N°10 – 15 Maggio - Rivista Rocca

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N°10 – 15 Maggio - Rivista Rocca
Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
Irak: Ma che ci stiamo a fare?
Cure palliative: Una moderna cultura del dolore
Fede-Scienza: Le origini del mondo
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ANNO
NUMERO
10
periodico quindicinale
Last minute market: Un’intuizione vincente
La Bibbia civile Bioetica: Abbattere gli steccati
Chiesa: Benedetto XVI, anno primo
cure palliative
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
15 maggio 2006
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 2, DCB Perugia
ISSN 0391 – 108X
e 2,00
oltre
l’immediato ...
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sommario
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Ci scrivono i lettori
Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
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Vignette
Il meglio della quindicina
Raniero La Valle
Resistenza e pace
La tregua istituzionale
Maurizio Salvi
Egitto
Repressione prima democrazia poi
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
Che ci stiamo a fare?
Filippo Gentiloni
La Bibbia civile
Costituzione casa comune
52
54
56
57
Roberta Carlini
Economia
Prodi, l’Italia e l’Europa
58
Romolo Menighetti
Parole chiave
Terrorismo
58
Giannino Piana
Bioetica
Abbattere gli steccati
59
Pietro Greco
Cure palliative
Una moderna cultura del dolore
59
Sabrina Magnani
Last minute market
Un’intuizione vincente
60
Giuliano Della Pergola
Società
Gli antagonisti
60
Rosella De Leonibus
Cose da grandi
Morbido e dolce
61
62
Manuel Tejera De Meer
Io e gli altri
La personalità carismatica
Claudio Cagnazzo
Società
Dalla vacanza al weekend
Stefano Cazzato
Maestri del nostro tempo
Tzvetan Todorov
Discorsi della varietà
63
Giancarlo Zizola
Chiesa
Benedetto XVI anno primo
Enrico Peyretti
Fatti e segni
Quale pace?
Arturo Paoli
Cercate ancora
Gettati nel mondo
Carlo Molari
Teologia
Le origini del mondo
Lidia Maggi
Eva e le sue sorelle
Susanna, un grido di protesta
Giacomo Gambetti
Cinema
Storia e film
Don Pietro Pappagallo
Roberto Carusi
Teatro
Sacro e profano
Renzo Salvi
RF&TV
Reality Italia
Mariano Apa
Arte
Claudel/Rodin
Alberto Pellegrino
Fotografia
Argalia - Ritratti
Enrico Romani
Musica
Il ritorno di Prince
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Web 2
Libri
Carlo Timio
Rocca schede
Paesi in primo piano
India
Nello Giostra
Fraternità
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Numero 10 – 15 maggio 2006
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ANNO
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ROCCA 15 MAGGIO 2006
Editore: Pro Civitate Christiana
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non si restituiscono
Questo numero
è stato chiuso il 02/05/2006 e spedito da
Città di Castello il 05/05/2006
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Mezzo secolo
di Televisione
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
L’articolo di Renzo Salvi
(«Servizio pubblico televisivo», Rocca, n. 8 del 15 aprile 2006) mi ha fatto riflettere sul potere del mezzo mediatico, che ha ormai mezzo secolo di presenza nella
nostra società.
Una situazione analoga la
troviamo nel ’700, quando
l’illuminismo aveva introdotto in Francia una novità
capace di scardinare un secolare assestamento politico: l’Enciclopedia, che il matematico Gian Battista
D’Alembert definì il dizionario delle scienze, delle arti e
dei mestieri a cura degli uomini di cultura, e che preparò la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale, i cui effetti politici e morali, affermò Robert Owen,
meritavano l’impegno degli
statisti migliori.
Fu allora, esattamente nel
1749, che l’Accademia di Digione bandì un concorso sul
tema: «Il progresso della
scienza ha contribuito a corrompere o ad affinare i costumi?». Vi partecipò e lo
vinse Jean Jaques Rousseau
con un suo Discorso nel
quale sostenne che «tutto
nasce buono dalle mani di
Dio e tutte le cose si guastano nelle mani dell’uomo». Il dibattito che ne seguì portò ad una riflessione
sui fini e sui mezzi dell’educazione che si sviluppò in
tutta l’Europa. La stessa
domanda, dopo mezzo secolo di Tv, ce la dovremmo
porre oggi: «La televisione
ha contribuito in tutti questi anni a corrompere o a
migliorare i costumi, a innalzare il livello culturale e
morale del nostro popolo,
oppure lo ha abbassato? E,
a vantaggio di chi?».
È tempo di fare un bilancio
sull’influenza che il mezzo
televisivo – come è stato usato – ha avuto nel formare
una coscienza democratica
e libertaria. Io sono stato testimone della sua evoluzione, e ne sono stato sosteni-
tore entusiasta e convinto.
Pensavo che la Tv fosse la
più grande invenzione dell’uomo moderno perché
permetteva di vedere tutto
ciò che accadeva nel mondo in tempo reale, di vedere
tutto ciò che la civiltà umana produce in ogni angolo
della Terra: la ricerca scientifica, l’iniziativa dell’uomo
a favore del pianeta, il teatro, i concerti, l’arte.
Il mio sogno era la televisione come una grande università capace di avvicinare i
popoli diversi e di favorire
la pace. E all’inizio fu proprio così: il maestro Alberto Manzi che insegnava a
migliaia di analfabeti a leggere e a scrivere, ne era il
simbolo.
I film di Vittorio De Seta sulla scuola che cambiava, il
teatro di qualità che settimanalmente entrava nelle
nostre case, erano esempi
concreti che ciò poteva avvenire. Ma ben presto il sogno svanì, altri guardarono
alla televisione con fini diametralmente opposti: portare nelle nostre case il mercato con la pubblicità, sostituire il giudizio di merito
con l’auditel (la quantità),
aumentare gli indici d’ascolto con l’abbassamento del
livello culturale per mezzo
degli spot, della banalità,
della curiosità morbosa,
della violenza distillata e riproposta nei film.
Vi furono reazioni come la
raccolta di «firme per cambiare la Tv», che in pochi
mesi superò le 550.000 adesioni, consegnate simbolicamente al Capo dello Stato.
Il governo Prodi nominò
una commissione a cui parteciparono tutte le televisioni, sia pubbliche che private: fu sottoscritto un codice
di autoregolamentazione
che tuttavia nessuna televisione rispettò. Si alzò allora la voce autorevole di Karl
Popper che accusò la televisione di portare nelle famiglie modelli di violenza e di
essere un pericolo per la democrazia quando il potere
mediatico è in mano a pochi senza controllo. Propo-
se per i conduttori televisivi
una patente perché la loro
responsabilità è pari a quella di chi guida un mezzo. Indro Montanelli suggerì un
processo pubblico ai conduttori televisivi.
Proviamo a rispondere oggi
alla domanda dell’Accademia di Digione: «Questa televisione contribuisce a corrompere o ad affinare i costumi?».
La Tv è senza dubbio dama
di compagnia di chi non
può allontanarsi da lei: dei
più deboli quindi, almeno in
un certo senso. Quale etica
nel proporre a questa categoria di «nuovi deboli» i
mondi fasulli di intrighi familiari o rapporti umani
estremi che assurgono a
modelli irrealizzabili e fonti di ulteriore insoddisfazione? Quale effetto nel continuare a selezionare cronache di quotidiana violenza
in un crescendo di emulazione fino alla pioggia di
sassi dai cavalcavia e all’annullamento del valore di
una vita umana?
È forse sbagliato, inattuale,
utopistico auspicare che
una classe politica degna di
tale nome dica chiaramente che una società veramente civile non può tollerare
una televisione così ed esprima nei propri programmi
una riforma radicale del
mezzo mediatico come libero strumento di sano relax
o crescita culturale per tutti?
Oppure non è importante?
O – peggio – va bene così?
Mario Lodi,
educatore
[email protected]
La Parola venduta
Cara Adriana Zarri, sono
tanti anni che leggo Rocca
e da sempre vi cerco per prima cosa i tuoi articoli, perché condivido le tue riflessioni ed ammiro la tua apertura mentale e la tua vicinanza a Dio senza condizionamenti.
Ho compiuto 60 anni da poche settimane e sto vivendo
un momento di ricerca di
Dio perché con il passare
degli anni, la ragione sembra allontanarmi dalla fede
della mia giovinezza.
Il confronto con le altre religioni mi ha fatto sorgere il
dubbio che tutte siano state
«inventate» per rispondere
al bisogno di infinito di noi
uomini.
So che se Dio esiste non sarà
la mia crisi a danneggiarlo,
ma il dubbio mi fa star male
perché senza fede tanti avvenimenti (forse tutti) perdono il loro senso.
Vorrei parteciparti come sia
rimasta fortemente colpita
da una notizia che è passata quasi inosservata e che
invece ha incrinato la mia
fiducia nella Chiesa e nel
Papa. Ho letto su un quotidiano di gennaio 2006, notizia poi verificata su Internet, che il Cardinale Sodano aveva emesso un decreto per proteggere tutti gli
scritti ed i discorsi del Papa
con un rigido copyright.
Il decreto era stato promulgato nel maggio del 2005,
uno dei primi atti del nuovo pontificato, per tutelare
economicamente tutti gli
scritti ed i discorsi, anche
quelli degli ultimi 50 anni,
di Papa Ratzingher. Nessuno può pubblicare in tutto
o in parte la parola del Papa,
encicliche comprese, senza
pagare un compenso al Vaticano, pena sanzioni varie.
Secondo me, qualunque siano le motivazioni che hanno portato a questo, è un
vero sacrilegio.
Il Verbo, la Parola di Dio che
il Papa e la Chiesa dovrebbero desiderare conosciuta
da tutti, credenti e non, viene venduta. È questa, secondo me, un’involontaria ma
chiarissima dimostrazione
di ateismo.
Sarei contenta di conoscere il tuo parere e quello della redazione di Rocca sul decreto Sodano.
Intanto cercherò di imparare a leggere, come tu sai
fare, l’enciclica laica eppure sacra, non scritta dal
papa ma da Dio.
Laura Natali
Pistoia
La Zarri si è espressa in
merito ne «Il Manifesto»
di domenica 5 febbraio,
pag. 6. Concorda con lei e
anche noi pur comprendendo le necessità economiche dell’apparato vaticano. I testi in questione
sono comunque reperibili gratuitamente su Internet www.vatican.va/
ITA1798/_INDEX.HTM
Anziani e case
di cura
Era un pomeriggio di Marzo, non lo dimenticherò
mai, era iniziato così, con
un sole splendente, l’aria
che inizia a pesare meno, la
consapevolezza che fosse
arrivata la primavera.
Andare a trovare una persona, a cui tengo molto, in una
casa di cura per anziani era
per me cosa nuova, ma che
all’apparenza non alimentava alcuna particolare preoccupazione dentro di me.
Entrai in maniera decisa
nella struttura, entrai dal
cancello principale, da fuori trovai subito la casa di riposo molto accogliente, il
giusto compromesso fra verde e cemento, fra spazio e
costruzione.
Appena entrato, una sensazione strana in maniera fulminante si fece subito padrona di me. All’interno vidi
subito un frequente via vai
di persone, avevo fatto solo
tre passi, ero concentrato,
mi guardavo intorno e facevo fatica a capire.
Feci qualche passo in più,
ero impreparato a ciò che
vedevo, passavo per il corridoio, con lo sguardo sfilavo
il viso di persone anziane,
anziani seduti da soli, appena catturavo la loro attenzione quello sguardo all’improvviso cambiava, i loro
occhi assumevano per qualche secondo la speranza
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Rocca
ci scrivono i lettori
CI SCRIVONO I LETTORI
5
CI SCRIVONO I LETTORI
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su un titolo
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prescelto
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ROCCA 15 MAGGIO 2006
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ROCCA 2004
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spese comprese
6
Vittorio Ravazzini
Bergamo
India
all’università
anche
i dalit
Colombia
ai candidati
delle elezioni
presidenziali
Scompaginerà il sistema delle caste in India il progetto di
legge che prevede di riservare
un posto su due, nei college
più prestigiosi, agli ex intoccabili (Dalit) e ai più diseredati? Nonostante sia stata ufficialmente abolita nel 1965,
la divisione in caste, un sistema funzionale di stratificazione e oppressione sociale, di
origine ancestrale, è rimasta
radicata nel costume indù.
Mentre i Bramini sono saldamente arroccati al potere relativo all’interno della comunità, i Dalit, (in passato non
era nemmeno consentito contaminarsi con la loro ombra),
restano discriminati nell’accesso al lavoro e all’istruzione, e sono circa 1/6 dell’attuale popolazione. La loro situazione sociale è oggi lievemente migliorata e questo disegno
di legge, sostenuto dalla sinistra e dal partito del Congresso, li proietterebbe verso uno
sviluppo finalmente umano.
In una società in profonda
evoluzione tecnologica, il governo ritiene che l’attuale
miracolo economico – il quale riguarda un 25-30% della
popolazione – è destinato a
fallire se non riuscirà a coinvolgere anche le enormi masse di poveri. La liberalizzazione e la privatizzazione hanno bisogno di poter competere massicciamente in tempo
di globalizzazione, e l’India
tiene molto allo sviluppo, specie del suo settore informatico. Naturalmente le imprese
vorrebbero i migliori alunni.
Ma molti studiosi sostengono
la necessità di coinvolgere le
masse per evitare il crollo nello sviluppo. Uno dei capitani
d’industria più influenti, Ratan Tata, ha invitato i suoi colleghi a «operare secondo principi e valori: non possiamo –
ha detto – creare una grande
ricchezza senza fare uno sforzo anche per diffonderla».
L’opinione pubblica colombiana è stata fortemente colpita
dall’assassinio di Liliana Gaviria, sorella di un ex presidente
della Colombia, avvenuto il 28
aprile. Intanto, ai candidati
delle elezioni presidenziali in
Colombia, in programma per
il 28 maggio, Amnesty international, nel corso di una coraggiosa lettera aperta, domanda
di riconoscere l’esistenza di
una crisi dei diritti umani e che
cosa intendano fare per affrontare la situazione. Il governo si
è vantato della recente smobilitazione dei gruppi paramilitari legati all’esercito, ma la
nota organizzazione umanitaria ricorda come dal 1985 i
paramilitari, la guerriglia e le
forze di sicurezza abbiano costretto oltre tre milioni di persone a lasciare le proprie abitazioni. Altre decine di migliaia sono state uccise, fatte sparire, torturate o sequestrate.
Adesso alcune iniziative del
governo per favorire la smobilitazione rischiano di assicurare ai militari smobilitati il controllo su milioni di ettari di terre di cui si sono appropriati.
Costoro potrebbero essere autorizzati a ottenere fondi per i
progetti di sviluppo agricolo
proprio sulle terre strappate
con la forza, spesso a seguito
di violazioni dei diritti umani
e col sostegno dell’esercito.
«Così, centinaia di migliaia di
colombiani si troveranno di
fronte a un tragico dilemma:
continuare a rimanere senza un
posto dove andare oppure tornare nelle proprie terre e vivere
fianco a fianco ai responsabili
della loro fuga e della tortura,
dello stupro e dell’assassinio dei
loro cari» – ha denunciato Marcelo Pollak , ricercatore di Amnesty in Colombia. Ai candidati Amnesty chiede di esprimersi pubblicamente in particolare su come proteggeranno i civili maggiormente a rischio, le
donne e i gruppi indigeni.
Roma
medaglia d’oro
a fratel
Arturo
Il 25 aprile il Presidente della
Repubblica Carlo Azeglio
Ciampi ha consegnato la medaglia d’oro a fratel Arturo
Paoli con la seguente motivazione: «Nel corso dell’ultimo
conflitto con encomiabile
spirito cristiano e preclara virtù civica, collaborò alla costruzione di una struttura
clandestina che diede ospitalità e assistenza ai perseguitati politici e a quanti sfuggirono ai rastrellamenti nazifascisti dell’alta Toscana, riuscendo a salvare circa 800 cittadini ebrei. Mirabile esempio
di grande spirito di sacrificio
e di umana solidarietà. Nel
1943 a Lucca». Tutta la vita di
fratel Arturo è stata all’insegna di una passione indomabile per Cristo e per l’uomo. I
suoi libri e i suoi scritti non
sono tanto frutto di studio
quanto di battaglie su fronti
diversi: dall’Italia all’Argentina, all’Algeria, al Cile, Venezuela, ai poveri del Brasile
dove a Foz de Jguaçu fonda
l’associazione «Fraternità e
Alleanza»… Il suo esempio salutarmente c’inquieta.
ROCCA 15 MAGGIO 2006
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sul nome di un Autore
ed ecco i titoli
di tutti i suoi articoli
Anna Portoghese
i 23 NUMERI
integrali dell’annata
con relativi
INDICI
per numero
per Autore
per tematiche principali
per rubriche
a cura di
in CD-Rom
testa non si fermavano, giravano continuamente dentro di me.
Pensavo a quello che avevo
visto, anziani fermi su una
sedia, guardavano nel vuoto, chissà cosa pensavano,
pensavo a quei corridoi, accanto a me passavano anziani su una carrozzella. Lì
vedevo la fatica, la sofferenza, la cruda verità, forse un
giorno toccherà al giovanotto che sono ora, e forse non
avevo fatto ancora i conti
con tutto questo.
Avevo visto anziani che giocavano a carte, il sorriso era
quello di chi inganna il tempo, un tempo che forse non
può più pretendere qualità,
se da giovani ci si lamenta
che il tempo passa troppo in
fretta. Ho avuto come la sensazione che lì non passasse
mai, perché il tempo si appesantisce, non ti scivola addosso come prima.
Tutte quelle sensazioni diverse assieme mi avevano sfiancato. Però ero anche contento, qualche anziano scambiò
qualche piccola parola pur
non conoscendomi, quando
cercavano la mia attenzione
non mi tiravo indietro, i sorrisi che avevo visto erano
grandi, erano veri, la cosa
strana è che senza fare chissà cosa mi hanno fatto sentire davvero importante anche se forse doveva essere il
contrario.
Accompagnata l’anziana
che mi aveva ricevuto me ne
tornai a casa con tantissime
domande. Serviva una grande riflessione, avevo solo
una consapevolezza, sarei
tornato presto, sarei tornato più forte, sarei tornato
con il sorriso perché anche
questa è una pagina della
vita, una pagina che pian
piano si era colorata, si era
riempita di piccole cose belle più forti delle fatiche, più
forti di tutti quei pensieri
amari.
Penserò solo a vivere, penserò a vivere anche questo
con il sorriso, perché fa parte della vita, perché ha riempito il mio cuore.
primipiani
OCCA2005
grande che qualcuno fosse
arrivato a trovarli, ma quegli occhi cambiavano ancora, l’illusione spegneva la
speranza, la delusione tornava padrona dei loro occhi.
Cercavo la persona che mi
avrebbe ricevuto, chiesi
dove fosse la stanza, andai
al terzo piano dove si trovava la camera, non la trovai,
ma non mi persi d’animo,
l’avrei cercata fino a trovarla.
Camminavo veloce, il nervosismo la faceva da padrone,
non trovavo la persona che
cercavo, camminavo e camminavo, la confusione si era
impadronita di me, presi
una strada a caso, e arrivai
al secondo piano.
Camminavo, cercando di
mantenere un atteggiamento rilassato, ma dentro non
stavo bene, non mi pensavo
così debole, eppure più mi
guardavo intorno più dentro di me si facevano strada
domande molto pesanti, domande che trovavano risposte chiare, la pesantezza della realtà, l’aver visto alcune
cose con i miei occhi.
Arrivato al secondo piano,
seguivo con l’orecchio le
onde sonore, c’era una festa,
qui il clima era rilassato, si
cantava, si ballava, anziani
seduti a seguire l’orchestrina di musica, musica antica, canzoni molto datate,
una bella atmosfera, per
qualche attimo qualche sensazione era cambiata, respirai a pieni polmoni l’aria festosa, allegra di quel piano.
Tanti anziani mi guardavano attentamente: pur giovane e sconosciuto ero quasi
una sorpresa, mi salutavano tutti, erano gentili, i loro
sguardi risultavano sinceri,
forse mi guardano e si rivedono ventenni, pieni di forza, pieni di voglia di vivere.
Mi guardavo intorno, e finalmente trovai la persona
che stavo cercando, mi misi
accanto in maniera molto
cauta, è stato un bel momento, la mia visita aveva
suscitato grande gioia, ed io
l’avevo capito.
Parliamo per una buona
oretta, cerco di rilassarmi,
ma le domande nella mia
ATTUALITÀ
7
ATTUALITÀ
Usa
la versione
«latinos»
dell’inno
Nepal
il parlamento
finalmente
e la costituente
Francia
le chiese e
la legge
sugli immigrati
Titolo dell’album musicale:
«Somos americanos» (Siamo
americani); cantautori: tra i
nomi più famosi; testi controversi: soprattutto la versione
spagnola dell’inno nazionale
statunitense ribattezzato
«Nuestro Himno» (Nostro
Inno). Il produttore dell’album Adam Kidrom dichiara
di averlo fatto in solidarietà
con gli 11 milioni di immigrati negli States e contro il progetto di legge sui clandestini,
vivamente contestato anche
da molti americani. Ma il presidente Bush, nel corso di una
conferenza-stampa tenuta su
internet il 28 aprile, interrogato in merito, taglia corto:
«L’inno nazionale dev’essere
cantato in Inglese. Chi vuol
diventare cittadino di questo
Paese deve imparare l’Inglese». Intanto il 1° maggio è la
«giornata senza i “latinos”»:
dopo due giorni di mobilitazione nelle strade, essi hanno
deciso di non lavorare, di non
consumare, di non mandare i
ragazzi a scuola. Intendono
mostrare il loro peso economico. Visto che non vogliono
contaminazioni linguistiche,
come mai gli americani accettano la «contaminazione economica»?
Dopo 19 giorni di scioperi e
di manifestazioni, il re del
Nepal Gyanendra ha annunciato il 21 aprile il ristabilimento del Parlamento che
egli aveva sciolto nel maggio
del 2002.
La guerriglia maoista, che si
era associata alla protesta, ha
deciso una tregua dei combattimenti e lo spostamento
dei blocchi nelle città, visto
che l’opposizione manteneva l’impegno a formare
un’Assemblea costituente, richiesta-chiave. Il re, su proposta dei sette partiti d’ opposizione, ha nominato Girija Prasad Koirala capo del
Partito del Congresso, primo
ministro del governo interinario. Si avvia, forse, a soluzione il disastroso periodo
trascorso, da quando Gyananendra, dopo lo sterminio
della famiglia reale del 2001,
era salito al trono e, incapace di domare l’opposizione
antimonarchica e la guerriglia maoista, aveva imposto
da un anno lo stato di emergenza, sospendendo i diritti
fondamentali dei cittadini.
Com’è noto, il Paese versa in
condizioni di estrema arretratezza.
Il Consiglio delle Chiese cristiane di Francia ha rivolto il
25 aprile un messaggio al primo ministro Dominique de
Vallepin, riguardo al progetto
di legge sugli immigrati, presentato all’Assemblea nazionale da Nicolas Sarkozy. I firmatari (mons. Jean-Pierre Ricard per i cattolici, il pastore
Jean-Arnold de Clermont per
i protestanti, e mons. Emmanuel per gli ortodossi) dichiarano la loro profonda inquietudine per le misure restrittive contenute nel progetto di
legge, paventano «serie conseguenze sulla sorte riservata a
tanti uomini e a tante donne
in una situazione di fragilità».
Non diminuiranno le persone
senza documenti perché il progetto contiene norme che restringono ancora la possibilità di regolarizzazione, lasciandole nella precarietà amministrativa e sociale. Il pastore de
Clermont, ricevuto da Sarkozy,
ha insistito sulla necessità di
ripensare la politica dell’immigrazione. A sua volta il ministro ha proposto l’istituzione di
una commissione di riflessione ininterrotta sulla linea francese dell’immigrazione. I firmatari del messaggio attendono una verifica.
Pechino
nominato vescovo «patriottico»
ROCCA 15 MAGGIO 2006
La decisione della chiesa cattolica patriottica cinese, dipendente
dal governo di Pechino (nella foto un battesimo di detta chiesa) di
nominare vescovo di Kunming (Yunnan) il quarantenne prelato
Ma Yinglin, senza consultare la Santa Sede, ha colto di sorpresa i
tessitori di un negoziato tra Vaticano e Repubblica popolare cinese, negoziato che sembrava giunto a buon punto. Apparentemente nessuna infrazione protocollare perché i rapporti tra i due Stati
risultano interrotti dal 1951, ma sotto il profilo politico-religioso
si tratta di un fatto preoccupante. «Un sabotaggio», lo ha definito
senza mezzi termini il cardinale di Hong Kong Joseph Zen, secondo cui Pechino avrebbe dovuto scegliere il vescovo tra la rosa di
nomi indicati dalla Santa Sede. Il Vaticano, in compenso, avrebbe
sospeso le relazioni con Taiwan. Anche il viaggio del Papa in Cina
sembra ora compromesso. Ma non è detto, sostengono gli osservatori internazionali. È un momento in cui nella società cinese
tutto evolve, fattore religioso compreso.
8
notizie
seminari
&
convegni
Trento.Un servizio di consulenza pedagogica viene proposto ai genitori di bambini con
problemi di udito, di vista e di
linguaggio. Si tratta di un corso per corrispondenza che intende sostenere concretamente i genitori che hanno difficoltà o dubbi nella crescita quotidiana dei loro piccoli, riprendendo il metodo di Geneviève
Painter. Informazioni: Servizio
consulenza, cas. postale 601 38100 Trento, tel. 0461 8286
93; e-mail: [email protected].
Sardegna. La Regione Sardegna, per la prima volta nella
storia della sua autonomia, ha
adottato in via sperimentale
una propria lingua per la stesura di alcuni atti e documenti
ufficiali. «Sa limba sarda»,
una varietà linguistica sarda
parlata nelle aree centrali della Sardegna, viene concepita
come una «lingua bandiera»,
uno strumento di protezione
dell’identità collettiva, punto
di mediazione tra le parlate
più comuni. Resta invariato il
valore legale esclusivo degli
atti nel testo redatto in lingua
italiana.
18 maggio-9 giugno. Venezia. Nella Chiesa di san Barnaba mostra «La creazione
del mondo» nella quale sono
esposte opere realizzate da
giovani artisti degli atenei veneziani. È promossa dal gruppo «Arte e spiritualità» della
pastorale universitaria.
20, 27 maggio; 3, 10 giugno.
Bari. Ciclo di incontri sulla
Costituzione al foyer del Petruzzelli, organizzato dall’Editore Laterza, la Fondazione
Petruzzelli e la direzione Beni
Culturali di Puglia. Iniziati il 13
maggio, proseguono con Valerio Onida(20 maggio), Fernanda Contri (27 maggio), Franco
Casavola (3 giugno), Carmela
De Caro (10 giugno). Informazioni: Libreria Laterza.
22-23 maggio. Modica. Seminario teologico-filosofico
nel centenario della nascita di
Dietrich Bonhoeffer sul tema:
«Attualità di Bonhoeffer?».
Relazioni di Giuseppe Ruggieri e Giovanni Ferretti. Ore
19, 30 Domus Sancti Petri.
25 maggio. Napoli. Rassegna
musicale «Una canzone di
pace» al Cinema-teatro Corso.
Sono ammessi gruppi musicali o singoli musicisti che presentino un pezzo originale,
musica e testo, inerente i temi
della pace e della nonviolenza. Tema di quest’anno: «Acqua: bisogno o diritto dell’umanità?» Informazioni:
Scuola di pace Onlus, tel: 081
737 3462; 081 736 4980; email: [email protected].
28 maggio. Magnano (Bi).
Incontro al Monastero di Bose
con l’abate André Louf sul
tema: «La paternità spirituale». Informazioni: tel. 015 679
185; e-mail: ospiti@monastero
dibose.it.
1-4 giugno. Camaldoli (Ar).
Sul tema «La conoscenza di
Dio nell’Islam» incontro di
Pentecoste in dialogo con le
fedi viventi. Informazioni:
Foresteria del Monastero camaldolese, tel.0575 556 001; email: [email protected]
5 giugno. Torino. L’Associazione «Amici di Lazzaro» indice un incontro alle ore 19
per programmare le attività
estive, in particolare animazione ninori, campi in Italia e
all’estero. Informazioni: Centro Servizi, via Toselli, 1 –Torino.
5-9 giugno. Assisi. Giornate
di spiritualità alla Cittadella
sulla prima Lettera ai Corinti, per presbiteri, diaconi, laici, suore col tema:»Nascita e
crescita nel conflitto della comunità cristiana». Relatore p.
Giancarlo Bruni, servo di santa Maria e fratello della Comunità di Bose. Informazioni: Cittadella cristiana convegni, via Ancajani 3, 06081 Assisi, tel. 075 813231, e-mail:
[email protected].
9 giugno. Badia Fiesolana
(Fi). Incontro nella Sala Capitolare con Enrico Letta sul
tema: «L’allargamento dell’Europa tra mercato e valori». Informazioni: Fondazione Balducci, via dei Roccettini 1, 50016 San Domenico di
Fiesole, tel. 055 599 240, email fondazionebalducci
@virgilio.it.
20-23 giugno. Ziano Piacentino (Pc). Corso di cetra per
la liturgia, con possibilità di
soggiorno al Centro «La vite
e i tralci», organizzato da «Il
mondo della cetra». Informazioni: tel. 338 7045 235.
21-22 giugno Salisburgo
(Austria). Convegno internazionale sulla digitalizzazione
del patrimonio culturale europeo, organizzato dal Salzburg
Research. Il convegno prenderà in esame la raccolta, la conservazione, la messa in rete del
patrimonio culturale e dell’informazione scientifica euro-
pei. Informazioni: http://
dhc2006salzburgresearch.at/
%20/RMK.
25 giugno-1° luglio. Maguzzano (Bs). Ritiro spirituale
con fr. Arturo Paoli e d. Carlo
Molari sul tema: «Incarnazione: criterio di verità. Riflessioni sulla prima lettera di Giovanni»: Informazioni: Abbazia, tel. 030 9130182.
26-30 giugno. Rho (Mi).
Settimana biblica per sacerdoti e diaconi sul Libro di
Giobbe, condotto da d. Luca
Mazzinghi e sr. Nuria Calduch Beneges, organizzata
dall’Associazione Biblica
Italiana. Informazioni: p.
Barbieri, tel. 02 93 2080;
e-mail:[email protected].
17-26 luglio. Fove St. Marcel (Ao). Corso di iconografia bizantina all’eremo di
Fove con Luisa Sesino, organizzato a cura del Forum permanente di iconografia. Informazioni:
[email protected].
22 luglio-1 agosto. Selva di
Valgardena (Bz). Corso per
giovani (universitari e lavoratori) sul tema: «Giovani di
fronte alla vita: vivere e scegliere». Proposta in particolare per
‘i maturati 2006’. La animano
i padri F. Clerici, B. Lavelli, M.
Teani S.J. Informazioni: Segreteria P. San Fedele 4, 20121
Milano, tel. 02 8635 2285; email: [email protected]. Sede del
Corso: Villa capriolo, Plan da
teja, 72-39048 Selva V al Gardena (Bz).
28-29 luglio Monte Giove
(An). Incontro all’eremo sul
tema: «La Parola e il silenzio
tra Occidente e Oriente» . Relatori: A. Chieregatti, A. Andreini, B. Cozzarini, F. Battistutta, F. Ferrario. G. Fazon, M.
Falà, S. Frigerio, S. Piano. Informazioni: cell. 349 4327 149,
tel. 0721 8094 96 0721 776 153;
Eremo: 0721 864 603.
ROCCA 15 MAGGIO 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
9
10
Papa Ratzinger forse intende
dare una svolta al dialogo con
l’Islam. Nell’attuale pluralismo
religioso, studiato da insigni
teologi e fatto oggetto di un particolare documento dal Concilio Vaticano II (Nostra Aetate),
il dialogo appare chiaramente
una scelta obbligata. Quale dialogo? Nel ventaglio delle sue
espressioni e nei vari suoi livelli, la Chiesa cattolica lo ha ritenuto ineludibile. Tuttavia,
stando alle notizie del quotidiano La Repubblica (29 aprile),
c’è una accentuazione impressa da Bendetto XVI: il confronto con il variegato mondo islamico, prima che essere teologico in senso proprio, dovrà
tenersi – secondo quanto proposto dal Papa – sulla concezione della società e dei diritti
umani, vertere intorno alla dimensione politica e sociale. Il
giornalista Politi parla di un
seminario svoltosi nello scorso settembre a Castel Gandolfo, guidato dallo stesso Papa,
nel quale i temi ricorrenti sono
stati «la difficoltà dell’Islam di
vivere in una società secolarizzata» e la problematica religione-stato. È noto che il cristianesimo è per la distinzione tra
Cesare e Dio, la religione islamica invece tende a integrare
sotto la legge del Corano tutti
gli elementi della vita sociale.
Conclude l’islamologo Samir
Khalil Samir presente al dibattito: «L’idea essenziale è che il
dialogo con l’Islam e con le altre religioni non può essere un
dialogo teologico o religioso,
se non in senso largo di valori
morali. Deve invece essere un
dialogo di culture e civiltà».
Un rafforzamento di tale tesi
si può ritrovare nel fatto che e
all’incontro di Castel Gandolfo non c’è stato monsignor
Michael Fitzgerard, già presidente del Pontificio Consiglio
per il dialogo interreligioso, organismo recentemente accorpato al Dicastero della cultura.
Il 25 aprile è stata presentata alla Commissione Sviluppo del Parlamento Europeo
di Bruxelles lo status del
commercio equo e solidale.
Situazione in crescita, anzi
di un vero balzo in avanti in
quanto si superano le due
cifre in percentuale per vari
prodotti: il 47% del mercato
di banane in Svizzera, il 20%
del mercato del caffè in
Gran Bretagna, con punte
complessive del 74% in
Francia. Il commercio equo
consiste nel pagare in anticipo e più cara la materia
prima a cooperative di produttori aiutandoli a diventare autonomi. Si è rivelato
uno strumento idoneo alla
lotta contro la povertà, anche se resta marginale perché attualmente rappresenta solo lo 0,01% del commercio mondiale. In Europa le
vendite sono aumentate del
20% all’anno. Nel 2005 gli
alimenti o gli oggetti di artigianato sono stati venduti
in 79.000 punti-vendite per
un valore commerciale di
660 milioni di euro contro i
260 milioni dell’anno 2000.
Ci sono fondamentali regole da rispettare: Sollecitare i
produttori economicamente
sfavoriti; rendere trasparente la gestione e le relazioni
commerciali; sviluppare l’indipendenza dei produttori;
pagare un «giusto prezzo»;
remunerare le donne; assicurare buone condizioni di
lavoro; rispettare l’ambiente.
Ma i consumatori e soprattutto le imprese del settore,
di fronte alla crescita impressionante del fenomeno,
reclamano regole più precise e comuni. L’andata a Bruxelles su iniziativa del parlamentare verde Frithiof
Schmidt e dell’italiana Luisa Morgantini è stata quanto mai opportuna in quanto
prelude a una presa di posizione dell’Unione Europea.
Corea del Sud
primo ministro
questa volta
donna
È Han Myeong Sook la prima donna a conquistare nella Corea del Sud la carica di
primo ministro. Il Presidente che l’ha nominata ha sfidato l’Assemblea nazionale
finora sempre oppostasi alle
candidature «in rosa». Sessantadue anni, avvocato ed
ex attivista del Movimento
democratico, la signora Han
ha sofferto il carcere sotto la
dittatura di Park Chung-hee
ed è nota per il suo impegno
nell’ambito della emancipazione femminile. La situazione governativa interna
non è facile, anche se, dopo
un ennesimo scandalo economico, maggioranza e opposizione insieme con le forze imprenditoriali hanno firmato lo scorso anno il «Patto per una società trasparente» che impone severe sanzioni per contrastare la corruzione. Il compito del primo ministro non sarà comunque facile anche perché,
quanto a modernizzazione,
solo molto lentamente evolve la società civile sudcoreana (le donne che hanno cariche politiche sono meno
del 4%).
della quindicina
Bruxelles
commercio
equo, balzo
in avanti
il meglio
Religioni
il Papa
e il dialogo
con l’Islam
vignette
ATTUALITÀ
da IL MANIFESTO, 25 aprile
da IL CORRIERE DELLA SERA, 27 aprile
da IL CORRIERE DELLA SERA, 28 aprile
da LA REPUBBLICA, 28 aprile
da IL MANIFESTO, 28 aprile
da IL CORRIERE DELLA SERA, 29 aprile
da IL CORRIERE DELLA SERA, 29 aprile
da IL FOGLIO, 30 aprile
ROCCA 15 MAGGIO 2006
ROCCA 15 MAGGIO 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
11
4° convegno Terza Età
14-17 maggio
la tregua istituzionale
padri e figli … nel fluire delle generazioni
“Proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato e il germoglio che hai coltivato” (Salmo 80, 16)
i relatori: Rosella DE LEONIBUS, psicoterapeuta; Tonio DELL’OLIO, teologo; Roberto SEGATORI, sociologo; Tullio SEPPILLI,
antropologo
giornate di spiritualità per presbiteri, diaconi, laici, suore
5-9 giugno
nascita e crescita nel conflitto della comunità
cristiana
con Giancarlo BRUNI, servo di santa Maria e fratello della comunità di Bose
Il rapporto cultura-vangelo, è un tema che Paolo interpreta in maniera tutt’altro che apologetica e manichea: di qua la
Chiesa fedele all’annuncio, di là il mondo infedele all’annuncio…
La chiesa di Dio che è in Corinto è la fotografia del rapporto conflittuale sempre attuale, in cui è in gioco la verità della
relazione con Dio, con l’altro, con il proprio corpo e con la propria morte. Una fotografia che ci riguarda da vicino.
lunedì 5
ore 18,30
introduzione alle giornate – liturgia eucaristica
martedì 6, mercoledì 7 e giovedì 8
ore 9,00
preghiera di lodi e 1a meditazione
11.30
liturgia eucaristica
16,00
2a meditazione
19,15
canto dei vespri
venerdì 9
ore 9,00
12,00
meditazione
liturgia eucaristica
64° corso internazionale di Studi cristiani
20-25 agosto
senza i sandali dell’identità ?
“Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero…” (Gal 3, 28-29)
alcune tematiche: paradossi e contraddizioni dell’identità - se l’identità cammina con la storia-nelle derive integraliste…
vivere la laicità - culture e religioni: il meticciato, una sfida ineludibile? - crescere con le differenze - l’identità feriale - le
identità negate interpellano la politica - a piedi nudi…consegnarsi all’uomo, consegnarsi a Dio
hanno già assicurato la loro partecipazione: Corrado AUGIAS, giornalista Rai-TV, scrittore; Nacera BENALI, giornalista
algerina; Eugenio BORGNA, psichiatra; Enzo BIANCHI, priore della comunità ecumenica di Bose; Roberto CARUSI, regista teatrale; Tonio DELL’OLIO, di Libera International; Rosino GIBELLINI, teologo; Sergio GIVONE, filosofo; Kossi KOMLAEBRI, scrittore migrante; Raniero LA VALLE, giornalista; Giannino PIANA, teologo morale; Renzo SALVI, capoprogetto Rai
Educational, Lilia SEBASTIANI, teologa; Rosanna VIRGILI, biblista
videointervista a Raim o- n PANIKKAR, scrittore, interprete dialogo interculturale
informazioni - iscrizioni:
Cittadella Cristiana - sezione Convegni - via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG –
internet: www.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected]
Raniero
La Valle
opo aver promesso agli italiani il
paradiso (fiscale) e un futuro di
grandi opere, la Casa delle Libertà, sconfitta dal voto, vuole ora che
nessuna opera si compia e minaccia un inferno per tutta la legislatura (che per questo vorrebbe brevissima).
L’idea di Berlusconi è che «la sinistra», la quale
neanche dovrebbe esistere, attraverso l’espediente delle elezioni gli ha usurpato il potere
del Paese, e dunque che bisogna impedirle di
esercitarlo, in attesa che esso torni nelle sue
mani. Quanto alla macchina delle istituzioni, che nello Stato moderno dovrebbe continuare a funzionare pur nell’alternarsi delle
fortune politiche, essa può essere fatta a pezzi per essere poi restaurata quando il sovrano deposto avrà riconquistato il potere.
Al Senato si doveva impedire di eleggere il
suo Presidente, o se ne dovevano procrastinare il più possibile i tempi, in modo da interdire al Presidente della Repubblica di dare
l’incarico al nuovo Premier. Ciò è stato definito da Cossiga in aula, come uno «staticidio», che sarebbe la distruzione dello Stato.
Mancato questo obiettivo, Berlusconi ha
posto nuovi ostacoli all’ascesa di Prodi a
Palazzo Chigi, e in ogni caso ha cercato di
neutralizzarla pretendendo l’elezione al Quirinale di Gianni Letta o di un altro dignitario della sua corte; se questo non avverrà, ha
minacciato una «opposizione dura, assoluta e totale in tutte le situazioni»: «non solo
nelle aule ma globale», il che sembra voler
dire a furor di popolo. Qualche giorno prima, da una riunione con i suoi alleati, in cui
si era giurata guerra all’ipotesi di D’Alema
Capo dello Stato, era venuta fuori l’istigazione a tirare bulloni per le strade.
Berlusconi ha l’arte della comunicazione e
parla in modo immaginifico; ma anche quelli
che parlano in modo più piatto, e sono detti
moderati, enunciano la stessa cultura. Nel
solito salotto di «Porta a porta», mentre era
ancora Presidente della Camera, Casini, annunciando ai suoi avversari una opposizione intransigente e «senza sconti», ha affermato che, proprio per fedeltà ai suoi elettori, è dovere assoluto della minoranza parlamentare cercare in ogni momento di far cadere il governo. Ciò era detto come un «a
priori», come una teoria, a prescindere da
come fosse od operasse il governo, tanto è
vero che il governo da far cadere non era
D
ancora nemmeno costituito. Si potrebbe osservare che la nuova Costituzione voluta
dalla destra e che Casini ha portato alla doppia approvazione a Montecitorio, renderebbe impossibile questa ipotesi. Essa infatti,
facendo del Primo Ministro il padrone assoluto della Camera fino al punto di poterla
sciogliere se non gli vota la fiducia, escluderebbe per sempre che l’opposizione possa far
cadere il governo. Ma a parte questa incoerenza, c’è da dire che dovere e compito dell’opposizione non è in via di principio quello di abbattere il governo; è quello di controllarlo, vigilarlo, redarguirlo, stimolarlo e
se del caso anche farlo cadere, ma non è affatto quello di impedire in ogni caso al governo di governare. Questa è una concezione patologica della democrazia che la assimila alla figura della guerra tra nemici e nega
alla radice l’unità nazionale.
Per ristabilire una normalità democratica,
ci vorrebbe ora una tregua istituzionale, che
non vuol dire affatto una «grande coalizione», ma che ciascuna parte consenta all’altra di adempiere al suo ruolo. Con una destra tutta in mano a Berlusconi questo non
è possibile. Essa ha perduto la sua autonomia e viene schiacciata su una linea di sovversivismo dall’alto che può non essere la sua.
Ci fu un’altra occasione in cui all’Italia servì
una tregua tra le parti, e fu quando nell’aprile 1946 a Bari i partiti antifascisti stabilirono una tregua istituzionale con la Corona,
in vista dell’obiettivo prioritario della liberazione del Paese e dell’instaurazione della
democrazia. Ma quella tregua fu possibile
perché il re Vittorio Emanuele III, che rappresentava il massimo segno di contraddizione, accettò di farsi da parte impegnandosi «irrevocabilmente» a ritirarsi a vita privata al momento della liberazione di Roma.
Ciò aprì la strada alla partecipazione dei
partiti al governo Badoglio e poi al referendum istituzionale e alla Costituente.
Le circostanze sono oggi molto diverse e per
fortuna meno drammatiche, ma anche adesso l’ostacolo all’inizio di una nuova fase e al
ripristino di una normale vita istituzionale è
costituito da un uomo nel quale hanno finito per concentrarsi ed esasperarsi tutte le
contraddizioni e i pericoli della Repubblica.
Riconoscere che il proprio ciclo è venuto alla
fine è quanto Berlusconi ancora potrebbe
fare per il Paese, e per la stessa destra che
egli ha sdoganato e portato al potere.
❑
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ROCCA 15 MAGGIO 2006
cittadella convegni
RESISTENZA E PACE
repressione
prima
democrazia poi
P
OCCA 15 MAGGIO 2006
Maurizio
Salvi
er quanti sforzi faccia, il vecchio
Rais Hosni Mubarak non riesce proprio a portare l’Egitto fuori dalle
acque rese turbolente dal terrorismo, come hanno dimostrato ancora una volta gli attentati suicidi che
il 24 aprile hanno causato nella sperduta località di Dahab, sulle rive del Mar
Rosso nel Sinai, 18 morti. Questo brutale attacco era stato preceduto di una decina di giorni da preoccupanti scontri di
matrice religiosa fra aderenti alla chiesa
Copta e musulmani ad Alessandria con
tanto di assalti a chiese; e seguito a solo
48 ore di distanza da altre operazioni
suicide nel nord del Sinai, senza per fortuna vittime fatali. Così Mubarak, che
aveva pensato di festeggiare l’1 maggio
unicamente con l’annuncio dei progressi economici raggiunti dall’Egitto grazie
alla sua gestione, ha dovuto far seguire
alle statistiche accuratamente scelte un
duro monito sull’ordine pubblico, accompagnato da una nuova proroga dello
stato di emergenza in vigore dal 1981,
anno dell’assassinio di Anwar el Sadat.
Nel discorso alla nazione già preparato,
il capo dello stato sosteneva che finalmente il paese sta cogliendo i frutti della
politica economica elaborata dal governo, con un attivo, per la prima volta nella storia, della bilancia commerciale, aumento delle riserve in valuta della Banca centrale e una lodevole stabilità dei
prezzi delle azioni quotate in Borsa. Il
tutto riassunto da una significativa crescita del 6,1% del Prodotto interno lordo (Pil) nel secondo quadrimestre dell’anno fiscale 2005-2006.
un duro avvertimento
Ma la strage di Dahab lo ha costretto a
correggere il copione in corsa, e ciò ha
rapidamente trasformata la celebrazione in un atto politico in cui il 77/enne
presidente al potere da 25 anni ha formulato un duro avvertimento ad un purtroppo ancora troppo vago responsabile
degli atti terroristici che hanno nuova-
mente colpito l’Egitto.
Vale la pena esaminare vari passaggi di
quel testo, perché in essi vi è la conferma della mancanza di un riferimento
concreto, di un vero e proprio identikit
del nemico da battere: «Vinceremo la
battaglia contro il terrorismo, lo isoleremo, sradicheremo le sue radici e faremo
seccare le sue fonti», ha assicurato al riguardo, aggiungendo subito dopo: «Reagiremo all’integralismo con la forza e la
fermezza della legge», anche se «siamo
colpiti da un terrorismo cieco dai cui pericoli nessuno è immune». «Siamo presi
di mira da forze del fanatismo, dell’estremismo e dell’integralismo – ha insistito
– che tentano di danneggiare l’unità del
popolo d’Egitto e che diffonde tra i nostri giovani idee estranee che attizzano
il fuoco della sedizione tra copti e musulmani allo scopo di danneggiare la stabilità del nostro paese». Tale stabilità, ha
concluso, «è un obiettivo comune per
tutti noi e costituisce una linea rossa che
non permetterò che sia superata».
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ROCCA 15 MAGGIO 2006
EGITTO
pesante mano sull’opposizione
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Ma non è purtroppo tutto. Di fronte a
questo risultato, il Segretario di Stato
Condoleezza Rice ha diplomaticamente
detto che la trasformazione di un sistema unipartitico in una democrazia è in
effetti «un processo che richiede tempo».
E anche silenzio, se si pensa che ben poco
è stato ufficialmente detto a Washington
sulla repressione sviluppatasi in Egitto
dopo il voto nei confronti di coloro che
avevano tentato di sbarrare la strada al
Pnd. Il settimanale Newsweek (8 maggio
2006) si è così incaricato di ricordare che
Ayman Nour, il giovane leader fondatore
del partito al-Ghad (Domani) che nelle
presidenziali ottenne il secondo posto
16
con il 7% dei consensi, è stato arrestato
e sbattuto in carcere in dicembre con l’accusa di aver falsificato le firme per registrare il suo gruppo politico. Un tribunale lo ha rapidamente condannato a cinque anni di prigione in primo grado. La
mano del Ministero dell’Interno egiziano non è stata più leggera con l’opposizione parlamentare. I Fratelli Musulmani, fra mille difficoltà, sono riusciti a raccogliere 88 seggi in Parlamento avviando subito una serie di minuziose denunce riguardanti ad esempio il tentativo del
governo di coprire i casi di aviaria registrati nel paese e le responsabilità dell’armatore del traghetto affondato nel
Mar Rosso. Forse anche per questo decine di militanti dei movimento sono stati
arrestati. Ma i vertici hanno mantenuto
il sangue freddo ed hanno continuato per
la loro strada prendendo le distanze dalle dichiarazioni del presidente iraniano
Mahmoud Ahmadinejad sull’Olocausto,
e sentenziato a sorpresa, attraverso un
autorevole membro della direzione del
partito (Abdel Monem Abul Fotouh) che
ha spiazzato molti, che «l’essenza della
Sharia (Legge islamica, da gruppi musulmani utilizzata per giustificare gli attentati) è la lotta alla corruzione e l’impegno per l’introduzione della giustizia sociale».
E così, mentre Mubarak non sembra avere altri progetti in programma che l’introduzione di uno stato di polizia per
sconfiggere il terrorismo, l’ong umanitaria Human Rights Watch denuncia la presenza nelle carceri egiziane di migliaia
di oppositori senza processo (fino a
15.000 secondo altre organizzazioni), e
George Ishaq, coordinatore del movimento Kifaya (Basta), che ha organizzato decine di manifestazioni di piazza contro il governo, commenta amaramente
che dopo la vittoria di Hamas in Palestina e la crescita dei Fratelli Musulmani
in Egitto, «gli Usa preferiscono la stabilità alla democrazia», contribuendo anche loro a ritardare le riforme reclamate
dalla società civile.
Qualcuno va anche più in là, ipotizzando che il Ministero dell’Interno abbia
consacrato molte risorse finanziarie alla
repressione degli attivisti dell’opposizione legale, abbassando la guardia nei confronti di presunti terroristi che si sarebbero ora rintanati nel Sinai.
Maurizio Salvi
OLTRE LA CRONACA
che ci stiamo a fare?
Romolo
Menighetti
he ci stanno a fare i nostri soldati
in Iraq? La domanda si impone
dopo che altri tre dei nostri, assieme ad un rumeno, sono stati uccisi
a Nassiriya.
Si risponde: sono in missione di pace.
Però questo abbarbicarsi dei nostri politici e
comandi militari attorno alla finzione mentale della pace mentre in realtà c’è guerra guerreggiata, ci sta costando caro. Infatti, il nostro contingente solo in parte, e tardivamente, è stato dotato degli armamenti adeguati
alla situazione (carri armati, elicotteri «Mangusta»). In tal modo lo si è reso, e in parte lo
è ancora, pericolosamente vulnerabile.
Molti morti sono dunque da addebitarsi all’ipocrisia di chi si è ostinato e si ostina, per
aggirare l’articolo 11 della Costituzione che
ci vieta i conflitti d’offesa, a considerare di
pace una missione di guerra.
Ma riproponiamoci la domanda iniziale collocandoci ad un più alto livello di considerazioni.
Noi siamo andati in Iraq al seguito della decisione unilaterale degli Stati Uniti di Bush
di invadere quel paese (cui solo successivamente l’Onu si accodò). Perciò, indipendentemente dalle buone intenzioni e dalla generosità dei nostri militari sul campo, la scelta
è stata politica, di sudditanza verso un alleato potente, per offrirgli l’opportunità di poter dire di fronte alla comunità mondiale di
non essere solo in questa dissennata impresa. Naturalmente da parte del governo Berlusconi c’era anche la speranza di avere una
qualche parte nella spartizione dei benefici
connessi alla ricostruzione, più il ritorno di
qualche successo di immagine (week-end nel
ranch texano, qualche presidenziale pacca
sulle spalle, un discorso al Congresso Usa).
Dunque una scelta di convenienza politica
ed economica, scelta che però non pare abbia reso granché. Secondo dati di qualche
tempo fa del Center for Public Integrity (un
gruppo con base a Washington che valuta
l’eticità dei comportamenti dell’amministrazione statunitense) i principali beneficiari
della ricostruzione in Iraq e in Afghanistan
sarebbero una settantina di aziende che hanno donato più di mezzo milione di dollari
per la campagna elettorale di Bush. Circa un
C
nostro maggior prestigio e peso a livello
internazionale, l’ex premier ha rimediato, poi, solo qualche riconoscimento di circostanza. Nessun appoggio all’Italia per
il seggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu,
nessun nostro coinvolgimento quando i
«grandi» si riuniscono per prendere le decisioni che contano.
Ritorna perciò la domanda: che ci stiamo a
fare? Tanto più che ormai anche da parte
statunitense e britannica è stato dimostrato quanto fosse falso il presupposto che offrì l’alibi per l’aggressione (gli arsenali chimici ed atomici di Saddam). Tanto più che
non regge la giustificazione della liberazione del popolo iracheno da un tiranno sanguinario, dal momento che quello stesso
tiranno venne dagli Stati Uniti qualche anno
prima fornito d’armi quando faceva comodo combattesse contro gli iraniani.
Ancora, tanto più se si considera che Bush
preparò l’operazione irachena fin dal gennaio 2001, cioè appena dopo il suo insediamento alla Casa Bianca. Il neo presidente
si basò su un documento del settembre 2000
(Ricostruire le difese americane), elaborato
dal suo futuro vicepresidente Dick Cheney
e dal suo futuro ministro della difesa Donald Rumsfeld, assieme ad altri che avrebbero di lì a poco occupato altri importanti
posti nella sua amministrazione (J. Bolsche,
Der Spiegel, riportato da Internazionale del
21 marzo 2003). Il progetto prevede il dominio statunitense sulla cosiddetta heartland, le aree mediorientali più ricche di
petrolio, in previsione del proprio fabbisogno futuro, considerando da un lato il lento esaurirsi delle riserve mondiali, e dall’altro la crescente domanda di «oro nero» di
nazioni emergenti quali India e Cina.
Che ci stiamo allora a fare in Iraq, considerando anche che i nostri soldati non possono dare un grande aiuto alla popolazione
civile, essendo costretti, per motivi di sicurezza, a restare confinati nelle caserme fortificate, e potendone uscire solo entro blindati con le mitragliatrici spianate?
Una risposta accettabile può venir fuori solo
se ci poniamo quest’altra domanda: cosa
possono fare l’Italia e l’Europa per il bene
della popolazione irachena, al di là e al di
fuori degli interessi statunitensi?
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17
ROCCA 15 MAGGIO 2006
EGITTO
E in attesa di saperne di più, le forze di
sicurezza hanno continuato le retate, cominciate dopo gli attentati di Taba (2004)
e Sharm el-Sheik (2005), di beduini nel
Sinai appartenenti a sconosciutissimi
movimenti e comunque considerati responsabili degli attentati, mentre il governo ha proposto, ed il Parlamento rapidamente approvato, una nuova proroga di due anni dello stato di emergenza.
A quanto pare Mubarak ha preso a malincuore questa decisione, perché aveva
allo studio da tempo l’invio al potere legislativo di una articolata Legge antiterrorismo, nello stile di quelle apprezzate
alla Casa Bianca. Su questa strada non è
un mistero che lo aveva spinto lo stesso
presidente George W. Bush, il quale finanzia a diverso titolo le casse dell’Erario egiziano con 1,8 miliardi di dollari
l’anno, lo sforzo più importante fatto
dagli Stati Uniti nel mondo, dopo quello
sostenuto nei confronti di Israele.
In cambio di questa ingente somma Mubarak si è effettivamente impegnato a sostenere i desiderata statunitensi nel senso soprattutto di provare l’introduzione
di un sistema democratico articolato nell’architettura istituzionale egiziana. È
questo sforzo che ha prodotto le elezioni
presidenziali e legislative dello scorso settembre, le prime multipartitiche nella
storia del paese. Il risultato di quell’apparente esercizio di democrazia è stata
una rielezione dello stesso Rais con l’84%
(e non con il tradizionale 99%) dei voti
del passato, e dell’ottenimento da parte
del Partito nazionale democratico (Pnd)
di 324 seggi, quando nel 2000 ne aveva
ottenuti 353.
LA
BIBBIA
CIVILE
Costituzione casa comune
18
L
Non soltanto un testo, oggetto di studio
nell’ambito del diritto costituzionale: una
vita, una storia. Un punto di riferimento a
cui ricorrere soprattutto nei momenti difficili, come l’attuale... Un po’, appunto,
come una Bibbia. Anche se tutto il resto
vacilla o sembra vacillare.
al di là e al di sopra delle parti
Nei confronti della Costituzione-Bibbia
svaniscono tutte le divisioni. Anche quella fra destra e sinistra che spesso sembra
dominare, e non senza ragione, tutta la vita
democratica di tutti i paesi. Non la si nega,
ma la si riporta nel grande alveo – biblico
– della Costituzione e quindi della democrazia. È qui che tutte le posizioni, tutte le
destre e le sinistre, devono trovare casa.
Una casa con porte e finestre. Anche la
Costituzione, come la Bibbia, può e deve
essere interpretata. La cultura moderna lo
ha detto e ripetuto, da Nietzsche a Wittgenstein: non esiste conoscenza che non sia interpretazione. Perciò è legittimo, doveroso
discutere. Perciò l’importanza di tutti gli
organi e le istituzioni destinati a discutere,
come la Bibbia, anche la Costituzione. Un
testo che è aperto a tutti, una cattedra che è
anche una piazza. No al relativismo, ma
anche no al dogmatismo di una qualche dittatura che vorrebbe imporre la sua interpretazione. Ne abbiamo potuto constatare il
pericolo anche nei giorni caldi che abbiamo
attraversati da poco.
Un faticoso lavorio, dunque, di attenzione,
di ascolto, di insegnamento e anche di replica. Proprio quello che ha fatto il Presidente
Ciampi in questi anni. Proprio quello che
gli viene chiesto, con drammatica urgenza,
in questi ultimi giorni di un settennato che
ha avuto momenti drammatici, come quelli
legati alla nostra partecipazione alla guerra
in Irak o agli scandali bancari.
In questo momento non sappiamo se a
Ciampi sarà richiesta una nuova investitura e se il Presidente uscente la accetterà.
Sappiamo che chiunque salirà il fatidico
Colle dovrà avere la Costituzione come
base del sentire e dell’operare. Non un testo qualsiasi né una storia qualsiasi da ricordare. Anche a distanza di più di mezzo
secolo, l’Italia è e deve rimanere fondata
sui valori di allora, che non tramontano.
«L’Italia è una Repubblica democratica,
fondata sul lavoro… La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo…». Oggi, come il 22 dicembre 1947.
ROCCA 15 MAGGIO 2006
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Filippo
Gentiloni
a Costituzione è la mia Bibbia civile ha detto il Presidente Ciampi,
proprio nei recenti giorni caldi
delle elezioni e delle contestazioni
che le hanno seguite. Tutto è stato
discusso, detto e contraddetto, perfino i nomi della anagrafe, Franco o Francesco. Ma la Costituzione non si discute,
ha detto – gridato – Ciampi. E ha fatto riferimento al testo per eccellenza, il testo
che – unico – attraversa i nostri secoli e le
nostre culture.
Un riferimento significativo anche perché
carico di significati «civili», come, appunto, ha voluto sottolineare il Presidente.
Basti pensare a quello che ha significato
la Costituzione per il nostro paese, dal
dopo guerra a oggi.
La fine del fascismo, la Resistenza, la conquista della libertà. Il valore del lavoro.
Filippo Gentiloni
19
ECONOMIA
Prodi, l’Italia
e l’Europa
20
I
naccia di crisi finanziaria. Con l’incubo del
«default», come si dice tecnicamente, paragonando un’intera nazione a un’azienda
che può andare in fallimento.
Proprio perché ricorda tanti scenari del
passato, quello attuale può apparire un
deja vu e quasi non fare più notizia: al punto che stavolta non pare trovare molti fans
l’appello a una nuova unità nazionale (o a
una grande alleanza, o un governissimo)
sulla base dell’emergenza economica. Dal
canto loro, i principali esperti del centrosinistra, i candidati a ruoli-chiave nella
gestione della finanza pubblica, chiedono
un po’ di tempo: prima dobbiamo vedere
cosa davvero ci ha lasciato in eredità il
governo di Berlusconi, dicono. Confortati
dal fatto che lo stesso giudizio del Fondo
monetario accenna alle oscurità dei conti
italiani e alle cifre ancora non tanto chiare. Se, in presenza delle cifre ufficiali, il
deficit pubblico per quest’anno viene sti-
mato intorno al 3,8-4% del Pil, non si escludono sorprese: potrebbe salire. Oltre ai misteri svelati di Tremonti, a far salire il deficit per quest’anno e più ancora per i prossimi potrebbe essere anche l’aumento dei
tassi di interesse che la Banca centrale
europea sta intraprendendo: se aumentano i tassi, aumentano anche per lo stato,
le regioni e i comuni le spese sugli interessi del debito pubblico. Il che vuol dire che
gran parte delle risorse e delle energie a
disposizione potrebbero essere convogliate a tenere a bada il deficit: magari non
proprio verso il 3%, ormai dimenticato non
solo da noi ma anche da altri paesi europei, ma almeno sotto il 4.
Uno scenario molto negativo, per un governo che si è presentato agli elettori impegnandosi a una robusta riduzione del
peso di tasse e contributi sul lavoro, nonché a una serie di politiche sociali e per la
ricerca che richiederebbero forti investi-
menti pubblici. Se il primo governo Prodi
si caratterizzò per una politica di rigore
finanziario e per l’eurotassa – riuscendo a
centrare l’obiettivo dell’entrata nell’euro,
ma perdendone di vista altri –, il secondo
si caratterizzerebbe di nuovo per «lacrime
e sangue».
i benefici dell’euro
Nel mezzo, c’è stato il beneficio del dividendo dell’euro, ossia la riduzione generalizzata del costo del denaro che ha portato
enorme sollievo alle casse pubbliche (permettendo anche di restituire l’eurotassa).
Ma come è stato speso questo dividendo?
Sul piano della finanza pubblica, si è passati da un avanzo primario – ossia da una
situazione in cui le spese erano inferiori
alle entrate, al netto degli interessi – al disavanzo già citato. Nell’economia privata,
il minor costo del denaro ha accompagna-
ROCCA 15 MAGGIO 2006
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Roberta
Carlini
l Fondo monetario chiede una manovra economica prima dell’estate, le tre
principali agenzie internazionali di
rating hanno messo sotto osservazione il debito dell’Italia riservandosi di
cambiare il voto in pagella se non verranno introdotti prontamente dei correttivi, la Commissione europea ha rinviato a
settembre per gli esami di riparazione la
politica economica italiana, il Financial
Times prevede addirittura l’uscita dell’Italia dall’euro.
Nel lunghissimo interregno che lo separa
dall’insediamento del nuovo governo, certo la preoccupazione più pesante di Prodi
è l’economia. Oggi come nel ’96 – quando
dagli stessi ambienti internazionali era
uscito un verdetto terribile: l’Italia non
entrerà mai nell’euro –, e come nel ’93–94,
quando il paese travolto da Tangentopoli
e dalla fine della Prima repubblica si trovava continuamente alle prese con la mi-
21
alternative per ridurre il deficit
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Ma è anche vero che ogni politica profonda di riforme ha bisogno di tempo. Ad
esempio, la lotta all’evasione fiscale, presente in tutti i dibattiti elettorali, è effettivamente possibile: facendo introiettare ai
contribuenti il fatto che l’epoca dei condoni è finita, e rimettendo a posto la macchina dell’amministrazione fiscale, con i suoi
accertamenti, ispezioni, controlli, si può
riuscire a recuperare almeno una parte
delle imposte evase. Ma certo non in pochi mesi: è una politica di legislatura, che
può dare i suoi frutti in qualche anno. Così
come può dare i suoi frutti in qualche anno
una revisione della tassazione sulle rendite, quelle che vengono dai capitali finan22
ziari e quelle che vengono dalle case. Soprattutto per il caso degli immobili, il sistema delle rendite catastali negli anni ha
stratificato ingiustizie e sottovalutazioni:
ma per allinearle ai valori reali del mercato, abbassando contemporaneamente le
aliquote e differenziando tra piccoli e grandi proprietari, serve una riforma quasi epocale. Ottimisticamente, si può pensare di
farcela in una legislatura, ma non prima.
Nel frattempo, i problemi si affollano e
spingono, chiedendo soluzioni nell’arco di
settimane e non di anni. Non parliamo solo
delle compatibilità della finanza pubblica,
prima citate. Ma anche dei conti della sanità delle regioni, della sottoccupazione dei
giovani che ha diviso in due il mercato del
lavoro – chi era dentro prima dell’era della
precarietà, e chi ha iniziato a lavorare dopo
–, delle emergenze sociali che i comuni
affrontano ogni giorno. E delle imprese che
chiudono, per andare all’estero o per non
andare da nessuna parte. Il primo governo Prodi si lanciò con determinazione e
successo in una «fase 1» del risanamento,
considerato condicio sine qua non per entrare nell’euro. Ma la «fase 2», quella dello
sviluppo, non arrivò. Oggi, tutti ammettono che la politica dei due tempi non è più
praticabile, che la fase del risanamento e
quella dello sviluppo devono marciare insieme.
partire dalle riforme
Ma anche questo doppio passo sembra alquanto difficile. Un modo per cominciare
a provarlo è quello di partire da riforme
che possono dare aspettative e fiducia,
annunciando un mercato del lavoro meno
selvaggio, eliminando le forme di precariato, mettendo al primo posto la scuola e
l’università. Ma in pochi casi lo si può fare
a costo zero. Allora, se proprio di «due tempi» si deve parlare, forse stavolta la logica
economica e la strategia politica potrebbero convenire sul fatto di invertire i tempi: prima le politiche per lo sviluppo e la
sicurezza sociale, con l’avvio di quelle riforme sulle entrate che porteranno poi il
riequilibrio del deficit. Con il peso che ha
un ex presidente di Commissione – e l’aiuto di altri governi che non sono in situazioni di finanza pubblica tanto diverse dalla nostra – Prodi potrebbe concordare con
Bruxelles un programma di media scadenza: prima rimettere in piedi il malato, poi
fargli fare la dieta. Forse altri paesi europei ci seguirebbero.
terrorismo
PAROLE CHIAVE
Romolo
Menighetti
l concetto di terrorismo è ampio, fluido e controverso, tant’è che l’Onu non
è mai riuscito a trovare una definizione accettabile da tutti.
Il minimo comune denominatore può
essere individuato nel fatto che uomini armati aggrediscono deliberatamente
uomini disarmati e inermi. Deliberatamente, nel senso che si uccidono i civili in quanto civili, in quanto persone indeterminate,
al fine di spargere terrore generalizzato.
Il terrorismo può essere anche in uniforme (Napoleone e la guerriglia spagnola e
russa, Hitler e l’occupazione in Europa, i
bombardamenti di Guernica e Coventry, i
bombardamenti a tappeto degli Alleati nella Seconda guerra mondiale, le deportazioni di intere popolazioni compiute da
Stalin). Il terrorismo è qualcosa in più della
semplice violenza. Questa, infatti, presuppone solo due parti: aggressore e vittima,
mentre il terrorismo presuppone una terza parte che si vuole intimidire mostrando quel che accade alla vittima.
Gli atti terroristici più clamorosi (Due Torri, Atocha) vengono spesso configurati come
atti di guerra. Così facendo però si legittima il ragionamento inverso, cioè che gli atti
di guerra possono essere atti di terrorismo.
E infatti, come altrimenti potrebbe essere
definito un bombardamento da diecimila
metri di altezza su quartieri cittadini?
Terrorismo e guerra sono dunque realtà a
volte sovrapponibili. Il terrorismo è un metodo per governare e per espandere il potere basandosi sul terrore. Analogamente la
guerra (salvo evidenti e chiari casi di difesa) è un modo adottato dai moderni imperi
per ampliarsi o per consolidare la propria
influenza nelle provincie più irrequiete.
Anche tra terrorismo e resistenza il confine è fluido. Il terrorista per alcuni è un
combattente per la libertà, mentre secondo altri è un assassino. Tale fluidità deriva
dal fatto che il terrorismo è prima di tutto
un concetto politico e metagiuridico, e perciò influenzato da fattori storici, culturali
ed ideologici. Quasi sempre, inoltre, la differenza tra terrorista ed eroe sta nell’esito
finale delle azioni intraprese. Si può comunque dire che i resistenti, a differenza
dei terroristi, non hanno come obiettivo
intenzionale l’uccisione dei civili, ma solo
dei soldati armati.
I
Storicamente il termine terrorismo appare durante la Rivoluzione francese, quando l’ala più radicale del partito giacobino
scatenò contro gli oppositori una forte repressione, il «terrore», inteso come arma
in sé. Ma già prima della Rivoluzione non
mancavano esempi di un analogo uso della paura (la setta ebraica degli zeloti, gli
hashashiin di cui parla Marco Polo, Gengis Khan, Ivan il Terribile e altri).
In età moderna il terrore evolve, da mezzo
di controllo e dominio di un potere statale, in metodo di lotta contro lo Stato (terroristi russi contro lo Zar; anarchici; nazionalisti radicali irlandesi, macedoni, serbi, armeni).
Attualmente il terrorismo che di gran lunga occupa le cronache è quello cosiddetto
islamico radicale. Non tutti questi gruppi
però sono mossi da motivazioni religiose:
il «Fronte popolare per la liberazione della Palestina» e le «Brigate dei martiri di
Alaqsa», ad esempio, sono di matrice laica
e di sinistra.
Ma qual è la novità del terrorismo contemporaneo, quello praticato dai kamikaze che
muoiono dando la morte? È la forte carica di nichilismo che esso esprime. È l’idea
di distruggere per distruggere, è l’arrogarsi il diritto di uccidere chiunque. Si tratta
di un relativismo, non in rapporto al
«bene» ma al «male», che afferma non esistere. E allora, se il male non esiste, perché trattenersi dal compiere ciò che è considerato male? Tale cancellazione del male
sta coinvolgendo un po’ tutti, anche chi
terrorista non è, ma accetta quel che accade – le stragi dei civili, le uccisioni dei bambini – come fossero fatti di cronaca appena un po’ più clamorosi del normale.
Il terrorismo nichilista contemporaneo è
il bambino di Nietzsche, è l’adulto che si
comporta come un bambino, che crede
cioè di poter fare qualunque cosa, di andare «al di là del bene e del male», della
vita e della morte.
L’estrema pericolosità del terrorismo di
oggi sta nel fatto che esso somma lo spirito di annientamento, con la possibilità tecnologica di dare la morte assoluta. Insomma, Auschwitz più Hiroshima.
Però è suicida pensare di poter combattere il terrorismo con azioni anch’esse configurabili come terrorismo.
Roberta Carlini
23
ROCCA 15 MAGGIO 2006
ECONOMIA
to la fase più recessiva che conosciamo da
anni: contraddicendo molti testi di economia e molte speranze degli economisti, la
riduzione del costo del denaro non ha spinto le imprese a indebitarsi di più per investire. L’unico evidente risultato del basso
costo del denaro è stato il boom immobiliare, ossia la corsa delle famiglie a indebitarsi per comprare case, sia per abitazione
che per investimento. Insomma: non si è
visto un uso «produttivo» del dividendo
dell’euro, né nell’economia pubblica né in
quella privata. I benefici dell’euro, obiettivo così sudato e faticosamente raggiunto,
sono stati poi dilapidati in pochi anni.
Adesso, mentre la fase «buona» dell’euro –
quella della politica monetaria espansiva,
dei tassi bassi – si avvia a chiudere, restano in piedi tutti gli altri aspetti della costituzione economica che ci siamo dati con
l’unificazione europea: i vincoli ai bilanci
pubblici, le limitazioni all’ingresso dello stato nel capitale delle imprese (e ai loro salvataggi sotto altra forma), la deregulation.
Insomma, tra vincoli esterni – che forzano
la politica economica a occuparsi quasi
esclusivamente della riduzione del deficit
– e urgenze interne – il quadro politico, con
una maggioranza assai labile, e quello economico, con un paese che è in reale recessione –, il sentiero della politica economica del governo Prodi II è strettissimo. Le
risorse pubbliche sono poche, ma dove
spenderle? Nella riduzione di 5 punti del
«cuneo fiscale» (che dovrebbe andare nell’immediato nelle tasche dei lavoratori dipendenti e delle imprese, così come promesso in campagna elettorale) o nella riduzione del deficit, per la rassicurazione
di Standard & Poor’s? È vero che le alternative a disposizione possono essere anche altre, più fantasiose e meno drastiche.
BIOETICA
abbattere
gli steccati
L
un modello duttile di etica
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Ma, al di là del tono e dello stile, già di per sé
eloquenti, merita di essere anzitutto delineato il modello di etica al quale il Card. Martini si riferisce e che viene coerentemente
applicato ai vari temi trattati. L’attenzione
alla complessità delle situazioni umane, nelle
quali si danno spesso conflitti di valori (e di
doveri) e l’esistenza di zone grigie (o di fron24
l’incontro possibile
tra scienza e etica cristiana
in un dialogo
rispettoso e responsabile
tra il card. Carlo Maria Martini
e lo scienziato bioeticista
Ignazio Marino
di fattori di diversa natura che rinviano al
limite e alla precarietà della condizione
umana; in una parola, alla sua creaturalità.
La rigidità di alcune posizioni (anche del
mondo ecclesiastico) è espressione – sembra dire il Card. Martini – del misconoscimento di questa verità, dell’incapacità di fare
i conti non solo con la fragilità umana ma,
più radicalmente, con il mistero del male e
del peccato, che incombe sull’esistenza dell’umanità e del mondo.
tiera), in cui è difficile assumere posizioni
nette, oltre a richiedere l’assunzione di un’attitudine prudenziale, rende trasparente il
carattere essenzialmente problematico della riflessione morale ed esige, di conseguenza, che si proceda con grande equilibrio nella formulazione dei giudizi. L’etica alla quale si fa qui ricorso è dunque un’etica che non
rinuncia ad assumere come punti di riferimento imprescindibili i principi (o i valori),
ma che non esita, nello stesso tempo, a confrontarsi con le situazioni concrete alla ricerca del «bene possibile» e, qualche volta,
anche soltanto del «male minore». È un’etica impegnata a valutare, di volta in volta, le
conseguenze positive e negative delle azioni, i benefici e i rischi ad esse inerenti, non
eludendo lo sforzo della mediazione, cioè del
confronto e della compromissione con la realtà. È un’etica, infine, che ha le sue radici
in quel senso morale che ciascuno ha dentro di sé (è qui chiaramente affermata la sua
laicità), e che riceve tuttavia dalla fede un
importante sostegno per la sua crescita.
Si tratta – come è facile intuire – di un modello duttile, rigoroso nella formulazione dei
principi e tuttavia flessibile quando si procede alla loro applicazione, per la presenza
Entro questa cornice teorica vanno inserite
le indicazioni che il Card. Martini fornisce a
proposito di alcune questioni scottanti dell’etica della vita: da quelle più tradizionali,
come la contraccezione e l’aborto, a quelle
nuove legate all’enorme progresso tecnologico che si è sviluppato in campo biomedico in questi ultimi decenni – a questo ambito appartengono questioni come la fecondazione medicalmente assistita e la ricerca
sulle cellule staminali embrionali – fino a
quelle, in parte antiche e in parte nuove, relative alla fase terminale della vita.
Grande interesse ha anzitutto suscitato (anche per il rilievo che ne hanno dato i media,)
l’affermazione della possibilità del ricorso al
preservativo, come male minore, nel caso
dell’Aids. La situazione alla quale ci si riferisce è particolarmente drammatica, ma è evidente che ad essere apertamente contraddetta è l’assolutezza con cui nell’Humanae
vitae (e ancor più nell’interpretazione che di
essa ha dato Giovanni Paolo II: si veda la
Familiaris consortio) viene condannata ogni
forma di contraccezione, in quanto «intrinsecamente cattiva», negando, di conseguenza, ogni possibilità di ricorso ad essa, fosse
pure per ragioni di estrema gravità. L’am-
contraccezione e aborto
missione che è possibile fare eccezione alla
norma, sia pure in un caso ben definito –
caso a proposito del quale l’eccezione è stata peraltro apertamente sconfessata in molti interventi ufficiali – mette chiaramente in
discussione il modello etico che ispira la
posizione ufficiale della chiesa e apre, di conseguenza, la strada alla applicazione di tale
criterio anche ad altre situazioni.
Più complessa è la riflessione sul tema dell’aborto. Importante è anzitutto l’ammissione da parte del Card. Martini che la necessità di tutelare la vita umana non può andare
disgiunta dalla consapevolezza che si danno (e non sono poche) situazioni complesse, nelle quali, anziché limitarsi a ribadire
astrattamente il valore, è necessario interrogarsi su ciò che meglio consente di promuoverlo, senza dimenticare peraltro – come viene precisato – che la prosecuzione della vita
fisica non è il principio primo ed assoluto,
in quanto al di sopra di esso occorre collocare la dignità umana, che ha per il credente
la sua piena verità nella vita eterna e che riveste tuttavia, anche nel quadro di una visione laica, un alto significato.
Ma a risultare nuova (e coraggiosa) nell’intervista, accanto al riconoscimento della
necessità dell’intervento dello Stato nei confronti del fenomeno abortivo per impedire
che si affermino situazioni selvagge ed arbitrarie con serio pericolo per la salute (e persino per la vita) della donna, è soprattutto
l’affermazione che tale intervento non può
dimenticare la distinzione tra atti punibili
penalmente e atti che non è conveniente perseguire sul piano penale. Di qui l’insistenza
perché lo Stato si impegni a debellare l’aborto, rimuovendo per quanto possibile le cause del ricorso, ma anche perché procuri di
farlo uscire dalla clandestinità, non esitando ad assegnare in proposito alla legge ita-
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Giannino
Piana
a lunga intervista rilasciata dal Card.
Martini al settimanale «L’Espresso»
(a confronto con il Prof. Ignazio
Martino, scienziato e neosenatore
Ds) è destinata a segnare (al di là
della risonanza immediata peraltro
vastissima) un momento importante di svolta nella riflessione della Chiesa sui temi della
bioetica. Il tono pacato e franco con cui vengono affrontate le questioni e lo stile dialogico in cui si sviluppa l’intera conversazione – è
significativo che essa venga dai protagonisti
definita come un «dialogo sulla vita» – è segno di un atteggiamento di grande apertura
e libertà, che non implica tuttavia la rinuncia
ad assumere posizioni chiare e responsabili.
Ciò che sembra stare anzitutto a cuore al Card.
Martini è il superamento della contrapposizione (nel nostro Paese particolarmente accentuata) tra «laici» e «cattolici» (e talora tra
le diverse anime dello stesso mondo cattolico); contrapposizione che, alimentando diffidenze reciproche, impedisce l’avvio di una
discussione serena attorno a nodi critici di
particolare rilevanza per il futuro dell’uomo
e della società come quelli della bioetica. L’invito del Card. Martini è dunque ad abbattere
gli steccati, a superare preconcetti e posizioni pregiudiziali per confrontarsi seriamente
con il vero bene dell’uomo e individuare punti fecondi di convergenza.
25
BIOETICA
liana – è questa (forse) la prima volta che
avviene in una sede tanto autorevole – il
merito di avere contribuito a ridurre il numero degli aborti clandestini e tendenzialmente ad eliminarli.
fecondazione medicalmente assistita e
staminali embrionali
Pietro Greco
BIOTECNOLOGIE
scienza e nuove tecniche biomediche
verso quale umanità?
INDICE
Ritorna Frankestein?
Potenzialità e rischi della genetica
Piante e cibi transgenici
Terapie geniche
La nuova frontiera della biomedicina
Clonazione terapeutica
Fecondazione assistita
Il dibattito all’Onu
Chi è l’embrione?
Armi biologiche e genetiche
Generali e terroristi in camice bianco
Bioetica e bioetiche
Tecnologia scienza e sviluppo umano
Dibattito tra scienziati, teologi, filosofi e politici
pagg. 128
per i lettori di Rocca
E 10
ROCCA 15 MAGGIO 2006
anziché
E 15
spese di spedizione comprese
richiedere a Rocca
cas. post. 94-06081 Assisi (Pg)
e-mail: [email protected]
c.c.p. 15157068
26
Non meno significative sono le considerazioni del Card. Martini sul tema della fecondazione medicalmente assistita, dove emerge,
da un lato, la chiara percezione dell’estrema
delicatezza di ciò che è in gioco – la vita degli
embrioni in primo luogo – e non manca tuttavia, dall’altro, l’attenzione alla serietà delle
domande che provengono da situazioni difficili, talvolta drammatiche. È sorprendente
che il Card. Martini non prenda in considerazione (lasciando intendere che non abbia
perciò consistenza) la motivazione di fondo
con la quale l’istruzione della Congregazione
per la dottrina della fede Donum vitae del 1987
condanna la fecondazione medicalmente assistita extracorporea, la considerazione cioè
che tale pratica implica la scissione tra il
momento unitivo e il momento procreativo
dell’atto sessuale per cui il figlio anziché «generato» risulterebbe «fabbricato» come effetto di un complesso atto biomedico, e apra in
tal modo la strada alla possibilità di utilizzo
della tecnica, riportando il problema morale
nel suo giusto alveo, quello della verifica dei
benefici e dei rischi.
Alla base di questa verifica vi è il principio
del rispetto della vita umana, che non può
mai venire strumentalizzata. La difficoltà ad
individuare il momento di inizio di tale vita
come vita personale, in quanto i processi del
suo sviluppo e della sua trasmissione formano un continuum in cui è difficile stabilire
veri e propri salti di qualità, non comporta
che non sussistano momenti in cui non appare alcun segno di vita umana singolarmente definibile, come nel caso dell’ovocita allo
stadio dei due pronuclei, cioè quando i due
corredi cromosomici – quello maschile e
quello femminile – sono ancora separati e
non esiste un nuovo Dna. Almeno in questo
caso, quando cioè ad essere utilizzati sono
gli ovociti congelati, la fecondazione artificiale può essere considerata, secondo il Card.
Martini, eticamente legittima.
Negativo è, invece, il giudizio che egli esprime non solo nei confronti della creazione di
embrioni allo scopo di produrre cellule staminali per la ricerca, ma anche dell’utilizzo
di quelli già esistenti, provenienti dalla fe-
le situazioni di fine vita
Al di là di un rapido cenno alla questione
dei trapianti, il Card. Martini affronta, da
ultimo, le questioni riguardanti le situazioni di fine vita. Alla netta condanna dell’eutanasia egli oppone tuttavia un atteggiamento di sospensione del giudizio nei confronti
delle persone che ricorrono a tale gesto in
situazioni estreme. Mentre, d’altronde, pur
manifestando incertezza circa la possibilità
di legiferare in ambiti come quelli riguardanti gli stati terminali (dove peraltro la scarsa chiarezza legislativa è spesso causa del
proliferare dell’accanimento terapeutico
come facile scorciatoia per evitare di incorrere in situazioni penalmente perseguibili)
e circa il valore del testamento biologico (la
difficoltà sta soprattutto nel fissarne correttamente i limiti), egli non esita a sollecitare
la prosecuzione della ricerca attraverso un
serio dibattito volto a raggiungere obiettivi
il più possibile condivisi.
motivazioni per un serio discernimento
L’intervista costituisce perciò un importante stimolo all’apertura di una riflessione serena su temi tanto delicati e importanti come
quelli della bioetica. Tutte le forze sociali e
culturali sono chiamate a fornire il proprio
contributo di conoscenza e di esperienza; tra
queste anche della chiesa, il cui compito non
è, secondo il Card. Martini, principalmente
quello di intervenire con divieti e proibizioni, ma quello di fornire, nelle diverse situazioni, le motivazioni per un serio discernimento. La gravità della posta in gioco necessita infatti di un supplemento di coscienza, che può aver luogo solo laddove si incrementa la capacità di riflessione dei singoli e
si creano, nello stesso tempo, le condizioni
per un confronto aperto e costruttivo tra tutti
coloro che hanno a cuore le sorti dell’umanità presente e futura.
Giannino Piana
RoccaLibri
Giannino Piana
ETICA SCIENZA SOCIETÀ
i nodi critici emergenti
pagg. 152 E 18
Indice
LE CATEGORIE ANTROPOLOGICHE
L’uomo e il suo corpo
Che cos’è la natura
La vita mistero e dono
La morte e il morire
Salute e cura nel contesto del limite umano
I CRITERI DEL GIUDIZIO ETICO
Non uccidere
La responsabilità morale oggi
L’etica del rischio
La gerarchia dei beni
I quattro principi-base della bioetica
I Comitati di bioetica
Bioetica e biodiritto
I cattolici la bioetica e la legge
LA MANIPOLAZIONE DELLA VITA UMANA
L’embrione è persona?
La fecondazione assistita e l’inizio della vita personale
Referendum procreazione assistita: perché sì perché no
Vita e qualità della vita
La clonazione terapeutica
Diritto a morire?
Il testamento di vita
Tra eutanasia e accanimento terapeutico
LA CURA DELLA SALUTE
Il diritto alla salute
Il rapporto medico-paziente
La verità al malato
Il consenso informato: come, perché
Non esistono malati incurabili?
Salute e risorse: a chi la precedenza?
ETICA AMBIENTALE E ANIMALISTA
Il rapporto uomo-natura
Gli animali soggetto di diritti
OGM: risorsa o rischio?
per i lettori di Rocca
E 15
anziché
ROCCA 15 MAGGIO 2006
RoccaLibri
condazione artificiale. Ma proprio a partire
da questo giudizio e riflettendo in particolare sulle situazioni che si creano con le adozioni e gli affidamenti, in cui si dà la possibilità di un intenso rapporto affettivo al di
fuori di legami di consanguineità, egli non
esclude la possibilità del ricorso alla fecondazione eterologa, soprattutto quando si
tratta di utilizzare embrioni altrimenti destinati a perire; e questo, al limite, anche nel
caso in cui l’inserzione avvenga in una donna single, laddove si compie ogni sforzo per
assicurare il massimo di condizioni favorevoli concretamente possibili alla crescita
della persona.
E 18
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CURE PALLIATIVE
una moderna
cura
del dolore
28
L
tenuto a Bologna. Ed è autorevole e ben
fondata. Anche se non partiamo da zero.
Non fosse altro perché nel nostro paese ci
sono oltre un centinaio di luoghi, chiamati hospice, con un migliaio di posti letto
dove le cure palliative vengono somministrate. E ci sono diverse regioni che hanno
già organizzato delle equipe specializzate
nell’assistenza domiciliare ai malati che
hanno bisogno delle cure palliative.
quando non c’è più niente da fare
Ma, prima di verificare più in dettaglio
cosa è stato fatto e cosa ancora si deve fare
per acquisire una moderna cultura del
dolore anche nel nostro paese, conviene
definire meglio cosa sono le cure palliative.
Le cure palliative sono quell’insieme di
strumenti, farmacologico e non, che i medici, gli infermieri, gli assistenti volontari
e le famiglie possono mettere in campo per
combattere le sofferenze, soddisfare i bisogni e restituire piena dignità di vita alle
persone che si trovano nella fase termina-
le della loro esistenza, ai loro parenti, ai
loro amici. E sebbene siano strumenti
medici da utilizzare «quando non c’è più
niente da fare» per il malato, l’Organizzazione Mondiale di Sanità (Oms) le considera un «importante tema di salute pubblica». Per il semplice fatto che ciascuno
di noi ha un diritto pieno e inalienabile alla
dignità di vita e all’erogazione delle migliori cure sanitarie disponibili in ciascuna
fase della sua vita, anche quando la vita
stessa volge irrimediabilmente a termine.
Spesso queste fasi terminali, in cui la medicina si è arresa e in cui sembra non esserci «più nulla da fare», sono accompagnate da dolori e sofferenze acute, talvolta
strazianti. Ebbene, in questa fase, c’è ancora «molto da fare», anche per il medico.
C’è da sedare il dolore non necessario. C’è
da minimizzare le sofferenze. C’è da preservare la dignità delle persone che stanno per andarsene. Il tutto con le migliori
cure sanitarie disponibili.
Il concetto sembra scontato. Persino banale. Ma è solo negli anni ’40 dello scorso
secolo che una persona, l’inglese Cecily
Saunders, elabora questi principi all’apparenza scontati della medicina palliativa. Ed
è solo negli anni ’60 che, sempre grazie a
Cecily Saunders, questi principi, all’apparenza banali, iniziano a essere applicati.
Con grande difficoltà, evidentemente, se
ancora lo scorso anno il dottor Agis D.
Tsouros, direttore dell’Ufficio regionale
europeo dell’Oms, scriveva che il tema,
sebbene riguardi tutti, è ancora «largamente ignorato in Europa». E, aggiungiamo
noi, larghissimamente ignorato in Italia.
D’altra parte è solo nel 1986 che l’Organizzazione Mondiale di Sanità pubblica un
rapporto su Dolore e cancro, avanzando la
necessità di promuovere le cure palliative
per lenire il più possibile le sofferenze che
affliggono le persone affette da malattie
inguaribili e consentire al malato «di vivere più pienamente possibile fino al termine della propria vita», come scrive Cecily
Saunders.
ROCCA 15 MAGGIO 2006
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Pietro
Greco
’Italia figura al centesimo posto
nel mondo per il consumo pro capite di morfina e di quegli altri
principi attivi contro il dolore che
gli esperti chiamano oppioidi antalgici. Con una spesa per questi
medicamenti che non va oltre lo 0,2% della spesa farmaceutica complessiva.
Queste cifre non dimostrano solo una malcelata ritrosia ad utilizzare in ambito medico sostanze stupefacenti. Ma dimostrano anche, e soprattutto, la persistente mancanza di una cultura del dolore. O meglio,
la persistente mancanza anche in ambito
medico di una cultura che cerchi di evitare il dolore non necessario in ogni e ciascuna fase della vita umana.
Se in Italia, infatti, si consuma poco la
morfina e altri oppioidi antalgici significa
che molti, troppi medici rinunciano a combattere il dolore non necessario sofferto,
ogni anno, da centinaia di migliaia di persone nella fase terminale della loro vita.
La denuncia è stata ribadita a fine aprile
nell’ambito del XIII Congresso che la Società Italiana di Cure Palliative (Sicp) ha
una rivoluzione culturale
Nascono così l’idea di allestire «ospedali
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come evitare il dolore evitabile
Finora di Centri residenziali di cure palliative ne sono stati allestiti oltre un centinaio e si prevede che entro i prossimi tre o
quattro anni ce ne saranno, sparsi per l’Ita30
lia, almeno 250 per un totale di 3.000 posti letto. Ci sono inoltre almeno 180 organizzazioni nonprofit e, quindi, decine di
migliaia di persone del cosiddetto «terzo
settore» che offrono su base volontaria la
loro assistenza ad ammalati e famiglie. Il
fatto è che tutto questo non basta. Sia perché le resistenze culturali continuano a
ogni livello, intersecandosi peraltro con le
logiche di bilancio. Sia perché la domanda è molto alta. In questo momento, infatti, ci sono almeno 160.000 persone in Italia affetti da un qualche tipo di tumore in
fase evolutiva irreversibile. Ma, in fase terminale e con forti dolori, non ci sono solo
i malati di cancro. Ogni anno, come rileva
Furio Zucco, nel nostro paese muoiono almeno 100.000 persone a causa di malattie
– respiratorie, cardiologiche, neurologiche, nefrologiche, metaboliche e infettive
che potrebbero (che dovrebbero) avere
accesso a cure palliative.
La gran parte di questi ammalati – di tumore o di altre patologie gravi – sono persone anziane. Cosicché la demografia ci
dice che la domanda tenderà, nel prossimo futuro, ad aumentare, proprio perché
l’età media della popolazione sta crescendo e, con essa, la frazione di persone anziane rispetto all’intera popolazione.
che fare
Che fare, dunque? Occorre lavorare su almeno tre livelli diversi. Uno culturale, per
rendere senso comune e, quindi, richiesta
diffusa il diritto alle cure palliative. Un diritto che – mai come in questo caso – riguarda davvero tutti e che diventerà effettivo solo se tutti ne reclameranno la concreta attuazione.
C’è poi da formare i medici, i paramedici,
gli stessi volontari che dovranno realizzare il progetto di cure palliative. Si calcola
che nei prossimi anni in Italia ci sarà necessità di almeno 15.000 operatori nel campo della lotta al dolore non necessario e
delle cure palliative. In questo momento
nessuno li sta formando. O meglio, in questo momento nessuno ne sta formando in
numero sufficiente.
C’è, infine, da continuare la ricerca. Per
rendere la lotta al dolore non necessario e
alle cure palliative sempre più efficace.
Sappiamo che in Italia gli investimenti in
ricerca non sono esaltanti. Ma in questo
settore specifico sono pressoché del tutto
assenti. Quasi che non sia da evitare il dolore evitabile, ma l’idea che esista.
Pietro Greco
LAST MINUTE MARKET
un’intuizione vincente
Sabrina
Magnani
O
gni sera, circa alla stessa ora,
quando i negozi stanno per chiudere, don Domenico Bedini, animatore dell’associazione Vialekappa, passa dalla pasticceria Orselli, la più famosa di Ferrara, e ritira le paste rimaste invendute, perfettamente racchiuse in una confezione uguale alle
altre, e le porta agli ospiti del dormitorio
pubblico, che aspettano lui e il suo pacchetto come aspettassero un amico e un
dono gradito.
Un gesto semplice ma che ha in sé una
valenza molto alta e un significato che va
al di là di quel gesto: quello di utilizzare
un prodotto che altrimenti sarebbe scartato, divenendo rifiuto, per delle persone
che non potrebbero mai permetterselo o
che ne hanno bisogno. Un circuito virtuoso, dunque, dove accanto all’utilizzo di un
bene si dà luogo a un importante momento di socializzazione nei luoghi dell’esclusione, e in cui ogni attore ha un suo vantaggio. Anche il commerciante, che così
facendo può scaricare l’Iva e risparmiare
sulla tassa dei rifiuti, e può finanziare, con
i risparmi così ottenuti, anche un fondo di
solidarietà, come quello che quest’anno è
stato creato per sostenere un ospedale pediatrico in Tanzania.
È questo il principio su cui si fonda Last
minute market, un progetto nato nell’ambito della Facoltà di Agraria di Bologna, e
che oggi, a tre anni di distanza dal suo avvio, è divenuta anche una vera e propria
impresa per chi l’ha pensata, studiata e oggi
la promuove. «Tutto è cominciato nel 1998,
quando alcuni studenti che frequentavano
un mio seminario si sono chiesti che fine
facevano i prodotti alimentari che rimanevano invenduti», racconta con evidente entusiasmo Andrea Segré, giovane preside di
Facoltà, una carriera universitaria veloce
e con interessi nell’ambito dello sviluppo
sostenibile. Dal suo studio al quinto piano
della nuova sede universitaria, in periferia
di Bologna, a due passi dalla nuova sede
del mercato ortofrutticolo, e da cui si può
godere di un bellissimo panorama della
città, dalla pianura alle colline più alte dell’Appennino, indica il vicino supermercato in cui si recò otto anni fa, anche lui in31
ROCCA 15 MAGGIO 2006
ROCCA 15 MAGGIO 2006
CURE
PALLIATIVE
senza dolore». Oppure hospices, centri specializzati per le cure palliative. O, infine,
assistenza domiciliare integrata – con il
concorso di tecnici (medici, infermieri),
volontari e familiari. Nasce così l’esigenza
di somministrare oppioidi antalgici per
combattere il dolore non necessario. È una
rivoluzione culturale, più che medica. Perché si tratta di cambiare il modo di vedere
sia il dolore che il malato terminale. Non è
semplice. Sia perché in molti ambiti culturali al dolore si attribuisce un valore catartico. Sia perché si tende a considerare
indissociabile la sofferenza fisica e psichica dalla malattia allo stato terminale. Sia,
infine, perché l’assunzione di droghe –
come la morfina – viene considerata disdicevole persino in punto di morte.
Operare una rivoluzione culturale non è
affare semplice. Inutilmente i bioeticisti di
ogni orientamento e le autorità di tutte le
grandi religioni sostengono che non c’è
obiezione morale alcuna alle cure palliative. La lotta al dolore non necessario stenta a decollare. Anche e soprattutto in Italia. I nostri ospedali restano «ospedali con
dolore». E i nostri medici restano tra i
meno disponibili al mondo a prescrivere
la morfina, gli altri oppioidi antalgici e gli
altri farmaci contro il dolore. La situazione viene pubblicamente denunciata da diverse associazioni e società scientifiche il
25 febbraio 1998 con una lettera aperta
inviata al Ministro della sanità e pubblicata dalla rivista Tempo Medico. Il primo firmatario è l’Associazione europea per le
cure palliative.
Da allora i ritardi non sono stati certo colmati. Tuttavia qualcosa si è mosso. Nel
1999 la legge n. 39 finanzia con 200 milioni di euro un progetto per allestire in tutto
il territorio nazionale, su iniziativa delle
regioni, 200 Centri residenziali di cure palliative (hospice). E nel 2001 le cure palliative vengono inserite con normativa nazionale nei Livelli Essenziali di Assistenza
(Lea): il che significa – come scrive il dottor Furio Zucco, presidente della Società
italiana di Cure Palliative – che «le Regioni devono fornire gratuitamente alla popolazione italiana un modello assistenziale garante della qualità della vita e della
dignità della persona affetta da una malattia inguaribile, mai curabile».
una solidarietà che è anche un vantaggio
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Il progetto è stato studiato in tutti i suoi
aspetti. Perché attecchisse e riuscisse a
coinvolgere i commercianti e le catene distributive non bastava appellarsi a semplici principi di solidarietà e di etica, il non
sprecare, ma trovare una chiave che ne
comprovasse il vantaggio anche economico. Spiega il prof. Segré che «studiando
tutti gli aspetti commerciali e tributari si è
evidenziato come per il commerciante utilizzare a scopi solidaristici i prodotti rimasti invenduti era anche in vantaggio perché permette di scaricare l’Iva dei prodotti
che non rimangono più invenduti e di risparmiare sulla tassa dei rifiuti, che oggi
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viene calcolata sulla base dell’effettiva
quantità di rifiuti prodotti. In tutto un risparmio del 30%, che libera risorse per fare
altre cose, come per esempio si è fatto a
Ferrara sostenendo questo ospedale in
Africa».
Si tratta di un’intuizione che si è rivelata
vincente, rendendo il progetto attraente
anche per realtà commerciali al di fuori
dei circuiti della solidarietà. A Bologna,
dove l’esperienza è nata nel 2003, grazie al
fecondo incontro con don Giovanni Nicolini, instancabile animatore della Caritas
diocesana e profondo conoscitore dei luoghi della solidarietà e dell’esclusione sociale della città. I donatori sono importanti
catene distributive come Coop Adriatica,
Concerta, Natura sì e Nordiconad, con un
decina di associazioni di volontariato che
ne usufruiscono ogni giorno, tra cui la
mensa gestita dalla Caritas: in tutto, 620
pasti ogni giorno per un recupero che nel
2005 è stato di 220.000 chili di prodotti.
Un risultato che potrebbe essere migliorato attraverso un coinvolgimento del Comune che già vi si è interessato e ha fatto proprio in attesa di poterlo meglio sponsorizzare.
In altre realtà, i successi sono stati ancora
più sostanziali. Come a Ferrara, appunto,
dove a fronte di una minore quantità di
prodotti recuperati, 34.000 chili nel 2005
per un totale di 130 pasti al giorno, anche
per le minori dimensioni della città, si è
però riusciti a coinvolgere molti piccoli
produttori, oltre a un paio di ipermercati
e ai tre negozi della già citata pasticceria
Orsetti, e dove si è andati oltre, finanziando un progetto di cooperazione internazionale.
Più recenti sono i progetti di Modena, avviati nel secondo semestre del 2005 e che
ha permesso di utilizzare 66.000 chili di
prodotti, dando 350 pasti al giorno, Verona, in cui sono state coinvolte delle mense
scolastiche, e, nei primi mesi di quest’anno, un paio di supermercati e un grossista
di ortofrutta, in grado di ampliare il numero di persone che attualmente ne usufruiscono, una sessantina.
Così anche a san Benedetto del Tronto
(Ap), Fiorenzuola, Empoli, Firenze, dove
il progetto è attivo dai primi mesi del 2006,
mentre protocolli per avviare l’esperienza
sono stati già stipulati anche con la regione Sicilia e Sardegna. Di questi progetti
non è possibile per ora aver dati certi, ma
molto significativa è la buona accoglienza
ricevuta e il fatto che alcuni di essi, come
quello di Empoli, prevede il recupero non
solo di beni alimentari ma anche di pro-
dotti non commestibili.
«Il principio su cui si fonda la nostra esperienza è valida per tutti i prodotti – spiega
il preside della Facoltà di agraria –. Per
questo lo scorso anno abbiamo anche contribuito a far diventare la nostra esperienza un progetto di legge contro lo spreco
che equiparasse i beni non alimentari con
quelli alimentari, ai fini di un loro possibile recupero con gli stessi vantaggi economico-fiscali, che speriamo con la nuova legislatura possa essere discussa in Parlamento».
quei libri che tornano a vivere
In attesa che una legge antispreco possa
essere approvata anche in Italia, l’attivo
docente universitario è andato avanti, applicando il principio del recupero anche
in altri ambiti. A partire dall’editoria, e, anche in questo caso, da un’esperienza personale. Di fronte alla constatazione che le
copie dei suoi libri, una decina circa scritti per vari editori, rimaste invendute gli
venivano offerti sotto costo come alternativa al macero, l’idea di utilizzarli per persone che faticano ad averne accesso è stata quasi naturale. È nato così «Last minute book», coinvolgendo gli editori personalmente conosciuti e per cui quelle copie
invendute erano un peso economico e logistico. Gli utenti sono stati genialmente
individuati negli italiani all’estero, desiderosi di leggere testi in italiano di qualsiasi
genere per mantenere il contatto con il
proprio paese. Così è stato realizzato un
ampio catalogo e attivati contatti con ambasciate di paesi dell’America Latina.
«Lo scorso anno abbiamo in questa maniera distribuito 50.000 libri in Argentina,
Brasile, Uruguay, Cuba. Anche in questo
caso è stato attivato un circuito virtuoso
fondato sullo scambio e sul dono. Recentemente è stato elaborato anche un protocollo con il Ministero, l’associazione italiana editori, l’Università di Bologna e la
Dhl, l’azienda leader nel trasporto, che permetterà di coinvolgere ulteriori editori e,
di conseguenza, ampliare il numero degli
utenti».
In fase sperimentale è anche il progetto di
utilizzo dei prodotti importanti come i farmaci e i prodotti agricoli, nonché quelli
prettamente materiali che vengono depositati nelle cosiddette «isole ecologiche».
L’idea, specifica Segrè, autore fra l’altro di
un paio di libri sull’esperienza di Last minute market e sullo «spreco inutile», è che
«in un’epoca come la nostra dettata da
consumismo e da spreco eccessivo, i beni
possano continuare a vivere, allungare il
loro possibile utilizzo, e con essi anche le
persone». Un’idea, dunque, che rientra
nell’ambito più ampio dello sviluppo sostenibile o anche di un modello di sviluppo realmente alternativo a quello consumistico.
favorire la reciprocità
L’idea di Last Minute Market non è certo
originale, ma ha il merito di proporre il
tema dello spreco evidenziandone le molteplici valenze. In ambito alimentare esso
si pone come modalità alternativa al più
conosciuto Banco Alimentare, fondato
dalla ciellina Compagnia delle Opere, poiché, a differenza di quello, reso possibile
dalla presenza di costose strutture organizzate su base regionale in cui vengono
trasportati i prodotti in eccesso da parte
delle aziende produttrici e distributrici,
non richiede nessun tipo di struttura, e
dunque di costi aggiuntivi, ma si fonda
su una rete di protagonisti che si muovono just in time, favorendone la relazione
più che l’aspetto puramente materiale.
Sono mondi molto diversi, come quello
dei produttori «ricchi» e dei consumatori
«poveri» che entrano in contatto, il profit
con il no profit, e si creano circuiti virtuosi in cui la solidarietà diventa così una
relazione di reciprocità.
Ciò può dar luogo, come dimostra l’esperienza di Ferrara, anche a progetti di cooperazione internazionale decentrata
dove è una comunità che si interessa e si
coinvolge per il benessere di un’altra comunità lontana ma vicina in questo rapporto di reciprocità.
Più che nelle potenzialità quantitative –
se fosse applicata a livello nazionale
l’esperienza potrebbe dar luogo, nel solo
ambito dei prodotti alimentari, a una
quantità pari a 600 milioni di pasti all’anno con circa 240 mila tonnellate di derrate alimentari recuperate, pari a 24.000 tir
di quelli che invadono, con alti rischi per
la circolazione ed elevato impatto ambientale, le nostre strade – la validità del progetto sta, forse, principalmente in questi
aspetti immateriali, in grado di creare
nuova socialità e significative relazioni comunitarie, dove i beni non si trasformano ineluttabilmente in merci e poi in rifiuti e gli utenti sono considerati persone
e non più solo consumatori.
ROCCA 15 MAGGIO 2006
LAST
MINUTE
MARKET
curiosito circa l’interrogativo postogli dai
suoi studenti.
«E lì, il direttore del supermercato mi fece
andare dietro alle “quinte’’, a vedere dove
finiscono i prodotti invenduti. Rimasi colpito dalla quantità di prodotti che erano
già stati scartati, destinati solo a diventar
rifiuti, che sarebbero scaduti da lì a due
giorni ma erano stati già tolti dagli scaffali. Ho preso in mano uno yogurt perfettamente intatto, che scadeva dopo un giorno, ho visto una cassa di scatolette di tonno dove solo una si era rotta e aveva sporcato di olio tutte le altre, che erano intatte e potevano essere tranquillamente utilizzate. E così tanti altri prodotti. Mi son
detto che era uno scandalo vedere tanti
prodotti così sprecati, mentre ci sono tante persone che ne avrebbero bisogno,
come i bambini orfani del Piccolo Principe, un’associazione che ha sede sempre
qui vicino».
Subito, questo primo contatto si è trasformato in uno stimolante oggetto di riflessione e di studio per i suoi studenti. «Ho
dato il compito a molti di loro di fare delle
tesi su vari aspetti di questo problema, analizzandone l’aspetto igienico, fiscale, ecc.
È stato un materiale utilissimo, poi raccolto insieme e divenuto un vero e proprio
studio di fattibilità, che abbiamo presentato nel 2002 e che è stato alla base dell’avvio dell’esperienza, iniziata ufficialmente
nel gennaio del 2006 qui a Bologna».
Cinque anni di studio hanno avuto il merito di dar luogo a un’esperienza che oggi
è presente in tredici città in tutta Italia e
che è divenuta, per quegli studenti, un’attività lavorativa, formalizzata in cooperativa, che ha vinto anche premi in ambito
accademico e cittadino per l’originalità e
il comprovato successo come idea imprenditoriale.
Sabrina Magnani
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SOCIETÀ
gli
antagonisti
34
D
rivante dal rapporto tra capitale e lavoro,
insomma una mercede che misurava la relazione dello sfruttamento di fabbrica.
Gli operai che avevano coscienza di se stessi erano identificati da Marx come il soggetto che operava nel senso della trasformazione storica, i rivoluzionari al tempo del
capitalismo di fabbrica.
Le relazioni tra le forze operaie e il sistema
produttivo capitalista, si svilupparono all’interno della più complessa questione delle
condizioni nazionali di vita. La nazione, lo
Stato nazionale, le spinte verso l’unità nazionale, il patriottismo, l’azione organizzativa dello Stato, la democrazia moderna accompagnarono sempre, quale ineluttabile
contesto storico, lo sforzo degli operai di ergersi a soggetti della rivoluzione. Le storie
operaie si scontrarono sempre con le forme
dello Stato in cui erano organizzate, e così si
ebbe una storia della classe operaia in Polonia, diversa da quella francese o da quella
russa… In ogni paese la classe operaia di
quella nazione ebbe la sua propria storia e
spesso non ci fu nemmeno la possibilità di
comparare tra di loro le diverse esperienze.
Complessivamente però possiamo dire che
per lo più in Occidente il capitalismo ebbe
la sua evoluzione riuscendo ad anticipare
le forme dell’organizzazione operaia, e così
non si sviluppò alcuna rivoluzione industriale socialista. (Quello che si ebbe fu invece in Russia l’egemonia della rivoluzione
del 1917 ed il successivo definitivo trionfo
dello Stato sovietico che s’incorporò ogni
trasformazione rivoluzionaria, nazionalizzando il movimento ed ergendosi a guida
di ogni altro moto socialista, così che da
movimento internazionale cosmopolita,
quello rivoluzionario si ridusse ad essere
una somma di movimenti politici nazionali ove uno, quello russo maggioritario, cercò di mangiarsi i minori, come il pesce più
grosso s’ingoia i più piccoli).
Marcuse
e la critica al capitalismo maturo
Fu intorno alle lotte sociali della fine degli
anni Sessanta, al tempo della guerra in VietNam e di quelle lotte giovanili, studentesche
e operaie che si svilupparono nel contesto
della grande crisi americana dopo la morte
di Kennedy e al tempo di Nixon, che s’iniziò a parlare di un altro e nuovo soggetto
rivoluzionario. Era la critica non già al capitalismo di fabbrica, operaio e industriale, ma la critica al capitalismo maturo.
La fabbrica rimaneva il centro della produzione, ma il sistema capitalista, oramai spronato dalle politiche keynesiane verso i consumi di massa, non privilegiò il momento della
produzione ma tutt’intero il ciclo economico
nelle sue distinte fasi: produzione-distribuzione-scambio-consumo-riproduzione.
Gli operai restavano gli agenti della fase
produttiva, i soggetti su cui pesava ancora
il lavoro delle catene di montaggio, ma tuttavia non furono pensati come gli unici soggetti della rivoluzione sociale. Era la critica di Marcuse all’uomo integrato nel sistema, a quell’uomo ad una sola dimensione
che appiattito tra lavoro e televisione era
incapace di pensare criticamente la propria
condizione umana.
Ma tutti quelli che s’opponevano al sistema
produttivo e alle sue regole di sfruttamento, anche se non operai, purché oppositori,
erano da considerarsi virtuali soggetti rivoluzionari. Intellettuali oppositori, burocrati oppositori, colletti bianchi oppositori,
white collars alla Wright Mills, liberals, hippies, cantautori on the road, Joan Baenz e
tutti quelli che cantavano contro l’imperialismo americano, pacifisti, persone che ricercavano una identità pacifica in India o
in Oriente, underdogs (letteralmente: sotto
cani), i diseredati, i poveracci, i mendicanti, i non integrati, i non adeguati alla condizione dominata dagli Stati Uniti, e anche
dunque, credenti borghesi ma oppositori dei
regimi politici più forti, movimenti anti autoritari in psichiatria, negli ordini religiosi,
nelle università, nelle scuole, nella musica
giovanile rap, hippy, e anche presso i teologi
della rivoluzione, i facitori dell’agostiniana
ecclesia pauperum, i rivoluzionari religiosi.
Una nuova speranza si apriva per quelli che
non essendo operai si potevano trovare a
lato della classe rivoluzionaria con un ruolo riconosciuto e legittimato di rivoluzionari. Una speranza di riconoscimento del
loro messaggio di veri rivoluzionari s’apriva anche per quelle frange delle classi borghesi, urbane e professionali, che pur sottratte al lavoro subalterno in fabbrica, esercitavano un ruolo intellettuale d’opposizione: «è la pioggia che va/e ritorna il sereno...».
«Il Manifesto» in Italia fu l’espressione più
nobile di questa tendenza culturale.
ROCCA 15 MAGGIO 2006
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Giuliano
Della Pergola
a quando il capitalismo industriale nacque, s’è sempre cercato di
capire chi potesse opporvisi. La
ricerca di Marx sulla classe operaia è la più nota, al tempo del primo apparire del capitalismo,
quando ancora si discuteva del passaggio
dal telaio tradizionale a quello meccanico.
La rivoluzione industriale aveva richiesto
l’analisi di soggetti storici nuovi, e certamente la classe operaia che aveva coscienza di
se stessa, quella che era una classe «per sé»,
poteva candidarsi ad essere la vera antagonista del capitalismo di fabbrica. Formata
da immigrati inurbati da poco, la classe
operaia si distingueva nettamente da quel
formicolare di contadini sperduti nelle loro
miserevoli catapecchie rurali, abbandonate e disadorne, senza passato e senza futuro.
Al tempo della fine dell’ancien régime la
classe operaia era sì formata in gran parte
da contadini sottratti ai campi e alla servitù rurale e oramai installata in ambiente
urbano, dove l’aria della città rendeva liberi, cioè dove si scioglievano i lacci dell’antico servire il padrone locale.
La classe operaia appariva a Marx dotata
di futuro, cosa che i contadini invece non
avevano mai potuto sperare. La classe operaia era inoltre fornita di un’auto-organizzazione capace di contrattare salari, condizioni di lavoro e salute in fabbrica. Era dotata di sindacati, di rappresentanza politica e di forme assistenziali di mutuo soccorso. Una classe sociale che sapeva comprendere come il salario contrattato con il datore di lavoro fosse, non solo e non già una
ricompensa economica al livello della sussistenza, ma soprattutto una relazione de-
Herbert Marcuse
e Toni Negri
il percorso di Toni Negri
Ma la rivoluzione tecnologica informatica
avrebbe rapidamente consumata la critica marcusiana all’uomo integrato nei valori del sistema.
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36
proprio territorio non era minacciata come
oggi è, quando l’eccedenza del lavoro necessario non era tanto evidente...
COSE DA GRANDI
la fine dello Stato-nazione
Non siamo all’interno di un pensiero anti
marxista, ma post-marxista. La sola classe
operaia appare a Negri un ambito troppo
ristretto per potere accettare ogni forma di
sfruttamento che si verifica oggi, non solo
nell’ambito della condizione dei lavoratori
subalterni, ma in quella di tutti coloro che
dentro e fuori dai luoghi di lavoro, conducono soggettivamente un’esistenza individualmente fertile, vigile e antagonista, ma
oggettivamente priva di prospettive, tecnicamente senza futuro e disarticolata da un
contesto capace di offrire la benché minima certezza.
L’Impero si sovrappone, soffocandolo, allo
Stato-nazione e ne decreta la fine.
Chi legittima le forme dello sfruttamento al
livello delle nuove tecnologie dell’informazione si pone solo problemi di adattamento,
di adeguamento e di integrazione ai nuovi
ruoli produttivi; ma chi invece riflette sul
dualismo che si determina ovunque, dentro
e fuori la fabbrica, là dove gli uni utilizzano
i sistemi di computer per produrre in forme
svincolate (desembedded) dal resto, e gli altri
all’infinito debbono adeguarsi a lavorare due
pomeriggi la settimana, solo il giovedì mattina, tutti i sabati, unicamente d’estate, alternativamente una notte sì e una no, eccetera, e naturalmente in nero, senza contratto, a ore, senza investimento sulla persona
che lavora come subalterna, o altra forma
compensatoria del lavoro richiesto che non
sia un salario flessibile e incerto, applicato
alle esigenze aziendali, si potrà avere l’immagine catastrofica di quel che ci attende.
Perdere il lavoro, lavorare in nero, lavorare
in modo flessibile e precario, non appaiono
solo delle questioni politiche legate a un solo
paese, o ad un solo Stato-nazione: sono invece problemi di tutti, generalizzati, drammaticamente universali. L’Impero sovrasta, dominante e impersonale, questi nuovi rapporti di produzione. I Movimenti collettivi d’opposizione stanno prendendo le misure per una
reazione che non è soltanto di categoria, che
non è identificabile come piccolo-borghese:
in Francia siamo già nel pieno del conflitto
sociale, ma credere che questo sia un problema solo francese sarebbe un errore.
Questa sfida aperta tocca il futuro sia dei
paesi tecnologicamente evoluti, occidentali e democratici, come quelli degli altri paesi. Da qui passa la storia che si sta dipanando in questi anni.
Giuliano Della Pergola
morbido e dolce
Rosella
De Leonibus
L
a più bella di tutte è la bevanda
portatile, acqua o integratore salino che sia, che se la guardi bene ti
accorgi subito che è a forma di biberon. E che si usa esattamente
nello stesso modo. Anzi, senza neppure la fatica di succhiare, perché il liquido può essere spruzzato direttamente in
bocca.
Poi ci sono tutti i tipi di dessert e di latte
fermentato o arricchito di qualcosa in formati da bimbi, da prendere e tenere in
mano con grazia, da lasciar scivolare in
gola, stavolta, con grazia e dolcezza.
E tantissimi di questi prodotti sono bianchi, dentro e fuori. Innocenti e rassicuranti. Anche quando le parole del messaggio pubblicitario che li accompagnano farebbero pensare a cose più da grandi, per
esempio l’esperienza sessuale, anche allora l’accento è sull’aspetto di piacere orale, sul gusto di assaporare qualcosa di
bianco e morbido e cremoso, da assumere a cucchiaini a poco a poco. Molto consolante.
I formaggi da spalmare, light per la linea
e ancora una volta morbidi, che non offrono resistenza ad una cosa innominabile come il coltello, oppure che si sciolgono, filano e fondono, e il pane per favo-
re ancora una volta morbido, che non offra ai denti il minimo impegno. Se ami
qualcosa di croccante da sgranocchiare,
te lo vendo in bustine da passeggio, o
meglio da divano, in rassicuranti piccoli
pezzetti da mettere direttamente in bocca. E tutti i tipi possibili di cioccolato, da
tasca, da spalmare, da scartare, con tutte
le varianti di sapore, così continui a desiderare il prossimo, sapori stavolta un po’
più da adulti, ma cosa c’è di più rassicurante del cioccolato, da offrire o da sgranocchiare da soli… se non cedo addirittura al lecca lecca, e al bar ne vendono di
ogni colore, non li comprano certo soltanto i bambini.
E poi i ciondoli per le borsette e per il telefonino, quei piccoli teneri pelouche in
miniatura, morbidissimi al tatto e buffi
alla vista, e signore serissime che li sfoggiano mentre vanno al lavoro o mentre
discutono con gli insegnanti del figlio.
Senza parlare delle linee arrotondate e
bombate che prevalgono nel design industriale, dalla forma degli elettrodomestici a quella delle automobili, ce n’è una
che assomiglia a quella di topolino. I palloncini e le coroncine di cartone alle feste di compleanno dei quarantenni sono
solo una moda importata da oltre ocea37
ROCCA 15 MAGGIO 2006
ROCCA 15 MAGGIO 2006
SOCIETÀ
Una nuova forma di produzione stava nascendo, anzi si stava già diffondendo, per diventare con gli anni Novanta decisamente dominante. Il linguaggio informatizzato applicato
ad ogni sistema produttivo scardina le forme
produttive precedenti, le rende all’improvviso desuete e povere, prive di futuro.
È la globalizzazione che diventa il problema dei problemi, la questione attorno a cui
gira ogni altra nostra riflessione (reale o illusoria) sull’utilizzo dei mezzi di comunicazione personalizzati, istantanei e accessibili. La globalizzazione della produzione
mondiale e specularmente il diffondersi di
movimenti contrari alla globalizzazione, noglobal, producono una nuova dialettica. Non
solo quella del capitalismo è possibile come
forma di vita, un nuovo tipo di sviluppo del
mondo è possibile, un nuovo destino dell’umanità, dell’uso delle risorse naturali,
della scienza e delle tecnologie.
La diffusione del computer espelle mano
d’opera dalle fabbriche, la ristrutturazione
tecnologica impone la sostituzione uomomacchina, e una nuova generazione di persone non protette, di precari, di disoccupati,
bussa alle porte di un Occidente globalizzato
che vorrebbe guidare il processo di imperio
sul resto del mondo, ma che non vi riesce.
L’Occidente, e particolarmente il paese che lo
guida, gli Usa, vorrebbero egemonizzare il
resto del mondo e questa politica che mira
alla supremazia generalizzata sprigiona resistenze e dinieghi. È possibile una globalizzazione di tutti e non una globalizzazione guidata dall’Occidente? Quella che appare agli
occhi del filosofo italiano Toni Negri (Movimenti nell’Impero, Cortina editore, Milano
2006) è la condizione di un Impero che cerca
legittimazione per continuare la propria azione egemonica e di depauperamento degli altri paesi, ma assolutamente non vi riesce. È
una pretesa di imperio sugli altri che sdegnosamente viene rifiutata. Così, una dialettica
tra Impero e Movimenti è in atto; in gioco c’è
solo… il destino politico dell’umanità futura!
Un nuovo soggetto collettivo rivoluzionario
è, per Toni Negri, riconoscibile.
Egli infatti parla non già di classe operaia,
non già di uomini ad una dimensione, ma di
moltitudine, intendendo con ciò quella disseminazione infinita di persone che individualmente vivono ancorate moralmente a un
diniego, intimamente oppositori del sistema,
eppure gettati in una condizione di assoluta
indeterminatezza. Siamo sempre nel solco
del pensiero di Marx, soprattutto del suo
metodo analitico, ma la riflessione di Toni
Negri s’applica ad una condizione che Marx
non ebbe modo di potere vedere. Egli visse
quando lo Stato-Nazione non era ancora in
crisi, quando le migrazioni non erano planetarie, quando la sovranità dello Stato sul
amuleti contro la paura
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Divertitevi a verificare quante volte il concetto o la parola morbido ricorrono nei
messaggi commerciali mediatici. Dalla
carta igienica al nuovo attrezzo per spolverare, dal prodotto per il risciacquo del
bucato a quello per i capelli. Anche la musica chill out, gradevolissima peraltro,
spopola. Perfino le tecniche di fitness si
spostano verso il morbido.
Questa generalizzata e pervasiva impronta
regressiva, infantilizzante, sta dando da
pensare a più d’uno studioso. Dalla sociologia alla psicologia sociale, dalla psicanalisi alla psicologia ecologica. Non sappiamo ancora se è in questione l’equilibrio psichico di una intera fascia della popolazione adulta, di certo ci sono ridefinizioni da cercare, domande da formulare con una certa attenzione.
La prima riflessione è questa: se come
adulti abbiamo bisogno di essere consolati circondandoci con tanta morbidezza
allora, forse senza rendercene conto, siamo spaventati parecchio.
La realtà esterna è percepita come troppo dura o troppo frustrante, il clima emotivo del quotidiano si è parecchio spostato verso una massiccia disumanizzazione? Siamo terrorizzati da fantasmi di
morte, e se inseguiamo tutti questi segnali
simbolici dell’infanzia è per esorcizzare
la fine?
Anche i balli di gruppo che si stanno sempre più diffondendo nei locali di divertimento ci offrono questo tipo di segnale,
dove tutti insieme, all’unisono, coi gesti
tribali, rituali e uguali – la rima è molto
rassicurante, come il ritmo ripetuto – ci
possiamo sentire un corpo unico e il gruppo ci fa un pochino da grembo.
Anche le forme del contatto fisico che cercano tra loro gli adolescenti ci raccontano questa storia. In gita, in vacanza, a casa
38
degli amici dopo le feste di compleanno
si fa così: si prendono tutti i materassi
delle varie camere e li si dispone per terra tutti l’uno accanto all’altro in una unica stanza. Su questo grande lettone si
dorme tutti abbracciati e accoccolati l’uno
sull’altro, con la tenerezza della cucciolata, col contatto fusionale rassicurante e
protettivo del gregge. L’aspetto erotico del
contatto è rinviato, è molto meno importante, la cosa più desiderata è questo sentirsi insieme e vicini al calduccio. Per gli
adulti ci sono le fiction lacrimevoli, che
suscitano a comando la commozione collettiva, e la sensazione di gruppo caldo e
rassicurante è virtuale, stavolta, perchè
siamo tutti davanti allo stesso schermo, a
provare le stesse emozioni, pure se dal
sofà di casa.
E l’emozionalità che è sottesa a questi gesti, all’uso di questi oggetti, è una faccenda collettiva, condivisa su un piano ultrapersonale, che attraversa trasversalmente e lievemente le coscienze individuali
senza toccarle, senza lasciare tracce chiare di consapevolezza.
Sono emozioni di gruppo, di massa, direi, emozioni da culla, che evocano in
vario modo la piacevolezza da accudimento materno.
Seguiamo un po’ questo filo, vediamo
dove ci porta.
oggetti transizionali
La prima grande difesa contro il nulla,
contro il rischio dell’esistere, sono le braccia calde e il seno morbido della mamma.
Per abbandonare questo cerchio di sicurezza e osare il contatto col grande mondo ostile là fuori, abbiamo bisogno di portare con noi un oggetto, qualcosa che ci
ricolleghi simbolicamente alla mamma,
che ci rassicuri che lei esiste, un pegno
che ci garantisca il ritorno alla sicurezza.
La copertina di Linus, eccola qua. Il cellulare ha assunto questa funzione. Non
sarà un caso se anche questo oggetto è
sempre più curvilineo, e si fodera di materiali morbidi all’esterno.
Ti chiamo per dirti che arrivo, per chiederti una informazione e comunicarti una
decisione, una novità, ma ti chiamo anche semplicemente per farti sapere che
esisto, per dirti che ti penso, per sapere
che mi pensi anche nella distanza dal calore del corpo. La chiamano comunicazione fàtica, serve a segnalare non qualcosa che ho da dirti, ma che ho un canale
aperto di comunicazione per te e con te.
La pratica dello squillino né è la prova.
Siamo separati, ma siamo ancora in contatto. Come col fazzoletto della mamma
nel cestino dell’asilo nido. La mamma non
c’è? Allora ci facciamo da mamma a vicenda, noi cuccioli sperduti nel mondo.
Quando invece non ci rinserriamo dentro un guscio protettivo per non metterci
a combattere col mondo nemico là fuori.
Può essere il cappuccio della felpa che
qualche ragazzo si tira sul capo, come un
monaco pellegrino, o come chi non vuole
esporre la nuca ai colpi del mondo. Possono essere le maniche tirate sopra i polsi fino a coprire tutte le dita di qualche
adolescente, così non posso usare le mani
– e la mia non azione sul mondo la posso
imputare non alla paura e al sentimento
di inefficacia, ma alle maniche che mi impacciano. Il bunker può essere anche il
chiudersi in casa degli adulti la sera, le
case blindate e i quartieri dormitorio dove
passo dal garage all’ascensore e poi mi
barrico in casa fino al mattino successivo. Ma anche le vacanze nei villaggi all
included, dove non esco dal recinto neanche morto.
Potremmo arrivare a dire che la ricerca
del morbido e protetto e dolce è un modo,
come avviene da bambini, per poter affrontare il mondo, e al limite forse è un
modo utile, che mi permette di non rinunciarci del tutto a questa sfida. La affronto
in questo modo, come posso. È la nostra
strategia di sopravvivenza davanti alla tremenda complessità e durezza del quotidiano?
È il mondo troppo duro o noi troppo morbidi, o piuttosto entrambe le cose.
regressione versus pausa creativa
Una delle conseguenze di questo filo di
ragionamento è che se mi sento insicuro
avrò una certa tendenza all’egocentrismo,
a portare a casa la pelle mia, a salvarmi
da solo/a, e quindi anche il legame con
gli altri assumerà una nota utilitaristica,
ancora lontana dalla possibilità di lasciar
emergere sentimenti di solidarietà e condivisione. E la mia personale tendenza depressiva la giocherò forse più nel ritiro e
nel cinismo che non nel fare il lutto della
sicurezza infantilizzante a cui gli anni del
benessere del secolo scorso ci avevano
abituato, per poi guardare in faccia la realtà e trovare modi nuovi e creativi per
adattarvisi e far fronte alla postmodernità.
Se la tendenza è evidentemente abbastanza regressiva, se il sentimento che si re-
spira intorno è di ricerca di sicurezza, quel
che ci resta da fare non è solo la possibilità di strapparsi le vesti; possiamo ancora cercare, di questo fenomeno, letture abbastanza varie.
Da un lato possiamo enfatizzare la tendenza alla passività e alla dipendenza, il
rifiuto di crescere, e verificare con moltissimi dati questa ipotesi. Dall’aumento
iperbolico delle forme e delle frequenze
dei comportamenti dipendenti, fino ai
sentimenti di perdita di futuro e di speranza che circolano a pacchi enormi tra
le generazioni più giovani. Dal qualunquismo e dal cinismo dilagante fino alla crisi delle forme storiche di socialità. Ma se
ci fermassimo qui, sarebbe un po’ limitante. Davvero, non ci resterebbe che
piangere.
Andiamo avanti ancora un passo. Talvolta, speriamo anche stavolta, i comportamenti regressivi sono da leggere un po’
come quando si torna indietro per prendere la rincorsa e ripartire con più slancio. Come il bisogno di tornare a calcare
un terreno noto e rassicurante per rigenerare le forze e trovare il coraggio di affrontare il nuovo.
Come lo spazio protetto che serve per stare tranquilli ad elaborare una qualche soluzione creativa nuova. Non banalmente
un segnale di debolezza, neppure un bisogno definitivo di ritirarsi e fermarsi là.
Ma la necessità di andare a cercare dentro di sé, attraversando di nuovo terreni
sicuri, quella capacità di innovazione e
creatività – di livello straordinario, questo è certo – nel modo di affrontare il
mondo che permetterà a noi occidentali
industrializzati di cavarcela meglio nel
mondo complicato di domani. Altre civiltà stanno affrontando la stessa sfida in
modi diversi.
Si mettono su un barcone mezzo sfasciato e approdano in qualche modo sulle
nostre coste. Oppure salgono sul rimorchio di un camion e attraversano la frontiera nascosti nei container. Poi vivono qui
da clandestini per mesi, per anni, si guadagnano il pane per sé e per i loro familiari in tutti i modi, e se ce la fanno, dopo
qualche anno vengono anche eletti nei
consigli comunali e aprono negozi e
aziende. Ai ragazzi italiani poi, tanto per
fare un esempio, li chiamano gelatina, o
marmellata. E l’evocazione non è sicuramente di tipo alimentare. Una qualche
forma di slancio creativo per affrontare il
futuro, loro l’hanno già trovata.
ROCCA 15 MAGGIO 2006
COSE
DA
GRANDI
no, e non li citiamo qui perché l’importazione non fa testo. Invece le suonerie dei
cellulari sì, sono significative, è interessante durante la riunione di un organismo collegiale ascoltare canti di galli, rane
e grilli e fischi di treni, in comico contrasto con la divisa grigia abbottonata a doppio petto del manager occidentale. I divani più «in» ormai hanno tutti la forma del
letto e, – vivaddio, sono tremendamente
comodi – indossiamo tutti le stesse scarpe da ginnastica appena possiamo, nonni
e nipotini. Se siamo giovani adulti, in casa
portiamo le pantofole imbottite a forma
di animale. Di pelouche.
Rosella De Leonibus
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IO E GLI ALTRI
ROCCA 15 MAGGIO 2006
il leader
I soggetti che sono dotati di un certo magnetismo nei confronti degli altri in genere, quelli che godono di un grande fascino, di un notevole potere di trascinare gli
altri, vengono definiti come tipi carismatici. Il carisma è una dote che accompagna i soggetti così definiti in tutte le situazioni di collettività in cui si trovano, ed è
sicuramente una qualità innata, anche se
chi scopre di possedere questa dote, possa
tentare di sfruttarla in funzione dei propri
interessi personali. Sembra però che chi
scopre in se stesso un certo potere carismatico, questa qualità vada indirizzata a beneficio di chi subisce il fascino del carisma. Nella vita dei leader storici vi sono
però lamentabili eccezioni. Ci riferiamo a
quei leaders che hanno indirizzato il loro
grosso potere di trascinatori per realizzare azioni moralmente riprovevoli. L’esempio più comune presentato dai testi conosciuti è, senza dubbio, Hitler. Ma ciò dipendeva non solo dal suo carisma, ma pure
dalla grossa fetta di potere che era stata
data alle ideologie e dalla sua personalità
malata.
Tornando agli incontri di gruppo, potre40
la personalità
carismatica
Manuel Tejera de Meer
mo concludere che chi ha una personalità
carismatica la può esprimere anche mantenendo il silenzio, ma con una grossa partecipazione agli stati d’animo degli altri.
La sola presenza, in un gruppo, di una personalità carismatica, crea negli altri componenti del gruppo una sensazione di riconoscimento di una diversità trascinante. Il magnetismo che una persona può
esercitare sugli altri con la sua presenza
non è facilmente individuabile. Ma anche
se fosse riconosciuto dagli altri non si saprebbe definire con sicurezza quali siano
le condizioni intrapersonali che fanno di
quella persona un tipo carismatico. Chi
possiede questo potere ha la facoltà di farsi ascoltare anche se usa poche parole o
rimane in un silenzio comunicativo. Quest’ultima espressione («silenzio comunicativo») può essere giudicata un paradosso,
ma ribadiamo l’idea che il silenzio può
contenere un grande potere comunicativo,
dipendente dalla personalità di chi lo usa,
dalla sua spontaneità senza controllo di
fronte agli altri, per cui appare e manifesta quello che è.
È interessante sottolineare che, come dice
Alberoni nel suo volume su «L’arte del comando» (Rizzoli), il tipo carismatico non è
sempre brillante o estroverso; può anche
essere introverso e apparire appartato o un
po’ misantropo. Ma la capacità di trascinare gli altri e di diventare leader è sempre
presente. Perciò, quando una personalità
carismatica partecipa, con un minimo di
coinvolgimento ad un incontro con gli altri, la sua sola presenza costituisce un elemento di comunicazione che trascina altri,
anche senza conoscere granché di lui o di
lei. Possiamo dire che la personalità carismatica è quella che possiede il più grosso
potenziale di capitale sociale.
quando non si possiede carisma
La mia esperienza con gruppi di lavoro e
lo studio delle dinamiche interpersonali
che si fanno presenti negli appuntamenti
organizzati di persone coinvolte in discorsi comuni, ci porta a pensare che perché
un tipo silenzioso possa avere un influsso
in un gruppo di persone con la sola sua
presenza, non è necessario che si tratti di
soggetti carismatici. Basta solo che siano
persone interessate al discorso degli altri,
attente a ciò che si dice e alle diverse opinioni, coinvolte emotivamente fino al punto di potersi dire che partecipano pure ai
discorsi fatti, nonostante il loro silenzio.
Il coinvolgimento emotivo, che indica partecipazione al gruppo potrebbe essere la
base su cui si sviluppano i segnali di comunicazione. Una persona presente nel
gruppo può esprimere il dispiacere o il disgusto di quello che sente attraverso gesti
di disconformità con il movimento della
testa caratteristico di chi nega qualcosa. Il
gesto di affermazione palese con la testa
quando ci si sente d’accordo con quanto si
ascolta sarà l’espressione chiara di una
conferma senza dubbi. Questi gesti banali
di comunicazione non verbale possono
manifestarsi con forme più sottili. Sentire
rifiuto o disappunto quando si ascolta
qualcosa si può esprimere con gli occhi
spenti. E la vivacità dello sguardo e gli occhi sorridenti possono esprimere entusiasmo e conferma. La «faccia lunga» può
esprimere emozioni di tipo aggressivo nei
confronti di certe idee che si sentono o di
chi le difende. La proiezione dei propri
atteggiamenti e dei nostri sentimenti in
manifestazioni del viso o in gesti spontanei non sempre si realizza attraverso i soliti segnali, a cui abbiamo alluso. Tante
volte è molto difficile riconoscere un sentimento o una situazione emotiva di chi
solo ascolta, senza dire parole. Ma i segnali
di accettazione o di rifiuto, pur con il rischio di false interpretazioni, possono arrivarci attraverso sensazioni poco definite. Sentirsi accettati in un gruppo anche
senza essere molto espressivi verbalmente, costituisce la dimensione fondamentale del senso di appartenenza al gruppo.
Perciò, in tantissime occasioni vale di più
una presenza che un discorso, di più un
atteggiamento che un comportamento, di
più un interesse reale ma silenzioso che
un discorso formale altisonante.
La vita non è solo fatta di sistemazione lavorativa, o di realizzazioni politico-sociali; non si vive solo per guadagnare e poter
nuotare nell’abbondanza, per avere sempre di più. La vita è fatta soprattutto di
relazioni umane soddisfacenti e gratificanti, fecondate da incontri dove la comunicazione trasformi il discorso o la pura presenza in strumenti di realizzazione personale, di qualcosa che dia senso alla vita.
Saper stare con gli altri, facendo della propria presenza uno strumento di comunicazione, significa migliorare la qualità della vita di ognuno.
ROCCA 15 MAGGIO 2006
I
n ogni conversazione di gruppo c’è
sempre chi parla frequentemente e
chi frequentemente rimane muto,
partecipando ciononostante ai discorsi attraverso l’attenzione e
l’ascolto. Esiste pure chi si dissocia da ogni
coinvolgimento e sta con l’immaginazione solo con se stesso o in altri luoghi. Di
questi ultimi non vogliamo parlare oggi,
giacché sono agli antipodi di ogni comunicazione umana. Vogliamo invece riferirci a chi non si fa notare perché parla poco
o niente ma è ciononostante presente in
quanto coinvolto nei discorsi che si fanno
con una grande capacità di ascolto, con
una grande attenzione e con una gestualità impossibile da controllare del tutto. È
importante riconoscere il grande influsso
che esercita sugli altri chi partecipa ad una
riunione senza pronunciare parola ma con
un coinvolgimento emotivo che si esprime attraverso l’attenzione e i gesti o
l’espressione del viso. Non è da escludere
che chi è presente senza usare le parole,
possa diventare leader del gruppo, se si
tratta di una personalità carismatica, che
con la sua sola presenza stimoli e promuova la comunicazione.
Manuel Tejera de Meer
41
SOCIETÀ
Claudio
Cagnazzo
a vacanza ha avuto sempre un che
di artificioso. Nonostante si vestisse di abiti naturali. Tutti infatti erano e sono convinti che la serialità
del lavoro vada interrotta con un
tuffo nel mare o nella luce della
montagna, se non in quella più opaca della campagna. Comunque, qualche giorno
tra sdraio e ombrelloni, o con la testa in
aria verso vette di monti o funivie quasi
radenti il terreno, era e resta il giusto compenso per uomini e donne imprigionati
tutto l’anno nelle pastoie del vivere quotidiano. Almeno si crede. E in questo apparentemente nulla è cambiato. Nessuna differenza di fondo sembra avvertirsi tra le
sensazioni ad esempio di una vacanza
marina di trent’anni fa, o una di adesso.
Certo le modalità sono cambiate. I ritmi si
sono in qualche modo alterati. Il contesto
in qualche modo mutato. Sorbire un gelato nella riviera adriatica di sera negli anni
’50 con il suo profumo di provincia, oppure di questi tempi in località esotiche, tra
fuoristrada rombanti e vetrine accecanti,
non è la medesima cosa. Ma il sogno della
vacanza come fuga dal mondo. Del riprendersi la propria vita mutilata dal lavoro
quotidiano, dalle preoccupazioni, dall’insopportabile filtro alla nostra felicità fatto
dal tran, tran giornaliero, tutto questo è
rimasto immutato.
L
ROCCA 15 MAGGIO 2006
la Vacanza come Fiaba
Fuga dal mondo come esso è, verso il
mondo come si vorrebbe che fosse. La
vacanza come fiaba. Anche quando la si
cerca solo per riposare. Perché il sospendersi del tempo dell’impegno, della dura
dialettica delle cose, ha comunque un che
di fiabesco. Sospensione del tempo della
42
vita anche quando gli avvenimenti incalzano. Solo che, seppur nel loro rimanere
se stesse, le vacanze si sono in qualche
modo evolute; ovvero nel tempo la fiaba
che ci raccontavamo ha preso sempre di
più le distanze dalla vita reale. Sino a divenirne indistinguibile. Difatti trenta anni
fa, la famiglia ingenua e un po’ inadeguata si allontanava di pochi chilometri per i
riti vacanzieri e davvero la vita minima
delle pensioni, o i racconti di spiaggia sulla vita spicciola di figli, nonni e nipoti,
diveniva qualcosa di mitico. Chi tra quei
villeggianti raccontando degli esami del
figlio o del matrimonio del nipote non ha
raccontato anche a se stesso un’avventura straordinaria? L’aria salsa e le spume
delle onde ripulivano le storie della inevitabile banalità e le restituivano sotto forma di dolci carezze quasi letterarie. La
sera poi a passeggio c’era nei villeggianti
stessi un senso di compiutezza, di asciuttezza dei sentimenti che era tutta legata
alla concretezza dei fatti. Divenivano così
fonte di lunghi dibattiti i prezzi delle pensioni, o la qualità del cibo ammannito.
Con qualche concessione persino alla qualità del servizio e, specialmente da parte
delle donne, sulla buona educazione dei
camerieri. Insomma la vita di città si riversava sottotraccia sulle rive del mare.
E vizi e virtù si replicavano, resi appena
più leggeri da magliette a righe e zoccoli
colorati. Era un mondo semplice e chi ne
ha fatto esperienza, non può non ricordare che il ritorno a casa chiudeva definitivamente l’avventura feriale, di cui al
massimo poteva restare un filmino. Il
magico, mitico filmino che ci accompagnava nelle grandi occasioni: battesimo,
comunione, matrimonio e vacanze. Da
rivedere da far rivedere in certi tristi e
assonnati dopo cena. Il filmino raccoglieva e conservava l’evento per anni. E nel
rivederlo le fiere scorribande sulla riviera suscitavano tenerezza e orgoglio allo
stesso tempo. Eravamo proprio noi, ragazzi!
l’incubo della vacanza
Ora non è più così. Ora le famiglie, o stanno a casa per mancanza di soldi, con lo
sguardo incarognito davanti alle tv, oppure coronano veramente un nuovo sogno:
le vacanze mordi e fuggi, specialmente nei
mari del Sud. Ora, tranne rare eccezioni
di pervicaci abitudinari romantici, la riviera è frequentata tutto l’anno solo per consumare soprattutto se stessi. E la famigliola
con gelato alla mano è un reperto da sociologi bizzarri. Lì sulla riviera si consuma ormai l’ultimo estremo rito di matrice
televisiva. Lì Grandi Fratelli e Piccole Sorelline si accampano non per sfuggire al
tedio della vita, ma per proseguire il reality che tutti i gironi recitano a soggetto.
Perché la vita stessa è ormai vissuta da
molti come una sorta di evasione, anche
quando si presenta nella sua durezza. Si
vive nella propria città mimando i ritmi e i
riti delle vacanze. Il cosiddetto weekend è
il fine della settimana lavorativa, non la
fine. Macchine post moderne, telefonini,
pub e quant’altro poi tentano ormai di trasformare l’architettura urbana per creare
piccoli o grandi paesi dei balocchi. La vacanza di fatto non esiste più. Esistono invece continui allargamenti del proprio confine. Estetici e materiali. Non si va più a
fare vacanze, ma si va a vedere nuovi posti, a cercare emozioni, a ripetere se stessi
con più apparente libertà. Si vola con l’aereo, si consuma e si torna. In una spetta-
colare circolarità delle nostre vite. Già perché incredibilmente mentre la modernità
aveva introdotto l’idea di linearità del tempo e quindi della possibilità dell’imprevisto, ora per certi versi il tempo ha riassunto la circolarità del primo medioevo. Tutto si ripete. Tutto torna al punto di partenza. Lavoro-weekend-consumo e di nuovo
lavoro per ricominciare. Come fossimo in
un serial televisivo dove ogni cosa è prevedibile, ma facciamo finta di non saperlo,
per sorprenderci lo stesso. E forse siamo
già esseri virtuali, nel senso che facciamo
di tutto per sovrapporre alla nostra umanità la finzione collettiva di un mondo assolutamente artificioso. E in questo senso
ciò che è successo in Egitto, quel ripetersi
di spargimento di sangue sulle vacanze,
quelle bombe folli e inconsulte e le reazioni conseguenti, è lì a dimostrare che il reality non può avere fine. Difatti i terroristi
uccidono e distruggono, ma il mito vacanziero non regredisce. Quasi nessuno scappa da quei luoghi in questo caso di morte
e quasi nessuno rinuncia ad andarci. I terroristi, da sempre fuori della realtà, straziano cose e persone e i villeggianti, ormai
fuori della realtà, tremano per un po’ e poi
ricominciano con i loro riti. Nessuno vuole interrompere il sogno artificiale suggerito da quei luoghi patinati. E in fondo il
vero simbolo di tutto ciò sono i turisti che
con le camere digitali riprendono i propri
cari con sullo sfondo le macerie degli alberghi. Sceneggiatura mirata. Immagini da
rivedere dopo cena, tra la curiosità morbosa degli amici e l’orgogliosa compunzione dell’operatore e dei suoi cari. Perché
loro c’erano, ragazzi! E in fondo si sono
pure divertiti.
ROCCA 15 MAGGIO 2006
dalla vacanza
al weekend
Claudio Cagnazzo
43
Tzvetan
Todorov
discorsi della varietà
Stefano
Cazzato
a mediazione culturale, la teoria letteraria, l’epistemologia del discorso
sono i tre ambiti nei quali si è andata
sviluppando, a partire dagli anni ’60,
la riflessione del semiologo bulgaro
Tzvetan Todorov.
Primo lavoro significativo di Todorov è la
cura nel 1965 di un’antologia di scritti sui
formalisti russi che diverrà, ben presto, la
base teorica di una delle sperimentazioni letterarie più rilevanti e discusse del ventesimo
secolo: lo strutturalismo. Il volume presentato da Todorov mette in circolo indicazioni
critiche innovative come il riferimento alla
centralità dell’opera (l’oggetto) rispetto all’autore (il soggetto), l’idea dell’arte come procedimento e costruzione invece che ispirazione, l’introduzione di una metodologia di studio empirica e scientifica in antitesi all’impressionismo psicologico dilagante. L’esordio
formalista ispira, almeno fino alla metà degli anni settanta, la concezione todoroviana
della poetica come una scienza diretta a rintracciare «le leggi generali che presiedono
alla nascita di un’opera letteraria».
Quella di trovare le leggi, le strutture, le invarianti, dietro l’apparenza e la transitorietà
dei fenomeni particolari, non è una posizione isolata né nel campo della letteratura né
in quello più ampio delle scienze umane. In
Francia (dove Todorov emigra nel 1963 dalla Bulgaria socialista per affiancarsi al gruppo costituito da Lévi-Strauss al Collège de
France) lo strutturalismo è una vera e propria moda intellettuale, consacrata nel 1968
dall’uscita di un’opera a più voci, alla quale
anche Todorov partecipa, dal titolo Qu’estce-que le structuralism? (Che cos’è lo strutturalismo?)
L
leggi e variabili
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Tuttavia, negli anni successivi, Todorov, come
altri intellettuali formalisti, lavora incessantemente a una rielaborazione dei capisaldi
dello strutturalismo. Poetica della prosa, il suo
saggio sulle leggi del racconto pubblicato nel
1971, viene salutato come un esempio di
strutturalismo «dolce». Questo addolcimento non consiste solo nel relativizzare le tecniche di analisi e gli strumenti critici dello
strutturalismo ma nel modificare la prospettiva generale da cui si guardano le produzioni umane e sociali, privilegiandone progres44
sivamente la storicità senza sottovalutarne
però le strutture. Mentre si affievolisce il
grande progetto di trovare l’universale nel
particolare e di isolare l’unicità dalla varietà
delle produzioni poetiche, l’interesse teorico
di Todorov si allarga dall’universo letterario
a quello simbolico e da quello simbolico a
quello discorsivo. L’indagine delle variabili
del discorso diventa più importante dell’individuazione delle sue leggi. Il compito dello
studioso non è solo quello di formalizzare
identità ma di conoscere ed esplorare differenze con tutte le conseguenze teoretiche,
etiche e politiche di riconoscimento e di legittimazione che la scoperta dell’altro, irriducibile per definizione all’uno, comporta.
Le opere che segnano progressivamente questo passaggio, a cavallo degli anni ottanta,
sono soprattutto Teorie del simbolo e I generi
del discorso.
In Teorie del simbolo del 1977 viene introdotta, attraverso una ricostruzione temporale
che va dai classici ai romantici, la fondamentale distinzione tra funzione imitativa (significazione) e funzione produttiva (simbolizzazione) dell’arte e più in generale del linguaggio. Se l’arte imita il mondo, il mondo
che ne risulta è uno, oggettivo, non controverso, sempre identico a sé. Se l’arte, invece,
produce delle interpretazioni o delle riflessioni sul mondo, il mondo che ne risulta è
molteplice, soggettivo, differenziato. La diversità «è la conseguenza della varietà dei
soggetti che si esprimono», che prendono la
parola. Naturalmente questi soggetti non
sono isolati gli uni dagli altri, vivono, pensano, agiscono, si esprimono secondo ideali e
norme della propria epoca e della cultura a
cui appartengono per cui le loro produzioni
non sono mai rigorosamente soggettive ma
sempre condivise e collettive. Todorov non
supera l’oggettivismo ritornando al soggetto
ma recuperando la dimensione sociale, relazionale, plurale della soggettività.
«Oggi io credo – scrive Todorov – in una pluralità di discorsi: non uno soltanto, né infiniti; ma svariati. Ogni società, ogni cultura
possiede un insieme di discorsi… Non vi è
ragione di condannare l’uno in nome dell’altro, ma questo non significa nemmeno: ogni
discorso è individuale e non assomiglia a
nessun altro. Tra il discorso e i discorsi, ci
sono i tipi di discorso».
Il fatto che ci siano parentele, somiglianze,
il problema dell’altro
Le opere più recenti sviluppano, già a partire dai loro titoli emblematici (Il principio dialogico, La conquista dell’America, Noi e gli altri, La vita in comune), il tema del confronto
con la diversità nel quadro di una riflessione
più generale sulla morale che Todorov ha
tematizzato sullo sfondo delle tre vicende
probabilmente più drammatiche del XX secolo: i lager (Di fronte all’estremo), la guerra
partigiana nei giorni dello sbarco in Normandia (Una tragedia vissuta), i totalitarismi (Memoria del male, tentazione del bene).
Particolarmente significativa, perché paradigmatica della sua intera opera, è La conquista dell’America dove Todorov costruisce
un vero e proprio mosaico delle relazioni con
l’alterità passando in rassegna figure diverse
di scopritori e colonizzatori del XVI secolo.
Da Cristoforo Colombo a Cortés, da Bartolemeo de Las Casas a Cabeza de Vaca il rapporto con l’altro prende di volta in volta una
caratteristica diversa ed esemplare: quella
dell’assimilazione bruta, della comprensione strumentale finalizzata al dominio, dell’amore cristiano, dell’incontro interculturale. Storia di usurpazione e di massacri, di
distruzioni e di razzie, la conquista costrin-
ge tuttavia l’Europa e gli europei a porsi in
modo nuovo il problema della conoscenza
di sé, dell’altro e della conoscenza in genere.
A partire da una logica identitaria la conoscenza «non consiste nel cercare la verità, ma
nel trovare delle conferme a una verità già
conosciuta in anticipo». Partendo, invece,
dall’eterologia la conoscenza consiste nel pensare la verità come una costruzione dialogica e nel cercarla laddove si incontrano linguaggi, patrie, mondi diversi, laddove cioè la
contaminazione non solo è possibile ma è
anche desiderata come un traguardo umano
superiore a quello della soggettività e dell’autocoscienza. Del resto, per Todorov un’opposizione dinamica e vitale, dal punto di vista
di una teoria della conoscenza, non è quella
tra verità e non verità, tra monismo e relativismo, tra identità e non identità, tra necessità e caso, ma tra differenze destinate a dialogare, tra possibilità destinate a incontrarsi.
Per queste ragioni l’etichetta di semiologo sta
assai stretta a un personaggio come Tzvetan
Todorov il cui progetto è di più ampio respiro: spaziando dalla letteratura alla linguistica, dalla retorica all’ermeneutica, dall’antropologia alla storia della cultura, dalla filosofia all’epistemologia, la sua riflessione dimostra che non esiste un sistema monolitico
delle idee e deriva dalla dissoluzione dell’idea
di sistema il terreno sul quale possono convivere, senza preclusioni e egemonie, molteplici verità, tante morali, vari discorsi degli
uomini. Proprio quei discorsi che Cristoforo
Colombo non ascolta e nemmeno immagina, immerso com’è nella sua lingua, nella sua
patria e nel suo mondo. A lui e ai moderni,
come purtroppo a molti dei contemporanei,
«sfugge la dimensione dell’intersoggettività,
del valore reciproco delle parole, del carattere umano – e quindi arbitrario – dei segni».
Stefano Cazzato
Bibliografia
I formalisti russi, 1965, Einaudi, 1968
Introduzione alla letteratura fantastica, 1970,
Garzanti, 1983
Poetica della prosa, 1971, Teoria, 1989
Simbolismo e interpretazione, 1977, Guida, 1986
Teorie del simbolo, 1978, Garzanti, 1991
I generi del discorso, 1978, La Nuova Italia, 1993
Michail Bachtin, il principio dialogico, 1981,
Einaudi, 1990
La conquista dell’America. Il problema dell’altro,
1982, Einaudi, 1984
Critica della critica. Un romanzo d’apprendistato, 1984, Einaudi, 1986
Noi e gli altri, 1989, Einaudi, 1992
Le morali della storia, 1991, Einaudi, 1995
Di fronte all’estremo, 1991, Garzanti, 1993
Una tragedia vissuta, 1995, Garzanti, 1995
La vita in comune, 1995, Pratiche, 1998
Memoria del male, tentazione del bene, 2000,
Garzanti, 2001
ROCCA 15 MAGGIO 2006
MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO
tipologie dei discorsi, e che compito della
scienza sia quello di trovarle e di classificarle, non scalfisce la professione di fede dialogica con cui si chiude Teorie del simbolo:
«Oggi noi siamo pronti ad affermare l’eterologia: i modi di significare sono molteplici, e
irriducibili l’uno all’altro; la loro differenza
non dà nessun diritto a giudizi di valore: ciascuno può essere esemplare nel suo genere».
Il problema del genere considerato non tanto come un contenitore onnicomprensivo ma
come un punto di vista regolativo utile per
valutare differenze, variazioni, esemplarità
ritorna programmaticamente ne I generi del
discorso del 1978.
Todorov dimostra che nella storia delle idee
ci sono sempre stati prodotti artistici e linguistici non riducibili ai generi convenzionali, opere non coerenti col canone letterario
comunemente accettato, discorsi eccentrici
e devianti rispetto ai discorsi-tipo. Ma chi può
dire che questi prodotti, queste opere, questi
discorsi «altri» siano privi di valore? Se i generi esistono, allora, non sono classi logiche
a priori, forme eterne ma produzioni e trasformazioni storiche che, per ragioni generalmente ideologiche, sono state preferite ad
altri generi concorrenziali e istituzionalizzati. Ci sembrano forme assolute, leggi stabili,
ma non lo sono. Scopo di una teoria del discorso è di tener conto di tutte le voci, quelle
canoniche e quelle difformi, quelle letterarie
e quelle ai confini della letteratura, attraverso «un’esplorazione delle potenzialità del linguaggio» che solo «un formalismo terrorista»
può pensare di codificare rigidamente.
45
CHIESA
46
Benedetto XVI
anno primo
D
i un pontificato allo stato nascente resta prematuro tentare un bilancio. Non ci sono che materiali per analisi congetturali e indiziarie. Molti lo aspettano al varco del rinnovamento dello staff
dei collaboratori in Segreteria di Stato.
Altri sono portati ad apprezzarlo per ora
più sui contenuti dei testi, che scrive di
propria mano, che sulle riforme strutturali. Prevale ancora il senso di una lunga
vigilia, con l’incertezza che la accompagna. Ma è indubbio che dopo un regno di
27 anni durante il quale Giovanni Paolo
II aveva preferito navigare sugli orizzonti
messianici globali che stare alla barra del
governo, ogni misura destinata a incidere sul potere dell’apparato centrale e sulle abitudini acquisite è difficile. Il papa
attuale è portato per carattere più a misure omeopatiche che a interventi chirurgici sul sistema. In ogni modo, egli ha sbaragliato gli stereotipi troppo pigri e precipitosi che lo iscrivevano senz’altro nelle file degli agenti della restaurazione.
Le opzioni principali del nuovo pontefice,
così come sono emerse lungo il primo
anno, mi sembrano fondamentalmente tre:
1) la ricerca del primato dello spirituale
nella vita della Chiesa cattolica, col recupero della spinta del Concilio Vaticano II
e il rifiuto della politicizzazione della fede;
2) il richiamo ai Movimenti, usciti con eccessi di potere dall’epoca wojtyliana, a integrarsi nella disciplina del sistema gerarchico della Chiesa, e il rifiuto del relativismo religioso, delle religioni come prodotto di consumo, riflesso del neoliberalismo
individualista nel mondo del sacro contemporaneo;
3) infine, l’acquisizione del dialogo interreligioso come parte irrinunciabile e scelta irreversibile della Chiesa romana, specialmente in un’ora gravida di rischi per
la pace mondiale, sotto l’attacco del ter-
rorismo fondamentalista (considerato anch’esso una sottospecie particolarmente
letale e globale di religione politica).
dallo smisurato alla misura
Benedetto XVI non ha trascurato occasione per convalidare il legame di continuità con Giovanni Paolo II. Ma come è apparso, soprattutto nel discorso al Corpo
Diplomatico, se i piatti del menù sono gli
stessi, la cucina è diversa, le salse tedesche sono differenti da quelle polacche.
Verso il predecessore, Ratzinger si vuole
impegnato in una missione di approfondimento e di raccolta, ma anche di esplorazione e di riflessione intorno alla complessa eredità ricevuta, in modo da aprirla a nuovi compiti.
Dopo lo «smisurato» Wojtyla, è arrivata
sul soglio la misura. La sobrietà è il nuovo stile impresso da Benedetto XVI al papato, dopo l’abbagliante regno di Wojtyla. Papa Ratzinger tiene fede alla promessa del primo discorso ai cardinali ai quali
disse che compito del papa è di «far risplendere la luce di Cristo, non la propria
luce». Non si tratta solo di estetica, ma di
visione ecclesiologica. La diminuzione
della figura del Successore di Pietro è un
passaggio decisivo non solo per la riforma collegiale della monarchia assoluta del
pontefice, ma anche per i progressi nel
campo ecumenico. A lui non interessano
le masse, ma le coscienze. Rieducare alla
fede cristiana i nuovi analfabeti ex cristiani, i nuovi pagani, gli indifferenti non
meno che i fanatici: per questa missione,
che Ratzinger preferisce da sempre, egli
insiste sulla necessità del dialogo tra fede
e ragione moderna.
l’anno dei due papi
L’annuncio del processo di beatificazione
il dialogo interreligioso
di Wojtyla, in deroga all’attesa canonica
di cinque anni, nel discorso al clero romano il 13 maggio, è servito a incanalare
nel sistema istituzionale la gigantesca corrente di entusiasmo religioso suscitata da
Giovanni Paolo II. L’avvio della causa, che
non è una beatificazione a scatola chiusa, aiuterà a privilegiare l’approccio storico sulla complessa personalità e azione
di Wojtyla. Ricondotta nell’ambito della
ricerca storiografica, la figura di Wojtyla
beneficierà di una lettura migliore della
sua complessità e una maggiore chiarezza sulle sue interne contraddizioni. Papa
Benedetto faceva sapere così di voler convalidare il vincolo di continuità tra i due
papi, scongiurare il pericolo di una polarizzazione «diarchica» nel popolo cristiano, impedire una dissipazione nostalgica,
disordinata dei «discepoli» di Wojtyla,
reinvestire nel vissuto dell’intera Chiesa
le loro energie spirituali, educandole a un
maggiore senso della Chiesa al di là di indebiti culti privati e di un miracolismo
puerile.
In realtà il primo anno di Papa Ratzinger
è stato l’anno dei due papi. Abbiamo assistito alla sovrapposizione spirituale e alla
coabitazione mentale delle due figure di
pontefici, evidente soprattutto alle Giornate Mondiali della Gioventù a Colonia.
papa Benedetto XVI
In alcuni suoi primi interventi era stata
lamentata in particolare l’assenza di riferimenti al dialogo con l’Islam e si era potuta notare la dequalificazione del dialogo interreligioso al più trattabile dialogo
fra le culture. Al contrario, alle Giornate
Mondiali della Gioventù a Colonia, egli ha
affermato nettamente che «il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani
e musulmani non può ridursi ad una scelta stagionale» e che «esso è una necessità
vitale da cui dipende in gran parte il nostro futuro»: una linea di non ritorno era
stabilita rispetto alle aspettative e alle
pressioni dei circoli del tradizionalismo
cattolico. In questa prospettiva non poteva che suscitare perplessità la destituzione dell’arcivescovo Michael Fitzgerald
dalla carica di presidente del Pontificio
Consiglio per il dialogo interreligioso per
essere destinato nunzio al Cairo, una sede
peraltro di prima importanza per il dialogo con l’Islam.
Nel discorso alla Sinagoga di Colonia
egli ha ricordato i progressi registrati
dopo la dichiarazione Nostra Aetate dal
dialogo ebraico-cristiano, ma ha aggiunto che «resta però ancora molto da fare.
Dobbiamo conoscerci a vicenda molto
di più e molto meglio. Perciò incoraggio un dialogo sincero e fiducioso tra
ebrei e cristiani: solo così sarà possibile
giungere ad un’interpretazione condivisa di questioni storiche ancora discusse
e, soprattutto, fare passi avanti nella valutazione, dal punto di vista teologico,
del rapporto tra ebraismo e cristianesi47
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Giancarlo
Zizola
A questo processo comparativo, del resto
inevitabile, il papa teologo ha reagito semplicemente presentandosi nella identità
propria, con i suoi caratteri sobri, essenziali, teologici. Non ha giocato la carta del
seduttore, ma del pudore quasi monastico. Ha scartato le improvvisazioni, le mimiche, le ola, il bacio della terra. Alieno
dal trionfalismo papolatrico non meno
che dalle illusioni costantiniane, il suo
stile ha voltato pagina rispetto a Giovanni Paolo II. Il suo linguaggio si è affidato
non ai gesti, ma alle parole, non agli slogan e agli effetti emotivi ma alla forza e
al rigore delle argomentazioni teologiche
e facendo appello sistematicamente alle
fonti bibliche e patristiche.
la Chiesa pellegrina
compagna dell’umanità
Papa Benedetto si è fatto l’apostolo di
un cristianesimo interiore, giocato sul48
le convinzioni della coscienza. Egli ha
dichiarato la sua adesione alle linee fondanti del Concilio Vaticano II, difeso il
principio del dialogo della Chiesa con
la società, riconoscendo la necessità per
la fede cristiana di mettersi all’ascolto
dei fermenti, delle angosce e delle aspirazioni del mondo. Al cristianesimo di
massa e spettacolare di Wojtyla, egli ha
risposto valorizzando un cristianesimo
più personale, ancorato ad un’idea della fede come «pellegrinaggio interiore»,
come ricerca infaticabile più che come
riconquista di posizioni di potere mondano.
Egli ha invitato chiaramente la Chiesa, e
non solo i giovani che lo ascoltavano, a
ripristinare la massima attenzione verso
gli aspetti spirituali della ecclesiologia.
È un’evoluzione importante, rispetto ai
cedimenti al nuovo temporalismo, se non
ad una nuova religione politica, dell’epoca della restaurazione post-conciliare.
Recuperando il linguaggio della Chiesa
della misericordia e spazio della tenerezza, tipico di Giovanni XXIII, l’antico difensore del Dogma ha rilanciato il modello di una Chiesa pellegrina negli accidentati percorsi della storia, compagna
dell’umanità, senza ambizioni di potere
politico, al rovescio d’un modello di nuova cristianità carolingia, competitiva sul
piano dei poteri mondani.
Mi pare che egli sia impegnato a una ripresa dell’essenza sacramentale della
Chiesa, quale riscoperta dal Concilio Vaticano II, per riequilibrare la spinta impressa da Wojtyla sulla funzione pubblica e sul ruolo sociale della Chiesa.
Dunque, una Chiesa più «serva e povera» che «società perfetta». Non a caso è
tornato a mettere in valore il tema della
povertà della Chiesa, anche nel discorso al concistoro per i nuovi cardinali.
Tutte le figure ecclesiali, inclusa quella
del papa, devono essere ridefinite in
questa luce. Capitali l’allocuzione natalizia alla curia romana e il discorso al
collegio degli scrittori di «Civiltà Cattolica»: nel primo ha dimostrato che il
Concilio Vaticano II fa parte organica
della tradizione della Chiesa (così rompendo in un punto di volta la critica dei
lefebvriani), nel secondo ha sottolineato la necessità di compiere la realizzazione delle riforme conciliari, riconoscendo che sono rimaste inadempiute.
In secondo luogo, Benedetto XVI si è accinto a un compito di pacificazione interna della Chiesa. Già a Colonia, e poi
nell’udienza ai neocatecumenali, ha det-
to chiaramente le esigenze di recupero
istituzionale dei movimenti dell’entusiasmo religioso, con non infrequenti attrazioni integraliste. Ha rappresentato
ad essi la necessità di tornare a un più
rigoroso rispetto delle esigenze di comunione e di obbedienza al papa e ai vescovi, gli unici garanti che la ricerca della fede non avvenga su sentieri privati.
Ai neocatecumenali ha detto chiaro che
il periodo di sperimentazione concesso
loro da Giovanni Paolo II è finito. Notevole l’ingiunzione a Radio Maria polacca, uno dei mostri sacri dei movimenti
wojtyliani, di cessare la propaganda antisemita e di allinearsi sulla dottrina del
Concilio. E nella previsione della riconciliazione con il movimento scismatico
dei tradizionalisti lefebvriani, il papa si
è fatto aiutare dal plenum dei cardinali
per rafforzare l’esigenza di un riavvicinamento non incondizionato, in special
modo sulla irrinunciabilità della dottrina della libertà religiosa, in modo da
definire con precisione i limiti di un
sano pluralismo nella Chiesa romana.
relativismo e disperazione
Nei discorsi di Colonia e in altre allocuzioni si è notato un atteggiamento più
positivo in Benedetto XVI verso il mondo contemporaneo. Non è consigliabile
dimenticare che anche questo papa si
porta dietro la propria storia, che è la
storia di un fine intellettuale, vissuto più
tra i libri che tra la gente, che ha studiato la povertà più di quanto l’abbia vissuta e che per tutta la vita ha pensato il
mondo dal baricentro cognitivo dell’Europa occidentale. Tuttavia non si deve
cadere nell’errore di fare di un papa la
fotocopia «oggettiva» di ciò che era stato. E nel caso di Ratzinger egli aveva dimostrato, da teologo e da cardinale,
molta più complessità intellettuale di
quanta non gliene venga riconosciuta
dai pregiudizi, sempre troppo pigri. La
stessa enciclica sull’amore ha convalidato un approccio fondamentale che era
già nel giovane Ratzinger, attirato dall’ottimismo di San Bonaventura e dalle
visioni di Gioachino da Fiore. L’enciclica ha riconosciuto apertamente il valore dell’evoluzione moderna verso l’autonomia del politico e la riscoperta della dignità della persona umana, ammettendo che la Chiesa è giunta in ritardo
su queste conquiste storiche, malgrado
fossero già in seme nel Vangelo.
il dialogo tra cristiani
Una delle crisi ereditate da Benedetto
XVI riguardava la paralisi dei rapporti
tra Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, in particolare con il Patriarcato di
Mosca. In alcuni mesi una nuova primavera tedesca ha permesso il disgelo su
questo difficile terreno. Le relazioni con
la Chiesa russa sono tornate buone dopo
la visita del cardinale Kasper, presidente del Pontifico Consiglio del dialogo fra
i cristiani, al Patriarca Alexei. Uno dei
più severi critici della politica della Santa Sede, il Patriarca della Chiesa serba
Pavle ha preso l’iniziativa di offrire uno
dei monasteri della sua Chiesa per la ripresa dei lavori, sospesi da cinque anni,
della commissione internazionale del
dialogo fra cattolici e ortodossi nel prossimo settembre. Il documento sull’autorità nella Chiesa in agenda potrà determinare, si può prevedere, il clima della
visita di Benedetto XVI al Patriarca di
Costantinopoli Bartolomeo in programma a Istanbul in novembre. Ritengo che
l’impronta dell’ecumenismo di Ratzinger
sia piuttosto interessata a delle misure
concrete per far avanzare effettivamente il cammino dell’unità fra i cristiani. A
Bari, il 29 maggio 2005, Ratzinger ha
preso l’impegno di «misure concrete» e
non di «buoni sentimenti» per spingere
i rapporti con gli Ortodossi al di là della
crisi. È sorprendente riconoscere questo
aspetto pratico nell’approccio di un papa
piuttosto intellettuale. In questo senso
anche la restaurazione di una prassi di
comunione e di coordinazione nell’esercizio del mandato papale è finalizzata a
diminuire l’eccessiva imponenza della figura papale sulla Chiesa, per riportarla
«nella» Chiesa: è evidente che questa
operazione ha una immediata portata
ecumenica.
decentramento del potere romano
Non possiamo dimenticare che il cardinale Ratzinger aveva preso sul serio la
proposta di riforma dell’esercizio del primato lanciata da Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint (1995). È probabile che egli si dedichi ora a mettere in
pratica le misure di riforma concepite nel
convegno di studio da lui organizzato
dopo quell’enciclica. Alcuni passi del tut-
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ROCCA 15 MAGGIO 2006
CHIESA
mo. Questo dialogo, se vuole essere sincero, non deve passare sotto silenzio le
differenze esistenti o minimizzarle: anche nelle cose che, a causa della nostra
intima convinzione di fede, ci distinguono gli uni dagli altri, anzi proprio in esse,
dobbiamo rispettarci a vicenda. Infine,
il nostro sguardo non dovrebbe volgersi
solo indietro, verso il passato, ma dovrebbe spingersi anche in avanti, verso i
compiti di oggi e di domani. Il nostro
ricco patrimonio comune e il nostro rapporto fraterno ispirato a crescente fiducia ci obbligano a dare insieme una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico per la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo
e della sacralità della vita umana, per i
valori della famiglia, per la giustizia sociale e per la pace nel mondo».
È da osservare infine che, in entrambi
gli interventi, agli Ebrei e ai Musulmani,
il papa ha riconosciuto le colpe della
Chiesa, in particolare per quanto riguarda l’antisemitismo e le guerre di religione combattute contro l’Islam. «Il ricordo di questi tristi eventi, ha detto, dovrebbe riempirci di vergogna, ben sapendo
quali atrocità siano state commesse nel
nome della religione. Le lezioni del passato devono servirci ad evitare di ripetere gli stessi errori. Noi vogliamo ricercare le vie della riconciliazione e imparare
a vivere rispettando ciascuno l’identità
dell’altro. La difesa della libertà religiosa, in questo senso, è un imperativo costante e il rispetto delle minoranze un
segno indiscutibile di vera civiltà».
Nel testo papale indirizzato agli Islamici è marcata l’idea che il dialogo fra le
religioni è di vitale importanza per debellare l’idea della «violenza della verità» e sconfiggere il paradigma del Dio
in armi, del Dio della guerra. Egli si è
fatto iniziatore di una nuova alleanza fra
cristiani e islamici per isolare il terrorismo e promuovere la giustizia e la pace
internazionale. Egli ha offerto ai Musulmani una grande alleanza per colpire in
un punto decisivo la dannazione del terrorismo. Coerentemente ha voluto reagire alla distruzione della moschea di Samara e deprecare con forza l’offesa portata alla coscienza dei seguaci dell’Islam
dalle vignette insultanti verso il Profeta.
49
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un passo del volume del teologo Ratzinger «Il nuovo popolo di Dio» laddove, auspicando lo scioglimento del legame tra
papato e patriarcato d’Occidente, affermava che «accettare l’unità con il Papa non
significherebbe allora più aggregarsi ad
una amministrazione unitaria, ma semplicemente inserirsi nell’unità della fede
e della communio, riconoscendo al Papa
il potere di una interpretazione vincolante della Rivelazione portata da Cristo e
sottomettendosi quindi a questa interpretazione dove avvenga in forma definitiva».
Secondo questa visione del futuro papa,
la cristianità orientale non dovrebbe mutare assolutamente nulla nella sua concreta vita ecclesiale in conseguenza della sua
unità con Roma, una unità che «potrebbe essere altrettanto impalpabile come
nella Chiesa antica», incluse misure per
la «ratificazione» dell’assegnazione delle
sedi episcopali centrali, lo scambio delle
lettere pasquali tra Chiese d’Oriente e
d’Occidente, la convocazione di sinodi o
concili comuni, la citazione del vescovo
di Roma nel canone della Messa, come era
abituale prima dello scisma.
questioni etiche
Non credo che il papa sia disposto ad abbassare la guardia nel compito, che è il suo,
di rivendicare il primato del diritto della
vita sul diritto di proprietà, e di innalzare
la voce critica sulle derive del consumismo
neoliberale per difendere le coscienze dalle nuove servitù e dai servilismi di massa
nella società secolarizzata, anzi banalmente secolarizzata. Tuttavia può essere che
egli voglia riconoscere ai pastori delle diocesi una più grande autonomia nelle valutazioni concrete e nelle decisioni sui sacramenti ai divorziati, nello spirito della
misericordia congiunta al realismo che è
caratteristico della grande tradizione morale della Chiesa cattolica. Del resto la nomina immediata del cardinale statunitense Levada, di orientamento aperto, come
suo successore alla testa della Congregazione per la Dottrina induce a ritenere che
il disegno di Benedetto XVI sia di contenere gli orientamenti integralisti e massimalisti di alcuni circoli della curia, rifiutando l’equivalenza tra il dovere dell’intransigenza sui principi e l’immediata applicazione precettistica e oltranzista di quei
principi in una società pluralista.
Giancarlo Zizola
FATTI E SEGNI
quale pace?
Enrico
Peyretti
E
stremo – «Il varo di una guerra totale con l’uso di testate nucleari
esplosive contro l’Iran ora è nella
fase finale di pianificazione». Lo
scriveva in febbraio Michel Chossudovsky (Università di Ottawa, originale in www.globalresearch.ca). Lo conferma all’inizio di aprile Seymour Hersh sul New
Yorker citando una fonte dei servizi che descrive i preparativi come «enormi», «febbrili» e «operativi»: «Bush vuole usare l’atomica». Si parla tanto di sciocchezze e troppo
poco di gravità estreme, o per smentire, o per
sventare. Per potere opporsi alle pretese di
cui è accusato l’Iran, senza creare maggiore
estrema violenza, la legge deve essere uguale
per tutti, altrimenti è incoraggiata la violazione. O l’arma nucleare è vietata effettivamente a tutti, oppure chi la vuole se la procura. La prima minaccia è nel privilegio.
Politica 1 – Al punto più basso della campagna elettorale è risuonata l’affermazione che
«sono dei fessi gli elettori che non fanno il
proprio interesse». Questo pensiero rivela
quale infimo concetto della politica ha e pratica l’uomo che lo ha espresso. C’è un altro
pensiero: «Il problema degli altri è uguale al
mio. Sortirne [uscirne] tutti insieme è la
politica. Sortirne da soli è l’avarizia [l’egoismo]» (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967,
p. 14). Politica ed egoismo sono l’opposto
l’una dell’altro. Avere come principale e decisivo criterio politico il proprio particolare
privato interesse, è la negazione della politica. La quale è la ricerca del bene di ciascuno
entro il classico «bene comune». Senza di
ciò non c’è la politica, la vita insieme, ma la
guerra di tutti contro tutti, lo smembramento della società (essere soci) in bande di rivali. Un popolo «privatizzato» non è più un
popolo. Senza popolo non c’è demo-crazia,
ma al massimo la demo-cratura (dittatura
elettiva).
Politica 2 – La campagna elettorale non ha
abbastanza mostrato agli elettori che in Italia è in pericolo il principio costituzionale,
cioè il valore di una legge superiore alla volontà di qualunque maggioranza. La Costituzione non contiene solo le regole prime,
ma anche i valori storici e programmatici
della comunità politica: la giustizia e la pace,
la libertà non individualista ma solidale. La
politica è pace, vivere insieme, altrimenti è
contraffazione della politica. La pace è nonviolenza positiva, la forza più umana, la più
giusta difesa dei diritti, la liberazione dalle
armi, che non ottengono mai la pace. Altri-
menti è illusione di pace. In genere la classe
politica, su quasi tutte le sponde, non ha
questa cultura, non conosce le esperienze di
lotte nonviolente, pensa la pace solo in termini negativi, non esclude la violenza dai mezzi
della politica. Difendere la Costituzione dalle
degenerazioni autoritarie è la prima condizione per realizzare questi suoi valori.
Quale pace – «Domandandoci che cosa ci sia
in noi da odiare, ci siamo considerati e trovati gente assolutamente rispettabile, innocua e bonaria, che chiede solo di essere lasciata in pace a far soldi e a divertirsi». Scriveva queste attuali parole, nel 1962, Thomas
Merton, statunitense, monaco trappista, famoso scrittore e poeta. I superiori religiosi
gli proibirono di pubblicare il libro, perché
un monaco non deve occuparsi di pace e
guerra. Egli però lo diffuse ciclostilato in
centinaia di copie, che arrivarono anche in
Concilio, ed è ora finalmente stampato nelle
edizioni Qiqaion, della Comunità di Bose,
La pace nell’era postcristiana.
Religione – «Quando la religione ha benedetto la violenza, la violenza non è diventata
sacra, ma la religione è diventata sacrilega.
La religione ne è uscita profondamente infangata, ma doveva essere già infangata per
patteggiare con la violenza». Jean-Marie
Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace (Ed. Plus, Pisa 2004, p. 170).
Scandalo – Non avevo ancora vent’anni e
centellinavo La vita intellettuale di padre
Sertillanges, un libro della mia formazione. Conservo quel libro, ne ricordo pensieri
e consigli (non tutti seguiti). Ora apprendo
da una recensione di Chiesa e guerra. Dalla
«benedizione alle armi» alla «Pacem in terris» (Il Mulino 2005) che, durante la prima
guerra mondiale, che Benedetto XV definì
«inutile strage» chiedendo la pace, Sertillanges proclamò: «Santo Padre, non vogliamo saperne della vostra pace!». Ciò mi delude e mi scandalizza. Certo, tutto va contestualizzato. Ma la guerra era uccidere allora come oggi, e non c’erano scuse né allora né oggi. Era, in un maestro, un grave errore, una deficienza grave, un conformarsi
al mondo. Anche i maestri, ovviamente, ieri
oggi e sempre, vanno ascoltati con coscienza critica.
Violenza – La nostra «non è affatto l’età della
violenza: è l’età della consapevolezza della
violenza», scrive Jacques Ellul (Contre les
violents, Wien, Le Centurion 1972, p. 7).
❑
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ROCCA 15 MAGGIO 2006
ROCCA 15 MAGGIO 2006
CHIESA
to iniziali in questa direzione sono stati
avviati: restituzione di parziali poteri
autonomi al Sinodo dei Vescovi, rimessa
in vigore della collegialità nel rapporto
non solo formale tra il papa e il collegio
dei cardinali, per alcune decisioni cruciali (il dialogo con l’Islam, le condizioni di recupero dei lefebvriani). Anche la
riforma della curia in cantiere mira a ridurre la potenza dell’apparato centrale,
così come la riduzione del presenzialismo della figura papale, in passato troppo invasiva, favorisce di fatto il recupero della pluralità dei centri ecclesiali, in
particolare delle conferenze episcopali.
La sovranità spirituale del pontefice non
può che essere rimessa in luce dalla riforma delle incrostazioni storiche, anche di
costume, che di nuovo prolungano l’eco
della sovranità temporale del papato rinascimentale. Voglio tuttavia sottolineare che già con il pontificato di Giovanni
Paolo II la figura del papa-re è apparsa
veramente soltanto una memoria storica,
avendo avviato una fase di transizione che
ha sostituito le basi materiali e geopolitiche del papato con una piattaforma prevalentemente simbolica, nutrita dalla comunicazione globale del suo messaggio e
della sua stessa figura. Mi sembra che
vada presa in considerazione la tesi svolta dallo storico Paolo Prodi nella postfazione alla nuova edizione del suo classico «Il sovrano pontefice» (Il Mulino,
2006): si va verso una delocalizzazione
della Chiesa in un mondo multiculturale,
e la creazione di diocesi non territoriali e
di figure canoniche globali come i movimenti, molto flessibili nel loro statuto, è
destinata a modificare radicalmente la gestione del ministero petrino, l’esercizio del
primato. Del resto il relativo fallimento
dei tentativi ecumenici di ridisegnare una
forma accettabile del primato pontificio
deriva a mio parere dal fatto che non si è
affrontato finora con la serietà necessaria il problema della fine dell’idea occidentale di missione e di una nuova forma
del ministero petrino.
Da questo punto di osservazione la rinuncia di Benedetto XVI al titolo di patriarca
d’Occidente rappresenta una liberazione
del papato dalla rigida connessione con
un assetto territoriale ereditato dall’Impero romano per la cristianità latina. Significa dunque procedere verso misure di
riforma tali da consentire un discernimento più chiaro dell’ufficio autentico del
successore di Pietro. Inviterei a rileggere
gettati nel mondo
Arturo
Paoli
A
chi come me ha identificato il
senso della propria vita nell’annunzio del vangelo, il tempo attuale offre molte motivazioni che
aiutano a star bene al mondo, in
un mondo che non sta niente
bene. E intendo lo star bene come l’essere
soggetto attivo e trovo una descrizione luminosa in queste parole di Pierangelo Sequeri riportate in un libro di Galimberti (1):
«il simbolo della parola che viene da Dio
polarizza un certo numero di parole tramandate su Dio. La parola testimoniale è qui assorbita nella sfera di una simbolica permanenza dell’evento rivelatore, assumendo caratteristiche differenziali e irriproducibili
rispetto a ogni altra mediazione della fede e
a ogni altra ispirazione dello Spirito». Perché ricorrere a citazioni di citazioni se vivi
quotidianamente questa esperienza? Proprio
perché trovo una conferma alla mia esperienza in tematizzazioni che non capirei a
fondo se non le scoprissi a partire dalla mia
esperienza. Questa è la gioia permanente che
ci riserva il vangelo. Non una interpretazione più sottile e attualizzata del testo, ma la
scoperta sorprendente della presenza dello
Spirito nella storia umana. Questa presenza
attualizza il senso stesso complessivo di questo piccolissimo libro messo nelle mani dell’umanità.
«amorizzare» il mondo
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Per cui vedo con sempre maggiore chiarezza che oggi il termine evangelizzazione non
è più sinonimo di catechizzazione e ancora
meno di conquistare, fare proseliti. Mi sembra molto più vicino al termine coniato da
Teilhard de Chardin amorizer le monde,
amorizzare il mondo. Anche se il verbo appare generico, se preso come tema di vita,
pregato sistematicamente, svela i suoi sensi molteplici in eventi reali. Il testo evangelico da annunziare è muto, finché non venga parlato, continua Sequeri, ma spesso
anche parlato è muto e lo dichiarano continuamente coloro che assistono a delle liturgie commentate da omelie talvolta dotte, ma vuote di spirito perché la scelta di
vita di chi pronunzia parole non è in sinto52
nia con lo spirito del tempo. I centri di formazione del prete che ha il compito essenziale di evangelizzare, sono generalmente
borghesi, che significa lontani dalla scelta
dei poveri indicata come essenziale richiesta del tempo, non minestra riscaldata, ma
richiesta vitale gridata dalla palude della
post-modernità. Gli ambienti di formazione dei preti non sono borghesi solamente
per le comodità che offrono ma per una
pedagogia che polarizza la parola di Dio più
nel pensiero che nel cuore e nel sentimento, creando persone decentrate dal Gesù
vivente oggi in mezzo a noi, con noi. Colui
che prima di sparire nell’invisibile ci ha giurato non vi lascerò. La secolare abitudine di
fissare le parole nella verità congelata in un
concetto astratto che, come ha detto Heidegger, non si sa che sia finché non diventa
reale, ha preso questa promessa sarò con
voi fino alla fine del mondo come un’assicurazione garantita, indipendentemente dagli eventi e dall’accettazione dei soggetti
umani. Mi appare sempre più un segno e
vorrei dire un insegnamento la ricerca inquieta che potrebbe apparire quasi nevrotica del neo convertito Carlo de Foucauld
del dove. Dove trovare questo Gesù che ha
promesso di essere qui – va bene; ma dove?
–. L’Eucarestia pare calmare questa ansia:
dove lo troverai più facilmente che lì? Ma il
Gesù randagio, il Gesù che è venuto a portare la vita, non creatore di vita, ma restauratore dove la vita non è piena e soprattutto dove la vita è colpevolmente, criminosamente negata, lo troverai fermo in adorazione? L’adoratore non può essere tanto sicuro di averlo trovato davvero nell’Eucarestia se non quando Egli lo getta fuori nel
mondo, fra gli ultimi, alle porte di Roma
tra i lebbrosi come dice la leggenda rabbinica sul ricercatore del Messia. Uomini di
chiesa che, per paura del relativo, non si
staccano dagli esseri assoluti, non affrontano i veri grandi problemi del mondo cristiano, si consolano dei seminari pieni di
giovani rassicurati di raggiungere i loro
obiettivi, potere – prestigio – sicurezza che
sono obiettivi antievangelici. I pensatori
laici, facendo scendere l’ente nella vita, hanno scoperto l’unità e l’interdipendenza del-
l’esistenza che si esprime
L’uomo soggetto unico di questo compito di
amorizzare il mondo non può essere un’anima che abita in un corpo, ma un corpo in
relazione con il mondo. Quindi l’uguaglianza degli uomini è saldamente legata non solo
all’atto creatore ma è legata ontologicamente
a questa unica relazione con il mondo. Seguendo l’autore citato da Galimberti, vi trovo un’osservazione piena di senso: «quando
l’essere gettato nel mondo ha il sopravvento
sul progetto nel mondo, quando la fatticità
domina la trascendenza, abbiamo una rottura nel modo di essere dell’esistenza che
invece di esprimersi nella possibilità propriamente sua resta ferma su una realtà costituita in una solidità intrascendibile» (2). È un
condensato di idee che richiede uno svolgimento di molte pagine. L’essere gettato nel
mondo è per noi credenti un’espressione
dura, ma moltissimi viventi che professano
un credo religioso, autenticato dalla chiesa
cattolica, affermando un Dio creatore vivono da gettati nel mondo, con le cose e con
gli altri, così come li trovano, senza trascenderli, vivono senza assumerli come senso
della propria esistenza. In alcuni versetti
della bibbia trovo un’allusione a questa
trascendenza di cui si parla nel testo citato.
Dio mette sotto lo sguardo del primo uomo
gli esseri creati per vedere come li avrebbe
chiamati – cioè quale senso avrebbe dato loro
– così l’uomo impose il nome a tutti gli esseri
(Gn 2, 19-20).
La ricerca degli assoluti nell’orizzonte della
fede e della razionalità ha creato un mondo
di esseri umani schizoidi, che agiscono con
una parte di se stessi: con l’anima agiscono
spiritualmente, con la mente razionalmente, con il corpo economicamente e affettivamente e sessualmente. L’erotismo sessuale
generalmente praticato nel nostro tempo,
l’economicismo che ha preso il posto nel luogo abitato prima dal sacro sono la conseguenza di una antropologia astratta e
spiritualista. Lo scontro diventato comportamento politico e contenuto dei comizi politici, rimpiazzando le ideologie spente dal
progetto globalizzazione, non sono effetto
di una cultura che ha frantumato e vivisezionato la persona? Impossibile che si
ricomponga in unità senza una voce potente che la richiami dalla pluralità all’unità
come il Lazzaro in decomposizione, vieni
fuori, fuori da questa verminosa tomba del
consumismo, fuori da questo campo di concentramento circondato da filo spinato, vigilato dall’alto della torretta, dal personale
del tempio dell’idolo mercato.
Lévinas, il filosofo profeta, ha ascoltato questa voce, fatto gemito. I filosofi dell’occidente andando al lavoro quotidiano hanno trovato la strada sbarrata. Fermatevi, non fuggite, non oltrepassate la frontiera di questo
mondo. Si sono spenti i forni crematori ma
si estendono sempre di più le zone di sterminio percorse in lungo e in largo dai tre
cavalieri dell’apocalisse, la fame, la peste
(ora sotto il nome di aids), la guerra. Lévinas
ha raccolto le forme della morte nel simbolo del volto che all’imbocco della strada metafisica blocca i filosofi che vanno al lavoro. Ritornati in mezzo agli uomini, quante
cose stanno riscoprendo! Hanno riscoperto
fra loro lo Spirito di Dio, che è come un
vento che non sai da dove viene e dove va. È
quello stesso che ogni mattina mi parla della
sua presenza in quella libertà del mondo
che rimpiazza la non libertà dell’essere dominato da un determinato progetto di mondo. Le ideologie che hanno dominato nel
passato il nostro occidente come lo stato, il
partito, il capitale, sono cadute e non risusciteranno più. Bisogna che l’uomo spinga
il suo sguardo sul mondo in cui vive e, a
partire dai danni esistenti rappresentati nei
volti devastati dei fratelli, cominci a costruire un mondo diverso, non fondato su progetti astratti creati da lui, ma sui bisogni
reali dell’uomo e sui valori di giustizia, di
libertà e di amore che sono leggi inerenti
all’esistenza umana.
ROCCA 15 MAGGIO 2006
CERCATE ANCORA
la persona, il corpo, l’anima, la psiche, la
sessualità, l’affettività. E questo unum nel
mondo con gli altri e con le cose.
Vi sono molti estensori di trattati sulla giustizia che faticano tutto il giorno senza
prendere coscienza che con il loro stile di
vita, abbassano il livello di vita di milioni
di esseri umani, dalla povertà alla miseria
più paralizzante. Legare la persona umana a una identità assoluta come quella di
Boezio che ha attraversato i secoli «rationalis naturae individua substantia» un essere naturalmente individuo, sostanzialmente razionale vuol dire mettere nel mondo l’uomo del capitalismo, un mosaico di
pezzi in una dinamica permanente guidata solo dal pensiero. L’unità cercata fuori
dal contingente della vita reale, è un sogno criminale di chi non ama veramente
né la vita né il Creatore della vita perché
allontana la persona dal mondo e dalla responsabilità verso il progetto evolutivo che
deve muoversi senza soste verso il Bene.
Arturo Paoli
Note
(1) Umberto Galimberti, La casa di psiche,
Feltrinelli, Milano 2005.
(2) Op. cit.
53
le origini
del
mondo
Carlo
Molari
n uno degli ultimi numeri di Rocca ho
richiamato alcune discussioni in atto
in ordine al rapporto tra scienza e fede
(La nostalgia dei figli delle stelle, Rocca
7/2006, pp. 50-51). Vorrei continuare
la riflessione con l’esame di uno dei
temi più ricorrenti in questo ambito: quello relativo all’origine del mondo e della
vita. Uno degli aspetti più sorprendenti in
queste discussioni è la difficoltà di molti
a superare alcuni modelli diffusi, come
quello che lega in modo esclusivo la fede
in Dio creatore ai problemi delle origini
dell’universo o della vita sulla terra. Sia
da parte degli scienziati che da parte dei
teologi o dei credenti c’è la tendenza a parlare di Dio creatore solo in rapporto alle
origini. Per cui ogni volta che si acquisiscono nuovi dati scientifici su questi temi,
che potrebbero favorire la prospettiva dei
credenti, c’è sempre qualche teologo che
cavalca le ultime acquisizioni scientifiche
per difendere la fondatezza della fede in
Dio o la presunta dottrina di fede sulla
creazione, e c’è sempre qualche scienziato che mette in guardia da possibili estrapolazioni teologiche. Ne consegue che per
molti il problema delle origini è un ambito di perenne potenziale conflitto tra
scienza e fede.
I
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Dio chiamato in causa inutilmente
Nel dicembre scorso a Bruxelles si è riunito, come ogni anno dal 1911, il Consiglio
della Fisica Solvay, composto da 80 fisici
di ogni parte del mondo. Il tema era «Alle
frontiere della fisica moderna. La struttura quantistica dello spazio e del tempo».
Un settimanale francese ha presentato il
54
Scrive ad esempio Daniel R. Altschuler:
«Crediamo di sapere a grandi linee quando e dove la vita ebbe inizio, e stiamo cercando di capire se avrebbe potuto svilupparsi anche altrove, ma come ebbe inizio
non lo sappiamo ancora. Comprendere
come la vita abbia fatto la sua comparsa
è una delle sfide più affascinanti che abbiamo di fronte... Comprendiamo i complessi processi biochimici utilizzati dalla
vita, nonché l’organizzazione e l’evoluzione dei sistemi viventi, ma non sappiamo
come la vita abbia avuto inizio. È giusto
ammetterlo: finché non avremo colmato
questa lacuna, non potremo davvero affermare con certezza che cosa è la vita, e
i nostri tentativi di darne una definizione
resteranno necessariamente incompleti»
(L’universo e l’origine della vita, Oscar
Mondadori, Milano 2005, p. 158). Ma poi
la riflessione aggancia immediatamente
l’ambito della fede e viene posto il problema di una possibile causa trascendente: «Naturalmente si potrebbe sempre
dire: ‘e poi vi fu un miracolo’, ma non ci
piace usare i miracoli per dare un nome
alla nostra ignoranza. È meglio ammettere di non sapere bene come stanno le
cose, che è del resto un’ottima ragione per
continuare a indagare, nella speranza che,
come molti altri miracoli del passato sono
stati ricondotti infine alla ragione scientifica, così accada, prima o poi anche con
questo» (Id., ib).
Occorre riconoscere che la tradizione apologetica ha spesso favorito questo modo di
argomentare e ha reso quindi facile la confusione degli ambiti di riflessione. Tale
modo di ragionare rivela un difetto di metodo oltre che una concezione inadeguata
dell’azione divina e della creazione.
due ambiti completamente distinti
Si pone infatti sullo stesso piano l’esperienza di fede e l’esperienza scientifica mentre
esse sono chiaramente distinte e le loro
acquisizioni non si possono sovrapporre.
La religione si interroga sull’atteggiamento da assumere (la fede appunto) per vivere in modo fruttuoso e armonico la condizione di completa e totale dipendenza in
cui la creatura si trova e che l’uomo è in
grado di esercitare consapevolmente. La
verità scientifica invece riguarda come abbiano avuto origine le cose e come si stiano evolvendo. I contenuti delle due esperienze non hanno alcun punto di convergenza e quindi di possibile contrasto. Esse
però, per l’armonia della persona che si
trova a viverle entrambe, debbono essere
proposte e formulate con gli stessi modelli culturali. Il conflitto può presentarsi in
chi non è in grado di armonizzare gli oriz-
zonti culturali delle due esperienze.
Credere in Dio creatore significa ritenere che la Realtà (il Bene, la Vita, la Bellezza, la Verità) ha già una espressione
compiuta e piena, di cui tutte le componenti del nostro universo sono parziali e
frammentarie manifestazioni e da cui
tutte continuamente dipendono nella
loro esistenza ed azione. Questa convinzione si alimenta con l’esperienza delle
conseguenze che l’esercizio della fede ha
nella vita del credente. D’altra parte l’atteggiamento di abbandono fiducioso e di
accoglienza, che costituisce la fede, viene assunto per la testimonianza di chi
mostra nella propria carne quali ricchezze umane fioriscano in chi vive la fede.
Per noi cristiani è di decisiva importanza la testimonianza offerta da Gesù nella sua avventura, che ha segnato profondamente la storia umana.
L’azione creatrice, però, non potrà mai essere rilevata dall’esperimento scientifico.
Essa infatti rende possibili i processi del
cosmo alimentandone le dinamiche, ma
senza sostituirsi mai ad esse, dato che la
sua natura è di rendere possibili le creature e di costituirle nella loro realtà, non di
operare al loro posto. Solo quando perviene a livello umano, l’energia creatrice consente la verifica della sua realtà più profonda, negli sviluppi di modalità inedite
che fa fiorire nelle creature, se il rapporto
è vissuto in modo consapevole. Lo scienziato rileva le dinamiche fisiche e chimiche dei processi creati, il credente coglie
le spinte superiori che la forza creatrice
suscita nell’uomo.
Giustamente l’ex ministro francese dell’Educazione nazionale Claude Allègre afferma: più fede e scienza «sono separate,
meglio va sia per gli uni che per gli altri...
Lasciamo Dio insediarsi nella coscienza dei
credenti e la scienza svilupparsi senza implicarlo» (in Le point n. 1735, 15 dicembre
2005, p. 71). Anche se gli ambiti sono distinti, le persone possono viverli ambedue
e formulare le proprie esperienze in modo
da mostrane l’armonia. In questo senso
credo sia sensato l’interrogativo di René
Girard: «Perché Dio non potrebbe fare del
tempo e del caso le risorse di una creazione mai interrotta?» (ib., p. 65). Come anche valida, per altro verso, credo l’osservazione di Brian Green: «guardate le strutture straordinariamente ricche delle stelle, delle galassie, dei buchi neri, dei quasar e dei pianeti, che sono emerse secondo
gli ultimi lavori sulle leggi della fisica.
Queste leggi costituiscono il più meraviglioso principio creatore che abbiamo incontrato» (ib., cit., p. 68).
ROCCA 15 MAGGIO 2006
TEOLOGIA
resoconto della seduta con l’aggiunta di
alcune interviste con il titolo di copertina:
«Dio di fronte alla scienza. Ma chi ha creato il mondo?» (Le Point n. 1735, 15 dicembre 2005). Il primo articolo (Dio, la
scienza e l’origine del mondo, pp. 62-65) sostiene che la scienza, ricercando costantemente di risalire alle origini dell’universo
per spiegarne le modalità, intende sottrarre il tema alla religione e si trova perciò in
perenne conflitto con la teologia. «La ragione e la fede si disputano la risposta alla
questione della nostra presenza nell’universo, s’affrontano sul problema di sapere
se il nostro universo è solo o accompagnato da altri, se è stato... concepito per accoglierci o se è retto solo dal caso. È in gioco
sia per la scienza che per la religione la
loro sopravvivenza» (p. 63). Se, infatti, argomenta l’autrice (Èmilie Lanez) si imponesse «l’ipotesi di un dio» gli scienziati
dovrebbero «adattarsi alla funzione di decodificatori più o meno brillanti di una
complessa sceneggiatura scritta da un Creatore». Se la scienza al contrario «confutasse definitivamente l’esistenza di un Dio,
allora la religione dovrebbe accontentarsi
di non essere altro che una morale, più o
meno virtuosa. Lotta infinita. Ogni passo
avanti della scienza fa vacillare la religione». Siamo in piena confusione: sia la
scienza che la dottrina della fede avrebbero lo stesso oggetto e si escluderebbero a
vicenda.
L’articolo, come si vede, accenna al ‘principio antropico’ (sul quale vedi la chiara
esposizione di Greco P., Teoria scientifica
o atto di fede? in Rocca 5/2006, pp. 32 ss.),
che si è prestato più di altri temi ad alimentare la confusione tra i due ambiti di
riflessione. Scrivono ad es. Degrasse Tyson
N. e Goldsmih D.: «Come molte altre idee
affascinanti, l’approccio antropico si presta ad essere utilizzato a favore (almeno
in apparenza) di vari costrutti mentali di
natura teologica e teleologica [= finalistica]. Alcuni fondamentalisti religiosi vedono in esso un sostegno alle proprie convinzioni, poiché all’umanità viene assegnato un ruolo centrale… Un oppositore di una
simile conclusione osserverebbe che l’approccio antropico non implica nulla del
genere; a livello teologico una simile prova a sostegno dell’esistenza di Dio implicherebbe che Egli è il creatore più sprecone che si possa immaginare: un creatore
capace di dare vita a innumerevoli universi solo perché la vita possa nascere in un
piccolo settore di uno solo di essi» (Origini. Quattordici miliardi di anni di evoluzione cosmica, Codice, Torino 2005, p. 72).
Anche sull’origine della vita sulla terra
molti discutono riproponendo le stesse
confusioni con le medesime ambiguità.
Carlo Molari
55
CINEMA
Susanna
un grido di protesta
ROCCA 15 MAGGIO 2006
Lidia
Maggi
56
a vicenda di Susanna, raccontata
nel libro di Daniele, poteva uscire
fuori dalla penna di Camilleri. È
un giallo con elementi di denuncia sociale: giudici corrotti, mancanza di solidarietà verso il più debole e colpevolizzazione della vittima. Niente di nuovo sotto al sole. La storia narra di
come due anziani ebrei, incaricati di esercitare la giustizia nella diaspora di Babilonia, utilizzano la propria carica per guadagni personali. I due giudici un giorno accusano Susanna di adulterio. Dichiarano di
averla colta in flagrante con un giovane nel
giardino della casa. Noi sappiamo che mentono. In quel giardino eravamo presenti,
nascosti tra i cespugli di parole del narratore. Abbiamo udito nei dettagli di quella
passione insana dei due uomini per la giovane donna: la vedevano ogni giorno passeggiare nel giardino e la desideravano ardentemente (Daniele 13,8). Sappiamo di
come questi, approfittando della momentanea solitudine della ragazza, abbiano importunato e ricattato la vittima: i cancelli
del giardino sono chiusi. Nessuno ci vede.
Noi bruciamo di desiderio per te. Non respingerci, ma concediti a noi. Se ti rifiuti, ti
accuseremo e diremo che eri con un giovanotto e che hai mandato via apposta le serve. Abbiamo udito Susanna gridare aiuto:
sono senza scampo, se cedo a voi, potrò essere condannata a morte per adulterio; se
mi rifiuto, non potrò sfuggire alle vostre
mani. La ragazza si è sentita in trappola,
un uccellino catturato nella rete che continua a dimenare le sue ali rifiutando di arrendersi: preferisco essere vittima innocente
piuttosto che offendere il Signore… Il suo
urlo è così forte da far accorrere la gente.
Ma i due uomini l’accusano di adulterio.
A nulla serve che Susanna si proclami innocente. Le denuncie dei due ufficiali, preposti a garantire la giustizia, vengono accolte: tutti credettero alle parole dei due
perché erano capi del popolo e giudici;
perciò condannarono a morte Susanna.
L
Bravo Daniele, per aver preso le difese della
ragazza. Hai osato dire quello che probabilmente tutti sapevano: finora voi vi comportavate così con le donne di Israele ed
esse per paura venivano con voi. Che tu
sia lodato per aver smascherato il complotto prendendo le deposizioni dei due accusatori separatamente. La corte ha avuto
modo di verificare le discordanze e aprire
gli occhi sull’inganno.
A te Susanna, cosa posso dire? Non sei lodata nel racconto né considerata la vera eroina
della storia. Sarai ricordata come casta vittima della lussuria anziana. Se ti verrà riconosciuto del coraggio, è per aver protetto le
tue virtù fino alla morte. Sono tuttavia convinta che tu non abbia urlato solo per proteggere il tuo corpo. Hai continuato a denunciare un sistema ingiusto persino dopo
la condanna, quando ormai non c’era più
nulla da fare. Protestavi per l’ingiustizia, e
non ti rassegnavi a percorre un destino già
annunciato. Sei uscita dal silenzio di tante
vittime mute per smascherare i tuoi carnefici. Volevi liberare te stessa e la tua comunità
da quei giudici iniqui. Alla fine ci sei riuscita; Dio, il vero giudice, ha ascoltato la tua
preghiera. E ti ha difesa, mediante il coraggio e l’arguzia di Daniele, capace come te di
protestare contro la corruzione, e di farsi
ascoltare. Un uomo, si sa, ha diritto ad essere ascoltato; una donna no. L’ingiustizia per
te inizia già qui, dalle tue parole non prese
sul serio nemmeno dai tuoi familiari. Più che
un lieto fine individuale, la tua storia ci comunica un grido il cui eco non si è ancora
esaurito. La tua vicenda è solo un inizio, un
primo segno di uno sguardo diverso sulla
storia: non più lo sguardo rassegnato del
notaio, che prende atto della situazione ma
quello profetico che qui denuncia l’ingiustizia e, successivamente, annuncerà che le stesse figlie diventeranno profetesse, che non ci
sarà più discriminazione tra uomo e donna,
tra il grido dell’uno e quello dell’altra. Noi
sappiamo che se non faremo udire questo
grido, urleranno le montagne!
D
on Pietro Pappagallo-La buona battaglia di Gianfranco
Albano è un film di produzione televisiva (una «fiction», come si dice assoggettati all’inglese) che la
prima rete della Rai ha trasmesso in due tempi alla
fine del mese di aprile. Don
Pappagallo è stato un sacerdote, un uomo che in
nome della sua fede e della sua forza morale si è
battuto per il prossimo, per
la giustizia, per la libertà.
Un comportamento che
dovrebbe essere naturale e
spontaneo in tutti. Don
Pappagallo non ha voluto
essere un eroe. Il suo diventa eroismo allorquando, in una situazione estrema, in cui ciascuno tendeva soprattutto a salvare se
stesso, egli si è messo a disposizione degli altri, senza distinzione di fede religiosa e di ideologia, fino al
supremo sacrificio di se
stesso. La sua «buona battaglia» è stata questa.
Non sono stati pochi coloro che nei mesi bui dell’occupazione tedesco-fascista
di Roma, dal settembre
1943 al giugno 1944, hanno lottato per il bene comune. In questo senso la
figura di don Pappagallo
ne riassume certamente
molte altre. Roberto Rossellini si ispirò a due sacerdoti romani che parteciparono alla Resistenza, per
creare la figura del suo sacerdote di Roma, città aperta (1945). Per un lungo periodo si è creduto che il
personaggio prevalente
fosse quello di don Giuseppe Morosini, ma forse prevale proprio quello di don
Pappagallo: vale la pena di
ricordare che il personaggio interpretato da Aldo
Fabrizi si chiama, appunto, don Pietro.
Gianfranco Albano, che ha
alle spalle una intensa e
importante esperienza di
critico cinematografico e
di regista di sceneggiati e
Giacomo Gambetti
Don Pietro Pappagallo
Storia e film
di documentari per lo più
televisivi, ha affrontato con
coraggio il personaggio di
don Pappagallo, usufruendo di una bella sceneggiatura di Furio e Giacomo
Scarpelli, la quale giustamente immette il personaggio nel contesto corale e
temporale dell’epoca. Né
gli sceneggiatori né il regista hanno avuto timore del
confronto col colosso storico di Rossellini, né faremo noi qui un paragone
che sarebbe sbagliato: sbagliato soprattutto perché
un conto è il tempo «a caldo» del ’45, e un altro conto è parlare di quegli avvenimenti sessanta anni
dopo. Rossellini aveva in
mano il fermento di fatti
appena avvenuti, il vibrare
di tensioni presenti non
solo negli autori del film
ma soprattutto negli occhi
e nella mente degli spettatori. E se oggi Roma, città
aperta è un film storico, in
altro senso è storico anche
questo Don Pietro Pappagallo.
Albano, dunque, innanzitutto mette in evidenza con
misura e chiarezza la situazione del personaggio
in rapporto con «gli altri»,
e come un po’ alla volta cresca in lui l’esigenza morale
del far fronte a una realtà
così imprevista quanto
crudele. La sua scelta è
spontanea e naturale.
Uomo di campagna e di
popolo, non più giovanissimo mise a disposizione
degli altri tutto il suo aiuto, quasi inventando una
sorta di rete di protezione
e di aiuto contro violenze
e soprusi. Catturato all’inizio del ’44, molto probabilmente per la delazione di
qualcuno da lui stesso aiutato, fu rinchiuso a Regina Coeli e quando, a seguito della azione partigiana
di via Rasella, i nazisti decisero il massacro delle
Fosse Ardeatine, don Pappagallo fu anch’egli fra
quelle vittime. Era nato a
Terlizzi, circa ventimila
abitanti nelle Murge, in
provincia di Bari nel 1888
(don Morosini in quegli
stessi giorni veniva fucilato a Forte Bravetta, e questa è la sequenza finale di
Roma, città aperta. Una citazione del film di Rossellini, in quello di oggi, è nel
momento in cui a don Pappagallo viene mostrato un
amico mentre viene torturato).
«Quando mi fu proposto di
girare questo film – ha avuto occasione di dichiarare
Albano –, la storia di don
Pappagallo, uomo cono-
sciuto per la sua infinita generosità, disposto a ospitare chiunque avesse bisogno
di sfuggire ai nazifascisti e
attivo nel procurare cibo e
documenti, fui dominato da
sentimenti contrastanti,
spavento e euforia: una storia importante e, finalmente, un film sulla Storia; insieme a molte paure, per
mettere in scena fatti realmente accaduti, non tradirli, non tradire la memoria
delle persone che quei fatti
avevano realmente vissuto e
per i quali sono morti». Albano non ha dimenticato il
pensiero del «cinema italiano degli anni ’40, quello della stagione neorealista che
è stata fondamentale per la
mia formazione culturale e
professionale. [...] Tra i trecentotrentacinque caduti
delle Fosse Ardeatine c’è anche Gioacchino Gesmundo,
pure lui di Terlizzi, allievo
di don Pietro e figura importante della Resistenza romana. Dopo gli anni del neorealismo non è più stato
fatto un film degno sulla
Roma di quei terribili mesi
del ’43».
Flavio Insinna è il bravo
protagonista del film, in
una interpretazione voluta
in sottotono, che giustamente non nasconde l’accento dialettale, per partecipare come uno del popolo a una grande vicenda
popolare. È anche per questo che, come si è detto all’inizio, è anche grazie a
questa interpretazione che
la figura di don Pietro non
è quella predeterminata di
un eroe.
Se gli otto mesi della occupazione di Roma sono
stati mesi tremendi di sacrifici, vittime e terrore, altri undici mesi analoghi
sarebbero trascorsi in altre
città e in altre parti d’Italia
prima della Liberazione.
Tanti altri sconosciuti uomini, laici e religiosi, hanno dato la vita in nome della Giustizia.
❑
57
ROCCA 15 MAGGIO 2006
EVA E LE SUE SORELLE
RF&TV
ARTE
Roberto Carusi
Renzo Salvi
Mariano Apa
Reality Italia
Sacro e profano
ROCCA 15 MAGGIO 2006
L
’occasione primaverile «profana» è la
messinscena della
commedia L’Ascensione di
Augusto Novelli, uno dei
più brillanti autori in vernacolo toscano del primo
Novecento. Il perché del titolo è presto detto: è inveterata tradizione fiorentina che, quando la Chiesa
festeggia l’Ascensione di
Nostro Signore, si vada al
parco delle Cascine a raccogliere grilli. I quali – venduti in colorate gabbiette
– son pegno d’amore da
offrire all’amata, quasi
fossero preziosi anelli di
fidanzamento. Da uno
scambio – fortuito per un
verso, voluto per un altro
– di uno di tali omaggi entomologici nasce una serie
di equivoci che rendono divertentissimi i tre atti a lieto fine di Novelli. Merito
anche degli interpreti: una
bella compagnia, variegata per età, che sarebbe ingiusto definire soltanto
amatoriale. Li affianca infatti il Cenacolo dei Giovani, un «centro di formazione» per attori e attrici.
A condurre il buon ritmo
dei duetti e delle scene corali, il corretto ritmo della
regìa di Giorgio Ceccarelli. Luogo della rappresentazione il Teatro di Cestello, nello storico quartiere
fiorentino di San Frediano.
Convincente la distribuzione delle parti tra una quindicina di interpreti, tutti
all’altezza, tra i quali tuttavia si distinguono per le
colorite caratterizzazioni
Mario Martelli, nei panni
del parroco, e Manuelita
Baylon, l’ortolana, che cesella anche un bonario
prologo in rima. Intorno a
lei un geniale tableau vivant di tutti i personaggi,
immobili nell’atteggia58
mento tipico di ciascuno
come nelle foto d’epoca
degli Alinari.
E veniamo al sacro vero e
proprio: Gràssina (frazione del Comune di Bagno
a Ripoli, alle porte di Firenze). La ricostruzione
della Passione di Cristo,
con settecento figuranti,
sulla toscanissima collina
di Mezzosso – che, la sera
del Venerdì Santo, si trasforma via via nei vari luoghi deputati della narrazione evangelica – è un’antica tradizione toscana
che risale ai primi anni
del 1600.
I cittadini che si fanno attori e attrici per una sera
(ma vi lavorano, ovviamente, tutto l’anno) sfilano in corteo per le vie del
piccolo centro tra due ali
di folla assiepata fin dalle
ore precedenti l’evento.
Intanto tra gli alberi della
collina i figuranti agiscono gestualmente sulla
base di una registrazione
di musica classica e voci
recitanti. La inappuntabile regìa si deve ad Antonio Bernini, Marco Lepri
e Ivano Villa, con i quali
collaborano altre persone
coordinando il corteo storico.
Sorprende il bel ritmo fluente di questa narrazione
per quadri didascalici eppure originali, taluni dei
quali sono di particolare
suggestione per il felice
abbinamento di luci e suoni. Vale la pena di ricordare la radiosa Natività che
vede avanzare pastori e
magi sulle note dell’Alleluja di Haendel, la Nona
di Beethoven sottofondo al
Discorso della montagna,
la Morte in croce fra tuoni
e lampi scanditi dal verdiano Dies irae.
❑
C
’è da riflettere sulla
duplicazione del reale che s’è infiltrata
nella compagine sociale italiana anche per l’uso, iniziato negli anni Ottanta, del
mezzo televisivo. C’è da riflettere per gli esiti di una tendenza che induce il Paese,
nella sua quotidianità, a vivere e a viversi «come se...»:
come se le situazioni alle
quali dedicare tempo fossero – ad esempio – le ricostruzioni della realtà che fanno
da fondale agli psicodrammi
ed alle pseudo-gare dei moltissimi, ormai, Reality (sic) di
cui sono diffusi i palinsesti tv.
Nel periodo attuale, ché i
palinsesti giostrano pro tempore, alcuni mondi Rai prediligono i reality/gara che
vanno dalle Notti sul ghiaccio di RaiUno alla Music
Farm di RaiDue – cessata su
quest’ultima L’isola dei famosi – mentre su Canale5 non
era ancora concluso Grande
fratello che già La fattoria vi
aveva esondato oltre ogni argine e Campioni/Il sogno si
inseriva «realitycamente» negli spazi di Rete4.
Tipica di questa programmazione è la modalità di porre
chi non ne sa proprio (di
un’attività, di un’esperienza,
di un comportamento) a far
cose, questa o quella, in cui
è manifesta la sua totale incompetenza, talvolta – nelle
situazioni «gara» – affiancandolo ad un esperto, e comunque ponendo un gruppo, un tandem o un’accozzaglia di singoli «contro» gli
altri: il sapore del conflitto e
dell’esclusione è fondamentale in ciascuna di queste ir/
realtà fatta, poi, splafonare
nei tempi tv, con serate lunghe, appuntamenti quotidiani, collegamenti, rimandi e
nottambulate; e con possibilità di voto, a premiare, a
punire, a scegliere o condannare, che riversano sul pubblico le apparenze della par-
tecipazione e del potere.
Per modi diversi si è agli
aspetti deteriori del quisque
faber fortunae suae: nel reality che si manifesta sullo
schermo e in quello cui
prende parte chi allo schermo tv si pone di fronte: simil-attivo, in realtà, ma quasi protagonista e dominus,
realitycamente.
Per induzione tv, non diverso da questo pubblico televisivo, anche perché ampiamente sovrapponibile, è chi
si ritiene, nella vita reale, titanico autore dei propri destini e detentore (deteriore:
«padroni in casa nostra») di
piccoli poteri da esercitare
in propri recinti. A questi
aspetti molti italiani tengono davvero molto, vi ci sono
affezionati per interesse,
anche se un po’ se ne vergognano. Ed anche in questo
c’è sovrapponibilità tra
un’ampia parte di pubblico
televisivo e una parte, non
piccola, di elettori che nei
sondaggi pre/elettorali si
vergogna e negli exit-poll si
fa gaglioffa, mentendo nei
primi e truccando nei secondi, quando, con ghigno tutto-denti (chi ricorda?), depone nell’urna finta, extra
seggio, un voto opposto a
quello che ha appena deposto nell’urna vera. Siamo
alla perversione da inchiesta raccontata in Magic
Town, film commedia del
1947, con James Steward
(che si dovrebbe raccomandare ai nostri sondaggisti).
Se tutto è un reality, poi, ciascuno deve (aver l’impressione di) contar davvero per
far vincere «i suoi»: sull’isola, nella fattoria o nell’urna.
Sicché se il mio presunto/
famoso non vince è perché
gli altri, pubblico o elettori,
hanno truffato meglio di
me: nel «mio» reality la
«mia» sconfitta non è prevista. Citando: il risultato
deve cambiare.
❑
FOTOGRAFIA
Alberto Pellegrino
Claudel/Rodin
C
on il Rilke (e la Solomè) del «Diario
Fiorentino» – più
che non con l’apparente
specifico diario da quasi
segretario: «Auguste Rodin» (del ’28) – si può leggere questa mostra «Claudel et Rodin. La rencontre de deux destins», alla
Fondazione Pierre Gianadda a Martigny, fino a
giugno, con un felice catalogo curato da Yves Lacasse e Antoinette Le Normand-Romain, struggente in un allestimento dove
il documento d’archivio,
la foto dei protagonisti e
delle opre in studio, le
opere in bozzetto o proprio concluse in sé; squaderna un vissuto – che ritroviamo nel recente utile «Corrispondenza», il
volume curato da Riviere
e Gaudichou per la milanese «Abscondita –, un
vissuto che si indovina e
che poi anche si tocca con
mano rimanendone elettrizzati, proprio a leggere quei Rilke e ad inseguirla nelle lettere. Si
tratta di entrare nella Firenze estetizzante del praghese e da lì, da quella
porta, entrare nella Parigi dell’Hotel Biron e di
boulevard d’Italie, quai de
Bourbon, l’Islette, il Clos
Payen, negli studi di Rodin e di Claudel inseguendo poi questa ultima nel
giro degli istituti psichiatrici, fino al 1914 in Valchiusa nella clinica di
Montdevergues, dove morirà nel 1943.
La sorella di Paul Claudel,
Camille – su cui la Felici
di Pisa ha tradotto: «Mia
sorella Camilla», a cura di
M.A. Di Paco Triglia: «Io
la rivedo, questa ragazza
orgogliosa, nella fioritura
trionfale della bellezza e
Argalia - Ritratti
del genio, e nell’ascendente spesso crudele», scriveva Paul, «che lei esercitava sulla mia giovane
età» –, è cresciuta tra Alfred Bouchet e Auguste
Rodin, tragicamente matura nella sua infinita giovinezza, ha praticato la
scultura come un continuo racconto di autoerotismo. Lontana dalla potente formalizzazione delle stilizzazioni in arcaizzanti anatomie, da parte
del genio di Bourdelle, e
così pure lontana dalla
idealizzazione formale di
un accattivante quanto
educato classicismo, da
parte di Maillol, senza la
paura per il Maestro dantesco – la «Porta dell’Inferno» è pensata da Rodin
dal 1880/1881 – a cui in inquieto intreccio si ritrovò
sui bordi della putrefazione – nel riflesso, per esempio, della «Clotho» di
Claudel con la «Colei che
fu la bella heaulmière» di
Rodin –; Camille Claudel
fu artista di solido luminismo e di plasticismo realizzato nell’introspezione materica del pensiero
della forma. E un olio di
Letizia de Witzlewa e i
due busti di lei eseguiti
dal medesimo Rodin – nel
1889 – e dalla amica Jessie Lipscomb, insieme alle
foto scattate da César – di
cui una pubblicata su
«L’Arte Decorativa» del luglio 1913, a quattro mesi
da un primo internamento –, ci dimostrano nell’anatomia dei suoi sguardi il disincanto verso una
società trovata impraticabile, in favore di un sentimento della rinuncia in
cui si afferma incurante la
propria autodistruzione.
❑
A
driana Argalia, che
occupa da tempo un
posto di rilievo nel
panorama della fotografia
italiana, ha pubblicato alla
fine del 2005 un volume interamente al femminile intitolato «Ritratti. Orizzonti femminili» (Edizioni
Donne Arti Professioni Affari, Jesi), in cui affianca al
tradizionale e sempre intenso uso del bianco e nero
l’impiego del colore con risultati senz’altro apprezzabili, che rivelano una concezione della realtà che viene filtrata, interpretata e
rappresentata in chiave poetica, suggerendo una continuità espressiva e stilistica presente nel ritratto
come lo era nel paesaggio
urbano e naturale, un genere a cui l’autrice si era
dedicata in precedenza con
ottimi risultati. Più legati
alla sua poetica tradizionale sono i ritratti in bianco
e nero, fra i quali trovo particolarmente significativi
l’anziana signora e la giovane donna del 1981, la
giovane veneziana del
1982, Il Clown del 1986, la
Diana del 1993, la giovane
operaia del 1997 e, su tutte
queste immagini, quello
«scatto» di Palazzo Fortuny (Venezia, 1982), così
intenso di riferimenti allegorici e così ritmato nel
gioco delle ombre con la
felice intuizione di quel ta-
glio di luce radente da sinistra. Accanto a questo
percorso all’Argalia più
nota, troviamo un percorso parallelo dove emerge
una voglia di penetrare più
a fondo nel nostro tempo,
di ricercare nuove strade
espressive, di sperimentare nuove possibilità cromatiche e compositive, che
vanno dal realismo geometrico della «Mascherina
2003» alle ultime immagini in cui si cercano atmosfere più rarefatte, sfumate e movimentate da un
uso controllato del «mosso» e della «trasparenza»
(Silvana 2004, Katia 2005,
Shathi 2005, Pasiones,
2005, Dama con ventaglio,
2005). Al centro di questo
percorso tutta una serie di
ritratti dove si registra un
giusto predominio di volti
di donne e bambine appartenenti a diverse etnie, affascinanti incursioni nel
mondo dello spettacolo
(Carnevale di Fano 2003,
Concerto per la pace 2004),
il bisogno di interrogare in
modo suggestivo una realtà femminile da «leggere»
attraverso l’uso insistito
dei dettagli (il grande fiore rosso di «Alberta 2005»,
il binocolo nero proteso
fuori campo di «Myriam
2005», le due incursioni
nel mondo della stampa
femminile sempre del
2005).
❑
59
ROCCA 15 MAGGIO 2006
TEATRO
SITI INTERNET
MUSICA
Enrico Romani
60
pie l’ennesimo innesto, fatto di suoni latini e spunti
jazzistici. Insomma, se Musicology era il requiem e il
testamento di un grande talento, questo 3121 è il punto dove il poli-strumentista
fissa i blocchi per una nuova partenza, per un nuovo
scatto prolungato fatto di
incisioni, se soltanto vuole,
impareggiabili. Ci viene un
po’ da sorridere sugli «incartamenti» di certa stampa
specializzata che prima definisce il disco dello scorso
anno dei NERD di Pharrell
Williams, molto bello peraltro, come superamento dell’ottica «princeiana», per
poi dire che lo stesso sventurato Williams, alla luce di
questo Cd, non raggiungerà mai i livelli di Prince.
Bella scoperta: qui troviamo
brani dance conditi delle
consuete piccole opere melodiche («3121» e «Lolita»),
una delle più belle canzoni
«spanglish» come «Te Amo
Corazon», un uso dell’elettronica tanto melodico
quanto sperimentale («Black
Sweat»), la maestria di Prince di comporre sontuose
ballate d’amore, cantate con
quella voce dal timbro atipico ma capace di ogni virtuosismo («Incense And
Candles» e «Satisfied»),
momenti hip-hop o dannatamente rock (rispettivamente «Love» e «Fury»). E
poi funk morbidi come
«The World», in cui il genio
di Prince, oltre che nella
melodia, si manifesta anche
nella scelta della chitarra
acustica (!) per il giro di
base, e un assolo di chitarra, lui «hendrixiano», in stile Santana, perché Prince sa
bene che la maggioranza
della popolazione americana sta diventando quella
immigrata di origine ispanica. E poi come conclude, il
Nostro? Con un funk straripante, ovviamente («Get On
The Boat»), con il sassofono jazz di Maceo Parker a
farla da padrone.
❑
Web 2
P
resso il grande pubblico è ancora quasi
sconosciuto e in Italia
(niente di nuovo sotto il
sole) stiamo aspettando che
arrivi l’onda lunga americana prima di impiantarlo (in
pompa magna, c’è da scommetterci) anche da noi. Ma
nei fatti esiste già e, ovviamente, con una denominazione che lo identifica: Web
2. Di che si tratta? Più facile
da usare che da spiegare, anche se un abbozzo di descrizione vogliamo tentarlo comunque: vengono raccolte
sotto la sintetica denominazione di Web 2 una serie di
tecnologie integrate e convergenti che consentono
una (finora inedita e singolare) personalizzazione dei
siti Internet. Quando oggi visitiamo un sito, i suoi contenuti e la rispettiva collocazione sono fissi, stabiliti da
chi realizza il sito: il visitatore può semplicemente
consultarli e, tutt’al più, scaricarli. Ben diverso il Web 2:
un sito realizzato con queste tecnologie permette infatti ad ogni visitatore (dopo
previa registrazione) di
preselezionare l’ambito di
contenuti che vuole stabilmente visualizzare, in quale
posizione della pagina, con
quali caratteristiche grafiche ecc. Insomma una vera
rivoluzione, che peraltro va
intesa non come un modello fisso, chiuso in una sua
definitiva identità, quanto
piuttosto una rielaborazione
aperta, una tappa di trasformazione e ridefinizione permanente del web quale tecnologia e tipologia di comunicazione informatica.
Il nostro lettore potrà iniziare a farsi un’idea più chiara
e concretamente fruibile
collegandosi ad esempio a
www.netvibes.com, sito in
inglese (per le ragioni sopra
accennate) ma buon esempio della varietà di contenuti
e di opzioni selezionabili
per creare un modello personalizzato (e permanentemente modificabile, se si
vuole) di accesso ad un sito
in grado di rispondere subito alle nostre specifiche
esigenze di consultazione.
Le tipologie contenutistiche cui si applicano le tecnologie Web 2 sono diverse e si prestano a soddisfare, tendenzialmente, le più
svariate esigenze dei navigatori. Così, ad esempio, se
Netvibes si presenta come
un collettore generalista di
contenuti informativi e di
funzioni di servizio, altri
siti puntano a offrire prestazioni specifiche. È quel
che accade, ad esempio nell’ambito della messaggistica, con www.meebo.com,
dove in un’unica pagina
possono essere raccolti i
messaggi provenienti da
strumenti diversi, quali
Msn Messenger, Yahoo!
Messenger, GTalk, Icq e altri programmi. Se invece si
tratta di elaborazione di
testi, l’utente può trovare
gratuitamente in Internet,
senza bisogno di portarli con sé sul proprio computer, programmi di videoscrittura analoghi a
Word, o in grado di produrre documenti pdf, nei
siti www.writely.com e
www.goffice.com. Per non
dire dei siti di condivisione di foto online, e della
loro notevole versatilità di
personalizzazione, di cui
ad esempio www.bubbleshare.com è un interessante modello.
Web 2, ossia personalizzazione e impiego sempre più
mirato e funzionale delle
potenzialità operative di Internet. Proprio quel che la
rete dovrebbe essere per chi,
come a noi piacerebbe, intende servirsi di Internet
quale utile supporto alla
propria attività, creatività,
conoscenza.
❑
Antonio Roversi
L’odio in rete. Siti
ultras, nazifascismo on
line, jihad elettronica
Il Mulino, Bologna 2006,
pp. 197
L’autore, insegnante di Sociologia delle comunicazioni, ha studiato i siti web dei
movimenti fascisti e neonazisti italiani e dei gruppi
armati mediorientali. Egli,
stando sempre seduto davanti al suo computer, ha,
via Internet, «frequentato
l’ambiente» di quei gruppi.
Circa i siti della destra estrema, è emerso un mondo tenuto assieme da una ossessiva riproposizione dell’idea
che la violenza è sempre
una cosa buona, bella e apprezzabile. Tale idea della
violenza come valore positivo è assorbita nel quadro
di una più generale visione
politica di estrema destra,
che, sul piano della comunicazione, usa abondantemente il turpiloquio. Uno
dei temi preferiti risulta essere la negazione dello sterminio nazista e fascista degli ebrei.
Circa i siti dei gruppi armati mediorientali, la caratteristica dominante risulta
essere l’indottrinamento
finalizzato alla lotta contro
l’Occidente, che starebbe
distruggendo i valori dell’Islam, valori cui peraltro
i siti non fanno mai specifico riferimento. Il tutto si
risolve in un inno alla violenza mirata.
È insomma un viaggio, per
certi aspetti allucinante,
entro il lato oscuro della
Rete, che evidenzia ancora
una volta l’ambiguità di
Internet. Come attraverso
di esso si può contribuire
alla realizzazione di un democratico villaggio globale, così si possono ampliare e radicalizzare l’incomunicabilità e i conflitti.
Fare di Internet l’ambito
entro cui realizzare una
costruttiva interazione tra
sistemi di valori diversi è la
sfida che, alla fine della lettura del volume, si prospet-
ta come decisiva per la
convivenza globale.
Romolo Menighetti
Anna Stomeo
Intrecci: teatro-educazione-new media
Amaltea edizioni, Castrignano dei greci (Le) 2006,
pp. 208
Frutto di attività diretta
sviluppata con gli studenti
di Scienze della Formazione – Università di Lecce –
il primo dei due volumi si
presenta come un robusto
lavoro che tratta il tema
«teatro» sempre aperto ad
imprevedibili intrecci e stimolanti approfondimenti.
L’introduzione «Gioco e
teatro: il corpo e le emozioni a scuola» è di Salvatore
Colazzo, curatore delle
suddette attività. Egli sottolinea che i due termini
reciprocamente si richiamano nei vari contesti sociali. Infatti il «giocare» è
sempre un mettersi in gioco che costituisce sì fantasia ed autoinganno, ma
anche instaura «una distanza dalla realtà, un
cambiamento di scena» il
che è proprio rappresentazione. La dimensione del
gioco significa capacità di
guardare le cose in forma
alternativa e questa prospettiva è propria dell’uomo, sia nel periodo dell’infanzia sia nell’età adulta. Il
lavoro teatrale, come laboratorio di animazione nella scuola evidenzia una
propria valenza educativa
in quanto veicolo di relazione sociale e di comunicazione.
Anna Stomeo prosegue in
una trattazione molto puntuale e documentata arricchita da numerose schede
e pagine antologiche, sugli
intrecci fra teatro, educazione e creatività conducendo con maestria il lettore dall’analisi delle prime
teorie pedagogiche che valorizzano l’individuo nel
suo processo educativo, via
via fino al neocognitivismo
costruttivista. Qui innesta il
rapporto tra improvvisazione e creatività agganciando
la connessione corpo-mente a rappresentare la centralità della comunicazione
non più del singolo soggetto che si confronta con
l’esterno, ma dei vari soggetti tra di loro. Successivamente osserva il legame
tra teatro, scuola e società,
sempre più abitato in questi ultimi anni da molteplici sperimentazioni pionieristiche che fanno dello
spettacolo uno strumento
di comunicazione collettiva, che si interfaccia con il
sociale.
Si parla di teatro di animazione, di laboratorio teatrale in un quadro di rapporti
tra «formale e informale,
scolastico ed extrascolastico» che negli ultimi decenni ha suscitato l’interesse
della pedagogia sperimentale e della scuola istituzionale. Da segnalare l’accuratezza dei riferimenti bibliografici utili ad ulteriori approcci.
Caterina Dalle Ave
Servizio nazionale progetto culturale (a cura di)
Il tempo della festa
Dieci voci per riscoprire la
domenica, San Paolo,
Cuneo 2005, pp. 146
Un libro attuale, in linea
con l’anno dell’Eucaristia,
che mira a valorizzare i diversi vissuti che possono o
dovrebbero animare la festività cristiana domenicale. Già nella presentazione
viene posta in rilievo la preoccupazione di «parlare»
intorno a qualcosa che, invece, dovrebbe essere il
«vissuto». Ed è per diminuire tale rischio che il libro
offre quali strumenti dieci
«verbi» che sono appunto i
vissuti della festa: ringraziare, mangiare, comunicare,
cantare, danzare, ridere, giocare, donare, riposare, cessare/iniziare.
Il discorso su ognuno di essi
è aperto dalla presentazione di un’opera (pittorica,
poetica, musicale…) per suscitare le prime spontanee
reazioni al lettore che potrà
poi confrontarsi con l’esperto chiamato a esprimersi
sull’argomento.
È un libro che intende stimolare il desiderio di
«fare» e i «modi di vivere»
la festa cristiana, che invece nella nostra cultura vengono poco o male praticati. Ad esempio, nella riflessioni sul «danzare», Sante
Badolin, docente alla Gregoriana, vede la danza
come movimento corale e
insieme individuale che celebra la gratuità del dono.
Così anche nella Celebrazione eucaristica la corporeità dovrebbe esprimersi
in danza, come gioia per la
salvezza ricevuta quale
dono assoluto, e aggiunge
che sarebbe auspicabile un
fecondo ritorno alla forza
di un danzare che è fatto di
gesti simbolici. Con essi si
partecipa all’evento di salvezza che viene sempre
nuovamente donata… un
danzare che si fa danza al
ritmo di quella musica che
lo Spirito fa udire a ciascuno nella celebrazione eucaristica.
Così, nel capitolo «riposare»
il gesuita Marko Ivan Rupnik afferma che il riposo è
un permanere nella comunione con le persone e sentirsi al proprio posto perché
si è insieme agli altri»: E continua: «riposo veramente
solo se vivo relazioni sane e
belle. Allora la solitudine è
quella veramente spirituale
perché è assente il peso dell’ombra delle tenebre, identificabile nei rapporti strappati, isolati, di autoaffermazione».
Come si può evincere da
questi stralci, il libro ridà
valore ad aspetti della festa
che la liturgia potrebbe sollecitare e riprendere perché
ogni persona sia aiutata a
vivere la domenica come
dono ricevuto e dato.
Laura Castaldo
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ROCCA 15 MAGGIO 2006
ROCCA 15 MAGGIO 2006
G
Giovanni Ruggeri
Il ritorno di Prince
ià nel 2004 con Musicology Prince Roger Nelson aveva
dato cenni di risveglio
dopo le scelte coraggiose
ma discutibili degli anni
’90. Il piccolo grande genio
di Minneapolis, colui che
era stato uno dei pochissimi grandi degli anni ’80,
vendeva ormai i suoi album unicamente on line,
e sotto le sigle più disparate: qui ricordiamo solo
T.A.F.K.A.P., che stava per
«The Artist Fuckin’ Known
Aka Prince», appellativo
comprensibile senza alcun
bisogno di traduzione. I
tempi non erano però ancora maturi per una commercializzazione, anche di
buone intuizioni da parte
del Nostro, unicamente via
Web. Così Musicology fu il
primo degli album che voleva tornare a pubblicare a
suo nome, anche se quel
disco, peraltro di ottima
fattura, era la risultante di
un bel compitino di illustrazione del suo mondo
musicale. Ora, con 3121, il
nuovo album di recente
uscita e primo per la Virgin,
Prince va ben oltre, riaffermando con forza la sua totale supremazia quando in
ballo c’è tutta la musica
nera ma anche buona parte di quella bianca. Attraverso un Cd un po’ «ruffiano» e di non difficilissima
fruizione, rispetto agli standard dell’artista, Prince affronta però, nessuno escluso, tutti i generi di cui si è
trasversalmente occupato,
e che durante la carriera ha
via via fuso, rivoluzionando la black music almeno
quanto avevano già fatto i
vari James Brown, Sly Stone, Jimi Hendrix. Ma non
si limita a questo il suo genio meticcio: crea suoni
che hanno una vitalità
estremamente attuale, che
hanno forza, attrazione
(non per caso il disco è
schizzato in cima alle chart
di mezzo mondo), ma com-
LIBRI
India
ROCCA 15 MAGGIO 2006
S
tato dell’Asia meridionale, la penisola
indiana confina a
nord-ovest con il Pakistan,
a nord con la Cina, il Nepal e il Bhutan, a nord-est
con il Bangladesh ed è delimitata a sud-ovest dal
Mare Arabico e a sud-est
dal Golfo del Bengala (entrambi settori dell’Oceano
Indiano). I primi europei
a raggiungere l’India furono i portoghesi che già nel
1510 avevano il controllo
di Goa. Nel 1612 gli inglesi, attraverso la Compagnia delle Indie Orientali,
penetrarono il territorio
fondando importanti basi
commerciali. L’amministrazione dell’India, sotto
i governatori britannici fu
riorganizzata e furono attuate importanti riforme
in materia fiscale, educativa e sociale. Tuttavia, agli
inizi del XX secolo, un crescente sentimento nazionalistico cominciò a mettere a dura prova il dominio coloniale britannico. A
partire dagli anni Venti, un
riformatore sociale e religioso di fede induista,
Mohandas K. Gandhi, invitò il popolo indiano a rispondere alla repressione
britannica con la resistenza passiva. Nel frattempo
scoppiarono violenti scontri tra induisti e musulmani appartenenti alla Lega
musulmana, che temevano un futuro dominio degli induisti. Alla fine del
1946, sull’orlo di una guerra civile, il governo britannico annunciò il proprio
ritiro dal Paese. Nacquero
così nell’agosto del 1947
due stati indipendenti,
l’Unione Indiana e il Pakistan, assegnando all’India
i territori abitati in prevalenza da induisti e al Pakistan le aree a maggioranza musulmana.
62
Ottenuta l’indipendenza, la
principale fonte di attrito
tra i due nuovi stati divenne la regione del Kashmir,
popolata in grande maggioranza da musulmani ma
retta da un induista. Nell’ottobre del 1947, dopo l’annuncio del Kashmir di voler aderire all’Unione Indiana, scoppiò un cruento conflitto, che si risolse due anni
dopo grazie all’intervento
del Consiglio di Sicurezza
dell’Onu. Nel 1948 Gandhi
fu assassinato da un fanatico induista. Il primo ministro indiano Nehru, salito al
potere nel 1950, assunse
una linea di non allineamento rispetto alle due
Grandi Potenze, Stati Uniti
e Unione Sovietica, sebbene ricevesse da quest’ultima
aiuti alimentari. Nel 1957,
in conformità a quanto l’assemblea costituente del
Kashmir aveva deciso, l’India dichiarò il Kashmir parte integrante dell’Unione
Indiana. Nel 1966 Indira
Gandhi, la figlia di Nehru,
assunse la guida del governo. In seguito al secondo
conflitto indo-pakistano del
1971, l’India appoggiò la secessione del Pakistan orientale e riconobbe la nuova
nazione del Bangladesh.
Nel 1974 l’India compì il
suo primo esperimento nucleare. Dopo l’uccisione di
Indira Gandhi nel 1984, il
posto di primo ministro fu
preso da suo figlio Rajiv. I
primi anni Novanta furono
caratterizzati da una serie
di riforme economiche di
stampo liberista introdotte
dal governo Rao. Gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 hanno avuto
immediate ripercussioni sul
Kashmir, dove si è riacceso
lo scontro tra le truppe dei
due paesi. Nel 2002 è stato
eletto alla presidenza della
Repubblica un membro del-
la comunità musulmana, lo
scienziato Abdul Kalam.
Popolazione: con un miliardo e ottanta milioni di
abitanti, l’India è il secondo Paese più popoloso al
mondo. La composizione
etnica, estremamente variegata, è suddivisa in tre
differenti gruppi: gli indoariani (72%), i dravidi
(25%) e i mongoli (3%). In
India vengono parlate più
di 1.600 lingue minori e
dialetti, di cui 18 sono riconosciute ufficialmente
dalla Costituzione.
Religione: sebbene il Paese sia una democrazia laica, la religione pervade
ogni aspetto della vita sociale. L’induismo, la confessione predominante, è praticata dall’80% della popolazione. Secondo questa
religione, l’individuo rimane legato per tutta la vita
alla casta in cui è nato. Si
spiega così la tendenza delle caste più umili a convertirsi ad altre religioni. La
Costituzione indiana tuttavia esprime il proposito di
sradicare l’antico sistema
delle caste. I musulmani
costituiscono l’11% della
popolazione. Altre minoranze sono rappresentate
da cristiani (2,3%), sikh
(1,9), buddisti, giainisti e
Parsi.
Economia: nonostante un
reddito pro-capite piuttosto basso, ma con un Pil
che negli ultimi anni si è attestato intorno al 7%, l’India si colloca oggi al decimo posto come potenza industriale, grazie soprattutto alla varietà e all’abbondanza di risorse naturali
(ferro, carbone, petrolio,
amianto, oro, diamanti e
argento) e di manodopera
qualificata. Descritto spesso come un Paese di contraddizioni, l’India in effetti
conta, su scala mondiale,
FRATERNITÀ
Nello Giostra
quasi un terzo degli ingegneri di software e un
quarto degli affamati.
L’agricoltura, praticata ancora con metodi tradizionali, sebbene siano state
introdotte importanti trasformazioni tecnologiche,
rappresenta il 22,2% del
Pil. L’allevamento del bestiame, in particolare quello di bovini (usati essenzialmente per il lavoro nei
campi, dato che la religione induista ne vieta il consumo), costituisce un
aspetto centrale dell’economia agricola. Il settore
industriale è assai articolato e si concentra nel
comparto siderurgico, tessile, petrolchimico ed elettronico. Considerevole è
anche l’industria ad alta
tecnologia (aeronautica e
elettromeccanica) che primeggia nel settore dell’informatica, in particolare
nella produzione di software. L’industria cinematografica inoltre è tra le
prime al mondo per il numero di film prodotti.
Situazione politica e relazioni internazionali: le
elezioni politiche dell’aprile 2004 sono state vinte da
Sonia Gandhi, la vedova di
Rajiv, che ha però ceduto
la poltrona a Manmohan
Singh, primo esponente
della comunità sikh a ricoprire tale incarico, al fine
di mettere a tacere le polemiche e favorire la convivenza tra le varie comunità religiose ed etniche.
Nel frattempo nuovi negoziati tra India e Pakistan,
intesi ad affrontare l’annosa questione del Kashmir,
hanno portato a una riduzione delle truppe dislocate lungo la «linea di controllo». Gli Stati Uniti
stanno cooperando con
l’India per un ulteriore sviluppo di energia nucleare
civile, minando così la già
debole posizione degli Usa
nell’opporsi alle ambizioni nucleari iraniane. In
cambio però gli Stati Uniti chiedono che l’India non
voti a favore di una risoluzione contro l’Iran.
❑
Forza, pazienza e salute
Mi auguro con la presente
di trovarvi in ottima salute.
Ringrazio il Signore per farmi vivere ancora perché
devo accudire l’angelo di
mia figlia e devo aiutare anche l’angelo di mia nipote
Martina; hanno entrambe
bisogno di noi familiari, perché invalide fin dalla nascita. Mia figlia ha 34 anni, è
spastica, si esprime con lo
sguardo e necessita di particolare alimentazione, oltre
che di cure e assistenza continua. Sono vedova, ho 71
anni e la curo con tanto
amore. Martina è la figlia di
mio figlio, ha dieci anni ed
è nata con la stessa malattia di mia figlia. I medici
escludono fattori ereditari o
familiari. Prego tanto che
possiamo avere la forza, la
pazienza e la salute di accudirle sempre in tutto; lo auguro a tutte le persone del
mondo che sono nelle medesime condizioni. Malgrado tutto non bisogna mai
perdere la fede, altrimenti
non si riesce a vivere. Ogni
aiuto è prezioso D.A.
Aiutare un bambino a studiare
Cari amici di «Rocca», anche se non vi conosco di persona penso che siamo uniti
nello spirito di Gesù che è
una catena molto più forte
e per quello che vengo a
chiedervi sperando che il
vostro cuore sia sempre generoso e sensibile alle necessità dei nostri fratelli che si
trovano tra mille necessità
come tanti in questa terra
dell’Ecuador. Mi faccio portavoce di tanti ragazzi che
ogni anno chiedono di essere aiutati per studiare perché la situazione di povertà
dei genitori non lo permette; lo faccio perché sono sicura che tra voi ci sono persone disposte a darci un granello di sabbia per dare un
sorriso a questi nostri ragazzi. I missionari non sono
quelli che partono, ma sono
soprattutto quelli che con la
generosa collaborazione e la
fiducia ci danno una mano
«Ogni volta che avete fatto qualcosa
a uno dei più piccoli di
questi miei fratelli
lo avete fatto a me» Matteo 25, 40
per portare avanti la missione. La nostra scuola fa parte di un movimento che si
chiama «Fe e allegria» che
è nato in Venezuela per la
gente povera. Si mantiene
con la carità dei buoni e quel
poco che le istituzioni offrono. È duro è difficile, ma è
una bella causa «Aiutare un
bambino a studiare è problema di tutti», questo è il
nostro motto. Nel nostro
centro si educano circa 600
ragazzi, dalla scuola materna al liceo e si va avanti grazie ai benefattori della mia
amata Italia. È necessario
toglierli dalla strada, dalla
prostituzione, dalla droga.
Molti bambini fanno ore di
cammino a piedi per raggiungere la scuola e molti di
loro aiutano i genitori nel lavoro dei campi alzandosi di
notte. Cerchiamo di educare anche gli adulti per far capire loro l’importanza della
scuola e coinvolgerli per
una promozione umana.
Oltre allo studio vengono insegnati lavori manuali come
falegnameria per i maschi e
sartoria alle femmine che
preparano le divise per coloro che frequentano la
scuola. Prima tutto veniva
fatto in baracche che ogni
anno la furia degli uragani
distruggeva. Ora gli edifici
sono in muratura, ma durante l’inverno le piogge torrenziali creano danni, che
bisogna riparare; ecco perché qui le scuole cominciano in aprile! Ogni bambino
costa 100 euro all’anno e
quelli più bisognosi ora
sono 50... Aiutateci perché
questa scuola possa continuare ad operare per dare
un futuro migliore a questa
gente veramente misera...
Auguroni a tutti voi anche
a nome dei bambini e delle
loro famiglie; che il Signore
dia pace in Lui che ci ama
con un amore speciale ed
unico. Vi chiedo scusa per
il mio italiano. Sono figlia
di un italiano, ma non ho
mai studiato questa lingua;
la amo, mi piace molto capire e poi cerco di farmi capire. Un abbraccio fraterno
e grazie. F.D.
Tra sei mesi
Dopo tanti ricoveri finalmente abbiamo avuto una
bella notizia: mio nipote di
sette anni sta molto meglio
e non dovrà più recarsi a
Genova ogni mese, ma sarà
chiamato a fare il prossimo
controllo tra sei mesi. Le
condizioni della famiglia
sono ancora precarie perché il papà non riesce a trovare un lavoro sicuro per
mantenere la moglie e i tre
figlioletti; raccoglie ferro
vecchio quando la salute
glielo permette perché soffre di esaurimento per cui
spesso viene ricoverato in
ospedale. Ora la situazione
è peggiorata perché è arrivato lo sfratto di casa per
morosità. Quando questa
famiglia potrà trovare un
po’ di serenità? La mia piccola pensione mi permette
poco di aiutarli, ma vi assicuro che faccio tutto il possibile... I Rocchiggiani possono dare una mano? Spero di sì e ringrazio tanto
E.B.
Anche se sono disperata...
Il Signore vi conservi sempre in salute. Per quanto riguarda me sono sempre in
balia di grandi tempeste e
non riesco a venirne fuori.
Sono andata, se si può dire
così, in pellegrinaggio presso tutte le chiese della mia
città e multata sull’auto perché sprovvista di biglietto.
Solo don Gino, il sacerdote
che ha parlato con voi di
«Fraternità», mi ha aiutato
con venti euro per comprarmi la bombola, altrimenti
non potevo scaldare neppure un po’ di latte. Non so più
che fare, forse farla finita sarebbe la cosa migliore per
non soffrire più e non pagare i tanti debiti che non so
più quanti sono. Mio figlio
maggiore è ancora in carcere e non sta bene in salute;
non posso andare a trovarlo e ogni volta che mi scrive
mi si spezza il cuore; anche
il secondo ha precedenti penali per droga e altro; il terzo, che ad aprile è stata vittima di un pestaggio, non si
è più ripreso. Per lo spavento ora soffre di crisi violente e presto verrà chiamato
da una commissione per
misurare la sua pericolosità per poi essere curato in
Comunità o in ospedale psichiatrico. Spero che almeno l’ultimo possa trovare un
lavoro al più presto e togliersi così dai tanti pericoli. Purtroppo la causa di tutti i problemi che i miei quattro figli hanno avuto con la droga e la giustizia è stato il
comportamento violento di
mio marito che ha segnato
molto profondamente me
che solo il Signore sa quante ne ho subite e ancor più i
figli sin da piccoli. Le condizioni economiche sono
penose perché non riesco a
lavorare. Vorrei fare la collaboratrice domestica, lavare scale ecc. ma quando
chiedono le referenze con la
famiglia che mi ritrovo cosa
faccio? Anche se sono una
persona onesta questo per
loro non dà garanzie? Potrei
prostituirmi, ma non voglio
perdere la mia dignità anche se sono disperata. Sono
stanca e mi rivolgo agli amici di «Fraternità» chiedendo preghiere perché possa
riuscire a superare questo
momento di grande difficoltà. Sempre mi avete consolata, aiutata. Spero un giorno di scrivere che i momenti brutti sono passati. Con
la penna vi lascio, ma vi assicuro che siete sempre nei
miei pensieri. M.B.
Si possono inviare offerte
con assegni bancari, vaglia
postali o tramite c.c.p. n.
10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana –
06081 Assisi.
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ROCCA 15 MAGGIO 2006
paesi
in primo
piano
Carlo Timio
rocca
schede
Rocca/foto
d’archivio
Calogero Cascio