5 - Università di Bologna

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5 - Università di Bologna
Università di Bologna
Dipartimento di Filosofia e comunicazione
Comunicazione visiva
5ª settimana
a.a. 2012/13
[Un possibile progetto: realizzare un’applicazione scaricabile per visitare i
musei di Bologna – intanto almeno alcuni musei.]
Cosa abbiamo visto: (i) alcune concezioni novecentesche delle città.
Seppur brevemente ne abbiamo considerate 4: (i) quella di Le Corbusier, (ii)
quella di Jacobson, (iii) quella di Rossi, (iv) quella di Augé.
(i) e (ii) Jacobson è una reazione critica all’utopia di Le Corbusier, e
soprattutto alle realizzazioni pratiche di quell’utopia, modeste e fatte da altri.
Jacobson rappresenta il passato. Rappresenta città come esistono ancora in
parti delle nostre città. Vi ho citato via San Felice, che da via Ugo Bassi
porta a Ovest, e che è una via di piccoli negozi e abitazioni, via che ha
subito molti “danni” negli ultimi 60 anni, ma che conserva ancora aspetti
della strada di allora. In via San Felice, a parte un’automobile, potete
comprare ancora tutto quello che vi serve, e a parte un supermercato di
prodotti surgelati, che è un supermercato piccolo e specializzato, i negozi
hanno ancora tutti l’aspetto dei vecchi negozi al dettaglio, una o due vetrine,
la proprietaria o il proprietario dietro il banco, ecc. Una strada alla vecchia,
sostiene Jacobson, è una strada più sicura, perché gli abitanti si conoscono
(il che non vuol dire che sono amici) e tutti, a cominciare dai negozianti,
curano la strada intervenendo ogni volta che c’è qualcosa anche solo strana.
Jacobson contrappone a queste realtà le nuove urbanizzazioni, con
casermoni e spazi verdi, che dovrebbero avere una funzione rasserenante,
salutare e ricreativa, ma che degenerano perché non sono sorvegliati, sono
male illuminati, sono pieni di angoli che dal casermone non si vedono.
L’utopia di Le Corbusier voleva rifare completamente le città, con grandi
torri, molto verde, le strade nascoste per evitare l’inquinamento. Vi
ripropongo un’immagine, quella di un quartiere da costruire a Parigi a sud
della Senna, un quartiere mai costruito. In realtà lo stesso le Corbusier qui
non si attiene completamente ai propri ideali, perché le torri risultano molto
ravvicinate, e quindi non così ampi gli spazi verdi, né così contenuto
l’inquinamento. Nello stesso tempo è qui ben evidentemente lo
stravolgimento dell’ambiente urbano che si suggerisce, come sa bene
chiunque sia stato anche pochi giorni a Parigi, città il cui centro è fatto di
strade grandi e strade piccole, e dove le strade grandi hanno grandi
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marciapiedi, inondati di caffè, dove i parigini fanno colazione, mangiano a
mezzogiorno, cenano con amici la sera.
Comunque, ecco una serie di disegni accurati dell’utopia a Parigi, il
progetto di Plan Voisin del 1925 di Le Corbusier, e per capire come un
progetto del genere può deragliare un’imitazione fatta a St. Louis negli Stati
Uniti nel 1951, che si chiama Pruitt Igoe. [Vedere file Utopia Urbana.pdf]
Nello stesso tempo, se riflettete sull’andamento demografico dell’ultimo
secolo e qualcosa, in cui la popolazione mondiale passa da 1 miliardo di
persone a 7, e quando più della metà della popolazione del mondo vive in
città, e nel mondo occidentale alle grandi famiglie si sostituiscono nuclei
familiari da 1 a 4 persone, in media, certo alle città non poteva non
succedere qualcosa di abbastanza drammatico.
(iii) Dopo la II guerra mondiale, in ogni modo, seppure ci siano importanti
progetti urbanistici e speculazioni che costruiscono in tutte le città
dell’occidente, e poi del mondo, interi quartieri, richiamandosi
all’impostazione urbanistica di Le Corbusier, fra gli architetti si afferma una
linea diversa, che formalmente si può chiamare ‘postmoderna’. La scelta
urbanistica di Pierluigi Cervellati a Bologna, architetto e negli anni ’70
assessore all’urbanistica, che vuole conservare l’aspetto esteriore della città
tradizionale è una scelta di apparenza, ricca di conseguenze negative, e non
proprio di conservazione, di preservazione ha un sapore distortamente
postmoderno. Mantenere la pelle degli edifici storici, preserva le forme
tradizionali (le preserva del tutto, nelle bucce), come preserva i materiali di
costruzione (sempre nelle bucce). La posizione di Cervellati, infatti,
corrisponde a una paura di costruire, da un lato, come se l’architettura in un
luogo storico fosse finita, e preservando solo l’apparenza porta comunque a
uno sconquasso urbanistico, perché all’interno i volumi vengono suddivisi
in tante piccole abitazioni, addensando moltissimo la popolazione del
centro urbano, con un incremento di ogni problema dei servizi, da
parcheggi a trasporti, a raccolta rifiuti, a fognature, a usura delle strade, ecc.
Le proposte di Aldo Rossi di costruire in modi nuovi ma rispettosi della
tradizione nelle forme, nei colori, nei materiali, è una scelta più elitaria, ma
un modello più soddisfacente. Di Rossi è comunque interessante il
riconoscimento che una città ha luoghi monumentali, come molte sedi di
istituzioni civili e religiose –il Palazzo Municipale, il Duomo, ecc –, quartieri
residenziali e quartieri che sono sedi di lavoro, fabbriche, magazzini ecc.
Naturalmente, la cosa andrebbe raffinata parlando dei luoghi terzi, come
caffè, bar, ristoranti, sale da ballo, ecc, o dei centri commerciali.
(iv) Le città però crescono più in fretta di quanto gli architetti non
progettino, e di quanto gli speculatori edilizi non realizzino. I filamenti
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urbani che si trovano ormai in tutto il mondo, e cioè quelle sottili strisce
costruite lungo le strade che connettono una città a un’altra, o una città ai
paesi vicini, e che sono realizzati per lo più da singoli, che si costruiscono la
case, il magazzino, la fabbrichetta, il negozio di mobili, ecc, risparmiando
sulle spese di urbanizzazione, sfruttando le strutture interurbane appunto
come se fossero urbane.
Oggi, all’inizio del XXI secolo ci troviamo con città estese, connesse a
ragnatela da leggere tessiture urbane, costruite largamente senza
infrastrutture sufficienti, con grossi problemi nel continuo travaso di
persone dentro/fuori città, con mezzi di trasporto oltre il 90% privati, di
singoli individui, di singole famiglie.
Che cosa dà identità a una città, che è il nostro tema di quest’anno, che
cosa dà identità a Bologna, che è il nostro tema particolare di quest’anno?
Che identità hanno, e danno alla città, i musei di Bologna, che è il nostro
tema particolarissimo di quest’anno?
Andiamo con ordine. Cosa dà identità a una città? è una domanda
suscettibile di risposte assai diverse, che non dipendono dai gusti diversi
delle persone, ma dalle diverse relazioni che con un luogo le persone hanno.
Prendete Parigi, che è la seconda città d’Europa per numero di abitanti, la
prima meta turistica al mondo, una città cosmopolita (fra i molti, ci stanno
200mila italiani emigrati lì negli ultimi 20-25 anni), che è stata forse il luogo
con la maggior sperimentazione urbanistica dalla Rivoluzione francese in
poi.
Nella lezione di Giorgia Aiello, come ricordavo già la scorsa settimana,
abbiamo intravvisto all’aereoporto Charles De Gaulle disegnato su un
manifesto un pezzo della torre Eiffel, che è l’icona più famosa della città, il
modo per suggerire Parigi a chiunque.
La torre Eiffel, costruita nel 1889, per una esposizione universale, di cui
era l’entrata, è un manufatto estremamente interessante. Alta 320 metri
(Montmatre, la collina più alta di Parigi, se non proprio l’unica, è alta 130
metri e 53 cm) è un landmark prima di essere un’icona. Cioè è un elemento
che orienta chi si trova a Parigi, dandogli un punto di riferimento rispetto al
quale stabilire la propria posizione. Non ho trovato nessuna foto di Parigi
che mostri assieme la Torre Eiffel e Montmatre. Parigi è una città quasi
completamente piatta come mostrano le tre foto che seguono, un
panorama di Parigi dall’Isola di Notre Dame con la Torre Eiffel sulla
sinistra, Montmatre vista dal quartiere latino, a Sud (con i Palazzi del lungo
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Senna in secondo Piano e la collina di Montmatre in terzo piano), e la Torre
Eiffel con la Defense sullo sfondo.
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L’ultima foto mostra la Torre un po’ meno alta di quanto non sia.
La Torre è un’architettura felice perché dà verticalità a una città che non
ne ha e che architettonicamente ne ha acquistata poca. Proprio per questo
è massimamente un landmark, un’immagine della città che chiunque sia lì
incontra di continuo. E quindi un elemento architettonico che facilmente
identifica la città e ne può costituire l’identità, oltre che per i parigini, anche
per i turisti. La cupola di Santa Maria in Fiore a Firenze, la cupola di San
Pietro a Roma, il Campanile di San Marco a Venezia, la Mole Antonelliana
a Torino, la torre della BBC a Londra, l’Empire State Building a New York,
la Torre di Pisa, la Torre Asinelli a Bologna, la torre delle telecomunicazioni
costruita da Santiago Calatrava a Barcellona per le Olimpiadi del 1992, o
sempre a Barcellona la Torre Agbar costruita da Jean Nouvel, il Cristo
Redentore o il roccione del Pan di zucchero
(che è una conformazione naturale e non
un’architettura) di Rio de Janeiro, il Vesuvio
a Napoli: tutte costruzioni o elementi
naturali che localmente funzionano da
landmark, alcune delle quali funzionano
anche da icona della città.
Essere localmente un landmark significa
essere più presenti a chi si trova sul luogo, e
questo favorisce la trasformazione del
landmark in icona del luogo. Ma un landmark
può non diventare l’icona di un luogo.
Dubito che le due architetture di Barcellona
che ho citate siano icone della città. Inoltre,
vorrei distinguere due identità di un luogo:
l’identità che un luogo ha per i suoi abitanti e quella che ha per lo straniero,
e le diverse icone che l’uno o l’altro possono conservarne. Per chi visita
Barcellona, per lo straniero, Barcellona è innanzitutto la città di Antoni
Gaudi (1852-1926). Sono le case di Gaudi – la Sagrada Famiglia, la casa
Vicens, il Palazzo Güell, la casa Calvet, la casa Batlló, il Parco Güell, la casa
Milà, ecc.
Certamente questo è vero, ma è meno vero, per gli abitanti di Barcellona,
che spesso apprezzano il ciò che resta della Barcellona medievale – il Barrio
Gotico – più che non la Barcellona contemporanea. Ecco la facciata della
Sagrada Famiglia che da 130 anni circa è ancora in costruzione.
A Bologna la Basilica di San Luca è fortemente identitaria, ma fuori
Bologna non rappresenta quasi mai l’identità di Bologna. Per lo straniero
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non è un’icona della città, e non è un luogo in cui si rechi una volta in città.
Un landmark diventa se è , inoltre, un luogo che si visita.
Un landmark diventa un’icona, inoltre, solo se ha una forma molto
riconoscibile. Il Pan di Zucchero è molto bello, una gemma in uno dei
golfi più belli del mondo, ed è un punto di riferimento camminando per
Rio de Janeiro. Ma non ha una forma memorabile. Il Cristo Redentore (di
Paul Landowski, del 1931) sulla Collina più interna conferisce alla collina
stessa una forma memorabile, anzi è la forma che si ricorda di essa e si
presta ad essere un’icona della città. Statue di Cristo ce ne sono moltissime,
come quella nessuna. Questo contribuisce all’iconicità del Cristo, perché lo
rende riconoscibile, tutti sanno subito che è una statua di Cristo, e diverso, il
Cristo Redentore di Rio appunto. E c’è tutta un’iconografia dietro che lo
rende riconoscibile e diverso. Il Cristo Redentore occupa l’abside
principale di molte chiese bizantine, che dominano chi entra in una di esse.
Il Cristo Redentore di Rio domina del pari la città sottostante, e ha una
forma sua unica.
Per queste ragioni, il cosiddetto grattacielo costruito per la Pirelli da Gio
Ponti, ora Palazzo degli Uffici della Regione Lombardia, è un landmark, ma
non è un’importante icona di Milano, mentre lo è il Duomo che è meno un
landmark del Pirellone. Il Pirellone non è un luogo che chi va a Milano
visita perché altrimenti non è stato davvero a Milano. A New York il
Chrysler Building o l’Empire State Building sono abbastanza riconoscibili,
come lo erano le due torri gemelle. Queste lo erano proprio perché erano
due e gemelle. Il primo è riconoscibile per i mostri che lo decorano, molto
decò, resi ancor più famosi dal film Ghostbuster, il secondo per molto tempo è
stato la costruzione più alta del mondo, ed è stata resa famosa dal servizio
fotografico della sua costruzione e del grattacielo appena finito
commissionata a Lewis Hines, un grandissimo fotografo “sociale” della
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prima metà del ’900. Entrambi sono visitabili, e per decenni il secondo era
il belvedere da cui contemplare New York. Nessuno dei due però è
un’icona di New York, perché non sono abbastanza distinguibili – la loro
forma, soprattutto quella del secondo, è la forma di moltissimi grattacieli
più o meno alti degli Stati Uniti e del Canada che lo hanno imitato.
Piuttosto è la forma di Manhattan e la sua stessa skyline (cioè il profilo che
le danno i suoi grattacieli – i grattacieli donano a New York, città
piattissima, come la Torre Eiffel dona a Parigi), o come il Guggenheim. Il
problema dei grattacieli, presi singolarmente, è che non sono un manufatto
memorabilissimo, per due ragioni, perché ciascuno rappresenta una
volumetria a parallelopipedo, per lo più, con una variazione particolare su
un modello, che è assai simile, e su cui i dettagli si vedono poco.
I grandi architetti dal ’900 in poi lavorano molto dappertutto in
contemporanea, impoverendo la qualità estetica di ogni loro manufatto,
perché i loro stilemi, il loro tratto si trova dappertutto e quindi, seppure
apprezzabile, smette di essere distintivo. Venezia ha un ponte di Calatrava.
Molto bello, unico, ma ponti di Santiago Calatrava ce ne sono decine e
decine e seppure questo è diverso, non lo è abbastanza. Oggi la grande
architettura serve più che a realizzare qualcosa di unico, a mostrare che un
luogo è in, o à la page. Sotto questo aspetto le costruzioni di Gaudi sono
estremamente adatte a essere un’icona, tranne che per un aspetto. Infatti, si
riconoscono immediatamente e ce ne sono assai poche fuori Barcellona e
forse una fuori della Spagna. Ciò per cui non si prestano è che hanno
forme complesse, cioè che non possono venir stilizzate per essere un’icona
perfetta, com’è invece il caso della Torre Eiffel.
Poche forme naturali si prestano a diventare un’icona. La forma del Canal
Grande potrebbe andare, ma non va bene. Perché la si vede solo in
fotografia o dall’aereo, e qualcosa diventa un’icona se la si vede in quella
prospettiva spesso, ed è una forma memorabile. Il Canal Grande è una
forma memorabile che si vede solo in fotografia o dall’aereo. La forma
Monte Fuji (3776 mt) lo è. Una forma semplice, che domina un grande
spazio, cioè che si vede da lontanissimo, celebrata in una lunga tradizione
iconografica.
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Il Fuji
Il Fuji è il monte simbolo del Giappone, riprodotto in un’enorme quantità
di dipinti, famosi fra tutti quelli del pittore giapponese del ’700-’800,
Katsushika Hokusai (1760-1849). Ecco qualche riproduzione da Hokusai:
Katsushika Hokusai La grande onda
Katsushika Hokusai Dalle 36 prospettive sul Monte Fuji
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Katsushika Hokusai
Cielo limpido per il vento di sudest e il Fiji rosso
Katsushika Hokusai
Il drago sopra il Monte Fuji
Al di là della sua forma, meno distinta, il Vesuvio (che è alto solo 1281
metri) può essere un’icona del golfo di Napoli per l’evento terribile che
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provocò in quel luogo per altro naturalmente ameno con l’eruzione che nel
70 dopo Cristo seppellì Pompei e Ercolano.
Il Vesuvio
Prima di chiudere questa parte, qualche immagine: la torre di Caltrava, la
torre Agbar di Nouvel, il ponte di Calatrava a Venezia, qualche altro pezzo
di Gaudi:
La torre delle telecomunicazioni di Sebastiano Calatrava
a Barcellona
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Due immagini della Torre Agbar di Jean Nouvel a Barcellona
Due immagini del ponte di Sebastiano Calatrava a Venezia
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Fin qui parlando di identità e icona di un luogo ho pensato a cosa
rappresenta un luogo per chi ci sta e per chi lo visita. Occasionalmente, per
esempio parlando di Barcellona, ho accennato a icone di un luogo distinte
per chi lo visita e per chi lo abita. Parlando di Bologna, la domanda è più
importante.
Ci sono almeno due complessi di arte figurativa a Bologna di valore
assoluto. Per un luogo, un dipinto o una scultura sono icone difficili. Però
un luogo può ereditare fama da una scultura o un quadro famoso. Il
monumento funebre di Ilaria del Carretto nel Duomo di Lucca, nel so
piccolo è una cosa del genere. La Pietà di Michelangelo in Vaticano, o gli
affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, o i mosaici con
Giustiniano e Teodora a Ravenna, sono altri possibili esempi. Altri casi,
per un duplice richiamo a luoghi diversi, sono meno facili, penso alla
Gioconda di Leonardo al Louvre (ma la signora ritratta, Monna Lisa, era
fiorentina, e Leonardo era di Vinci, vicino a Firenze) e al bassorilievo dei
Tetrarchi, proveniente dal Palazzo di Diocleziano a Spalato in un angolo tra
il Palazzo Ducale e San Marco a Venezia.
I due complessi bolognesi che potrebbero essere valorizzati, e non lo sono,
sono Il Compianto sul Cristo morto di Nicolò dell’Arca (1485, autore dell’arca
di San Domenico) e il Museo Morandi.
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Ed ecco invece qualche quadro di Giorgio Morandi:
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Natura morta I 1953
Natura morta 1961
Paesaggio 1921
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Paesaggio 1935
Natura morta 1960
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Paesaggio 1929
Il Compianto come le opere di Morandi, però, sono poco pubblicizzate, e
quindi la maggior parte delle persone che vengono a Bologna non le
vedono.
Bologna ha un’icona che la distingue benissimo, in Italia, che sono le due
torri, che hanno una forma che nessun altro complesso di due torri ha da
nessuna parte. Questa icona però la rappresenta solo in Italia. E la
rappresenta perché Bologna è una città importante che va rappresentata.
Delle due torri ho già detto, però.
Bologna in realtà non si presenta come una città da visitare, ma come una
città in cui stare, una città che ha un’identità per i suoi abitanti (o per chi
aspira ad abitarvi) e non per lo straniero. Non che Bologna non abbia
alcune cose notevoli, anche architettonicamente, come piazza Maggiore. La
Piazza Maggiore ha una semplice forma quadrata, e il suo monumento
migliore, molto fine, è la copertura marmorea parziale di San Petronio, con
i bassorilievi di Jacopo Della Quercia. Troppo poco, per essere un’icona.
La forma di piazza del Campo o quella di piazza di Spagna sono
memorabili, i monumenti di Campo dei Miracoli o di piazza San Marco
sono incomparabili. Altri luoghi, belli, molto belli di Bologna come piazza
Santo Stefano e San Luca, sono belli molto belli non mozzafiato. Il
Nettuno è bellissimo, ma è una scultura, e di un dio del mare, in una città
terrigna. Restano i portici. Uno stilema. Chi viene a Bologna ne è
affascinato, ed è la cosa che più si conosce architettonicamente di Bologna.
I portici sono di nuovo un modo di stare, di percorrere la città, più che una
cosa da andare a vedere. Se si viene a Bologna si vedono, non si cercano.
Ho detto ieri che i bolognesi collezionano la propria storia, e la
collezionano per sé. I miei 58 musei sono per loro, anche i migliori sono
per le scolaresche e gli abitanti più che per portare gente a Bologna, anzi di
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questi ci si cura poco. Istintivamente sarei critico, riflettendoci ne sono
affascinato.
Una vecchia signora amica di mia madre, bolognese lei come mia madre,
qualche anno fa, incontrandomi e sapendo che vivo a Firenze mi dice
«Poverino!» Mi aspetto che mi compatisca per il troppo turismo che
frequenta Firenze, o per il carattere aggressivo dei fiorentini (ricordatevi
sempre di Dante). «Firenze non ha una piazza bella!», continua, «E non ha
neppure monumenti di valore». Una vecchia signora, un’amica di mia
madre, e io con garbo annuisco, un gesto incerto fra un ‘sì’ di assenso e un
‘sì’ che vale ‘seguo’. «E poi quei colli! Vuoi mettere con i nostri!» «Sì,
rispondo finalmente, mi fa piacere sapere che a Bologna si trova
benissimo!»
Ecco qualche link per approfondire come si presenta oggi Bologna, e
quanto la città curi la propria immagine per se stessa e non per gli altri.
L’identità per gli abitanti.
http://www.genusbononiae.it/index.php
Il Mambo nasce da Arte Fiera e originariamente era collocato nella zona
fiera. Ora si è trasferito accanto alla nostra sede. Assieme ad Arte Fiera, il
Museo aveva almeno una volta l’anno un momento di grande vivacità,
lontano ne ha meno ed è di nuovo una cosa per bolognesi soprattutto. Da
questo mese di novembre sarà trasferito lì, temporaneamente, il Museo
Morandi. Magari è una temporaneità stabile, pensata per rendere il Mambo
più appetibile e il Museo Morandi più accessibile. Il Mambo ha ai miei
occhi il difetto di non essere reso in nulla esternamente quello che un
museo di arte contemporanea oggi dev’essere: un’opera d’arte esso stesso e
chiaramente un luogo di vita di eventi di stare un po’ fuori dagli schemi.
Un’ultima cosa sul quartiere Fiera, il quartiere moderno di Bologna.
Modrno, abbastanza anonimo oggi dominato da un lato dalle torri di
Kenzo tange costruite negli anni ’70, belle e anonime, grigie, e da Porta
Europa il cavalcavia/castello, bastione di porta, che sovrasta via Stalingrado.
Quanto è costato? A chi è dedicato. Come tutta la Bologna mdoerna
dedicato all’uomo d’affari, non cambia Bologna, è una periferia, utile, non è
un luogo da visitare, ma uno dove lavorare.
Ecco qualche link.
http://www.archinfo.it/sede-unipol-a-bologna/0,1254,53_ART_2348,00.html
http://www.postfiera.org/archives/1604
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Dal Blog Prospero dell’Economist.
Why the Pruitt-Igoe housing project failed
Oct 15th 2011, 18:24 by J.S. | NEW YORK
The filmmakers behind “The Pruitt-Igoe Myth” confronted a formidable task:
to strip away the layers of a narrative so familiar that even they themselves
believed it when they first set out to make their documentary. Erected in St
Louis, Missouri, in the early 1950s, at a time of postwar prosperity and
optimism, the massive Pruitt-Igoe housing project soon became a notorious
symbol of failed public policy and architectural hubris, its 33 towers razed a
mere two decades later. Such symbolism found its most immediate expression
in the iconic image of an imploding building, the first of Pruitt-Igoe's towers
to be demolished in 1972 (it was featured in the cult film Koyaanisqatsi, with
Philip Glass's score murmuring in the background). The spectacle was as
powerful politically as it was visually, locating the failure of Pruitt-Igoe within
the buildings themselves—in their design and in their mission.
The scale of the project made it conspicuous from the get-go: 33 buildings,
11-storeys each, arranged across a sprawling, 57 acres in the poor DeSotoCarr neighbourhood on the north side of St Louis. The complex was
supposed to put the modernist ideals of Le Corbusier into action; at the time,
Architectural Forum ran a story praising the plan to replace “ramshackle
houses jammed with people—and rats” in the city's downtown with “vertical
neighbourhoods for poor people.” The main architect was Minoru Yamasaki,
who would go on to design another monument to modernism that would also
be destroyed, but for very different reasons, and under very different
circumstances: his World Trade Centre went up in the early 1970s, right
around the time that Pruitt-Igoe was pulled down.
The promise of Pruitt-Igoe's early years was swiftly overtaken by a grim
reality. Occupancy peaked at 91% in 1957, and from there began its
precipitous decline. By the late 1960s the buildings had been denuded of its
residents, the number of windows broken to the point where it was possible
to see straight through to the other side. The residents that remained had to
act tough for the chance to come and go unmolested. Critics of modernist
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architecture were quick to seize on the design of the buildings, arguing that
such forward-thinking features as skip-stop elevators, which stopped only at
the first, fourth, seventh and tenth floors, were wholly unsuitable and
ultimately dangerous. Designed to encourage residents to mingle in the long
galleries and staircases, the elevators instead created perfect opportunities for
muggings. Charles Jencks, an architectural theorist, declared July 15th 1972,
when Pruitt-Igoe was “given the final coup de grâce by dynamite”, the day
that “Modern Architecture died”.
Directed by Chad Freidrichs and currently travelling the American filmfestival circuit, “The Pruitt-Igoe Myth” complicates that picture by
considering the larger context. The city of St Louis was undergoing its own
postwar transformations, to which a project such as Pruitt-Igoe was
particularly vulnerable. The city's industrial base was moving elsewhere, as
were its residents: over a short period of 30 years, the population of St Louis
had shrivelled to a mere 50% of its postwar highs. The Housing Act of 1949
encouraged contradictory policies, offering incentives for urban renewal
projects as well as subsidies for moving to the suburbs. Federal money flowed
into the construction of the projects, but the maintenance fees were to come
from the tenants' rents; the declining occupancy rate set off a vicious circle,
and money that was dearly needed for safety and upkeep simply wasn't there.
Abstract policy decisions and large-scale economic changes are difficult to
render compelling, no matter the medium, but this documentary succeeds in
finding the drama. Original footage from Pruitt-Igoe's early days, including a
promotional reel replete with a buoyant, 1950s-era voiceover and cheerful
primary colours, runs up against desolate photographs of the project's decline.
The film also features interviews with several former residents of Pruitt-Igoe,
who convey their hopefulness when they first moved in, as well as an
affection for the buildings that for many of them persists to this day.
In their eagerness to challenge the Pruitt-Igoe myth, the filmmakers verge on
suggesting that the design of the buildings had nothing at all to do with the
failure that ensued. But critics of High Modernism can point to the counterexample of Carr Square Village, a low-rise housing project built in 1942 across
the street, which didn't suffer from Pruitt-Igoe's escalating rates of vacancy
and crime. Clearly many factors—economic, demographic, political and,
arguably, architectural—converged on Pruitt-Igoe.
“The Pruitt-Igoe Myth” owes much to earlier academic work that exposed
the seams in the dominant consensus. This eight-page paper by Katharine
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Bristol, published in the Journal of Architectural Education in 1991, offers more
analytical rigour than could be captured in an 84-minute film. The difference,
of course, is that the documentary carries a more visceral punch, which gives
it the potential to reach the kind of wider audience that Ms Bristol's 20-yearold scholarly paper never had. In order to unseat a powerful narrative about
the failure of modern architecture and public housing, the filmmakers have
offered a powerful narrative of their own.
http://maps.google.it/maps?oe=utf-8&rls=org.mozilla:enUS:official&client=firefox-a&um=1&ie=UTF8&q=musei+a+Bologna&fb=1&gl=it&hq=musei&hnear=0x477fd498e95
1c40b:0xa2e17c015ba49441,Bologna&sa=X&ei=e4KZUMuyMYXItAb3tI
C4Bg&ved=0CLABELYD
http://musei.saperviaggiare.it/bologna-musei.html
L’articolo di Bristol è disponibile on line.