Percival Everett: Ferito / Nutrimenti (Greenwich – 7). Recensione

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Percival Everett: Ferito / Nutrimenti (Greenwich – 7). Recensione
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Percival Everett: Ferito / Nutrimenti (Greenwich – 7). Recensione
Pubblicato in Federico Novaro, letteratura americana, recensioni, straight da federico novaro il 17 marzo 2009
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Recensione a Ferito di Percival Everett: una premessa
(ecco con molto ritardo la recensione a Ferito, di Percival Everett: è molto lunga, e anche per questo ho ridotto all’osso il racconto della trama, che trovate delineata negli
articoli di cui metto i links in coda.
Se avete già avuto occasione di leggere altre recensioni su Ferito vedrete che questa che segue vi si discosta molto. Ho cercato di riassumere qualche informazione
sull’omicidio di Matthew Shepard, citato in copertina del libro, e in quasi tutte le recensioni, ma che tuttavia mi sembrava necessario rievocare allargandolo al contesto.
Inoltre ho tralasciato molti temi che il testo affronta perché mi è parso che il tema dell’omofobia, a mio parere centrale, fosse stato un po’ trascurato. Infine Ferito più che
altri mi è sembrato pormi il problema del rapporto fra genere e orientamento sessuale di chi scrive e quello di chi legge, e soprattutto come il testo li delinei, tema
vastissimo, che io ovviamente solo sfioro. Ditemi cosa ne pensate.)
Percival Everett
Ferito
Traduzione dall’inglese di Marco Rossari
Nutrimenti (Greenwich – 7), Roma 2009
236 p. ; 16 €
Matthew Shepard, la morte, il processo.
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Nell’autunno del 1998, lo stesso anno in cui sul New Yorker apparse Brokeback Mountain (la novella di Annie Proulx che raccontava dell’amore fra due cowboy), vicino a
Laramie, nel Wyoming, dove Proulx ambientava la sua storia (confluita l’anno dopo nel volume Close Range: Wyoming Stories), Matthew Shepard chiese un passaggio in
un bar a due coetanei; diciotto ore dopo fu trovato legato ad una staccionata, lungo una strada sterrata, notato casualmente da un ciclista che lo scambiò per uno
spaventapasseri, in stato d’incoscienza e con ferite gravi; morì cinque giorni dopo.
Gli anni ’90 finivano, e sembrava acquietarsi l’onda irrazionale che aveva investito le persone omosessuali, vittima di un pregiudizio che fu maggioritario in base al quale
l’AIDS, la “peste del secolo”, colpiva le categorie e non le persone.
L’assassinio di Matthew Shepard, lontano dalla retorica corrente del vizio e della colpa, ebbe un’immediata eco; giovanissimo, bianco, di provincia, middle-class e biondo,
dall’aria gentile e molto amato dalla famiglia, divenne presto un simbolo, il processo fu occasione di scontri e ci furono manifestazioni in varie parti del mondo,
focalizzando l’attenzione sull’omofobia come motivo scatenante l’aggressione e la conseguente morte; il pastore battista Fred Phelps ne fece cardine delle sue invettive anti
gay: “God Hates Fags”.
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La storia di Shepard, la sua morte, il processo, e i dibattiti che ne furono cornice, è stata raccontata in molte canzoni, film, libri; Elton John l’ha cantata in “American
triangle”; il racconto della sua morte, delle sue ultime ore, si trova cristallizzato in un canone dalle pochissime variazioni in una moltitudine di siti, tributi, video self-made;
uno spettacolo teatrale, The Laramie Project, basato su interviste ad abitanti di Laramie, ebbe molte repliche, e divenne un film per la televisione; la forza iconica
dell’episodio è rintracciabile, ancora dieci anni dopo, nel primo episodio di Smallville, dove il giovane Superman, reso debole dalla Kriptonite, viene picchiato da un
gruppo di ragazzi, e lasciato incosciente legato ad una staccionata, ai margini di un campo di mais.
L’assassinio e l’eco che ne fece seguito contribuirono a portare la parola omofobia, coniata poco più di vent’anni prima, al centro del dibattito anti-discriminatorio
mutandolo profondamente, e riorientandolo. Durante il processo il padre di Shepard si rivolse agli assassini:
“Matt […] è morto nei sobborghi di Laramie, legato a un recinto contro il quale il mercoledì precedente lei lo aveva picchiato. Lei, signor McKinney, e il suo amico, signor
Henderson, avete assassinato mio figlio. […] Lei ha aperto gli occhi alle persone, signor McKinney. Lei ha permesso al mondo intero di comprendere che come vive una
persona non è una giustificazione per la discriminazione, l’intolleranza, la persecuzione, la violenza. […] Mio figlio è morto a causa della sua ignoranza e della sua
intolleranza. Non posso farlo tornare indietro. Ma posso fare del mio meglio affinché questo non accada a un’altra persona o un’altra famiglia, mai più. Come ho detto, mio
figlio è diventato un simbolo, un simbolo contro l’odio e la gente come lei; un simbolo del rispetto dell’individualità, della diversità, della tolleranza.”
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Ferito, il libro di Percival Everett
Il nome di Matthew Shepard traspare s’un foglio lavato dall’acqua, forse un articolo di giornale, che è l’immagine di copertina di Ferito, scritto da Percival Everett,
pubblicato negli Stati Uniti nel 2005, tradotto ora da Marco Rossari per Nutrimenti.
In quarta di copertina si legge: “Avevo in testa l’omicidio di quel giovane gay nel Wyoming quando ho iniziato a scrivere”, ha ammesso [ammesso?] Everett riferendosi al
barbaro assassinio di Matthew Shepard. […]”; e nel risvolto: “[…] Perché la comunità locale […] apostrofa con pesanti epiteti il ragazzo gay scomparso? E’ l’intolleranza
bruta, […] che ricorda da vicino i cartelli (DIO ODIA I FROCI, CAMBIATE O BRUCIATE) imbracciati da migliaia di persone comuni […] dopo il tragico omicidio[…]”.
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Ferito non è però un libro su Shepard, ma un lungo ragionamento su come un uomo eterosessuale debba porsi di fronte all’omofobia. Sembra un testo debitore dei metodi
di autocoscienza, pratica che oltre al più diffuso ambito femminista, ha una, seppur minoritaria, tradizione in ambito maschile ed eterosessuale.
La domanda cui il testo vuole rispondere potrebbe essere: l’affermarsi del concetto di omofobia come, e quanto, interviene a modificare il senso di identità di un uomo
eterosessuale che non voglia abdicare alla ragionevolezza e ai principi democratici, e che insieme non voglia rinunciare al piacere di sentirsi partecipe di una tradizione
identitaria e comportamentale assodata? Si può essere uomini eterosessuali e rifiutare l’omofobia, negli altri, ma soprattutto in sé?
Everett risponde di sì, con tutta la forza del separatismo che afferma un’identità rinserrandosi, e concedendo che sia solo accettando la necessità delle ferite, il loro dolore, il
loro valore simbolico di passaggi, che si può sopravvivere.
La frontiera, tanto evocata nel testo, è il luogo dove i mutamenti si consolidano; una grotta il luogo dove i mutamenti vengono alla luce: “[…] è questo che fa tanta paura di
una caverna, che qualcuno possa entrarci. […]” (p. 1).
La natura dimostrativa del testo giustifica e esalta l’esemplarità dei personaggi, agiti da ciò che accade più che attori, riluttanti di fronte alle continue necessità di
mutamento che la vita loro impone: sono tutte vittime designate dell’autore.
Everett costruisce i suoi personaggi attraverso una sommatoria di segnali immediatamente riconoscibili, tutto deve essere preesistente al testo, perché la forza dirompente
–nelle intenzioni di Everett, del rifiuto dell’omofobia, possa deflagrare isolata, rigenerante: il cowboy, la cowgirl, la moglie rimpianta, il gay suicida, l’asino matto, il
vecchietto omicida compassionevole, il nero saggio, il ragazzo gay simpatico, il padre assente, il gay assassinato, il cavallo domato, l’aiutante un po’ scemo, il cucciolo di
coyote senza una zampa, il ragazzo gay antipatico, lo sceriffo bianco indolente, il nativo americano astuto, il gay simpatico che diventa l’altro gay assassinato. Tutti i
personaggi si muovono in un tempo sospeso fra l’annunciarsi dei fatti e il loro accadere, come il fucile che l’io narrante lucida compulsivamente all’apertura del testo e che
sparerà in chiusura.
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Noi cowboy, noi eterosessuali, noi maschi
E’ interessante vedere come il pubblico per il quale il testo è pensato orienti la narrazione. Il ragazzo gay è raccontato come qualcosa di sconosciuto, qualcosa di altro da
noi (un noi che unisce nella scrittura chi scrive e chi leggerà, chi ha scritto e chi sta leggendo), e che dovremmo accogliere.
Non a caso è sdoppiato, da una parte il ragazzo gay antipatico, che, dai modi superficiali e promisqui, giustifica la nostra avversione precipitandola nel caso singolo e che
svanisce dal testo avvolto nella riprovazione, dall’altra il ragazzo gay simpatico, le cui qualità così vicine alle nostre, (lavoratore, allegro, generoso), ce lo rendono tale, e
che all’interno del testo trova la morte, punito per l’intemperanza e la debolezza che dimostra dopo aver guadagnato la nostra stima, ma beatificato nel ricordo: innamorato
di noi, sacrificatosi per il più grande dono che ci si possa fare: la comprensione di noi stessi e la nostra sopravvivenza.
L’omofobia, che Everett combatte a spada tratta in virtù delle qualità virili che rendono il maschio eterosessuale degno di stare al mondo, non gli impedisce, per renderla
decifrabile e dunque censurabile, di sacrificare il personaggio che di quella omofobia nel suo libro è vittima e spia allarmante: la nostra natura di maschi eterosessuali è
messa in pericolo; se infatti da una parte una lunga tradizione ci ha fatto interpretare come estranea e pericolosa l’omosessualità e gli omosessuali, la fedeltà a questo
principio incrina le altre caratteristiche che ci sono proprie: la temperanza, il riserbo, il senso della giustizia, la tolleranza, l’amore per la legge e per l’ordine, testimoniato
con il controllo di sé e delle proprie emozioni, e con il rispetto per ognuno. E’ questa incrinatura lo scandalo che l’omofobia rappresenta nel testo di Everett, la ferita
evocata dal titolo (il cui parallelo col razzismo è suggerito lungo tutto il testo, in funzione, alla pari d’ogni altro elemento, pedagogica).
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I morti e i feriti
Sei sono i morti in Ferito.
Un primo ragazzo, del quale si sa poco, che si propone come aiutante a Hunt, l’io narrante, “vivo con un amico in paese” (p. 10); imbranato, timido; “che fine ha fatto
Wallace?”, “si sarà preso una bella sbronza ieri sera” (pp. 15-16); che sarà accusato della morte del secondo, “Non l’ho ammazzato […] a me piaceva. Mi piaceva sul serio.
Lei mi capisce vero? Perché avrei dovuto ammazzarlo?” (p. 41), e che si impiccherà in carcere.
Il secondo, evocazione di Matthew Shepard, “Hanno trovato un ragazzo morto (…) Dicono che fosse legato come un’alce”; “Quell’immagine mi ha quasi rivoltato lo
stomaco”, (p. 18); “Chiunque sia stato l’ha conciato per le feste come Cristo”, “Ho sentito dire che quel ragazzo era gay” (p. 20); “stando a tutte le cronache era un ragazzo
esile, per bene” (p. 44).
Il terzo, è un giovane ragazzo gay amico di un vecchio compagno del narratore, a lui indirizzato dal padre. “In quel viso intravedevo anche sua madre” (p 61). “Siamo qui
per una manifestazione”, “E’ un Gay Pride (…) per l’omicidio avvenuto la settimana scorsa” (p. 62); “Mio padre è uno stronzo, (…) scopava con tutte e mia madre stava
malissimo” (p 62). “Ha preso vari colpi alla testa (…) ha subito grossi traumi” (p. 234); “come sta il ragazzo?”, “E’ morto.”; “Questa è la frontiera, cowboy. (…) La
frontiera è ovunque” (p. 236).
Quattro gli omicidi: tre ragazzi bianchi, colpevoli della morte del secondo e del terzo, e lo zio del narratore, che sparerà loro, nella mattanza finale.
Muoiono i gay indifesi e muoiono i ragazzi etero che sono la vergogna della loro categoria, l’io narrante, e il suo doppio, lo zio, calibrando magistralmente la compassione
e la vendetta, amministrano la giustizia.
Ma ancora un morto è all’orizzonte “Ho il cancro (…). Sto morendo John.”, (p 214); “Prenditi cura di tuo zio.”, (p 236), così chi ha ecceduto per giustizia non sarà punito, e
chi avrà imparato a vivere senza ferire vivrà.
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Noi
Tutto questo regge se il testo trova corrispondenza fra l’identità di genere e di orientamento sessuale, e forse anche generazionale, dell’io narrante, e, in prospettiva,
dell’autore, e di chi legge, poiché la narrazione si basa saldamente sulla dicotomia noi/l’altro, la personalità e i comportamenti di David (il gay simpatico) essendo gli unici
elementi necessitanti spiegazioni, tentativi di decifrazione, mentre l’intero mondo eterosessuale, dispiegato in una piccola folla di personaggi, è raccontato come variazione
di un unicum noto e assodato.
Questo, che è il principio stesso dell’esclusione, agli occhi di chi sia un lettore gay, come è il mio caso, suona fastidioso, e forse patetico: il testo assume dei toni meno epici
e meno interessanti; certi passaggi appaiono melodrammatici, e, ovviamente, il modo di svolgere il tema dell’omofobia fa meno presa.
In fine
Al di là dell’abilità di Everett di costruire una macchina che non s’ingrippa in nessun passaggio, di una fortissima capacità evocativa, soprattutto nel descrivere i paesaggi, e
dell’abilità di condurre i personaggi sempre sul livello del luogo comune senza mai cedere né allo psicologismo, né al verismo, ambiti che ne frantumerebbero la natura
esemplare, Ferito può essere letto come una storia dalle caratteristiche storicamente datate, che appare forse ingenua, quasi resistenziale, un sforzo di sopravvivenza virile
un po’ d’antan, capace però credo di toccare corde ancora sensibili in un pubblico nostalgico e settoriale, tutto interno alla cultura eterosessuale soprattutto maschile.
Riassunto bibliografico:
straight / letteratura americana / prime edizioni italiane
Ferito / Percival Everett
1. ed. – Roma : Nutrimenti. – 236 p. ; 22 x 14 cm. – (Greenwich – 7)
Rossari, Marco (trad. di); Luccone, Leonardo (collana diretta da); Carpi, Ada (art director).
©2009 Nutrimenti.
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©2005 Percival Everett. Tit. orig.: Wounded.
Ho già parlato di Everett:
qui, qui e qui con links ad articoli su Ferito.
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1.
Percival Everett: un’intervista del 2003 (in inglese), due foto, dei links « federico novaro libri said, on 13 settembre 2009 at 7:36 pm
[...] Il 17 Marzo ho poi postato la recensione, eccola qui. [...]
2.
Editoria : notizie / brevi / 25: il booktrailer per Deserto Americano di Percival Everett, Nutrimenti 2009 « federico novaro libri said, on 4 dicembre 2009
at 8:59 pm
[...] Ferito (Nutrimenti, 2009), per FNl, è qui. [...]
3.
Percival Everett : Deserto americano / Nutrimenti 2009. Recensione « federico novaro libri said, on 23 marzo 2010 at 9:42 am
[...] ha recensito Ferito, qui, Glifo, [...]
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