quì - Il Dialogo
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Giuseppe Castellese Palermo Disisa nell’era di acquario La “porta del tempo” Aveva deciso: gli anni erano 66 ed il fardello d’un tratto pesantissimo. L’agile cava liere d’un tempo borbottava sempre più sulle cose perdute. Su in alto il barbaglio delle eteree nevi sembrava sfida amara di un dio sornione a un mendicante senza più pretese. Da anni non più contati durava, piatto, l’eremitaggio: compagna era stata una pecora sfuggita chissà da quale recinto ed una capra che a un tratto aveva dato due figlioletti. Così l’eremita aveva fatto gregge e poi era arrivato un cane e, in coppia, un sinuoso furetto che giorno dopo giorno tornava con selvaggina in bocca. Tra erbe amare, latte e carne di coniglio si era stabilizzata (come cristallizzata) l’andatura dei giorni. Ma le ultime notti sulla montagna al riparo dei ruderi ne i pressi del “cielo settimo” annunciavano, con l’ululo dei venti, l’approssimarsi di incombenze epocali. Nubi sbiadite e sottili sfrecciavano prima ad oriente; poi d’un tratto si facevano pesanti tortuosi vortici che attanagliano quella terra montana nella morsa di nubifragi fragorosi. La luce dai riverberi accecanti (i fulmini spaccavano le rocce) si alternava a profonde oscurità che divoravano in un caos primordiale ciò che prima era paesaggio definito. E infatti, quasi d’improvviso, la profonda valle che degradava giù fino al mare era stata, nel variare di settimane, inghiottita da una vischiosa massa biancastra che tutto aveva risagomato: non c’era più valle; non c’era più mare. L’eremitaggio sembrava franasse con l’ammasso di ruderi che fino a quei giorni aveva protetto l’ospite solitario. Gli scricchiolii delle antiche strutture avevano indotto il vecchio barbone a meglio ispezionare ed aveva fatto grandi scoperte: aveva abitato, senza averne coscienza, le propaggini visibili di quello che, nelle viscere della montagna, appariva essere stato luogo di popoloso cenobio. Il sito, a ondate di secoli, doveva essere stato centro di studi e preghiera: ora nei giorni in cui, per le nuove preoccupate necessità, l’ispezione si faceva più attenta, il vecchio cavaliere capiva con le sue reminiscenze, che lì c’era stata vita organizzata: man mano che si inoltrava nei meandri a vortice, trovava, su dislivelli sempre più fondi, ripiani ampi con resti di impone nti laboratori. Emergeva, poco per volta, un mondo morto che tuttavia mostrava ancora tutta la sua vitalità: sembrava di captare da residui di scritte (sull’arco di un portale medievale che immetteva nell’ennesima cripta) che i luoghi erano collegabili a S. Benedetto: possibile datare fine primo millennio? Dal centro dell’arco, come a conferma, emergeva in rilievo la parola PAX e poi ai lati era ancora possibile interpretare le lettere C.S.P.B (CRUX SANCTI PATRIS BENDICTI) e infine, a invocazione, C.S.S.M.L (CRUX SACRA SIT MIHI LUX). Il vecchio solitario ricordava di avere visto quelle lettere, al tempo del suo pellegrinare al Colle, sulla miracolosa medaglia. Quando si era inoltrato oltre la cripta, il vecchio, quasi avesse valicato un confine invisibile, aveva percepito come un sibilo e folate di “odori di vita”: sentiva chiaro che la luce della “sacra crux” gli aveva aperto, come promesso, un varco al di là. 1 Dall’abisso, a vita nuova Dopo breve sopralluogo, dubbioso era tornato sui suoi passi: non gli andava di lasciare le sue cose, capra e cavoli. Ma quando dopo giorni si apprestava a rifare il cammino inverso, si accorse che, come agli inizi, era di nuovo perdutamente solo. Per giunta la marea biancastra su per la valle ora lambiva l’eremo ed aveva tutto inghiottito. Non c’era scelta: doveva tornare ad esplorare le profondità. Nel cunicolo oltre la cripta, ora che c’era tornato, spirava una brezza di primavera: il vecchio percepì come un diverso versante epocale. Si sentiva egli stesso diverso, odorova di “nuovo ”. Mano mano rinvigoriva: una speranza eccitante si faceva strada, l’attesa si faceva meno ansiosa mentre procedeva nell’eplorazione di “certezze” che lo inebriavano. Così nell’indistinto era emerso un abisso nuovo e dal fondo di un improvviso cratere vidi la colonna di “sole”, un cilindro di bianco liquido fuoco svettare ad aggrapparsi all’astro ora offuscato all’intorno, come a risucchiarne forza, potenza e splendore in un vortice che pareva penetrare gli inferi. Avevo deciso che malgrado l’affanno iniziale che ora non riconoscevo più mio, avrei tentato di capire: quella che era sembrata una dura, estrema fatica, diveniva ora una sorta di scivolata lieve verso zone di sogno. D’un tratto adolescente Procedevo veloce e leggero: era la bianca luce che pervadendomi, m’aveva rigenerato! D’istinto mi toccai: respiravo a pieni polmoni come non accadeva da tanti anni; i miei muscoli, l’addome flaccido non c’era più; rinverdivo d’un tratto e scopersi che non avevo più barba. Agitai velocemente le braccia, poi le gambe; mi stirai disinvolto, ruotavo sui fianchi libero da acciacchi. E infine ero arrivato come catapulta su un pianoro erboso: uscito dal tunnel cominciai, adolescente nuovo, a fare capitomboli e giù e su verso punti colorati a dismisura. La pienezza era tale che non riuscivo, non volevo chiedermi cosa mi succedeva: potevo svegliarmi… O che forse morto, ora mi trovavo nella Luce dei pascoli eterni? No, no! Sorpreso, felice si, ma non più: ero tra i vivi, anche se in una terra che m’appariva nuova ; avevo dubitato… ma non rivivevo “l’esperienza mistica” dei miei trentanni quando dentro l’anima “Infinita Gioia trillò senza fine… come acqua su per il collo di bottiglia…”. Non era come allora: adesso ero vivo tra i vivi ed ero sveglio. Umili guide : la capra e poi Lia la Follari Appena presa la dritta, sentii due occhi liquidi che mi attendevano ed ora mi invitavano a seguitare: vieni e seguimi. Era la sembianza della mia capra: m’aveva preceduto e si attardava lì a brucare; col ciuffo di margherite variopinte sul muso mobile mi indicava forse qualcuno o qualcosa oltre una fitta siepe a pochi passi. La capretta come ad un richiamo, saltellò verso la siepe densa ed io dietro. C’era di là un branco e al centro, quasi la venerassero inchinati sull’erba di rugiada, rividi maestosa e dolce nella freschezza della giovinezza, donna Lia, la burbera “crapara” d’un tempo lontano. Portava ancora il nodoso bastone da pastora, ma ora lo agitava non più minaccioso. Mi sorrise senza apostrofarmi con l’insulto consueto: non ricambiava più, acida e virulenta, con gli strali dell’intolleranza che l’aveva ferita, annientando la sua anima quando era stata ragazza, artista fuori tempo, fuori confine. Era stata figlia estrosa di estroso artigiano, peccaminosamente “libera” per gli anni ’10, di intelligenza fuori le righe e per giunta pervasa da inquieta caparbie tà inventiva; di “taglio” forte rispetto alle comuni, sottomesse, ignoranti fanciulle paesane (solo mia madre, privilegiata “studente”di “sesta” elementare, era arrivata con misurata prudenza ad ammirarla), non aveva sopportato i confini del borgo : presto era straripata in città e tra le nobildonne che avevano pretese di “moda”, era divenuta la “sarta” di punta. La ragazza, per doti e intuito, superando fin da allora barriere temporali e culturali, riusciva a tradurre tra le signore della città portuale le novità 2 d’oltralpe. Ricercatissima, riceveva compensi impensabili per una ventenne : la “Follari” era divenuta in breve una celebrità; oggi avrebbe vinto “oscar”. La ragazza, oltre tutto magnifica nel portamento, non era di ghiaccio e sensibile all’adorante giovanotto che era cresciuto nella bottega del padre, l’aveva aiutato nella ricerca dell’eldorado di quegli anni: con i soldi di Lia il giovanotto si era imbarcato clandestino per l’America. Là aveva assunto per sé (appioppatogli dal benevolo doganiere) il nome più solennemente comune per un “italiano”. Era divenuto Dante e poi Alighieri ma cittadino Usa del XX secolo. Cominciò l’attesa: non solo l’emigrato aveva da restituire, ma c’era pure l’impegno di sposare la giovane che, stretta in angusti confini, sognava già di spaziare oltre oceano. Non glielo permisero le becere beghine sorelle dell’ultimo Dante: cominciarono a tramare sfilando a più non posso “ave marie”. Dettarono condizioni capestro: la ragazza doveva abbandonare l’arte, tornare al borgo per sottomettersi serva alla madre del Dante. Quando questi ebbe il coraggio di tornare (ed era già sposato) Lia la Follari, ormai trentenne, volle sub ire il dileggio del beneficato: si presentò a lui ad esigere; ma quello sprezzante: “lei non era stata ai patti! lo lasciasse in pace, lui cittadino americano!” Da allora nella considerazione popolare la sarta che aveva strabiliato per l’inventiva e l’arte, donna Lia divenne sempre più “follari” e sempre meno “lia” (gigli, secondo una facile etimologia): era cominciato per lei, ancor nel fior degli anni, l’abbandono sfiduciato (“folle” bisbigliavano le paesane) delle proprie potenzialità, giù giù fino ad accantonare i propri simili per “dialogare” con capre sempre più amate. L’avevo incontrata rugosa e dura di là nella mia prima adolescenza ed avevo allora, ancor preso da mistico fervore, creduto di potere perorare per lei un atto riparatorio. Non avevo ancora idea della durezza del cuore umano e fu uno dei miei primi scontri con l’ovattata ipocrisia dei frequentatori di luoghi sacri; personaggi, figure ambigue, belanti carità pelosa, sfilano in passerella davanti ai miei occhi: eppure tutti sono morti! Lia la “crapara” la ritrovavo fuori dal tempo, nello splendore dei suoi trent ’anni. Da lei emanava la dolcezza inespressa lungo una vita, ma pure gli occhi restavano esigenti, quasi d’un tratto incupiti: che cerchi tu ancora? Ma era mio timore infondato: donna Lia era lì per indicarmi che altri avrebbe spiegato e commentato. E già chinava il bastone a indicarmi la via. E poi u Zu Piddu “sacciu” Il quale, sbrigativamente per tutti, era divenuto “sacciteddu”, un ometto tutto pepe che doveva saperne più del diavo lo dato che, secondo i più, intratteneva con quello buoni rapporti anzi confidenza. Sacciteddu, interpretato ad orecchio come “piccolo sapiente”, era invece la trasposizione dialettale del cognome col diminuitivo che suonava quasi vezzeggiativo, quando invece era moderatamente dispregiativo dato che, a parte le tante storie di “incantesimi”, lui povero diavolo viveva di stenti sognando di tesori negatigli, a suo dire, per la negligente leggerezza di familiari senza fede. Ma le “profezie” d’un tempo dovevano avere solide fondamenta se me lo ritrovavo guida ed esperto di un mondo a me incomprensibile. Mi disse, mostrando di avermi atteso, che lui “viaggiava nel tempo”. E subito spiegò: la porta di S. Benedetto m’aveva aperto un sentiero che, pur riportandomi all’adolescenza così da potere reincontrare lui, mi proiettava nel nuovo mondo ma a 20 anni dal grande cataclisma. Quale cataclisma, quale nuovo mondo? Nell’eremo, isolato all’altezza del “settimo cielo” (tale era la denominazione di quella vetta), il tempo doveva essersi fermato; niente o poco era arrivato degli eventi che avevano stravolto faccia e ambiti di quella terra. Come, nella prima vita, era stato annunciato da “sacciteddu, il viaggiatore”, cataclismi immani si erano susseguiti nel volger di qualche anno. Quando fu “pienezza dei tempi” la trottola terrestre era sbandata sul suo asse, i poli fattisi liquidi si erano riversati in un mare sempre più alto… C’erano nel dire dell’illetterato “sacciteddu”, non so come, reminiscenze da “apocalissi” 3 ma c’era anche buona parte di Malachia e poi i grandi filoni cavallereschi… dai Templari alle cantiche dantesche. Quando i segni premonitori cominciarono a farsi chiari… Fu lì che il pupillo di S. Benedetto, a cinque anni dall’intronizzazione, avvertì che urgeva precorrere la fine: antichi codici, a pochissimi noti, avvertivano che salvare Fede e Tradizione era possibile, ma occorreva spogliarsi di tutto, di ogni potere, uscire dal “tempo” per ritrovare sintonia col Figlio. Occorreva lasciare la sede di Pietro e tornare agli inferi da dove, compiutosi il tempo, ripartire liberi da “mammona”, finalmente eguali figli del Padre. I segni della “grande tribolazione” apparivano ogni giorno più prossimi. I mari ribollivano; le torri si accartocciavano ai venti, i popoli pervasi da terrore si agitavano per i continenti come formiche nel formicaio devastato: i saggi, le guide, i capi si confondevano ormai con gli antichi gregari. I monti si facevano valli e i fiumi capovolti vi si inabissavano. Che altro aspettare? Benedetto raccolse tutto il coraggio e sciolse gli indugi, cercò tra i codici qual’era “la porta” più prossima: vide allora Disisa e, lasciate le grandezze, vi si diresse con piccolo drappello sapendo che vi avrebbe trovato, in vigile attesa, il fedele “Psycatarolus” il quale già conosceva la storia. In quei giorni i lupi, vedendosi agnelli, pensarono che anche sulle rovine poteva regnare qualcuno : la sede di Pietro era vacante; la colmarono con un duplicato: fu, come previsto, l’ultimo conclave. La grande calotta e agli inferi la città La mia guida stava per grandi tratti aggiorna ndomi sui lustri da me trascorsi nell’oscurità dell’eremo e nel frattempo veloci, per una sorta di pattini d’aria ai piedi, ci inoltravamo verso una struttura lineare che mandava riverberi ramati: ma quella che sembrò un semplice recinto solo perché distante parecchie miglia e piuttosto in basso nel cratere vorace, era di fatto una sorta di grande muraglia, un confine, una cinta di difesa inespugnabile. Fu allora che allargando l’occhio non rividi le valli e i monti che m’attendevo, né sopra essi rividi l’azzurro cielo seghettato, allo spartiacque, dall’inseguirsi di generatori eolici freschi di posa, né sullo sfondo rividi oblunghe lingue di nuvole: era come se una cinerea, ma fluorescente immensa calotta fosse stata calata a delimitare un territorio di vita. E infatti era così: era stato salvato sotto la grande cupola schermata quello che un tempo era stato il susseguirsi dei colli, valli, pendii di Disisa. La mia guida per la prima volta mi disse che, oltre, regnava desolazione e ormai rare tracce di vita organizzata. Perciò Benedetto, chiamato da allora il tecnocrate, aveva portato lì la tecnologia ultima, fornitagli dall’impero e aveva trovato “potenze” amiche che avevano dato mezzi finanziari adeguati. Oltre la muraglia ramata… Quando arrivammo nelle prossimità la tecnologia apriva un varco nella cinta difensiva e riconobbi, in una luce soffusa e morbida, antic hi segni della città: la cattedrale d’oro con le cuspidi islamiche si stagliava ancora a destra sul colle: vi siedeva, ora semplice abate come agli inizi, l’erede di Benedetto. E d’un tratto u zu’ Piddu s’era fatto da parte cerimonioso: di fronte a me, con stampato il sorriso di gioconda, ritrovavo Cuncittina, la poetessa che da amore incorrisposto (l’uomo era pur padre dei suoi figli) era pervenuta, attraverso doloroso travaglio, alla grande catarsi che ancora le faceva cantare (Gesù, Gesù amato a squarcia gola) la sua pazzia d’amore al Creatore delle piccole cose… “a furmichedda”… Il dolce cipiglio della gioconda si posava ancora su me che ero, adesso, l’adolescente d’un tempo, quello che lei aveva tentato di proteggere e incoraggiare nella prima grande frana della mia vita. Ancora una volta venivo affidato al segno di Amore. …ancora la città portuale Dunque l’antica città portuale era stata salvata sprofondandola, intatta, negli abissi: perciò in essa, in una luce irreale, gli alberi, le cose un tempo vive apparivano di cristallo, ma i colori, le sagome, quasi gli odori, erano quelli di allora. I vecchi quartieri spagnoli ripetevano lo stesso vociare, le 4 mercanzie, le bancarelle d’un tempo. E c’era ancora il venditore di “frittula” (forse ora sintetica) che con le cadenze originarie, con gli stessi strani squittii e ammiccamenti all’avventore di razza (arabo-normanno, ispano- franco borbonico) offriva calda calda la sua mercanzia. Due rimanevano le procedure principi: quella per i non iniziati e in questo caso l’avventore si avvicinava, palesemente impreparato, a richiedere l’involtino di calda poltiglia di chicchi callosi che, quasi vergognoso, andava a ruminare lontano. Nel frattempo l’invito del “frittularu” si le vava in un crescendo di nenie e poi di “rapimenti estatici” esaltanti la flagranza che lui trasmetteva all’avventore con tocchi rapidi del prezioso paniere caldo; questa volta, l’avventore esperto si avvicinava sicuro e come in trance riceveva, in bocca, la calda manata: l’operazione abbisogna, per essere capita, di una “visione a rallenty”. All’avvicinarsi dell’avventore, uno scambio di sguardi, una intesa istantanea… il venditore aveva dato una repentina, sbrigativa rimescolata al caldo nettare coperto da candida “mappina” (notare l’inglese!) e l’altro, pagato l’importo, chiudeva bocca, apriva gli occhi e cominciava la masticante goduria! Ma… ha fatto nuove tutte le cose Epperò al di là dei vicoli, nelle grandi arterie… non c’è più traffico, non ci sono più gas tossici: è finito tutto il caos! Le persone sfilano svelte… ma siamo nella City? Esatto: è avvenuto quello che era sembrato un impossibile miracolo: la città è solcata da una rete sincrona di linee metropolitane che poi incrociano una sorta di circolare trans- montana. La circolare intacca ai due punti estremi la catena di monti che chiude l’antica piana urbana. Nei due sensi di marcia che si incrociano, dopo avere perforato alla base i monti, le circolari si inerpicano verso Disisa e sfociano in semicerchio, in punti estremi (nord-ovest/sud sud-est) nel vasto hinterland metropolitano protetto dalla grande cupola. L’energia solare carpita lungo la colonna di fuoco alimenta i bisogni di tutto l’impianto: ma l’acqua la fornisce Moharda, il vasto sistema montuoso che rimane, oltre la cupola, perennemente innevato: le due perforazioni per la circolare metropolitana, sono oltretutto due grandi collettori di fiumi sotterranei. Disisa è tornata ad essere la “Splendida”, grande azienda agricola tecnologica: impianti sofisticati producono il vettovagliamento per la città e non solo, poiché in quel territorio sono stati trasferiti i grandi servizi: vi è allocato il 2° polo universitario e accanto alle singole facoltà oltre alle cliniche universitarie, sorgono centri di ricerca avanzata. Ma che dire ancora di Benedetto l’autocrate!? Questi aveva captato finalmente anche l’altro messaggio di salvezza e il feudo del santuario, messo a disposizione, era divenuto, per volontà della Federazione Europa, la “Tubinga del Mediterraneo”, il luogo privilegiato di incontro nella cultura (l’università del monoteismo mediterraneo) tra gli imperi di Oriente e Occidente. All’estremo sud del territorio di Disisa ho intravisto appena gli imbocchi per i terminal del nuovo aeroporto internazionale (che, mi dicono, è anche centro aerospaziale per voli interplanetari): le piste sorgono al di là, oltre la grande cupola, ove pare ormai sia deserto. 5