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BOUQUET.
Scivolò dal letto leggera. Un brivido di freddo la colse alzandosi dalle lenzuola tiepide ancora
conservanti l’impronta dei loro corpi allacciati. Scrollò le briciole della colazione che lui le aveva
preparato prima di fuggire al lavoro. Dopo che la porta si era chiusa dietro il suo sorriso assonnato,
lei si era di nuovo addormentata, uno sbaffo di marmellata all’albicocca e un bacio rimasti
nell’incavo della fossetta sulla guancia.
Stirando i muscoli aggrovigliati, si accorse della cravatta abbandonata sullo schienale della sedia. Il
resto del completo era accatastato sulla cassettiera, avvolto in un abbraccio di seta perlacea. Lia
riassaporò la carezza lieve del tessuto sulla pelle e ne ricompose la forma originaria. Lo specchio le
restituì la donna immortalata due giorni prima in innumerevoli fotografie, quella tremante
nell’atto di pronunciare l’acuto del monosillabo più semplice, la stessa che si sentiva chiamare per
la prima volta “signora” e rideva di quel titolo altisonante.
A piedi scalzi raggiunse il post-it con appiccicato il buongiorno e assaporò senza fretta la dolcezza
di quel piccolo gesto nel silenzio dell’appartamento vuoto. Anzi, quasi vuoto: avvertiva
distintamente la presenza del mazzo di fiori sul davanzale della finestra. Era stato un gesto
eseguito con meticolosa calma, quell’adagiare il bouquet di gerbere e rose in un vaso che non
guastasse nemmeno un petalo.
Dopo aver indossato i primi vestiti trovati nell’armadio, si riappropriò del bouquet da sposa e uscì
nel torpore inabitato della città svuotata dalle vacanze estive. Era ancora troppo presto per
osservare gincane di motorini, destrieri di giovani amori freschi e appiccicosi come ghiaccioli sciolti
tra le mani. Sporadiche macchine appesantite da valigie e aspettative uscivano dai garage. Dalle
saracinesche alzate solo per metà delle panetterie, proveniva l’aroma fragrante del pane appena
sfornato.
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Lia attraversò a piedi tutta la città, quindi, dopo aver svoltato in un viale costeggiato di cipressi,
schiuse il cancello del cimitero. Scricchiolavano i suoi passi sulla ghiaia polverosa di un’estate senza
pioggia. Era stata lì solo una volta, eppure i piedi avevano memorizzato la strada e la guidavano,
avanzando al rallentatore. Procedeva in una bolla: ogni rumore e movimento, anche il lieve vibrare
delle foglie, rimaneva al di fuori.
Il sole aveva succhiato via il colore dei fiori nel vaso di fronte a lei. Li sostituì con il proprio bouquet
e si sedette sulla pietra grigia, la schiena appoggiata alla lapide che la sormontava.
«Ci siamo sposati. Due giorni fa. Io non ho quasi dormito la notte prima: al primo raggio di sole mi
sono alzata, le mani che tremavano. Della mattinata di preparativi e attesa, ricordo unicamente
quel fremito inarrestabile e il battito del cuore a strozzare il respiro. Solo quando lui mi ha presa
per mano per percorrere la navata centrale della chiesa, le dita hanno smesso di tamburellare.
Avresti riso a vederlo così elegante: io non sono riuscita a trattenermi. E continuava ad allentarsi il
nodo della cravatta, cercando di non farsi vedere. Eravamo entrambi impacciati ed è stata
liberatoria la pioggia di coriandoli all’uscita: ci siamo spettinati i capelli a vicenda per riconoscerci
di nuovo.
Indossava un sorriso che io non gli avevo mai visto. Tu forse, invece, sì. L’ho scorto, infatti, in una
delle vostre foto insieme. Da allora non si era mai più illuminato così, sai? C’era sempre una patina
di malinconia, di un ricordo riaffiorante sulla superficie della realtà, a velare il suo buonumore.
C’eri tu.
Ti ho conosciuta così. Ho sentito la tua voce nei suoi silenzi. Ho annusato il tuo profumo nelle sue
maglie. Ho assaggiato le tue ricette nelle cene che lui ha preparato per me. E solo infine ho visto il
tuo volto in quell’album che lui mi ha messo tra le mani.
Una sera mi ha fatto sedere di fronte a un baule, quello color rubino, con il coperchio ricurvo.
Sapevo di te: ogni suo ricordo era coniugato alla prima persona plurale, ogni discorso inciampava
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nel tuo nome. Gli amici mi avevano avvisata della sua fragilità e così non indagavo e racimolavo
quei pochi e preziosi frammenti di te che lui mi dava. E poi, quella sera, ecco che me li ha affidati
tutti. In quel baule c’era lui e c’eri tu.
Quando la mattina si è svegliato, mi ha trovata ancora lì, immersa nel suo passato. Lo guardavo
come lo vedessi per la prima volta, accorgendomi di quanto quel tutto che credevo di conoscere di
lui fosse in realtà un niente. Solo passando attraverso di te potevo colmare quella mancanza.
Nel baule mancavano gli ultimi mesi. Me li ha raccontati con la testa appoggiata al mio ventre, gli
occhi chiusi. Il sospetto, le analisi, l’odore dei corridoi dell’ospedale, i cicli infiniti di chemioterapia,
il dolore. Ma anche la tua forza, le tue bendane colorate, il tuo iscriverti a un corso di canto perché
ti sarebbe sempre piaciuto, la tua lista di posti da vedere spuntata giorno dopo giorno. Gli è colata
solo una lacrima, parola muta a segnare la fine di quel discorso. L’ho raccolta nel palmo della
mano e assorbita. Così sei entrata a far parte di me, insieme a tutti i gesti che lui per osmosi mi ha
trasmesso e che erano i tuoi.
Sì, sei rimasta in lui, nella ferita, ormai cicatrizzatasi, della tua assenza. Lì, la pelle è insensibile alla
mia presenza.
Così dirigo le mie carezze altrove, a un sorriso che tu non puoi annoverare tra i tuoi ricordi. Si
disegna sullo stesso volto che hai amato tu, ma appartiene a un uomo diverso, rinato dalle ceneri
del proprio dolore. Di quella fenice, di quell’uomo che amo, tu sei elemento primo, costitutivo. Io,
invece, ne sono il cielo in cui vola, in cui vive.».
Lia accarezzò i fiori che le solleticavano il collo.
«C’era un mazzo così sul tavolino di casa sua la prima volta che ci sono entrata. Era
completamente appassito ma nessuno si era premurato di prendersene cura. Erano per te. Ho
scelto io gli stessi fiori per restituirti almeno questo regalo mai consegnato, così piccolo rispetto a
ciò che inconsapevolmente tu mi hai lasciato.».
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Sfiorò con la punta dei polpastrelli il giovane sorriso immortalato dalla foto sbiadita.
«Addio.».
Si alzò e se ne andò nel silenzio irreale precedente ogni inizio.
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