5 - Università di Bologna
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Università di Bologna Dipartimento di Filosofia e comunicazione Comunicazione visiva 5ª settimana a.a. 2012/13 [Un possibile progetto: realizzare un’applicazione scaricabile per visitare i musei di Bologna – intanto almeno alcuni musei.] Cosa abbiamo visto: (i) alcune concezioni novecentesche delle città. Seppur brevemente ne abbiamo considerate 4: (i) quella di Le Corbusier, (ii) quella di Jacobson, (iii) quella di Rossi, (iv) quella di Augé. (i) e (ii) Jacobson è una reazione critica all’utopia di Le Corbusier, e soprattutto alle realizzazioni pratiche di quell’utopia, modeste e fatte da altri. Jacobson rappresenta il passato. Rappresenta città come esistono ancora in parti delle nostre città. Vi ho citato via San Felice, che da via Ugo Bassi porta a Ovest, e che è una via di piccoli negozi e abitazioni, via che ha subito molti “danni” negli ultimi 60 anni, ma che conserva ancora aspetti della strada di allora. In via San Felice, a parte un’automobile, potete comprare ancora tutto quello che vi serve, e a parte un supermercato di prodotti surgelati, che è un supermercato piccolo e specializzato, i negozi hanno ancora tutti l’aspetto dei vecchi negozi al dettaglio, una o due vetrine, la proprietaria o il proprietario dietro il banco, ecc. Una strada alla vecchia, sostiene Jacobson, è una strada più sicura, perché gli abitanti si conoscono (il che non vuol dire che sono amici) e tutti, a cominciare dai negozianti, curano la strada intervenendo ogni volta che c’è qualcosa anche solo strana. Jacobson contrappone a queste realtà le nuove urbanizzazioni, con casermoni e spazi verdi, che dovrebbero avere una funzione rasserenante, salutare e ricreativa, ma che degenerano perché non sono sorvegliati, sono male illuminati, sono pieni di angoli che dal casermone non si vedono. L’utopia di Le Corbusier voleva rifare completamente le città, con grandi torri, molto verde, le strade nascoste per evitare l’inquinamento. Vi ripropongo un’immagine, quella di un quartiere da costruire a Parigi a sud della Senna, un quartiere mai costruito. In realtà lo stesso le Corbusier qui non si attiene completamente ai propri ideali, perché le torri risultano molto ravvicinate, e quindi non così ampi gli spazi verdi, né così contenuto l’inquinamento. Nello stesso tempo è qui ben evidentemente lo stravolgimento dell’ambiente urbano che si suggerisce, come sa bene chiunque sia stato anche pochi giorni a Parigi, città il cui centro è fatto di strade grandi e strade piccole, e dove le strade grandi hanno grandi 2 marciapiedi, inondati di caffè, dove i parigini fanno colazione, mangiano a mezzogiorno, cenano con amici la sera. Comunque, ecco una serie di disegni accurati dell’utopia a Parigi, il progetto di Plan Voisin del 1925 di Le Corbusier, e per capire come un progetto del genere può deragliare un’imitazione fatta a St. Louis negli Stati Uniti nel 1951, che si chiama Pruitt Igoe. [Vedere file Utopia Urbana.pdf] Nello stesso tempo, se riflettete sull’andamento demografico dell’ultimo secolo e qualcosa, in cui la popolazione mondiale passa da 1 miliardo di persone a 7, e quando più della metà della popolazione del mondo vive in città, e nel mondo occidentale alle grandi famiglie si sostituiscono nuclei familiari da 1 a 4 persone, in media, certo alle città non poteva non succedere qualcosa di abbastanza drammatico. (iii) Dopo la II guerra mondiale, in ogni modo, seppure ci siano importanti progetti urbanistici e speculazioni che costruiscono in tutte le città dell’occidente, e poi del mondo, interi quartieri, richiamandosi all’impostazione urbanistica di Le Corbusier, fra gli architetti si afferma una linea diversa, che formalmente si può chiamare ‘postmoderna’. La scelta urbanistica di Pierluigi Cervellati a Bologna, architetto e negli anni ’70 assessore all’urbanistica, che vuole conservare l’aspetto esteriore della città tradizionale è una scelta di apparenza, ricca di conseguenze negative, e non proprio di conservazione, di preservazione ha un sapore distortamente postmoderno. Mantenere la pelle degli edifici storici, preserva le forme tradizionali (le preserva del tutto, nelle bucce), come preserva i materiali di costruzione (sempre nelle bucce). La posizione di Cervellati, infatti, corrisponde a una paura di costruire, da un lato, come se l’architettura in un luogo storico fosse finita, e preservando solo l’apparenza porta comunque a uno sconquasso urbanistico, perché all’interno i volumi vengono suddivisi in tante piccole abitazioni, addensando moltissimo la popolazione del centro urbano, con un incremento di ogni problema dei servizi, da parcheggi a trasporti, a raccolta rifiuti, a fognature, a usura delle strade, ecc. Le proposte di Aldo Rossi di costruire in modi nuovi ma rispettosi della tradizione nelle forme, nei colori, nei materiali, è una scelta più elitaria, ma un modello più soddisfacente. Di Rossi è comunque interessante il riconoscimento che una città ha luoghi monumentali, come molte sedi di istituzioni civili e religiose –il Palazzo Municipale, il Duomo, ecc –, quartieri residenziali e quartieri che sono sedi di lavoro, fabbriche, magazzini ecc. Naturalmente, la cosa andrebbe raffinata parlando dei luoghi terzi, come caffè, bar, ristoranti, sale da ballo, ecc, o dei centri commerciali. (iv) Le città però crescono più in fretta di quanto gli architetti non progettino, e di quanto gli speculatori edilizi non realizzino. I filamenti 3 urbani che si trovano ormai in tutto il mondo, e cioè quelle sottili strisce costruite lungo le strade che connettono una città a un’altra, o una città ai paesi vicini, e che sono realizzati per lo più da singoli, che si costruiscono la case, il magazzino, la fabbrichetta, il negozio di mobili, ecc, risparmiando sulle spese di urbanizzazione, sfruttando le strutture interurbane appunto come se fossero urbane. Oggi, all’inizio del XXI secolo ci troviamo con città estese, connesse a ragnatela da leggere tessiture urbane, costruite largamente senza infrastrutture sufficienti, con grossi problemi nel continuo travaso di persone dentro/fuori città, con mezzi di trasporto oltre il 90% privati, di singoli individui, di singole famiglie. Che cosa dà identità a una città, che è il nostro tema di quest’anno, che cosa dà identità a Bologna, che è il nostro tema particolare di quest’anno? Che identità hanno, e danno alla città, i musei di Bologna, che è il nostro tema particolarissimo di quest’anno? Andiamo con ordine. Cosa dà identità a una città? è una domanda suscettibile di risposte assai diverse, che non dipendono dai gusti diversi delle persone, ma dalle diverse relazioni che con un luogo le persone hanno. Prendete Parigi, che è la seconda città d’Europa per numero di abitanti, la prima meta turistica al mondo, una città cosmopolita (fra i molti, ci stanno 200mila italiani emigrati lì negli ultimi 20-25 anni), che è stata forse il luogo con la maggior sperimentazione urbanistica dalla Rivoluzione francese in poi. Nella lezione di Giorgia Aiello, come ricordavo già la scorsa settimana, abbiamo intravvisto all’aereoporto Charles De Gaulle disegnato su un manifesto un pezzo della torre Eiffel, che è l’icona più famosa della città, il modo per suggerire Parigi a chiunque. La torre Eiffel, costruita nel 1889, per una esposizione universale, di cui era l’entrata, è un manufatto estremamente interessante. Alta 320 metri (Montmatre, la collina più alta di Parigi, se non proprio l’unica, è alta 130 metri e 53 cm) è un landmark prima di essere un’icona. Cioè è un elemento che orienta chi si trova a Parigi, dandogli un punto di riferimento rispetto al quale stabilire la propria posizione. Non ho trovato nessuna foto di Parigi che mostri assieme la Torre Eiffel e Montmatre. Parigi è una città quasi completamente piatta come mostrano le tre foto che seguono, un panorama di Parigi dall’Isola di Notre Dame con la Torre Eiffel sulla sinistra, Montmatre vista dal quartiere latino, a Sud (con i Palazzi del lungo 4 Senna in secondo Piano e la collina di Montmatre in terzo piano), e la Torre Eiffel con la Defense sullo sfondo. 5 L’ultima foto mostra la Torre un po’ meno alta di quanto non sia. La Torre è un’architettura felice perché dà verticalità a una città che non ne ha e che architettonicamente ne ha acquistata poca. Proprio per questo è massimamente un landmark, un’immagine della città che chiunque sia lì incontra di continuo. E quindi un elemento architettonico che facilmente identifica la città e ne può costituire l’identità, oltre che per i parigini, anche per i turisti. La cupola di Santa Maria in Fiore a Firenze, la cupola di San Pietro a Roma, il Campanile di San Marco a Venezia, la Mole Antonelliana a Torino, la torre della BBC a Londra, l’Empire State Building a New York, la Torre di Pisa, la Torre Asinelli a Bologna, la torre delle telecomunicazioni costruita da Santiago Calatrava a Barcellona per le Olimpiadi del 1992, o sempre a Barcellona la Torre Agbar costruita da Jean Nouvel, il Cristo Redentore o il roccione del Pan di zucchero (che è una conformazione naturale e non un’architettura) di Rio de Janeiro, il Vesuvio a Napoli: tutte costruzioni o elementi naturali che localmente funzionano da landmark, alcune delle quali funzionano anche da icona della città. Essere localmente un landmark significa essere più presenti a chi si trova sul luogo, e questo favorisce la trasformazione del landmark in icona del luogo. Ma un landmark può non diventare l’icona di un luogo. Dubito che le due architetture di Barcellona che ho citate siano icone della città. Inoltre, vorrei distinguere due identità di un luogo: l’identità che un luogo ha per i suoi abitanti e quella che ha per lo straniero, e le diverse icone che l’uno o l’altro possono conservarne. Per chi visita Barcellona, per lo straniero, Barcellona è innanzitutto la città di Antoni Gaudi (1852-1926). Sono le case di Gaudi – la Sagrada Famiglia, la casa Vicens, il Palazzo Güell, la casa Calvet, la casa Batlló, il Parco Güell, la casa Milà, ecc. Certamente questo è vero, ma è meno vero, per gli abitanti di Barcellona, che spesso apprezzano il ciò che resta della Barcellona medievale – il Barrio Gotico – più che non la Barcellona contemporanea. Ecco la facciata della Sagrada Famiglia che da 130 anni circa è ancora in costruzione. A Bologna la Basilica di San Luca è fortemente identitaria, ma fuori Bologna non rappresenta quasi mai l’identità di Bologna. Per lo straniero 6 non è un’icona della città, e non è un luogo in cui si rechi una volta in città. Un landmark diventa se è , inoltre, un luogo che si visita. Un landmark diventa un’icona, inoltre, solo se ha una forma molto riconoscibile. Il Pan di Zucchero è molto bello, una gemma in uno dei golfi più belli del mondo, ed è un punto di riferimento camminando per Rio de Janeiro. Ma non ha una forma memorabile. Il Cristo Redentore (di Paul Landowski, del 1931) sulla Collina più interna conferisce alla collina stessa una forma memorabile, anzi è la forma che si ricorda di essa e si presta ad essere un’icona della città. Statue di Cristo ce ne sono moltissime, come quella nessuna. Questo contribuisce all’iconicità del Cristo, perché lo rende riconoscibile, tutti sanno subito che è una statua di Cristo, e diverso, il Cristo Redentore di Rio appunto. E c’è tutta un’iconografia dietro che lo rende riconoscibile e diverso. Il Cristo Redentore occupa l’abside principale di molte chiese bizantine, che dominano chi entra in una di esse. Il Cristo Redentore di Rio domina del pari la città sottostante, e ha una forma sua unica. Per queste ragioni, il cosiddetto grattacielo costruito per la Pirelli da Gio Ponti, ora Palazzo degli Uffici della Regione Lombardia, è un landmark, ma non è un’importante icona di Milano, mentre lo è il Duomo che è meno un landmark del Pirellone. Il Pirellone non è un luogo che chi va a Milano visita perché altrimenti non è stato davvero a Milano. A New York il Chrysler Building o l’Empire State Building sono abbastanza riconoscibili, come lo erano le due torri gemelle. Queste lo erano proprio perché erano due e gemelle. Il primo è riconoscibile per i mostri che lo decorano, molto decò, resi ancor più famosi dal film Ghostbuster, il secondo per molto tempo è stato la costruzione più alta del mondo, ed è stata resa famosa dal servizio fotografico della sua costruzione e del grattacielo appena finito commissionata a Lewis Hines, un grandissimo fotografo “sociale” della 7 prima metà del ’900. Entrambi sono visitabili, e per decenni il secondo era il belvedere da cui contemplare New York. Nessuno dei due però è un’icona di New York, perché non sono abbastanza distinguibili – la loro forma, soprattutto quella del secondo, è la forma di moltissimi grattacieli più o meno alti degli Stati Uniti e del Canada che lo hanno imitato. Piuttosto è la forma di Manhattan e la sua stessa skyline (cioè il profilo che le danno i suoi grattacieli – i grattacieli donano a New York, città piattissima, come la Torre Eiffel dona a Parigi), o come il Guggenheim. Il problema dei grattacieli, presi singolarmente, è che non sono un manufatto memorabilissimo, per due ragioni, perché ciascuno rappresenta una volumetria a parallelopipedo, per lo più, con una variazione particolare su un modello, che è assai simile, e su cui i dettagli si vedono poco. I grandi architetti dal ’900 in poi lavorano molto dappertutto in contemporanea, impoverendo la qualità estetica di ogni loro manufatto, perché i loro stilemi, il loro tratto si trova dappertutto e quindi, seppure apprezzabile, smette di essere distintivo. Venezia ha un ponte di Calatrava. Molto bello, unico, ma ponti di Santiago Calatrava ce ne sono decine e decine e seppure questo è diverso, non lo è abbastanza. Oggi la grande architettura serve più che a realizzare qualcosa di unico, a mostrare che un luogo è in, o à la page. Sotto questo aspetto le costruzioni di Gaudi sono estremamente adatte a essere un’icona, tranne che per un aspetto. Infatti, si riconoscono immediatamente e ce ne sono assai poche fuori Barcellona e forse una fuori della Spagna. Ciò per cui non si prestano è che hanno forme complesse, cioè che non possono venir stilizzate per essere un’icona perfetta, com’è invece il caso della Torre Eiffel. Poche forme naturali si prestano a diventare un’icona. La forma del Canal Grande potrebbe andare, ma non va bene. Perché la si vede solo in fotografia o dall’aereo, e qualcosa diventa un’icona se la si vede in quella prospettiva spesso, ed è una forma memorabile. Il Canal Grande è una forma memorabile che si vede solo in fotografia o dall’aereo. La forma Monte Fuji (3776 mt) lo è. Una forma semplice, che domina un grande spazio, cioè che si vede da lontanissimo, celebrata in una lunga tradizione iconografica. 8 Il Fuji Il Fuji è il monte simbolo del Giappone, riprodotto in un’enorme quantità di dipinti, famosi fra tutti quelli del pittore giapponese del ’700-’800, Katsushika Hokusai (1760-1849). Ecco qualche riproduzione da Hokusai: Katsushika Hokusai La grande onda Katsushika Hokusai Dalle 36 prospettive sul Monte Fuji 9 Katsushika Hokusai Cielo limpido per il vento di sudest e il Fiji rosso Katsushika Hokusai Il drago sopra il Monte Fuji Al di là della sua forma, meno distinta, il Vesuvio (che è alto solo 1281 metri) può essere un’icona del golfo di Napoli per l’evento terribile che 10 provocò in quel luogo per altro naturalmente ameno con l’eruzione che nel 70 dopo Cristo seppellì Pompei e Ercolano. Il Vesuvio Prima di chiudere questa parte, qualche immagine: la torre di Caltrava, la torre Agbar di Nouvel, il ponte di Calatrava a Venezia, qualche altro pezzo di Gaudi: La torre delle telecomunicazioni di Sebastiano Calatrava a Barcellona 11 Due immagini della Torre Agbar di Jean Nouvel a Barcellona Due immagini del ponte di Sebastiano Calatrava a Venezia 12 Fin qui parlando di identità e icona di un luogo ho pensato a cosa rappresenta un luogo per chi ci sta e per chi lo visita. Occasionalmente, per esempio parlando di Barcellona, ho accennato a icone di un luogo distinte per chi lo visita e per chi lo abita. Parlando di Bologna, la domanda è più importante. Ci sono almeno due complessi di arte figurativa a Bologna di valore assoluto. Per un luogo, un dipinto o una scultura sono icone difficili. Però un luogo può ereditare fama da una scultura o un quadro famoso. Il monumento funebre di Ilaria del Carretto nel Duomo di Lucca, nel so piccolo è una cosa del genere. La Pietà di Michelangelo in Vaticano, o gli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, o i mosaici con Giustiniano e Teodora a Ravenna, sono altri possibili esempi. Altri casi, per un duplice richiamo a luoghi diversi, sono meno facili, penso alla Gioconda di Leonardo al Louvre (ma la signora ritratta, Monna Lisa, era fiorentina, e Leonardo era di Vinci, vicino a Firenze) e al bassorilievo dei Tetrarchi, proveniente dal Palazzo di Diocleziano a Spalato in un angolo tra il Palazzo Ducale e San Marco a Venezia. I due complessi bolognesi che potrebbero essere valorizzati, e non lo sono, sono Il Compianto sul Cristo morto di Nicolò dell’Arca (1485, autore dell’arca di San Domenico) e il Museo Morandi. 13 Ed ecco invece qualche quadro di Giorgio Morandi: 14 Natura morta I 1953 Natura morta 1961 Paesaggio 1921 15 Paesaggio 1935 Natura morta 1960 16 Paesaggio 1929 Il Compianto come le opere di Morandi, però, sono poco pubblicizzate, e quindi la maggior parte delle persone che vengono a Bologna non le vedono. Bologna ha un’icona che la distingue benissimo, in Italia, che sono le due torri, che hanno una forma che nessun altro complesso di due torri ha da nessuna parte. Questa icona però la rappresenta solo in Italia. E la rappresenta perché Bologna è una città importante che va rappresentata. Delle due torri ho già detto, però. Bologna in realtà non si presenta come una città da visitare, ma come una città in cui stare, una città che ha un’identità per i suoi abitanti (o per chi aspira ad abitarvi) e non per lo straniero. Non che Bologna non abbia alcune cose notevoli, anche architettonicamente, come piazza Maggiore. La Piazza Maggiore ha una semplice forma quadrata, e il suo monumento migliore, molto fine, è la copertura marmorea parziale di San Petronio, con i bassorilievi di Jacopo Della Quercia. Troppo poco, per essere un’icona. La forma di piazza del Campo o quella di piazza di Spagna sono memorabili, i monumenti di Campo dei Miracoli o di piazza San Marco sono incomparabili. Altri luoghi, belli, molto belli di Bologna come piazza Santo Stefano e San Luca, sono belli molto belli non mozzafiato. Il Nettuno è bellissimo, ma è una scultura, e di un dio del mare, in una città terrigna. Restano i portici. Uno stilema. Chi viene a Bologna ne è affascinato, ed è la cosa che più si conosce architettonicamente di Bologna. I portici sono di nuovo un modo di stare, di percorrere la città, più che una cosa da andare a vedere. Se si viene a Bologna si vedono, non si cercano. Ho detto ieri che i bolognesi collezionano la propria storia, e la collezionano per sé. I miei 58 musei sono per loro, anche i migliori sono per le scolaresche e gli abitanti più che per portare gente a Bologna, anzi di 17 questi ci si cura poco. Istintivamente sarei critico, riflettendoci ne sono affascinato. Una vecchia signora amica di mia madre, bolognese lei come mia madre, qualche anno fa, incontrandomi e sapendo che vivo a Firenze mi dice «Poverino!» Mi aspetto che mi compatisca per il troppo turismo che frequenta Firenze, o per il carattere aggressivo dei fiorentini (ricordatevi sempre di Dante). «Firenze non ha una piazza bella!», continua, «E non ha neppure monumenti di valore». Una vecchia signora, un’amica di mia madre, e io con garbo annuisco, un gesto incerto fra un ‘sì’ di assenso e un ‘sì’ che vale ‘seguo’. «E poi quei colli! Vuoi mettere con i nostri!» «Sì, rispondo finalmente, mi fa piacere sapere che a Bologna si trova benissimo!» Ecco qualche link per approfondire come si presenta oggi Bologna, e quanto la città curi la propria immagine per se stessa e non per gli altri. L’identità per gli abitanti. http://www.genusbononiae.it/index.php Il Mambo nasce da Arte Fiera e originariamente era collocato nella zona fiera. Ora si è trasferito accanto alla nostra sede. Assieme ad Arte Fiera, il Museo aveva almeno una volta l’anno un momento di grande vivacità, lontano ne ha meno ed è di nuovo una cosa per bolognesi soprattutto. Da questo mese di novembre sarà trasferito lì, temporaneamente, il Museo Morandi. Magari è una temporaneità stabile, pensata per rendere il Mambo più appetibile e il Museo Morandi più accessibile. Il Mambo ha ai miei occhi il difetto di non essere reso in nulla esternamente quello che un museo di arte contemporanea oggi dev’essere: un’opera d’arte esso stesso e chiaramente un luogo di vita di eventi di stare un po’ fuori dagli schemi. Un’ultima cosa sul quartiere Fiera, il quartiere moderno di Bologna. Modrno, abbastanza anonimo oggi dominato da un lato dalle torri di Kenzo tange costruite negli anni ’70, belle e anonime, grigie, e da Porta Europa il cavalcavia/castello, bastione di porta, che sovrasta via Stalingrado. Quanto è costato? A chi è dedicato. Come tutta la Bologna mdoerna dedicato all’uomo d’affari, non cambia Bologna, è una periferia, utile, non è un luogo da visitare, ma uno dove lavorare. Ecco qualche link. http://www.archinfo.it/sede-unipol-a-bologna/0,1254,53_ART_2348,00.html http://www.postfiera.org/archives/1604 18 19 Dal Blog Prospero dell’Economist. Why the Pruitt-Igoe housing project failed Oct 15th 2011, 18:24 by J.S. | NEW YORK The filmmakers behind “The Pruitt-Igoe Myth” confronted a formidable task: to strip away the layers of a narrative so familiar that even they themselves believed it when they first set out to make their documentary. Erected in St Louis, Missouri, in the early 1950s, at a time of postwar prosperity and optimism, the massive Pruitt-Igoe housing project soon became a notorious symbol of failed public policy and architectural hubris, its 33 towers razed a mere two decades later. Such symbolism found its most immediate expression in the iconic image of an imploding building, the first of Pruitt-Igoe's towers to be demolished in 1972 (it was featured in the cult film Koyaanisqatsi, with Philip Glass's score murmuring in the background). The spectacle was as powerful politically as it was visually, locating the failure of Pruitt-Igoe within the buildings themselves—in their design and in their mission. The scale of the project made it conspicuous from the get-go: 33 buildings, 11-storeys each, arranged across a sprawling, 57 acres in the poor DeSotoCarr neighbourhood on the north side of St Louis. The complex was supposed to put the modernist ideals of Le Corbusier into action; at the time, Architectural Forum ran a story praising the plan to replace “ramshackle houses jammed with people—and rats” in the city's downtown with “vertical neighbourhoods for poor people.” The main architect was Minoru Yamasaki, who would go on to design another monument to modernism that would also be destroyed, but for very different reasons, and under very different circumstances: his World Trade Centre went up in the early 1970s, right around the time that Pruitt-Igoe was pulled down. The promise of Pruitt-Igoe's early years was swiftly overtaken by a grim reality. Occupancy peaked at 91% in 1957, and from there began its precipitous decline. By the late 1960s the buildings had been denuded of its residents, the number of windows broken to the point where it was possible to see straight through to the other side. The residents that remained had to act tough for the chance to come and go unmolested. Critics of modernist 20 architecture were quick to seize on the design of the buildings, arguing that such forward-thinking features as skip-stop elevators, which stopped only at the first, fourth, seventh and tenth floors, were wholly unsuitable and ultimately dangerous. Designed to encourage residents to mingle in the long galleries and staircases, the elevators instead created perfect opportunities for muggings. Charles Jencks, an architectural theorist, declared July 15th 1972, when Pruitt-Igoe was “given the final coup de grâce by dynamite”, the day that “Modern Architecture died”. Directed by Chad Freidrichs and currently travelling the American filmfestival circuit, “The Pruitt-Igoe Myth” complicates that picture by considering the larger context. The city of St Louis was undergoing its own postwar transformations, to which a project such as Pruitt-Igoe was particularly vulnerable. The city's industrial base was moving elsewhere, as were its residents: over a short period of 30 years, the population of St Louis had shrivelled to a mere 50% of its postwar highs. The Housing Act of 1949 encouraged contradictory policies, offering incentives for urban renewal projects as well as subsidies for moving to the suburbs. Federal money flowed into the construction of the projects, but the maintenance fees were to come from the tenants' rents; the declining occupancy rate set off a vicious circle, and money that was dearly needed for safety and upkeep simply wasn't there. Abstract policy decisions and large-scale economic changes are difficult to render compelling, no matter the medium, but this documentary succeeds in finding the drama. Original footage from Pruitt-Igoe's early days, including a promotional reel replete with a buoyant, 1950s-era voiceover and cheerful primary colours, runs up against desolate photographs of the project's decline. The film also features interviews with several former residents of Pruitt-Igoe, who convey their hopefulness when they first moved in, as well as an affection for the buildings that for many of them persists to this day. In their eagerness to challenge the Pruitt-Igoe myth, the filmmakers verge on suggesting that the design of the buildings had nothing at all to do with the failure that ensued. But critics of High Modernism can point to the counterexample of Carr Square Village, a low-rise housing project built in 1942 across the street, which didn't suffer from Pruitt-Igoe's escalating rates of vacancy and crime. Clearly many factors—economic, demographic, political and, arguably, architectural—converged on Pruitt-Igoe. “The Pruitt-Igoe Myth” owes much to earlier academic work that exposed the seams in the dominant consensus. This eight-page paper by Katharine 21 Bristol, published in the Journal of Architectural Education in 1991, offers more analytical rigour than could be captured in an 84-minute film. The difference, of course, is that the documentary carries a more visceral punch, which gives it the potential to reach the kind of wider audience that Ms Bristol's 20-yearold scholarly paper never had. In order to unseat a powerful narrative about the failure of modern architecture and public housing, the filmmakers have offered a powerful narrative of their own. http://maps.google.it/maps?oe=utf-8&rls=org.mozilla:enUS:official&client=firefox-a&um=1&ie=UTF8&q=musei+a+Bologna&fb=1&gl=it&hq=musei&hnear=0x477fd498e95 1c40b:0xa2e17c015ba49441,Bologna&sa=X&ei=e4KZUMuyMYXItAb3tI C4Bg&ved=0CLABELYD http://musei.saperviaggiare.it/bologna-musei.html L’articolo di Bristol è disponibile on line.