona del porto e chiacchierando con il padrone
di un bar seppi un giorno che cercavano gente per riverniciare, incatramare,
lucidare lo yacht di un riccone tedesco che lo lasciava ancorato tutto l’anno a
Maiorca con il capitano dentro. Ci andai e mi presentai al capitano, un ometto
serio serio e dall’aria da ubriaco triste e coi baffi e che triste non so se lo fosse,
ma ubriaco di certo e quasi sempre. Il padrone, a quanto capii, veniva ogni
tanto con qualche amico a pavoneggiarsi al timone. Quando infine lo conobbi,
questo riccone tedesco, scoprii che era uno giovane, che non so come aveva
fatto i soldi, ma era simpatico e non s’incazzò anche se invece di navigare sulle
fresche acque mediterranee, gli toccò starsene sul dique seco a dare una mano
con pennelli e prodotti chimici vari.
Il fatto è che la squadra di lavoratori era composta da me e da Philippe, e su di
una scala da uno a dieci la nostra esperienza in fatto di natanti era di un due ed
il due ce lo metteva il Philippe che, pur essendo svizzero, era padrone di un
piccolo veliero.
Ne parlava male della sua Svizzera il Philippe, troppo ordinata, chiusa,
intollerante e se n’era andato per non sottostare a quella disciplina sociale che
trovava insopportabile. Non è che fosse un ribelle o una testa calda, era
tranquillo, pacato nei modi e nel parlare. Aveva una casetta in affitto in mezzo a
campi di olivi, piccolina e austera e dentro ordinata e immacolata. Ed era un
anfitrione felice quando invitava gli amici ad una fondue o a un müsli che
preparava lui.
Lavorammo insieme per qualche mese, lui con meticoloso rispetto delle misure
di sicurezza, cioè con mascherine, guanti ed occhiali. E aveva mica torto
perché la polvere era da silicosi e i prodotti che spalmavamo sulla scafo erano
tutto meno che innocui per ambiente e persone.
Persi di vista Philippe quando ce ne andammo da Maiorca. Non avevamo
telefono. Cellulari o e-mail erano fantascienza e scrivere era faticoso. Fu un
amico comune a dirmi qualche anno più tardi che Philippe era scomparso in
una tempesta al largo della costa galiziana.
Durò un anno il soggiorno maiorchino. Un anno in cui fui più vicino che mai
all’idea che in genere ci si fa, del vivere la gioventù. I lavori che facevo, in
confronto
con quelli in Francia, erano di tutto riposo. Andavamo spesso al
mare, su spiagge ancora incontaminate. Come quella lunghissima di Es Trench,
con la pineta che arrivava fino alle dune, lontana da ogni paese.
Avevamo una cerchia d’amici composita. Camerieri ballerine professori di liceo.
E un doganiere dell’aeroporto di Palma che lavorava con Guardias Civiles e ci
raccontava dialoghi esilaranti del tipo:
“oggi mi sono comprato un impianto isterico”,
“vorrai dire stereo”,
“beh, è inverosimile!”,
“vorrai dire che è indifferente”,
“vabbè, sono parole sinagoghe”. E così via. Giurava che era tutto vero.
Eravamo gli unici del gruppo ad avere una figlia e tutti le facevano volentieri da
zietti e lei era felice. Con noi andava dappertutto, sul passeggino o in collo, in
gita a spasso o sulla spiaggia. Cantava e rideva allegra con gli occhi azzurri e il
sorriso da pagliaccetto.
Cominciai a fare taek won do, per l’iscrizione non chiesero nulla, a parte i soldi
ovvio e il maestro mi prese a benvolere e mi disse che c’avevo il fisico e perché
non mi mettevo a gareggiare, ma quando gli dissi che avevo venticinque anni
mi fece “ah beh allora no, mi dispiace, sei troppo vecchio”. Cazzo cominciavo
bene e comunque non avrei potuto entrare nel mondo della lotta perché
bisognava iscriversi ad una federazione, sottoporsi a visite in centri ufficiali e
quindi presentare qui e là documenti eccetera.
Si faceva anche un po’ di vita da bar. Cioè ci si ritrovava, chiacchierava, beveva
in localini simpatici, fuori dal circuito turistico e da quello malavitoso. Ci si
andava a socializzare, ma erano vicini al porto e poteva capitarci dentro
qualche marinaio o marine yankee ubriaco. Ed un giorno che eravamo lì
tranquilli arrivò uno, marinaio a giudicare dai tatuaggi, spagnolo, a giudicare
dalle quattro parole che pronunciava, e ubriaco sfatto a giudicare dal
comportamento. Afferrò la birra di una compagna e se la bevve. Poi prese la
mia. E se la bevve. Allora l’altra compagna finì in fretta la sua. La cosa lo irritò e
disse che gliene ordinassimo un’altra. Allora io feci “va bene ce ne andiamo” e
ci alzammo e ci avviammo all’uscita, ma quello mi si piazzò davanti
bofonchiando che non me ne potevo andare perché lui voleva un’altra birra ed
allora picchiai e sentii il rumore che fa il pugno sulla carne e sull’osso e barcollò
e fece tre o quattro passi indietro e si resse al bancone e non cadde e due o tre
ragazzi del bar lo portarono fuori.
Era bella Maiorca. Con una sua magia, diversa da quella dei boschi di castagni,
dei faggeti o delle montagne aspre della mia terra. I maiorchini che conosco
non sanno restare lontani dal mare. Gli prende l’angoscia, hanno bisogno della
vicinanza di quella distesa immensa sempre uguale e sempre diversa che li
circonda da tutte le parti e che gli serve da strada per il mondo. Ma hanno
anche le loro montagne.
Una notte di maggio, notte di luna piena. Eravamo andati a cogliere camomilla
in un anfiteatro di rocce, alberi dal tronco nero, aria tiepida che ti ubriacava,
pesante com’era di aromi densi. Silenzio frammisto a rumore esitante di passi,
versi di uccelli, il vento. Fu una delle ultime notti a Maiorca.
Era passato un anno di placida vita isolana e la bimba cominciava a farsi
grande. Forse un giorno l’avremmo portata a scuola e di lavoro ce n’era poco e
l’isola era piccola e tutti si conoscevano. Era meglio muoversi. Forse ormai non
mi cercavano più di tanto, ma non si sa mai. Prendemmo la decisione di tornare
a Barcellona.
Barcellona è un delta. Ramificato lento impantanato aperto a mareggiate e
fertile. Qui il viaggio durato sette anni si disperde in mille rivoli. La militanza, gli
affetti, il lavoro, la cultura. La famiglia le amicizie. Paure angosce speranze
gioie dolore.
Il quartiere del “basso” dove vivevamo, un pianterreno un po’ buio ed umido
che dava direttamente sulla via, era accanto alla Plaça d’Espanya. Un rione
popolare, vicino alla Zona Franca, con le grandi fabbriche della Seat e di altre
industrie. Relativamente vicino al porto, c’era, accanto ad officine e capannoni,
il mattatoio. Oggi divenuto parco, con la statua del Miró “Dona amb ocell”.
C’era la piazzetta dei gitani, gitani bianchi cioè stanziali e ci si incrociava tutto il
giorno e si conviveva, anche se sono fatti a modo loro – come noi del resto - e
per esempio la mia compagna, che conoscevano sin da piccola, quando la
incontravano da sola la salutavano ed erano gentili, ma quando andavano in
gruppo non la guardavano nemmeno.
Le ragazze erano bellissime e sempre in minigonna e scollature audaci. E i
patriarchi vestiti di nero col cappello a tese e il bastone, eleganti e signorili. Ce
n’era uno che ogni giorno faceva il giro delle case del suo numeroso clan per
assicurarsi che tutti avessero da mangiare.
Gitano era anche Helios Gómez, cartellonista della Repubblica, abitante forzato
del quartiere quando lo rinchiusero nella Modelo, la prigione davanti alla
stazione di Sants. Ed alla Modelo affrescò la cappella, la “cappella gitana” la
chiamano, e dicono che era bellissima, ma poi una direzione decise di ripulire il
tutto e coprirono di calce i dipinti.
All’imbrunire dalle finestre delle cucine si diffondeva il suono delle forchette
sbattute sul piatto, nell’immancabile rito della frittata per cena.
A quattro passi da casa c’era il Montjuïc, la montagna che strapiomba sul mare,
sovrastata da un castello o meglio una fortezza al cui interno fino a poco tempo
fa c’era il museo militare con la statua di Franco e la bandiera catalana esposta
sotto una teca come bottino di guerra.
Ci portavo a spasso la bambina che era socievole e quando vedeva un altro
essere delle sue dimensioni gli si avvicinava sorridente con l’intenzione di
arruolarlo nei suoi giochi. E un pomeriggio che ero lì sulla mia panchina dando
un’occhiata a lei e una ad un libro sentì che un bambino le diceva che il
catalano era una lingua da ignoranti e che secondo suo padre lui non doveva
giocare con bimbi ignoranti. La portai via dicendogli (al padre) che al mio paese
gli avrebbero rotto il muso.
Intorno alla fortezza c’è il fosso, che si estende per centinaia di metri. Fa il giro
della montagna e adesso ci hanno fatto i giardini ed un campo di tiro all’arco.
Cosa di dubbio gusto, visto che il tiro al bersaglio ce l’hanno fatto in questo
esatto punto per decine di anni e contro gente in carne ed ossa. Qui venne
passato per le armi anche l’ultimo presidente della Generalitat repubblicana,
Lluis Companys.
Subito dopo la morte di Franco, a Montjuïc si riunirono centinaia di migliaia di
persone per le giornate anarchiche. In un tripudio di bandiere rosse e nere parlò
Federica Montseny, eroina del movimento libertario, ex ministro anarchico del
governo repubblicano, una vita da esiliata.
Adesso la montagna è piena zeppa di impianti artistico-culturali: la fondazione
Miró, il Museu d’Art de Catalunya, il complesso teatrale del Teatre lliure, nello
spazio del vecchio Mercat de les Flors, il teatro Grec, riproduzione appunto di
un teatro greco e poi fontane e aiuole e giardini di stile modernista ed ancora il
giardino botanico.
E ci sono anche il palazzetto dello sport e lo stadio olimpico. Lo stadio era stato
costruito per le olimpiadi del 36 che dovevano svolgersi qui ma il comitato
olimpico, che già allora doveva essere composto da begli elementi, scelse la
Berlino hitleriana ed allora Barcellona decise di fare delle olimpiadi popolari, ma
poi scoppiò la guerra e lo stadio finì nell’abbandono.
Gli anni cominciano a scorrere, a sfilare sempre meno lentamente in una
girandola di colori, odori, sensazioni, fitte, grida, sussurri, lacrime e risa. Sorrisi.
Uns vita normale, una famigliola di lavoratori con una bambina che allevano
come meglio possono.
Conoscevo uno che raccontava che da piccolo lui pensava che tutti i babbi e le
mamme degli amici fossero tossici che si facevano le pere quando erano in
casa, perché il suo mondo era così.
Noi non eravamo così marginali, al massimo un po’ hippyes.
Niente alimenti raffinati, zuccheri, coloranti. Niente pannolini usa e getta che
inquinavano e irritavano il sederino. Usavamo quelli di cotone, che si lavavano
a mano e per farli venire bianchi si stendevano al sole o ci si metteva un po’
d’acqua ossigenata. Niente succhiotti e biberon. Latte materno e poi pappine
fatte con cereali integrali tostati e macinati in casa e miele e frutta. Fuori
caramelle e dolciumi. I vestitini recuperati da familiari, conoscenti.
Paffutella e sorridente i primi anni. Poi mingherlina e un po’ timida. Andavamo a
spasso, la portavo in bicicletta.
Una bimba zampettante felice col cappottino due taglie più lungo che si tuffa di
colpo nel Mediterraneo gelido di gennaio, che si guarda le scarpine nuove
appena fregate mentre passiamo davanti alla cassiera del supermecato. Che
ascolta affascinata i racconti di magia e vuole essere una fata e che di notte si
alza e corre in preda ai sogni. E poi la polmonite e ascolta contenta sul lettino
dell’ospedale le storielle che invento per lei, che poi sono versioni comiche di
episodi come il Ratto delle Sabine o i Musichieri di Brema, che piacevano tanto
anche a me quando ero piccolino e lei sogna di diventare veterinaria e di
salvare e curare animaletti.
Poi cresce, diventa adolescente, studia, va all’università, viaggia e un giorno
viene investita da una macchina e per poco il mondo non si ferma. Per un soffio.
Per un miracolo non si ferma.
Gente normale con preoccupazioni normali: trovare una casa nuova più in
centro, arredarla, pagare l’affitto. Cerco lavoro e ne trovo e via via divento
sempre più bravo fino a discreto professionista. Stimato da colleghi e clienti.
Parliamo di lavoro e di sport e di politica e della famiglia e dei fatti del giorno.
Nessuno sospetta le paure i batticuori, le acrobatiche operazioni per schivare
controlli. Per entrare, senza documenti, in luoghi ufficiali. Eludo misure di
sicurezze non per attentare né per rubare. Per lavorare. Se ci pensi è buffa.
Rischiare ad ogni piè sospinto anni di galera per andare a faticare. Nessuno
sospetta ed io arrivo a fine mese fra una scarica di adrenalina e l’altra. Ma ti
abitui. Come ti abitui ad andare in giro scrutando la strada per scoprire controlli,
posti di blocco.
Clandestino nel lavoro, per strada. Anche con gli amici e dispiace perché sono
gente che amo ed ammiro.
Non ti esporre, mi diceva il babbo. Ed io invece mi esponevo. Manifestazioni,
riunioni, iniziative. Tiravo sassi e bottiglie e facevo barricate. Partecipavo a
movimenti d’ogni genere. Alle grandi mobilitazioni di massa di un paese che è
capace di scendere in piazza a fiumi senza partiti od organizzazini che lo
inquadrino. Referendum contro l’ingresso nella NATO, le lotte contro il nucleare,
contro la repressione, contro la guerra in Jugoslavia e poi in Irak. Collaboravo
con gruppi e gruppettini. Frequentavo centri sociali. Scrivevo su riviste
alternative. Partecipavo al movimento di radio libere.
Barcellona è una piccola grande città. Vivibile, affabile. Ma io avevo bisogno di
aria pura, di spazi liberi e così viaggiavo e percorrevo in lungo e in largo in
bicicletta, in treno questo paese che sentivo ogni volta più mio. Montagne e
spiagge e pianure. Montserrat. Paesi con le loro tradizioni, molte basate sul
fuoco: correfocs, diables, castells de foc, falles, fogueres. Fino ai trabucaires,
cioè squadre di amanti della polvere che con i loro schioppi sparano in aria
salve assordanti. Sfilano in costume d’epoca, hanno i tamburi ma quello che gli
piace è il rumore e l’odore della cordite.
E mi allontanavo dall’Italia anche con il pensiero. Non cercavo più giornali,
m’interessavo poco per quello che succedeva.
Gli anni ottanta decretarono la fine delle grandi speranze e dei sogni dei 70.
Vinsero gli altri. Imponendo le loro menzogne, la loro brutalità.
Restavano le visite del babbo. Era in pensione e una volta all’anno indossava
i panni del perfetto clandestino e, infilando una coincidenza dietro l’altra con la
precisione che permetteva la puntualità delle ferrovie, passava due, tre giorni in
treno per venirmi a trovare. Con le notizie della famiglia. Le foto della casetta
comprata con sacrifici per dare una gioia alla mamma che aveva sempre
sognato un focolare suo con un pezzetto di terra dove sistemare le sue piante.
Se la poté godere solo un anno perché poi il tumore la vinse ma in quell’anno
disegnò un giardino con aiole che sarebbero fiorite in tutte le stagioni dell’anno.
Venne la Lucia a dirmi che la mamma era morta. Quasi da due mesi. Aveva
proibito a tutti di farmi sapere della sua malattia. La polizia sorvegliava troppo
da vicino il babbo, gli zii, mia sorella. Anche al funerale c’erano carabinieri in
borghese a scrutare se per caso non mi fossi confuso fra la folla per seguire la
bara. Si offrì lei. Era la cugina più piccola. Andavamo al mare insieme. Al
campeggio. Giocavamo da piccoli sulla piazzetta davanti a casa sua, a
strapiombo sul fiume.
Rientravo in casa. Era un basso, la porta dalla strada dava sul soggiorno. C’era
un vecchio sofà proprio davanti. Lei era seduta lì.
Si alzò e mi abbracciò senza dir nulla. Le chiesi se aveva sofferto molto. Mentì
dicendomi di no.
Uscimmo per una triste passeggiata. Era marzo, il cielo grigio. Ripartì la sera
stessa.
Mi raccontava anche le nascite, il babbo, mi portava le foto dei fratelli piccoli,
dei nipoti. Bambini che diventavano giovani e poi adulti e trovavano un posto,
un’occupazione e mettevano su famiglia.
Poi le visite cessarono, qualche telefonata da Roma o da Firenze, una voce
stanca, poi più niente. Finché non delegò il suo ruolo di staffetta fra me e la
famiglia. Mi dissero che stava male. Che era stato operato. Poi che non si
poteva più muovere.
Imparai la loro lingua. Quella che non era ancora del tutto ufficiale. Facevano
quadrato intorno. Era un segno d’identità. Lo spagnolo lo parlavo per obbligo,
anche se era una lingua che mi piaceva, il catalano per rispetto e perché mi
accorgevo che ti permetteva di comunicare in un altro modo.
Poco a poco m’imbevevo anche di nuove tradizioni. A mezzanotte di
capodanno mangiavo i dodici anici di uva. Uno per ogni rintocco. C’è chi ci si
strozza. La notte dell’epifania mettevo la calza per la befana accanto alla
scarpina per i regali dei re magi e l’acqua e i biscotti per i loro cammelli. La
notte di San Giovanni mangiavo coca bevo cava e saltavo i falò (bè, li saltai
finché il comune non proibì i fuochi pr strada). Il lunedì di pasqua andavo a
mangiare la mona in campagna. Facevo “cagar el tió” tradizione identica a
quella del ceppo casentinese: prendi un tronco e lo batti con un bastone,
mentre i bambini cantano una filastrocca e lui caga caramelle, torroni, leccornie.
Mangiavo bunyols per la quaresima. Regalavo una rosa alla mia compagna e
ne ricevevo un libro per Sant Jordi. Imparai a cucinare frittate di patata, risotti,
spinaci e verdure. Ad andare in montagna non solo a depredare il bosco di
funghi, castagne e di quel che capita, ma per il piacere di respirare, osservare i
paesaggi, sentire gli alberi vivere, annusare le essenze, provare la
soddisfazione che ti da “fer cims”.
Così passarono gli anni.
“Abbiamo pagato caro, abbiam pagato tutto!”
Fa freddo. È sera, inganno l’attesa tagliuzzando con una lametta nascosta nel
cavo della mano indumenti sportivi di marca – il mio granello di sabbia alla lotta
al consumismo - in un grande magazzino al centro della città. Alle otto, sotto
una pioggerellina fine, raggiungo il gruppo che si è formato in un angolo della
piazza. Saluto i conoscenti dietro lo striscione. Partiamo. Furgoni della polizia a
decine agli angoli delle strade da dove dovremo passare. È morto Raul, un
giovane okupa assassinato da un nazi skin durante le feste di un quartiere.
Davanti ci sono i genitori del morto e dei suoi amici. Cinquantenni a viso
scoperto. Vado con loro. I ragazzi dietro sono incappucciati. Penso che il loro
compagno è morto perché non sanno picchiare, perché nonostante le
espressioni truci e gli atteggiamenti e i vestiti da guerriglieri metropolitani non
sanno difendersi. Penso alla rabbia puerile che li spinge a chiedere, loro
anarkopunk, condanne pesanti e più galera. Non sono uno di loro. Sono qui
perché me l’hanno chiesto e perché comunque fa schifo che un gruppo di
fascisti scorrazzi in questa città ed ammazzi qualcuno e che per strada scenda
solo questo manipolo scalcinato di uomini e donne di mezza età a proteggere
un altro scalcinato manipolo di giovani.
Sarebbe davvero da scemi, l’ennesima beffa, “cadere” proprio adesso, a pochi
giorni forse dalla meta di tutti questi anni. In una manifestazione in cui mi sento
estraneo. Guardato di traverso dai ragazzotti che mi circondano e che ricambio
con occhiate assassine. Non mi sento punto tenero, sarà l’età o sarà che ne ho
visti troppi imboscarsi, cambiare letteralmente la giubba di cuoio per quella di
velluto da professore universitario, verso gli atteggiamenti da duri della lotta
sociale. “Ammazza un fascio” scrivono sui muri o gridano dalle loro radio e poi
magari qualcuno, magari un ragazzo ingenuo e con tanta rabbia dentro ci crede,
e va e cerca di ammazzare il fascio, e ci rimette la pelle. Oppure ci riesce e ci
rimette comunque la vita perché con noi non sono teneri, per noi la galera è
sicura.
Ricordo con rabbia gli slogan “con il sangue delle camice nere più rosse faremo
le nostre bandiere” urlati in coro e le canzoni di lotta.
Ma poi invece i compagni che si armarono, i compagni che lottarono spranghe
e pistole in mano, furono additati come provocatori, infiltrati e il nemico da
sconfiggere e da abbattere e tanti finirono in galera e molti morti ammazzati e
non è giusto e non è bello e insomma penso che se vuoi ammazzare un fascio
fallo pure, predica con l’esempio.
Ma stasera nessuno tira sassi, né bottiglie. La polizia sorveglia da lontano.
Interrompono il traffico. Una ragazza legge un manifesto ricco di retorica
combattente. Qualcuno fa scoppiare mortaretti. Altri scrivono sui muri con gli
spray. Continuiamo. Qualche slogan. Silenzio. La pioggia è cessata. Finisce il
corteo. Ite, missa est. Brevi saluti. Ce ne andiamo. Lanciando ogni tanto una
sbirciatina alle spalle.
Squilla il telefonino ed è mia sorella. È quasi un anno che non la sento e per un
attimo ho paura che sia la notizia di un altro lutto ed invece mi dice « ciao uomo
libero » e mi sento di colpo lacerato, sento proprio il rumore in testa come di un
lenzuolo che si strappa, fra l’esultanza di uno che è riuscito a attraversare un
campo minato e l’angoscia dell'ergastolano graziato ormai vecchio che con le
quattro cose infilate in una borsa di plastica, regalo di qualche associazione
filantropica, se ne resta imbambolato davanti alla porta del carcere, sgomento,
frastornato, spaventato da quel mondo che gli scorre davanti troppo veloce. E
che vorrebbe, sapendo che non può (non solo farlo, neanche proprio volerlo),
rientrare fra le mura e gli odori conosciuti del suo piccolo e domestico inferno ed
esita davanti alla voragine di quel che gli resta d'una vita « normale ».
Mi viene in mente un brano di Assalti Frontali. “Va bene che non vado a mettere
le bombe, va bene che non sputo sulle vostre tombe”, sublime sintesi che viene
a dire ecco, basta, non spaccatemi più le palle. Abbiamo pagato caro, abbiamo
pagato tutto. Per noi e per gli altri. Per quello che abbiamo fatto e per quello che
non abbiamo fatto e anche per quello che avremmo dovuto fare. Anche se
sembra di no. Anche se il 93% degli italiani trova normale che gli irriducibili della
lotta armata degli anni settanta, cioè gente che alle sue idee, giuste o sbagliate
che fossero, è rimasta fedele, coerente, continui in galera ed all’esilio, fuori da
qualsiasi indulto, amnistia perdono. Lo stesso 93% che non si chiede che fine
hanno fatto stragisti, “gladiatori” e piduisti.
Finiti i 33 anni di latitanza, di paura, disperazione. Ma anche la tranquillità del
non decidere, la scusa sempre pronta per il non agire. Chissà cosa c’è adesso
al di là del limbo rassicurante dell’esilio, della falsa identità, di questa in fondo
mia unica vera vita?
Ci sono, tanto per cominciare, giorni e settimane e poi mesi di indecisione,
perché gli avvocati non sanno bene cos’è meglio fare perché di casi come il mio
ce ne sono ben pochi e tutti diversi.
Sento il babbo al telefono, adesso non c’è più la paura delle intercettazioni. Ha
la voce rotta e stanca e mi dice di far presto. Alla fine decido di andare. Non ho
documenti, risolverò una volta lì. Andiamo in macchina. Scelgo un valico che ho
già fatto altre volte, vicino alla Jonquera. Una stradina che si inerpica attraverso
le Alberes, la catena coperta di querce e macchia mediterranea che finisce a
strapiombo sul mare, al Cap de Creus. L’autostrada scorre lungo il Midi. Ci
fermiamo ad Arles. Dormiamo in un alberghetto accanto al fiume. Parlo poco ed
ascolto quel francese familiare, dei campi e dei villaggi, delle conversazioni nei
bar. I colori delle case sono di un pastello luminoso, si confondono con il cielo,
gli stagni, le pianure ancora verdi. Non passiamo da Ventimiglia e deviamo
verso Besançon. La macchina si arrampica su per i tornanti. Le Alpi ai due lati
sono innevate. Fa freddo. In alto c’è nebbia e cade una pioggerellina mista a
nevischio. Qando scolliniamo intravedo il cartello che dice che siamo in Italia.
Niente poliziotti, niente controlli. Italia. Bardonecchia, dove avevano mandato
un babbo diciannovenne a farsi le ossa come capostazione.
Ci fermiamo a mangiare in un ristorante, tipica osteria di montagna, ed il
padrone è un siciliano, specialista in pesce, dice orgoglioso, e ridiamo
pensando all’Ordinealfabetix, il pescivendolo del villaggio di Asterix.
E poi ancora chilometri di paesaggi che mi sono sconosciuti stranieri e cerco di
capire che sento e non sento niente, nemmeno tanta curiosità. Che cresce a
misura che ci avviciniamo a casa. Cioè a quel pezzo di terra che per tanti anni
ho chiamato casa.
È sera di nuovo quando ritrovo mio padre, la mia famiglia.
Racconto. Ascolto. Mi destreggio con l’aiuto di mia sorella e mio cognato in
una gimkana burocratica. Nessuno sembra saper bene cosa bisogna fare per
restituirmi lo status di cittadino munito di tessere, carte, numeri, cioè a norma.
“Scusi ma lei dov’è stato in tutti questi anni?” mi chiedono in Comune,
“Possibile che non abbia un documento un certificato un permesso di residenza,
insomma qualcosa che dimostri che lei è lei?”, insistono.
Eh no, non ho nulla nulla che possa dimostrare che io sono io, a meno che non
vogliate le impronte digitali e poi portarle alla polizia, spiego. Ma capisco subito
che nessuno vuole sollevare troppo baccano, chissà perché, mi chiedo, ma poi
in fondo me ne infischio.
Le impiegate comunque sono gentili ed efficienti e trovano il modo di darmi una
carta d’identità utilizzando l’iter che applicano di solito ai nomadi: un foglio con il
nome, una foto, una dichiarazione giurata di due testimoni che dicono che tu sei
tu e che vivi dove dici che vivi.
Sono rientrato in città dalla porta da cui ne ero uscito 32 anni or sono. Tutto è
più piccolo che nel ricordo, anche il carcere, con le sue mura sulla via
le
torrette rinnovate subito dopo la fuga.
Fuori una guardia dai capelli grigi cammina rasente al muro scansando le
macchine. Lo guardo, casomai fosse uno dei vecchi secondini. Comunque non
li riconoscerei. Quelli più anziani saranno in pensione o morti da un pezzo e di
giovani ce n’erano pochi, tre o quattro. Magari uno è proprio questo qui. Lo
guardo, mi guarda. Penso di no e comunque me ne frego. Che dovrei fare?
Invitarlo ad un’allegra rimpatriata per ricordare i bei tempi andati? Continuo a
camminare, il portone si apre per far entrare il camion della nettezza urbana.
Getto un’occhiata dentro, sul cortile ricoperto ancora di cemento e ghiaino o,
come mi dico, ricordando il dialetto, brescino.
Guardo per un attimo le mura.
Da fuori, le finestre con le sbarre, ancora
illuminate.
...Correvamo nel buio sul terreno bagnato...
Quasi nulla è cambiato, più macchine verso la stazione, gente di pelle scura,
accenti diversi. Stesse strade, stessi palazzi aristocratici. Stessa atmosfera di
culto al bello, meglio se redditizio, meglio se vendibile, affittabile, sfruttabile.
Senza le esagerazioni di mal gusto di altri territori e paesi. Un po’ più di
qualunquismo, ce n’era già tanto allora, nei discorsi che s’intrecciano nei soliti
bar, nello stesso corso, nella medesima piazza. Cambiano, ma poi mica tanto,
le musiche che escono dai locali. Le divise dei poliziotti. Il look delle frotte di
adolescenti. Uguali anche i giornali, con lo scandalo, la cronaca nera, la
polemica, lo sport, gli eventi culturali – rigorosamente locali -. Che cazzo come
se fuori di qui ci fosse cultura!
Torno da solo al cimitero. La mamma è morta a 53 anni dopo aver lottato per
difendermi. Non aveva più energie per affrontare il tumore. È qui nella cappella
di famiglia, assieme ai nonni, alle sorelle, al figlio Tito e allo zio Enzo.
Piove. Prime avvisaglie dell’autunno. Piove sui cipressi, gli olivi, le vigne, le
pendici e le tamerici che mai ho capito bene cosa cazzo fossero. Piove
comunque sulla dolce terra toscana, dura in realtà come qualunque altra.
Toscana, la terra in cui una frase come “coso cosami il coso” può significare
“scusi signore, mi può passare il sale” o “Paolo salutami il tuo caro babbo”... e il
bello è che ci si capisce.
Guardo la televisione.
È un’Italia dove la corruzione ha raggiunto livelli sudamericani. Dove si
organizzano cacce ai rom, novello popolo maledetto. Dove a Roma capitale la
folla saluta, appunto alla romana, il nuovo sindaco. Dove un truffatore di bassa
lega è padrone di televisioni, media e del governo. Dove le decisioni
economiche le prendono quattro multinazionali e speculatori finanziari. Dove i
ragazzi dei licei credono che le stragi di piazza Fontana Bologna, Brescia siano
state opera delle Brigate Rosse. Dove la strategia della tensione, quella dei
massacri di piazza Fontana, dell’Italicus, Brescia o Bologna viene ricordata solo
in programmi specializzati in ufologia e misteri delle piramidi. Dove si orecchia
sempre più nitidamente, dietro la demagogia e il populismo becero di una
destra gretta e forcaiola, amplificate nell’arena televisiva,
il “muera la
inteligencia” che Millán Astray urlò in faccia ad Unamuno.
Inizio uno strano periodo di pendolarismo. Spesseggiano i viaggi. I luoghi
del transito sono gli aeroporti di Barcellona, Girona, Pisa, Firenze. Stazioni.
L’allegria delle persone care, le sorprese, gli amici. Pochi, pochissimi, anzi
nessuno di quelli di allora. Vado a Marigliano a trovar mia zia. Sono passati 35
anni. Siamo invecchiati. Lei è più esile che mai, debole. Ha quasi del tutto perso
la vista e questo l’addolora perché non può leggere. La casa che conoscevo
della sua famiglia risultò danneggiata dal terremoto ed ora vive fuori dal paese,
in uno dei tanti caseggiati costruiti sulla ferace campagna partenopea.
In casa non ha posto, ci ha prenotato una camera.
L’albergo è grande, lussuoso, stona in quella periferia degradata. Mi
addormento nella stanza confortevole, calda. Nel sonno sento bussare, la mia
compagna che si alza, una voce che le chiede di aprire. Quando apro gli occhi
accanto alla sponda del letto c’è un poliziotto giovane. Ha l’accento napoletano.
Dice che devo accompagnarlo per chiarire la situazione. Quante volte dovrò
chiarirla, mi chiedo. Lei si veste in bagno, vuole venire a tutti i costi anche se il
poliziotto insiste a dire che non ce n’è bisogno, che sarà questione di un’oretta.
Io, m’infilo i pantaloni, lentamente, tenendo le mani bene in vista, le scarpe, la
maglietta. Usciamo in corridoio. Lui ci precede, mormorando spiegazioni. Fuori
aspetta l’altro, più arrogante, giovane anche lui, la mano sulla fondina.
Il cervello comincia a macinare pensieri. E se non sono poliziotti? E se
qualcuno ha deciso di farmi sparire, stavolta definitivamente? In fondo qui è più
facile. Qui, tanti anni fa, la camorra ha ammazzato un mio zio solo perché si era
opposto all’urbanizzazione di un pezzo di quella terra nera che lui, conservatore
colto, voleva mantenere incontaminata.
Fuori però ci aspetta una volante. Le uniformi va bene ma tanta messa in scena
per uno come me sarebbe troppo. Mi tranquillizzo. Ci fanno salire dietro. Sui
sedili di plastica. Scomodi ma più facili da ripulire se si sporcano di sangue,
vomito, orina, residui dell’umanità che li frequenta di solito: drogati, barboni,
immigrati senza tetto.
Filiamo veloci e in silenzio lungo una strada deserta. Fuori c’è il buio. Ci
fermiamo davanti a una palazzina. Squallida. Dentro ci sono solo altri due
agenti in borghese. Dei ragazzi anche loro. Ci dicono di sedere in una specie di
sala d’aspetto. Ubbidiamo. Nell’ufficio i quattro si danno da fare intorno a un
computer. Telefonano. Mi dicono di entrare e m’interrogano. È curiosità,
spiegano. Capiscono che è una cosa vecchia e che dev’essere prescritta ma
nei loro archivi risulta un mandato di cattura rinnovato nel 92, quindi devono
fare accertamenti. Gli racconto la storia. Di un’epoca in cui loro non dovevano
essere nemmeno nati. Alla fine decidono di chiamare il commissario.
Sento che al telefono parlano di “una storia di comunisti e fascisti”. Poco dopo
arriva un uomo della mia età. Mi saluta. Confabula con gli altri. Mi dice che
telefonerà a Roma. Una mezz’oretta dopo esce dal suo ufficio, viene e mi
suggerisce “da coetaneo a coetaneo” che appena arrivato ad Arezzo vada in
tribunale a poi da quelli della brigata criminale perché sono loro che devono
togliere dal programma il mio nome. “Noi ce la siamo presa con calma”
aggiunge “ma se ti fermano per strada puoi trovare qualcuno che si
innervosisce”. Poi tutti e si mettono a redigere il rapporto. Ognuno dice la sua e
la cosa va per le lunghe ma alla fine sembrano soddisfatti. Ci riaccompagnano
in albergo gli stessi poliziotti della pattuglia che entrano per spiegare al
receptionist che si è trattato di un banale errore. Mi riaddormento subito. Di
mattina vado a comprare mozzarelle di bufala e il babà per il babbo in una
pasticceria dai colori del tutto diversi da quelle toscane. Andiamo a salutare la
zia. Tornate presto, ci dice.
Cerco di stare il più possibile col babbo.
Lo chiamavano argento vivo, da piccolo, perché non stava mai fermo un
momento. Anch’io lo ricordo sempre in azione, sempre agitato. E adesso è su di
una sedia a rotelle, con la canottiera ingiallita dai tanti lavaggi. Un paio di
pantaloni di una tuta. I piedi deformati dall’artrite infilati in due sandali. Ha
piaghe da decubito. Cerotti di morfina non gli fanno sentire il dolore. Quello
fisico. Ma il rintontimento lo angoscia. Ha sempre avuto terrore della malattia
psichica, di essere trattato da matto. Terrori che si tira dietro dall’infanzia, come
quello di finire sepolto vivo. Inorridito ricordava un cadavere che avevano
riesumato e che si era mangiato le mani.
La chiesa però adesso permette la cremazione e lui si raccomanda, vuole che
le sue ceneri vengano messe nel loculo accanto alla bara della mamma.
Tanto ho pensato a quello che avrei fatto per lui, per aiutarlo dopo tutto l’aiuto e
i sacrifici. Ogni tanto esasperato urla che non lo capiscono e poi mi sussurra “tu
si che lo capisci, tu sai cosa vuol dire essere in una prigione”.
La prigione è il suo corpo. Dov’è rinchiuso, impotente. No, non so cosa si sente.
Non riesco a immaginarlo. Non voglio immaginarlo.
Conversazioni interminabili con mia sorella, mio cognato, i loro amici. Gli unici
che all’epoca del processo e dell’evasione gli furono accanto. Sono curioso di
sapere. Strano, tanti anni e mi rendo conto che non sapevo nulla di quello che
accadeva fuori ed un’idea vaga di come si ordiva l’accusa nei miei confronti.
Un’idea molto vaga dell’inferno che quel periodo rappresentò per la mia famiglia.
Non ne parla di quel periodo il babbo. I suoi sono ricordi vaghi. Non per
demenza senile, non è mai stato molto attento al passato. Era un capostazione,
attento, scrupolosamente attento al presente ed all’inmediato futuro.
Cedo alla tentazione di andare a fare un giretto nei luoghi della mia infanzia e
gioventù che vorrei poter definire felici. Non sono cambiati granché. Le porte
della stazione ora sono d’alluminio. C’è un parcheggio davanti al posto del
piazzale e del campetto dove una volta avevano trovato una tartaruga enorme e
dove giocavamo al pallone o ad attività come tirarci zolle di terra o palle di neve,
a seconda della stagione, con qualcuno che nelle palle ci metteva dentro
sassolini che provocavano a volte sberci di cuoio capelluto con abbondante
spargimento di sangue e cazziatone dei genitori del ferito.
Guardo su verso le finestre dove si affacciava mia madre a sorvegliare i nostri
giochi. Salgo mentalmente su per le scale accarezzando il passamano. Sotto lo
zerbino c’è la chiave. Il corridoio e in fondo la cucina a destra, con la grande
tavola col ripiano di marmo dove la mamma correggeva i compiti o scriveva le
relazioni per la scuola aiutata dal babbo che batteva a macchina, o che
fabbricava fiori di carta perché lì, con la cucina economica sempre accesa, si
stava al calduccio.
La mamma ogni tanto si alzava e con la sua mezza sigaretta accesa si
avvicinava alla stufa. Era come i suoi gatti: ci si accostava tanto che aveva
quasi tutte le gonne bruciacchiate. Davanti alla porta della cucina, dall’altra
parte del corridoio, c’è la camera dei ragazzi, cioè mia e dei miei fratelli. Sotto la
finestra una scaletta da sul balcone-terrazza, a così pochi metri dalle catenarie
che si vedevano le scintille nel buio quando passavano i treni ed a volte le
tempeste facevano saltare i grossi isolatori di porcellana e ne ritrovavamo i
frammenti sul davanzale.
Sul terrazzo la mamma ci teneva le sue piante che nutriva di terriccio, fondi di
caffè, acqua e premure. Ci tendeva anche i panni, ritirandoli rigidi come baccalà
nelle giornate d’inverno perché lì fa freddo e una notte che aveva tirato dentro
la nostra camera i vasi perché minacciava gelo la mattina ritrovammo le piante
tutte stecchite. Io mi vestivo da sotto le lenzuola, le coperte, il coltrone.
Torno fuori. Sul parcheggio le macchine sono più numerose e lungo le vie del
paese vedo più negozi, più bar, più gente. Non mi tolgo gli occhiali da sole e
non scendo dalla macchina perché sono io il reprobo il proscritto, il cattivo
insomma. E’ stato scritto e deciso così da stampa e magistrati.
Io e non quelle decine d’infami che per viltà o cattiveria permisero che mi
schiaffassero in galera e rovinassero la mia famiglia e...
Dài, non te la prendere, ormai è acqua passata. E andiamo a vedere il mio
vecchio liceo che è sulla collina, al cuore di un paese che fu prima etrusco poi
medievale. Da lassù il panorama è davvero magnifico, con la valle che si
allarga quadrettata di campi fino all’Amiata e al Trasimeno. Racconto della
battaglia, della strategia dei cartaginesi, dei romani che avevano abboccato
come lucci, delle località che si chiamavano Sepoltaglia Ossaia Sanguineto.
Tanto per dire la carneficina che ci fu. E tutto a mano, osservo, mica come oggi
che basta pigiare un bottone per ammazzare qualche migliaia di cristiani, o
musulmani o buddisti che siano.
Imbocchiamo la via principale, rigorosamente pedonale anche perché le
macchine d’oggi ci passerebbero appena, e la piccola austera ed altera
cittadina è diventata un parco tematico, come Venezia Carcassona Disneyland
il Vaticano, insomma un posto che vende l’anima o quel che ne resta dopo
averla messa in vetrina infiocchettata, incartata e col cartellino col prezzo sotto.
È tutto un susseguirsi di negozi e ci hanno fatto perfino un albergo di lusso.
Prima, che io ricordi, c’era solo quello del Menci che ci teneva le puttane, che
aveva fatto la sua galera e che aveva la mosca che gli saltava facilmente al
naso. Come una sera che raccontava di fronte al solito pubblico di giovinastri
sfaccendati di quando lo avevano tradotto, assieme ad altre decine di detenuti,
a Firenze. Li avevano messi in fila, venti o trenta, incatenati gli uni agli altri, con
i fagotti stretti in mano e fatti passare alla stazione fra due ali di gente. Uno del
gruppo di giovinastri aveva chiesto sghignazzando se la scena non l’aveva vista
in un film di quelli sulla Russia. Ma sghignazzò poco perché il narratore, che
oltre a magnaccia era comunista ortodosso, gli spaccò una sedia addosso e finì
in rissa generale coi tavolini rovesciati e vetri rotti.
Adesso sciamano i turisti vomitati a frotte da pullman, auto a noleggio, auto con
targhe strane. E filmano fotografano e comprano. Entriamo in un bar e ricordo
che ai tempi la barista era indiscutibilmente il più bel speciwomen della zona, e
con perversa curiosità scruto dietro il bancone per vedere che è diventata. Non
c’è, meglio così.
Fuori, sulle scalinate del Comune, stanno provando un impianto musicale, a
tutto volume con la hit parade dei successi di trenta anni fa, proprio gli stessi,
che rimbombano
fra le pietre antiche e fanno vibrare le insegne delle
bottegucce di souvenir.
Non chiedo neanche che cosa festeggino, prima c’erano solo la festa dell’Unità
e qualche rara sagra paesana. Adesso di sagre ne fanno, a quanto ho visto, di
tutti i colori e sapori. Nessuno mi riconosce e non riconosco nessuno. I giovani
non erano manco nati quando io sparii dalla circolazione. Quelli della mia età
adesso chissà che facce hanno e quelli più vecchi saranno o morti o inchiodati
su qualche sedia a rotelle davanti alla Tv, con l’unica preoccupazione di non
pisciarsi addosso.
M’è venuto il mal di testa. Saranno le emozioni, sarà il rumore, ma devo
fermarlo prima che esploda e che il mondo scompaia in una girandola di suoni,
luce, odori. Entro in una farmacia, mi sembra che sia quella solita, generazioni
di onesti esercenti. Quello al banco avrà un 40 anni, manco dieci quindi quando
io bazzicavo in questi posti, figurati se me lo ricordo.
Un Aulin, gli dico. “C’ha la ricetta?” fa lui e lo dice con tono sospettoso e
guardingo, manco gli avessi chiesto se sua moglie è in casa da sola. “Non
sapevo che ci volesse la ricetta. Per fortuna non vengo quasi mai in Italia, sa? E
comunque vorrei qualcosa per l’emicrania”, taglio corto io anche se mi
piacerebbe specificare, magari prendendolo per un orecchio, che non sono un
drogato e che invece lui sì che è uno spacciatore o, se preferisce, pusher che
ha reso tossici centinaia di clienti vendendogli Aulin Optalidon Prozac barbiturici
e chissà quanta altra merda. Così come pusher e spacciatore era suo padre,
che vendeva anfetamine e si sapeva già allora, cazzo, che provocavano
assuefazione ma andava bene lo stesso che le massaie le comprassero per
mangiare meno e i trattoristi per star svegli tutta la notte. O come suo nonno,
che oltre che spacciatore era fabbricante di laudano, cioè tintura di oppio che
vendeva per far star buoni i bambini, e ci credo che stavano buoni, e per non
fare entrare in calore ragazze giovani.
E invece gli dico educato che l’aspirina alle mie emicranie non gli fa manco il
solletico e lui mi guarda alzando le spalle e una cosa davvero non è cambiata,
osservo, nonostante il glamour, ed è l’antica, rinomata cafoneria locale.
Riprendiamo la macchina. Prendo una strada secondaria. Da queste parti
viveva il Baldi.
Suo padre era un omone grande e grosso e peloso come un orso. Abitavano in
una villa scalcinata circondata da un parco inselvatichito come il padrone.
Aveva una moto di quelle che non si fabbricavano da anni, probabilmente un
residuato bellico. La moglie era una donnina dimessa dai modi timidi e signorili.
Il loro unico figlio frequentava la mia stessa classe al liceo. Tutti i giorni faceva
in bicicletta parecchi chilometri in salita per venire a lezione, sotto pioggia, neve
o un sole spaccapietre. Un po’ perché non avevano una lira e un po’ perché suo
padre voleva farne un’atleta. Ma lui poveretto il fisico non ce l’aveva proprio.
Non eravamo molto amici, forse perché lui di amici veri e propri non ne aveva,
sempre in disparte, silenzioso. Ma quando sui giornali un mattino arrivò la
notizia che mi avevano condannato, mia madre sentì suonare il campanello giù
in strada e uscì sul pianerottolo ed in fondo alle scale c’era il Baldi che le disse
soltanto “signora mi dispiace tanto” e scappò via di corsa. Uno dei pochi.
Il babbo peggiora ad ogni mia visita. Lo ricoverano in ospedale. Comincia il
delirio: crede di essere ospitato a casa di ferrovieri che lo hanno trovato, solo,
abbandonato in una stazione. Non ho dove andare, mi dice. Vede animali strani
inseguirsi sulla parete. Vede scene da film muto. Ogni tanto cerca di alzarsi. Mi
guarda e mi dice: adesso mi porti a casa?
Poi perde la parola. Ci fissa, pronuncia suoni che non capiamo. Si dispera. Poi
tace. Il respiro affannoso. Il sibilo dell’ossigeno. Le sonde. Si lamenta quando le
infermiere lo martoriano alla ricerca di una vena per le analisi del sangue. Una
notte dico ad una che basta così. Lei se ne va dicendo che il dottore non sarà
contento. Ed al dottore ripeto che lo lascino in pace, che non ha senso
quell’accanimento. È uno giovane. Dice che è d’accordo. Ma il giorno dopo un
altro medico gli mette una sonda direttamente nella iugulare. Un sacchettino di
liquido bianco che lo idrata ed alimenta, ci spiegano.
È forte il babbo. E resiste. Apre gli occhi e sembra che si guardi intorno. Giorni
e giorni.
Riparto. Il lavoro. La famiglia. Gli impegni. Il tremendo egoismo che mi allontana
dallo spettacolo di quell’agonia.
Sto uscendo da un lavoro. Una stupida riunione. Telefono e mi dicono che è
appena spirato. Stavolta partiamo in macchina. È ancora notte. È un viaggio
teso. Piove in tutta la Francia e sulla Liguria.
La casa di mia sorella è in aperta campagna. Su di una collina. Il sentiero è
bagnato e pieno di buche e pozzanghere. Lei e mio fratello mi aspettano sulla
porta. Piangono. Ci abbracciamo. In un angolo della sala il babbo è in una bara.
Di quelle semplici, come voleva lui. È un po’ rattrappito, la bocca un po’ aperta.
La sua badante, l’Helena, gli ha messo un vestito, ereditato dal fratello
maggiore. Non aveva mai avuto vestiti, lui, al di fuori delle divise. Il viso, rasato,
ha il colore innaturale dei morti. Ci sono i fiori. Non tanti. Delle donne venute dal
paese dicono il rosario.
Il funerale è nella chiesetta del paese. Celebra la messa il parroco, un uomo di
mezza età grassottello. Non lo ascolto. Nessuno fa la comunione. Ci resto male.
Sul sagrario mi presentano gente. Cerco di associare volti alle descrizioni che
mi faceva dei suoi vicini, delle persone amiche.
In attesa della cremazione portiamo il feretro alla cappella ardente della
Misericordia, in città. Ci sono degli amici dei miei fratelli, mio cugino e sua
moglie. Parliamo. Ogni tanto una battuta.
Di notte lo lasciamo solo. Torniamo alle quattro. I tre figli maschi. Lo portiamo a
Perugia. L’impianto di Arezzo non è stato ancora omologato. Fa freddo.
Seguiamo il furgone funebre nella nebbia. Parliamo poco. Il lavoro, la gente.
Barcellona. Ricordi della loro infanzia. Perugia dorme ancora quando arriviamo.
C’ero stato l’ultima volta quarant’anni fa. Una manifestazione antifascista in cui
si gridava “Almirante a testa in giù ci piace di più”. Ci furono scontri. Corse.
Il cimitero è in alto. Ci fanno entrare in un ufficio. Mi fanno firmare un sacco di
fogli. Poi risaliamo in macchina. Un po’ fuori c’è la struttura del forno crematorio.
Tirano fuori la bara due uomini. Uno è rumeno. Entriamo in una stanzina.
L’accostano con un carrello a uno sportello metallico. Ci dicono se vogliamo
fare l’ultimo saluto.
Poi l’attesa in uno dei pochi bar aperti. Un cappuccino. Gli altri avventori sono
un gruppo di neri anziani. Fuori fa giorno. Aspettiamo in macchina. Viene
l’uomo dell’impresa di pompe funebri. Hanno finito. Altri fogli. Altre firme. Mi
consegnano l’urna in un contenitore isolante perché brucia. Al ritorno la tengo
accanto a me sul sedile posteriore.
Al cimitero di Arezzo andiamo alla cappella di famiglia. I becchini hanno aperto
il loculo della mamma. Metto l’urna accanto alla bara segnata dal tempo.
Risistemano la lapide. Ci sono anche l’Helena e suo marito e la prima ragazza
romena che gli fece da badante. Uscendo dal cimitero ci accorgiamo che non
abbamo messo la fede nuziale nel loculo. Come avrebbe voluto.
Le sue cose ammucchiate in una scatola di cartone. Una foto della mamma
incorniciata e con il vetro rotto. Una scatoletta di plastica con quattro oggetti di
lei. Un rossetto. Un fazzolettino ricamato. Il ritratto di una bambina nera e la
lettera del missionario che ringraziava il signor Enrico per i soldi che
permettevano di farla studiare. Santini, immagini di Santa Rita. Un rosario.
Vado in città. Passeggio per il centro. Sotto i porticati della piazza grande c’è la
porta della Corte d’Assise.
Una targhetta fuori dal palazzo adesso informa i turisti che trattavasi in origine
della sede di un teatro, e questo spiega un sacco di cose anche se penso che
poteva andar peggio, sarebbe potuto essere per esempio un bordello.
Indici tesi, braccia allargate e il Pubblico Ministro con quella sua toga nera e il
nasone aquilino che sembrava un gufo pronto a spiccare il volo, i carabinieri
con la sciabola, i baffoni ed il pennacchio bianco e rosso sul cappello. La dea
bendata che presiedeva con la bilancia la sessione sembrava una fruttivendola.
I giudici togati e i giurati con la fascia tricolore. Nella sala tutto trasudava
simbolismo, gli arredi pesanti e polverosi, velluti, in alto il legno lucido della
presidenza, più in basso il recintino in cui mi sedevo io in mezzo a due
carabinieri senza sciabola e senza pennacchio. Poi i tavoli per gli avvocati ed il
pubblico ministero ed infine gli spazi per il pubblico con le panche come in
chiesa.
Una farsa.
Al processo erano venuti ben pochi dei miei compagni ed amici. All’università
ancora non ne avevo, mi ero appena iscritto ed ero un fuorisede cioè uno che
doveva andare a venire col treno. C’era poco da socializzare. Quelli del partito
dovevano avere ricevuto precisi ordini e da quello che cominciavo a capire
erano tutti gente che gli ordini li eseguiva, nella speranza mica tanto segreta di
essere poi lì un giorno a impartirli. Erano venuti invece gli ex compagni della
squadra d’atletica, si vede che correndo, saltando, tirando bocce di ferro e
giavellotti si stringono legami più solidi che lottando per il radioso sol
dell’avvenir. Pochi quelli del liceo e fra i pochi il Taddo che fra l’altro doveva
testimoniare a mio favore su uno dei traballanti indizi su cui reggeva la
traballantissima logica dell’accusa. Il Taddo categorico smentiva un’audace
teoria del pubblico ministero. E lo smentiva assieme ad altri quattro ragazzi ed
uomini, tutti militanti di base del PCI. Alla corte questa cosa dei testimoni che
smontavano indizi sembrò oltraggiosa e rimediò sbattendoli in galera uno dopo
l’altro tirandoli fuori solo dopo opportune visite notturne di madri e mogli affrante
e ormai disposti a non ricordare bene.
Ma il Taddo teneva duro, cosicché il PM che intuì di trovarsi davanti a un
testone che non che non avesse paura della galera, perché quando vide portar
via gli altri ammanettati fra i carabinieri era diventato palliduccio anziché no, ma
che aveva un carattere di quelli “prima mi ammazzi ma non te la do vinta
perché c’ho ragione io”, insomma il PM gli chiese subdolo se era
matematicamente sicuro di quello che aveva visto e gli andò bene perché il
Taddo, che era uno anche di espressione maniacalmente precisa, gli disse che
non aveva nulla a che vedere la matematica con quello che uno aveva visto, al
che l’altro frettoloso fece mettere a verbale che il testimone non era
matematicamente sicuro e lo fece buttar fuori nonostante le proteste. Del
testimone, perché i miei avvocati stavano pensando evidentemente ad altro.
A salutarmi alla sbarra durante il processo venne la Valentina, accompagnata
dalla mamma, contenta che non tutti mi avessero abbandonato. Era rossa
come la ricordavo a scuola ogni volta che si doveva fare avanti per una
interrogazione o l’appello. Timida, graziosa, silenziosa figlia di montanari, in
classe se ne stava sempre in disparte con la sua amica Rosina, anche lei
giovinetta dai riccioli biondi ed occhi chiari, ignorata però dai ragazzi per il modo
di fare riservato e brusco, alla montanara, e i vestiti alla buona. Venivano da
cascine lontane e non le vedevamo mai fuori dalle mura del liceo, creature di un
mondo di maglie di lana ruvida i calzettoni tirati su fino al ginocchio e la scrofa
che una volta, raccontarono in lacrime, avevano dovuto sacrificare perché il
verro l’aveva “sciupata”.
... Mio padre, tenuto insieme dal suo dovere di capostazione non aveva potuto
riconoscere il corpo perché di corpo praticamente non ce n’era e si era aggirato
lungo la massicciata con i carabinieri ed altri ferrovieri alla ricerca di brandelli di
vestiti e di carne.
Il prete non aveva fatto storie ed al funerale c’era tutto il paese.
Dopo il funerale, come altri ragazzi, mi rifugiai nella pizzeria, abituale luogo di
ritrovo, a gettonare nel juke box una delle canzoni allora in voga.
Ero seduto in fondo al locale, con la mente alla maglietta rossa che Natalino
indossava quella notte d’estate, l’ultima in cui lo avevamo visto, sulla piazzetta
davanti alla stazione, quando forse aveva già deciso di buttarsi sotto il treno,
alla figura grassottella e patetica del medico condotto, suo padre, alle due
anziane sorelle che avevano fatto da madri al bambino orfano e ragazzo, ai fiori,
agli sguardi della gente, allo scalpiccio silenzioso di tutto il paese in processione
dietro la bara.
Davanti alla porta del locale arrivò il Batani con la sua moto, una 125, erano
pochi in paese ad avere moto più grosse. Si mise a parlare ed a ridere con
qualcuno di quelli che erano seduti fuori. Ogni tanto dava gas e il motore
rombava.
Lo avevo osservato assorto per qualche istante, poi dette una sgasata e fece
una risata di troppo, sicché mi alzai di scatto e dal mio angolo attraversai la
pizzeria quasi di corsa e gli saltai addosso piazzandogli un pugno sulla
mascella. Cadde e la moto gli rovinò dietro e io rimasi fermo a guardarlo senza
dir nulla. Subito mi sentii afferrare dal padrone del locale, un veneto con braccia
da lottatore che mi spintonò da una parte. Lasciai fare e me ne andai a casa in
silenzio. Ed in silenzio rimasi in tribunale quando lo fecero deporre per
dimostrare che ero un soggetto violento ed aggressivo. Povero Batani che non
ha mai saputo il perché di quel pugno.
Alla fine si ritirarono in camera di consiglio. Molti anni dopo un membro della
giuria confessò a un conoscente che erano rimasti quelle ore seduti a girare i
pollici ed in silenzio, in attesa che il presidente desse l’ordine di rientrare in aula.
La sentenza l’avevano già pronta. Quattordici anni. Pochi per un omicidio.
Troppi se non lo avevi fatto.
Era finita e nonostante la condanna, tirai quasi un sospiro di sollievo e chiesi ai
carabinieri che mi portassero via mentre il presidente snocciolava le pene
accessorie. Il pubblico in silenzio. Solo una ragazza scoppiò a piangere.
C’erano i miei zii, le cugine, mia sorella. Mia madre non era in aula, rimasta a
casa, già malata del tumore che l’avrebbe uccisa, ad aspettare pregando che
tornassimo con una buona notizia. Mio padre chiese timidamente alla scorta se
poteva accompagnarmi fino al cellulare. Fuori era già buio. Una sera fredda di
dicembre. In strada avevano spento le luci dei lampioni e un cordone di poliziotti
aveva ributtato indietro a manganellate gli amici ed i compagni di mia sorella
che avrebbero voluto avvicinarsi a farmi coraggio. La scorta tirava la catena
strattonandomi, cercando di farmi abbassare il pugno alzato. Chissà perché
ritenni che era un buon momento per intonare l’Internazionale e la cantai a
squarciagola col babbo che mi seguiva, tenuto a distanza dai carabinieri,
dicendomi “bravo, canta, canta” e poi mi spintonarono dentro e allora smisi di
cantare e il giorno dopo su un giornale dissero che avevo cantato bandiera
rossa e io attribuii lo sbaglio a ignoranza musicopolitica del redattore. Dentro,
nel furgone, per tutto il tragitto ci fu solo silenzio. Né io, né i carabinieri aprimmo
la bocca. Qualcuno disse che reagì con troppa calma per essere innocente. Io
pensavo
solo
che
per
sopravvivere
dentro
dovevo
mantenere
un
comportamento freddo, senza cedimenti, senza lacrime.
Mi scrollo di dosso i ricordi, agitando la testa come un cane.
Passo davanti a un portone. L’edificio è vecchio, imponente, esala fredda
umidità. M’infilo a curiosare nell’androne polveroso. Mi soffermo davanti ad un
monumento-lapide ai caduti della prima guerra mondiale, con i nomi dei figli
prediletti morti in combattimento nella difesa della patria. Chissà quanti di loro
caddero sotto il fuoco dei carabinieri che sparavano su quelli che volevano
scappare dall’inferno delle trincee. In fondo, separato dagli altri ce n’è uno, sotto
la dicitura “Guerra di Spagna” e “Medaglia d’oro”.
È il nome di un membro dell’Aviazione Legionaria. Cioè di un corpo di
spedizione di centinaia di aerei. Bombardieri da ricognizione, da trasporto,
caccia. Che scaricarono fra il 1936 ed il 1939 tonnellate di bombe sui “rossi”,
che altro non erano che l’esercito di una Repubblica legittima e perfettamente
legale e le popolazioni civili di città e paesi di una Spagna e di una Catalogna
che si opponevano ad una masnada di militari felloni, fanatici, spietati e brutali.
(...). La verità sui bombardamenti di Barcellona è che li ha ordinati Mussolini a
Valle, alla Camera, pochi minuti prima di pronunciare il discorso per l'Austria.
Franco non ne sapeva niente e ieri ha chiesto di sospenderli per tema di
complicazioni con l'estero. Mussolini pensa che questi bombardamenti siano
ottimi (...) Quando l'ho informato del passo di Perth, non se ne è molto
preoccupato, anzi si è dichiarato lieto del fatto che gli italiani riescano a destare
orrore per la loro aggressività anziché compiacimento come mandolinisti. Ciò, a
suo avviso, ci fa anche salire nella considerazione dei tedeschi che amano la
guerra
integrale
Così scriveva Ciano e solo per questo
e
spietata.
viene da pensare che Mussolini si
meritava di finire a testa in giù a piazzale Loreto, coperto di sputi da quel popolo
pecorone che voleva educare ad essere duro e spietato. A occhio con un certo
successo.
Quell’omaggio a uno che contribuì al trionfo del golpe franchista mi rivolta lo
stomaco.
Non sono più un latitante e posso fare qualcosa. Martellare la scritta sarebbe
facile ma molti non capirebbero. Ci vedrebbero solo un atto di vandalismo di
qualcuno che non rispetta la memoria dei morti.
Nei mesi seguenti mi metto all’opera. A Barcellona hanno fondato
un’associazione di giovani italiani. Ormai siamo la prima comunità di stranieri in
città. Decine di migliaia. Ci parlo, propongo una raccolta di firme ed una
petizione alle autorità. Che ritirino quell’omaggio che è un insulto ai morti
innocenti delle bombe fasciste. Faccio un blog dove spiego l’iniziativa, il perché.
Arrivano le adesioni. Decidiamo di portarle ad Arezzo. In comune, in provincia.
C’è da pagare il viaggio, trovare qualche giorno di tempo strappato agli impegni,
al lavoro, alle famiglie. Sono l’unico disponibile e parto. Giorni di riunioni,
incontri. Un’associazione intitolata a Camillo Berneri da il suo sostegno.
Organizzano una conferenza stampa. Dubito ma poi penso che sono passati
due anni e mezzo e che tutti sanno del mio ritorno. Al massimo, mi dico,
abbaieranno i fascisti che dai loro blog inveiscono già contro i profanatori della
sacra italica memoria. Piduisti in testa.
All’uscita della conferenza stampa il giornalista mi chiede se io sono quel D. Si,
gli rispondo. Sembra un ragazzo onesto. Ha fatto un buon trattamento della
campagna. Decido di fidarmi. Vuol farmi un’intervista, gli dico di no ma gli
passerò una bozza con la mia storia. Vorrei farne un libro. Un modo come un
altro di credere che tutti i dolori e gli strazi sono serviti a qualcosa: a dimostrare
che nella nostra disumanizzata ed ipercontrollata società occidentale c’è ancora
posto per valori antichi. La solidarietà, la parola data, l’impegno, il rispetto. E a
denunciare l’ipocrisia di un sistema che nasconde dietro mura e burocrazie tanti
piccoli inferni dove dignità e diritti sono parole vuote.
Gli chiedo di separare le due notizie. Mi assicura che lo farà e che il suo non
sarà un trattamento sensazionalista. Poi mi telefona per dirmi che il libro gli è
piaciuto molto e se può pubblicarne alcuni stralci. Gli dico di si. Immagino che
pubblicherà l’articolo dopo qualche giorno. Che userà qualche frammento. La
mattina dopo cerco su internet la pagina del giornale. Il titolo è “Il Corriere
d’Arezzo scopre un latitante”. Mi vengono i sudori freddi. Segue una valanga.
Assisto impotente alla tempesta che si scatena. Mi sento risucchiato indietro nel
tempo. Di nuovo si scatena il branco. Cominciano i giornali, stampa e internet e,
immagino, tele e radio. Continuano i blog, i commenti. Fioccano le accuse di
protervia, parlano del “ritorno dell’omicida”. Riprendono le cronache di 35 anni
fa, sottolineando le mie presunte origini calabresi. I politici di destra e sinistra
salvo rare eccezioni fanno a gara a chi condanna di più.
In molti dicono che l’ho fatta franca, che queste leggi che permettono il ritorno al
civile consesso di gente come me andrebbero abolite subito.
Mi viene in mente una barzelletta che raccontava la mamma: c’è un
cacciatore, uno di quei tipici travet che si vestono da Rambo il week end e che
popolano o piuttosto spopolano i nostri boschi e campagne le domeniche
d’autunno e d’inverno.
Beh dunque c’è questo cacciatore bardato di tutto punto: completo mimetico,
occhiali scuri, fucile ultimo modello a ripetizione, profusione di proiettili nella
cartucciera a tracolla, pugnale al fianco, tascapane, anfibi… Avanza guardingo,
l’arma imbracciata, ai bordi di un prato. Ad un certo punto fa capolino fra l’erba
una lepre. Lui la vede e punta il fucile. Lei lo vede e fa un salto. Il primo sparo
decima una famiglia di margherite. La lepre scarta agilmente a sinistra. Il
secondo sfonda un cespuglio. La lepre continua a zigzagare. La terza rosa di
pallini sbuccia una quercia. La quarta stende uno spaventapasseri. La quinta
stecchisce il cane dell’amico del cuore del cacciatore venuto a dare una mano.
Sull’eco dell’ultima detonazione la lepre saltella via e raggiunge indenne i
margini del bosco.
Al che il cacciatore, stizzito, getta via il fucile ormai scarico, si strappa il berretto
dal capo, lo sbatte in terra
e calpestandolo urla: “Quando fanno così le
ammazzerei”.
Per tutti questi anni avevo creduto che, da libero, sarebbe stato facile ribattere
con logica e buon senso le accuse, le ingiurie. Scopro che non è così. Per la
magggioranza chiassosa sono l’assassino, l’evaso, l’antisocrate per definizione.
Scelgo il silenzio. Non servirebbe a nulla urlare che sono io chi ha subito il torto,
che non ho nulla da nascondere, e che voglio scrivere la mia storia non per
vendetta né per orgoglio ma come omaggio a tutte le persone che per umanità,
solidarietà ed amore mi hanno aiutato a sopravvivere contro quel mostruoso
connubio di apparato statale e mediatico. Che...
Uno degli storici che aveva aderito alla campagna con un impegnativo
messaggio “d’accordo a far parte del comitato scientifico di un eventuale
congresso se non c’è troppo lavoro da fare”, mi manda un mail inquisitorio.
Come mi sono permesso di associare il mio status di feccia sociale alla sua
prestigiosa firma di professore universitario, anche se di idee libertarie? Chiede
spiegazioni.
Non una parola di dubbio. Eppure trentacinque anni dopo qualcuno dovrebbe
interrogarsi, chiedersi come mai un caso di omicidio venne risolto così
rapidamente con un processo indiziario, senza che venissero seguite altre piste.
Nessuno trova strano che quel caso venisse risolto, senza prove, in una zona
dove la P2 stava spiegando in segreto tutta la sua trama, penetrando procure e
tutti i luoghi di potere e decisione, dove agivano poco disturbati gruppi armati
neofascisti, dove c’era quel rimasto misterioso Gladio, dove il partito comunista
era in piena virata autodistruttiva, dove il razzismo nei confronti dei meridionali
faceva parte dell’ADN delle popolazioni locali. C’è la sentenza, dicono. Anche e
soprattutto quelli che si sgolano nella denuncia dei complotti delle toghe rosse
quando le sentenze toccano i poderosi di oggi.
La metastasi si era estesa e, ricoverata in ospedale, mia madre ormai
agonizzava. In uno degli ultimi momenti di lucidità pregò i miei fratelli di non
lasciarla sola nemmeno un istante perché si era resa conto che una infermiera,
nel suo dormiveglia, la interrogava. Voleva sapere dov’ero. Come poteva una
madre non sapere dov’era il figlio, sia pure latitante? Di certo non l’avevo
scordata. Di certo le avevo mandato qualche messaggio. Mio padre, mia sorella
pensarono ad un incubo. Ma il cagnolino di mia zia pacifico e silenzioso
abbaiava infuriato quando quella donna si avvicinava.
Mi pento. Mi pento di essere stato così stupido da pensare che il mio girar
pagina e non voler cedere ad odi e livori sia corrisposto dagli altri. Mi pento di
aver agito come un normale cittadino mettendo in imbarazzo i pochi compagni
che vengono adesso accusati quasi di complicità con l’esibizionismo di un
criminale incallito. Mi pento.
Mi pento di non aver sparato a pallettoni su facce paffute di tronfi magistrati. Di
non aver tagliato gole d’infami cronisti. Di non aver schiacciato la testa a
sprangate, martellate a traditori e compagni sleali.
Vi vedo: te Pubblico Ministero che con il dito accusatore raccomandavi che mi
infliggessero l’ergastolo, sotto gli occhi attoniti dei miei genitori. Voi poliziotti che
puntavate mitra e pistole contro due impiegati invecchiati dal dolore, in piena
notte. Voi secondini che ritagliavate i minuti dall’ora dei colloqui. Voi abitanti del
paese, vicini che non li salutavate più. Voi colpevolisti che soffiavate sul fuoco
delle dicerie e maledicenze. Voi carabinieri presenti al funerale della Flora,
sperando di potermi catturare. Voi vigliacchi, spie, delatori, pettegoli, morbosi,
giornalisti da strapazzo, politicastri di provincia, avvocati.
Vi cercherò all’inferno. Vi strapperò il cuore, le viscere...
... Calmati. Basta.
Sono stanco. Schifato.
Ho capito.
Non c’è posto per me nel civile consesso. Scusate tanto il disturbo. E grazie.
Grazie di avermi finalmente fatto capire che per un branco di sciacalli una preda
è sempre una preda. Di avermi ricordato la mia essenziale diversità.
E anche di avermi dimostrato fino a che punto è un crimine per voi la ribellione.
Il non volersi rassegnare a ingiustizie ed abusi.
Di avermi reso l’orgoglio di essere evaso, di aver detto no, non ci sto, sono un
uomo libero e voglio vivere libero.
Ero una preda, non importa se sbagliata. Vi sono sfuggito e non me lo
perdonerete mai.
Me ne vado, stavolta per sempre.
Torno in treno. Ho bisogno di vedere scorrere i campi e i boschi sotto il cielo le
nuvole e poi le luci che punteggiano la notte. Di sentirmi cullare nel dormiveglia
dalla ninna nanna sferragliante delle ruote. Dall’odore di metallo e di olio. A
Milano prendo il talgo. Lo scompartimento è pieno di valigioni ed immigranti di
chissà che nazionalità. Me ne sto al bar finché la stanchezza non mi spinge ad
arrampicarmi sulla mia cuccetta, abbracciato alla borsa. Mi sveglio a Port Bou,
dal finestrino vedo lo schieramento di mossos.
Guardo oltre, verso il mare. Comunque non sono lì per me, i poliziotti. Un altro
paio d’ore di viaggio, la pianura e le colline dell’Empordà, Figueres, Girona ed
infine le sagome del Montjuic e del Tibidabo. Il treno si ferma poco dopo il ponte
sul Besòs. Dal finestrino vedo le strutture del Fòrum con la spianata che negli
opuscoli viene definita la più grande piazza del mondo dopo quella di
Tienanmen, che avrebbero fatto meglio secondo me ad evitare il confronto.
Nel 2004 avevano deciso che la fine del Forum - “un incontro che cambierà il
mondo” cioè un calderone dove si schiaffava di tutto, dalla religione, alle lingue,
nel nome dell’interculturalità - coincidesse con la festa della Mercè, patrona
della città. Festa che viene suggellata da molti anni a questa parte da un mega
spettacolo di fuochi artificiali. Perché qui col fuoco ripeto c’hanno la fissa, fra
falò, diables, trabucaires e castells di fuoco.
Quell’anno i fuochi di artificio li facevano sul mare e lungo i quattro chilometri di
spiaggia della città si ammassarono centinaia di migliaia di persone. C’era la
solita attesa, con in più il piacere di non starcene accalcati prendendoci a
gomitate in qualche piazza. Gli altoparlanti, strategicamente disposti lungo tutto
il lungomare, vomitarono il manifesto-conclusione dei lavori del Forum. Pieno
zeppo delle solite fregnacce sulla partecipazione, la diversità, i diritti eccetera.
Fregnacce dico, perché poi gli sponsor erano tutti quelli che sulla
partecipazione, le libertà, i diritti ci pisciano allegramente sopra. Cioè banche,
multinazionali e compagnia.
Le centinaia di migliaia di spettatori sopportarono stoicamente tutto il discorso e
poi… silenzio. Non un fischio, non un applauso.
È questa la mia Barcellona! Quella che riempie le strade contro la guerra.
Quella che fa i referendum auto organizzati per l’abolizione del debito estero,
che sfila senza bandiere, solo quelle catalane e nemmeno tante, convocata da
una piattaforma che si chiama commissione per la dignità e sotto lo slogan per
il diritto a decidere, quella che nelle manifestazioni spontaneamente si riversa
come folla anonima davanti agli striscioni dei politici e li lascia in coda. Quella
che si dà da fare per aiutare palestinesi, sahariani, immigrati. Quella che si
astiene alle elezioni. O che vota in massa contro l’entrata nella NATO. Quella
che occupa piazze e giardini pubblici per opporsi alle parate militari. Quella che
fischia il re alla cerimonia di apertura delle olimpiadi e che riempie la città
durante i giochi di bandiere catalane facendo impazzire i cameraman delle
televisioni statali che non trovano uno sfondo adeguato con simbologia ispanica,
ma che poi spesso si dimentica di appenderla al balcone, la propria bandiera, e
ride quando qualcuno propone di insegnare a scuola l’inno nazionale. Che a
maggioranza vuole l’indipendenza ma che non vuole uno stato proprio.
Gli stati in genere non le piacciono, come non le piacciono i loro simboli.
Soprattutto se i loro simboli sono, come spesso sono, caserme, fortezze,
prigioni o commissariati.
Sempre nel 2004, era ancora l’epoca dei controvertici, partecipai alla paterada.
Si trattava di raggiungere a nuoto, in zattere ed improvvisate imbarcazioni di
ogni tipo, in chiaro riferimento alle pateras, cioè i barconi con cui gli immigrati
cercano di raggiungere le coste dell’Andalusia o delle Canarie, ed occupare la
spianata recintata vigilata sorvegliata e protetta del Forum.
Volevamo denunciare che sotto il pomposo slogan dell’”incontro che cambiera il
mondo” la realtà era che, molto più modestamente, quello che avevano fatto
era cambiare questa parte della città, nutrendo generosamente conti in banca
delle isole Caiman o di Andorra.
Per l’occasione si erano date appuntamento le diverse tribù del mondo
alternativo e la spiaggia si riempì di elementi dal pallore cadaverico che
spiccavano simpaticamente fra le migliaia di abbronzature autoctone e
alloctone. Il mare si punteggiò di pneumatici di camion, materassini riciclati,
bidoni vuoti di benzina, damigiane di plastica, insomma di tutto quello che
galleggiasse. Degli squatter di una delle case occupate di maggior glamour
della città avevano fatto una vera zattera con legname recuperato qua e là,
completa di ogni accessorio compresi timone e vela. Solo che il vento soffiava
nel senso sbagliato, e non appena presero un po’ il largo vennero sospinti
dall’altra parte della spiaggia, dove naufragarono miseramente.
C’era la Guardia Civil con i gommoni a pattugliare e le lance della Croce Rossa,
e ben vennero, perché ci fu chi si sentì male e che venne raccolto allo stremo
delle forze e riportato ignominiosamente a riva. Io segui un po’ a nuoto la scia di
natanti, ma all’arrivo sicuro che avrebbero identificato i partecipanti, cosicché
feci dietro front rifiutando cortesemente l’altrettanto cortese offerta di aiuto da
parte di quelli della Croce Rossa.
... Il treno riprende ad avanzare lentamente. Prendo un caffelatte accanto ad
una ragazzina room dallo sguardo d’animale selvatico. I giorni di cucina toscana
di mia sorella mi hanno appesantito. Domani tornerò a correre sulla sabbia della
spiaggia, la mattina presto, quando ancora non c’è gente. Ho imparato ad
amare il mare anche se continuo a preferire l’odore di alberi e cespugli, il freddo
della montagna i cieli neri ricamati di stelle.
Arriviamo. L’Estació de França, ripulita, è imponente con le sue strutture di ferro
e vetro. Adesso ci arrivano pochi treni. Ne hanno fatto uno spazio espositivo. Il
piccolo fiume di gente si affretta verso l’uscita. Vedo la donna bambina room
filar via veloce con un sacchetto di plastica in mano. Tutto il suo bagaglio.
È una stazione ma non ci si respira più quell’atmosfera di estraneità che ti
accomuna agli altri. Corpi e storie in un viavai incessante, un torrente che si
riversa disperso in mille rivoletti nella città e che dalla città si ricompone e
riparte, ricompattato con la regolarità di un respiro.
Esco sulla strada. Ha smesso di piovere. Lascio i bagagli in consegna. Nessuno
mi aspetta oggi. Sento il bisogno di ritrovarmi con questa città, con questo
mondo.
Faccio una capatina al moll de la fusta -molo del legno- dove scaricavano i
tronchi dal Sudamerica o dall’Africa, magari le stesse navi che
avevano
trasportato gli schiavi, lucrosa attività a cui si dedicavano molti capostipiti di
grandi fortune catalane.
Davanti, per chi se ne va, c’è il mare con le sue mille destinazioni ed i suoi mille
destini o la stretta linea dei binari che si allunga in pensieri, immagini, odori e
colori lontani. Si parte e si arriva. E si aspetta. Persone ed affetti, cose o sogni.
O semplicemente si guarda, medita, ricorda. Un piacere che mi sono a lungo
negato, perché le stazioni ed i porti sono anche nuclei nevralgici, punti strategici
del controllo poliziesco di una città, un territorio sempre brulicante di agenti in
divisa o in borghese, sospettosi e scrutatori.
Da questo molo verso la metà degli anni ottanta un gruppo con cui collaboravo,
la Crida, attaccò una motovedetta USA pochi giorni dopo i bombardamenti
americani su Tripoli a colpi di secchi di vernice rosa. Volevano simbolizzare il
sangue innocente... ma avevano comprato poco colorante.
Collaboravo allora con una rivista, L’Europa de les Nacions, pubblicazione di
attualità e storia delle nazioni senza stato d’Europa, che abbandonai quando
decisero di concedere il loro premio annuale di difensore dei diritti dei popoli a
Franjo Tudjman, cioè uno che sosteneva da storico, nonché presidente del
fiammante stato croata che gli ustascia nella seconda guerra mondiale non
avevano massacrato un milione di serbi ma solo 600.000.
Respiro l’odore di acqua salmastra, carburanti, marciume. Seduto su di una
panchina osservo le barche, i velieri, il brutto conglomerato del Maremagnum,
un ragazzo che fa scivolare la sua canoa sull’acqua oleosa. Ascolto lo
sciabordio dell’acqua sulle pareti del molo ed il tintinnio del metallo sugli alberi e
pennoni delle imbarcazioni. Non fa freddo ma sento l’umidità. Mi accendo una
sigaretta, mi tiro il cappuccio della felpa sul capo e torno indietro. Passo
accanto alla fila di extracomunitari che si è allungata sul marciapiede davanti al
Gobierno Civil e arrivo al parco della Ciutadella. Dopo la conquista di
Barcellona, nel 1789, le truppe di Filippo II avevano raso al suolo gran parte del
vecchio quartiere di pescatori ed avevano eretto una fortezza. Adesso non ci
sono più le mura, solo una cancellata che racchiude il perimetro con i suoi
vialetti, gli edifici di mattoni che accolgono un liceo, un museo. C’è un laghetto
artificiale con le oche e le barchette. In fondo l’edificio del Parlamento e, proprio
dietro, lo zoo.
Sorrido alla facile ironia e al ricordo di un ex presidente della Camera, un
vecchietto simpatico e colto che, durante una seduta parlamentare, dopo
l’annuncio che al dibattito su di una legge relativa all’allevamento di suini o una
cosa del genere sarebbe seguito quello su di una misura riguardante le forze
dell’ordine, aveva sussurrato al vicino di banco che comunque di animali
trattavasi.
Si era dimenticato di spengere il microfono cosicché il commento ebbe ampio
eco.
È uno dei pochi parchi della città, questo, e ci venivo a fare il malinconico
solitario nelle serate autunnali, a passeggiare fra la serra con le piante tropicali
e le aiuole.
Era ed è scenario di concerti, di fiere della solidarietà, dell’acqua, per l’ambiente,
di comizi e di presidi
Attraverso il vasto viale ed entro nel quartiere della Ribera. L’antico mercato
centrale del Born è ancora chiuso. Non sanno se farci una biblioteca o un
museo. Bontà loro non un edificio di appartamenti d’alto standing o un albergo a
4 stelle. È una grande struttura a cupola di ferro, il mercato, salvata dallo
smantellamento negli anni settanta dall’assemblea dei lavoratori dello
spettacolo, cioè un folto gruppo di giovani attori ed attrici e musicisti di tendenza
anarchica o autonoma ai margini della più perbenista e riformista assemblea
della Catalogna. Avevano occupato un teatro, il Diana, effervescente laboratorio
di arti e politica, e riconquistarono il Born per la città allestendo una
rappresentazione maratoniana e multitudinaria del Don Juan Tenorio.
A cinque minuti c’è la chiesa di Santa Maria del Mar. Gotica, con le colonne che
salgono su vertiginose. Di qui una sera buttarono fuori me e il babbo.
Dovevano celebrare un matrimonio e gli inservienti invitavano i turisti ad uscire
e lo dissero anche al babbo, inginocchiato e raccolto in preghiera, e visto che lui
non capiva gli fecero l’universale cenno dello smammare, al che io dissi al
buonuomo che dalle mie parti si sarebbe chiamato sacrestano che stavano
buttando fuori probabilmente l’unico credente, e quello alzò le spalle. E il babbo
mi chiese mentre uscivamo “che cosa gli hai detto?” ed io “niente babbo,
niente”.
Accanto c’è il Fossar de les Moreres. Una specie di piazzetta incavata che
digrada fino alla scritta su marmo “al Fossar de les Moreres no s’hi enterra cap
traïdor. Fins perdent nostres banderes serà l’urna de l’honor. Als màrtirs de
1714”. Qui vennero fucilati i capi della resistenza di Barcellona dopo la
capitolazione, l’11 settembre 1714, davanti alle truppe del borbone Felipe. E
tutte le mattine dell’11 settembre è il luogo d’appuntamento delle diverse anime
dell’indipendentismo radicale. Bancarelle coperte di libri, magliette, simboli,
accendini, autoadesivi, bandiere. Dietro la chiesa erigono un palco, con gli
altoparlanti che emettono musica e comizi tutta la mattina.
Il Carrer Moncada. Gremito di turisti e di scippatori. Gli antichi palazzi signorili
adesso accolgono musei. Quello del tessile, il Picasso. All’inizio della via c’è
una specie di piazzetta, una palma e l’Euskal Etxea. Taverna basca e centro
culturale. Entro, data l’ora non c’è nessuno e una cameriera mi assalta
chiedendo cosa voglio. In piedi al banco prendo una birra e un paio di pinchos.
Sono anni ormai che non torno nel “Nord”.
In Euskadi, terra degli irriducibili di quest’Europa sempre più uniforme. Terra
verde, dolce, che sovrasta un mare sempre cupo. Affascinante e primaria.
Come i suoi abitanti. Eredi, dicono, delle prime popolazioni di cacciatoriraccoglitori, respinti in quest’angolino del continente dalle successive ondate,
dal neolitico ad oggi, di nuove popolazioni e civilizzazioni. Testardi e rudi. Una
lingua che non ha legami con nessun’altra al mondo. Una società maschilista e
al tempo stesso matriarcale. Mangiatori, bevitori e praticanti sport a dir poco
rudi: taglio di tronchi, sollevamento di pietre, tiro alla fune, gare di rematori sul
mare agitato.
Quando si parla del conflitto basco trionfa il punto di vista per cui l’ETA è il
problema. Anche perché se ne sostieni un altro sei a rischio di galera. Senza
ETA Euskal Herria, la Spagna, l’Europa, il Mondo sarebbero un Eden di pace,
giustizia, ordine e concordia. O quasi.
L’ETA nacque contro il franchismo. Cioè quarant’anni di terrore con decine e
decine di migliaia di morti, incarcerati, torturati, profughi. La prima vittima di un
attentato terrorista dell’ETA fu un poliziotto, noto seviziatore. Di quelli che
applicavano la picana o la bañera ai prigionieri legati e facevano scoppiare
timpani e rompevano ossa. Era stato anche collaboratore volontario della
Gestapo. Una personcina ammodo insomma.
Melitón Manzano si chiamava e ora gli danno una medaglia d’oro, popolari o
socialisti al governo, gli stessi che promossero a Generale un certo Galindo,
specie di remake di Franco in Guardia Civil, uno dei registi
della “guerra
sporca”. Organizzatore di sequestri e torture nella sua fortezza-caserma di
Intxaurrondo, specie di forte Apache nel cuore dei paesi baschi (cinquemila
agenti con le famiglie)
Arregui, già in democrazia, lo ammazzarono torturandolo. Ricordo le foto sulla
stampa semiclandestina che circolava in quegli anni. Zabalza finì in un fiume
ammanettato, anni dopo scoprirono che l’acqua che lo aveva affogato era di
una vasca; altri cadevano dalle finestre. Sotto il governo del Felipe Gonzalez,
Lasa e Zabala, due ragazzi ventenni, colpevoli di aver bruciato qualche
cassonetto vennero sequestrati, torturati per giorni, assassinati con un colpo
alla nuca e sepolti. Gli avevano strappato le unghie.
Txiki, uno degli ultimi assassinati da un plotone d’esecuzione, fu martirizzato a
Barcellona sotto gli occhi del fratello e dell’avvocato. I membri della Guardia
Civil volontari per la fucilazione spararono a intervalli, uno dopo l’altro, mirando
a punti non vitali per prolungarne l’agonia. Dicono che Txiki cantasse l’Eusko
Gudari Irrintzia, l’inno del soldato basco. La legge della “Memoria storica” lo
considera “non riabilitabile”.
Il corpo di un etarra morto in prigione venne rimpatriato nel suo paese. Lo
aspettava la folla sulla piazza, per le onoranze funebri. I baschi danno molta
importanza a questo tipo di cerimonie, ci tengono ai loro riti. La polizia teneva a
distanza i presenti. Permisero solo ai familiari di avvicinarsi al furgone. La bara
fu caricata a spalla. Dalla folla partì un grido. Un irrintzi, grido di guerra,
omaggio tributato a un guerriero. La polizia si scatenò.
Picchiavano coi manganelli, coi calci dei fucili. Si accanirono contro i parenti
che trasportavano il corpo. La madre, il padre, i fratelli. Resistettero ai primi
colpi barcollando, poi cedettero, il feretro finì a terra. Sotto i colpi cercarono di
tirarlo su. Non glielo permisero, inferociti. Tutt’intorno le solite scene di giovani
raggomitolati sotto i calci degli scarponi, volti insanguinati, donne di mezza età
spintonate.
... Le viuzze medievali sono più pulite. Poca gente in giro. Il sole non le
riscalda. Con via Princesa sembra di attraversare una invisibile frontiera. Qui
c’è un sacco di movimento. Nordafricani, sudamericani, turisti. Ci sono bar latini
e bar marocchini. Barbieri che si chiamano Ali. Alimentari gestiti da pachistani.
Fast food libanesi. Rara avis un pizzicagnolo con gli insaccati ordinatamente
disposti in vetrina.
In via Layetana, piena al solito di traffico c’è ancora il commissariato centrale
della polizia nazionale. Per decenni “Layetana” è stato sinonimo di cella, botte,
torture, umiliazioni, manette, maltrattamenti.
Proprio li davanti ebbi la brillante idea di spiaccicarmi la faccia sull’asfalto con lo
zainetto carico di adesivi destinati a una campagna personale di boicott alle
agenzie di viaggio che offrivano destinazioni in Turchia.
Era per solidarietà con Oçalan, dirigente del PKK condannato alla forca e per
fortuna finora risparmiato, si fa per dire, dato che gli commutarono la pena
capitale in un ergastolo in una prigione turca.
Il giorno prima mi avevano convinto ad andare in una discoteca di quelle dove
la gente si impasticca e balla tutta la notte. Mi è sempre piaciuto fare nuove
esperienze. Cosicché buttai giù un paio di extasi con il contenuto di tutta una
bottiglia d’acqua seguendo il consiglio del mio Virgilio e quasi di colpo tutti
erano diventati belli, a tutti volevi bene, le ragazze affascinanti, la musica, quel
martellio di incudini in una officina, una cadenza pulsante al ritmo del cuore, i
cessi scenari da fiaba.
Ero uscito verso le sei di mattina mentre scattava l’operazione rimorchio in un
frenetico comporsi di coppie, trii, quartetti omo, bi, eterosessuali. E nell’alba
inforcai la mia bicicletta e deambulai per le vie deserte, osservando come
ipnotizzato alberi ed edifici fino alla porta dell’Angel, deserta, eccetto un
poveraccio ubriaco e tre o quattro ragazzini a dir molto dodicenni che gli
soffiarono il portafoglio lasciandolo lì barcollante a gridare insulti.
Io guardavo e sorridevo e così passai parte della mattinata e poi mentre
scendevo lungo la via Layetana sentii una botta sulla fronte e subito dopo la
faccia di una ragazza sullo sfondo del cielo, niente male la ragazza, che mi
chiedeva il numero di telefono.
Era successo che la bicicletta si era rotta ed io ero andato giù a capofitto e
c’avevo la faccia ridotta da far paura e non mi riuscivo a muovere e rimasi lì
disteso mentre la ragazza, che era un medico, chiamava un’ambulanza.
Nell’attesa si avvicinò uno dei poliziotti di guardia davanti al commissariato, che
frugando nello zainetto trovò gli adesivi con la scritta “boicottiamo il turismo in
Turchia”. Mi chiese i documenti, io disteso sull’asfalto, con faccia e testa
insanguinate.
Mi ero già trovato anni prima in una situazione del genere. Aveva preso fuoco
l’appartamento di sotto al locale della radio. Era agosto e non c’era nessuno nel
palazzo, solo il portinaio, un settantenne obeso ed il sottoscritto e provammo a
spegnere l’incendio a forza di secchi d’acqua che io riempivo di sopra e portavo
giù di corsa mentre l’altro collaborava gridando a perdifiato “aiuto, al fuoco!”.
Arrivarono due poliziotti e sul pianerottolo mi stopparono mentre risalivo di
corsa ansimante le scale coi due secchi vuoti. Dovevo identificarmi. Il portinaio
li mandò affanculo, io non gli risposi e i pompieri che arrivavano su per le scale
li buttarono fuori.
Stavolta a salvarmi furono due vigili urbani che s’intromisero dicendogli che ero
di loro competenza.
Rimasero lì con la ragazza finché non arrivò l’ambulanza. Nella clinica mi
ricucirono alla meglio e poi mi fecero le radiografie ed il TAC e mi visitò un
medico che doveva aver preso la laurea alle isole Caiman o a forza di
bustarelle perché con il paziente, cioè io, che si lamentava di insensibilità alle
braccia, non si accorse che avevo due vertebre cervicali schiacciate.
E cosi, ripulito e rappezzato alla meglio, dopo un paio di giorni in osservazione,
cioè osservato dalle infermiere che mi mettevano il termometro e dalle
inservienti che controllavano se avevo sporcato il bagno, mi rimandarono a
casa.
Poi c’è chi canta ancora le lodi del privato
Con l’incidente di bicicletta le vertebre messe male salirono a tre o quattro,
equamente distribuite lungo tutta la spina dorsale.
“Che devo fare dottore?” Chiesi a uno che mi aveva appena enumerato la
quantità e gravità delle lesioni a ossi vertebre dischi nervi e dintorni.
“Un’assicurazione”, rispose lui.
Proseguo per qualche centinaio di metri fino alla piazza Sant Jaume, dove si
fronteggiano l’edificio della Generalitat, cioè del governo catalano, e quello del
Comune, presidiati dalle rispettive forze dell’ordine pubblico. E’ uno spazio che
venne aperto, come la Plaça Reial, all’epoca degli incendi di conventi,
monasteri, chiese. Attività ricorrente nella storia locale e che la dice lunga su
come fosse benvoluto il clero in questa parte del mondo. Nulla di strano se
pensi a quante ne hanno fatte, inquisizione compresa. È il punto di arrivo di
manifestazioni, cortei e di festeggiamenti più o meno tradizionali, come la
dedica alla cittadinanza delle coppe delle squadre di calcio o di pallacanestro.
Per Natale ci fanno il presepio, fortemente custodito da quando un gruppo di
squatter rapì il Gesù bambino chiedendo un riscatto. O, per la festa della Mercè,
il concorso di castells, torri umane tirate su fino ad altezze impressionanti con
una tecnica di vera e propria ingegneria. Le colles sono composte da centinaia
di persone, ognuna con un compito preciso. Senza distinzione di sesso, età,
razza e stazza. Ognuno trova il proprio posto. Dicono che sia una metafora
dello spirito catalano, questa capacità di organizzarsi disciplinatamente e di
collaborare per un obiettivo comune. Senza divismi né individualismi di sorta,
dato che il personaggio che culmina il castello è sempre un bambino,
l’”anxaneta”.
Stessa cosa si può dire per la sardana, il ballo tondo con musica di ciaramelle,
che a prima vista sembra un saltellare così da niente, ma se provi a seguire è
complicatissimo. La ballano formando circoli di gente che si tiene per mano e si
muove girando intorno al mucchietto degli oggetti personali dei ballerini, borse,
giacche, golfini, ombrelli, che così non li perdono d’occhio.
Rimango nel quartiere gotico, gironzolando fra le viuzze dell’antico ghetto. Entro
nella piazzetta di san Filippo Neri, con la facciata della chiesa punteggiata
ancora dai fori della mitraglia di una bomba italiana che uccise, nel 1937,
decine di persone in un rifugio. Era un angolino recondito e romantico, finché
non dettero ad un hotel di alta categoria il permesso di metterci i suoi tavolini,
con gli ombrelloni e le stufe d’inverno.
Attraverso il Call. La comunità ebrea, numerosa e antica, venne massacrata dal
popolino aizzato dal clero nel 1391. I pochi superstiti sarebbero poi stati
definitivamente espulsi un secolo dopo come in tutta la Spagna dai re cattolici.
Adesso qualche pannello sui muri delle strade offre spiegazioni ai turisti.
L’antica sinagoga è aperta al pubblico.
Sul Carrer Ferran sono dilagati i negozietti di souvenir, con quegli incredibili
cappelli messicani, che non sono nemmeno messicani, destinati a sormontare
facce da rimbecilliti, di solito italiani o inglesi. Abbondano anche le birrerie
irlandesi, le gelaterie pseudo italiane, i fast food.
Entro nella Plaça Reial, con la polizia ormai presente in pianta stabile. I tossici
ci sono ancora, solo che adesso sono punkabestia italiani o barboni tedeschi. I
gitani sono spariti e le borse dei turisti ormai le scippano gli algerini o balordi di
diverse nazionalità, spagnola compresa. All’angolo della piazza c’è il palazzo
dove ha sede la radio.
Eravamo diversi, e parecchio, ma in comune avevamo il rispetto e quella cosa
strana che tutti rivendicano e che pochi praticano che è la curiosità.
Gruppo d’affinità, lo chiamavamo cosi. Messicani svizzeri irlandese italiani
tedeschi spagnoli e catalani. Diverse erano anche le origini politiche, i percorsi
di militanza. Comunque capaci di metterci d’accordo. Al Glaciar, un bar sulla
plaça Reial, prendemmo la decisione di fare una radio.
Di soldi ce ne volevano mica tanti, e li racimolammo con mercatini di seconda
mano, cene, sorteggi in cui il premio era un battesimo dell’aria, perché
c’avevamo pure un pilota nel collettivo.
E soprattutto attingimento alle proprie tasche, fino all’acquisto degli ambiti
apparecchi, ed all’affitto del locale, un appartamento miracolosamente trovato
proprio nel cuore della città vecchia.
Per il ripetitore qualcuno scovò un posto fantastico, lassù sul cocuzzolo del
Carmel, proprio sotto le postazioni antiaeree della Repubblica. Una collinetta da
cui si domina tutta la città. Lì in cima al Carmel abitava, in un quartiere di
casupole auto costruite, una gitana sulla cinquantina, cogli orecchini e un paio
di denti d’oro, i capelli a crocchia e piglio deciso che affittava casotti fatti coi
mattoni recuperati e cemento, che probabilmente erano stati pollai finché non si
era resa conto che era più redditizio metterci gli apparecchi di radioamatori,
taxisti, servizi diversi che non si potevano pagare un ripetitore ufficiale. Di
legalità e permessi ovviamente alla locatrice non gliene poteva fregar di meno e
quindi bastava andare su una volta al mese a pagarle l’affitto. E il bello era che
si poteva dormire tranquilli, senza assicurazioni né sistemi d’allarme, perché
non abbondano gli idioti che andrebbero a rubare in casa di un clan gitano.
“Una radio metropolitana di movimento a Barcellona, con le leggi che hanno
fatto, ma siete matti?”, ci dicevano. Oppure: “se fosse possibile qualcuno
l’avrebbe già fatto”... poi ci si stupisce che sia così difficile fare le rivoluzioni.
Tirammo dritto, ed una domenica lanciammo in onda un programmino
amorosamente registrato con mezzi di fortuna. Funzionò. Cava, brindisi,
festeggiamenti davanti a piatto di verdure e pollo arrosto. Ma l’euforia durò poco,
perché l’emittente si sfasciò, ce lo avevano venduto compagni italiani.
Allora si mossero le autorità competenti. E lo fecero telefonando a casa mia,
che ancora non so come cavolo riuscirono a rintracciarmi, forse la gitana, per
ricordarmi le conseguenze di trasmissioni illegali. Multe, sequestri eccetera.
Non che mi preoccupassero più di tanto, ma non era il massimo nella mia
situazione sapermi nel mirino di una qualche autorità, perché poi le autorità
spettegolano fra di loro e c’era il rischio che intervenisse quella che con me
aveva più direttamente conti in sospeso.
Ma anche a questi livelli i catalani sono gente restia a impicciarsi dei fatti altrui,
e visto che allora non avevano competenze in materia di pubblica sicurezza o di
permessi di soggiorno, se ne infischiavano allegramente che io fossi straniero in
posizione regolare o no.
Insomma ci chiamarono a una riunione. Il direttore generale responsabile
dell’area telecomunicazioni era uno del centro destra catalanista al governo,
giovane e liberale, e ascoltò e s’informò e scoprì che c’erano radio libere in tutti
i paesi democratici del mondo. E dovette pensare “checcavolo perché mai la
Spagna, con la Catalogna dentro malgrado lei, debbono essere sempre così
differenti?”. E si aprì una strabiliante tavola di trattative fra l’amministrazione e
un’accozzaglia di punk, neo hippies, disoccupati, rossi di diverse tonalità e un
latitante straniero. Anche se questo non saltava alla vista come le creste e le
borchie dei metallari.
E alla fine Barcellona ebbe la sua radio libera di copertura metropolitana, più
due frequenze per le radio di quartiere. Che vissero tutto il loro senso durante lo
sciopero generale del ‘94, quando ci mobilitammo e mettemmo le radio al
servizio della lotta e dimostrammo che un’altra informazione è possibile, perché
dai microfoni aperti e senza censure la gente interveniva, affermava, si
correggeva, suggeriva, proponeva, in una sorta di grande piazza dove ci si
incontrò in migliaia e migliaia.
Ma le difficoltà erano tante.
Noi, il gruppo di gente strana ma in fondo normale o strana in quanto normale,
dopo cinque anni di tentativi, oscurati da una nuova radio cittadina, tanto per
cambiare socialista, prendemmo anche la via delle manifestazioni di piazza pur
sapendo che era da scemi uscire allo scoperto e farsi contare. E infatti al primo
corteo, una specie di passacaglie, non eravamo manco un centinaio. E un
altro po’ fini pure male, perché mentre andavamo su e giù per il quartiere dietro
uno striscione, ci rendemmo conto che mancava il Roger, un ragazzo giovane e
timido recentemente arrivato in radio da uno dei quartieri più marginali della
città. L’avevano arrestato due vigili urbani in borghese mentre faceva una bella
scritta sul monumento
a Cristoforo Colombo. Il corteo allora virò verso il
commissariato della Rambla. Oramai non eravamo nemmeno una quarantina,
ma sempre con lo striscione ed io entrai e parlai con quello che mi sembrava il
più tranquillo dei poliziotti. Gli altri mi guardavano in cagnesco ma alla fine
tirarono fuori il ragazzo e cominciò un battibecco fra quelli del corteo, il fermato
e le guardie più spaccone. Riuscimmo a strattonarlo via.
Non erano pochi i rischi della militanza in una radio libera.
Avevamo organizzato una specie di coordinamento statale, con le emittenti
basche che erano le più serie e che di coordinamenti statali in genere fino ad
allora non ne avevano mai voluto sapere, e quelle di Madrid divise in due o tre
fazioni che cercavano di tirare dalla loro i “periferici”.
Facemmo una delle riunioni a Santiago, ospiti di radio Kalimero, emittente
gestita da un’assemblea di autonomi, anarchici, femministe antimilitaristi che
per scacciare la sfiga che gli faceva saltare tutti gli apparecchi e cadere le
antenne avevano deciso in assemblea di chiamare una meiga, cioè una strega.
Perché la Galizia è una terra verde, sotto un cielo sempre incupito e dal treno le
stazioni isolate nella campagna sono grigie di pietra e lucide di pioggia ed è la
terra della Sacra Compaña di streghe e misteri, della morriña, la malinconia
inesplicabile che assale i suoi figli emigrati. Di uno strano matriarcato scaturito
da generazioni di donne sposate senza marito, perché l’uomo era in mare o a
lavorare in America, Germania, Francia.
Terra di marinai che non sanno nuotare e che non imparano perché tanto chi
cade in quel mare è comunque perduto. E un governo locale, la Xunta,
presieduto da Fraga, ex ministro fascista responsabile del massacro di Vitoria,
quando la polizia sparò sugli operai che si erano rinchiusi in una chiesa e ne
ammazzò sette o otto.
In treno da Barcellona il viaggio dura quasi un giorno e una notte e lo feci con
un paio di ragazzi di un’altra radio di un quartiere di Barcellona. Uno era
galiziano, moro, non parlava granché ma non mancava mai a una riunione, una
manifestazione, un presidio e c’aveva sempre lo spinello pronto. In quel viaggio
lo scompartimento sembrava un affumicatoio all’aroma di cannabis ed io ero un
po’ nervoso perché non si sa mai e il controllore invece di infischiarsene poteva
magari chiamare la polizia. Lui però era tranquillissimo e rollava canne al ritmo
di una sigaraia di Manila. E infatti un paio d’anni dopo saltò fuori che era un
agente della polizia nazionale, infiltrato nei movimenti di Barcellona.
E alla fine quella che avevamo sognato come una esperienza di comunicazione
alternativa, orizzontale, partecipativa andò alla deriva. Ridotta a emittente
privata, cassa di risonanza di ego politici o artistici castigati dalla realtà, ad
associazione di personaggi che pensavano di aver qualcosa importante da dire
a un mondo in attesa di sentirli. E l’ultimo gesto di onestà politica del gruppo
fondatore, cioè il comunicato pubblico con il nostro dissenso per la
degenerazione del progetto, mi avrebbe causato in seguito non pochi problemi,
rendendomi bersaglio di infamate attraverso messaggi anonimi in rete, o voci
diffuse ad arte.
Nell’altra chiesa gotica di Barcellona, quella del Pi, poco lontano, qui tutto è
poco lontano, ci furono le occupazioni di immigrati. Gente di tutti i paesi,
centinaia, con l’appoggio di un sacco di organizzazioni di base cristiane e non,
e ci furono scioperi della fame ed uno, uno dell’est mi pare, si cucì pure la
bocca e la foto finì su tutti i giornali. Ma quello stesso tipo fu alloggiato poi in
uno dei locali delle associazioni di sostegno e violentò una ragazza nigeriana,
che cercava anche lei rifugio ai rastrellamenti della polizia. Me lo dissero tutti
impauriti quei ragazzi che c’avevano scritto “sono buono e bravo ma non so che
cazzo fare in una situazione così” sulla fronte, ed io suggerii di massacrarlo di
botte e loro mi risposero che veramente ci avevano già pensato, ma che il tipo
aveva pure una pistola, al che io consigliai prima di disarmarlo e poi
massacrarlo di botte. Ma non ne fecero niente e tirarono un sospiro di sollievo
quando quello se ne andò.
Sono bravi ragazzi quelli dei movimenti di qui, ma ‘sta storia della violenza non
la sanno proprio gestire, e non solo perché qui come altrove ha ormai trionfato
l’idea che la violenza va condannata sempre se l’esercitiamo noi, criticata al
massimo se la usano loro. E questo atteggiamento a volte ha conseguenze
molto brutte, come alla prima conferenza mediterranea alternativa, al palazzetto
dello sport della Mar Bella, accanto alla spiaggia.
Un sacco di gente, bancarelle, dibattiti, conferenze, cibi speziati. Una settimana
o quasi di incontri fra genti delle due sponde. Ma una mattina arrivai e vidi un
gruppo di uomini e donne con le bandiere marocchine che urlavano ed
inveivano contro qualcosa in un angolo del recinto, e mi avvicinai e vidi che
avevano circondato una decina di rappresentanti del Sahara. Gli urlavano
contro in arabo, immagino che non fossero complimenti, e molti degli uomini
avevano tutto l’aspetto di poliziotti. Incrociai lo sguardo di uno ed era da
assassino, un altro riprendeva con una telecamera i sahariani. Andai di corsa a
cercare rinforzi e trovai un paio di organizzatori e gli dissi che bisognava fare
qualcosa subito. Mi risposero che quello che andava fatto era starsene fermi e
buoni e non cedere alle provocazioni. Ecco, ci siamo arrivati, pensai: a porgere
l’altra guancia. Cristianamente, ma di un altro.
E la sacra difesa dell’ospite? Erano nostri ospiti no? E la solidarietà con i più
deboli? I perseguitati, gli oppressi? Niente da fare.
I marocchini minacciarono, qualcuno esibì anche pistole, insultarono,
schedarono e poi se ne andarono tranquillamente. Nessuno dei “bianchi”
mosse un dito. I sahariani rientrarono nel loro stand e chissà che cosa
pensarono dei loro amici ed alleati europei.
“Ramblas di Barcellona, la prima crisi dura dentro in me” cantava Guccini
quando ero un ragazzetto e a me sarebbe tanto piaciuto farmi una crisi in un
posto così. Eccomi accontentato.
Piene di stranieri in trasferta, macchina fotografica imbracciata, e di statue, cioè
di gente che fa la statua e si mette in posa perché i suddetti stranieri in trasferta
scattino e paghino il dovuto obolo. Non ci sono più invece i venditori di sigarette
di contrabbando o i lustrascarpe e nemmeno quell’omino macilento con un
berretto a visiera che faceva pagare il biglietto ai turisti che si sedevano sulle
poche panchine.
Quando arrivai era in uso un verbo, ramblejar, che indicava l’andare su e giù
per questo viale, dalla fontana di Canaletes, che se ci bevi torni a Barcellona,
alla statua di Colombo che indica l’America, a quanto pare dalla parte sbagliata,
e viceversa. In questo deambulare trovavi conoscenti e amici e si formavano
crocchi di gente che parlava di se, della famiglia, di calcio, di politica.
E la Rambla, proprio davanti al Liceu, era lo scenario nei primi anni settanta di
scontri praticamente quotidiani fra polizia e gruppetti dell’estrema sinistra.
Cariche corse barricate coctails molotov manganellate lacrimogeni e pallottole
di gomma. E gente che correva davanti ai grigi e poi ai marroni e infine agli
azzurri o blu, ultimo cambiamento d’immagine della polizia statale, adesso
sostituita da quella autonoma.
C’erano i tifosi del Barça che il lunedì si riunivano in folti capannelli a
confrontarsi su strategie, tattiche, campioni, vittorie e sconfitte, per tacere degli
arbitri e dell’eterno nemico, il Real Madrid.
Ci fu il periodo dei travestiti, con la curiosa coabitazione, nell’arco delle 24 ore,
di giovani e non più giovani famigliole che prendevano il fresco e di puttane,
ubriachi, clienti delle puttane, ragazzi smunti truccatissimi e vestiti da sposa,
cuori solitari ed allegre comitive.
C’erano anche i turisti, certo, ma molti di meno e anzi nel loro piccolo
contribuivano ad arricchire la tavolozza di tipi umani che popolava questo
spazio lungo e sinuoso.
Mi fermo a guardare i titoli dei giornali. Qui per anni sono venuto a sbirciare i
giornali italiani, a comprare l’Egin, prima che venisse sequestrato manu militari.
Oggi la notizia è la candidatura di Barcellona come sede delle olimpiadi
d’inverno del 2016. Il sindaco di turno non ha trovato di meglio che ripetere la
formula dei grandi eventi sportivi per rilanciare l’immagine e l’economia della
città.
Come per i giochi del 92, quando tutta Barcellona diventò un grande cantiere:
dal recupero della facciata marittima, alla costruzione del villaggio olimpico, al
rifacimento dei grandi impianti sportivi come lo stadio di Montjuich.
Feci allora uno dei lavori più strani. Nel ‘91 lo stadio era già pronto e per non
lasciare fermi gli impianti, decisero di tenervi una serie di manifestazioni
musicali con gente come i Rolling Stones, Madonna, David Bowie, Prince. E
successe che la sicurezza, che ora a quanto pare va chiamata security, al
concerto dei Rolling Stones fece un sacco di casini, perché i quattrocento
sorveglianti, assunti da una di quelle ditte che forniscono gorilla alla
metropolitana, avevano avuto la bella pensata di frugare in tasca e nelle borse
di migliaia di adoranti seguaci degli Stones, di cui molti ovviamente non
concepivano un concerto senza qualche canna o robetta più forte, e di
sequestrargliele. Nuocendo così fortemente al clima di celebrazione festaiola
che si addice ad un grande concerto, dove tu oltretutto vai pagando una cifra.
Insomma i produttori cercarono qualcuno che controllasse i controllori ed
un’amica pensò a me, che secondo lei avevo le idee giuste e m’introdusse così
nel business dello spettacolo. Ritmi frenetici, stress, coca, isteria e aneddoti da
raccontare in serata agli amici. Dal capo dei vigili urbani, in seguito inquisito per
una storia di corruzione, che voleva vedere da vicino la Madonna rischiando
grosso con i guardaspalle della dama; ai poliziotti che con piacere pregai di
levarsi dai piedi perché David Bowie non usciva in scena se c’era gente armata
intorno. Dal rappresentante di uno dei divi che dette un pacco di soldi a uno che
“passava” coca e che poi aveva chiesto se era uno da fidare. Tranquillo, gli
risposero, è un ispettore di polizia. Al membro di una ONG che riuscì a saltare
tutti i filtri con un badge della televisione italiana ed a far indossare una
maglietta alla Madonna (che se la infilò sorridente e dopo il concerto attaccò
furiosa a pugni la sua guardia del corpo).
Poi nel 92 lo stadio accolse la cerimonia d’inaugurazione con sceneggiatura dei
Comediants. Uno spettacolone. Accesero la torcia olimpica con una freccia
infuocata e il re pronunció il discorso d’inaugurazione fra i fischi delle migliaia di
presenti. I responsabili delle televisioni spagnole
impazzirono perché era
impossibile filtrare il suono e non potevano inquadrare null’altro che la tribuna
delle autorità perché tutto lo stadio era pieno di bandiere catalane ondeggianti e
immagini di una contestazione che giunse al culmine con le note dell’inno
spagnolo. A mò di rivincita, le istituzioni democratiche scatenarono la caccia
all’indipendentista. Ne presero una quarantina e li conciarono male. Molti anni
dopo il tribunale di Strasburgo ammise che si era trattato di casi di vera tortura.
Non è che nessuno, né i mandanti né gli esecutori abbian pagato nulla, si sa
come funziona: un verdetto simbolico, qualche rimbrotto. Ma almeno i ragazzi di
allora ed uomini di oggi che erano stati asfissiati, bruciacchiati, malmenati,
minacciati, insultati, umiliati hanno avuto la soddisfazione di veder riconosciuta
la verità.
Boquería
Sulla scia di un drappello di polacchi o russi o chissacché in pantaloncini corti
entro nel mercato della Boqueria. Come l’hanno ridotto! Sembra un luna park e
alle bancarelle gli mancano solo le insegne luminose ed i neon lampeggianti.
Se vuoi multiculturalità fai un giretto qui e sei servito. Ci sono rappresentanti di
tutti i paesi d’Europa muniti di macchine fotografiche e occhiali da sole, e
rappresentanti di tutti o quasi i paesi del terzo mondo, muniti di sporte, borsoni,
bambini in collo. La principale attrazione della Boqueria era diventata
ultimamente la bancarella di un signore grassottello che vende funghi in tutte le
stagioni dell’anno e che si era allargato sul ramo degli insetti, sì sì proprio insetti:
formiche scarafaggi scorpioni termiti larve eccetera. Ma poi nel dubbio gli hanno
fatto chiudere l’attività, ma senza fare tanto casino, non fosse mai che qualcuno
accusasse le politicamente correttissime autorità cittadine di discriminazione
gastronomica. Comunque resta l’attrattiva della rotonda centrale, dove ci sono
le pescivendole, che però a forza di tante fotografie e clientela dai linguaggi
gutturali hanno perso la loro vivacità e non ti chiamano più “reuccio mio bello
caro guarda un po’ che sogliole che c’ho oggi”.
Rambles... Dio, quante volte l’ho percorsa questa via. Quanta gente c’ho
conosciuto. In quante manifestazioni ho sfilato. Quante rose ho comprato.
Ogni anno il 23 aprile, Sant Jordi, patrono della Catalogna la Rambla si riempie
di bancarelle cariche di libri e di rose. Un fiumana di gente di ogni età, corrente
ininterrotta e ordinata.
Nel pomeriggio c’è sempre qualche corteo, in genere in difesa della lingua. In
uno dei primi anni di emissione della televisione catalana TV3, a Canaletes,
all’incrocio fra C/ Pelai, Plaça Catalunya e Rambles un gruppo di femministe
chiede la legalizzazione dell’aborto. Con un fornellino cercano di gonfiare un
piccolo pallone aerostatico. Arrivano le camionette della polizia. Scende un
drappello di uomini coi caschi e gli scudi. Rompono il pallone a manganellate,
poi cercano di rompere qualche femminista. La folla reagisce. Una telecamera
filma. Arrivano i rinforzi. Sullo schermo uomini in divisa rovesciano bancarelle,
buttano in terra i libri, picchiano anziani che si difendono con un ombrello,
sfoderano le pistole. Si vedono vecchie signore distese sul selciato, volti
insanguinati. Ma la gente non se ne va. A centinaia, disarmati e incazzati
incalzano da tutte le direzioni i poliziotti che molte scene di violenza dopo
rientrano nei furgoni e si ritirano.
La televisione “regionale” trasmette e ritrasmette le immagini finché un giudice
non ne ordina il sequestro. “In ottemperanza alla decisione del magistrato
consegneremo i nastri alle autorità – dice il presentatore del telegiornale – ma
prima li trasmetteremo integralmente”.
Erano altri tempi. Altri giornalisti.
Tirem innanz...
L’Ateneu Barcelonès, piazza Vila de Madrid. Greve edificio con androne
lastricato di pietra e scalinata d’idem e portinaio che ti chiede dove vai. Dentro
c’è un caffè con sala di lettura ed il giardino romantico in un cortile interno. Ci
venivo ogni tanto quando ero socio dell’Associazione di scrittori in lingua
catalana. Ci si riuniva per cose come la prima guerra in Irak e con persone
come la Montserrat Roig, ma erano i tempi degli scrittori impegnati
politicamente e, si sa, l’impegno politico uccide la creatività. E infatti si è visto
dopo l’ esplosione di creatività che c’è stata quando l’associazione si è
arroccata sulla difesa dei diritti d’autore, delle tasse sulle fotocopie e quant’altro.
Io che invece ero sostenitore del copyleft, cioè della libertà di copia non
lucrativa, e della libera circolazione del sapere, continuai a pagare la quota
perché mi era utile avere un tesserino di scrittore, con la foto appiccicata sopra,
da tirar fuori come surrogato di documento d’identità. Finché a Praga non venne
arrestata mia figlia, assieme a decine di altri ragazzi catalani, in un sit-in di no
global. Il presidente della Cechia era Havel, scrittore famoso e venerato dai
nostri ed io chiesi alla “Giunta” dell’Associazione di fare una lettera o un
comunicato di protesta. Da scrittori democratici difensori della libertà di
espressione a scrittore democratico e amante delle libertà. Ma la Giunta mi
rispose che l’Associazione di scrittori in lingua catalana non faceva politica,
cosa d’altra parte non vera, dato che poco prima avevano condannato con
fermezza un attacco a una libreria nei paesi baschi, cioè un libro è sacro, la
libertà di ragazzi anticapitalisti ed internazionalisti no, ma vaffanculo va! E così
terminò la mia frequentazione dei circoli di scrittori, dell’Ateneu Barcelonès e,
aimé, del giardino romantico.
Bighellono per le vie del Xino finalmente tranquillo, io non il quartiere, perché
tanto ora al massimo mi rapinano. Hanno “esponjat” la zona, vecchia
aspirazione degli architetti ed urbanisti illuminati della città: ridar luce e salubrità
aprendo nuove strade, piazze, ristrutturando edifici, buttando giù quelli fatiscenti,
costruendone di nuovi, solidi e funzionali, creando impianti e servizi pubblici. A
me sembra piuttosto che l’abbiano “espugnata”. Alle prostitute andaluse e
galiziane di ogni età e categoria sono subentrate africane, rumene, russe,
sudamericane. Resta ugale il meretricio. Nemmeno la clientela non è cambiata
granché da quella notte di Natale di trent’anni fa quando dal dedalo di vicoli
deserti sbucai in una specie di corso, una rambla striminzita e gremita di uomini
male in arnese. Poveracci la maggior parte, vecchiotti o almeno così mi
sembravano, che sostavano sul marciapiede o in mezzo al selciato con l’aria di
aspettare qualcosa davanti a porte di bar illuminati ed il qualcosa erano appunto
puttane colle tette di fuori malgrado il freddo e la scarsa appetibilità delle stesse,
anche se l’apprezzamento è soggettivo visto che appetibili risultavano per tutta
quella dolente umanità. C’è più luce ora, questo sì, e più polizia e piazze,
negozi di pakistani uno accanto all’altro e turisti e alberghi per turisti e ristoranti
per turisti e botteghe per turisti.
Sono quasi scomparsi i gitani e le loro donne, vestite di nero se vecchie e
sposate, e di colori sgargianti e scollature e spacchi sulle gonne quelle più
giovani. Invece ci sono le musulmane coi loro veli, scialli e addirittura qualche
burka, anche se per fortuna scollature e minigonne non mancano grazie a
sudamericane e studentesse straniere.
Esponjar / espugnare. Hanno chiuso le pensioni miserabili, vere topaie e gli
alberghi a ore. E così le africane e le rumene scopano e fanno pompini
all’angolo della via e sui portoni e i vicini si lamentano e allora intervengono i
vigili urbani e le africane e le rumene son fatte emigrare o meglio riemigrare
verso un’altra zona dove poi i vicini si lamentano e così via.
Passo davanti ad uno dei tanti alberghi di lusso e la piazza antestante la
vogliono dedicare a Vazquez Montalban che odiava questa ristrutturazione post
moderna di un quartiere che racchiudeva tanta e tante storie di umanità
disgraziata e umiliata. Se lo sapesse si rivolterebbe nella tomba. Ma ai nostri
piace approfittare dei nomi dei morti illustri che tanto mica possono protestare.
E così hanno intitolato un’altra piazza a Orwell, che i predecessori politici di
quelli che governano adesso avevano cercato di liquidare quando venne a
combattere nelle brigate internazionali, ed una a Jean Genet, tanto chi cavolo lo
conosce.
C’è ancora la viuzza dove per un soffio non finì la mia carriera di latitante.
“Está amartillada!” ripeteva il poliziotto puntandomi la pistola sulla nuca. Stai
calmo, sono disamato e non ho fatto nulla, gli dicevo mentre il suo collega,
anche lui pistola in mano correva giù per la via fredda e deserta gridando “gli
altri sono lì! Fermi, Fermi!”. E pensavo con la guancia sul gelo del tettuccio di
una macchina che era proprio una maledetta sfortuna cadere in una retata
contro spacciatori da quattro soldi e quasi quasi desideravo che a quell’idiota
con la mano tremante gli partisse un colpo e farla finita e poi l’idiota mi spintonò
verso un portone e dentro l’atrio del palazzone c’erano sei o sette professori ed
alunni della scuola di lingue dove lavoravo e con cui avevo appena cenato
allegramente in casa di un collega, tenuti a bada dall’altro poliziotto, tutti in fila
alla parete gambe divaricate e mani appoggiate al muro e quando entrai si
girarono tutti verso di me e mi chiesero in coro “Rolando ma che hai fatto?”. Era
seguito un concitato battibecco fra i pulotti nervosi e i catturati sempre meno
spaventati e sempre più incazzati, che minacciavano denunce e lettere ai
giornali ed infine i due se ne andarono, senza nemmeno rendersi conto che per
terra c’erano meno documenti che persone allineate contro la parete,
rinfoderando walkie talkie e pistole, seguiti da esclamazioni indignate e da una
sfilza di “ma non finisce qui” a cui avrei voluto contribuire con un ultimo “lei non
sa chi sono io!”. Dopotutto ero insegnante di italiano.
Diceva il babbo che mi ha salvato l’angelo custode, cioè lo spirito di mia
mamma, perché tante volte l’avevo scampata, troppe per la fortuna o il caso...
Riunione dell’MRG. Movimento di Resistenza Globale, siamo nelle lotte no
global. Tutto alla luce del sole, pacifico, innocuo, ma durante l’intera giornata
mentre parliamo, discutiamo e scherziamo un paio di giovanotti fanno il palo
all’angolo dell’edificio dell’università di Lleida. Finiamo che annotta. Io ed un
altro andiamo alla stazione, gli altri partono in macchina, saranno una trentina.
Alla stazione facciamo i biglietti e poi andiamo al bar. Due poliziotti in divisa
entrano e vengono dritti verso di noi. Ci chiedono i documenti. Il compagno è
nervoso perché ha qualche fogliolina di marijuana in tasca e perché ha
precedenti come “insubmis” cioè non sottomesso, renitente politico alla leva.
“Se tu sapessi!”, penso e intanto ripeto ai poliziotti il solito ritornello “spiacente
ma ho dimenticato i documenti”. I “mossos” traccheggiano con le ricetrasmittenti
ripetendo il nome che gli ho dato e quello del compagno. Arriva il treno. Mi
dicono che non posso andarmene. Rispondo che ho fretta. Che vengano con
me o mi facciano aspettare a Barcellona. Il capotreno s’impazienta. Salgo sul
predellino deciso e cortese. Non mi trattengono. Il compagno respira sollevato,
telefoniamo agli altri. Una ragazza ci dice sottovoce che sono fermi a un posto
di blocco pieno di poliziotti col passamontagna e i mitra che gli han detto che è
un controllo antiterrorista e li stanno perquisendo tutti, frugando in macchine e
tasche, documenti ed agende, anche quelle degli avvocati che hanno protestato
ricevendo come risposta che in un controllo antiterrorista l’unico diritto che
hanno è di tenere la bocca chiusa. Riattacca.
Quando sono in pericolo c’è una specie di nebbia. Tutto è lento. Gli anni e
l’istinto t’ insegnano a mascherare la rassegnazione, il fatalismo da serenità
tranquilla. Il sospetto innervosisce
e il nervosismo prolunga il gioco.
L’immobilità in natura è una difesa poderosa. Se non fuggi, se non tremi vuol
dire che forse sei pericoloso. O che non sei commestibile.
I sensi si adattano a una vita il cui sale è la paura. Angoscia che può sfociare in
panico. Paura del dolore, la malattia, l’abbandono. Il rischio, l’ignoto, la morte,
l’oscurità. La violenza.
Dell’attesa di una scampanellata o di un tonfo alla porta in piena notte o all’alba.
Della calma inquieta di una strada deserta. Di un’ispezione sul lavoro. Di un
controllo di routine. Di un telefono intercettato. Di un incidente stradale. Una
manifestazione.
Dell’ubriaco che ti incroci per strada, dell’albergatore il portinaio il sorvegliante il
vicino il collega.
Non avevo mai fatto caso alla quantità di laboratori di piercing e tatuaggi. Vorrei
farmene uno bello, uno di quelli che adesso sfoggiano tutti e vorrei che fosse un
lupo, il mio animale totemico. Ma quelli che vedo nelle quattro o cinque
bottegucce di tizi quasi tutti stranieri, decorati come alberi di natale con pezzetti
di metallo appesi dappertutto, sono solo immagini di lupi che sembrano usciti da
un film di Walt Disney o da un droga party.
Mi terrò il mio simbolo della pace, fatto da un tossico con tre aghi e colorante da
pareti. Il tatuaggio venne fuori storto e me lo sono nascosto per molti anni
perché si vedeva da un miglio che era roba fatta in galera. Però la tecnica era
semplice e una volta cercai anche di farmi una stella a cinque punte.... Non mi
venne una stella ma una specie di clessidra. E me la sono tenuta. Così imparo...
Sbuco nella piazza del MACBA. Piena come al solito, malgrado le ordinanze, di
skatters. Sono tentato di entrare e chiedere cos’hanno in programma di
vampirizzare nei prossimi mesi. MACBA, covo di marchand della rivoluzione
fatta arte e quindi prodotto-merce. Subito dopo le mobilitazioni no-global
organizzarono una mostra sui movimenti di protesta degli ultimi decenni.
C’erano un sacco di fotografie di manifestazioni cui avevo partecipato, di cartelli
che avevo incollato, di riviste che avevo distribuito. All’ingresso mi dissero che il
biglietto costava otto euro. Anche per gli autori? Chiesi.
Un po’ più su c’è la concorrenza: il CCCB e davanti la fiammante facoltà di
storia dell’università centrale.
In C/ Tallers cerco il negozio di strumenti musicali dove lavora il Ton. Lo
conosco da un sacco di anni, da quando mi guadagnavo la vita come traduttore.
Mi pagavano tutto in nero allora. Per fortuna la contabilità delle agenzie non era
granché rigorosa, e fra tutte la meno rigorosa era quella della PAC, una società
fondata dal Ton ed altri quattro amici neolaureati: a fine mese, il giorno di paga,
il socio contabile in una stanza faceva le buste coi soldi dentro mentre in quella
accanto il socio con bilancina e coltello tagliava pezzi di hashish e confezionava
bustine di coca o speed e noi, i traduttori, si faceva la fila prima davanti a una
porta e poi all’altra.
Faccio capolino nel negozio chiedo al padrone se c’è e mi dice di no, che è
malato. Non mi stupisce. Stupisce che sia ancora vivo con tutte le porcherie che
si è fottuto per anni per vena, naso, bocca. Lascio i saluti.
La piazza Universitat è sempre stata bruttina, malgrado l’edificio dall’aspetto
severo e un po’ pomposo che accoglie l’università centrale, uno dei quattro o
cinque atenei pubblici della città. Ha un bel giardino e nel quartiere abbiamo
fatto lotte perché venisse aperto al pubblico, poi visto come il pubblico lo
trattava abbiamo lasciato perdere.
Ha anche due bei chiostri dove gli studenti accoglievano la polizia franchista a
sassate ed a bottiglie di acidi tirate dai ballatoi. In anni recenti è stata il quartier
generale delle mobilitazioni contro la riunione dei capi di stato e dei ministri
degli esteri dell’Unione Europea sotto il governo Aznar.
Era tutto un via vai di gente, un riunirsi, uno scrivere manifesti, preparare cartelli,
confezionare tute anti-antiantisommossa sotto gli occhi un po’ annoiati dei
bidelli che non sembravano granché simpatizzanti. Ma quando sulla porta si
presentarono un gruppo di poliziotti, se ne alzò uno faticosamente da dietro il
suo banchino e bofonchiando “questi col cazzo che entrano” gli andò a chiudere
deciso la porta in faccia.
Proprio davanti, giù nell’atrio della stazione della metropolitana hanno allestito
una mostra “Barcellona sotto le bombe”.
Hanno riprodotto le immagini di un ricovero antiaereo. La popolazione di
Barcellona, in un’opera immane di resistenza, ne costruì a centinaia. Ci sono le
autorità, qualche giornalista. Molti vecchi, uomini e donne. Ascoltano i discorsi
del politico, uno di sinistra. Si aggirano ad osservare le immagini, le sequenze
di documentari su piccoli schermi. Qualcuno piange. Erano ragazzini allora,
bambini come quelli che una foto mostra cadaveri allineati su di un marciapiede.
Costeggio la Plaça Catalunya. Davanti al Corte Inglés hanno messo una
bancarella per la raccolta di firme. Vogliono fare un’iniziativa legislativa
popolare per chiedere l’abolizione della corrida.
È una festa o tradizione che non riscuote molto successo ed ancor meno
simpatie la cosiddetta fiesta nacional, la corrida.
Qui a Barcellona continuano a farne alla Monumental, un’arena di stile
modernista. Mi è capitato di andarci in processione dietro signore scalmanate
che cercavano di spiegare alle centinaia di turisti che “se la corrida è arte il
cannibalismo è gastronomia”. Quando arrivavi sul posto trovavi sempre il solito
schieramento di poliziotti che ti consigliavano paterni di andartene prima che
finisse la corrida perché, dicevano “voi siete gente per bene ma quelli lì dentro
sono degli animali”. E non si riferivano ai tori né ai turisti ma alle decine e
centinaia di amanti della “fiesta”, che ce ne sono e di solito sono spagnoli di
pura casta e bruti fascistoidi. Degna compagnia di alcuni settori di artisti ed
intellettuali che per snobismo o altre basse ragioni difendono da giornali e tivù
la tauromachia.
Un amico che da piccolo ne aveva viste a decine, perché era della Castiglia
profonda e suo padre era un aficionado, mi spiegò che la cosa è semplicissima:
si fa entrare il toro, che quando va bene non è stato drogato né “rasato”, cioè
con le corna spuntate, ma che è comunque frastornato e che di suo non ci vede
niente bene, e così, d’acchito gli piantano un paio di uncini sulla groppa. Quindi
entra il picador a cavallo e con la lancia lo buca due o tre volte, tanto per fargli
perdere qualche litro di sangue. Poi quando è ormai quasi sfinito, gli mettono le
banderillas che fanno un male boia e lo spronano a dar fondo alle ultime
energie. Lo fanno correre su e giù fino al “momento de la verdad”, che sarebbe
il momento in cui il toro non ha più nemmeno la forza di tenere la testa alta. A
questo punto se tutto va bene il matador gli trafigge il cuore con la spada che
infila nel punto della groppa rimasto scoperto, sennò è il descabello, che
consiste nel finire l’animale con lo stocco o il pugnale, colpendolo dietro la nuca
o, a volte, addirittura lo sgozzamento. In questi casi hanno l’accortezza di
nascondere la macelleria alla vista del pubblico facendo un cerchio coi capotes
e le muletas.
Firmo, con il numero d’identificazione stranieri accanto al nome. Sono legale.
Firmo anche se l’ultima iniziativa di questo tipo, per obbligare i partiti a discutere
in Parlamento la costruzione di centrali nucleari, finì con quattro centrali nella
mobilitatissima ed antinucleare Catalogna mentre nei paesi baschi centinaia di
sabotaggi e l’azione dell’ETA evitarono la costruzione di quella di Lemoiz. Poi
dicono della superiore efficacia della parola rispetto all’azione.
Urquinaona è la piazza dove ancora negli anni settanta i capataz andavano a
prelevare i manovali ed i muratori per farli lavorare a giornata in un cantiere. Qui
accanto nei miei primi giri di scoperta della città vidi un cartellino sulla porta di
un palazzone. “Associazione Familiari ed Amici Prigionieri Politici”. Suonai il
campanello e mi presentai. Erano una vera famiglia con diversità generazionali
e legami parentali di ogni ordine e grado con prigionieri politici. Li avrei visti
negli anni, sempre in testa alle manifestazioni più combattive, i più anziani con
le bandiere rosse o l’ikurriña o la senyera con la stella rossa, anche quando
c’era il rischio di buscarne, anzi soprattutto quando c’era il rischio di buscarne.
Simpatizzammo. Il Pere, della mia età, aveva visto morire un compagno colpito
da un proiettile poliziotto alla schiena durante una delle prime grandi
manifestazioni del dopo Franco. Llibertat, amnistia estatut d’autonomia urlava la
folla e i “grigi” sparavano. C’è ancora un cartello appeso nel punto in cui venne
colpito Gustau, sulla via Ferran. Poi c’erano l’Encarna e il Ramon. Lui vecchio
operaio, piccolo, magro e lei minuta donna lavoratrice, affabile, affettuosa,
materna e tenace.
Li andavo a trovare nel loro localino. Mi raccontavano della situazione nelle
prigioni spagnole, dei FIE, cioè i detenuti considerati altamente pericolosi, delle
lotte della COPEL, organizzazione di carcerati comuni, dei detenuti politici, dei
baschi organizzati ma sempre nel mirino di guardie e giudici. Dei via crucis delle
famiglie. Dei brani di conversazione nelle file davanti ai cancelli dei carceri
speciali, in attesa dei colloqui. “Anche la settimana scorsa ci hanno fatto una
perquisizione e hanno rotto due mobili”. “Sa, a me hanno sfondato la porta
quattro volte. Eppure io glielo dico sempre al commissario, ma guardi che se
suonano al campanello io la porta gliel’apro sa?”.
Nel bar accanto, “da Marisa”, dove andavamo a farci un panino dopo le riunioni
e dove a mezzogiorno per quattro soldi ti davano un menù niente male ora
cuochi, cameriere e proprietari sono tutti cinesi. Come del resto praticamente
tutti i bottegai del quartiere. Grossisti del tessile, parrucchieri, negozi di
alimentari, di elettrodomestici, ristoranti.
Mentre mi avvio lemme lemme verso il Passeig de Gràcia mi arrotolo una
canna con l’ultima caccola che pesco in fondo al pacchetto di sigarette. Mi
viene da fare schifo. Non sono granché abile con le mani. Seduto su uno dei
banchi-lampione rivestiti di trencadís assaporo con il fumo la soddisfazione di
guardar passare una pattuglia di mossos e di ricambiarne imperturbabile lo
sguardo scrutatore. Non ho più paura. Ho dei documenti in tasca e non sono
falsi e non ho più mandati di cattura né condanne in sospeso. Sono libero. Di
sedermi dove voglio, di fumare, attraversare frontiere, prendere aerei, guidare,
dormire in alberghi o sulle panchine di un parco o nella sala d’aspetto di una
stazione. Libero di ubriacarmi e di raccontare la mia storia ad altri ubriachi o a
un barista annoiato. Libero di pagare le tasse e di scrivere lettere al direttore.
Libero di buttarmi sotto un treno, di tagliarmi le vene, di parlar da solo. Libero.
Per ora mi riposo. Sono nel mio quartiere.
Pochi anni dopo il nostro arrivo a Barcellona cambiammo casa per trasferirci
nell’Eixample, costruito agli inizi del 900 secondo il Piano Cerdà, urbanista
illuminato.
L’appartamento era grande e bello, almeno per noi usi a ristrettezze d’ogni
sorta. C’era perfino l’ascensore. Affitto ragionevole e contratto per un periodo
illimitato, un lusso che sarebbe poi divenuto oggetto d’universale invidia, visto
che proprio in quei mesi il governo socialista si rimboccava le maniche per
aprire la cassa di Pandora della corsa al mattone e della speculazione
selvaggia.
Non che mi piacesse granché il nuovo quartiere. Uffici, bar notturni di quelli che
mio cugino chiamava night e che qui chiamano invece puticlub. E poi altri uffici
e altri night, però era a due passi dal centro e da Gracia. In compenso il traffico
era intensissimo e i lavori perennemente in corso: luce, fibra ottica, acqua,
telefono, tunnel, Ave, metropolitana e ricomincio: acqua, telefonia, fibra ottica…
Aveva anche i suoi personaggi bizzarri, come un inglese che ogni tanto, con
barba e baffi rasati a metà, si piazzava ad un incrocio di Balmes, una delle
principali arterie della città e, munito di un bandierone a quadretti di quelli delle
corse automobilistiche, dava il via alle macchine ferme al semaforo.
Ci abitavamo da poco e un mattino mi alzai presto per andare al mercato. Mi
piacciono i mercati, con le loro bancarelle del pesce al centro e poi tutt’intorno i
fruttivendoli, i macellai, i baccalaisti, i legumisti che vendono i fagioli ed anche -
orrore - pasta già bell’e scotta, rivendite di uova, olive, frattaglie, volatili, mentre
fuori, lungo il perimetro della struttura di mattoni e ferro, pendono festoni di
vestiti, pentole, pantofole, padelle, mutande, calzini.
La via era deserta, la gente qui non si alza mica tanto presto e sono rari i posti
che aprono prima delle nove. C’erano due poliziotti un po’ più avanti sul
marciapiede che srotolavano uno di quei nastri con su scritto “vietato passare,
polizia”. Lo tesero intorno ad un rettangolo di marciapiede legandolo a delle
transenne e in mezzo al rettangolo c’era un corpo e sotto la testa calva e bianca
si allargava una chiazza di sangue spesso e amaranto. Due piani più in su c’era
un balcone con la finestra aperta e, appeso alla ringhiera, un bastone di quelli di
una volta, da vecchi, con il manico curvo. Un poliziotto accese una sigaretta,
l’altro disse qualcosa alla radio gracchiante. Non mi fermai, solo un’ occhiata
alla pantofola accanto al cadavere, alla vestaglia marrone e lisa.
Non molto tempo dopo, stavolta era una notte d’estate ed ero uscito a respirare
un po’ di aria carica di odori, di vita, all’angolo di casa si fermò un’ambulanza
con i lampeggianti accesi. Ne scesero due infermieri, che s’infilavano quei
guanti di lattice che ti metti se devi toccare sangue o merda o uno malato e
s’incamminarono verso uno dei nuovi edifici. Accanto alla parete c’era una
ragazza colla minigonna. Distesa col viso appoggiato sul selciato, sembrava
una bella ragazza, non più giovanissima, ma bella e anche lei aveva quel
grande fiore rosso che le incorniciava la testa.
Avevo, allora, ancora tanta paura di essere ripreso, di finire di nuovo in galera.
Era nei miei incubi di ogni notte, il carcere. Sognavo evasioni. Inseguimenti.
Cani e pallotole che mi rincorrevano e a volte raggiungevano. Quel vecchio e
quella ragazza mi dissero di non preoccuparmi più di tanto, che nessuno
avrebbe potuto mai togliermi la possibilità di evadere.
L’Eixample racchiude gran parte del patrimonio modernista della città. Dicono
che Gaudí avesse commissionato per il grande ingresso della Pedrera una
immensa lastra di vetro di Boemia che costò un occhio della testa, anche
perché il trasporto mica era una cosina da nulla. Quando il vetro arrivò a
destinazione tutto bello impacchettato, l’architetto ordinò agli operai che
chiedevano istruzioni su dove e come collocarlo, di lasciarlo semplicemente
cadere lì. E quelli lo fecero, immagino fra imprecazioni bofonchiate a mezza
voce contro quel buonomo che era fuori di testa, anche se non tanto come
quelli che pagavano che, continuo a immaginare, non dovevano essere presenti
alla scena. La lastra ovviamente andò in frantumi, doveva essere uno
spettacolo notevole. I frammenti pazientemente raccolti furono ricomposti in una
intelaiatura di metallo dal disegno arabescato e fantastico, e questa fu la porta
dell’impressionante e onirico edificio che attrae frotte di turisti giapponesi. Come
tutte le altre opere di Gaudì, punteggiate di elementi tratti dall’attenta
osservazione della natura, come il suo celebre e rivoluzionario arco, o dalle
droghe, forse funghi allucinogeni. Alchimista, drogato, geniaccio comunque. La
città ne va orgogliosa, anche se adesso quelli che se lo mettono all’occhiello nei
loro viaggi d’affari all’estero, in queste strane comitive di
uomini politici e
imprenditori, sono gli stessi che trent’anni fa non sollevavano grandi obiezioni
quando un palazzinaro comprava edifici emblematici del Modernismo per
demolirli e farci appartamenti da vendere a peso d’oro. Ed era la gente del
quartiere che doveva mettersi a fare i presidi e le occupazioni di notte degli
edifici condannati a morte da ruspa e che talvolta riusciva a salvarli, come nel
caso dell’Elisenda, placida figlia di bottegai, e degli anonimi abitanti del suo
rione che bloccarono in extremis la demolizione dello Chalet, graziosa
palazzina modernista sulla Gran Via, oggi sede di un Centro Civico.
Butto il mozzicone in un cestino. E cerco una fermata del bicing. Con sollievo
vedo che la bici che mi tocca è meno sfasciata del resto. Pedalo a casaccio alla
ricerca di un bar che mi dica qualcosa: a me piacciono quelli di sempre, di
quartiere, con i pensionati che giocano a carte e gli operai che si fanno il panino
e un cicchetto alle dieci di mattina. E ce n’è sempre meno. Passo davanti alla
sede della Delegazione del Governo in C/ Mallorca.
Era scomparso un prigioniero basco catturato dalla Guardia Civil. Dissero che
era fuggito. Con le mani legate dietro la schiena, era fuggito da un furgone
blindato e scortato da una mezza dozzina di agenti armati. Non avevano ancora
perfezionato l’arte del comunicato stampa, quelli della “Benemerita”. Poi lo
ritrovarono affogato in un fiume. Una ventina d’anni dopo avrebbero ammesso
che l’acqua dei polmoni non era del fiume e che insomma il prigioniero era
morto mentre gli facevano la tortura della “bañera” che consiste nell’ immergere
nell’acqua la testa dell’interrogato fino a farlo quasi affogare. Adesso lo fanno
coi sacchetti di plastica.
Per noi era facile immaginare come fossero andate davvero le cose ed
eravamo diverse migliaia quella sera, sotto la pioggia, a urlare contro lo Stato e
finì a sassate e bottigliate contro l’edificio del Governo da cui sparavano
pallottole di gomma e noi ci si riparava dietro una macchina dei vigili urbani che
erano rimasti in mezzo, e ci prendemmo a spintoni e poi a calci con gente di un
sindacato che ci accusava di provocatori.
Mi attiravano molto le lotte di strada nei primi anni ottanta e novanta.
Manifestazioni che finivano in scontri, picchetti nelle giornate di sciopero. Ci
andavo con Stephan, uno svizzero biondino, Mark, un bavarese moro, atletico
e sorridente, e Pere, figlio di immigrati nato in Francia. Formavamo una piccola
brigata internazionale che faceva barricate, tirava sassi e biglie di ferro,
spaccava vetrine. Come quelle del grande magazzino da cui saltò fuori un
gruppo di antisommossa coi caschi e manganelli come in una di quelle scatole
col pupazzo che schizza fuori a molla e fu tutto un mulinio di scudi manganelli
bastoni. L’adrenalina non fa sentire il dolore e tutto è rapido e solo dopo ti rendi
conto dei lividi, le escoriazioni, le nocche arrossate.
Poi il mio gruppetto di autonomi si sciolse, Mark tornò in Germania, lo
arrestarono e condannarono a una ventina d’anni per “terrorismo”. Stephen
morì a nemmeno quarant’anni, si faceva di troppe cose. Il Pere riemigrò,
stavolta con moglie e figli.
Risalgo verso Gràcia. Il quartiere-paese dove ancora gli abitanti, giovani e
vecchi, quando vanno in centro – a due fermate di metropolitana -, dicono “vado
a Barcellona”. Qui per anni ho frquentato un paio di locali libertari, un ateneo ed
un centro sociale. Mi piacevano gli ambienti anarchici. Atenei, locali, bar, librerie,
concerti. Meno i sindacati, perché si stavano scannando in tribunale fra quelli
della CNT dell’esilio e quelli dell’interno con ulteriori divisioni che mi sfuggivano
e sfuggono. Non era proprio come l’avevo immaginata la Barcellona libertaria,
quella della Rosa de Foc, delle milizie operaie, dell’autoorganizzazione, delle
fabbriche e degli alberghi e dei servizi collettivizzati, del Ferrer i Guàrdia, delle
sommosse popolari contro la leva obbligatoria. Ma era pur sempre un mondo
che mi affascinava. L’Ateneo era in Via del Perill ed una notte i fasci bruciarono
il portone con un paio di molotov e il pomeriggio seguente ci fu un presidio e poi
un corteo che partì dal locale e fece un giro per il quartiere, che è un quartiere
popolare, catalanista e di sinistra e si distribuirono slogan e volantini e la gente
applaudiva e gridava “resistete ragazzi”.
E di ritorno al punto di partenza, mentre quelli dell’Ateneu stavano
pronunciando il discorsetto di saluto alla “occhei ragazzi ora tutti a casa e in
campana”, scoppiò il finimondo e la tranquilla C/ Perill si trasformò in uno
scenario da film western, e più in concreto nel saloon quando si gira la scena
della rissa, con gente che si azzuffava accapigliava graffiava scalciava mordeva
rotolava per terra. Un attempato signore, probabilmente di ritorno dal lavoro,
con abito liso e cartella di similpelle sottobraccio, che era venuto ad esprimere
solidarietà e sostegno eccetera aggrappandosi al mio braccio mi bisbigliò “ma
cosa succede?”. “Una discussione interna, immagino” gli risposi facendogli
strada al di fuori dalla mischia.
Ma era comunque bella e coraggiosa Barcellona, dove la polizia tappezzò un
giorno i muri di un intero quartiere di cartelli con foto di uomini e donne ricercati
del GRAPO, un gruppo armato marxista leninista, cartelli che prima di sera
erano scomparsi, strappati dai ragazzini che andavano a scuola, tirati via dai
passanti, rimossi con accuratezza professionale dalle portinaie.
Era una società pacata ma che sapeva cos’era resistere e lottare. Anche senza
partiti, senza grandi strutture politiche o religiose a dirigerla.
Quando i socialisti neo arrivati al governo organizzarono il referendum truffa per
l’ingresso del paese nella NATO, la risposta fu spontanea e di massa. Gruppi di
amici, coppie di anziani, membri di associazioni di ogni tipo incollavano i
manifesti pagati da un’assemblea di centinaia di asssociazioni, riempivano città
e paesi di slogan, conferenze, dibattiti. La Catalogna votò no alla Nato.
Non è cambiata granché Gràcia. Gli squatter adesso sono più giovani,
independentisti o a volte italiani. Continua vivo l’associazionismo: esplais,
centres excursionistes, centri civici, sedi di associazioni e le commissioni delle
feste, che resistono anche se a stento agli attacchi del turismo, al sostituismo
delle amministrazioni, all’individualismo dilagante. Le feste del quartiere si
celebrano ad agosto e durano una settimana con decine e centinaia di attività
organizzate quasi tutte dalle commissioni delle diverse vie che, oltretutto,
decorano, “addobbano” il proprio spazio. Gli stradaioli insigniti del premio al
miglior allestimento vanno fieri del riconoscimento che costa in genere centinaia
di ore di lavoro da parte di decine e decine di persone di ogni sesso ed età.
È una delle poche feste, con Sant Jordi, che mantiene una identità, nonostante
la massificazione turistica e la militarizzazione, promosse entrambe dal sempre
più dispotico e sempre meno illuminato comune.
Non ha avuto la stessa fortuna quella di Sant Joan, il 24 di giugno, festa del
fuoco. Prima facevano i falò per strada, nei campi, nelle piazze dei paesi. Il
combustibile che usavano avrebbe fatto arricchire centinaia di antiquari, perché
la gente buttava sulla catasta i tavolini, i bauli, le sedie, le poltrone, gli armadi
vecchi. Poi le autorità decisero che i falò erano pericolosi e poi sciupavano
l’asfalto, anche se ci mettevi la sabbia sotto, e di colpo diventò un’attività
illegale.
Invece i fuochi d’artificio, visto che si devono comprare, sono legalissimi e ne
bruciano a quintali e ora la città è tutto uno scoppiettio, scintillio, tonfi, botti di
giorno e di notte.
Era tipico fino agli anni settanta fare festicciole sui terrazzi delle case, perché
qui, visto che non nevica, al posto dei tetti a spioventi moltissimi edifici hanno
vaste terrazze dove la gente beveva cava e mangiava coca, una specie di
schiacciata dolce. Adesso i tetti sono spazi proibiti.
Concludo la mia escursione. Ferrocarrils de la Generalitat, stazione di Gràcia
fino alla stazione Tibidabo. Aspetto il tramvia blau e poi la funivia, quella
moderna, che mi porta in cima alla montagna. E da lassù abbraccio tutta la città,
all’ora più bella, al tramonto, l’estensione immensa del porto, la trama
dell’Eixample. Laggiù la Sagrada Familia, di cui dicono che sia una formula
alchemica scritta in pietra, la cattedrale sognata da Gaudì, che morì investito da
un tram mentre ne dirigeva i lavori.
Penso che forse solo in questo paese era possibile, in Europa, sopravvivere 25
anni senza documenti. Nell’era del controllo, delle telecamere anche nei cessi,
delle schede antropometriche, delle banche di ADN, delle impronte digitalizzate.
Del grande fratello insomma.
Una strana terra dove un contadino che non ha mai visto una grande città ti può
dire che a lui il matrimonio fra omosessuali non gli sembra una cosa fatta bene,
ma che d’altra parte l’importante è che non obblighino nessuno a sposarsi, no?
Dove c’è tolleranza nei confronti dell’altro, cazzo il 50% è gente venuta da fuori
nell’ultima generazione!
Sorrido al pensiero di come mi accolsero a braccia aperte, decine di figli della
piccola borghesia e di qualche famiglia operaia che a vent’anni sfidavano gli
ultimi colpi di coda del vecchio sadico che si faceva chiamare e che in molti
chiamavano Caudillo di Spagna. Per volontà di Dio. Nientemeno. Quella iena
subdola e mediocre, Caudillo per volontà di esercito polizia chiesa banca
latifondisti grande industria.
E quei ragazzi e ragazze, brava gente che non ha mai fatto a botte in vita sua,
affrontavano quello schieramento di carogne senza scrupoli con manifestazioni,
assemblee, libri, volantini, riviste, scritte sui muri.
Erano ragazze come la Fina con i vestiti e le treccine da hippyes che nel
borsone di paglia comprato ad Ibiza portava le molotov. O la Dora, magrolina
scattante e dalla battuta pronta che inseguita dalla poliza si aggrappava ad un
lampione dicendo “di qui non mi muovo se non viene l’avvocato”, e che con la
Veva, studentessa anche lei e aspirante attrice dal profilo di dea greca andava
ai concerti della Nova Cançó e faceva passare la frontiera a militanti di
organizzazioni clandestine. Ragazzi come il Pau, di famiglia operaia,
malmenato, arrestato, pestato ai funerali del Salvador Puig Antich. O l’Ignasi,
barbuto e robusto vulcano di trovate e slogan arguti. Come il Txema, così bruno
che malgrado un albero genealogico catalanissimo veniva spesso scambiato
per arabo, con le sue camice e scarponi da escursionista-geologo, militante e
fondatore di partitelli operaisti.
Di quella generazione di lottatori antifranchisti alcuni hanno fatto carriera: in
genere quelli che assicurano che se a vent’anni non sei di sinistra non hai cuore
e se a quarant’anni non sei di destra non hai cervello.
Ma la maggior parte, quelli che avevano intelligenza coraggio preparazione e
onestà, non si sono venduti ed hanno fatto scelte di vita semplici, pulite. Non
sono imprenditori, né politici. Non sono diventati famosi, né ricchi, né tantomeno
poderosi. Sono professori, maestri, impiegati, artigiani, qualcuno giornalista,
qualcuno attore, qualcuno operaio. Gente modesta che con modestia vive nel
lavoro, in casa, nel quartiere, con gli amici, mettendo in pratica quei pochi valori
che fanno che una società non esploda.
Ad ovest cerco con lo sguardo la montagna di Montserrat. Non ci sono più
tornato dall’anno del grande incendio. Tutti i giornali pubblicarono allora la foto
di un anziano monaco che metteva in salvo, abbracciandola stretta, fra il fumo,
la “Moreneta”, cioè l’effigie della madonna della Mercè, la vergine nera trovata
in una grotta di questa montagna. Patrona di Barcellona.
Trovai un paesaggio desolato, lunare, fantasmagorico.
Ci sono leggende su Montserrat, la più sacra delle montagne sacre dei catalani,
che parlano di giganti e del diavolo.
Di principesse assassinate da eremiti
impazziti, e capisci perché se ti addentri un po’ fra le gigantesche rocce
tondeggianti, scivoli di pietra immensi, nebbie improvvise, scheletri di alberi
abbarbicati a invisibili crepe. Se ascolti il silenzio del vento, dei tuoi passi, del
tuo respiro.
Raccolsi una manciata di terra rossiccia davanti ad un eremo.
Volgendo lo sguardo ad est vedo il nuovo skyline (sic) di grattacieli su cui
spicca, anche se leggermente in disparte, l’edificio del cazzo, familiarmente
noto come torre Agbar o appunto cazzo, per la forma di idem. Sede della
compagnia dell’acqua, che a quanto pare ci fanno un sacco di soldi con l’H2O.
E più in qua il mare, che quando arrivai era nascosto alla città da una fila di tetri
capannoni, magazzini del porto, tinglados si chiamavano. E che adesso invece
è nascosto da grandi moli e stazioni marittime e centri direzionali ed alberghi di
lusso.
La mia città inquinata, affollata, piena di bar, musei, teatri, quasi tutti in catalano
con grande sdegno di idioti che non capiscono che se qui non rappresentano
Lope de Vega tutti i giorni e tu vuoi vedere Lope de Vega la cosa più logica è
che tu te ne vada a Madrid o a Salamanca o a Toledo, perché nessuno ti
obbliga a venire a rompere le scatole a gente che non si sognerebbe mai di
andare a dire a un berlinese, un romano, un londinese che cavolo devono o
dovrebbero o sarebbe meglio che parlassero nelle loro città e paesi.
Scendo a piedi. In fondo in discesa è una passeggiata. Casa mia è in una zona
che negli anni si è gremita di bar, locali, negozi e perfino hotel solo per gay e
lesbiche. E’ il “gay eixample” adesso, ma qui il via vai di coppiette omo non ha
mai scandalizzato nessuno. E non scandalizza nessuno in città che vi si
svolgano olimpiadi di omosessuali, manifestazioni, e perfino congressi di
poliziotti gay e lesbiche.
In casa accendo la TV. Al telegiornale dicono che sui Pirenei hanno trovato un
lupo dell’Appennino. Solo. Magari scacciato dal suo branco. Magari alla ricerca
di spazi più liberi. Magari in fuga anche lui da un’Italia sempre più berlusconiana,
regno di iene ed inadatta a un lupo per bene. Alla ricerca di lupe dagli occhi
ambrati o di greggi incustoditi. Sempre avanti malgrado la stanchezza, la
solitudine, la paura. Cibandosi di carogne o dei rifiuti di qualche discarica.
Le montagne di qui devono essergli piaciute anche se agli ululati non ha
risposto nessuno, ma forse poi non ulula nemmeno più. Un lupo silenzioso,
errante fra abetaie, castagneti, prati e faggeti. In una quiete incantata, boschi
popolati di fruscii e manairons.