ESERCIZI Lezione 4 Esempi di Lead
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ESERCIZI Lezione 4 Esempi di Lead - individua nei lead dei seguenti articoli gli elementi fondamentali della notizia di cui si parla DIBATTITO Il rabbino capo di Roma spiega la reazione degli esponenti religiosi ebrei Caso Toaff, critica sul metodo e non censura «Il suo libro non rispetta i criteri di una ricerca storica seria» Non si placano ancora le polemiche sul libro di Ariel Toaff, dove è stato affermato che gruppi di fondamentalisti ebrei ashkenaziti avrebbero praticato infanticidi rituali. Dopo la prima ondata di critiche, è ora la volta di appelli e proteste in difesa di Toaff e del suo diritto alla ricerca e alla libera espressione. Sotto accusa c' è anche la dichiarazione subito sottoscritta dai rabbini italiani. Si è parlato di cieco fondamentalismo, scomunica (che neppure i vescovi italiani oserebbero fare), rogo, messa al bando, censura, linciaggio morale, fatwa, addirittura di crocifissione. Tra gli altri Carlo Ginzburg, riferendosi a chi ha criticato prima di leggere e forse intendeva anche i rabbini, ha parlato di «un gesto stupidamente intollerante». A questo punto si impongono una spiegazione e un commento. dal Corriere della Sera del 11 marzo 2007 Tra i più comprati e lasciati dopo poche pagine, le autobiografie famose Gb: i libri si comprano ma non si leggono Più della metà degli intervistati ha dichiarato di comprare libri non per leggerli, ma per motivi decorativi LONDRA - Alzi la mano chi non ha mai lasciato un libro a metà sopraffatto dalla noia o dalla lunghezza. Ma iniziare un testo e lasciarlo senza sapere come vada a finire è pratica quotidiana in Inghilterra: secondo un sondaggio commissionato da Teletext, gli inglesi spendono 4 mila sterline (circa 6 mila euro) nel corso della loro vita in libri, ma circa la metà di questi volumi non sono terminati o addirittura non sono mai aperti. Lo studio, che ha preso in considerazione le risposte di 4 mila britannici, ha anche chiesto ai lettori quali siano i più famosi libri che gli inglesi proprio non sono riusciti a leggere fino all'ultima pagina. dal Corriere della Sera del 12 marzo 2007 Ram Bahadur ha attratto nella foresta del Nepal oltre centomila persone Scompare di nuovo il "piccolo Buddha" Il giovane, ritenuto la reincarnazione del profeta, ha detto di voler cercare un nuovo posto dove meditare KATMANDU - Il "Piccolo Buddha", il ragazzo nepalese di 16 anni che i suoi adoratori ritengono sia la reincarnazione del Buddha Siddharta Goutama, è scomparso di nuovo dal sito nel quale si stava dedicando alla meditazione da oltre due mesi. Nel darne notizia un ufficiale di polizia di Jijgadh (150 km a sud est di Katmandu) ha detto che il ragazzo è scomparso giovedì notte. «Ha lasciato tranquillamente il sito verso mezzanotte dopo che in precedenza aveva detto ai presenti di voler lasciare il sito e andare a cercare un altro posto nel quale meditare», ha spiegato la fonte. dal Corriere della Sera del 12 marzo 2007 NEPAL Scompare di nuovo il 'piccolo Buddha' Si è allontanato dal sito dove dove si trovava in meditazione da circa due mesi. I seguaci ritengono che il 16enne sia la reincarnazione del Buddha Siddharta Goutama Katmandu (Nepal), 11 marzo 2007. - E' scomparso di nuovo Ram Bahadur Bamjon (nella foto), il 'Piccolo Buddha', il ragazzo nepalese di 16 anni che i suoi adoratori ritengono sia la reincarnazione del Buddha Siddharta Goutama. Ne ha dato notizia un ufficiale di polizia di Jijgadh (150 km a sud est di Katmandu), annunciando che il ragazzo e' scomparso giovedi' notte sal sito nel quale si stava dedicando alla meditazione da oltre due mesi: ''Ha lasciato tranquillamente il sito verso mezzanotte dopo che in precedenza aveva detto ai presenti di voler lasciare il sito e andare a cercare un altro posto nel quale meditare'', ha spiegato la fonte. ''Abbiamo cercato il ragazzo nella foresta me finora non abbiamo trovato alcuna traccia'', ha concluso l'ufficiale di polizia. dalla Repubblica del 12 marzo 2007 Esempi di articoli e saggi brevi sull’argomento Catastrofi naturali: la scienza dell’uomo di fronte all’imponderabile della Natura! (vedi materiali per la lezione 1-2) - leggi i seguenti articoli - individua il lead iniziale e gli elementi della notizia forniti in essi - individua la tesi sostenuta dall’autore dell’articolo - individua una scaletta dell’articolo - utilizzando i documenti forniti per lo svolgimento dell’argomento, scrivi un articolo sul modello di quelli che ti vengono presentati La morte sceglie i poveri Tsunami, cicloni, inondazioni: catastrofi poco naturali Gli aiuti alle vittime dello tsunami sono elevati. Ma i paesi ricchi non vogliono annullare il debito ai paesi colpiti dal disastro, come nel 1995 dopo il ciclone Mitch in Nicaragua e Honduras (si legga a pag. 16). Saremo capaci di trarne tutte le lezioni per prevedere e limitare questo tipo di catastrofi, per evitarne altre, soprattutto dovute al clima, e per ricostruire correttamente? Frédéric Durand I movimenti della crosta terrestre e le attività vulcaniche hanno sempre provocato distruzioni. Molte zone del mondo, dalla California al Giappone, passando per la Costa Azzurra, sono a rischio. Ma in Asia, i paesi situati nel punto di congiunzione di quattro placche tettoniche sono tra i più esposti Tra il 1990 e il 2000, nel Sud-est asiatico sono stati più di 100 i terremoti di magnitudine superiore a 6,5 della scala Richter. Nel 1883, l'esplosione del Krakatau, tra Sumatra e Giava, provocò 37.000 morti e fece sentire i suoi effetti su tutto l'Oceano Indiano. Nel solo arcipelago indonesiano si contano ancora 130 vulcani in attività. Dall'inizio degli anni '80, eruzioni meno violente, e certo meno gravi, hanno comunque costretto a spostarsi ben 150.000 persone (1). Il 26 dicembre 2004, quando le placche tettoniche al largo di Sumatra si sono spostate di più di 20 metri, liberando la potenza di 30.000 atomiche, era scritto nella realtà geologica del pianeta. Ma, una volta riconosciuto questo dato che invita ad una maggiore umiltà, bisogna riflettere sulla dimensione umana del fenomeno. Il numero delle vittime, particolarmente elevato, non è dovuto solo ed esclusivamente a fatalità: il bilancio si è appesantito a causa della densità degli insediamenti umani e della loro concentrazione sulle coste. Nell'Est dell'Asia, infatti, più del 70% della popolazione vive nelle zone costiere, in quanto dipende dalle risorse del mare per l'alimentazione, il lavoro e il reddito. Per le popolazioni impoverite, il pesce, se paragonato ad altre fonti di proteine animali, è relativamente a buon mercato. Ma l'urbanizzazione è in massima parte costituita da insediamenti informali, particolarmente vulnerabili, e lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali ha provocato un grave degrado ambientale (2). Oggi si può recriminare sul fatto che, là dove le mangrovie (3) facevano da cuscinetto tra il mare e gli uomini, si siano invece moltiplicate le deforestazioni, per fare spazio, in particolare, all'allevamento di gamberetti destinati ai paesi dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Le mangrovie proteggono dall'erosione, dalle inondazioni, dagli effetti dei cicloni e dai maremoti, inoltre contribuiscono a fissare il carbonio, riducendo il riscaldamento climatico. Ma dagli anni'50, nel sud-est asiatico sottoposto alla pressione dello «sviluppo» e delle attività commerciali, i due terzi delle foreste sono stati distrutti. La stessa cosa vale per le formazioni coralline asiatiche, l'80% delle quali sono minacciate dalla pesca con esplosivo, dagli insediamenti incontrollati lungo il litorale, dall'uso del cianuro per la cattura di pesci tropicali (4). A tutto questo si aggiungono gli effetti del riscaldamento climatico; il corallo infatti è reso più fragile dall'innalzarsi della temperatura del mare. Indubbiamente, anche intatti, coralli e mangrovie non avrebbero potuto fermare lo tsunami, ma avrebbero potuto ridurre il suo impatto. E potrebbero svolgere un loro ruolo in catastrofi meno gravi. Mentre i paesi del Pacifico, Stati uniti e Giappone in testa, già dal 1949 si sono dotati di un Centro di sorveglianza degli tsunami, con sede nelle Hawai, per l'Oceano Indiano non esiste niente di simile. Certo, il Centro hawaiano ha registrato la scossa del 26 dicembre e, visto che l'onda ci ha messo quasi due ore per raggiungere lo Sri Lanka o l'India, ha previsto il maremoto. Ma non disponeva dei canali necessari per diffondere l'informazione. Senza dubbio si può accusare anche il fato, visto che il sisma si è prodotto una domenica mattina. Ma la catastrofe mette a nudo anche la mancanza di un'attenzione preventiva da parte di molti governi: altri paesi «poveri», come Cuba, hanno saputo elaborare politiche di prevenzione. Inoltre, a queste inadempienze sembra essersi aggiunta una carenza di reattività. Il responsabile del servizio meteorologico della Thailandia sarebbe infatti stato licenziato per aver taciuto, temendo l'impatto sul turismo (5). Il quale turismo, spesso visto come panacea per la crescita economica, si caratterizza per uno sviluppo a breve termine, in assenza di un approccio pianificato, ed è destinato ad avere un rapido impatto sull'ambiente. Le difficili condizioni economiche che spiegano in parte la precarietà delle infrastrutture locali e la scarsa applicazione delle norme antisismiche nelle costruzioni, complicano l'arrivo dei soccorsi e aggravano i bilanci; ma anche la difficoltà di superare le tensioni politiche ostacola gli aiuti. Ad Aceh, malgrado l'urgenza umanitaria e la tregua unilaterale richiesta dal Movimento di liberazione dell'Aceh (Gam, indipendentista), il responsabile dell'esercito indonesiano ha voluto ricordare alle sue truppe che la ricerca dei ribelli restava uno dei loro compiti. Nello Sri Lanka, viene denunciata la lentezza con cui i soccorsi si muovono verso il Nord, occupato dalle Tigri di liberazione dell'Eelam tamil (Ltte), mentre le mine antiuomo (che in alcune zone sono state spostate dall'onda) fanno temere sia per chi porta i soccorsi che per la fase della ricostruzione. Quanto alla Birmania, la cui costa del Tenasserim è stata fortemente danneggiata, l'assenza di informazioni fa temere che il bilancio ufficiale di 90 morti possa nascondere una realtà più pesante. La catastrofe ha quanto meno permesso di riparlare del debito e di proporre il congelamento della sua parte pubblica, affinché i paesi colpiti possano aiutare le popolazioni, piuttosto che rimborsare prestiti sempre più pesanti: dagli anni '90, il servizio del debito dei paesi del Sud è diventato superiore all'aiuto che ricevono dal Nord. Nel 2003, rimborsavano 375 miliardi di dollari per un aiuto di 68 miliardi. Nella situazione attuale, si può sperare che il dibattito porti a riconsiderare l'insieme della questione, sapendo che gli Stati uniti restano il paese più indebitato, con un debito pubblico di 7.600 miliardi, una cifra cinque volte superiore a quella di tutti i paesi in via di sviluppo riuniti. Ci si può anche interrogare sulle ragioni di una mediatizzazione tanto accentuata. Non si tratta di criticare il formidabile slancio di generosità, al contrario. C'è stato un momento, in cui esso ha dato a tutto il pianeta un'impressione di nobiltà e di fraternità nella compassione. Bisogna però capire perché l'opinione pubblica internazionale si è soffermata su questa calamità molto più che su tutte le altre. Ci sono tanti «disastri invisibili»: dalle inondazioni ricorrenti in Bangladesh ai rifugiati dell'Africa centrale o del Darfur, passando per la malaria (2 milioni di morti l'anno) o l'Aids (2,3 milioni), la siccità e la desertificazione, ma sono tutti problemi che riguardano soprattutto i paesi in via di sviluppo, e proprio per questo non stimolano riflessione e azione. Cosa resterà tra qualche mese del grande movimento di solidarietà? Forse il ricordo della catastrofe sarà l'occasione per riflettere su tutte quelle altre sofferenze che i paesi «ricchi» spesso preferiscono non vedere, e per lanciare, come è stato proposto, una tassa Tobin di solidarietà? Si realizzerebbe così il principio di precauzione, se non di responsabilità, perché numerose ipotesi sulle conseguenza del riscaldamento del pianeta, con il probabile aumento di avvenimenti climatici estremi, lasciano presagire altri drammi dalle conseguenze non meno gravi. note: * Ordinario all'università di Tolouse-Le Mirail, autore di La jungle, la nation et le marché. Chronique indonésienne, L'Atalante, Nantes, 2001. (1) Si veda il capitolo «Risques naturels et environnementaux en Asie du Sud-Est», in Michel Foucher, Asie Nouvelles, Belin, Paris, 2002, p. 166. (2) Si veda «Conserving Our Coastal Environment», United Nations University, Tokyo, 2002. (3) Formazione vegetale costituita da foreste impenetrabili di paletuviere, che fissano le radici in baie dalle acque calme, dove si depositano fango e limo. (4) Si vedano i lavori dell'International Coral Reef Initiative: http://www.icriforum.org. (5) Bangkok Post, 5 gennaio 2005. (6) Si legga Sophie Boukhari, «L'inestimable valeur du vivant», Courrier de l'Unesco, Paris, maggio 2000. da LeMonde diplomatique febbraio 2005 Globalizzazione e catastrofi Lo Tsunami è stato un fenomeno naturale globale che ha inferto un duro colpo proprio alla globalizzazione, come fatto e come concezione. Sul Foglio, Giuliano Ferrara contesta questa interpretazione sostenendo che lo Tsunami ha colpito regioni "fra le meno globalizzate" del mondo e proprio per questo ha avuto le conseguenze devastanti che ha avuto. È vero il contrario. "Globalizzazione" non è lo sviluppo e la crescita dell'attuale modello economico nei Paesi occidentali che hanno imboccato questa strada da due secoli e mezzo, dalla Rivoluzione industriale, ma è l'esportazione di questo modello nei mondi "altri", in quello che noi chiamiamo il "Terzo mondo". Ed è questa globalizzazione contaminante che ha indebolito le popolazioni indigene (in questo caso malaysiani, indonesiani, cingalesi, thailandesi e anche indiani) sotto ogni punto di vista, rendendole, tra l'altro, anche più vulnerabili allo Tsunami. Se un'onda di pari potenza si fosse abbattuta su quelle coste due o tre secoli fa il disastro sarebbe stato di gran lunga minore, molti meno i morti, anzi forse non ci sarebbe stato nessun morto. Per alcuni buoni motivi. 1) Perché ci sarebbe stata molto meno gente sulle coste, oggi sovraffollate per sfruttare il turismo occidentale (o per dir meglio: per essere sfruttati dal turismo occidentale). 2) Perché le mangrovie, oggi in gran parte abbattute per far posto alle spiagge, avrebbero fatto da barriera all'acqua. 3) Perché capanne di paglia e legno sarebbero state sicuramente spazzate via, ma il legno galleggia e al legno ci si può aggrappare, mentre le strutture di cemento possono trasformarsi in una trappola senza uscita e, se cedono, in proiettili mortali. 4) Perché non ci sarebbe il problema delle infrastrutture dato che allora le infrastrutture non esistevano ma gli indigeni vivevano lo stesso. 5) Perché infine, e soprattutto, la contaminazione con la "way of life" occidentale, la globalizzazione appunto, ha profondamente pervertito gli istinti vitali di questa gente. In altri tempi queste popolazioni del mare avrebbero avvertito il pericolo con ampio anticipo, sarebbero state colte da orrore al primo cenno del ritirarsi delle acque e avrebbero saputo come mettersi in salvo. Invece molti di loro non hanno capito ciò che una bambina inglese di dieci anni, curiosa di fenomeni naturali, sapeva e che peraltro è intuitivo: che come le acque dell'oceano si ritirano, non per una marea conosciuta e periodica, la prima cosa da fare è correre nella direzione opposta con tutto il fiato che si ha in corpo. La conferma di ciò che dico viene da quanto è successo alle isole Andamane. Le Andamane sono un arcipelago di piccole isole, le più vicine all'epicentro del terremoto verso Sumatra. Sulla parte, diciamo così, "civilizzata" delle Andamane (il sette gennaio vi si doveva tenere addirittura il "Festival del turismo") i morti sono stati 9.571 e i dispersi 5.801. Sulle isole più piccole delle Andamane vivono anche alcuni popoli cosiddetti "primitivi", ma che i tedeschi chiamano, più correttamente, "popoli della natura" perché vivono allo stato di natura e in armonia con essa. Tribù che non hanno mai accettato intromissioni, non solo degli occidentali ma anche degli indiani del cui territorio formalmente fanno parte. Quando si presenta qualche seccatore lo accolgono con archi e frecce e lo mettono in fuga. Hanno riservato questo trattamento anche a un elicottero che, in questi giorni, tentava di atterrare, per portare "aiuti", su una spiaggia dove, passata la buriana, i Sentinelesi - così si chiama una di queste tribù - se ne stavano tranquillamente seduti. I pochi che sono riusciti ad avvicinare gli Onga delle "Piccole Andamane" o gli Jarawa o i Grandi Andamanesi della minuscola Strail Island o gli stessi Sentinelesi che vivono nell'isola più remota dell'arcipelago, da cui il nome di North Sentinel Island (e hanno potuto farlo solo accettando il rituale scambio di doni, perché per millenni fra le popolazioni malaysiane e polinesiane lo scambio non poteva avvenire se non nella forma del dono e del controdono) hanno descritto questi "primitivi" come miti, affettuosi, sorridenti, esuberanti". La situazione è tale che lo stesso governo indiano ha, intelligentemente, vietato, per legge, di prendere contatto con queste popolazioni. Ogni tanto un funzionario del governo di Nuova Dehli si reca da loro, in visita, compie il rituale scambio di doni e poi se ne va. Questi contatti molto saltuari li accettano, ma, come ha scritto Viviano Dominici, "sono decisi a tenersi lontani da tutti e ogni volta che qualcuno tenta di sbarcare nel loro piccolo mondo loro lo respingono a frecciate". Ebbene fra questi "primitivi", benché siano stati investiti dal maremoto con molta più violenza dei più lontani indiani della costa, dei thailandesi, dei cingalesi, non c'è stato nemmeno un morto. La ragione è molto semplice e la spiega una responsabile della Croce Rossa, la dottoressa Namita Ali: "Sono più furbi dei cosiddetti civilizzati: conoscono l'oceano, non costruiscono le abitazioni sulla spiaggia ma sulle colline". E quelli che stavano sulle rive, per qualche loro faccenda, appena hanno visto il mare ritirarsi sono scappati sulle alture. Sono cose che dovrebbero far meditare. Invece mi pare che la grande macchina delle sottoscrizioni internazionali, globali, sia presa soprattutto dall'ansia di ripristinare al più presto la situazione di prima, di ricostruire, di ricreare quei Paradisi artificiali, come se volessimo cancellare e rimuovere un incubo senza farsi troppe domande sul perché lo abbiamo vissuto. E senza rendersi conto che la potente onda di quel denaro potrebbe rivelarsi, alla lunga, più devastante di quella dello Tsunami. Massimo Fini da Il Gazzettino dell'8 gennaio 2005 La natura è creatura di Dio: cosa buona, ma imperfetta Marco Bersanelli Anche all’alba del terzo millennio la natura scatena su di noi la sua furia e miete le sue vittime. Non solo nei grandi disastri come il terribile tsunami del 26 dicembre, ma quotidianamente: inondazioni, malattie, terremoti, incendi. Basti pensare che solo a causa dei fulmini muoiono oltre 1000 persone ogni anno. Ma gli elementi naturali che causano morte (il fuoco, l’acqua, il movimento della crosta terrestre) sono gli stessi a cui dobbiamo la vita. In particolare i terremoti sono profondamente associati alla possibilità della nostra esistenza. L’attività sismica è la diretta manifestazione dei movimenti lenti e poderosi delle placche della crosta terrestre che scorrono sugli strati sottostanti del mantello. Nessun altro pianeta nel sistema solare ha una struttura geologica simile, e questo è uno dei motivi della capacità straordinaria della Terra di mantenere stabile la temperatura media nei miliardi di anni necessari per l’evoluzione biologica. Così, paradossalmente, se disponessimo di strumenti abbastanza sensibili, un indizio per la ricerca di pianeti extrasolari capaci di ospitare vita potrebbe essere quello di rivelare attività sismiche sulla loro superficie. L’evento sismico che ha sconvolto il sud-est asiatico è enorme: magnitudine 9.0, il quarto in ordine di intensità in questo secolo. In meno di quattro minuti una vasta area del fondo oceanico si è sollevata di una decina di metri sprigionando un’energia di un miliardo di miliardi di Joule, l’equivalente di 23 mila bombe atomiche. Ma anche questi numeri da capogiro sono un’inezia rispetto alle energie normalmente in azione a livello planetario, tanto che la Terra nel suo insieme non ne ha risentito. Si è fatto un gran parlare dei cambiamenti permanenti a seguito dello tsunami indocinese, ma lo spostamento dell’asse terrestre (tre decimilionesimi di grado) e il rallentamento della durata del giorno (2 milionesimi di secondo) sono ben al di sotto delle normali fluttuazioni, insignificanti a livello globale, persino troppo piccoli per essere misurati. Un’increspatura dell’oceano, un soffio impercettibile sulla pelle del nostro pianeta è sufficiente a sconvolgere la nostra sopravvivenza. Fenomeni come questo mostrano la fragilità e la raffinatezza di quel mondo che diamo per scontato tutti i giorni. La normalità nell’universo non è affatto un mare calmo che pullula di vita, al contrario è uno sconfinato deserto di spazi immobili oppure uno sprigionarsi di forze irresistibili. L’esplosione di una supernova vicina potrebbe portare a un’estinzione totale in un istante, ma sono proprio queste esplosioni stellari che in un lontano passato hanno reso disponibili il carbonio, l’ossigeno e altri elementi essenziali per noi e ogni organismo. La vita terrestre sussiste in una nicchia delicatissima ritagliata prodigiosamente sfruttando i prodotti dell’intera storia cosmica. La natura dunque non è crudele, anzi è provvidenziale, ma al tempo stesso è imperfetta, pericolosa, sa essere violenta. Forse questo segna un problema per quelle concezioni filosofiche o religiose che più o meno esplicitamente identificano la natura con il divino, generando anche alcune posizioni ideologiche attualmente in voga. Nella tradizione giudaico-cristiana invece la natura non è Dio: la natura è creazione di Dio, “cosa buona”, ma poi segnata misteriosamente dal male, soggetta alla “corruzione” e alla incompiutezza. La natura è lo specchio della condizione dell’uomo, cioè di ciascuno di noi: benintenzionati ma imperfetti, fragili, un po’ cattivi, talvolta capaci di azioni terribili. Nessun uomo ragionevole, infatti, si aspetta la salvezza dalle forze del creato né dalle capacità umane. Così di fronte allo scatenarsi della natura e alla miseria del nostro limite la domanda profonda riguarda il senso dell’esistere, una domanda alla quale solo una Presenza più potente della tempesta e più buona di noi può rispondere. Ed è la condivisione di questo senso del vivere che ci muove a sostegno dei sopravvissuti, e ci rende prossimo il dolore di ciascuna madre disperata e di ciascun bambino rimasto solo in quelle spiagge devastate. da Tracce del 01/02/2005