N°10 – 15 Maggio - Rivista Rocca
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N°10 – 15 Maggio - Rivista Rocca
Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi Irak: Ma che ci stiamo a fare? Cure palliative: Una moderna cultura del dolore Fede-Scienza: Le origini del mondo $# ANNO NUMERO 10 periodico quindicinale Last minute market: Un’intuizione vincente La Bibbia civile Bioetica: Abbattere gli steccati Chiesa: Benedetto XVI, anno primo cure palliative TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE 15 maggio 2006 Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia ISSN 0391 – 108X e 2,00 oltre l’immediato ... 4 7 11 sommario ... per guardare Rocca 13 14 17 18 20 23 24 28 31 34 15 maggio 2006 occa 37 40 10 42 44 Ci scrivono i lettori Anna Portoghese Primi Piani Attualità 46 51 Vignette Il meglio della quindicina Raniero La Valle Resistenza e pace La tregua istituzionale Maurizio Salvi Egitto Repressione prima democrazia poi Romolo Menighetti Oltre la cronaca Che ci stiamo a fare? Filippo Gentiloni La Bibbia civile Costituzione casa comune 52 54 56 57 Roberta Carlini Economia Prodi, l’Italia e l’Europa 58 Romolo Menighetti Parole chiave Terrorismo 58 Giannino Piana Bioetica Abbattere gli steccati 59 Pietro Greco Cure palliative Una moderna cultura del dolore 59 Sabrina Magnani Last minute market Un’intuizione vincente 60 Giuliano Della Pergola Società Gli antagonisti 60 Rosella De Leonibus Cose da grandi Morbido e dolce 61 62 Manuel Tejera De Meer Io e gli altri La personalità carismatica Claudio Cagnazzo Società Dalla vacanza al weekend Stefano Cazzato Maestri del nostro tempo Tzvetan Todorov Discorsi della varietà 63 Giancarlo Zizola Chiesa Benedetto XVI anno primo Enrico Peyretti Fatti e segni Quale pace? Arturo Paoli Cercate ancora Gettati nel mondo Carlo Molari Teologia Le origini del mondo Lidia Maggi Eva e le sue sorelle Susanna, un grido di protesta Giacomo Gambetti Cinema Storia e film Don Pietro Pappagallo Roberto Carusi Teatro Sacro e profano Renzo Salvi RF&TV Reality Italia Mariano Apa Arte Claudel/Rodin Alberto Pellegrino Fotografia Argalia - Ritratti Enrico Romani Musica Il ritorno di Prince Giovanni Ruggeri Siti Internet Web 2 Libri Carlo Timio Rocca schede Paesi in primo piano India Nello Giostra Fraternità quindicinale della Pro Civitate Christiana Numero 10 – 15 maggio 2006 $# ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione casella postale 94 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org http://procivitate.assisi.museum Telefax 075.812.855 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: Banca Pop. di Spoleto – Assisi Cin: T – ccb n. 2250 – Abi 5704 – Cab 38270 IBAN: IT59T05704382700 0000 000 2250 BIC: BPSPIT3SXXX Quote abbonamento Annuale: Italia e 45,00 Annuale estero e 70,00 Sostenitore: e 100,00 Semestrale: per l’Italia e 26,00 una copia e 2,00 - numeri arretrati e 3,00 spese per spedizione in contrassegno e 5,00 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 ROCCA 15 MAGGIO 2006 Editore: Pro Civitate Christiana Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 02/05/2006 e spedito da Città di Castello il 05/05/2006 4 Mezzo secolo di Televisione Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute L’articolo di Renzo Salvi («Servizio pubblico televisivo», Rocca, n. 8 del 15 aprile 2006) mi ha fatto riflettere sul potere del mezzo mediatico, che ha ormai mezzo secolo di presenza nella nostra società. Una situazione analoga la troviamo nel ’700, quando l’illuminismo aveva introdotto in Francia una novità capace di scardinare un secolare assestamento politico: l’Enciclopedia, che il matematico Gian Battista D’Alembert definì il dizionario delle scienze, delle arti e dei mestieri a cura degli uomini di cultura, e che preparò la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale, i cui effetti politici e morali, affermò Robert Owen, meritavano l’impegno degli statisti migliori. Fu allora, esattamente nel 1749, che l’Accademia di Digione bandì un concorso sul tema: «Il progresso della scienza ha contribuito a corrompere o ad affinare i costumi?». Vi partecipò e lo vinse Jean Jaques Rousseau con un suo Discorso nel quale sostenne che «tutto nasce buono dalle mani di Dio e tutte le cose si guastano nelle mani dell’uomo». Il dibattito che ne seguì portò ad una riflessione sui fini e sui mezzi dell’educazione che si sviluppò in tutta l’Europa. La stessa domanda, dopo mezzo secolo di Tv, ce la dovremmo porre oggi: «La televisione ha contribuito in tutti questi anni a corrompere o a migliorare i costumi, a innalzare il livello culturale e morale del nostro popolo, oppure lo ha abbassato? E, a vantaggio di chi?». È tempo di fare un bilancio sull’influenza che il mezzo televisivo – come è stato usato – ha avuto nel formare una coscienza democratica e libertaria. Io sono stato testimone della sua evoluzione, e ne sono stato sosteni- tore entusiasta e convinto. Pensavo che la Tv fosse la più grande invenzione dell’uomo moderno perché permetteva di vedere tutto ciò che accadeva nel mondo in tempo reale, di vedere tutto ciò che la civiltà umana produce in ogni angolo della Terra: la ricerca scientifica, l’iniziativa dell’uomo a favore del pianeta, il teatro, i concerti, l’arte. Il mio sogno era la televisione come una grande università capace di avvicinare i popoli diversi e di favorire la pace. E all’inizio fu proprio così: il maestro Alberto Manzi che insegnava a migliaia di analfabeti a leggere e a scrivere, ne era il simbolo. I film di Vittorio De Seta sulla scuola che cambiava, il teatro di qualità che settimanalmente entrava nelle nostre case, erano esempi concreti che ciò poteva avvenire. Ma ben presto il sogno svanì, altri guardarono alla televisione con fini diametralmente opposti: portare nelle nostre case il mercato con la pubblicità, sostituire il giudizio di merito con l’auditel (la quantità), aumentare gli indici d’ascolto con l’abbassamento del livello culturale per mezzo degli spot, della banalità, della curiosità morbosa, della violenza distillata e riproposta nei film. Vi furono reazioni come la raccolta di «firme per cambiare la Tv», che in pochi mesi superò le 550.000 adesioni, consegnate simbolicamente al Capo dello Stato. Il governo Prodi nominò una commissione a cui parteciparono tutte le televisioni, sia pubbliche che private: fu sottoscritto un codice di autoregolamentazione che tuttavia nessuna televisione rispettò. Si alzò allora la voce autorevole di Karl Popper che accusò la televisione di portare nelle famiglie modelli di violenza e di essere un pericolo per la democrazia quando il potere mediatico è in mano a pochi senza controllo. Propo- se per i conduttori televisivi una patente perché la loro responsabilità è pari a quella di chi guida un mezzo. Indro Montanelli suggerì un processo pubblico ai conduttori televisivi. Proviamo a rispondere oggi alla domanda dell’Accademia di Digione: «Questa televisione contribuisce a corrompere o ad affinare i costumi?». La Tv è senza dubbio dama di compagnia di chi non può allontanarsi da lei: dei più deboli quindi, almeno in un certo senso. Quale etica nel proporre a questa categoria di «nuovi deboli» i mondi fasulli di intrighi familiari o rapporti umani estremi che assurgono a modelli irrealizzabili e fonti di ulteriore insoddisfazione? Quale effetto nel continuare a selezionare cronache di quotidiana violenza in un crescendo di emulazione fino alla pioggia di sassi dai cavalcavia e all’annullamento del valore di una vita umana? È forse sbagliato, inattuale, utopistico auspicare che una classe politica degna di tale nome dica chiaramente che una società veramente civile non può tollerare una televisione così ed esprima nei propri programmi una riforma radicale del mezzo mediatico come libero strumento di sano relax o crescita culturale per tutti? Oppure non è importante? O – peggio – va bene così? Mario Lodi, educatore [email protected] La Parola venduta Cara Adriana Zarri, sono tanti anni che leggo Rocca e da sempre vi cerco per prima cosa i tuoi articoli, perché condivido le tue riflessioni ed ammiro la tua apertura mentale e la tua vicinanza a Dio senza condizionamenti. Ho compiuto 60 anni da poche settimane e sto vivendo un momento di ricerca di Dio perché con il passare degli anni, la ragione sembra allontanarmi dalla fede della mia giovinezza. Il confronto con le altre religioni mi ha fatto sorgere il dubbio che tutte siano state «inventate» per rispondere al bisogno di infinito di noi uomini. So che se Dio esiste non sarà la mia crisi a danneggiarlo, ma il dubbio mi fa star male perché senza fede tanti avvenimenti (forse tutti) perdono il loro senso. Vorrei parteciparti come sia rimasta fortemente colpita da una notizia che è passata quasi inosservata e che invece ha incrinato la mia fiducia nella Chiesa e nel Papa. Ho letto su un quotidiano di gennaio 2006, notizia poi verificata su Internet, che il Cardinale Sodano aveva emesso un decreto per proteggere tutti gli scritti ed i discorsi del Papa con un rigido copyright. Il decreto era stato promulgato nel maggio del 2005, uno dei primi atti del nuovo pontificato, per tutelare economicamente tutti gli scritti ed i discorsi, anche quelli degli ultimi 50 anni, di Papa Ratzingher. Nessuno può pubblicare in tutto o in parte la parola del Papa, encicliche comprese, senza pagare un compenso al Vaticano, pena sanzioni varie. Secondo me, qualunque siano le motivazioni che hanno portato a questo, è un vero sacrilegio. Il Verbo, la Parola di Dio che il Papa e la Chiesa dovrebbero desiderare conosciuta da tutti, credenti e non, viene venduta. È questa, secondo me, un’involontaria ma chiarissima dimostrazione di ateismo. Sarei contenta di conoscere il tuo parere e quello della redazione di Rocca sul decreto Sodano. Intanto cercherò di imparare a leggere, come tu sai fare, l’enciclica laica eppure sacra, non scritta dal papa ma da Dio. Laura Natali Pistoia La Zarri si è espressa in merito ne «Il Manifesto» di domenica 5 febbraio, pag. 6. Concorda con lei e anche noi pur comprendendo le necessità economiche dell’apparato vaticano. I testi in questione sono comunque reperibili gratuitamente su Internet www.vatican.va/ ITA1798/_INDEX.HTM Anziani e case di cura Era un pomeriggio di Marzo, non lo dimenticherò mai, era iniziato così, con un sole splendente, l’aria che inizia a pesare meno, la consapevolezza che fosse arrivata la primavera. Andare a trovare una persona, a cui tengo molto, in una casa di cura per anziani era per me cosa nuova, ma che all’apparenza non alimentava alcuna particolare preoccupazione dentro di me. Entrai in maniera decisa nella struttura, entrai dal cancello principale, da fuori trovai subito la casa di riposo molto accogliente, il giusto compromesso fra verde e cemento, fra spazio e costruzione. Appena entrato, una sensazione strana in maniera fulminante si fece subito padrona di me. All’interno vidi subito un frequente via vai di persone, avevo fatto solo tre passi, ero concentrato, mi guardavo intorno e facevo fatica a capire. Feci qualche passo in più, ero impreparato a ciò che vedevo, passavo per il corridoio, con lo sguardo sfilavo il viso di persone anziane, anziani seduti da soli, appena catturavo la loro attenzione quello sguardo all’improvviso cambiava, i loro occhi assumevano per qualche secondo la speranza ROCCA 15 MAGGIO 2006 Rocca ci scrivono i lettori CI SCRIVONO I LETTORI 5 CI SCRIVONO I LETTORI UN CLIC su un titolo ed ecco il testo, stampabile, dell’articolo prescelto UN CLIC su una tematica o una rubrica ed ecco tutti gli articoli che Rocca ha pubblicato sull’argomento TUTTA ROCCA nello spazio di 5 millimetri al costo di soli 10 E spese di spedizione comprese ROCCA 15 MAGGIO 2006 RICHIEDERE A [email protected] o a mezzo conto corrente postale 15157068 Sono disponibili anche copie limitate del CD-ROM ROCCA 2004 a E 10 spese comprese 6 Vittorio Ravazzini Bergamo India all’università anche i dalit Colombia ai candidati delle elezioni presidenziali Scompaginerà il sistema delle caste in India il progetto di legge che prevede di riservare un posto su due, nei college più prestigiosi, agli ex intoccabili (Dalit) e ai più diseredati? Nonostante sia stata ufficialmente abolita nel 1965, la divisione in caste, un sistema funzionale di stratificazione e oppressione sociale, di origine ancestrale, è rimasta radicata nel costume indù. Mentre i Bramini sono saldamente arroccati al potere relativo all’interno della comunità, i Dalit, (in passato non era nemmeno consentito contaminarsi con la loro ombra), restano discriminati nell’accesso al lavoro e all’istruzione, e sono circa 1/6 dell’attuale popolazione. La loro situazione sociale è oggi lievemente migliorata e questo disegno di legge, sostenuto dalla sinistra e dal partito del Congresso, li proietterebbe verso uno sviluppo finalmente umano. In una società in profonda evoluzione tecnologica, il governo ritiene che l’attuale miracolo economico – il quale riguarda un 25-30% della popolazione – è destinato a fallire se non riuscirà a coinvolgere anche le enormi masse di poveri. La liberalizzazione e la privatizzazione hanno bisogno di poter competere massicciamente in tempo di globalizzazione, e l’India tiene molto allo sviluppo, specie del suo settore informatico. Naturalmente le imprese vorrebbero i migliori alunni. Ma molti studiosi sostengono la necessità di coinvolgere le masse per evitare il crollo nello sviluppo. Uno dei capitani d’industria più influenti, Ratan Tata, ha invitato i suoi colleghi a «operare secondo principi e valori: non possiamo – ha detto – creare una grande ricchezza senza fare uno sforzo anche per diffonderla». L’opinione pubblica colombiana è stata fortemente colpita dall’assassinio di Liliana Gaviria, sorella di un ex presidente della Colombia, avvenuto il 28 aprile. Intanto, ai candidati delle elezioni presidenziali in Colombia, in programma per il 28 maggio, Amnesty international, nel corso di una coraggiosa lettera aperta, domanda di riconoscere l’esistenza di una crisi dei diritti umani e che cosa intendano fare per affrontare la situazione. Il governo si è vantato della recente smobilitazione dei gruppi paramilitari legati all’esercito, ma la nota organizzazione umanitaria ricorda come dal 1985 i paramilitari, la guerriglia e le forze di sicurezza abbiano costretto oltre tre milioni di persone a lasciare le proprie abitazioni. Altre decine di migliaia sono state uccise, fatte sparire, torturate o sequestrate. Adesso alcune iniziative del governo per favorire la smobilitazione rischiano di assicurare ai militari smobilitati il controllo su milioni di ettari di terre di cui si sono appropriati. Costoro potrebbero essere autorizzati a ottenere fondi per i progetti di sviluppo agricolo proprio sulle terre strappate con la forza, spesso a seguito di violazioni dei diritti umani e col sostegno dell’esercito. «Così, centinaia di migliaia di colombiani si troveranno di fronte a un tragico dilemma: continuare a rimanere senza un posto dove andare oppure tornare nelle proprie terre e vivere fianco a fianco ai responsabili della loro fuga e della tortura, dello stupro e dell’assassinio dei loro cari» – ha denunciato Marcelo Pollak , ricercatore di Amnesty in Colombia. Ai candidati Amnesty chiede di esprimersi pubblicamente in particolare su come proteggeranno i civili maggiormente a rischio, le donne e i gruppi indigeni. Roma medaglia d’oro a fratel Arturo Il 25 aprile il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha consegnato la medaglia d’oro a fratel Arturo Paoli con la seguente motivazione: «Nel corso dell’ultimo conflitto con encomiabile spirito cristiano e preclara virtù civica, collaborò alla costruzione di una struttura clandestina che diede ospitalità e assistenza ai perseguitati politici e a quanti sfuggirono ai rastrellamenti nazifascisti dell’alta Toscana, riuscendo a salvare circa 800 cittadini ebrei. Mirabile esempio di grande spirito di sacrificio e di umana solidarietà. Nel 1943 a Lucca». Tutta la vita di fratel Arturo è stata all’insegna di una passione indomabile per Cristo e per l’uomo. I suoi libri e i suoi scritti non sono tanto frutto di studio quanto di battaglie su fronti diversi: dall’Italia all’Argentina, all’Algeria, al Cile, Venezuela, ai poveri del Brasile dove a Foz de Jguaçu fonda l’associazione «Fraternità e Alleanza»… Il suo esempio salutarmente c’inquieta. ROCCA 15 MAGGIO 2006 UN CLIC sul nome di un Autore ed ecco i titoli di tutti i suoi articoli Anna Portoghese i 23 NUMERI integrali dell’annata con relativi INDICI per numero per Autore per tematiche principali per rubriche a cura di in CD-Rom testa non si fermavano, giravano continuamente dentro di me. Pensavo a quello che avevo visto, anziani fermi su una sedia, guardavano nel vuoto, chissà cosa pensavano, pensavo a quei corridoi, accanto a me passavano anziani su una carrozzella. Lì vedevo la fatica, la sofferenza, la cruda verità, forse un giorno toccherà al giovanotto che sono ora, e forse non avevo fatto ancora i conti con tutto questo. Avevo visto anziani che giocavano a carte, il sorriso era quello di chi inganna il tempo, un tempo che forse non può più pretendere qualità, se da giovani ci si lamenta che il tempo passa troppo in fretta. Ho avuto come la sensazione che lì non passasse mai, perché il tempo si appesantisce, non ti scivola addosso come prima. Tutte quelle sensazioni diverse assieme mi avevano sfiancato. Però ero anche contento, qualche anziano scambiò qualche piccola parola pur non conoscendomi, quando cercavano la mia attenzione non mi tiravo indietro, i sorrisi che avevo visto erano grandi, erano veri, la cosa strana è che senza fare chissà cosa mi hanno fatto sentire davvero importante anche se forse doveva essere il contrario. Accompagnata l’anziana che mi aveva ricevuto me ne tornai a casa con tantissime domande. Serviva una grande riflessione, avevo solo una consapevolezza, sarei tornato presto, sarei tornato più forte, sarei tornato con il sorriso perché anche questa è una pagina della vita, una pagina che pian piano si era colorata, si era riempita di piccole cose belle più forti delle fatiche, più forti di tutti quei pensieri amari. Penserò solo a vivere, penserò a vivere anche questo con il sorriso, perché fa parte della vita, perché ha riempito il mio cuore. primipiani OCCA2005 grande che qualcuno fosse arrivato a trovarli, ma quegli occhi cambiavano ancora, l’illusione spegneva la speranza, la delusione tornava padrona dei loro occhi. Cercavo la persona che mi avrebbe ricevuto, chiesi dove fosse la stanza, andai al terzo piano dove si trovava la camera, non la trovai, ma non mi persi d’animo, l’avrei cercata fino a trovarla. Camminavo veloce, il nervosismo la faceva da padrone, non trovavo la persona che cercavo, camminavo e camminavo, la confusione si era impadronita di me, presi una strada a caso, e arrivai al secondo piano. Camminavo, cercando di mantenere un atteggiamento rilassato, ma dentro non stavo bene, non mi pensavo così debole, eppure più mi guardavo intorno più dentro di me si facevano strada domande molto pesanti, domande che trovavano risposte chiare, la pesantezza della realtà, l’aver visto alcune cose con i miei occhi. Arrivato al secondo piano, seguivo con l’orecchio le onde sonore, c’era una festa, qui il clima era rilassato, si cantava, si ballava, anziani seduti a seguire l’orchestrina di musica, musica antica, canzoni molto datate, una bella atmosfera, per qualche attimo qualche sensazione era cambiata, respirai a pieni polmoni l’aria festosa, allegra di quel piano. Tanti anziani mi guardavano attentamente: pur giovane e sconosciuto ero quasi una sorpresa, mi salutavano tutti, erano gentili, i loro sguardi risultavano sinceri, forse mi guardano e si rivedono ventenni, pieni di forza, pieni di voglia di vivere. Mi guardavo intorno, e finalmente trovai la persona che stavo cercando, mi misi accanto in maniera molto cauta, è stato un bel momento, la mia visita aveva suscitato grande gioia, ed io l’avevo capito. Parliamo per una buona oretta, cerco di rilassarmi, ma le domande nella mia ATTUALITÀ 7 ATTUALITÀ Usa la versione «latinos» dell’inno Nepal il parlamento finalmente e la costituente Francia le chiese e la legge sugli immigrati Titolo dell’album musicale: «Somos americanos» (Siamo americani); cantautori: tra i nomi più famosi; testi controversi: soprattutto la versione spagnola dell’inno nazionale statunitense ribattezzato «Nuestro Himno» (Nostro Inno). Il produttore dell’album Adam Kidrom dichiara di averlo fatto in solidarietà con gli 11 milioni di immigrati negli States e contro il progetto di legge sui clandestini, vivamente contestato anche da molti americani. Ma il presidente Bush, nel corso di una conferenza-stampa tenuta su internet il 28 aprile, interrogato in merito, taglia corto: «L’inno nazionale dev’essere cantato in Inglese. Chi vuol diventare cittadino di questo Paese deve imparare l’Inglese». Intanto il 1° maggio è la «giornata senza i “latinos”»: dopo due giorni di mobilitazione nelle strade, essi hanno deciso di non lavorare, di non consumare, di non mandare i ragazzi a scuola. Intendono mostrare il loro peso economico. Visto che non vogliono contaminazioni linguistiche, come mai gli americani accettano la «contaminazione economica»? Dopo 19 giorni di scioperi e di manifestazioni, il re del Nepal Gyanendra ha annunciato il 21 aprile il ristabilimento del Parlamento che egli aveva sciolto nel maggio del 2002. La guerriglia maoista, che si era associata alla protesta, ha deciso una tregua dei combattimenti e lo spostamento dei blocchi nelle città, visto che l’opposizione manteneva l’impegno a formare un’Assemblea costituente, richiesta-chiave. Il re, su proposta dei sette partiti d’ opposizione, ha nominato Girija Prasad Koirala capo del Partito del Congresso, primo ministro del governo interinario. Si avvia, forse, a soluzione il disastroso periodo trascorso, da quando Gyananendra, dopo lo sterminio della famiglia reale del 2001, era salito al trono e, incapace di domare l’opposizione antimonarchica e la guerriglia maoista, aveva imposto da un anno lo stato di emergenza, sospendendo i diritti fondamentali dei cittadini. Com’è noto, il Paese versa in condizioni di estrema arretratezza. Il Consiglio delle Chiese cristiane di Francia ha rivolto il 25 aprile un messaggio al primo ministro Dominique de Vallepin, riguardo al progetto di legge sugli immigrati, presentato all’Assemblea nazionale da Nicolas Sarkozy. I firmatari (mons. Jean-Pierre Ricard per i cattolici, il pastore Jean-Arnold de Clermont per i protestanti, e mons. Emmanuel per gli ortodossi) dichiarano la loro profonda inquietudine per le misure restrittive contenute nel progetto di legge, paventano «serie conseguenze sulla sorte riservata a tanti uomini e a tante donne in una situazione di fragilità». Non diminuiranno le persone senza documenti perché il progetto contiene norme che restringono ancora la possibilità di regolarizzazione, lasciandole nella precarietà amministrativa e sociale. Il pastore de Clermont, ricevuto da Sarkozy, ha insistito sulla necessità di ripensare la politica dell’immigrazione. A sua volta il ministro ha proposto l’istituzione di una commissione di riflessione ininterrotta sulla linea francese dell’immigrazione. I firmatari del messaggio attendono una verifica. Pechino nominato vescovo «patriottico» ROCCA 15 MAGGIO 2006 La decisione della chiesa cattolica patriottica cinese, dipendente dal governo di Pechino (nella foto un battesimo di detta chiesa) di nominare vescovo di Kunming (Yunnan) il quarantenne prelato Ma Yinglin, senza consultare la Santa Sede, ha colto di sorpresa i tessitori di un negoziato tra Vaticano e Repubblica popolare cinese, negoziato che sembrava giunto a buon punto. Apparentemente nessuna infrazione protocollare perché i rapporti tra i due Stati risultano interrotti dal 1951, ma sotto il profilo politico-religioso si tratta di un fatto preoccupante. «Un sabotaggio», lo ha definito senza mezzi termini il cardinale di Hong Kong Joseph Zen, secondo cui Pechino avrebbe dovuto scegliere il vescovo tra la rosa di nomi indicati dalla Santa Sede. Il Vaticano, in compenso, avrebbe sospeso le relazioni con Taiwan. Anche il viaggio del Papa in Cina sembra ora compromesso. Ma non è detto, sostengono gli osservatori internazionali. È un momento in cui nella società cinese tutto evolve, fattore religioso compreso. 8 notizie seminari & convegni Trento.Un servizio di consulenza pedagogica viene proposto ai genitori di bambini con problemi di udito, di vista e di linguaggio. Si tratta di un corso per corrispondenza che intende sostenere concretamente i genitori che hanno difficoltà o dubbi nella crescita quotidiana dei loro piccoli, riprendendo il metodo di Geneviève Painter. Informazioni: Servizio consulenza, cas. postale 601 38100 Trento, tel. 0461 8286 93; e-mail: [email protected]. Sardegna. La Regione Sardegna, per la prima volta nella storia della sua autonomia, ha adottato in via sperimentale una propria lingua per la stesura di alcuni atti e documenti ufficiali. «Sa limba sarda», una varietà linguistica sarda parlata nelle aree centrali della Sardegna, viene concepita come una «lingua bandiera», uno strumento di protezione dell’identità collettiva, punto di mediazione tra le parlate più comuni. Resta invariato il valore legale esclusivo degli atti nel testo redatto in lingua italiana. 18 maggio-9 giugno. Venezia. Nella Chiesa di san Barnaba mostra «La creazione del mondo» nella quale sono esposte opere realizzate da giovani artisti degli atenei veneziani. È promossa dal gruppo «Arte e spiritualità» della pastorale universitaria. 20, 27 maggio; 3, 10 giugno. Bari. Ciclo di incontri sulla Costituzione al foyer del Petruzzelli, organizzato dall’Editore Laterza, la Fondazione Petruzzelli e la direzione Beni Culturali di Puglia. Iniziati il 13 maggio, proseguono con Valerio Onida(20 maggio), Fernanda Contri (27 maggio), Franco Casavola (3 giugno), Carmela De Caro (10 giugno). Informazioni: Libreria Laterza. 22-23 maggio. Modica. Seminario teologico-filosofico nel centenario della nascita di Dietrich Bonhoeffer sul tema: «Attualità di Bonhoeffer?». Relazioni di Giuseppe Ruggieri e Giovanni Ferretti. Ore 19, 30 Domus Sancti Petri. 25 maggio. Napoli. Rassegna musicale «Una canzone di pace» al Cinema-teatro Corso. Sono ammessi gruppi musicali o singoli musicisti che presentino un pezzo originale, musica e testo, inerente i temi della pace e della nonviolenza. Tema di quest’anno: «Acqua: bisogno o diritto dell’umanità?» Informazioni: Scuola di pace Onlus, tel: 081 737 3462; 081 736 4980; email: [email protected]. 28 maggio. Magnano (Bi). Incontro al Monastero di Bose con l’abate André Louf sul tema: «La paternità spirituale». Informazioni: tel. 015 679 185; e-mail: ospiti@monastero dibose.it. 1-4 giugno. Camaldoli (Ar). Sul tema «La conoscenza di Dio nell’Islam» incontro di Pentecoste in dialogo con le fedi viventi. Informazioni: Foresteria del Monastero camaldolese, tel.0575 556 001; email: [email protected] 5 giugno. Torino. L’Associazione «Amici di Lazzaro» indice un incontro alle ore 19 per programmare le attività estive, in particolare animazione ninori, campi in Italia e all’estero. Informazioni: Centro Servizi, via Toselli, 1 –Torino. 5-9 giugno. Assisi. Giornate di spiritualità alla Cittadella sulla prima Lettera ai Corinti, per presbiteri, diaconi, laici, suore col tema:»Nascita e crescita nel conflitto della comunità cristiana». Relatore p. Giancarlo Bruni, servo di santa Maria e fratello della Comunità di Bose. Informazioni: Cittadella cristiana convegni, via Ancajani 3, 06081 Assisi, tel. 075 813231, e-mail: [email protected]. 9 giugno. Badia Fiesolana (Fi). Incontro nella Sala Capitolare con Enrico Letta sul tema: «L’allargamento dell’Europa tra mercato e valori». Informazioni: Fondazione Balducci, via dei Roccettini 1, 50016 San Domenico di Fiesole, tel. 055 599 240, email fondazionebalducci @virgilio.it. 20-23 giugno. Ziano Piacentino (Pc). Corso di cetra per la liturgia, con possibilità di soggiorno al Centro «La vite e i tralci», organizzato da «Il mondo della cetra». Informazioni: tel. 338 7045 235. 21-22 giugno Salisburgo (Austria). Convegno internazionale sulla digitalizzazione del patrimonio culturale europeo, organizzato dal Salzburg Research. Il convegno prenderà in esame la raccolta, la conservazione, la messa in rete del patrimonio culturale e dell’informazione scientifica euro- pei. Informazioni: http:// dhc2006salzburgresearch.at/ %20/RMK. 25 giugno-1° luglio. Maguzzano (Bs). Ritiro spirituale con fr. Arturo Paoli e d. Carlo Molari sul tema: «Incarnazione: criterio di verità. Riflessioni sulla prima lettera di Giovanni»: Informazioni: Abbazia, tel. 030 9130182. 26-30 giugno. Rho (Mi). Settimana biblica per sacerdoti e diaconi sul Libro di Giobbe, condotto da d. Luca Mazzinghi e sr. Nuria Calduch Beneges, organizzata dall’Associazione Biblica Italiana. Informazioni: p. Barbieri, tel. 02 93 2080; e-mail:[email protected]. 17-26 luglio. Fove St. Marcel (Ao). Corso di iconografia bizantina all’eremo di Fove con Luisa Sesino, organizzato a cura del Forum permanente di iconografia. Informazioni: [email protected]. 22 luglio-1 agosto. Selva di Valgardena (Bz). Corso per giovani (universitari e lavoratori) sul tema: «Giovani di fronte alla vita: vivere e scegliere». Proposta in particolare per ‘i maturati 2006’. La animano i padri F. Clerici, B. Lavelli, M. Teani S.J. Informazioni: Segreteria P. San Fedele 4, 20121 Milano, tel. 02 8635 2285; email: [email protected]. Sede del Corso: Villa capriolo, Plan da teja, 72-39048 Selva V al Gardena (Bz). 28-29 luglio Monte Giove (An). Incontro all’eremo sul tema: «La Parola e il silenzio tra Occidente e Oriente» . Relatori: A. Chieregatti, A. Andreini, B. Cozzarini, F. Battistutta, F. Ferrario. G. Fazon, M. Falà, S. Frigerio, S. Piano. Informazioni: cell. 349 4327 149, tel. 0721 8094 96 0721 776 153; Eremo: 0721 864 603. ROCCA 15 MAGGIO 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 9 10 Papa Ratzinger forse intende dare una svolta al dialogo con l’Islam. Nell’attuale pluralismo religioso, studiato da insigni teologi e fatto oggetto di un particolare documento dal Concilio Vaticano II (Nostra Aetate), il dialogo appare chiaramente una scelta obbligata. Quale dialogo? Nel ventaglio delle sue espressioni e nei vari suoi livelli, la Chiesa cattolica lo ha ritenuto ineludibile. Tuttavia, stando alle notizie del quotidiano La Repubblica (29 aprile), c’è una accentuazione impressa da Bendetto XVI: il confronto con il variegato mondo islamico, prima che essere teologico in senso proprio, dovrà tenersi – secondo quanto proposto dal Papa – sulla concezione della società e dei diritti umani, vertere intorno alla dimensione politica e sociale. Il giornalista Politi parla di un seminario svoltosi nello scorso settembre a Castel Gandolfo, guidato dallo stesso Papa, nel quale i temi ricorrenti sono stati «la difficoltà dell’Islam di vivere in una società secolarizzata» e la problematica religione-stato. È noto che il cristianesimo è per la distinzione tra Cesare e Dio, la religione islamica invece tende a integrare sotto la legge del Corano tutti gli elementi della vita sociale. Conclude l’islamologo Samir Khalil Samir presente al dibattito: «L’idea essenziale è che il dialogo con l’Islam e con le altre religioni non può essere un dialogo teologico o religioso, se non in senso largo di valori morali. Deve invece essere un dialogo di culture e civiltà». Un rafforzamento di tale tesi si può ritrovare nel fatto che e all’incontro di Castel Gandolfo non c’è stato monsignor Michael Fitzgerard, già presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, organismo recentemente accorpato al Dicastero della cultura. Il 25 aprile è stata presentata alla Commissione Sviluppo del Parlamento Europeo di Bruxelles lo status del commercio equo e solidale. Situazione in crescita, anzi di un vero balzo in avanti in quanto si superano le due cifre in percentuale per vari prodotti: il 47% del mercato di banane in Svizzera, il 20% del mercato del caffè in Gran Bretagna, con punte complessive del 74% in Francia. Il commercio equo consiste nel pagare in anticipo e più cara la materia prima a cooperative di produttori aiutandoli a diventare autonomi. Si è rivelato uno strumento idoneo alla lotta contro la povertà, anche se resta marginale perché attualmente rappresenta solo lo 0,01% del commercio mondiale. In Europa le vendite sono aumentate del 20% all’anno. Nel 2005 gli alimenti o gli oggetti di artigianato sono stati venduti in 79.000 punti-vendite per un valore commerciale di 660 milioni di euro contro i 260 milioni dell’anno 2000. Ci sono fondamentali regole da rispettare: Sollecitare i produttori economicamente sfavoriti; rendere trasparente la gestione e le relazioni commerciali; sviluppare l’indipendenza dei produttori; pagare un «giusto prezzo»; remunerare le donne; assicurare buone condizioni di lavoro; rispettare l’ambiente. Ma i consumatori e soprattutto le imprese del settore, di fronte alla crescita impressionante del fenomeno, reclamano regole più precise e comuni. L’andata a Bruxelles su iniziativa del parlamentare verde Frithiof Schmidt e dell’italiana Luisa Morgantini è stata quanto mai opportuna in quanto prelude a una presa di posizione dell’Unione Europea. Corea del Sud primo ministro questa volta donna È Han Myeong Sook la prima donna a conquistare nella Corea del Sud la carica di primo ministro. Il Presidente che l’ha nominata ha sfidato l’Assemblea nazionale finora sempre oppostasi alle candidature «in rosa». Sessantadue anni, avvocato ed ex attivista del Movimento democratico, la signora Han ha sofferto il carcere sotto la dittatura di Park Chung-hee ed è nota per il suo impegno nell’ambito della emancipazione femminile. La situazione governativa interna non è facile, anche se, dopo un ennesimo scandalo economico, maggioranza e opposizione insieme con le forze imprenditoriali hanno firmato lo scorso anno il «Patto per una società trasparente» che impone severe sanzioni per contrastare la corruzione. Il compito del primo ministro non sarà comunque facile anche perché, quanto a modernizzazione, solo molto lentamente evolve la società civile sudcoreana (le donne che hanno cariche politiche sono meno del 4%). della quindicina Bruxelles commercio equo, balzo in avanti il meglio Religioni il Papa e il dialogo con l’Islam vignette ATTUALITÀ da IL MANIFESTO, 25 aprile da IL CORRIERE DELLA SERA, 27 aprile da IL CORRIERE DELLA SERA, 28 aprile da LA REPUBBLICA, 28 aprile da IL MANIFESTO, 28 aprile da IL CORRIERE DELLA SERA, 29 aprile da IL CORRIERE DELLA SERA, 29 aprile da IL FOGLIO, 30 aprile ROCCA 15 MAGGIO 2006 ROCCA 15 MAGGIO 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 11 4° convegno Terza Età 14-17 maggio la tregua istituzionale padri e figli … nel fluire delle generazioni “Proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato e il germoglio che hai coltivato” (Salmo 80, 16) i relatori: Rosella DE LEONIBUS, psicoterapeuta; Tonio DELL’OLIO, teologo; Roberto SEGATORI, sociologo; Tullio SEPPILLI, antropologo giornate di spiritualità per presbiteri, diaconi, laici, suore 5-9 giugno nascita e crescita nel conflitto della comunità cristiana con Giancarlo BRUNI, servo di santa Maria e fratello della comunità di Bose Il rapporto cultura-vangelo, è un tema che Paolo interpreta in maniera tutt’altro che apologetica e manichea: di qua la Chiesa fedele all’annuncio, di là il mondo infedele all’annuncio… La chiesa di Dio che è in Corinto è la fotografia del rapporto conflittuale sempre attuale, in cui è in gioco la verità della relazione con Dio, con l’altro, con il proprio corpo e con la propria morte. Una fotografia che ci riguarda da vicino. lunedì 5 ore 18,30 introduzione alle giornate – liturgia eucaristica martedì 6, mercoledì 7 e giovedì 8 ore 9,00 preghiera di lodi e 1a meditazione 11.30 liturgia eucaristica 16,00 2a meditazione 19,15 canto dei vespri venerdì 9 ore 9,00 12,00 meditazione liturgia eucaristica 64° corso internazionale di Studi cristiani 20-25 agosto senza i sandali dell’identità ? “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero…” (Gal 3, 28-29) alcune tematiche: paradossi e contraddizioni dell’identità - se l’identità cammina con la storia-nelle derive integraliste… vivere la laicità - culture e religioni: il meticciato, una sfida ineludibile? - crescere con le differenze - l’identità feriale - le identità negate interpellano la politica - a piedi nudi…consegnarsi all’uomo, consegnarsi a Dio hanno già assicurato la loro partecipazione: Corrado AUGIAS, giornalista Rai-TV, scrittore; Nacera BENALI, giornalista algerina; Eugenio BORGNA, psichiatra; Enzo BIANCHI, priore della comunità ecumenica di Bose; Roberto CARUSI, regista teatrale; Tonio DELL’OLIO, di Libera International; Rosino GIBELLINI, teologo; Sergio GIVONE, filosofo; Kossi KOMLAEBRI, scrittore migrante; Raniero LA VALLE, giornalista; Giannino PIANA, teologo morale; Renzo SALVI, capoprogetto Rai Educational, Lilia SEBASTIANI, teologa; Rosanna VIRGILI, biblista videointervista a Raim o- n PANIKKAR, scrittore, interprete dialogo interculturale informazioni - iscrizioni: Cittadella Cristiana - sezione Convegni - via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG – internet: www.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected] Raniero La Valle opo aver promesso agli italiani il paradiso (fiscale) e un futuro di grandi opere, la Casa delle Libertà, sconfitta dal voto, vuole ora che nessuna opera si compia e minaccia un inferno per tutta la legislatura (che per questo vorrebbe brevissima). L’idea di Berlusconi è che «la sinistra», la quale neanche dovrebbe esistere, attraverso l’espediente delle elezioni gli ha usurpato il potere del Paese, e dunque che bisogna impedirle di esercitarlo, in attesa che esso torni nelle sue mani. Quanto alla macchina delle istituzioni, che nello Stato moderno dovrebbe continuare a funzionare pur nell’alternarsi delle fortune politiche, essa può essere fatta a pezzi per essere poi restaurata quando il sovrano deposto avrà riconquistato il potere. Al Senato si doveva impedire di eleggere il suo Presidente, o se ne dovevano procrastinare il più possibile i tempi, in modo da interdire al Presidente della Repubblica di dare l’incarico al nuovo Premier. Ciò è stato definito da Cossiga in aula, come uno «staticidio», che sarebbe la distruzione dello Stato. Mancato questo obiettivo, Berlusconi ha posto nuovi ostacoli all’ascesa di Prodi a Palazzo Chigi, e in ogni caso ha cercato di neutralizzarla pretendendo l’elezione al Quirinale di Gianni Letta o di un altro dignitario della sua corte; se questo non avverrà, ha minacciato una «opposizione dura, assoluta e totale in tutte le situazioni»: «non solo nelle aule ma globale», il che sembra voler dire a furor di popolo. Qualche giorno prima, da una riunione con i suoi alleati, in cui si era giurata guerra all’ipotesi di D’Alema Capo dello Stato, era venuta fuori l’istigazione a tirare bulloni per le strade. Berlusconi ha l’arte della comunicazione e parla in modo immaginifico; ma anche quelli che parlano in modo più piatto, e sono detti moderati, enunciano la stessa cultura. Nel solito salotto di «Porta a porta», mentre era ancora Presidente della Camera, Casini, annunciando ai suoi avversari una opposizione intransigente e «senza sconti», ha affermato che, proprio per fedeltà ai suoi elettori, è dovere assoluto della minoranza parlamentare cercare in ogni momento di far cadere il governo. Ciò era detto come un «a priori», come una teoria, a prescindere da come fosse od operasse il governo, tanto è vero che il governo da far cadere non era D ancora nemmeno costituito. Si potrebbe osservare che la nuova Costituzione voluta dalla destra e che Casini ha portato alla doppia approvazione a Montecitorio, renderebbe impossibile questa ipotesi. Essa infatti, facendo del Primo Ministro il padrone assoluto della Camera fino al punto di poterla sciogliere se non gli vota la fiducia, escluderebbe per sempre che l’opposizione possa far cadere il governo. Ma a parte questa incoerenza, c’è da dire che dovere e compito dell’opposizione non è in via di principio quello di abbattere il governo; è quello di controllarlo, vigilarlo, redarguirlo, stimolarlo e se del caso anche farlo cadere, ma non è affatto quello di impedire in ogni caso al governo di governare. Questa è una concezione patologica della democrazia che la assimila alla figura della guerra tra nemici e nega alla radice l’unità nazionale. Per ristabilire una normalità democratica, ci vorrebbe ora una tregua istituzionale, che non vuol dire affatto una «grande coalizione», ma che ciascuna parte consenta all’altra di adempiere al suo ruolo. Con una destra tutta in mano a Berlusconi questo non è possibile. Essa ha perduto la sua autonomia e viene schiacciata su una linea di sovversivismo dall’alto che può non essere la sua. Ci fu un’altra occasione in cui all’Italia servì una tregua tra le parti, e fu quando nell’aprile 1946 a Bari i partiti antifascisti stabilirono una tregua istituzionale con la Corona, in vista dell’obiettivo prioritario della liberazione del Paese e dell’instaurazione della democrazia. Ma quella tregua fu possibile perché il re Vittorio Emanuele III, che rappresentava il massimo segno di contraddizione, accettò di farsi da parte impegnandosi «irrevocabilmente» a ritirarsi a vita privata al momento della liberazione di Roma. Ciò aprì la strada alla partecipazione dei partiti al governo Badoglio e poi al referendum istituzionale e alla Costituente. Le circostanze sono oggi molto diverse e per fortuna meno drammatiche, ma anche adesso l’ostacolo all’inizio di una nuova fase e al ripristino di una normale vita istituzionale è costituito da un uomo nel quale hanno finito per concentrarsi ed esasperarsi tutte le contraddizioni e i pericoli della Repubblica. Riconoscere che il proprio ciclo è venuto alla fine è quanto Berlusconi ancora potrebbe fare per il Paese, e per la stessa destra che egli ha sdoganato e portato al potere. ❑ 13 ROCCA 15 MAGGIO 2006 cittadella convegni RESISTENZA E PACE repressione prima democrazia poi P OCCA 15 MAGGIO 2006 Maurizio Salvi er quanti sforzi faccia, il vecchio Rais Hosni Mubarak non riesce proprio a portare l’Egitto fuori dalle acque rese turbolente dal terrorismo, come hanno dimostrato ancora una volta gli attentati suicidi che il 24 aprile hanno causato nella sperduta località di Dahab, sulle rive del Mar Rosso nel Sinai, 18 morti. Questo brutale attacco era stato preceduto di una decina di giorni da preoccupanti scontri di matrice religiosa fra aderenti alla chiesa Copta e musulmani ad Alessandria con tanto di assalti a chiese; e seguito a solo 48 ore di distanza da altre operazioni suicide nel nord del Sinai, senza per fortuna vittime fatali. Così Mubarak, che aveva pensato di festeggiare l’1 maggio unicamente con l’annuncio dei progressi economici raggiunti dall’Egitto grazie alla sua gestione, ha dovuto far seguire alle statistiche accuratamente scelte un duro monito sull’ordine pubblico, accompagnato da una nuova proroga dello stato di emergenza in vigore dal 1981, anno dell’assassinio di Anwar el Sadat. Nel discorso alla nazione già preparato, il capo dello stato sosteneva che finalmente il paese sta cogliendo i frutti della politica economica elaborata dal governo, con un attivo, per la prima volta nella storia, della bilancia commerciale, aumento delle riserve in valuta della Banca centrale e una lodevole stabilità dei prezzi delle azioni quotate in Borsa. Il tutto riassunto da una significativa crescita del 6,1% del Prodotto interno lordo (Pil) nel secondo quadrimestre dell’anno fiscale 2005-2006. un duro avvertimento Ma la strage di Dahab lo ha costretto a correggere il copione in corsa, e ciò ha rapidamente trasformata la celebrazione in un atto politico in cui il 77/enne presidente al potere da 25 anni ha formulato un duro avvertimento ad un purtroppo ancora troppo vago responsabile degli atti terroristici che hanno nuova- mente colpito l’Egitto. Vale la pena esaminare vari passaggi di quel testo, perché in essi vi è la conferma della mancanza di un riferimento concreto, di un vero e proprio identikit del nemico da battere: «Vinceremo la battaglia contro il terrorismo, lo isoleremo, sradicheremo le sue radici e faremo seccare le sue fonti», ha assicurato al riguardo, aggiungendo subito dopo: «Reagiremo all’integralismo con la forza e la fermezza della legge», anche se «siamo colpiti da un terrorismo cieco dai cui pericoli nessuno è immune». «Siamo presi di mira da forze del fanatismo, dell’estremismo e dell’integralismo – ha insistito – che tentano di danneggiare l’unità del popolo d’Egitto e che diffonde tra i nostri giovani idee estranee che attizzano il fuoco della sedizione tra copti e musulmani allo scopo di danneggiare la stabilità del nostro paese». Tale stabilità, ha concluso, «è un obiettivo comune per tutti noi e costituisce una linea rossa che non permetterò che sia superata». 15 ROCCA 15 MAGGIO 2006 EGITTO pesante mano sull’opposizione ROCCA 15 MAGGIO 2006 Ma non è purtroppo tutto. Di fronte a questo risultato, il Segretario di Stato Condoleezza Rice ha diplomaticamente detto che la trasformazione di un sistema unipartitico in una democrazia è in effetti «un processo che richiede tempo». E anche silenzio, se si pensa che ben poco è stato ufficialmente detto a Washington sulla repressione sviluppatasi in Egitto dopo il voto nei confronti di coloro che avevano tentato di sbarrare la strada al Pnd. Il settimanale Newsweek (8 maggio 2006) si è così incaricato di ricordare che Ayman Nour, il giovane leader fondatore del partito al-Ghad (Domani) che nelle presidenziali ottenne il secondo posto 16 con il 7% dei consensi, è stato arrestato e sbattuto in carcere in dicembre con l’accusa di aver falsificato le firme per registrare il suo gruppo politico. Un tribunale lo ha rapidamente condannato a cinque anni di prigione in primo grado. La mano del Ministero dell’Interno egiziano non è stata più leggera con l’opposizione parlamentare. I Fratelli Musulmani, fra mille difficoltà, sono riusciti a raccogliere 88 seggi in Parlamento avviando subito una serie di minuziose denunce riguardanti ad esempio il tentativo del governo di coprire i casi di aviaria registrati nel paese e le responsabilità dell’armatore del traghetto affondato nel Mar Rosso. Forse anche per questo decine di militanti dei movimento sono stati arrestati. Ma i vertici hanno mantenuto il sangue freddo ed hanno continuato per la loro strada prendendo le distanze dalle dichiarazioni del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad sull’Olocausto, e sentenziato a sorpresa, attraverso un autorevole membro della direzione del partito (Abdel Monem Abul Fotouh) che ha spiazzato molti, che «l’essenza della Sharia (Legge islamica, da gruppi musulmani utilizzata per giustificare gli attentati) è la lotta alla corruzione e l’impegno per l’introduzione della giustizia sociale». E così, mentre Mubarak non sembra avere altri progetti in programma che l’introduzione di uno stato di polizia per sconfiggere il terrorismo, l’ong umanitaria Human Rights Watch denuncia la presenza nelle carceri egiziane di migliaia di oppositori senza processo (fino a 15.000 secondo altre organizzazioni), e George Ishaq, coordinatore del movimento Kifaya (Basta), che ha organizzato decine di manifestazioni di piazza contro il governo, commenta amaramente che dopo la vittoria di Hamas in Palestina e la crescita dei Fratelli Musulmani in Egitto, «gli Usa preferiscono la stabilità alla democrazia», contribuendo anche loro a ritardare le riforme reclamate dalla società civile. Qualcuno va anche più in là, ipotizzando che il Ministero dell’Interno abbia consacrato molte risorse finanziarie alla repressione degli attivisti dell’opposizione legale, abbassando la guardia nei confronti di presunti terroristi che si sarebbero ora rintanati nel Sinai. Maurizio Salvi OLTRE LA CRONACA che ci stiamo a fare? Romolo Menighetti he ci stanno a fare i nostri soldati in Iraq? La domanda si impone dopo che altri tre dei nostri, assieme ad un rumeno, sono stati uccisi a Nassiriya. Si risponde: sono in missione di pace. Però questo abbarbicarsi dei nostri politici e comandi militari attorno alla finzione mentale della pace mentre in realtà c’è guerra guerreggiata, ci sta costando caro. Infatti, il nostro contingente solo in parte, e tardivamente, è stato dotato degli armamenti adeguati alla situazione (carri armati, elicotteri «Mangusta»). In tal modo lo si è reso, e in parte lo è ancora, pericolosamente vulnerabile. Molti morti sono dunque da addebitarsi all’ipocrisia di chi si è ostinato e si ostina, per aggirare l’articolo 11 della Costituzione che ci vieta i conflitti d’offesa, a considerare di pace una missione di guerra. Ma riproponiamoci la domanda iniziale collocandoci ad un più alto livello di considerazioni. Noi siamo andati in Iraq al seguito della decisione unilaterale degli Stati Uniti di Bush di invadere quel paese (cui solo successivamente l’Onu si accodò). Perciò, indipendentemente dalle buone intenzioni e dalla generosità dei nostri militari sul campo, la scelta è stata politica, di sudditanza verso un alleato potente, per offrirgli l’opportunità di poter dire di fronte alla comunità mondiale di non essere solo in questa dissennata impresa. Naturalmente da parte del governo Berlusconi c’era anche la speranza di avere una qualche parte nella spartizione dei benefici connessi alla ricostruzione, più il ritorno di qualche successo di immagine (week-end nel ranch texano, qualche presidenziale pacca sulle spalle, un discorso al Congresso Usa). Dunque una scelta di convenienza politica ed economica, scelta che però non pare abbia reso granché. Secondo dati di qualche tempo fa del Center for Public Integrity (un gruppo con base a Washington che valuta l’eticità dei comportamenti dell’amministrazione statunitense) i principali beneficiari della ricostruzione in Iraq e in Afghanistan sarebbero una settantina di aziende che hanno donato più di mezzo milione di dollari per la campagna elettorale di Bush. Circa un C nostro maggior prestigio e peso a livello internazionale, l’ex premier ha rimediato, poi, solo qualche riconoscimento di circostanza. Nessun appoggio all’Italia per il seggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, nessun nostro coinvolgimento quando i «grandi» si riuniscono per prendere le decisioni che contano. Ritorna perciò la domanda: che ci stiamo a fare? Tanto più che ormai anche da parte statunitense e britannica è stato dimostrato quanto fosse falso il presupposto che offrì l’alibi per l’aggressione (gli arsenali chimici ed atomici di Saddam). Tanto più che non regge la giustificazione della liberazione del popolo iracheno da un tiranno sanguinario, dal momento che quello stesso tiranno venne dagli Stati Uniti qualche anno prima fornito d’armi quando faceva comodo combattesse contro gli iraniani. Ancora, tanto più se si considera che Bush preparò l’operazione irachena fin dal gennaio 2001, cioè appena dopo il suo insediamento alla Casa Bianca. Il neo presidente si basò su un documento del settembre 2000 (Ricostruire le difese americane), elaborato dal suo futuro vicepresidente Dick Cheney e dal suo futuro ministro della difesa Donald Rumsfeld, assieme ad altri che avrebbero di lì a poco occupato altri importanti posti nella sua amministrazione (J. Bolsche, Der Spiegel, riportato da Internazionale del 21 marzo 2003). Il progetto prevede il dominio statunitense sulla cosiddetta heartland, le aree mediorientali più ricche di petrolio, in previsione del proprio fabbisogno futuro, considerando da un lato il lento esaurirsi delle riserve mondiali, e dall’altro la crescente domanda di «oro nero» di nazioni emergenti quali India e Cina. Che ci stiamo allora a fare in Iraq, considerando anche che i nostri soldati non possono dare un grande aiuto alla popolazione civile, essendo costretti, per motivi di sicurezza, a restare confinati nelle caserme fortificate, e potendone uscire solo entro blindati con le mitragliatrici spianate? Una risposta accettabile può venir fuori solo se ci poniamo quest’altra domanda: cosa possono fare l’Italia e l’Europa per il bene della popolazione irachena, al di là e al di fuori degli interessi statunitensi? ❑ 17 ROCCA 15 MAGGIO 2006 EGITTO E in attesa di saperne di più, le forze di sicurezza hanno continuato le retate, cominciate dopo gli attentati di Taba (2004) e Sharm el-Sheik (2005), di beduini nel Sinai appartenenti a sconosciutissimi movimenti e comunque considerati responsabili degli attentati, mentre il governo ha proposto, ed il Parlamento rapidamente approvato, una nuova proroga di due anni dello stato di emergenza. A quanto pare Mubarak ha preso a malincuore questa decisione, perché aveva allo studio da tempo l’invio al potere legislativo di una articolata Legge antiterrorismo, nello stile di quelle apprezzate alla Casa Bianca. Su questa strada non è un mistero che lo aveva spinto lo stesso presidente George W. Bush, il quale finanzia a diverso titolo le casse dell’Erario egiziano con 1,8 miliardi di dollari l’anno, lo sforzo più importante fatto dagli Stati Uniti nel mondo, dopo quello sostenuto nei confronti di Israele. In cambio di questa ingente somma Mubarak si è effettivamente impegnato a sostenere i desiderata statunitensi nel senso soprattutto di provare l’introduzione di un sistema democratico articolato nell’architettura istituzionale egiziana. È questo sforzo che ha prodotto le elezioni presidenziali e legislative dello scorso settembre, le prime multipartitiche nella storia del paese. Il risultato di quell’apparente esercizio di democrazia è stata una rielezione dello stesso Rais con l’84% (e non con il tradizionale 99%) dei voti del passato, e dell’ottenimento da parte del Partito nazionale democratico (Pnd) di 324 seggi, quando nel 2000 ne aveva ottenuti 353. LA BIBBIA CIVILE Costituzione casa comune 18 L Non soltanto un testo, oggetto di studio nell’ambito del diritto costituzionale: una vita, una storia. Un punto di riferimento a cui ricorrere soprattutto nei momenti difficili, come l’attuale... Un po’, appunto, come una Bibbia. Anche se tutto il resto vacilla o sembra vacillare. al di là e al di sopra delle parti Nei confronti della Costituzione-Bibbia svaniscono tutte le divisioni. Anche quella fra destra e sinistra che spesso sembra dominare, e non senza ragione, tutta la vita democratica di tutti i paesi. Non la si nega, ma la si riporta nel grande alveo – biblico – della Costituzione e quindi della democrazia. È qui che tutte le posizioni, tutte le destre e le sinistre, devono trovare casa. Una casa con porte e finestre. Anche la Costituzione, come la Bibbia, può e deve essere interpretata. La cultura moderna lo ha detto e ripetuto, da Nietzsche a Wittgenstein: non esiste conoscenza che non sia interpretazione. Perciò è legittimo, doveroso discutere. Perciò l’importanza di tutti gli organi e le istituzioni destinati a discutere, come la Bibbia, anche la Costituzione. Un testo che è aperto a tutti, una cattedra che è anche una piazza. No al relativismo, ma anche no al dogmatismo di una qualche dittatura che vorrebbe imporre la sua interpretazione. Ne abbiamo potuto constatare il pericolo anche nei giorni caldi che abbiamo attraversati da poco. Un faticoso lavorio, dunque, di attenzione, di ascolto, di insegnamento e anche di replica. Proprio quello che ha fatto il Presidente Ciampi in questi anni. Proprio quello che gli viene chiesto, con drammatica urgenza, in questi ultimi giorni di un settennato che ha avuto momenti drammatici, come quelli legati alla nostra partecipazione alla guerra in Irak o agli scandali bancari. In questo momento non sappiamo se a Ciampi sarà richiesta una nuova investitura e se il Presidente uscente la accetterà. Sappiamo che chiunque salirà il fatidico Colle dovrà avere la Costituzione come base del sentire e dell’operare. Non un testo qualsiasi né una storia qualsiasi da ricordare. Anche a distanza di più di mezzo secolo, l’Italia è e deve rimanere fondata sui valori di allora, che non tramontano. «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro… La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo…». Oggi, come il 22 dicembre 1947. ROCCA 15 MAGGIO 2006 ROCCA 15 MAGGIO 2006 Filippo Gentiloni a Costituzione è la mia Bibbia civile ha detto il Presidente Ciampi, proprio nei recenti giorni caldi delle elezioni e delle contestazioni che le hanno seguite. Tutto è stato discusso, detto e contraddetto, perfino i nomi della anagrafe, Franco o Francesco. Ma la Costituzione non si discute, ha detto – gridato – Ciampi. E ha fatto riferimento al testo per eccellenza, il testo che – unico – attraversa i nostri secoli e le nostre culture. Un riferimento significativo anche perché carico di significati «civili», come, appunto, ha voluto sottolineare il Presidente. Basti pensare a quello che ha significato la Costituzione per il nostro paese, dal dopo guerra a oggi. La fine del fascismo, la Resistenza, la conquista della libertà. Il valore del lavoro. Filippo Gentiloni 19 ECONOMIA Prodi, l’Italia e l’Europa 20 I naccia di crisi finanziaria. Con l’incubo del «default», come si dice tecnicamente, paragonando un’intera nazione a un’azienda che può andare in fallimento. Proprio perché ricorda tanti scenari del passato, quello attuale può apparire un deja vu e quasi non fare più notizia: al punto che stavolta non pare trovare molti fans l’appello a una nuova unità nazionale (o a una grande alleanza, o un governissimo) sulla base dell’emergenza economica. Dal canto loro, i principali esperti del centrosinistra, i candidati a ruoli-chiave nella gestione della finanza pubblica, chiedono un po’ di tempo: prima dobbiamo vedere cosa davvero ci ha lasciato in eredità il governo di Berlusconi, dicono. Confortati dal fatto che lo stesso giudizio del Fondo monetario accenna alle oscurità dei conti italiani e alle cifre ancora non tanto chiare. Se, in presenza delle cifre ufficiali, il deficit pubblico per quest’anno viene sti- mato intorno al 3,8-4% del Pil, non si escludono sorprese: potrebbe salire. Oltre ai misteri svelati di Tremonti, a far salire il deficit per quest’anno e più ancora per i prossimi potrebbe essere anche l’aumento dei tassi di interesse che la Banca centrale europea sta intraprendendo: se aumentano i tassi, aumentano anche per lo stato, le regioni e i comuni le spese sugli interessi del debito pubblico. Il che vuol dire che gran parte delle risorse e delle energie a disposizione potrebbero essere convogliate a tenere a bada il deficit: magari non proprio verso il 3%, ormai dimenticato non solo da noi ma anche da altri paesi europei, ma almeno sotto il 4. Uno scenario molto negativo, per un governo che si è presentato agli elettori impegnandosi a una robusta riduzione del peso di tasse e contributi sul lavoro, nonché a una serie di politiche sociali e per la ricerca che richiederebbero forti investi- menti pubblici. Se il primo governo Prodi si caratterizzò per una politica di rigore finanziario e per l’eurotassa – riuscendo a centrare l’obiettivo dell’entrata nell’euro, ma perdendone di vista altri –, il secondo si caratterizzerebbe di nuovo per «lacrime e sangue». i benefici dell’euro Nel mezzo, c’è stato il beneficio del dividendo dell’euro, ossia la riduzione generalizzata del costo del denaro che ha portato enorme sollievo alle casse pubbliche (permettendo anche di restituire l’eurotassa). Ma come è stato speso questo dividendo? Sul piano della finanza pubblica, si è passati da un avanzo primario – ossia da una situazione in cui le spese erano inferiori alle entrate, al netto degli interessi – al disavanzo già citato. Nell’economia privata, il minor costo del denaro ha accompagna- ROCCA 15 MAGGIO 2006 ROCCA 15 MAGGIO 2006 Roberta Carlini l Fondo monetario chiede una manovra economica prima dell’estate, le tre principali agenzie internazionali di rating hanno messo sotto osservazione il debito dell’Italia riservandosi di cambiare il voto in pagella se non verranno introdotti prontamente dei correttivi, la Commissione europea ha rinviato a settembre per gli esami di riparazione la politica economica italiana, il Financial Times prevede addirittura l’uscita dell’Italia dall’euro. Nel lunghissimo interregno che lo separa dall’insediamento del nuovo governo, certo la preoccupazione più pesante di Prodi è l’economia. Oggi come nel ’96 – quando dagli stessi ambienti internazionali era uscito un verdetto terribile: l’Italia non entrerà mai nell’euro –, e come nel ’93–94, quando il paese travolto da Tangentopoli e dalla fine della Prima repubblica si trovava continuamente alle prese con la mi- 21 alternative per ridurre il deficit ROCCA 15 MAGGIO 2006 Ma è anche vero che ogni politica profonda di riforme ha bisogno di tempo. Ad esempio, la lotta all’evasione fiscale, presente in tutti i dibattiti elettorali, è effettivamente possibile: facendo introiettare ai contribuenti il fatto che l’epoca dei condoni è finita, e rimettendo a posto la macchina dell’amministrazione fiscale, con i suoi accertamenti, ispezioni, controlli, si può riuscire a recuperare almeno una parte delle imposte evase. Ma certo non in pochi mesi: è una politica di legislatura, che può dare i suoi frutti in qualche anno. Così come può dare i suoi frutti in qualche anno una revisione della tassazione sulle rendite, quelle che vengono dai capitali finan22 ziari e quelle che vengono dalle case. Soprattutto per il caso degli immobili, il sistema delle rendite catastali negli anni ha stratificato ingiustizie e sottovalutazioni: ma per allinearle ai valori reali del mercato, abbassando contemporaneamente le aliquote e differenziando tra piccoli e grandi proprietari, serve una riforma quasi epocale. Ottimisticamente, si può pensare di farcela in una legislatura, ma non prima. Nel frattempo, i problemi si affollano e spingono, chiedendo soluzioni nell’arco di settimane e non di anni. Non parliamo solo delle compatibilità della finanza pubblica, prima citate. Ma anche dei conti della sanità delle regioni, della sottoccupazione dei giovani che ha diviso in due il mercato del lavoro – chi era dentro prima dell’era della precarietà, e chi ha iniziato a lavorare dopo –, delle emergenze sociali che i comuni affrontano ogni giorno. E delle imprese che chiudono, per andare all’estero o per non andare da nessuna parte. Il primo governo Prodi si lanciò con determinazione e successo in una «fase 1» del risanamento, considerato condicio sine qua non per entrare nell’euro. Ma la «fase 2», quella dello sviluppo, non arrivò. Oggi, tutti ammettono che la politica dei due tempi non è più praticabile, che la fase del risanamento e quella dello sviluppo devono marciare insieme. partire dalle riforme Ma anche questo doppio passo sembra alquanto difficile. Un modo per cominciare a provarlo è quello di partire da riforme che possono dare aspettative e fiducia, annunciando un mercato del lavoro meno selvaggio, eliminando le forme di precariato, mettendo al primo posto la scuola e l’università. Ma in pochi casi lo si può fare a costo zero. Allora, se proprio di «due tempi» si deve parlare, forse stavolta la logica economica e la strategia politica potrebbero convenire sul fatto di invertire i tempi: prima le politiche per lo sviluppo e la sicurezza sociale, con l’avvio di quelle riforme sulle entrate che porteranno poi il riequilibrio del deficit. Con il peso che ha un ex presidente di Commissione – e l’aiuto di altri governi che non sono in situazioni di finanza pubblica tanto diverse dalla nostra – Prodi potrebbe concordare con Bruxelles un programma di media scadenza: prima rimettere in piedi il malato, poi fargli fare la dieta. Forse altri paesi europei ci seguirebbero. terrorismo PAROLE CHIAVE Romolo Menighetti l concetto di terrorismo è ampio, fluido e controverso, tant’è che l’Onu non è mai riuscito a trovare una definizione accettabile da tutti. Il minimo comune denominatore può essere individuato nel fatto che uomini armati aggrediscono deliberatamente uomini disarmati e inermi. Deliberatamente, nel senso che si uccidono i civili in quanto civili, in quanto persone indeterminate, al fine di spargere terrore generalizzato. Il terrorismo può essere anche in uniforme (Napoleone e la guerriglia spagnola e russa, Hitler e l’occupazione in Europa, i bombardamenti di Guernica e Coventry, i bombardamenti a tappeto degli Alleati nella Seconda guerra mondiale, le deportazioni di intere popolazioni compiute da Stalin). Il terrorismo è qualcosa in più della semplice violenza. Questa, infatti, presuppone solo due parti: aggressore e vittima, mentre il terrorismo presuppone una terza parte che si vuole intimidire mostrando quel che accade alla vittima. Gli atti terroristici più clamorosi (Due Torri, Atocha) vengono spesso configurati come atti di guerra. Così facendo però si legittima il ragionamento inverso, cioè che gli atti di guerra possono essere atti di terrorismo. E infatti, come altrimenti potrebbe essere definito un bombardamento da diecimila metri di altezza su quartieri cittadini? Terrorismo e guerra sono dunque realtà a volte sovrapponibili. Il terrorismo è un metodo per governare e per espandere il potere basandosi sul terrore. Analogamente la guerra (salvo evidenti e chiari casi di difesa) è un modo adottato dai moderni imperi per ampliarsi o per consolidare la propria influenza nelle provincie più irrequiete. Anche tra terrorismo e resistenza il confine è fluido. Il terrorista per alcuni è un combattente per la libertà, mentre secondo altri è un assassino. Tale fluidità deriva dal fatto che il terrorismo è prima di tutto un concetto politico e metagiuridico, e perciò influenzato da fattori storici, culturali ed ideologici. Quasi sempre, inoltre, la differenza tra terrorista ed eroe sta nell’esito finale delle azioni intraprese. Si può comunque dire che i resistenti, a differenza dei terroristi, non hanno come obiettivo intenzionale l’uccisione dei civili, ma solo dei soldati armati. I Storicamente il termine terrorismo appare durante la Rivoluzione francese, quando l’ala più radicale del partito giacobino scatenò contro gli oppositori una forte repressione, il «terrore», inteso come arma in sé. Ma già prima della Rivoluzione non mancavano esempi di un analogo uso della paura (la setta ebraica degli zeloti, gli hashashiin di cui parla Marco Polo, Gengis Khan, Ivan il Terribile e altri). In età moderna il terrore evolve, da mezzo di controllo e dominio di un potere statale, in metodo di lotta contro lo Stato (terroristi russi contro lo Zar; anarchici; nazionalisti radicali irlandesi, macedoni, serbi, armeni). Attualmente il terrorismo che di gran lunga occupa le cronache è quello cosiddetto islamico radicale. Non tutti questi gruppi però sono mossi da motivazioni religiose: il «Fronte popolare per la liberazione della Palestina» e le «Brigate dei martiri di Alaqsa», ad esempio, sono di matrice laica e di sinistra. Ma qual è la novità del terrorismo contemporaneo, quello praticato dai kamikaze che muoiono dando la morte? È la forte carica di nichilismo che esso esprime. È l’idea di distruggere per distruggere, è l’arrogarsi il diritto di uccidere chiunque. Si tratta di un relativismo, non in rapporto al «bene» ma al «male», che afferma non esistere. E allora, se il male non esiste, perché trattenersi dal compiere ciò che è considerato male? Tale cancellazione del male sta coinvolgendo un po’ tutti, anche chi terrorista non è, ma accetta quel che accade – le stragi dei civili, le uccisioni dei bambini – come fossero fatti di cronaca appena un po’ più clamorosi del normale. Il terrorismo nichilista contemporaneo è il bambino di Nietzsche, è l’adulto che si comporta come un bambino, che crede cioè di poter fare qualunque cosa, di andare «al di là del bene e del male», della vita e della morte. L’estrema pericolosità del terrorismo di oggi sta nel fatto che esso somma lo spirito di annientamento, con la possibilità tecnologica di dare la morte assoluta. Insomma, Auschwitz più Hiroshima. Però è suicida pensare di poter combattere il terrorismo con azioni anch’esse configurabili come terrorismo. Roberta Carlini 23 ROCCA 15 MAGGIO 2006 ECONOMIA to la fase più recessiva che conosciamo da anni: contraddicendo molti testi di economia e molte speranze degli economisti, la riduzione del costo del denaro non ha spinto le imprese a indebitarsi di più per investire. L’unico evidente risultato del basso costo del denaro è stato il boom immobiliare, ossia la corsa delle famiglie a indebitarsi per comprare case, sia per abitazione che per investimento. Insomma: non si è visto un uso «produttivo» del dividendo dell’euro, né nell’economia pubblica né in quella privata. I benefici dell’euro, obiettivo così sudato e faticosamente raggiunto, sono stati poi dilapidati in pochi anni. Adesso, mentre la fase «buona» dell’euro – quella della politica monetaria espansiva, dei tassi bassi – si avvia a chiudere, restano in piedi tutti gli altri aspetti della costituzione economica che ci siamo dati con l’unificazione europea: i vincoli ai bilanci pubblici, le limitazioni all’ingresso dello stato nel capitale delle imprese (e ai loro salvataggi sotto altra forma), la deregulation. Insomma, tra vincoli esterni – che forzano la politica economica a occuparsi quasi esclusivamente della riduzione del deficit – e urgenze interne – il quadro politico, con una maggioranza assai labile, e quello economico, con un paese che è in reale recessione –, il sentiero della politica economica del governo Prodi II è strettissimo. Le risorse pubbliche sono poche, ma dove spenderle? Nella riduzione di 5 punti del «cuneo fiscale» (che dovrebbe andare nell’immediato nelle tasche dei lavoratori dipendenti e delle imprese, così come promesso in campagna elettorale) o nella riduzione del deficit, per la rassicurazione di Standard & Poor’s? È vero che le alternative a disposizione possono essere anche altre, più fantasiose e meno drastiche. BIOETICA abbattere gli steccati L un modello duttile di etica ROCCA 15 MAGGIO 2006 Ma, al di là del tono e dello stile, già di per sé eloquenti, merita di essere anzitutto delineato il modello di etica al quale il Card. Martini si riferisce e che viene coerentemente applicato ai vari temi trattati. L’attenzione alla complessità delle situazioni umane, nelle quali si danno spesso conflitti di valori (e di doveri) e l’esistenza di zone grigie (o di fron24 l’incontro possibile tra scienza e etica cristiana in un dialogo rispettoso e responsabile tra il card. Carlo Maria Martini e lo scienziato bioeticista Ignazio Marino di fattori di diversa natura che rinviano al limite e alla precarietà della condizione umana; in una parola, alla sua creaturalità. La rigidità di alcune posizioni (anche del mondo ecclesiastico) è espressione – sembra dire il Card. Martini – del misconoscimento di questa verità, dell’incapacità di fare i conti non solo con la fragilità umana ma, più radicalmente, con il mistero del male e del peccato, che incombe sull’esistenza dell’umanità e del mondo. tiera), in cui è difficile assumere posizioni nette, oltre a richiedere l’assunzione di un’attitudine prudenziale, rende trasparente il carattere essenzialmente problematico della riflessione morale ed esige, di conseguenza, che si proceda con grande equilibrio nella formulazione dei giudizi. L’etica alla quale si fa qui ricorso è dunque un’etica che non rinuncia ad assumere come punti di riferimento imprescindibili i principi (o i valori), ma che non esita, nello stesso tempo, a confrontarsi con le situazioni concrete alla ricerca del «bene possibile» e, qualche volta, anche soltanto del «male minore». È un’etica impegnata a valutare, di volta in volta, le conseguenze positive e negative delle azioni, i benefici e i rischi ad esse inerenti, non eludendo lo sforzo della mediazione, cioè del confronto e della compromissione con la realtà. È un’etica, infine, che ha le sue radici in quel senso morale che ciascuno ha dentro di sé (è qui chiaramente affermata la sua laicità), e che riceve tuttavia dalla fede un importante sostegno per la sua crescita. Si tratta – come è facile intuire – di un modello duttile, rigoroso nella formulazione dei principi e tuttavia flessibile quando si procede alla loro applicazione, per la presenza Entro questa cornice teorica vanno inserite le indicazioni che il Card. Martini fornisce a proposito di alcune questioni scottanti dell’etica della vita: da quelle più tradizionali, come la contraccezione e l’aborto, a quelle nuove legate all’enorme progresso tecnologico che si è sviluppato in campo biomedico in questi ultimi decenni – a questo ambito appartengono questioni come la fecondazione medicalmente assistita e la ricerca sulle cellule staminali embrionali – fino a quelle, in parte antiche e in parte nuove, relative alla fase terminale della vita. Grande interesse ha anzitutto suscitato (anche per il rilievo che ne hanno dato i media,) l’affermazione della possibilità del ricorso al preservativo, come male minore, nel caso dell’Aids. La situazione alla quale ci si riferisce è particolarmente drammatica, ma è evidente che ad essere apertamente contraddetta è l’assolutezza con cui nell’Humanae vitae (e ancor più nell’interpretazione che di essa ha dato Giovanni Paolo II: si veda la Familiaris consortio) viene condannata ogni forma di contraccezione, in quanto «intrinsecamente cattiva», negando, di conseguenza, ogni possibilità di ricorso ad essa, fosse pure per ragioni di estrema gravità. L’am- contraccezione e aborto missione che è possibile fare eccezione alla norma, sia pure in un caso ben definito – caso a proposito del quale l’eccezione è stata peraltro apertamente sconfessata in molti interventi ufficiali – mette chiaramente in discussione il modello etico che ispira la posizione ufficiale della chiesa e apre, di conseguenza, la strada alla applicazione di tale criterio anche ad altre situazioni. Più complessa è la riflessione sul tema dell’aborto. Importante è anzitutto l’ammissione da parte del Card. Martini che la necessità di tutelare la vita umana non può andare disgiunta dalla consapevolezza che si danno (e non sono poche) situazioni complesse, nelle quali, anziché limitarsi a ribadire astrattamente il valore, è necessario interrogarsi su ciò che meglio consente di promuoverlo, senza dimenticare peraltro – come viene precisato – che la prosecuzione della vita fisica non è il principio primo ed assoluto, in quanto al di sopra di esso occorre collocare la dignità umana, che ha per il credente la sua piena verità nella vita eterna e che riveste tuttavia, anche nel quadro di una visione laica, un alto significato. Ma a risultare nuova (e coraggiosa) nell’intervista, accanto al riconoscimento della necessità dell’intervento dello Stato nei confronti del fenomeno abortivo per impedire che si affermino situazioni selvagge ed arbitrarie con serio pericolo per la salute (e persino per la vita) della donna, è soprattutto l’affermazione che tale intervento non può dimenticare la distinzione tra atti punibili penalmente e atti che non è conveniente perseguire sul piano penale. Di qui l’insistenza perché lo Stato si impegni a debellare l’aborto, rimuovendo per quanto possibile le cause del ricorso, ma anche perché procuri di farlo uscire dalla clandestinità, non esitando ad assegnare in proposito alla legge ita- ROCCA 15 MAGGIO 2006 Giannino Piana a lunga intervista rilasciata dal Card. Martini al settimanale «L’Espresso» (a confronto con il Prof. Ignazio Martino, scienziato e neosenatore Ds) è destinata a segnare (al di là della risonanza immediata peraltro vastissima) un momento importante di svolta nella riflessione della Chiesa sui temi della bioetica. Il tono pacato e franco con cui vengono affrontate le questioni e lo stile dialogico in cui si sviluppa l’intera conversazione – è significativo che essa venga dai protagonisti definita come un «dialogo sulla vita» – è segno di un atteggiamento di grande apertura e libertà, che non implica tuttavia la rinuncia ad assumere posizioni chiare e responsabili. Ciò che sembra stare anzitutto a cuore al Card. Martini è il superamento della contrapposizione (nel nostro Paese particolarmente accentuata) tra «laici» e «cattolici» (e talora tra le diverse anime dello stesso mondo cattolico); contrapposizione che, alimentando diffidenze reciproche, impedisce l’avvio di una discussione serena attorno a nodi critici di particolare rilevanza per il futuro dell’uomo e della società come quelli della bioetica. L’invito del Card. Martini è dunque ad abbattere gli steccati, a superare preconcetti e posizioni pregiudiziali per confrontarsi seriamente con il vero bene dell’uomo e individuare punti fecondi di convergenza. 25 BIOETICA liana – è questa (forse) la prima volta che avviene in una sede tanto autorevole – il merito di avere contribuito a ridurre il numero degli aborti clandestini e tendenzialmente ad eliminarli. fecondazione medicalmente assistita e staminali embrionali Pietro Greco BIOTECNOLOGIE scienza e nuove tecniche biomediche verso quale umanità? INDICE Ritorna Frankestein? Potenzialità e rischi della genetica Piante e cibi transgenici Terapie geniche La nuova frontiera della biomedicina Clonazione terapeutica Fecondazione assistita Il dibattito all’Onu Chi è l’embrione? Armi biologiche e genetiche Generali e terroristi in camice bianco Bioetica e bioetiche Tecnologia scienza e sviluppo umano Dibattito tra scienziati, teologi, filosofi e politici pagg. 128 per i lettori di Rocca E 10 ROCCA 15 MAGGIO 2006 anziché E 15 spese di spedizione comprese richiedere a Rocca cas. post. 94-06081 Assisi (Pg) e-mail: [email protected] c.c.p. 15157068 26 Non meno significative sono le considerazioni del Card. Martini sul tema della fecondazione medicalmente assistita, dove emerge, da un lato, la chiara percezione dell’estrema delicatezza di ciò che è in gioco – la vita degli embrioni in primo luogo – e non manca tuttavia, dall’altro, l’attenzione alla serietà delle domande che provengono da situazioni difficili, talvolta drammatiche. È sorprendente che il Card. Martini non prenda in considerazione (lasciando intendere che non abbia perciò consistenza) la motivazione di fondo con la quale l’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Donum vitae del 1987 condanna la fecondazione medicalmente assistita extracorporea, la considerazione cioè che tale pratica implica la scissione tra il momento unitivo e il momento procreativo dell’atto sessuale per cui il figlio anziché «generato» risulterebbe «fabbricato» come effetto di un complesso atto biomedico, e apra in tal modo la strada alla possibilità di utilizzo della tecnica, riportando il problema morale nel suo giusto alveo, quello della verifica dei benefici e dei rischi. Alla base di questa verifica vi è il principio del rispetto della vita umana, che non può mai venire strumentalizzata. La difficoltà ad individuare il momento di inizio di tale vita come vita personale, in quanto i processi del suo sviluppo e della sua trasmissione formano un continuum in cui è difficile stabilire veri e propri salti di qualità, non comporta che non sussistano momenti in cui non appare alcun segno di vita umana singolarmente definibile, come nel caso dell’ovocita allo stadio dei due pronuclei, cioè quando i due corredi cromosomici – quello maschile e quello femminile – sono ancora separati e non esiste un nuovo Dna. Almeno in questo caso, quando cioè ad essere utilizzati sono gli ovociti congelati, la fecondazione artificiale può essere considerata, secondo il Card. Martini, eticamente legittima. Negativo è, invece, il giudizio che egli esprime non solo nei confronti della creazione di embrioni allo scopo di produrre cellule staminali per la ricerca, ma anche dell’utilizzo di quelli già esistenti, provenienti dalla fe- le situazioni di fine vita Al di là di un rapido cenno alla questione dei trapianti, il Card. Martini affronta, da ultimo, le questioni riguardanti le situazioni di fine vita. Alla netta condanna dell’eutanasia egli oppone tuttavia un atteggiamento di sospensione del giudizio nei confronti delle persone che ricorrono a tale gesto in situazioni estreme. Mentre, d’altronde, pur manifestando incertezza circa la possibilità di legiferare in ambiti come quelli riguardanti gli stati terminali (dove peraltro la scarsa chiarezza legislativa è spesso causa del proliferare dell’accanimento terapeutico come facile scorciatoia per evitare di incorrere in situazioni penalmente perseguibili) e circa il valore del testamento biologico (la difficoltà sta soprattutto nel fissarne correttamente i limiti), egli non esita a sollecitare la prosecuzione della ricerca attraverso un serio dibattito volto a raggiungere obiettivi il più possibile condivisi. motivazioni per un serio discernimento L’intervista costituisce perciò un importante stimolo all’apertura di una riflessione serena su temi tanto delicati e importanti come quelli della bioetica. Tutte le forze sociali e culturali sono chiamate a fornire il proprio contributo di conoscenza e di esperienza; tra queste anche della chiesa, il cui compito non è, secondo il Card. Martini, principalmente quello di intervenire con divieti e proibizioni, ma quello di fornire, nelle diverse situazioni, le motivazioni per un serio discernimento. La gravità della posta in gioco necessita infatti di un supplemento di coscienza, che può aver luogo solo laddove si incrementa la capacità di riflessione dei singoli e si creano, nello stesso tempo, le condizioni per un confronto aperto e costruttivo tra tutti coloro che hanno a cuore le sorti dell’umanità presente e futura. Giannino Piana RoccaLibri Giannino Piana ETICA SCIENZA SOCIETÀ i nodi critici emergenti pagg. 152 E 18 Indice LE CATEGORIE ANTROPOLOGICHE L’uomo e il suo corpo Che cos’è la natura La vita mistero e dono La morte e il morire Salute e cura nel contesto del limite umano I CRITERI DEL GIUDIZIO ETICO Non uccidere La responsabilità morale oggi L’etica del rischio La gerarchia dei beni I quattro principi-base della bioetica I Comitati di bioetica Bioetica e biodiritto I cattolici la bioetica e la legge LA MANIPOLAZIONE DELLA VITA UMANA L’embrione è persona? La fecondazione assistita e l’inizio della vita personale Referendum procreazione assistita: perché sì perché no Vita e qualità della vita La clonazione terapeutica Diritto a morire? Il testamento di vita Tra eutanasia e accanimento terapeutico LA CURA DELLA SALUTE Il diritto alla salute Il rapporto medico-paziente La verità al malato Il consenso informato: come, perché Non esistono malati incurabili? Salute e risorse: a chi la precedenza? ETICA AMBIENTALE E ANIMALISTA Il rapporto uomo-natura Gli animali soggetto di diritti OGM: risorsa o rischio? per i lettori di Rocca E 15 anziché ROCCA 15 MAGGIO 2006 RoccaLibri condazione artificiale. Ma proprio a partire da questo giudizio e riflettendo in particolare sulle situazioni che si creano con le adozioni e gli affidamenti, in cui si dà la possibilità di un intenso rapporto affettivo al di fuori di legami di consanguineità, egli non esclude la possibilità del ricorso alla fecondazione eterologa, soprattutto quando si tratta di utilizzare embrioni altrimenti destinati a perire; e questo, al limite, anche nel caso in cui l’inserzione avvenga in una donna single, laddove si compie ogni sforzo per assicurare il massimo di condizioni favorevoli concretamente possibili alla crescita della persona. E 18 spese di spedizione comprese richiedere a Rocca cas. post. 94-06081 Assisi (Pg) e-mail: [email protected] c.c.p. 15157068 27 CURE PALLIATIVE una moderna cura del dolore 28 L tenuto a Bologna. Ed è autorevole e ben fondata. Anche se non partiamo da zero. Non fosse altro perché nel nostro paese ci sono oltre un centinaio di luoghi, chiamati hospice, con un migliaio di posti letto dove le cure palliative vengono somministrate. E ci sono diverse regioni che hanno già organizzato delle equipe specializzate nell’assistenza domiciliare ai malati che hanno bisogno delle cure palliative. quando non c’è più niente da fare Ma, prima di verificare più in dettaglio cosa è stato fatto e cosa ancora si deve fare per acquisire una moderna cultura del dolore anche nel nostro paese, conviene definire meglio cosa sono le cure palliative. Le cure palliative sono quell’insieme di strumenti, farmacologico e non, che i medici, gli infermieri, gli assistenti volontari e le famiglie possono mettere in campo per combattere le sofferenze, soddisfare i bisogni e restituire piena dignità di vita alle persone che si trovano nella fase termina- le della loro esistenza, ai loro parenti, ai loro amici. E sebbene siano strumenti medici da utilizzare «quando non c’è più niente da fare» per il malato, l’Organizzazione Mondiale di Sanità (Oms) le considera un «importante tema di salute pubblica». Per il semplice fatto che ciascuno di noi ha un diritto pieno e inalienabile alla dignità di vita e all’erogazione delle migliori cure sanitarie disponibili in ciascuna fase della sua vita, anche quando la vita stessa volge irrimediabilmente a termine. Spesso queste fasi terminali, in cui la medicina si è arresa e in cui sembra non esserci «più nulla da fare», sono accompagnate da dolori e sofferenze acute, talvolta strazianti. Ebbene, in questa fase, c’è ancora «molto da fare», anche per il medico. C’è da sedare il dolore non necessario. C’è da minimizzare le sofferenze. C’è da preservare la dignità delle persone che stanno per andarsene. Il tutto con le migliori cure sanitarie disponibili. Il concetto sembra scontato. Persino banale. Ma è solo negli anni ’40 dello scorso secolo che una persona, l’inglese Cecily Saunders, elabora questi principi all’apparenza scontati della medicina palliativa. Ed è solo negli anni ’60 che, sempre grazie a Cecily Saunders, questi principi, all’apparenza banali, iniziano a essere applicati. Con grande difficoltà, evidentemente, se ancora lo scorso anno il dottor Agis D. Tsouros, direttore dell’Ufficio regionale europeo dell’Oms, scriveva che il tema, sebbene riguardi tutti, è ancora «largamente ignorato in Europa». E, aggiungiamo noi, larghissimamente ignorato in Italia. D’altra parte è solo nel 1986 che l’Organizzazione Mondiale di Sanità pubblica un rapporto su Dolore e cancro, avanzando la necessità di promuovere le cure palliative per lenire il più possibile le sofferenze che affliggono le persone affette da malattie inguaribili e consentire al malato «di vivere più pienamente possibile fino al termine della propria vita», come scrive Cecily Saunders. ROCCA 15 MAGGIO 2006 ROCCA 15 MAGGIO 2006 Pietro Greco ’Italia figura al centesimo posto nel mondo per il consumo pro capite di morfina e di quegli altri principi attivi contro il dolore che gli esperti chiamano oppioidi antalgici. Con una spesa per questi medicamenti che non va oltre lo 0,2% della spesa farmaceutica complessiva. Queste cifre non dimostrano solo una malcelata ritrosia ad utilizzare in ambito medico sostanze stupefacenti. Ma dimostrano anche, e soprattutto, la persistente mancanza di una cultura del dolore. O meglio, la persistente mancanza anche in ambito medico di una cultura che cerchi di evitare il dolore non necessario in ogni e ciascuna fase della vita umana. Se in Italia, infatti, si consuma poco la morfina e altri oppioidi antalgici significa che molti, troppi medici rinunciano a combattere il dolore non necessario sofferto, ogni anno, da centinaia di migliaia di persone nella fase terminale della loro vita. La denuncia è stata ribadita a fine aprile nell’ambito del XIII Congresso che la Società Italiana di Cure Palliative (Sicp) ha una rivoluzione culturale Nascono così l’idea di allestire «ospedali 29 come evitare il dolore evitabile Finora di Centri residenziali di cure palliative ne sono stati allestiti oltre un centinaio e si prevede che entro i prossimi tre o quattro anni ce ne saranno, sparsi per l’Ita30 lia, almeno 250 per un totale di 3.000 posti letto. Ci sono inoltre almeno 180 organizzazioni nonprofit e, quindi, decine di migliaia di persone del cosiddetto «terzo settore» che offrono su base volontaria la loro assistenza ad ammalati e famiglie. Il fatto è che tutto questo non basta. Sia perché le resistenze culturali continuano a ogni livello, intersecandosi peraltro con le logiche di bilancio. Sia perché la domanda è molto alta. In questo momento, infatti, ci sono almeno 160.000 persone in Italia affetti da un qualche tipo di tumore in fase evolutiva irreversibile. Ma, in fase terminale e con forti dolori, non ci sono solo i malati di cancro. Ogni anno, come rileva Furio Zucco, nel nostro paese muoiono almeno 100.000 persone a causa di malattie – respiratorie, cardiologiche, neurologiche, nefrologiche, metaboliche e infettive che potrebbero (che dovrebbero) avere accesso a cure palliative. La gran parte di questi ammalati – di tumore o di altre patologie gravi – sono persone anziane. Cosicché la demografia ci dice che la domanda tenderà, nel prossimo futuro, ad aumentare, proprio perché l’età media della popolazione sta crescendo e, con essa, la frazione di persone anziane rispetto all’intera popolazione. che fare Che fare, dunque? Occorre lavorare su almeno tre livelli diversi. Uno culturale, per rendere senso comune e, quindi, richiesta diffusa il diritto alle cure palliative. Un diritto che – mai come in questo caso – riguarda davvero tutti e che diventerà effettivo solo se tutti ne reclameranno la concreta attuazione. C’è poi da formare i medici, i paramedici, gli stessi volontari che dovranno realizzare il progetto di cure palliative. Si calcola che nei prossimi anni in Italia ci sarà necessità di almeno 15.000 operatori nel campo della lotta al dolore non necessario e delle cure palliative. In questo momento nessuno li sta formando. O meglio, in questo momento nessuno ne sta formando in numero sufficiente. C’è, infine, da continuare la ricerca. Per rendere la lotta al dolore non necessario e alle cure palliative sempre più efficace. Sappiamo che in Italia gli investimenti in ricerca non sono esaltanti. Ma in questo settore specifico sono pressoché del tutto assenti. Quasi che non sia da evitare il dolore evitabile, ma l’idea che esista. Pietro Greco LAST MINUTE MARKET un’intuizione vincente Sabrina Magnani O gni sera, circa alla stessa ora, quando i negozi stanno per chiudere, don Domenico Bedini, animatore dell’associazione Vialekappa, passa dalla pasticceria Orselli, la più famosa di Ferrara, e ritira le paste rimaste invendute, perfettamente racchiuse in una confezione uguale alle altre, e le porta agli ospiti del dormitorio pubblico, che aspettano lui e il suo pacchetto come aspettassero un amico e un dono gradito. Un gesto semplice ma che ha in sé una valenza molto alta e un significato che va al di là di quel gesto: quello di utilizzare un prodotto che altrimenti sarebbe scartato, divenendo rifiuto, per delle persone che non potrebbero mai permetterselo o che ne hanno bisogno. Un circuito virtuoso, dunque, dove accanto all’utilizzo di un bene si dà luogo a un importante momento di socializzazione nei luoghi dell’esclusione, e in cui ogni attore ha un suo vantaggio. Anche il commerciante, che così facendo può scaricare l’Iva e risparmiare sulla tassa dei rifiuti, e può finanziare, con i risparmi così ottenuti, anche un fondo di solidarietà, come quello che quest’anno è stato creato per sostenere un ospedale pediatrico in Tanzania. È questo il principio su cui si fonda Last minute market, un progetto nato nell’ambito della Facoltà di Agraria di Bologna, e che oggi, a tre anni di distanza dal suo avvio, è divenuta anche una vera e propria impresa per chi l’ha pensata, studiata e oggi la promuove. «Tutto è cominciato nel 1998, quando alcuni studenti che frequentavano un mio seminario si sono chiesti che fine facevano i prodotti alimentari che rimanevano invenduti», racconta con evidente entusiasmo Andrea Segré, giovane preside di Facoltà, una carriera universitaria veloce e con interessi nell’ambito dello sviluppo sostenibile. Dal suo studio al quinto piano della nuova sede universitaria, in periferia di Bologna, a due passi dalla nuova sede del mercato ortofrutticolo, e da cui si può godere di un bellissimo panorama della città, dalla pianura alle colline più alte dell’Appennino, indica il vicino supermercato in cui si recò otto anni fa, anche lui in31 ROCCA 15 MAGGIO 2006 ROCCA 15 MAGGIO 2006 CURE PALLIATIVE senza dolore». Oppure hospices, centri specializzati per le cure palliative. O, infine, assistenza domiciliare integrata – con il concorso di tecnici (medici, infermieri), volontari e familiari. Nasce così l’esigenza di somministrare oppioidi antalgici per combattere il dolore non necessario. È una rivoluzione culturale, più che medica. Perché si tratta di cambiare il modo di vedere sia il dolore che il malato terminale. Non è semplice. Sia perché in molti ambiti culturali al dolore si attribuisce un valore catartico. Sia perché si tende a considerare indissociabile la sofferenza fisica e psichica dalla malattia allo stato terminale. Sia, infine, perché l’assunzione di droghe – come la morfina – viene considerata disdicevole persino in punto di morte. Operare una rivoluzione culturale non è affare semplice. Inutilmente i bioeticisti di ogni orientamento e le autorità di tutte le grandi religioni sostengono che non c’è obiezione morale alcuna alle cure palliative. La lotta al dolore non necessario stenta a decollare. Anche e soprattutto in Italia. I nostri ospedali restano «ospedali con dolore». E i nostri medici restano tra i meno disponibili al mondo a prescrivere la morfina, gli altri oppioidi antalgici e gli altri farmaci contro il dolore. La situazione viene pubblicamente denunciata da diverse associazioni e società scientifiche il 25 febbraio 1998 con una lettera aperta inviata al Ministro della sanità e pubblicata dalla rivista Tempo Medico. Il primo firmatario è l’Associazione europea per le cure palliative. Da allora i ritardi non sono stati certo colmati. Tuttavia qualcosa si è mosso. Nel 1999 la legge n. 39 finanzia con 200 milioni di euro un progetto per allestire in tutto il territorio nazionale, su iniziativa delle regioni, 200 Centri residenziali di cure palliative (hospice). E nel 2001 le cure palliative vengono inserite con normativa nazionale nei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea): il che significa – come scrive il dottor Furio Zucco, presidente della Società italiana di Cure Palliative – che «le Regioni devono fornire gratuitamente alla popolazione italiana un modello assistenziale garante della qualità della vita e della dignità della persona affetta da una malattia inguaribile, mai curabile». una solidarietà che è anche un vantaggio ROCCA 15 MAGGIO 2006 Il progetto è stato studiato in tutti i suoi aspetti. Perché attecchisse e riuscisse a coinvolgere i commercianti e le catene distributive non bastava appellarsi a semplici principi di solidarietà e di etica, il non sprecare, ma trovare una chiave che ne comprovasse il vantaggio anche economico. Spiega il prof. Segré che «studiando tutti gli aspetti commerciali e tributari si è evidenziato come per il commerciante utilizzare a scopi solidaristici i prodotti rimasti invenduti era anche in vantaggio perché permette di scaricare l’Iva dei prodotti che non rimangono più invenduti e di risparmiare sulla tassa dei rifiuti, che oggi 32 viene calcolata sulla base dell’effettiva quantità di rifiuti prodotti. In tutto un risparmio del 30%, che libera risorse per fare altre cose, come per esempio si è fatto a Ferrara sostenendo questo ospedale in Africa». Si tratta di un’intuizione che si è rivelata vincente, rendendo il progetto attraente anche per realtà commerciali al di fuori dei circuiti della solidarietà. A Bologna, dove l’esperienza è nata nel 2003, grazie al fecondo incontro con don Giovanni Nicolini, instancabile animatore della Caritas diocesana e profondo conoscitore dei luoghi della solidarietà e dell’esclusione sociale della città. I donatori sono importanti catene distributive come Coop Adriatica, Concerta, Natura sì e Nordiconad, con un decina di associazioni di volontariato che ne usufruiscono ogni giorno, tra cui la mensa gestita dalla Caritas: in tutto, 620 pasti ogni giorno per un recupero che nel 2005 è stato di 220.000 chili di prodotti. Un risultato che potrebbe essere migliorato attraverso un coinvolgimento del Comune che già vi si è interessato e ha fatto proprio in attesa di poterlo meglio sponsorizzare. In altre realtà, i successi sono stati ancora più sostanziali. Come a Ferrara, appunto, dove a fronte di una minore quantità di prodotti recuperati, 34.000 chili nel 2005 per un totale di 130 pasti al giorno, anche per le minori dimensioni della città, si è però riusciti a coinvolgere molti piccoli produttori, oltre a un paio di ipermercati e ai tre negozi della già citata pasticceria Orsetti, e dove si è andati oltre, finanziando un progetto di cooperazione internazionale. Più recenti sono i progetti di Modena, avviati nel secondo semestre del 2005 e che ha permesso di utilizzare 66.000 chili di prodotti, dando 350 pasti al giorno, Verona, in cui sono state coinvolte delle mense scolastiche, e, nei primi mesi di quest’anno, un paio di supermercati e un grossista di ortofrutta, in grado di ampliare il numero di persone che attualmente ne usufruiscono, una sessantina. Così anche a san Benedetto del Tronto (Ap), Fiorenzuola, Empoli, Firenze, dove il progetto è attivo dai primi mesi del 2006, mentre protocolli per avviare l’esperienza sono stati già stipulati anche con la regione Sicilia e Sardegna. Di questi progetti non è possibile per ora aver dati certi, ma molto significativa è la buona accoglienza ricevuta e il fatto che alcuni di essi, come quello di Empoli, prevede il recupero non solo di beni alimentari ma anche di pro- dotti non commestibili. «Il principio su cui si fonda la nostra esperienza è valida per tutti i prodotti – spiega il preside della Facoltà di agraria –. Per questo lo scorso anno abbiamo anche contribuito a far diventare la nostra esperienza un progetto di legge contro lo spreco che equiparasse i beni non alimentari con quelli alimentari, ai fini di un loro possibile recupero con gli stessi vantaggi economico-fiscali, che speriamo con la nuova legislatura possa essere discussa in Parlamento». quei libri che tornano a vivere In attesa che una legge antispreco possa essere approvata anche in Italia, l’attivo docente universitario è andato avanti, applicando il principio del recupero anche in altri ambiti. A partire dall’editoria, e, anche in questo caso, da un’esperienza personale. Di fronte alla constatazione che le copie dei suoi libri, una decina circa scritti per vari editori, rimaste invendute gli venivano offerti sotto costo come alternativa al macero, l’idea di utilizzarli per persone che faticano ad averne accesso è stata quasi naturale. È nato così «Last minute book», coinvolgendo gli editori personalmente conosciuti e per cui quelle copie invendute erano un peso economico e logistico. Gli utenti sono stati genialmente individuati negli italiani all’estero, desiderosi di leggere testi in italiano di qualsiasi genere per mantenere il contatto con il proprio paese. Così è stato realizzato un ampio catalogo e attivati contatti con ambasciate di paesi dell’America Latina. «Lo scorso anno abbiamo in questa maniera distribuito 50.000 libri in Argentina, Brasile, Uruguay, Cuba. Anche in questo caso è stato attivato un circuito virtuoso fondato sullo scambio e sul dono. Recentemente è stato elaborato anche un protocollo con il Ministero, l’associazione italiana editori, l’Università di Bologna e la Dhl, l’azienda leader nel trasporto, che permetterà di coinvolgere ulteriori editori e, di conseguenza, ampliare il numero degli utenti». In fase sperimentale è anche il progetto di utilizzo dei prodotti importanti come i farmaci e i prodotti agricoli, nonché quelli prettamente materiali che vengono depositati nelle cosiddette «isole ecologiche». L’idea, specifica Segrè, autore fra l’altro di un paio di libri sull’esperienza di Last minute market e sullo «spreco inutile», è che «in un’epoca come la nostra dettata da consumismo e da spreco eccessivo, i beni possano continuare a vivere, allungare il loro possibile utilizzo, e con essi anche le persone». Un’idea, dunque, che rientra nell’ambito più ampio dello sviluppo sostenibile o anche di un modello di sviluppo realmente alternativo a quello consumistico. favorire la reciprocità L’idea di Last Minute Market non è certo originale, ma ha il merito di proporre il tema dello spreco evidenziandone le molteplici valenze. In ambito alimentare esso si pone come modalità alternativa al più conosciuto Banco Alimentare, fondato dalla ciellina Compagnia delle Opere, poiché, a differenza di quello, reso possibile dalla presenza di costose strutture organizzate su base regionale in cui vengono trasportati i prodotti in eccesso da parte delle aziende produttrici e distributrici, non richiede nessun tipo di struttura, e dunque di costi aggiuntivi, ma si fonda su una rete di protagonisti che si muovono just in time, favorendone la relazione più che l’aspetto puramente materiale. Sono mondi molto diversi, come quello dei produttori «ricchi» e dei consumatori «poveri» che entrano in contatto, il profit con il no profit, e si creano circuiti virtuosi in cui la solidarietà diventa così una relazione di reciprocità. Ciò può dar luogo, come dimostra l’esperienza di Ferrara, anche a progetti di cooperazione internazionale decentrata dove è una comunità che si interessa e si coinvolge per il benessere di un’altra comunità lontana ma vicina in questo rapporto di reciprocità. Più che nelle potenzialità quantitative – se fosse applicata a livello nazionale l’esperienza potrebbe dar luogo, nel solo ambito dei prodotti alimentari, a una quantità pari a 600 milioni di pasti all’anno con circa 240 mila tonnellate di derrate alimentari recuperate, pari a 24.000 tir di quelli che invadono, con alti rischi per la circolazione ed elevato impatto ambientale, le nostre strade – la validità del progetto sta, forse, principalmente in questi aspetti immateriali, in grado di creare nuova socialità e significative relazioni comunitarie, dove i beni non si trasformano ineluttabilmente in merci e poi in rifiuti e gli utenti sono considerati persone e non più solo consumatori. ROCCA 15 MAGGIO 2006 LAST MINUTE MARKET curiosito circa l’interrogativo postogli dai suoi studenti. «E lì, il direttore del supermercato mi fece andare dietro alle “quinte’’, a vedere dove finiscono i prodotti invenduti. Rimasi colpito dalla quantità di prodotti che erano già stati scartati, destinati solo a diventar rifiuti, che sarebbero scaduti da lì a due giorni ma erano stati già tolti dagli scaffali. Ho preso in mano uno yogurt perfettamente intatto, che scadeva dopo un giorno, ho visto una cassa di scatolette di tonno dove solo una si era rotta e aveva sporcato di olio tutte le altre, che erano intatte e potevano essere tranquillamente utilizzate. E così tanti altri prodotti. Mi son detto che era uno scandalo vedere tanti prodotti così sprecati, mentre ci sono tante persone che ne avrebbero bisogno, come i bambini orfani del Piccolo Principe, un’associazione che ha sede sempre qui vicino». Subito, questo primo contatto si è trasformato in uno stimolante oggetto di riflessione e di studio per i suoi studenti. «Ho dato il compito a molti di loro di fare delle tesi su vari aspetti di questo problema, analizzandone l’aspetto igienico, fiscale, ecc. È stato un materiale utilissimo, poi raccolto insieme e divenuto un vero e proprio studio di fattibilità, che abbiamo presentato nel 2002 e che è stato alla base dell’avvio dell’esperienza, iniziata ufficialmente nel gennaio del 2006 qui a Bologna». Cinque anni di studio hanno avuto il merito di dar luogo a un’esperienza che oggi è presente in tredici città in tutta Italia e che è divenuta, per quegli studenti, un’attività lavorativa, formalizzata in cooperativa, che ha vinto anche premi in ambito accademico e cittadino per l’originalità e il comprovato successo come idea imprenditoriale. Sabrina Magnani 33 SOCIETÀ gli antagonisti 34 D rivante dal rapporto tra capitale e lavoro, insomma una mercede che misurava la relazione dello sfruttamento di fabbrica. Gli operai che avevano coscienza di se stessi erano identificati da Marx come il soggetto che operava nel senso della trasformazione storica, i rivoluzionari al tempo del capitalismo di fabbrica. Le relazioni tra le forze operaie e il sistema produttivo capitalista, si svilupparono all’interno della più complessa questione delle condizioni nazionali di vita. La nazione, lo Stato nazionale, le spinte verso l’unità nazionale, il patriottismo, l’azione organizzativa dello Stato, la democrazia moderna accompagnarono sempre, quale ineluttabile contesto storico, lo sforzo degli operai di ergersi a soggetti della rivoluzione. Le storie operaie si scontrarono sempre con le forme dello Stato in cui erano organizzate, e così si ebbe una storia della classe operaia in Polonia, diversa da quella francese o da quella russa… In ogni paese la classe operaia di quella nazione ebbe la sua propria storia e spesso non ci fu nemmeno la possibilità di comparare tra di loro le diverse esperienze. Complessivamente però possiamo dire che per lo più in Occidente il capitalismo ebbe la sua evoluzione riuscendo ad anticipare le forme dell’organizzazione operaia, e così non si sviluppò alcuna rivoluzione industriale socialista. (Quello che si ebbe fu invece in Russia l’egemonia della rivoluzione del 1917 ed il successivo definitivo trionfo dello Stato sovietico che s’incorporò ogni trasformazione rivoluzionaria, nazionalizzando il movimento ed ergendosi a guida di ogni altro moto socialista, così che da movimento internazionale cosmopolita, quello rivoluzionario si ridusse ad essere una somma di movimenti politici nazionali ove uno, quello russo maggioritario, cercò di mangiarsi i minori, come il pesce più grosso s’ingoia i più piccoli). Marcuse e la critica al capitalismo maturo Fu intorno alle lotte sociali della fine degli anni Sessanta, al tempo della guerra in VietNam e di quelle lotte giovanili, studentesche e operaie che si svilupparono nel contesto della grande crisi americana dopo la morte di Kennedy e al tempo di Nixon, che s’iniziò a parlare di un altro e nuovo soggetto rivoluzionario. Era la critica non già al capitalismo di fabbrica, operaio e industriale, ma la critica al capitalismo maturo. La fabbrica rimaneva il centro della produzione, ma il sistema capitalista, oramai spronato dalle politiche keynesiane verso i consumi di massa, non privilegiò il momento della produzione ma tutt’intero il ciclo economico nelle sue distinte fasi: produzione-distribuzione-scambio-consumo-riproduzione. Gli operai restavano gli agenti della fase produttiva, i soggetti su cui pesava ancora il lavoro delle catene di montaggio, ma tuttavia non furono pensati come gli unici soggetti della rivoluzione sociale. Era la critica di Marcuse all’uomo integrato nel sistema, a quell’uomo ad una sola dimensione che appiattito tra lavoro e televisione era incapace di pensare criticamente la propria condizione umana. Ma tutti quelli che s’opponevano al sistema produttivo e alle sue regole di sfruttamento, anche se non operai, purché oppositori, erano da considerarsi virtuali soggetti rivoluzionari. Intellettuali oppositori, burocrati oppositori, colletti bianchi oppositori, white collars alla Wright Mills, liberals, hippies, cantautori on the road, Joan Baenz e tutti quelli che cantavano contro l’imperialismo americano, pacifisti, persone che ricercavano una identità pacifica in India o in Oriente, underdogs (letteralmente: sotto cani), i diseredati, i poveracci, i mendicanti, i non integrati, i non adeguati alla condizione dominata dagli Stati Uniti, e anche dunque, credenti borghesi ma oppositori dei regimi politici più forti, movimenti anti autoritari in psichiatria, negli ordini religiosi, nelle università, nelle scuole, nella musica giovanile rap, hippy, e anche presso i teologi della rivoluzione, i facitori dell’agostiniana ecclesia pauperum, i rivoluzionari religiosi. Una nuova speranza si apriva per quelli che non essendo operai si potevano trovare a lato della classe rivoluzionaria con un ruolo riconosciuto e legittimato di rivoluzionari. Una speranza di riconoscimento del loro messaggio di veri rivoluzionari s’apriva anche per quelle frange delle classi borghesi, urbane e professionali, che pur sottratte al lavoro subalterno in fabbrica, esercitavano un ruolo intellettuale d’opposizione: «è la pioggia che va/e ritorna il sereno...». «Il Manifesto» in Italia fu l’espressione più nobile di questa tendenza culturale. ROCCA 15 MAGGIO 2006 ROCCA 15 MAGGIO 2006 Giuliano Della Pergola a quando il capitalismo industriale nacque, s’è sempre cercato di capire chi potesse opporvisi. La ricerca di Marx sulla classe operaia è la più nota, al tempo del primo apparire del capitalismo, quando ancora si discuteva del passaggio dal telaio tradizionale a quello meccanico. La rivoluzione industriale aveva richiesto l’analisi di soggetti storici nuovi, e certamente la classe operaia che aveva coscienza di se stessa, quella che era una classe «per sé», poteva candidarsi ad essere la vera antagonista del capitalismo di fabbrica. Formata da immigrati inurbati da poco, la classe operaia si distingueva nettamente da quel formicolare di contadini sperduti nelle loro miserevoli catapecchie rurali, abbandonate e disadorne, senza passato e senza futuro. Al tempo della fine dell’ancien régime la classe operaia era sì formata in gran parte da contadini sottratti ai campi e alla servitù rurale e oramai installata in ambiente urbano, dove l’aria della città rendeva liberi, cioè dove si scioglievano i lacci dell’antico servire il padrone locale. La classe operaia appariva a Marx dotata di futuro, cosa che i contadini invece non avevano mai potuto sperare. La classe operaia era inoltre fornita di un’auto-organizzazione capace di contrattare salari, condizioni di lavoro e salute in fabbrica. Era dotata di sindacati, di rappresentanza politica e di forme assistenziali di mutuo soccorso. Una classe sociale che sapeva comprendere come il salario contrattato con il datore di lavoro fosse, non solo e non già una ricompensa economica al livello della sussistenza, ma soprattutto una relazione de- Herbert Marcuse e Toni Negri il percorso di Toni Negri Ma la rivoluzione tecnologica informatica avrebbe rapidamente consumata la critica marcusiana all’uomo integrato nei valori del sistema. 35 36 proprio territorio non era minacciata come oggi è, quando l’eccedenza del lavoro necessario non era tanto evidente... COSE DA GRANDI la fine dello Stato-nazione Non siamo all’interno di un pensiero anti marxista, ma post-marxista. La sola classe operaia appare a Negri un ambito troppo ristretto per potere accettare ogni forma di sfruttamento che si verifica oggi, non solo nell’ambito della condizione dei lavoratori subalterni, ma in quella di tutti coloro che dentro e fuori dai luoghi di lavoro, conducono soggettivamente un’esistenza individualmente fertile, vigile e antagonista, ma oggettivamente priva di prospettive, tecnicamente senza futuro e disarticolata da un contesto capace di offrire la benché minima certezza. L’Impero si sovrappone, soffocandolo, allo Stato-nazione e ne decreta la fine. Chi legittima le forme dello sfruttamento al livello delle nuove tecnologie dell’informazione si pone solo problemi di adattamento, di adeguamento e di integrazione ai nuovi ruoli produttivi; ma chi invece riflette sul dualismo che si determina ovunque, dentro e fuori la fabbrica, là dove gli uni utilizzano i sistemi di computer per produrre in forme svincolate (desembedded) dal resto, e gli altri all’infinito debbono adeguarsi a lavorare due pomeriggi la settimana, solo il giovedì mattina, tutti i sabati, unicamente d’estate, alternativamente una notte sì e una no, eccetera, e naturalmente in nero, senza contratto, a ore, senza investimento sulla persona che lavora come subalterna, o altra forma compensatoria del lavoro richiesto che non sia un salario flessibile e incerto, applicato alle esigenze aziendali, si potrà avere l’immagine catastrofica di quel che ci attende. Perdere il lavoro, lavorare in nero, lavorare in modo flessibile e precario, non appaiono solo delle questioni politiche legate a un solo paese, o ad un solo Stato-nazione: sono invece problemi di tutti, generalizzati, drammaticamente universali. L’Impero sovrasta, dominante e impersonale, questi nuovi rapporti di produzione. I Movimenti collettivi d’opposizione stanno prendendo le misure per una reazione che non è soltanto di categoria, che non è identificabile come piccolo-borghese: in Francia siamo già nel pieno del conflitto sociale, ma credere che questo sia un problema solo francese sarebbe un errore. Questa sfida aperta tocca il futuro sia dei paesi tecnologicamente evoluti, occidentali e democratici, come quelli degli altri paesi. Da qui passa la storia che si sta dipanando in questi anni. Giuliano Della Pergola morbido e dolce Rosella De Leonibus L a più bella di tutte è la bevanda portatile, acqua o integratore salino che sia, che se la guardi bene ti accorgi subito che è a forma di biberon. E che si usa esattamente nello stesso modo. Anzi, senza neppure la fatica di succhiare, perché il liquido può essere spruzzato direttamente in bocca. Poi ci sono tutti i tipi di dessert e di latte fermentato o arricchito di qualcosa in formati da bimbi, da prendere e tenere in mano con grazia, da lasciar scivolare in gola, stavolta, con grazia e dolcezza. E tantissimi di questi prodotti sono bianchi, dentro e fuori. Innocenti e rassicuranti. Anche quando le parole del messaggio pubblicitario che li accompagnano farebbero pensare a cose più da grandi, per esempio l’esperienza sessuale, anche allora l’accento è sull’aspetto di piacere orale, sul gusto di assaporare qualcosa di bianco e morbido e cremoso, da assumere a cucchiaini a poco a poco. Molto consolante. I formaggi da spalmare, light per la linea e ancora una volta morbidi, che non offrono resistenza ad una cosa innominabile come il coltello, oppure che si sciolgono, filano e fondono, e il pane per favo- re ancora una volta morbido, che non offra ai denti il minimo impegno. Se ami qualcosa di croccante da sgranocchiare, te lo vendo in bustine da passeggio, o meglio da divano, in rassicuranti piccoli pezzetti da mettere direttamente in bocca. E tutti i tipi possibili di cioccolato, da tasca, da spalmare, da scartare, con tutte le varianti di sapore, così continui a desiderare il prossimo, sapori stavolta un po’ più da adulti, ma cosa c’è di più rassicurante del cioccolato, da offrire o da sgranocchiare da soli… se non cedo addirittura al lecca lecca, e al bar ne vendono di ogni colore, non li comprano certo soltanto i bambini. E poi i ciondoli per le borsette e per il telefonino, quei piccoli teneri pelouche in miniatura, morbidissimi al tatto e buffi alla vista, e signore serissime che li sfoggiano mentre vanno al lavoro o mentre discutono con gli insegnanti del figlio. Senza parlare delle linee arrotondate e bombate che prevalgono nel design industriale, dalla forma degli elettrodomestici a quella delle automobili, ce n’è una che assomiglia a quella di topolino. I palloncini e le coroncine di cartone alle feste di compleanno dei quarantenni sono solo una moda importata da oltre ocea37 ROCCA 15 MAGGIO 2006 ROCCA 15 MAGGIO 2006 SOCIETÀ Una nuova forma di produzione stava nascendo, anzi si stava già diffondendo, per diventare con gli anni Novanta decisamente dominante. Il linguaggio informatizzato applicato ad ogni sistema produttivo scardina le forme produttive precedenti, le rende all’improvviso desuete e povere, prive di futuro. È la globalizzazione che diventa il problema dei problemi, la questione attorno a cui gira ogni altra nostra riflessione (reale o illusoria) sull’utilizzo dei mezzi di comunicazione personalizzati, istantanei e accessibili. La globalizzazione della produzione mondiale e specularmente il diffondersi di movimenti contrari alla globalizzazione, noglobal, producono una nuova dialettica. Non solo quella del capitalismo è possibile come forma di vita, un nuovo tipo di sviluppo del mondo è possibile, un nuovo destino dell’umanità, dell’uso delle risorse naturali, della scienza e delle tecnologie. La diffusione del computer espelle mano d’opera dalle fabbriche, la ristrutturazione tecnologica impone la sostituzione uomomacchina, e una nuova generazione di persone non protette, di precari, di disoccupati, bussa alle porte di un Occidente globalizzato che vorrebbe guidare il processo di imperio sul resto del mondo, ma che non vi riesce. L’Occidente, e particolarmente il paese che lo guida, gli Usa, vorrebbero egemonizzare il resto del mondo e questa politica che mira alla supremazia generalizzata sprigiona resistenze e dinieghi. È possibile una globalizzazione di tutti e non una globalizzazione guidata dall’Occidente? Quella che appare agli occhi del filosofo italiano Toni Negri (Movimenti nell’Impero, Cortina editore, Milano 2006) è la condizione di un Impero che cerca legittimazione per continuare la propria azione egemonica e di depauperamento degli altri paesi, ma assolutamente non vi riesce. È una pretesa di imperio sugli altri che sdegnosamente viene rifiutata. Così, una dialettica tra Impero e Movimenti è in atto; in gioco c’è solo… il destino politico dell’umanità futura! Un nuovo soggetto collettivo rivoluzionario è, per Toni Negri, riconoscibile. Egli infatti parla non già di classe operaia, non già di uomini ad una dimensione, ma di moltitudine, intendendo con ciò quella disseminazione infinita di persone che individualmente vivono ancorate moralmente a un diniego, intimamente oppositori del sistema, eppure gettati in una condizione di assoluta indeterminatezza. Siamo sempre nel solco del pensiero di Marx, soprattutto del suo metodo analitico, ma la riflessione di Toni Negri s’applica ad una condizione che Marx non ebbe modo di potere vedere. Egli visse quando lo Stato-Nazione non era ancora in crisi, quando le migrazioni non erano planetarie, quando la sovranità dello Stato sul amuleti contro la paura ROCCA 15 MAGGIO 2006 Divertitevi a verificare quante volte il concetto o la parola morbido ricorrono nei messaggi commerciali mediatici. Dalla carta igienica al nuovo attrezzo per spolverare, dal prodotto per il risciacquo del bucato a quello per i capelli. Anche la musica chill out, gradevolissima peraltro, spopola. Perfino le tecniche di fitness si spostano verso il morbido. Questa generalizzata e pervasiva impronta regressiva, infantilizzante, sta dando da pensare a più d’uno studioso. Dalla sociologia alla psicologia sociale, dalla psicanalisi alla psicologia ecologica. Non sappiamo ancora se è in questione l’equilibrio psichico di una intera fascia della popolazione adulta, di certo ci sono ridefinizioni da cercare, domande da formulare con una certa attenzione. La prima riflessione è questa: se come adulti abbiamo bisogno di essere consolati circondandoci con tanta morbidezza allora, forse senza rendercene conto, siamo spaventati parecchio. La realtà esterna è percepita come troppo dura o troppo frustrante, il clima emotivo del quotidiano si è parecchio spostato verso una massiccia disumanizzazione? Siamo terrorizzati da fantasmi di morte, e se inseguiamo tutti questi segnali simbolici dell’infanzia è per esorcizzare la fine? Anche i balli di gruppo che si stanno sempre più diffondendo nei locali di divertimento ci offrono questo tipo di segnale, dove tutti insieme, all’unisono, coi gesti tribali, rituali e uguali – la rima è molto rassicurante, come il ritmo ripetuto – ci possiamo sentire un corpo unico e il gruppo ci fa un pochino da grembo. Anche le forme del contatto fisico che cercano tra loro gli adolescenti ci raccontano questa storia. In gita, in vacanza, a casa 38 degli amici dopo le feste di compleanno si fa così: si prendono tutti i materassi delle varie camere e li si dispone per terra tutti l’uno accanto all’altro in una unica stanza. Su questo grande lettone si dorme tutti abbracciati e accoccolati l’uno sull’altro, con la tenerezza della cucciolata, col contatto fusionale rassicurante e protettivo del gregge. L’aspetto erotico del contatto è rinviato, è molto meno importante, la cosa più desiderata è questo sentirsi insieme e vicini al calduccio. Per gli adulti ci sono le fiction lacrimevoli, che suscitano a comando la commozione collettiva, e la sensazione di gruppo caldo e rassicurante è virtuale, stavolta, perchè siamo tutti davanti allo stesso schermo, a provare le stesse emozioni, pure se dal sofà di casa. E l’emozionalità che è sottesa a questi gesti, all’uso di questi oggetti, è una faccenda collettiva, condivisa su un piano ultrapersonale, che attraversa trasversalmente e lievemente le coscienze individuali senza toccarle, senza lasciare tracce chiare di consapevolezza. Sono emozioni di gruppo, di massa, direi, emozioni da culla, che evocano in vario modo la piacevolezza da accudimento materno. Seguiamo un po’ questo filo, vediamo dove ci porta. oggetti transizionali La prima grande difesa contro il nulla, contro il rischio dell’esistere, sono le braccia calde e il seno morbido della mamma. Per abbandonare questo cerchio di sicurezza e osare il contatto col grande mondo ostile là fuori, abbiamo bisogno di portare con noi un oggetto, qualcosa che ci ricolleghi simbolicamente alla mamma, che ci rassicuri che lei esiste, un pegno che ci garantisca il ritorno alla sicurezza. La copertina di Linus, eccola qua. Il cellulare ha assunto questa funzione. Non sarà un caso se anche questo oggetto è sempre più curvilineo, e si fodera di materiali morbidi all’esterno. Ti chiamo per dirti che arrivo, per chiederti una informazione e comunicarti una decisione, una novità, ma ti chiamo anche semplicemente per farti sapere che esisto, per dirti che ti penso, per sapere che mi pensi anche nella distanza dal calore del corpo. La chiamano comunicazione fàtica, serve a segnalare non qualcosa che ho da dirti, ma che ho un canale aperto di comunicazione per te e con te. La pratica dello squillino né è la prova. Siamo separati, ma siamo ancora in contatto. Come col fazzoletto della mamma nel cestino dell’asilo nido. La mamma non c’è? Allora ci facciamo da mamma a vicenda, noi cuccioli sperduti nel mondo. Quando invece non ci rinserriamo dentro un guscio protettivo per non metterci a combattere col mondo nemico là fuori. Può essere il cappuccio della felpa che qualche ragazzo si tira sul capo, come un monaco pellegrino, o come chi non vuole esporre la nuca ai colpi del mondo. Possono essere le maniche tirate sopra i polsi fino a coprire tutte le dita di qualche adolescente, così non posso usare le mani – e la mia non azione sul mondo la posso imputare non alla paura e al sentimento di inefficacia, ma alle maniche che mi impacciano. Il bunker può essere anche il chiudersi in casa degli adulti la sera, le case blindate e i quartieri dormitorio dove passo dal garage all’ascensore e poi mi barrico in casa fino al mattino successivo. Ma anche le vacanze nei villaggi all included, dove non esco dal recinto neanche morto. Potremmo arrivare a dire che la ricerca del morbido e protetto e dolce è un modo, come avviene da bambini, per poter affrontare il mondo, e al limite forse è un modo utile, che mi permette di non rinunciarci del tutto a questa sfida. La affronto in questo modo, come posso. È la nostra strategia di sopravvivenza davanti alla tremenda complessità e durezza del quotidiano? È il mondo troppo duro o noi troppo morbidi, o piuttosto entrambe le cose. regressione versus pausa creativa Una delle conseguenze di questo filo di ragionamento è che se mi sento insicuro avrò una certa tendenza all’egocentrismo, a portare a casa la pelle mia, a salvarmi da solo/a, e quindi anche il legame con gli altri assumerà una nota utilitaristica, ancora lontana dalla possibilità di lasciar emergere sentimenti di solidarietà e condivisione. E la mia personale tendenza depressiva la giocherò forse più nel ritiro e nel cinismo che non nel fare il lutto della sicurezza infantilizzante a cui gli anni del benessere del secolo scorso ci avevano abituato, per poi guardare in faccia la realtà e trovare modi nuovi e creativi per adattarvisi e far fronte alla postmodernità. Se la tendenza è evidentemente abbastanza regressiva, se il sentimento che si re- spira intorno è di ricerca di sicurezza, quel che ci resta da fare non è solo la possibilità di strapparsi le vesti; possiamo ancora cercare, di questo fenomeno, letture abbastanza varie. Da un lato possiamo enfatizzare la tendenza alla passività e alla dipendenza, il rifiuto di crescere, e verificare con moltissimi dati questa ipotesi. Dall’aumento iperbolico delle forme e delle frequenze dei comportamenti dipendenti, fino ai sentimenti di perdita di futuro e di speranza che circolano a pacchi enormi tra le generazioni più giovani. Dal qualunquismo e dal cinismo dilagante fino alla crisi delle forme storiche di socialità. Ma se ci fermassimo qui, sarebbe un po’ limitante. Davvero, non ci resterebbe che piangere. Andiamo avanti ancora un passo. Talvolta, speriamo anche stavolta, i comportamenti regressivi sono da leggere un po’ come quando si torna indietro per prendere la rincorsa e ripartire con più slancio. Come il bisogno di tornare a calcare un terreno noto e rassicurante per rigenerare le forze e trovare il coraggio di affrontare il nuovo. Come lo spazio protetto che serve per stare tranquilli ad elaborare una qualche soluzione creativa nuova. Non banalmente un segnale di debolezza, neppure un bisogno definitivo di ritirarsi e fermarsi là. Ma la necessità di andare a cercare dentro di sé, attraversando di nuovo terreni sicuri, quella capacità di innovazione e creatività – di livello straordinario, questo è certo – nel modo di affrontare il mondo che permetterà a noi occidentali industrializzati di cavarcela meglio nel mondo complicato di domani. Altre civiltà stanno affrontando la stessa sfida in modi diversi. Si mettono su un barcone mezzo sfasciato e approdano in qualche modo sulle nostre coste. Oppure salgono sul rimorchio di un camion e attraversano la frontiera nascosti nei container. Poi vivono qui da clandestini per mesi, per anni, si guadagnano il pane per sé e per i loro familiari in tutti i modi, e se ce la fanno, dopo qualche anno vengono anche eletti nei consigli comunali e aprono negozi e aziende. Ai ragazzi italiani poi, tanto per fare un esempio, li chiamano gelatina, o marmellata. E l’evocazione non è sicuramente di tipo alimentare. Una qualche forma di slancio creativo per affrontare il futuro, loro l’hanno già trovata. ROCCA 15 MAGGIO 2006 COSE DA GRANDI no, e non li citiamo qui perché l’importazione non fa testo. Invece le suonerie dei cellulari sì, sono significative, è interessante durante la riunione di un organismo collegiale ascoltare canti di galli, rane e grilli e fischi di treni, in comico contrasto con la divisa grigia abbottonata a doppio petto del manager occidentale. I divani più «in» ormai hanno tutti la forma del letto e, – vivaddio, sono tremendamente comodi – indossiamo tutti le stesse scarpe da ginnastica appena possiamo, nonni e nipotini. Se siamo giovani adulti, in casa portiamo le pantofole imbottite a forma di animale. Di pelouche. Rosella De Leonibus 39 IO E GLI ALTRI ROCCA 15 MAGGIO 2006 il leader I soggetti che sono dotati di un certo magnetismo nei confronti degli altri in genere, quelli che godono di un grande fascino, di un notevole potere di trascinare gli altri, vengono definiti come tipi carismatici. Il carisma è una dote che accompagna i soggetti così definiti in tutte le situazioni di collettività in cui si trovano, ed è sicuramente una qualità innata, anche se chi scopre di possedere questa dote, possa tentare di sfruttarla in funzione dei propri interessi personali. Sembra però che chi scopre in se stesso un certo potere carismatico, questa qualità vada indirizzata a beneficio di chi subisce il fascino del carisma. Nella vita dei leader storici vi sono però lamentabili eccezioni. Ci riferiamo a quei leaders che hanno indirizzato il loro grosso potere di trascinatori per realizzare azioni moralmente riprovevoli. L’esempio più comune presentato dai testi conosciuti è, senza dubbio, Hitler. Ma ciò dipendeva non solo dal suo carisma, ma pure dalla grossa fetta di potere che era stata data alle ideologie e dalla sua personalità malata. Tornando agli incontri di gruppo, potre40 la personalità carismatica Manuel Tejera de Meer mo concludere che chi ha una personalità carismatica la può esprimere anche mantenendo il silenzio, ma con una grossa partecipazione agli stati d’animo degli altri. La sola presenza, in un gruppo, di una personalità carismatica, crea negli altri componenti del gruppo una sensazione di riconoscimento di una diversità trascinante. Il magnetismo che una persona può esercitare sugli altri con la sua presenza non è facilmente individuabile. Ma anche se fosse riconosciuto dagli altri non si saprebbe definire con sicurezza quali siano le condizioni intrapersonali che fanno di quella persona un tipo carismatico. Chi possiede questo potere ha la facoltà di farsi ascoltare anche se usa poche parole o rimane in un silenzio comunicativo. Quest’ultima espressione («silenzio comunicativo») può essere giudicata un paradosso, ma ribadiamo l’idea che il silenzio può contenere un grande potere comunicativo, dipendente dalla personalità di chi lo usa, dalla sua spontaneità senza controllo di fronte agli altri, per cui appare e manifesta quello che è. È interessante sottolineare che, come dice Alberoni nel suo volume su «L’arte del comando» (Rizzoli), il tipo carismatico non è sempre brillante o estroverso; può anche essere introverso e apparire appartato o un po’ misantropo. Ma la capacità di trascinare gli altri e di diventare leader è sempre presente. Perciò, quando una personalità carismatica partecipa, con un minimo di coinvolgimento ad un incontro con gli altri, la sua sola presenza costituisce un elemento di comunicazione che trascina altri, anche senza conoscere granché di lui o di lei. Possiamo dire che la personalità carismatica è quella che possiede il più grosso potenziale di capitale sociale. quando non si possiede carisma La mia esperienza con gruppi di lavoro e lo studio delle dinamiche interpersonali che si fanno presenti negli appuntamenti organizzati di persone coinvolte in discorsi comuni, ci porta a pensare che perché un tipo silenzioso possa avere un influsso in un gruppo di persone con la sola sua presenza, non è necessario che si tratti di soggetti carismatici. Basta solo che siano persone interessate al discorso degli altri, attente a ciò che si dice e alle diverse opinioni, coinvolte emotivamente fino al punto di potersi dire che partecipano pure ai discorsi fatti, nonostante il loro silenzio. Il coinvolgimento emotivo, che indica partecipazione al gruppo potrebbe essere la base su cui si sviluppano i segnali di comunicazione. Una persona presente nel gruppo può esprimere il dispiacere o il disgusto di quello che sente attraverso gesti di disconformità con il movimento della testa caratteristico di chi nega qualcosa. Il gesto di affermazione palese con la testa quando ci si sente d’accordo con quanto si ascolta sarà l’espressione chiara di una conferma senza dubbi. Questi gesti banali di comunicazione non verbale possono manifestarsi con forme più sottili. Sentire rifiuto o disappunto quando si ascolta qualcosa si può esprimere con gli occhi spenti. E la vivacità dello sguardo e gli occhi sorridenti possono esprimere entusiasmo e conferma. La «faccia lunga» può esprimere emozioni di tipo aggressivo nei confronti di certe idee che si sentono o di chi le difende. La proiezione dei propri atteggiamenti e dei nostri sentimenti in manifestazioni del viso o in gesti spontanei non sempre si realizza attraverso i soliti segnali, a cui abbiamo alluso. Tante volte è molto difficile riconoscere un sentimento o una situazione emotiva di chi solo ascolta, senza dire parole. Ma i segnali di accettazione o di rifiuto, pur con il rischio di false interpretazioni, possono arrivarci attraverso sensazioni poco definite. Sentirsi accettati in un gruppo anche senza essere molto espressivi verbalmente, costituisce la dimensione fondamentale del senso di appartenenza al gruppo. Perciò, in tantissime occasioni vale di più una presenza che un discorso, di più un atteggiamento che un comportamento, di più un interesse reale ma silenzioso che un discorso formale altisonante. La vita non è solo fatta di sistemazione lavorativa, o di realizzazioni politico-sociali; non si vive solo per guadagnare e poter nuotare nell’abbondanza, per avere sempre di più. La vita è fatta soprattutto di relazioni umane soddisfacenti e gratificanti, fecondate da incontri dove la comunicazione trasformi il discorso o la pura presenza in strumenti di realizzazione personale, di qualcosa che dia senso alla vita. Saper stare con gli altri, facendo della propria presenza uno strumento di comunicazione, significa migliorare la qualità della vita di ognuno. ROCCA 15 MAGGIO 2006 I n ogni conversazione di gruppo c’è sempre chi parla frequentemente e chi frequentemente rimane muto, partecipando ciononostante ai discorsi attraverso l’attenzione e l’ascolto. Esiste pure chi si dissocia da ogni coinvolgimento e sta con l’immaginazione solo con se stesso o in altri luoghi. Di questi ultimi non vogliamo parlare oggi, giacché sono agli antipodi di ogni comunicazione umana. Vogliamo invece riferirci a chi non si fa notare perché parla poco o niente ma è ciononostante presente in quanto coinvolto nei discorsi che si fanno con una grande capacità di ascolto, con una grande attenzione e con una gestualità impossibile da controllare del tutto. È importante riconoscere il grande influsso che esercita sugli altri chi partecipa ad una riunione senza pronunciare parola ma con un coinvolgimento emotivo che si esprime attraverso l’attenzione e i gesti o l’espressione del viso. Non è da escludere che chi è presente senza usare le parole, possa diventare leader del gruppo, se si tratta di una personalità carismatica, che con la sua sola presenza stimoli e promuova la comunicazione. Manuel Tejera de Meer 41 SOCIETÀ Claudio Cagnazzo a vacanza ha avuto sempre un che di artificioso. Nonostante si vestisse di abiti naturali. Tutti infatti erano e sono convinti che la serialità del lavoro vada interrotta con un tuffo nel mare o nella luce della montagna, se non in quella più opaca della campagna. Comunque, qualche giorno tra sdraio e ombrelloni, o con la testa in aria verso vette di monti o funivie quasi radenti il terreno, era e resta il giusto compenso per uomini e donne imprigionati tutto l’anno nelle pastoie del vivere quotidiano. Almeno si crede. E in questo apparentemente nulla è cambiato. Nessuna differenza di fondo sembra avvertirsi tra le sensazioni ad esempio di una vacanza marina di trent’anni fa, o una di adesso. Certo le modalità sono cambiate. I ritmi si sono in qualche modo alterati. Il contesto in qualche modo mutato. Sorbire un gelato nella riviera adriatica di sera negli anni ’50 con il suo profumo di provincia, oppure di questi tempi in località esotiche, tra fuoristrada rombanti e vetrine accecanti, non è la medesima cosa. Ma il sogno della vacanza come fuga dal mondo. Del riprendersi la propria vita mutilata dal lavoro quotidiano, dalle preoccupazioni, dall’insopportabile filtro alla nostra felicità fatto dal tran, tran giornaliero, tutto questo è rimasto immutato. L ROCCA 15 MAGGIO 2006 la Vacanza come Fiaba Fuga dal mondo come esso è, verso il mondo come si vorrebbe che fosse. La vacanza come fiaba. Anche quando la si cerca solo per riposare. Perché il sospendersi del tempo dell’impegno, della dura dialettica delle cose, ha comunque un che di fiabesco. Sospensione del tempo della 42 vita anche quando gli avvenimenti incalzano. Solo che, seppur nel loro rimanere se stesse, le vacanze si sono in qualche modo evolute; ovvero nel tempo la fiaba che ci raccontavamo ha preso sempre di più le distanze dalla vita reale. Sino a divenirne indistinguibile. Difatti trenta anni fa, la famiglia ingenua e un po’ inadeguata si allontanava di pochi chilometri per i riti vacanzieri e davvero la vita minima delle pensioni, o i racconti di spiaggia sulla vita spicciola di figli, nonni e nipoti, diveniva qualcosa di mitico. Chi tra quei villeggianti raccontando degli esami del figlio o del matrimonio del nipote non ha raccontato anche a se stesso un’avventura straordinaria? L’aria salsa e le spume delle onde ripulivano le storie della inevitabile banalità e le restituivano sotto forma di dolci carezze quasi letterarie. La sera poi a passeggio c’era nei villeggianti stessi un senso di compiutezza, di asciuttezza dei sentimenti che era tutta legata alla concretezza dei fatti. Divenivano così fonte di lunghi dibattiti i prezzi delle pensioni, o la qualità del cibo ammannito. Con qualche concessione persino alla qualità del servizio e, specialmente da parte delle donne, sulla buona educazione dei camerieri. Insomma la vita di città si riversava sottotraccia sulle rive del mare. E vizi e virtù si replicavano, resi appena più leggeri da magliette a righe e zoccoli colorati. Era un mondo semplice e chi ne ha fatto esperienza, non può non ricordare che il ritorno a casa chiudeva definitivamente l’avventura feriale, di cui al massimo poteva restare un filmino. Il magico, mitico filmino che ci accompagnava nelle grandi occasioni: battesimo, comunione, matrimonio e vacanze. Da rivedere da far rivedere in certi tristi e assonnati dopo cena. Il filmino raccoglieva e conservava l’evento per anni. E nel rivederlo le fiere scorribande sulla riviera suscitavano tenerezza e orgoglio allo stesso tempo. Eravamo proprio noi, ragazzi! l’incubo della vacanza Ora non è più così. Ora le famiglie, o stanno a casa per mancanza di soldi, con lo sguardo incarognito davanti alle tv, oppure coronano veramente un nuovo sogno: le vacanze mordi e fuggi, specialmente nei mari del Sud. Ora, tranne rare eccezioni di pervicaci abitudinari romantici, la riviera è frequentata tutto l’anno solo per consumare soprattutto se stessi. E la famigliola con gelato alla mano è un reperto da sociologi bizzarri. Lì sulla riviera si consuma ormai l’ultimo estremo rito di matrice televisiva. Lì Grandi Fratelli e Piccole Sorelline si accampano non per sfuggire al tedio della vita, ma per proseguire il reality che tutti i gironi recitano a soggetto. Perché la vita stessa è ormai vissuta da molti come una sorta di evasione, anche quando si presenta nella sua durezza. Si vive nella propria città mimando i ritmi e i riti delle vacanze. Il cosiddetto weekend è il fine della settimana lavorativa, non la fine. Macchine post moderne, telefonini, pub e quant’altro poi tentano ormai di trasformare l’architettura urbana per creare piccoli o grandi paesi dei balocchi. La vacanza di fatto non esiste più. Esistono invece continui allargamenti del proprio confine. Estetici e materiali. Non si va più a fare vacanze, ma si va a vedere nuovi posti, a cercare emozioni, a ripetere se stessi con più apparente libertà. Si vola con l’aereo, si consuma e si torna. In una spetta- colare circolarità delle nostre vite. Già perché incredibilmente mentre la modernità aveva introdotto l’idea di linearità del tempo e quindi della possibilità dell’imprevisto, ora per certi versi il tempo ha riassunto la circolarità del primo medioevo. Tutto si ripete. Tutto torna al punto di partenza. Lavoro-weekend-consumo e di nuovo lavoro per ricominciare. Come fossimo in un serial televisivo dove ogni cosa è prevedibile, ma facciamo finta di non saperlo, per sorprenderci lo stesso. E forse siamo già esseri virtuali, nel senso che facciamo di tutto per sovrapporre alla nostra umanità la finzione collettiva di un mondo assolutamente artificioso. E in questo senso ciò che è successo in Egitto, quel ripetersi di spargimento di sangue sulle vacanze, quelle bombe folli e inconsulte e le reazioni conseguenti, è lì a dimostrare che il reality non può avere fine. Difatti i terroristi uccidono e distruggono, ma il mito vacanziero non regredisce. Quasi nessuno scappa da quei luoghi in questo caso di morte e quasi nessuno rinuncia ad andarci. I terroristi, da sempre fuori della realtà, straziano cose e persone e i villeggianti, ormai fuori della realtà, tremano per un po’ e poi ricominciano con i loro riti. Nessuno vuole interrompere il sogno artificiale suggerito da quei luoghi patinati. E in fondo il vero simbolo di tutto ciò sono i turisti che con le camere digitali riprendono i propri cari con sullo sfondo le macerie degli alberghi. Sceneggiatura mirata. Immagini da rivedere dopo cena, tra la curiosità morbosa degli amici e l’orgogliosa compunzione dell’operatore e dei suoi cari. Perché loro c’erano, ragazzi! E in fondo si sono pure divertiti. ROCCA 15 MAGGIO 2006 dalla vacanza al weekend Claudio Cagnazzo 43 Tzvetan Todorov discorsi della varietà Stefano Cazzato a mediazione culturale, la teoria letteraria, l’epistemologia del discorso sono i tre ambiti nei quali si è andata sviluppando, a partire dagli anni ’60, la riflessione del semiologo bulgaro Tzvetan Todorov. Primo lavoro significativo di Todorov è la cura nel 1965 di un’antologia di scritti sui formalisti russi che diverrà, ben presto, la base teorica di una delle sperimentazioni letterarie più rilevanti e discusse del ventesimo secolo: lo strutturalismo. Il volume presentato da Todorov mette in circolo indicazioni critiche innovative come il riferimento alla centralità dell’opera (l’oggetto) rispetto all’autore (il soggetto), l’idea dell’arte come procedimento e costruzione invece che ispirazione, l’introduzione di una metodologia di studio empirica e scientifica in antitesi all’impressionismo psicologico dilagante. L’esordio formalista ispira, almeno fino alla metà degli anni settanta, la concezione todoroviana della poetica come una scienza diretta a rintracciare «le leggi generali che presiedono alla nascita di un’opera letteraria». Quella di trovare le leggi, le strutture, le invarianti, dietro l’apparenza e la transitorietà dei fenomeni particolari, non è una posizione isolata né nel campo della letteratura né in quello più ampio delle scienze umane. In Francia (dove Todorov emigra nel 1963 dalla Bulgaria socialista per affiancarsi al gruppo costituito da Lévi-Strauss al Collège de France) lo strutturalismo è una vera e propria moda intellettuale, consacrata nel 1968 dall’uscita di un’opera a più voci, alla quale anche Todorov partecipa, dal titolo Qu’estce-que le structuralism? (Che cos’è lo strutturalismo?) L leggi e variabili ROCCA 15 MAGGIO 2006 Tuttavia, negli anni successivi, Todorov, come altri intellettuali formalisti, lavora incessantemente a una rielaborazione dei capisaldi dello strutturalismo. Poetica della prosa, il suo saggio sulle leggi del racconto pubblicato nel 1971, viene salutato come un esempio di strutturalismo «dolce». Questo addolcimento non consiste solo nel relativizzare le tecniche di analisi e gli strumenti critici dello strutturalismo ma nel modificare la prospettiva generale da cui si guardano le produzioni umane e sociali, privilegiandone progres44 sivamente la storicità senza sottovalutarne però le strutture. Mentre si affievolisce il grande progetto di trovare l’universale nel particolare e di isolare l’unicità dalla varietà delle produzioni poetiche, l’interesse teorico di Todorov si allarga dall’universo letterario a quello simbolico e da quello simbolico a quello discorsivo. L’indagine delle variabili del discorso diventa più importante dell’individuazione delle sue leggi. Il compito dello studioso non è solo quello di formalizzare identità ma di conoscere ed esplorare differenze con tutte le conseguenze teoretiche, etiche e politiche di riconoscimento e di legittimazione che la scoperta dell’altro, irriducibile per definizione all’uno, comporta. Le opere che segnano progressivamente questo passaggio, a cavallo degli anni ottanta, sono soprattutto Teorie del simbolo e I generi del discorso. In Teorie del simbolo del 1977 viene introdotta, attraverso una ricostruzione temporale che va dai classici ai romantici, la fondamentale distinzione tra funzione imitativa (significazione) e funzione produttiva (simbolizzazione) dell’arte e più in generale del linguaggio. Se l’arte imita il mondo, il mondo che ne risulta è uno, oggettivo, non controverso, sempre identico a sé. Se l’arte, invece, produce delle interpretazioni o delle riflessioni sul mondo, il mondo che ne risulta è molteplice, soggettivo, differenziato. La diversità «è la conseguenza della varietà dei soggetti che si esprimono», che prendono la parola. Naturalmente questi soggetti non sono isolati gli uni dagli altri, vivono, pensano, agiscono, si esprimono secondo ideali e norme della propria epoca e della cultura a cui appartengono per cui le loro produzioni non sono mai rigorosamente soggettive ma sempre condivise e collettive. Todorov non supera l’oggettivismo ritornando al soggetto ma recuperando la dimensione sociale, relazionale, plurale della soggettività. «Oggi io credo – scrive Todorov – in una pluralità di discorsi: non uno soltanto, né infiniti; ma svariati. Ogni società, ogni cultura possiede un insieme di discorsi… Non vi è ragione di condannare l’uno in nome dell’altro, ma questo non significa nemmeno: ogni discorso è individuale e non assomiglia a nessun altro. Tra il discorso e i discorsi, ci sono i tipi di discorso». Il fatto che ci siano parentele, somiglianze, il problema dell’altro Le opere più recenti sviluppano, già a partire dai loro titoli emblematici (Il principio dialogico, La conquista dell’America, Noi e gli altri, La vita in comune), il tema del confronto con la diversità nel quadro di una riflessione più generale sulla morale che Todorov ha tematizzato sullo sfondo delle tre vicende probabilmente più drammatiche del XX secolo: i lager (Di fronte all’estremo), la guerra partigiana nei giorni dello sbarco in Normandia (Una tragedia vissuta), i totalitarismi (Memoria del male, tentazione del bene). Particolarmente significativa, perché paradigmatica della sua intera opera, è La conquista dell’America dove Todorov costruisce un vero e proprio mosaico delle relazioni con l’alterità passando in rassegna figure diverse di scopritori e colonizzatori del XVI secolo. Da Cristoforo Colombo a Cortés, da Bartolemeo de Las Casas a Cabeza de Vaca il rapporto con l’altro prende di volta in volta una caratteristica diversa ed esemplare: quella dell’assimilazione bruta, della comprensione strumentale finalizzata al dominio, dell’amore cristiano, dell’incontro interculturale. Storia di usurpazione e di massacri, di distruzioni e di razzie, la conquista costrin- ge tuttavia l’Europa e gli europei a porsi in modo nuovo il problema della conoscenza di sé, dell’altro e della conoscenza in genere. A partire da una logica identitaria la conoscenza «non consiste nel cercare la verità, ma nel trovare delle conferme a una verità già conosciuta in anticipo». Partendo, invece, dall’eterologia la conoscenza consiste nel pensare la verità come una costruzione dialogica e nel cercarla laddove si incontrano linguaggi, patrie, mondi diversi, laddove cioè la contaminazione non solo è possibile ma è anche desiderata come un traguardo umano superiore a quello della soggettività e dell’autocoscienza. Del resto, per Todorov un’opposizione dinamica e vitale, dal punto di vista di una teoria della conoscenza, non è quella tra verità e non verità, tra monismo e relativismo, tra identità e non identità, tra necessità e caso, ma tra differenze destinate a dialogare, tra possibilità destinate a incontrarsi. Per queste ragioni l’etichetta di semiologo sta assai stretta a un personaggio come Tzvetan Todorov il cui progetto è di più ampio respiro: spaziando dalla letteratura alla linguistica, dalla retorica all’ermeneutica, dall’antropologia alla storia della cultura, dalla filosofia all’epistemologia, la sua riflessione dimostra che non esiste un sistema monolitico delle idee e deriva dalla dissoluzione dell’idea di sistema il terreno sul quale possono convivere, senza preclusioni e egemonie, molteplici verità, tante morali, vari discorsi degli uomini. Proprio quei discorsi che Cristoforo Colombo non ascolta e nemmeno immagina, immerso com’è nella sua lingua, nella sua patria e nel suo mondo. A lui e ai moderni, come purtroppo a molti dei contemporanei, «sfugge la dimensione dell’intersoggettività, del valore reciproco delle parole, del carattere umano – e quindi arbitrario – dei segni». Stefano Cazzato Bibliografia I formalisti russi, 1965, Einaudi, 1968 Introduzione alla letteratura fantastica, 1970, Garzanti, 1983 Poetica della prosa, 1971, Teoria, 1989 Simbolismo e interpretazione, 1977, Guida, 1986 Teorie del simbolo, 1978, Garzanti, 1991 I generi del discorso, 1978, La Nuova Italia, 1993 Michail Bachtin, il principio dialogico, 1981, Einaudi, 1990 La conquista dell’America. Il problema dell’altro, 1982, Einaudi, 1984 Critica della critica. Un romanzo d’apprendistato, 1984, Einaudi, 1986 Noi e gli altri, 1989, Einaudi, 1992 Le morali della storia, 1991, Einaudi, 1995 Di fronte all’estremo, 1991, Garzanti, 1993 Una tragedia vissuta, 1995, Garzanti, 1995 La vita in comune, 1995, Pratiche, 1998 Memoria del male, tentazione del bene, 2000, Garzanti, 2001 ROCCA 15 MAGGIO 2006 MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO tipologie dei discorsi, e che compito della scienza sia quello di trovarle e di classificarle, non scalfisce la professione di fede dialogica con cui si chiude Teorie del simbolo: «Oggi noi siamo pronti ad affermare l’eterologia: i modi di significare sono molteplici, e irriducibili l’uno all’altro; la loro differenza non dà nessun diritto a giudizi di valore: ciascuno può essere esemplare nel suo genere». Il problema del genere considerato non tanto come un contenitore onnicomprensivo ma come un punto di vista regolativo utile per valutare differenze, variazioni, esemplarità ritorna programmaticamente ne I generi del discorso del 1978. Todorov dimostra che nella storia delle idee ci sono sempre stati prodotti artistici e linguistici non riducibili ai generi convenzionali, opere non coerenti col canone letterario comunemente accettato, discorsi eccentrici e devianti rispetto ai discorsi-tipo. Ma chi può dire che questi prodotti, queste opere, questi discorsi «altri» siano privi di valore? Se i generi esistono, allora, non sono classi logiche a priori, forme eterne ma produzioni e trasformazioni storiche che, per ragioni generalmente ideologiche, sono state preferite ad altri generi concorrenziali e istituzionalizzati. Ci sembrano forme assolute, leggi stabili, ma non lo sono. Scopo di una teoria del discorso è di tener conto di tutte le voci, quelle canoniche e quelle difformi, quelle letterarie e quelle ai confini della letteratura, attraverso «un’esplorazione delle potenzialità del linguaggio» che solo «un formalismo terrorista» può pensare di codificare rigidamente. 45 CHIESA 46 Benedetto XVI anno primo D i un pontificato allo stato nascente resta prematuro tentare un bilancio. Non ci sono che materiali per analisi congetturali e indiziarie. Molti lo aspettano al varco del rinnovamento dello staff dei collaboratori in Segreteria di Stato. Altri sono portati ad apprezzarlo per ora più sui contenuti dei testi, che scrive di propria mano, che sulle riforme strutturali. Prevale ancora il senso di una lunga vigilia, con l’incertezza che la accompagna. Ma è indubbio che dopo un regno di 27 anni durante il quale Giovanni Paolo II aveva preferito navigare sugli orizzonti messianici globali che stare alla barra del governo, ogni misura destinata a incidere sul potere dell’apparato centrale e sulle abitudini acquisite è difficile. Il papa attuale è portato per carattere più a misure omeopatiche che a interventi chirurgici sul sistema. In ogni modo, egli ha sbaragliato gli stereotipi troppo pigri e precipitosi che lo iscrivevano senz’altro nelle file degli agenti della restaurazione. Le opzioni principali del nuovo pontefice, così come sono emerse lungo il primo anno, mi sembrano fondamentalmente tre: 1) la ricerca del primato dello spirituale nella vita della Chiesa cattolica, col recupero della spinta del Concilio Vaticano II e il rifiuto della politicizzazione della fede; 2) il richiamo ai Movimenti, usciti con eccessi di potere dall’epoca wojtyliana, a integrarsi nella disciplina del sistema gerarchico della Chiesa, e il rifiuto del relativismo religioso, delle religioni come prodotto di consumo, riflesso del neoliberalismo individualista nel mondo del sacro contemporaneo; 3) infine, l’acquisizione del dialogo interreligioso come parte irrinunciabile e scelta irreversibile della Chiesa romana, specialmente in un’ora gravida di rischi per la pace mondiale, sotto l’attacco del ter- rorismo fondamentalista (considerato anch’esso una sottospecie particolarmente letale e globale di religione politica). dallo smisurato alla misura Benedetto XVI non ha trascurato occasione per convalidare il legame di continuità con Giovanni Paolo II. Ma come è apparso, soprattutto nel discorso al Corpo Diplomatico, se i piatti del menù sono gli stessi, la cucina è diversa, le salse tedesche sono differenti da quelle polacche. Verso il predecessore, Ratzinger si vuole impegnato in una missione di approfondimento e di raccolta, ma anche di esplorazione e di riflessione intorno alla complessa eredità ricevuta, in modo da aprirla a nuovi compiti. Dopo lo «smisurato» Wojtyla, è arrivata sul soglio la misura. La sobrietà è il nuovo stile impresso da Benedetto XVI al papato, dopo l’abbagliante regno di Wojtyla. Papa Ratzinger tiene fede alla promessa del primo discorso ai cardinali ai quali disse che compito del papa è di «far risplendere la luce di Cristo, non la propria luce». Non si tratta solo di estetica, ma di visione ecclesiologica. La diminuzione della figura del Successore di Pietro è un passaggio decisivo non solo per la riforma collegiale della monarchia assoluta del pontefice, ma anche per i progressi nel campo ecumenico. A lui non interessano le masse, ma le coscienze. Rieducare alla fede cristiana i nuovi analfabeti ex cristiani, i nuovi pagani, gli indifferenti non meno che i fanatici: per questa missione, che Ratzinger preferisce da sempre, egli insiste sulla necessità del dialogo tra fede e ragione moderna. l’anno dei due papi L’annuncio del processo di beatificazione il dialogo interreligioso di Wojtyla, in deroga all’attesa canonica di cinque anni, nel discorso al clero romano il 13 maggio, è servito a incanalare nel sistema istituzionale la gigantesca corrente di entusiasmo religioso suscitata da Giovanni Paolo II. L’avvio della causa, che non è una beatificazione a scatola chiusa, aiuterà a privilegiare l’approccio storico sulla complessa personalità e azione di Wojtyla. Ricondotta nell’ambito della ricerca storiografica, la figura di Wojtyla beneficierà di una lettura migliore della sua complessità e una maggiore chiarezza sulle sue interne contraddizioni. Papa Benedetto faceva sapere così di voler convalidare il vincolo di continuità tra i due papi, scongiurare il pericolo di una polarizzazione «diarchica» nel popolo cristiano, impedire una dissipazione nostalgica, disordinata dei «discepoli» di Wojtyla, reinvestire nel vissuto dell’intera Chiesa le loro energie spirituali, educandole a un maggiore senso della Chiesa al di là di indebiti culti privati e di un miracolismo puerile. In realtà il primo anno di Papa Ratzinger è stato l’anno dei due papi. Abbiamo assistito alla sovrapposizione spirituale e alla coabitazione mentale delle due figure di pontefici, evidente soprattutto alle Giornate Mondiali della Gioventù a Colonia. papa Benedetto XVI In alcuni suoi primi interventi era stata lamentata in particolare l’assenza di riferimenti al dialogo con l’Islam e si era potuta notare la dequalificazione del dialogo interreligioso al più trattabile dialogo fra le culture. Al contrario, alle Giornate Mondiali della Gioventù a Colonia, egli ha affermato nettamente che «il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani e musulmani non può ridursi ad una scelta stagionale» e che «esso è una necessità vitale da cui dipende in gran parte il nostro futuro»: una linea di non ritorno era stabilita rispetto alle aspettative e alle pressioni dei circoli del tradizionalismo cattolico. In questa prospettiva non poteva che suscitare perplessità la destituzione dell’arcivescovo Michael Fitzgerald dalla carica di presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso per essere destinato nunzio al Cairo, una sede peraltro di prima importanza per il dialogo con l’Islam. Nel discorso alla Sinagoga di Colonia egli ha ricordato i progressi registrati dopo la dichiarazione Nostra Aetate dal dialogo ebraico-cristiano, ma ha aggiunto che «resta però ancora molto da fare. Dobbiamo conoscerci a vicenda molto di più e molto meglio. Perciò incoraggio un dialogo sincero e fiducioso tra ebrei e cristiani: solo così sarà possibile giungere ad un’interpretazione condivisa di questioni storiche ancora discusse e, soprattutto, fare passi avanti nella valutazione, dal punto di vista teologico, del rapporto tra ebraismo e cristianesi47 ROCCA 15 MAGGIO 2006 ROCCA 15 MAGGIO 2006 Giancarlo Zizola A questo processo comparativo, del resto inevitabile, il papa teologo ha reagito semplicemente presentandosi nella identità propria, con i suoi caratteri sobri, essenziali, teologici. Non ha giocato la carta del seduttore, ma del pudore quasi monastico. Ha scartato le improvvisazioni, le mimiche, le ola, il bacio della terra. Alieno dal trionfalismo papolatrico non meno che dalle illusioni costantiniane, il suo stile ha voltato pagina rispetto a Giovanni Paolo II. Il suo linguaggio si è affidato non ai gesti, ma alle parole, non agli slogan e agli effetti emotivi ma alla forza e al rigore delle argomentazioni teologiche e facendo appello sistematicamente alle fonti bibliche e patristiche. la Chiesa pellegrina compagna dell’umanità Papa Benedetto si è fatto l’apostolo di un cristianesimo interiore, giocato sul48 le convinzioni della coscienza. Egli ha dichiarato la sua adesione alle linee fondanti del Concilio Vaticano II, difeso il principio del dialogo della Chiesa con la società, riconoscendo la necessità per la fede cristiana di mettersi all’ascolto dei fermenti, delle angosce e delle aspirazioni del mondo. Al cristianesimo di massa e spettacolare di Wojtyla, egli ha risposto valorizzando un cristianesimo più personale, ancorato ad un’idea della fede come «pellegrinaggio interiore», come ricerca infaticabile più che come riconquista di posizioni di potere mondano. Egli ha invitato chiaramente la Chiesa, e non solo i giovani che lo ascoltavano, a ripristinare la massima attenzione verso gli aspetti spirituali della ecclesiologia. È un’evoluzione importante, rispetto ai cedimenti al nuovo temporalismo, se non ad una nuova religione politica, dell’epoca della restaurazione post-conciliare. Recuperando il linguaggio della Chiesa della misericordia e spazio della tenerezza, tipico di Giovanni XXIII, l’antico difensore del Dogma ha rilanciato il modello di una Chiesa pellegrina negli accidentati percorsi della storia, compagna dell’umanità, senza ambizioni di potere politico, al rovescio d’un modello di nuova cristianità carolingia, competitiva sul piano dei poteri mondani. Mi pare che egli sia impegnato a una ripresa dell’essenza sacramentale della Chiesa, quale riscoperta dal Concilio Vaticano II, per riequilibrare la spinta impressa da Wojtyla sulla funzione pubblica e sul ruolo sociale della Chiesa. Dunque, una Chiesa più «serva e povera» che «società perfetta». Non a caso è tornato a mettere in valore il tema della povertà della Chiesa, anche nel discorso al concistoro per i nuovi cardinali. Tutte le figure ecclesiali, inclusa quella del papa, devono essere ridefinite in questa luce. Capitali l’allocuzione natalizia alla curia romana e il discorso al collegio degli scrittori di «Civiltà Cattolica»: nel primo ha dimostrato che il Concilio Vaticano II fa parte organica della tradizione della Chiesa (così rompendo in un punto di volta la critica dei lefebvriani), nel secondo ha sottolineato la necessità di compiere la realizzazione delle riforme conciliari, riconoscendo che sono rimaste inadempiute. In secondo luogo, Benedetto XVI si è accinto a un compito di pacificazione interna della Chiesa. Già a Colonia, e poi nell’udienza ai neocatecumenali, ha det- to chiaramente le esigenze di recupero istituzionale dei movimenti dell’entusiasmo religioso, con non infrequenti attrazioni integraliste. Ha rappresentato ad essi la necessità di tornare a un più rigoroso rispetto delle esigenze di comunione e di obbedienza al papa e ai vescovi, gli unici garanti che la ricerca della fede non avvenga su sentieri privati. Ai neocatecumenali ha detto chiaro che il periodo di sperimentazione concesso loro da Giovanni Paolo II è finito. Notevole l’ingiunzione a Radio Maria polacca, uno dei mostri sacri dei movimenti wojtyliani, di cessare la propaganda antisemita e di allinearsi sulla dottrina del Concilio. E nella previsione della riconciliazione con il movimento scismatico dei tradizionalisti lefebvriani, il papa si è fatto aiutare dal plenum dei cardinali per rafforzare l’esigenza di un riavvicinamento non incondizionato, in special modo sulla irrinunciabilità della dottrina della libertà religiosa, in modo da definire con precisione i limiti di un sano pluralismo nella Chiesa romana. relativismo e disperazione Nei discorsi di Colonia e in altre allocuzioni si è notato un atteggiamento più positivo in Benedetto XVI verso il mondo contemporaneo. Non è consigliabile dimenticare che anche questo papa si porta dietro la propria storia, che è la storia di un fine intellettuale, vissuto più tra i libri che tra la gente, che ha studiato la povertà più di quanto l’abbia vissuta e che per tutta la vita ha pensato il mondo dal baricentro cognitivo dell’Europa occidentale. Tuttavia non si deve cadere nell’errore di fare di un papa la fotocopia «oggettiva» di ciò che era stato. E nel caso di Ratzinger egli aveva dimostrato, da teologo e da cardinale, molta più complessità intellettuale di quanta non gliene venga riconosciuta dai pregiudizi, sempre troppo pigri. La stessa enciclica sull’amore ha convalidato un approccio fondamentale che era già nel giovane Ratzinger, attirato dall’ottimismo di San Bonaventura e dalle visioni di Gioachino da Fiore. L’enciclica ha riconosciuto apertamente il valore dell’evoluzione moderna verso l’autonomia del politico e la riscoperta della dignità della persona umana, ammettendo che la Chiesa è giunta in ritardo su queste conquiste storiche, malgrado fossero già in seme nel Vangelo. il dialogo tra cristiani Una delle crisi ereditate da Benedetto XVI riguardava la paralisi dei rapporti tra Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, in particolare con il Patriarcato di Mosca. In alcuni mesi una nuova primavera tedesca ha permesso il disgelo su questo difficile terreno. Le relazioni con la Chiesa russa sono tornate buone dopo la visita del cardinale Kasper, presidente del Pontifico Consiglio del dialogo fra i cristiani, al Patriarca Alexei. Uno dei più severi critici della politica della Santa Sede, il Patriarca della Chiesa serba Pavle ha preso l’iniziativa di offrire uno dei monasteri della sua Chiesa per la ripresa dei lavori, sospesi da cinque anni, della commissione internazionale del dialogo fra cattolici e ortodossi nel prossimo settembre. Il documento sull’autorità nella Chiesa in agenda potrà determinare, si può prevedere, il clima della visita di Benedetto XVI al Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo in programma a Istanbul in novembre. Ritengo che l’impronta dell’ecumenismo di Ratzinger sia piuttosto interessata a delle misure concrete per far avanzare effettivamente il cammino dell’unità fra i cristiani. A Bari, il 29 maggio 2005, Ratzinger ha preso l’impegno di «misure concrete» e non di «buoni sentimenti» per spingere i rapporti con gli Ortodossi al di là della crisi. È sorprendente riconoscere questo aspetto pratico nell’approccio di un papa piuttosto intellettuale. In questo senso anche la restaurazione di una prassi di comunione e di coordinazione nell’esercizio del mandato papale è finalizzata a diminuire l’eccessiva imponenza della figura papale sulla Chiesa, per riportarla «nella» Chiesa: è evidente che questa operazione ha una immediata portata ecumenica. decentramento del potere romano Non possiamo dimenticare che il cardinale Ratzinger aveva preso sul serio la proposta di riforma dell’esercizio del primato lanciata da Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint (1995). È probabile che egli si dedichi ora a mettere in pratica le misure di riforma concepite nel convegno di studio da lui organizzato dopo quell’enciclica. Alcuni passi del tut- ROCCA 15 MAGGIO 2006 ROCCA 15 MAGGIO 2006 CHIESA mo. Questo dialogo, se vuole essere sincero, non deve passare sotto silenzio le differenze esistenti o minimizzarle: anche nelle cose che, a causa della nostra intima convinzione di fede, ci distinguono gli uni dagli altri, anzi proprio in esse, dobbiamo rispettarci a vicenda. Infine, il nostro sguardo non dovrebbe volgersi solo indietro, verso il passato, ma dovrebbe spingersi anche in avanti, verso i compiti di oggi e di domani. Il nostro ricco patrimonio comune e il nostro rapporto fraterno ispirato a crescente fiducia ci obbligano a dare insieme una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico per la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo e della sacralità della vita umana, per i valori della famiglia, per la giustizia sociale e per la pace nel mondo». È da osservare infine che, in entrambi gli interventi, agli Ebrei e ai Musulmani, il papa ha riconosciuto le colpe della Chiesa, in particolare per quanto riguarda l’antisemitismo e le guerre di religione combattute contro l’Islam. «Il ricordo di questi tristi eventi, ha detto, dovrebbe riempirci di vergogna, ben sapendo quali atrocità siano state commesse nel nome della religione. Le lezioni del passato devono servirci ad evitare di ripetere gli stessi errori. Noi vogliamo ricercare le vie della riconciliazione e imparare a vivere rispettando ciascuno l’identità dell’altro. La difesa della libertà religiosa, in questo senso, è un imperativo costante e il rispetto delle minoranze un segno indiscutibile di vera civiltà». Nel testo papale indirizzato agli Islamici è marcata l’idea che il dialogo fra le religioni è di vitale importanza per debellare l’idea della «violenza della verità» e sconfiggere il paradigma del Dio in armi, del Dio della guerra. Egli si è fatto iniziatore di una nuova alleanza fra cristiani e islamici per isolare il terrorismo e promuovere la giustizia e la pace internazionale. Egli ha offerto ai Musulmani una grande alleanza per colpire in un punto decisivo la dannazione del terrorismo. Coerentemente ha voluto reagire alla distruzione della moschea di Samara e deprecare con forza l’offesa portata alla coscienza dei seguaci dell’Islam dalle vignette insultanti verso il Profeta. 49 50 un passo del volume del teologo Ratzinger «Il nuovo popolo di Dio» laddove, auspicando lo scioglimento del legame tra papato e patriarcato d’Occidente, affermava che «accettare l’unità con il Papa non significherebbe allora più aggregarsi ad una amministrazione unitaria, ma semplicemente inserirsi nell’unità della fede e della communio, riconoscendo al Papa il potere di una interpretazione vincolante della Rivelazione portata da Cristo e sottomettendosi quindi a questa interpretazione dove avvenga in forma definitiva». Secondo questa visione del futuro papa, la cristianità orientale non dovrebbe mutare assolutamente nulla nella sua concreta vita ecclesiale in conseguenza della sua unità con Roma, una unità che «potrebbe essere altrettanto impalpabile come nella Chiesa antica», incluse misure per la «ratificazione» dell’assegnazione delle sedi episcopali centrali, lo scambio delle lettere pasquali tra Chiese d’Oriente e d’Occidente, la convocazione di sinodi o concili comuni, la citazione del vescovo di Roma nel canone della Messa, come era abituale prima dello scisma. questioni etiche Non credo che il papa sia disposto ad abbassare la guardia nel compito, che è il suo, di rivendicare il primato del diritto della vita sul diritto di proprietà, e di innalzare la voce critica sulle derive del consumismo neoliberale per difendere le coscienze dalle nuove servitù e dai servilismi di massa nella società secolarizzata, anzi banalmente secolarizzata. Tuttavia può essere che egli voglia riconoscere ai pastori delle diocesi una più grande autonomia nelle valutazioni concrete e nelle decisioni sui sacramenti ai divorziati, nello spirito della misericordia congiunta al realismo che è caratteristico della grande tradizione morale della Chiesa cattolica. Del resto la nomina immediata del cardinale statunitense Levada, di orientamento aperto, come suo successore alla testa della Congregazione per la Dottrina induce a ritenere che il disegno di Benedetto XVI sia di contenere gli orientamenti integralisti e massimalisti di alcuni circoli della curia, rifiutando l’equivalenza tra il dovere dell’intransigenza sui principi e l’immediata applicazione precettistica e oltranzista di quei principi in una società pluralista. Giancarlo Zizola FATTI E SEGNI quale pace? Enrico Peyretti E stremo – «Il varo di una guerra totale con l’uso di testate nucleari esplosive contro l’Iran ora è nella fase finale di pianificazione». Lo scriveva in febbraio Michel Chossudovsky (Università di Ottawa, originale in www.globalresearch.ca). Lo conferma all’inizio di aprile Seymour Hersh sul New Yorker citando una fonte dei servizi che descrive i preparativi come «enormi», «febbrili» e «operativi»: «Bush vuole usare l’atomica». Si parla tanto di sciocchezze e troppo poco di gravità estreme, o per smentire, o per sventare. Per potere opporsi alle pretese di cui è accusato l’Iran, senza creare maggiore estrema violenza, la legge deve essere uguale per tutti, altrimenti è incoraggiata la violazione. O l’arma nucleare è vietata effettivamente a tutti, oppure chi la vuole se la procura. La prima minaccia è nel privilegio. Politica 1 – Al punto più basso della campagna elettorale è risuonata l’affermazione che «sono dei fessi gli elettori che non fanno il proprio interesse». Questo pensiero rivela quale infimo concetto della politica ha e pratica l’uomo che lo ha espresso. C’è un altro pensiero: «Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne [uscirne] tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia [l’egoismo]» (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967, p. 14). Politica ed egoismo sono l’opposto l’una dell’altro. Avere come principale e decisivo criterio politico il proprio particolare privato interesse, è la negazione della politica. La quale è la ricerca del bene di ciascuno entro il classico «bene comune». Senza di ciò non c’è la politica, la vita insieme, ma la guerra di tutti contro tutti, lo smembramento della società (essere soci) in bande di rivali. Un popolo «privatizzato» non è più un popolo. Senza popolo non c’è demo-crazia, ma al massimo la demo-cratura (dittatura elettiva). Politica 2 – La campagna elettorale non ha abbastanza mostrato agli elettori che in Italia è in pericolo il principio costituzionale, cioè il valore di una legge superiore alla volontà di qualunque maggioranza. La Costituzione non contiene solo le regole prime, ma anche i valori storici e programmatici della comunità politica: la giustizia e la pace, la libertà non individualista ma solidale. La politica è pace, vivere insieme, altrimenti è contraffazione della politica. La pace è nonviolenza positiva, la forza più umana, la più giusta difesa dei diritti, la liberazione dalle armi, che non ottengono mai la pace. Altri- menti è illusione di pace. In genere la classe politica, su quasi tutte le sponde, non ha questa cultura, non conosce le esperienze di lotte nonviolente, pensa la pace solo in termini negativi, non esclude la violenza dai mezzi della politica. Difendere la Costituzione dalle degenerazioni autoritarie è la prima condizione per realizzare questi suoi valori. Quale pace – «Domandandoci che cosa ci sia in noi da odiare, ci siamo considerati e trovati gente assolutamente rispettabile, innocua e bonaria, che chiede solo di essere lasciata in pace a far soldi e a divertirsi». Scriveva queste attuali parole, nel 1962, Thomas Merton, statunitense, monaco trappista, famoso scrittore e poeta. I superiori religiosi gli proibirono di pubblicare il libro, perché un monaco non deve occuparsi di pace e guerra. Egli però lo diffuse ciclostilato in centinaia di copie, che arrivarono anche in Concilio, ed è ora finalmente stampato nelle edizioni Qiqaion, della Comunità di Bose, La pace nell’era postcristiana. Religione – «Quando la religione ha benedetto la violenza, la violenza non è diventata sacra, ma la religione è diventata sacrilega. La religione ne è uscita profondamente infangata, ma doveva essere già infangata per patteggiare con la violenza». Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace (Ed. Plus, Pisa 2004, p. 170). Scandalo – Non avevo ancora vent’anni e centellinavo La vita intellettuale di padre Sertillanges, un libro della mia formazione. Conservo quel libro, ne ricordo pensieri e consigli (non tutti seguiti). Ora apprendo da una recensione di Chiesa e guerra. Dalla «benedizione alle armi» alla «Pacem in terris» (Il Mulino 2005) che, durante la prima guerra mondiale, che Benedetto XV definì «inutile strage» chiedendo la pace, Sertillanges proclamò: «Santo Padre, non vogliamo saperne della vostra pace!». Ciò mi delude e mi scandalizza. Certo, tutto va contestualizzato. Ma la guerra era uccidere allora come oggi, e non c’erano scuse né allora né oggi. Era, in un maestro, un grave errore, una deficienza grave, un conformarsi al mondo. Anche i maestri, ovviamente, ieri oggi e sempre, vanno ascoltati con coscienza critica. Violenza – La nostra «non è affatto l’età della violenza: è l’età della consapevolezza della violenza», scrive Jacques Ellul (Contre les violents, Wien, Le Centurion 1972, p. 7). ❑ 51 ROCCA 15 MAGGIO 2006 ROCCA 15 MAGGIO 2006 CHIESA to iniziali in questa direzione sono stati avviati: restituzione di parziali poteri autonomi al Sinodo dei Vescovi, rimessa in vigore della collegialità nel rapporto non solo formale tra il papa e il collegio dei cardinali, per alcune decisioni cruciali (il dialogo con l’Islam, le condizioni di recupero dei lefebvriani). Anche la riforma della curia in cantiere mira a ridurre la potenza dell’apparato centrale, così come la riduzione del presenzialismo della figura papale, in passato troppo invasiva, favorisce di fatto il recupero della pluralità dei centri ecclesiali, in particolare delle conferenze episcopali. La sovranità spirituale del pontefice non può che essere rimessa in luce dalla riforma delle incrostazioni storiche, anche di costume, che di nuovo prolungano l’eco della sovranità temporale del papato rinascimentale. Voglio tuttavia sottolineare che già con il pontificato di Giovanni Paolo II la figura del papa-re è apparsa veramente soltanto una memoria storica, avendo avviato una fase di transizione che ha sostituito le basi materiali e geopolitiche del papato con una piattaforma prevalentemente simbolica, nutrita dalla comunicazione globale del suo messaggio e della sua stessa figura. Mi sembra che vada presa in considerazione la tesi svolta dallo storico Paolo Prodi nella postfazione alla nuova edizione del suo classico «Il sovrano pontefice» (Il Mulino, 2006): si va verso una delocalizzazione della Chiesa in un mondo multiculturale, e la creazione di diocesi non territoriali e di figure canoniche globali come i movimenti, molto flessibili nel loro statuto, è destinata a modificare radicalmente la gestione del ministero petrino, l’esercizio del primato. Del resto il relativo fallimento dei tentativi ecumenici di ridisegnare una forma accettabile del primato pontificio deriva a mio parere dal fatto che non si è affrontato finora con la serietà necessaria il problema della fine dell’idea occidentale di missione e di una nuova forma del ministero petrino. Da questo punto di osservazione la rinuncia di Benedetto XVI al titolo di patriarca d’Occidente rappresenta una liberazione del papato dalla rigida connessione con un assetto territoriale ereditato dall’Impero romano per la cristianità latina. Significa dunque procedere verso misure di riforma tali da consentire un discernimento più chiaro dell’ufficio autentico del successore di Pietro. Inviterei a rileggere gettati nel mondo Arturo Paoli A chi come me ha identificato il senso della propria vita nell’annunzio del vangelo, il tempo attuale offre molte motivazioni che aiutano a star bene al mondo, in un mondo che non sta niente bene. E intendo lo star bene come l’essere soggetto attivo e trovo una descrizione luminosa in queste parole di Pierangelo Sequeri riportate in un libro di Galimberti (1): «il simbolo della parola che viene da Dio polarizza un certo numero di parole tramandate su Dio. La parola testimoniale è qui assorbita nella sfera di una simbolica permanenza dell’evento rivelatore, assumendo caratteristiche differenziali e irriproducibili rispetto a ogni altra mediazione della fede e a ogni altra ispirazione dello Spirito». Perché ricorrere a citazioni di citazioni se vivi quotidianamente questa esperienza? Proprio perché trovo una conferma alla mia esperienza in tematizzazioni che non capirei a fondo se non le scoprissi a partire dalla mia esperienza. Questa è la gioia permanente che ci riserva il vangelo. Non una interpretazione più sottile e attualizzata del testo, ma la scoperta sorprendente della presenza dello Spirito nella storia umana. Questa presenza attualizza il senso stesso complessivo di questo piccolissimo libro messo nelle mani dell’umanità. «amorizzare» il mondo ROCCA 15 MAGGIO 2006 Per cui vedo con sempre maggiore chiarezza che oggi il termine evangelizzazione non è più sinonimo di catechizzazione e ancora meno di conquistare, fare proseliti. Mi sembra molto più vicino al termine coniato da Teilhard de Chardin amorizer le monde, amorizzare il mondo. Anche se il verbo appare generico, se preso come tema di vita, pregato sistematicamente, svela i suoi sensi molteplici in eventi reali. Il testo evangelico da annunziare è muto, finché non venga parlato, continua Sequeri, ma spesso anche parlato è muto e lo dichiarano continuamente coloro che assistono a delle liturgie commentate da omelie talvolta dotte, ma vuote di spirito perché la scelta di vita di chi pronunzia parole non è in sinto52 nia con lo spirito del tempo. I centri di formazione del prete che ha il compito essenziale di evangelizzare, sono generalmente borghesi, che significa lontani dalla scelta dei poveri indicata come essenziale richiesta del tempo, non minestra riscaldata, ma richiesta vitale gridata dalla palude della post-modernità. Gli ambienti di formazione dei preti non sono borghesi solamente per le comodità che offrono ma per una pedagogia che polarizza la parola di Dio più nel pensiero che nel cuore e nel sentimento, creando persone decentrate dal Gesù vivente oggi in mezzo a noi, con noi. Colui che prima di sparire nell’invisibile ci ha giurato non vi lascerò. La secolare abitudine di fissare le parole nella verità congelata in un concetto astratto che, come ha detto Heidegger, non si sa che sia finché non diventa reale, ha preso questa promessa sarò con voi fino alla fine del mondo come un’assicurazione garantita, indipendentemente dagli eventi e dall’accettazione dei soggetti umani. Mi appare sempre più un segno e vorrei dire un insegnamento la ricerca inquieta che potrebbe apparire quasi nevrotica del neo convertito Carlo de Foucauld del dove. Dove trovare questo Gesù che ha promesso di essere qui – va bene; ma dove? –. L’Eucarestia pare calmare questa ansia: dove lo troverai più facilmente che lì? Ma il Gesù randagio, il Gesù che è venuto a portare la vita, non creatore di vita, ma restauratore dove la vita non è piena e soprattutto dove la vita è colpevolmente, criminosamente negata, lo troverai fermo in adorazione? L’adoratore non può essere tanto sicuro di averlo trovato davvero nell’Eucarestia se non quando Egli lo getta fuori nel mondo, fra gli ultimi, alle porte di Roma tra i lebbrosi come dice la leggenda rabbinica sul ricercatore del Messia. Uomini di chiesa che, per paura del relativo, non si staccano dagli esseri assoluti, non affrontano i veri grandi problemi del mondo cristiano, si consolano dei seminari pieni di giovani rassicurati di raggiungere i loro obiettivi, potere – prestigio – sicurezza che sono obiettivi antievangelici. I pensatori laici, facendo scendere l’ente nella vita, hanno scoperto l’unità e l’interdipendenza del- l’esistenza che si esprime L’uomo soggetto unico di questo compito di amorizzare il mondo non può essere un’anima che abita in un corpo, ma un corpo in relazione con il mondo. Quindi l’uguaglianza degli uomini è saldamente legata non solo all’atto creatore ma è legata ontologicamente a questa unica relazione con il mondo. Seguendo l’autore citato da Galimberti, vi trovo un’osservazione piena di senso: «quando l’essere gettato nel mondo ha il sopravvento sul progetto nel mondo, quando la fatticità domina la trascendenza, abbiamo una rottura nel modo di essere dell’esistenza che invece di esprimersi nella possibilità propriamente sua resta ferma su una realtà costituita in una solidità intrascendibile» (2). È un condensato di idee che richiede uno svolgimento di molte pagine. L’essere gettato nel mondo è per noi credenti un’espressione dura, ma moltissimi viventi che professano un credo religioso, autenticato dalla chiesa cattolica, affermando un Dio creatore vivono da gettati nel mondo, con le cose e con gli altri, così come li trovano, senza trascenderli, vivono senza assumerli come senso della propria esistenza. In alcuni versetti della bibbia trovo un’allusione a questa trascendenza di cui si parla nel testo citato. Dio mette sotto lo sguardo del primo uomo gli esseri creati per vedere come li avrebbe chiamati – cioè quale senso avrebbe dato loro – così l’uomo impose il nome a tutti gli esseri (Gn 2, 19-20). La ricerca degli assoluti nell’orizzonte della fede e della razionalità ha creato un mondo di esseri umani schizoidi, che agiscono con una parte di se stessi: con l’anima agiscono spiritualmente, con la mente razionalmente, con il corpo economicamente e affettivamente e sessualmente. L’erotismo sessuale generalmente praticato nel nostro tempo, l’economicismo che ha preso il posto nel luogo abitato prima dal sacro sono la conseguenza di una antropologia astratta e spiritualista. Lo scontro diventato comportamento politico e contenuto dei comizi politici, rimpiazzando le ideologie spente dal progetto globalizzazione, non sono effetto di una cultura che ha frantumato e vivisezionato la persona? Impossibile che si ricomponga in unità senza una voce potente che la richiami dalla pluralità all’unità come il Lazzaro in decomposizione, vieni fuori, fuori da questa verminosa tomba del consumismo, fuori da questo campo di concentramento circondato da filo spinato, vigilato dall’alto della torretta, dal personale del tempio dell’idolo mercato. Lévinas, il filosofo profeta, ha ascoltato questa voce, fatto gemito. I filosofi dell’occidente andando al lavoro quotidiano hanno trovato la strada sbarrata. Fermatevi, non fuggite, non oltrepassate la frontiera di questo mondo. Si sono spenti i forni crematori ma si estendono sempre di più le zone di sterminio percorse in lungo e in largo dai tre cavalieri dell’apocalisse, la fame, la peste (ora sotto il nome di aids), la guerra. Lévinas ha raccolto le forme della morte nel simbolo del volto che all’imbocco della strada metafisica blocca i filosofi che vanno al lavoro. Ritornati in mezzo agli uomini, quante cose stanno riscoprendo! Hanno riscoperto fra loro lo Spirito di Dio, che è come un vento che non sai da dove viene e dove va. È quello stesso che ogni mattina mi parla della sua presenza in quella libertà del mondo che rimpiazza la non libertà dell’essere dominato da un determinato progetto di mondo. Le ideologie che hanno dominato nel passato il nostro occidente come lo stato, il partito, il capitale, sono cadute e non risusciteranno più. Bisogna che l’uomo spinga il suo sguardo sul mondo in cui vive e, a partire dai danni esistenti rappresentati nei volti devastati dei fratelli, cominci a costruire un mondo diverso, non fondato su progetti astratti creati da lui, ma sui bisogni reali dell’uomo e sui valori di giustizia, di libertà e di amore che sono leggi inerenti all’esistenza umana. ROCCA 15 MAGGIO 2006 CERCATE ANCORA la persona, il corpo, l’anima, la psiche, la sessualità, l’affettività. E questo unum nel mondo con gli altri e con le cose. Vi sono molti estensori di trattati sulla giustizia che faticano tutto il giorno senza prendere coscienza che con il loro stile di vita, abbassano il livello di vita di milioni di esseri umani, dalla povertà alla miseria più paralizzante. Legare la persona umana a una identità assoluta come quella di Boezio che ha attraversato i secoli «rationalis naturae individua substantia» un essere naturalmente individuo, sostanzialmente razionale vuol dire mettere nel mondo l’uomo del capitalismo, un mosaico di pezzi in una dinamica permanente guidata solo dal pensiero. L’unità cercata fuori dal contingente della vita reale, è un sogno criminale di chi non ama veramente né la vita né il Creatore della vita perché allontana la persona dal mondo e dalla responsabilità verso il progetto evolutivo che deve muoversi senza soste verso il Bene. Arturo Paoli Note (1) Umberto Galimberti, La casa di psiche, Feltrinelli, Milano 2005. (2) Op. cit. 53 le origini del mondo Carlo Molari n uno degli ultimi numeri di Rocca ho richiamato alcune discussioni in atto in ordine al rapporto tra scienza e fede (La nostalgia dei figli delle stelle, Rocca 7/2006, pp. 50-51). Vorrei continuare la riflessione con l’esame di uno dei temi più ricorrenti in questo ambito: quello relativo all’origine del mondo e della vita. Uno degli aspetti più sorprendenti in queste discussioni è la difficoltà di molti a superare alcuni modelli diffusi, come quello che lega in modo esclusivo la fede in Dio creatore ai problemi delle origini dell’universo o della vita sulla terra. Sia da parte degli scienziati che da parte dei teologi o dei credenti c’è la tendenza a parlare di Dio creatore solo in rapporto alle origini. Per cui ogni volta che si acquisiscono nuovi dati scientifici su questi temi, che potrebbero favorire la prospettiva dei credenti, c’è sempre qualche teologo che cavalca le ultime acquisizioni scientifiche per difendere la fondatezza della fede in Dio o la presunta dottrina di fede sulla creazione, e c’è sempre qualche scienziato che mette in guardia da possibili estrapolazioni teologiche. Ne consegue che per molti il problema delle origini è un ambito di perenne potenziale conflitto tra scienza e fede. I ROCCA 15 MAGGIO 2006 Dio chiamato in causa inutilmente Nel dicembre scorso a Bruxelles si è riunito, come ogni anno dal 1911, il Consiglio della Fisica Solvay, composto da 80 fisici di ogni parte del mondo. Il tema era «Alle frontiere della fisica moderna. La struttura quantistica dello spazio e del tempo». Un settimanale francese ha presentato il 54 Scrive ad esempio Daniel R. Altschuler: «Crediamo di sapere a grandi linee quando e dove la vita ebbe inizio, e stiamo cercando di capire se avrebbe potuto svilupparsi anche altrove, ma come ebbe inizio non lo sappiamo ancora. Comprendere come la vita abbia fatto la sua comparsa è una delle sfide più affascinanti che abbiamo di fronte... Comprendiamo i complessi processi biochimici utilizzati dalla vita, nonché l’organizzazione e l’evoluzione dei sistemi viventi, ma non sappiamo come la vita abbia avuto inizio. È giusto ammetterlo: finché non avremo colmato questa lacuna, non potremo davvero affermare con certezza che cosa è la vita, e i nostri tentativi di darne una definizione resteranno necessariamente incompleti» (L’universo e l’origine della vita, Oscar Mondadori, Milano 2005, p. 158). Ma poi la riflessione aggancia immediatamente l’ambito della fede e viene posto il problema di una possibile causa trascendente: «Naturalmente si potrebbe sempre dire: ‘e poi vi fu un miracolo’, ma non ci piace usare i miracoli per dare un nome alla nostra ignoranza. È meglio ammettere di non sapere bene come stanno le cose, che è del resto un’ottima ragione per continuare a indagare, nella speranza che, come molti altri miracoli del passato sono stati ricondotti infine alla ragione scientifica, così accada, prima o poi anche con questo» (Id., ib). Occorre riconoscere che la tradizione apologetica ha spesso favorito questo modo di argomentare e ha reso quindi facile la confusione degli ambiti di riflessione. Tale modo di ragionare rivela un difetto di metodo oltre che una concezione inadeguata dell’azione divina e della creazione. due ambiti completamente distinti Si pone infatti sullo stesso piano l’esperienza di fede e l’esperienza scientifica mentre esse sono chiaramente distinte e le loro acquisizioni non si possono sovrapporre. La religione si interroga sull’atteggiamento da assumere (la fede appunto) per vivere in modo fruttuoso e armonico la condizione di completa e totale dipendenza in cui la creatura si trova e che l’uomo è in grado di esercitare consapevolmente. La verità scientifica invece riguarda come abbiano avuto origine le cose e come si stiano evolvendo. I contenuti delle due esperienze non hanno alcun punto di convergenza e quindi di possibile contrasto. Esse però, per l’armonia della persona che si trova a viverle entrambe, debbono essere proposte e formulate con gli stessi modelli culturali. Il conflitto può presentarsi in chi non è in grado di armonizzare gli oriz- zonti culturali delle due esperienze. Credere in Dio creatore significa ritenere che la Realtà (il Bene, la Vita, la Bellezza, la Verità) ha già una espressione compiuta e piena, di cui tutte le componenti del nostro universo sono parziali e frammentarie manifestazioni e da cui tutte continuamente dipendono nella loro esistenza ed azione. Questa convinzione si alimenta con l’esperienza delle conseguenze che l’esercizio della fede ha nella vita del credente. D’altra parte l’atteggiamento di abbandono fiducioso e di accoglienza, che costituisce la fede, viene assunto per la testimonianza di chi mostra nella propria carne quali ricchezze umane fioriscano in chi vive la fede. Per noi cristiani è di decisiva importanza la testimonianza offerta da Gesù nella sua avventura, che ha segnato profondamente la storia umana. L’azione creatrice, però, non potrà mai essere rilevata dall’esperimento scientifico. Essa infatti rende possibili i processi del cosmo alimentandone le dinamiche, ma senza sostituirsi mai ad esse, dato che la sua natura è di rendere possibili le creature e di costituirle nella loro realtà, non di operare al loro posto. Solo quando perviene a livello umano, l’energia creatrice consente la verifica della sua realtà più profonda, negli sviluppi di modalità inedite che fa fiorire nelle creature, se il rapporto è vissuto in modo consapevole. Lo scienziato rileva le dinamiche fisiche e chimiche dei processi creati, il credente coglie le spinte superiori che la forza creatrice suscita nell’uomo. Giustamente l’ex ministro francese dell’Educazione nazionale Claude Allègre afferma: più fede e scienza «sono separate, meglio va sia per gli uni che per gli altri... Lasciamo Dio insediarsi nella coscienza dei credenti e la scienza svilupparsi senza implicarlo» (in Le point n. 1735, 15 dicembre 2005, p. 71). Anche se gli ambiti sono distinti, le persone possono viverli ambedue e formulare le proprie esperienze in modo da mostrane l’armonia. In questo senso credo sia sensato l’interrogativo di René Girard: «Perché Dio non potrebbe fare del tempo e del caso le risorse di una creazione mai interrotta?» (ib., p. 65). Come anche valida, per altro verso, credo l’osservazione di Brian Green: «guardate le strutture straordinariamente ricche delle stelle, delle galassie, dei buchi neri, dei quasar e dei pianeti, che sono emerse secondo gli ultimi lavori sulle leggi della fisica. Queste leggi costituiscono il più meraviglioso principio creatore che abbiamo incontrato» (ib., cit., p. 68). ROCCA 15 MAGGIO 2006 TEOLOGIA resoconto della seduta con l’aggiunta di alcune interviste con il titolo di copertina: «Dio di fronte alla scienza. Ma chi ha creato il mondo?» (Le Point n. 1735, 15 dicembre 2005). Il primo articolo (Dio, la scienza e l’origine del mondo, pp. 62-65) sostiene che la scienza, ricercando costantemente di risalire alle origini dell’universo per spiegarne le modalità, intende sottrarre il tema alla religione e si trova perciò in perenne conflitto con la teologia. «La ragione e la fede si disputano la risposta alla questione della nostra presenza nell’universo, s’affrontano sul problema di sapere se il nostro universo è solo o accompagnato da altri, se è stato... concepito per accoglierci o se è retto solo dal caso. È in gioco sia per la scienza che per la religione la loro sopravvivenza» (p. 63). Se, infatti, argomenta l’autrice (Èmilie Lanez) si imponesse «l’ipotesi di un dio» gli scienziati dovrebbero «adattarsi alla funzione di decodificatori più o meno brillanti di una complessa sceneggiatura scritta da un Creatore». Se la scienza al contrario «confutasse definitivamente l’esistenza di un Dio, allora la religione dovrebbe accontentarsi di non essere altro che una morale, più o meno virtuosa. Lotta infinita. Ogni passo avanti della scienza fa vacillare la religione». Siamo in piena confusione: sia la scienza che la dottrina della fede avrebbero lo stesso oggetto e si escluderebbero a vicenda. L’articolo, come si vede, accenna al ‘principio antropico’ (sul quale vedi la chiara esposizione di Greco P., Teoria scientifica o atto di fede? in Rocca 5/2006, pp. 32 ss.), che si è prestato più di altri temi ad alimentare la confusione tra i due ambiti di riflessione. Scrivono ad es. Degrasse Tyson N. e Goldsmih D.: «Come molte altre idee affascinanti, l’approccio antropico si presta ad essere utilizzato a favore (almeno in apparenza) di vari costrutti mentali di natura teologica e teleologica [= finalistica]. Alcuni fondamentalisti religiosi vedono in esso un sostegno alle proprie convinzioni, poiché all’umanità viene assegnato un ruolo centrale… Un oppositore di una simile conclusione osserverebbe che l’approccio antropico non implica nulla del genere; a livello teologico una simile prova a sostegno dell’esistenza di Dio implicherebbe che Egli è il creatore più sprecone che si possa immaginare: un creatore capace di dare vita a innumerevoli universi solo perché la vita possa nascere in un piccolo settore di uno solo di essi» (Origini. Quattordici miliardi di anni di evoluzione cosmica, Codice, Torino 2005, p. 72). Anche sull’origine della vita sulla terra molti discutono riproponendo le stesse confusioni con le medesime ambiguità. Carlo Molari 55 CINEMA Susanna un grido di protesta ROCCA 15 MAGGIO 2006 Lidia Maggi 56 a vicenda di Susanna, raccontata nel libro di Daniele, poteva uscire fuori dalla penna di Camilleri. È un giallo con elementi di denuncia sociale: giudici corrotti, mancanza di solidarietà verso il più debole e colpevolizzazione della vittima. Niente di nuovo sotto al sole. La storia narra di come due anziani ebrei, incaricati di esercitare la giustizia nella diaspora di Babilonia, utilizzano la propria carica per guadagni personali. I due giudici un giorno accusano Susanna di adulterio. Dichiarano di averla colta in flagrante con un giovane nel giardino della casa. Noi sappiamo che mentono. In quel giardino eravamo presenti, nascosti tra i cespugli di parole del narratore. Abbiamo udito nei dettagli di quella passione insana dei due uomini per la giovane donna: la vedevano ogni giorno passeggiare nel giardino e la desideravano ardentemente (Daniele 13,8). Sappiamo di come questi, approfittando della momentanea solitudine della ragazza, abbiano importunato e ricattato la vittima: i cancelli del giardino sono chiusi. Nessuno ci vede. Noi bruciamo di desiderio per te. Non respingerci, ma concediti a noi. Se ti rifiuti, ti accuseremo e diremo che eri con un giovanotto e che hai mandato via apposta le serve. Abbiamo udito Susanna gridare aiuto: sono senza scampo, se cedo a voi, potrò essere condannata a morte per adulterio; se mi rifiuto, non potrò sfuggire alle vostre mani. La ragazza si è sentita in trappola, un uccellino catturato nella rete che continua a dimenare le sue ali rifiutando di arrendersi: preferisco essere vittima innocente piuttosto che offendere il Signore… Il suo urlo è così forte da far accorrere la gente. Ma i due uomini l’accusano di adulterio. A nulla serve che Susanna si proclami innocente. Le denuncie dei due ufficiali, preposti a garantire la giustizia, vengono accolte: tutti credettero alle parole dei due perché erano capi del popolo e giudici; perciò condannarono a morte Susanna. L Bravo Daniele, per aver preso le difese della ragazza. Hai osato dire quello che probabilmente tutti sapevano: finora voi vi comportavate così con le donne di Israele ed esse per paura venivano con voi. Che tu sia lodato per aver smascherato il complotto prendendo le deposizioni dei due accusatori separatamente. La corte ha avuto modo di verificare le discordanze e aprire gli occhi sull’inganno. A te Susanna, cosa posso dire? Non sei lodata nel racconto né considerata la vera eroina della storia. Sarai ricordata come casta vittima della lussuria anziana. Se ti verrà riconosciuto del coraggio, è per aver protetto le tue virtù fino alla morte. Sono tuttavia convinta che tu non abbia urlato solo per proteggere il tuo corpo. Hai continuato a denunciare un sistema ingiusto persino dopo la condanna, quando ormai non c’era più nulla da fare. Protestavi per l’ingiustizia, e non ti rassegnavi a percorre un destino già annunciato. Sei uscita dal silenzio di tante vittime mute per smascherare i tuoi carnefici. Volevi liberare te stessa e la tua comunità da quei giudici iniqui. Alla fine ci sei riuscita; Dio, il vero giudice, ha ascoltato la tua preghiera. E ti ha difesa, mediante il coraggio e l’arguzia di Daniele, capace come te di protestare contro la corruzione, e di farsi ascoltare. Un uomo, si sa, ha diritto ad essere ascoltato; una donna no. L’ingiustizia per te inizia già qui, dalle tue parole non prese sul serio nemmeno dai tuoi familiari. Più che un lieto fine individuale, la tua storia ci comunica un grido il cui eco non si è ancora esaurito. La tua vicenda è solo un inizio, un primo segno di uno sguardo diverso sulla storia: non più lo sguardo rassegnato del notaio, che prende atto della situazione ma quello profetico che qui denuncia l’ingiustizia e, successivamente, annuncerà che le stesse figlie diventeranno profetesse, che non ci sarà più discriminazione tra uomo e donna, tra il grido dell’uno e quello dell’altra. Noi sappiamo che se non faremo udire questo grido, urleranno le montagne! D on Pietro Pappagallo-La buona battaglia di Gianfranco Albano è un film di produzione televisiva (una «fiction», come si dice assoggettati all’inglese) che la prima rete della Rai ha trasmesso in due tempi alla fine del mese di aprile. Don Pappagallo è stato un sacerdote, un uomo che in nome della sua fede e della sua forza morale si è battuto per il prossimo, per la giustizia, per la libertà. Un comportamento che dovrebbe essere naturale e spontaneo in tutti. Don Pappagallo non ha voluto essere un eroe. Il suo diventa eroismo allorquando, in una situazione estrema, in cui ciascuno tendeva soprattutto a salvare se stesso, egli si è messo a disposizione degli altri, senza distinzione di fede religiosa e di ideologia, fino al supremo sacrificio di se stesso. La sua «buona battaglia» è stata questa. Non sono stati pochi coloro che nei mesi bui dell’occupazione tedesco-fascista di Roma, dal settembre 1943 al giugno 1944, hanno lottato per il bene comune. In questo senso la figura di don Pappagallo ne riassume certamente molte altre. Roberto Rossellini si ispirò a due sacerdoti romani che parteciparono alla Resistenza, per creare la figura del suo sacerdote di Roma, città aperta (1945). Per un lungo periodo si è creduto che il personaggio prevalente fosse quello di don Giuseppe Morosini, ma forse prevale proprio quello di don Pappagallo: vale la pena di ricordare che il personaggio interpretato da Aldo Fabrizi si chiama, appunto, don Pietro. Gianfranco Albano, che ha alle spalle una intensa e importante esperienza di critico cinematografico e di regista di sceneggiati e Giacomo Gambetti Don Pietro Pappagallo Storia e film di documentari per lo più televisivi, ha affrontato con coraggio il personaggio di don Pappagallo, usufruendo di una bella sceneggiatura di Furio e Giacomo Scarpelli, la quale giustamente immette il personaggio nel contesto corale e temporale dell’epoca. Né gli sceneggiatori né il regista hanno avuto timore del confronto col colosso storico di Rossellini, né faremo noi qui un paragone che sarebbe sbagliato: sbagliato soprattutto perché un conto è il tempo «a caldo» del ’45, e un altro conto è parlare di quegli avvenimenti sessanta anni dopo. Rossellini aveva in mano il fermento di fatti appena avvenuti, il vibrare di tensioni presenti non solo negli autori del film ma soprattutto negli occhi e nella mente degli spettatori. E se oggi Roma, città aperta è un film storico, in altro senso è storico anche questo Don Pietro Pappagallo. Albano, dunque, innanzitutto mette in evidenza con misura e chiarezza la situazione del personaggio in rapporto con «gli altri», e come un po’ alla volta cresca in lui l’esigenza morale del far fronte a una realtà così imprevista quanto crudele. La sua scelta è spontanea e naturale. Uomo di campagna e di popolo, non più giovanissimo mise a disposizione degli altri tutto il suo aiuto, quasi inventando una sorta di rete di protezione e di aiuto contro violenze e soprusi. Catturato all’inizio del ’44, molto probabilmente per la delazione di qualcuno da lui stesso aiutato, fu rinchiuso a Regina Coeli e quando, a seguito della azione partigiana di via Rasella, i nazisti decisero il massacro delle Fosse Ardeatine, don Pappagallo fu anch’egli fra quelle vittime. Era nato a Terlizzi, circa ventimila abitanti nelle Murge, in provincia di Bari nel 1888 (don Morosini in quegli stessi giorni veniva fucilato a Forte Bravetta, e questa è la sequenza finale di Roma, città aperta. Una citazione del film di Rossellini, in quello di oggi, è nel momento in cui a don Pappagallo viene mostrato un amico mentre viene torturato). «Quando mi fu proposto di girare questo film – ha avuto occasione di dichiarare Albano –, la storia di don Pappagallo, uomo cono- sciuto per la sua infinita generosità, disposto a ospitare chiunque avesse bisogno di sfuggire ai nazifascisti e attivo nel procurare cibo e documenti, fui dominato da sentimenti contrastanti, spavento e euforia: una storia importante e, finalmente, un film sulla Storia; insieme a molte paure, per mettere in scena fatti realmente accaduti, non tradirli, non tradire la memoria delle persone che quei fatti avevano realmente vissuto e per i quali sono morti». Albano non ha dimenticato il pensiero del «cinema italiano degli anni ’40, quello della stagione neorealista che è stata fondamentale per la mia formazione culturale e professionale. [...] Tra i trecentotrentacinque caduti delle Fosse Ardeatine c’è anche Gioacchino Gesmundo, pure lui di Terlizzi, allievo di don Pietro e figura importante della Resistenza romana. Dopo gli anni del neorealismo non è più stato fatto un film degno sulla Roma di quei terribili mesi del ’43». Flavio Insinna è il bravo protagonista del film, in una interpretazione voluta in sottotono, che giustamente non nasconde l’accento dialettale, per partecipare come uno del popolo a una grande vicenda popolare. È anche per questo che, come si è detto all’inizio, è anche grazie a questa interpretazione che la figura di don Pietro non è quella predeterminata di un eroe. Se gli otto mesi della occupazione di Roma sono stati mesi tremendi di sacrifici, vittime e terrore, altri undici mesi analoghi sarebbero trascorsi in altre città e in altre parti d’Italia prima della Liberazione. Tanti altri sconosciuti uomini, laici e religiosi, hanno dato la vita in nome della Giustizia. ❑ 57 ROCCA 15 MAGGIO 2006 EVA E LE SUE SORELLE RF&TV ARTE Roberto Carusi Renzo Salvi Mariano Apa Reality Italia Sacro e profano ROCCA 15 MAGGIO 2006 L ’occasione primaverile «profana» è la messinscena della commedia L’Ascensione di Augusto Novelli, uno dei più brillanti autori in vernacolo toscano del primo Novecento. Il perché del titolo è presto detto: è inveterata tradizione fiorentina che, quando la Chiesa festeggia l’Ascensione di Nostro Signore, si vada al parco delle Cascine a raccogliere grilli. I quali – venduti in colorate gabbiette – son pegno d’amore da offrire all’amata, quasi fossero preziosi anelli di fidanzamento. Da uno scambio – fortuito per un verso, voluto per un altro – di uno di tali omaggi entomologici nasce una serie di equivoci che rendono divertentissimi i tre atti a lieto fine di Novelli. Merito anche degli interpreti: una bella compagnia, variegata per età, che sarebbe ingiusto definire soltanto amatoriale. Li affianca infatti il Cenacolo dei Giovani, un «centro di formazione» per attori e attrici. A condurre il buon ritmo dei duetti e delle scene corali, il corretto ritmo della regìa di Giorgio Ceccarelli. Luogo della rappresentazione il Teatro di Cestello, nello storico quartiere fiorentino di San Frediano. Convincente la distribuzione delle parti tra una quindicina di interpreti, tutti all’altezza, tra i quali tuttavia si distinguono per le colorite caratterizzazioni Mario Martelli, nei panni del parroco, e Manuelita Baylon, l’ortolana, che cesella anche un bonario prologo in rima. Intorno a lei un geniale tableau vivant di tutti i personaggi, immobili nell’atteggia58 mento tipico di ciascuno come nelle foto d’epoca degli Alinari. E veniamo al sacro vero e proprio: Gràssina (frazione del Comune di Bagno a Ripoli, alle porte di Firenze). La ricostruzione della Passione di Cristo, con settecento figuranti, sulla toscanissima collina di Mezzosso – che, la sera del Venerdì Santo, si trasforma via via nei vari luoghi deputati della narrazione evangelica – è un’antica tradizione toscana che risale ai primi anni del 1600. I cittadini che si fanno attori e attrici per una sera (ma vi lavorano, ovviamente, tutto l’anno) sfilano in corteo per le vie del piccolo centro tra due ali di folla assiepata fin dalle ore precedenti l’evento. Intanto tra gli alberi della collina i figuranti agiscono gestualmente sulla base di una registrazione di musica classica e voci recitanti. La inappuntabile regìa si deve ad Antonio Bernini, Marco Lepri e Ivano Villa, con i quali collaborano altre persone coordinando il corteo storico. Sorprende il bel ritmo fluente di questa narrazione per quadri didascalici eppure originali, taluni dei quali sono di particolare suggestione per il felice abbinamento di luci e suoni. Vale la pena di ricordare la radiosa Natività che vede avanzare pastori e magi sulle note dell’Alleluja di Haendel, la Nona di Beethoven sottofondo al Discorso della montagna, la Morte in croce fra tuoni e lampi scanditi dal verdiano Dies irae. ❑ C ’è da riflettere sulla duplicazione del reale che s’è infiltrata nella compagine sociale italiana anche per l’uso, iniziato negli anni Ottanta, del mezzo televisivo. C’è da riflettere per gli esiti di una tendenza che induce il Paese, nella sua quotidianità, a vivere e a viversi «come se...»: come se le situazioni alle quali dedicare tempo fossero – ad esempio – le ricostruzioni della realtà che fanno da fondale agli psicodrammi ed alle pseudo-gare dei moltissimi, ormai, Reality (sic) di cui sono diffusi i palinsesti tv. Nel periodo attuale, ché i palinsesti giostrano pro tempore, alcuni mondi Rai prediligono i reality/gara che vanno dalle Notti sul ghiaccio di RaiUno alla Music Farm di RaiDue – cessata su quest’ultima L’isola dei famosi – mentre su Canale5 non era ancora concluso Grande fratello che già La fattoria vi aveva esondato oltre ogni argine e Campioni/Il sogno si inseriva «realitycamente» negli spazi di Rete4. Tipica di questa programmazione è la modalità di porre chi non ne sa proprio (di un’attività, di un’esperienza, di un comportamento) a far cose, questa o quella, in cui è manifesta la sua totale incompetenza, talvolta – nelle situazioni «gara» – affiancandolo ad un esperto, e comunque ponendo un gruppo, un tandem o un’accozzaglia di singoli «contro» gli altri: il sapore del conflitto e dell’esclusione è fondamentale in ciascuna di queste ir/ realtà fatta, poi, splafonare nei tempi tv, con serate lunghe, appuntamenti quotidiani, collegamenti, rimandi e nottambulate; e con possibilità di voto, a premiare, a punire, a scegliere o condannare, che riversano sul pubblico le apparenze della par- tecipazione e del potere. Per modi diversi si è agli aspetti deteriori del quisque faber fortunae suae: nel reality che si manifesta sullo schermo e in quello cui prende parte chi allo schermo tv si pone di fronte: simil-attivo, in realtà, ma quasi protagonista e dominus, realitycamente. Per induzione tv, non diverso da questo pubblico televisivo, anche perché ampiamente sovrapponibile, è chi si ritiene, nella vita reale, titanico autore dei propri destini e detentore (deteriore: «padroni in casa nostra») di piccoli poteri da esercitare in propri recinti. A questi aspetti molti italiani tengono davvero molto, vi ci sono affezionati per interesse, anche se un po’ se ne vergognano. Ed anche in questo c’è sovrapponibilità tra un’ampia parte di pubblico televisivo e una parte, non piccola, di elettori che nei sondaggi pre/elettorali si vergogna e negli exit-poll si fa gaglioffa, mentendo nei primi e truccando nei secondi, quando, con ghigno tutto-denti (chi ricorda?), depone nell’urna finta, extra seggio, un voto opposto a quello che ha appena deposto nell’urna vera. Siamo alla perversione da inchiesta raccontata in Magic Town, film commedia del 1947, con James Steward (che si dovrebbe raccomandare ai nostri sondaggisti). Se tutto è un reality, poi, ciascuno deve (aver l’impressione di) contar davvero per far vincere «i suoi»: sull’isola, nella fattoria o nell’urna. Sicché se il mio presunto/ famoso non vince è perché gli altri, pubblico o elettori, hanno truffato meglio di me: nel «mio» reality la «mia» sconfitta non è prevista. Citando: il risultato deve cambiare. ❑ FOTOGRAFIA Alberto Pellegrino Claudel/Rodin C on il Rilke (e la Solomè) del «Diario Fiorentino» – più che non con l’apparente specifico diario da quasi segretario: «Auguste Rodin» (del ’28) – si può leggere questa mostra «Claudel et Rodin. La rencontre de deux destins», alla Fondazione Pierre Gianadda a Martigny, fino a giugno, con un felice catalogo curato da Yves Lacasse e Antoinette Le Normand-Romain, struggente in un allestimento dove il documento d’archivio, la foto dei protagonisti e delle opre in studio, le opere in bozzetto o proprio concluse in sé; squaderna un vissuto – che ritroviamo nel recente utile «Corrispondenza», il volume curato da Riviere e Gaudichou per la milanese «Abscondita –, un vissuto che si indovina e che poi anche si tocca con mano rimanendone elettrizzati, proprio a leggere quei Rilke e ad inseguirla nelle lettere. Si tratta di entrare nella Firenze estetizzante del praghese e da lì, da quella porta, entrare nella Parigi dell’Hotel Biron e di boulevard d’Italie, quai de Bourbon, l’Islette, il Clos Payen, negli studi di Rodin e di Claudel inseguendo poi questa ultima nel giro degli istituti psichiatrici, fino al 1914 in Valchiusa nella clinica di Montdevergues, dove morirà nel 1943. La sorella di Paul Claudel, Camille – su cui la Felici di Pisa ha tradotto: «Mia sorella Camilla», a cura di M.A. Di Paco Triglia: «Io la rivedo, questa ragazza orgogliosa, nella fioritura trionfale della bellezza e Argalia - Ritratti del genio, e nell’ascendente spesso crudele», scriveva Paul, «che lei esercitava sulla mia giovane età» –, è cresciuta tra Alfred Bouchet e Auguste Rodin, tragicamente matura nella sua infinita giovinezza, ha praticato la scultura come un continuo racconto di autoerotismo. Lontana dalla potente formalizzazione delle stilizzazioni in arcaizzanti anatomie, da parte del genio di Bourdelle, e così pure lontana dalla idealizzazione formale di un accattivante quanto educato classicismo, da parte di Maillol, senza la paura per il Maestro dantesco – la «Porta dell’Inferno» è pensata da Rodin dal 1880/1881 – a cui in inquieto intreccio si ritrovò sui bordi della putrefazione – nel riflesso, per esempio, della «Clotho» di Claudel con la «Colei che fu la bella heaulmière» di Rodin –; Camille Claudel fu artista di solido luminismo e di plasticismo realizzato nell’introspezione materica del pensiero della forma. E un olio di Letizia de Witzlewa e i due busti di lei eseguiti dal medesimo Rodin – nel 1889 – e dalla amica Jessie Lipscomb, insieme alle foto scattate da César – di cui una pubblicata su «L’Arte Decorativa» del luglio 1913, a quattro mesi da un primo internamento –, ci dimostrano nell’anatomia dei suoi sguardi il disincanto verso una società trovata impraticabile, in favore di un sentimento della rinuncia in cui si afferma incurante la propria autodistruzione. ❑ A driana Argalia, che occupa da tempo un posto di rilievo nel panorama della fotografia italiana, ha pubblicato alla fine del 2005 un volume interamente al femminile intitolato «Ritratti. Orizzonti femminili» (Edizioni Donne Arti Professioni Affari, Jesi), in cui affianca al tradizionale e sempre intenso uso del bianco e nero l’impiego del colore con risultati senz’altro apprezzabili, che rivelano una concezione della realtà che viene filtrata, interpretata e rappresentata in chiave poetica, suggerendo una continuità espressiva e stilistica presente nel ritratto come lo era nel paesaggio urbano e naturale, un genere a cui l’autrice si era dedicata in precedenza con ottimi risultati. Più legati alla sua poetica tradizionale sono i ritratti in bianco e nero, fra i quali trovo particolarmente significativi l’anziana signora e la giovane donna del 1981, la giovane veneziana del 1982, Il Clown del 1986, la Diana del 1993, la giovane operaia del 1997 e, su tutte queste immagini, quello «scatto» di Palazzo Fortuny (Venezia, 1982), così intenso di riferimenti allegorici e così ritmato nel gioco delle ombre con la felice intuizione di quel ta- glio di luce radente da sinistra. Accanto a questo percorso all’Argalia più nota, troviamo un percorso parallelo dove emerge una voglia di penetrare più a fondo nel nostro tempo, di ricercare nuove strade espressive, di sperimentare nuove possibilità cromatiche e compositive, che vanno dal realismo geometrico della «Mascherina 2003» alle ultime immagini in cui si cercano atmosfere più rarefatte, sfumate e movimentate da un uso controllato del «mosso» e della «trasparenza» (Silvana 2004, Katia 2005, Shathi 2005, Pasiones, 2005, Dama con ventaglio, 2005). Al centro di questo percorso tutta una serie di ritratti dove si registra un giusto predominio di volti di donne e bambine appartenenti a diverse etnie, affascinanti incursioni nel mondo dello spettacolo (Carnevale di Fano 2003, Concerto per la pace 2004), il bisogno di interrogare in modo suggestivo una realtà femminile da «leggere» attraverso l’uso insistito dei dettagli (il grande fiore rosso di «Alberta 2005», il binocolo nero proteso fuori campo di «Myriam 2005», le due incursioni nel mondo della stampa femminile sempre del 2005). ❑ 59 ROCCA 15 MAGGIO 2006 TEATRO SITI INTERNET MUSICA Enrico Romani 60 pie l’ennesimo innesto, fatto di suoni latini e spunti jazzistici. Insomma, se Musicology era il requiem e il testamento di un grande talento, questo 3121 è il punto dove il poli-strumentista fissa i blocchi per una nuova partenza, per un nuovo scatto prolungato fatto di incisioni, se soltanto vuole, impareggiabili. Ci viene un po’ da sorridere sugli «incartamenti» di certa stampa specializzata che prima definisce il disco dello scorso anno dei NERD di Pharrell Williams, molto bello peraltro, come superamento dell’ottica «princeiana», per poi dire che lo stesso sventurato Williams, alla luce di questo Cd, non raggiungerà mai i livelli di Prince. Bella scoperta: qui troviamo brani dance conditi delle consuete piccole opere melodiche («3121» e «Lolita»), una delle più belle canzoni «spanglish» come «Te Amo Corazon», un uso dell’elettronica tanto melodico quanto sperimentale («Black Sweat»), la maestria di Prince di comporre sontuose ballate d’amore, cantate con quella voce dal timbro atipico ma capace di ogni virtuosismo («Incense And Candles» e «Satisfied»), momenti hip-hop o dannatamente rock (rispettivamente «Love» e «Fury»). E poi funk morbidi come «The World», in cui il genio di Prince, oltre che nella melodia, si manifesta anche nella scelta della chitarra acustica (!) per il giro di base, e un assolo di chitarra, lui «hendrixiano», in stile Santana, perché Prince sa bene che la maggioranza della popolazione americana sta diventando quella immigrata di origine ispanica. E poi come conclude, il Nostro? Con un funk straripante, ovviamente («Get On The Boat»), con il sassofono jazz di Maceo Parker a farla da padrone. ❑ Web 2 P resso il grande pubblico è ancora quasi sconosciuto e in Italia (niente di nuovo sotto il sole) stiamo aspettando che arrivi l’onda lunga americana prima di impiantarlo (in pompa magna, c’è da scommetterci) anche da noi. Ma nei fatti esiste già e, ovviamente, con una denominazione che lo identifica: Web 2. Di che si tratta? Più facile da usare che da spiegare, anche se un abbozzo di descrizione vogliamo tentarlo comunque: vengono raccolte sotto la sintetica denominazione di Web 2 una serie di tecnologie integrate e convergenti che consentono una (finora inedita e singolare) personalizzazione dei siti Internet. Quando oggi visitiamo un sito, i suoi contenuti e la rispettiva collocazione sono fissi, stabiliti da chi realizza il sito: il visitatore può semplicemente consultarli e, tutt’al più, scaricarli. Ben diverso il Web 2: un sito realizzato con queste tecnologie permette infatti ad ogni visitatore (dopo previa registrazione) di preselezionare l’ambito di contenuti che vuole stabilmente visualizzare, in quale posizione della pagina, con quali caratteristiche grafiche ecc. Insomma una vera rivoluzione, che peraltro va intesa non come un modello fisso, chiuso in una sua definitiva identità, quanto piuttosto una rielaborazione aperta, una tappa di trasformazione e ridefinizione permanente del web quale tecnologia e tipologia di comunicazione informatica. Il nostro lettore potrà iniziare a farsi un’idea più chiara e concretamente fruibile collegandosi ad esempio a www.netvibes.com, sito in inglese (per le ragioni sopra accennate) ma buon esempio della varietà di contenuti e di opzioni selezionabili per creare un modello personalizzato (e permanentemente modificabile, se si vuole) di accesso ad un sito in grado di rispondere subito alle nostre specifiche esigenze di consultazione. Le tipologie contenutistiche cui si applicano le tecnologie Web 2 sono diverse e si prestano a soddisfare, tendenzialmente, le più svariate esigenze dei navigatori. Così, ad esempio, se Netvibes si presenta come un collettore generalista di contenuti informativi e di funzioni di servizio, altri siti puntano a offrire prestazioni specifiche. È quel che accade, ad esempio nell’ambito della messaggistica, con www.meebo.com, dove in un’unica pagina possono essere raccolti i messaggi provenienti da strumenti diversi, quali Msn Messenger, Yahoo! Messenger, GTalk, Icq e altri programmi. Se invece si tratta di elaborazione di testi, l’utente può trovare gratuitamente in Internet, senza bisogno di portarli con sé sul proprio computer, programmi di videoscrittura analoghi a Word, o in grado di produrre documenti pdf, nei siti www.writely.com e www.goffice.com. Per non dire dei siti di condivisione di foto online, e della loro notevole versatilità di personalizzazione, di cui ad esempio www.bubbleshare.com è un interessante modello. Web 2, ossia personalizzazione e impiego sempre più mirato e funzionale delle potenzialità operative di Internet. Proprio quel che la rete dovrebbe essere per chi, come a noi piacerebbe, intende servirsi di Internet quale utile supporto alla propria attività, creatività, conoscenza. ❑ Antonio Roversi L’odio in rete. Siti ultras, nazifascismo on line, jihad elettronica Il Mulino, Bologna 2006, pp. 197 L’autore, insegnante di Sociologia delle comunicazioni, ha studiato i siti web dei movimenti fascisti e neonazisti italiani e dei gruppi armati mediorientali. Egli, stando sempre seduto davanti al suo computer, ha, via Internet, «frequentato l’ambiente» di quei gruppi. Circa i siti della destra estrema, è emerso un mondo tenuto assieme da una ossessiva riproposizione dell’idea che la violenza è sempre una cosa buona, bella e apprezzabile. Tale idea della violenza come valore positivo è assorbita nel quadro di una più generale visione politica di estrema destra, che, sul piano della comunicazione, usa abondantemente il turpiloquio. Uno dei temi preferiti risulta essere la negazione dello sterminio nazista e fascista degli ebrei. Circa i siti dei gruppi armati mediorientali, la caratteristica dominante risulta essere l’indottrinamento finalizzato alla lotta contro l’Occidente, che starebbe distruggendo i valori dell’Islam, valori cui peraltro i siti non fanno mai specifico riferimento. Il tutto si risolve in un inno alla violenza mirata. È insomma un viaggio, per certi aspetti allucinante, entro il lato oscuro della Rete, che evidenzia ancora una volta l’ambiguità di Internet. Come attraverso di esso si può contribuire alla realizzazione di un democratico villaggio globale, così si possono ampliare e radicalizzare l’incomunicabilità e i conflitti. Fare di Internet l’ambito entro cui realizzare una costruttiva interazione tra sistemi di valori diversi è la sfida che, alla fine della lettura del volume, si prospet- ta come decisiva per la convivenza globale. Romolo Menighetti Anna Stomeo Intrecci: teatro-educazione-new media Amaltea edizioni, Castrignano dei greci (Le) 2006, pp. 208 Frutto di attività diretta sviluppata con gli studenti di Scienze della Formazione – Università di Lecce – il primo dei due volumi si presenta come un robusto lavoro che tratta il tema «teatro» sempre aperto ad imprevedibili intrecci e stimolanti approfondimenti. L’introduzione «Gioco e teatro: il corpo e le emozioni a scuola» è di Salvatore Colazzo, curatore delle suddette attività. Egli sottolinea che i due termini reciprocamente si richiamano nei vari contesti sociali. Infatti il «giocare» è sempre un mettersi in gioco che costituisce sì fantasia ed autoinganno, ma anche instaura «una distanza dalla realtà, un cambiamento di scena» il che è proprio rappresentazione. La dimensione del gioco significa capacità di guardare le cose in forma alternativa e questa prospettiva è propria dell’uomo, sia nel periodo dell’infanzia sia nell’età adulta. Il lavoro teatrale, come laboratorio di animazione nella scuola evidenzia una propria valenza educativa in quanto veicolo di relazione sociale e di comunicazione. Anna Stomeo prosegue in una trattazione molto puntuale e documentata arricchita da numerose schede e pagine antologiche, sugli intrecci fra teatro, educazione e creatività conducendo con maestria il lettore dall’analisi delle prime teorie pedagogiche che valorizzano l’individuo nel suo processo educativo, via via fino al neocognitivismo costruttivista. Qui innesta il rapporto tra improvvisazione e creatività agganciando la connessione corpo-mente a rappresentare la centralità della comunicazione non più del singolo soggetto che si confronta con l’esterno, ma dei vari soggetti tra di loro. Successivamente osserva il legame tra teatro, scuola e società, sempre più abitato in questi ultimi anni da molteplici sperimentazioni pionieristiche che fanno dello spettacolo uno strumento di comunicazione collettiva, che si interfaccia con il sociale. Si parla di teatro di animazione, di laboratorio teatrale in un quadro di rapporti tra «formale e informale, scolastico ed extrascolastico» che negli ultimi decenni ha suscitato l’interesse della pedagogia sperimentale e della scuola istituzionale. Da segnalare l’accuratezza dei riferimenti bibliografici utili ad ulteriori approcci. Caterina Dalle Ave Servizio nazionale progetto culturale (a cura di) Il tempo della festa Dieci voci per riscoprire la domenica, San Paolo, Cuneo 2005, pp. 146 Un libro attuale, in linea con l’anno dell’Eucaristia, che mira a valorizzare i diversi vissuti che possono o dovrebbero animare la festività cristiana domenicale. Già nella presentazione viene posta in rilievo la preoccupazione di «parlare» intorno a qualcosa che, invece, dovrebbe essere il «vissuto». Ed è per diminuire tale rischio che il libro offre quali strumenti dieci «verbi» che sono appunto i vissuti della festa: ringraziare, mangiare, comunicare, cantare, danzare, ridere, giocare, donare, riposare, cessare/iniziare. Il discorso su ognuno di essi è aperto dalla presentazione di un’opera (pittorica, poetica, musicale…) per suscitare le prime spontanee reazioni al lettore che potrà poi confrontarsi con l’esperto chiamato a esprimersi sull’argomento. È un libro che intende stimolare il desiderio di «fare» e i «modi di vivere» la festa cristiana, che invece nella nostra cultura vengono poco o male praticati. Ad esempio, nella riflessioni sul «danzare», Sante Badolin, docente alla Gregoriana, vede la danza come movimento corale e insieme individuale che celebra la gratuità del dono. Così anche nella Celebrazione eucaristica la corporeità dovrebbe esprimersi in danza, come gioia per la salvezza ricevuta quale dono assoluto, e aggiunge che sarebbe auspicabile un fecondo ritorno alla forza di un danzare che è fatto di gesti simbolici. Con essi si partecipa all’evento di salvezza che viene sempre nuovamente donata… un danzare che si fa danza al ritmo di quella musica che lo Spirito fa udire a ciascuno nella celebrazione eucaristica. Così, nel capitolo «riposare» il gesuita Marko Ivan Rupnik afferma che il riposo è un permanere nella comunione con le persone e sentirsi al proprio posto perché si è insieme agli altri»: E continua: «riposo veramente solo se vivo relazioni sane e belle. Allora la solitudine è quella veramente spirituale perché è assente il peso dell’ombra delle tenebre, identificabile nei rapporti strappati, isolati, di autoaffermazione». Come si può evincere da questi stralci, il libro ridà valore ad aspetti della festa che la liturgia potrebbe sollecitare e riprendere perché ogni persona sia aiutata a vivere la domenica come dono ricevuto e dato. Laura Castaldo 61 ROCCA 15 MAGGIO 2006 ROCCA 15 MAGGIO 2006 G Giovanni Ruggeri Il ritorno di Prince ià nel 2004 con Musicology Prince Roger Nelson aveva dato cenni di risveglio dopo le scelte coraggiose ma discutibili degli anni ’90. Il piccolo grande genio di Minneapolis, colui che era stato uno dei pochissimi grandi degli anni ’80, vendeva ormai i suoi album unicamente on line, e sotto le sigle più disparate: qui ricordiamo solo T.A.F.K.A.P., che stava per «The Artist Fuckin’ Known Aka Prince», appellativo comprensibile senza alcun bisogno di traduzione. I tempi non erano però ancora maturi per una commercializzazione, anche di buone intuizioni da parte del Nostro, unicamente via Web. Così Musicology fu il primo degli album che voleva tornare a pubblicare a suo nome, anche se quel disco, peraltro di ottima fattura, era la risultante di un bel compitino di illustrazione del suo mondo musicale. Ora, con 3121, il nuovo album di recente uscita e primo per la Virgin, Prince va ben oltre, riaffermando con forza la sua totale supremazia quando in ballo c’è tutta la musica nera ma anche buona parte di quella bianca. Attraverso un Cd un po’ «ruffiano» e di non difficilissima fruizione, rispetto agli standard dell’artista, Prince affronta però, nessuno escluso, tutti i generi di cui si è trasversalmente occupato, e che durante la carriera ha via via fuso, rivoluzionando la black music almeno quanto avevano già fatto i vari James Brown, Sly Stone, Jimi Hendrix. Ma non si limita a questo il suo genio meticcio: crea suoni che hanno una vitalità estremamente attuale, che hanno forza, attrazione (non per caso il disco è schizzato in cima alle chart di mezzo mondo), ma com- LIBRI India ROCCA 15 MAGGIO 2006 S tato dell’Asia meridionale, la penisola indiana confina a nord-ovest con il Pakistan, a nord con la Cina, il Nepal e il Bhutan, a nord-est con il Bangladesh ed è delimitata a sud-ovest dal Mare Arabico e a sud-est dal Golfo del Bengala (entrambi settori dell’Oceano Indiano). I primi europei a raggiungere l’India furono i portoghesi che già nel 1510 avevano il controllo di Goa. Nel 1612 gli inglesi, attraverso la Compagnia delle Indie Orientali, penetrarono il territorio fondando importanti basi commerciali. L’amministrazione dell’India, sotto i governatori britannici fu riorganizzata e furono attuate importanti riforme in materia fiscale, educativa e sociale. Tuttavia, agli inizi del XX secolo, un crescente sentimento nazionalistico cominciò a mettere a dura prova il dominio coloniale britannico. A partire dagli anni Venti, un riformatore sociale e religioso di fede induista, Mohandas K. Gandhi, invitò il popolo indiano a rispondere alla repressione britannica con la resistenza passiva. Nel frattempo scoppiarono violenti scontri tra induisti e musulmani appartenenti alla Lega musulmana, che temevano un futuro dominio degli induisti. Alla fine del 1946, sull’orlo di una guerra civile, il governo britannico annunciò il proprio ritiro dal Paese. Nacquero così nell’agosto del 1947 due stati indipendenti, l’Unione Indiana e il Pakistan, assegnando all’India i territori abitati in prevalenza da induisti e al Pakistan le aree a maggioranza musulmana. 62 Ottenuta l’indipendenza, la principale fonte di attrito tra i due nuovi stati divenne la regione del Kashmir, popolata in grande maggioranza da musulmani ma retta da un induista. Nell’ottobre del 1947, dopo l’annuncio del Kashmir di voler aderire all’Unione Indiana, scoppiò un cruento conflitto, che si risolse due anni dopo grazie all’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Nel 1948 Gandhi fu assassinato da un fanatico induista. Il primo ministro indiano Nehru, salito al potere nel 1950, assunse una linea di non allineamento rispetto alle due Grandi Potenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, sebbene ricevesse da quest’ultima aiuti alimentari. Nel 1957, in conformità a quanto l’assemblea costituente del Kashmir aveva deciso, l’India dichiarò il Kashmir parte integrante dell’Unione Indiana. Nel 1966 Indira Gandhi, la figlia di Nehru, assunse la guida del governo. In seguito al secondo conflitto indo-pakistano del 1971, l’India appoggiò la secessione del Pakistan orientale e riconobbe la nuova nazione del Bangladesh. Nel 1974 l’India compì il suo primo esperimento nucleare. Dopo l’uccisione di Indira Gandhi nel 1984, il posto di primo ministro fu preso da suo figlio Rajiv. I primi anni Novanta furono caratterizzati da una serie di riforme economiche di stampo liberista introdotte dal governo Rao. Gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 hanno avuto immediate ripercussioni sul Kashmir, dove si è riacceso lo scontro tra le truppe dei due paesi. Nel 2002 è stato eletto alla presidenza della Repubblica un membro del- la comunità musulmana, lo scienziato Abdul Kalam. Popolazione: con un miliardo e ottanta milioni di abitanti, l’India è il secondo Paese più popoloso al mondo. La composizione etnica, estremamente variegata, è suddivisa in tre differenti gruppi: gli indoariani (72%), i dravidi (25%) e i mongoli (3%). In India vengono parlate più di 1.600 lingue minori e dialetti, di cui 18 sono riconosciute ufficialmente dalla Costituzione. Religione: sebbene il Paese sia una democrazia laica, la religione pervade ogni aspetto della vita sociale. L’induismo, la confessione predominante, è praticata dall’80% della popolazione. Secondo questa religione, l’individuo rimane legato per tutta la vita alla casta in cui è nato. Si spiega così la tendenza delle caste più umili a convertirsi ad altre religioni. La Costituzione indiana tuttavia esprime il proposito di sradicare l’antico sistema delle caste. I musulmani costituiscono l’11% della popolazione. Altre minoranze sono rappresentate da cristiani (2,3%), sikh (1,9), buddisti, giainisti e Parsi. Economia: nonostante un reddito pro-capite piuttosto basso, ma con un Pil che negli ultimi anni si è attestato intorno al 7%, l’India si colloca oggi al decimo posto come potenza industriale, grazie soprattutto alla varietà e all’abbondanza di risorse naturali (ferro, carbone, petrolio, amianto, oro, diamanti e argento) e di manodopera qualificata. Descritto spesso come un Paese di contraddizioni, l’India in effetti conta, su scala mondiale, FRATERNITÀ Nello Giostra quasi un terzo degli ingegneri di software e un quarto degli affamati. L’agricoltura, praticata ancora con metodi tradizionali, sebbene siano state introdotte importanti trasformazioni tecnologiche, rappresenta il 22,2% del Pil. L’allevamento del bestiame, in particolare quello di bovini (usati essenzialmente per il lavoro nei campi, dato che la religione induista ne vieta il consumo), costituisce un aspetto centrale dell’economia agricola. Il settore industriale è assai articolato e si concentra nel comparto siderurgico, tessile, petrolchimico ed elettronico. Considerevole è anche l’industria ad alta tecnologia (aeronautica e elettromeccanica) che primeggia nel settore dell’informatica, in particolare nella produzione di software. L’industria cinematografica inoltre è tra le prime al mondo per il numero di film prodotti. Situazione politica e relazioni internazionali: le elezioni politiche dell’aprile 2004 sono state vinte da Sonia Gandhi, la vedova di Rajiv, che ha però ceduto la poltrona a Manmohan Singh, primo esponente della comunità sikh a ricoprire tale incarico, al fine di mettere a tacere le polemiche e favorire la convivenza tra le varie comunità religiose ed etniche. Nel frattempo nuovi negoziati tra India e Pakistan, intesi ad affrontare l’annosa questione del Kashmir, hanno portato a una riduzione delle truppe dislocate lungo la «linea di controllo». Gli Stati Uniti stanno cooperando con l’India per un ulteriore sviluppo di energia nucleare civile, minando così la già debole posizione degli Usa nell’opporsi alle ambizioni nucleari iraniane. In cambio però gli Stati Uniti chiedono che l’India non voti a favore di una risoluzione contro l’Iran. ❑ Forza, pazienza e salute Mi auguro con la presente di trovarvi in ottima salute. Ringrazio il Signore per farmi vivere ancora perché devo accudire l’angelo di mia figlia e devo aiutare anche l’angelo di mia nipote Martina; hanno entrambe bisogno di noi familiari, perché invalide fin dalla nascita. Mia figlia ha 34 anni, è spastica, si esprime con lo sguardo e necessita di particolare alimentazione, oltre che di cure e assistenza continua. Sono vedova, ho 71 anni e la curo con tanto amore. Martina è la figlia di mio figlio, ha dieci anni ed è nata con la stessa malattia di mia figlia. I medici escludono fattori ereditari o familiari. Prego tanto che possiamo avere la forza, la pazienza e la salute di accudirle sempre in tutto; lo auguro a tutte le persone del mondo che sono nelle medesime condizioni. Malgrado tutto non bisogna mai perdere la fede, altrimenti non si riesce a vivere. Ogni aiuto è prezioso D.A. Aiutare un bambino a studiare Cari amici di «Rocca», anche se non vi conosco di persona penso che siamo uniti nello spirito di Gesù che è una catena molto più forte e per quello che vengo a chiedervi sperando che il vostro cuore sia sempre generoso e sensibile alle necessità dei nostri fratelli che si trovano tra mille necessità come tanti in questa terra dell’Ecuador. Mi faccio portavoce di tanti ragazzi che ogni anno chiedono di essere aiutati per studiare perché la situazione di povertà dei genitori non lo permette; lo faccio perché sono sicura che tra voi ci sono persone disposte a darci un granello di sabbia per dare un sorriso a questi nostri ragazzi. I missionari non sono quelli che partono, ma sono soprattutto quelli che con la generosa collaborazione e la fiducia ci danno una mano «Ogni volta che avete fatto qualcosa a uno dei più piccoli di questi miei fratelli lo avete fatto a me» Matteo 25, 40 per portare avanti la missione. La nostra scuola fa parte di un movimento che si chiama «Fe e allegria» che è nato in Venezuela per la gente povera. Si mantiene con la carità dei buoni e quel poco che le istituzioni offrono. È duro è difficile, ma è una bella causa «Aiutare un bambino a studiare è problema di tutti», questo è il nostro motto. Nel nostro centro si educano circa 600 ragazzi, dalla scuola materna al liceo e si va avanti grazie ai benefattori della mia amata Italia. È necessario toglierli dalla strada, dalla prostituzione, dalla droga. Molti bambini fanno ore di cammino a piedi per raggiungere la scuola e molti di loro aiutano i genitori nel lavoro dei campi alzandosi di notte. Cerchiamo di educare anche gli adulti per far capire loro l’importanza della scuola e coinvolgerli per una promozione umana. Oltre allo studio vengono insegnati lavori manuali come falegnameria per i maschi e sartoria alle femmine che preparano le divise per coloro che frequentano la scuola. Prima tutto veniva fatto in baracche che ogni anno la furia degli uragani distruggeva. Ora gli edifici sono in muratura, ma durante l’inverno le piogge torrenziali creano danni, che bisogna riparare; ecco perché qui le scuole cominciano in aprile! Ogni bambino costa 100 euro all’anno e quelli più bisognosi ora sono 50... Aiutateci perché questa scuola possa continuare ad operare per dare un futuro migliore a questa gente veramente misera... Auguroni a tutti voi anche a nome dei bambini e delle loro famiglie; che il Signore dia pace in Lui che ci ama con un amore speciale ed unico. Vi chiedo scusa per il mio italiano. Sono figlia di un italiano, ma non ho mai studiato questa lingua; la amo, mi piace molto capire e poi cerco di farmi capire. Un abbraccio fraterno e grazie. F.D. Tra sei mesi Dopo tanti ricoveri finalmente abbiamo avuto una bella notizia: mio nipote di sette anni sta molto meglio e non dovrà più recarsi a Genova ogni mese, ma sarà chiamato a fare il prossimo controllo tra sei mesi. Le condizioni della famiglia sono ancora precarie perché il papà non riesce a trovare un lavoro sicuro per mantenere la moglie e i tre figlioletti; raccoglie ferro vecchio quando la salute glielo permette perché soffre di esaurimento per cui spesso viene ricoverato in ospedale. Ora la situazione è peggiorata perché è arrivato lo sfratto di casa per morosità. Quando questa famiglia potrà trovare un po’ di serenità? La mia piccola pensione mi permette poco di aiutarli, ma vi assicuro che faccio tutto il possibile... I Rocchiggiani possono dare una mano? Spero di sì e ringrazio tanto E.B. Anche se sono disperata... Il Signore vi conservi sempre in salute. Per quanto riguarda me sono sempre in balia di grandi tempeste e non riesco a venirne fuori. Sono andata, se si può dire così, in pellegrinaggio presso tutte le chiese della mia città e multata sull’auto perché sprovvista di biglietto. Solo don Gino, il sacerdote che ha parlato con voi di «Fraternità», mi ha aiutato con venti euro per comprarmi la bombola, altrimenti non potevo scaldare neppure un po’ di latte. Non so più che fare, forse farla finita sarebbe la cosa migliore per non soffrire più e non pagare i tanti debiti che non so più quanti sono. Mio figlio maggiore è ancora in carcere e non sta bene in salute; non posso andare a trovarlo e ogni volta che mi scrive mi si spezza il cuore; anche il secondo ha precedenti penali per droga e altro; il terzo, che ad aprile è stata vittima di un pestaggio, non si è più ripreso. Per lo spavento ora soffre di crisi violente e presto verrà chiamato da una commissione per misurare la sua pericolosità per poi essere curato in Comunità o in ospedale psichiatrico. Spero che almeno l’ultimo possa trovare un lavoro al più presto e togliersi così dai tanti pericoli. Purtroppo la causa di tutti i problemi che i miei quattro figli hanno avuto con la droga e la giustizia è stato il comportamento violento di mio marito che ha segnato molto profondamente me che solo il Signore sa quante ne ho subite e ancor più i figli sin da piccoli. Le condizioni economiche sono penose perché non riesco a lavorare. Vorrei fare la collaboratrice domestica, lavare scale ecc. ma quando chiedono le referenze con la famiglia che mi ritrovo cosa faccio? Anche se sono una persona onesta questo per loro non dà garanzie? Potrei prostituirmi, ma non voglio perdere la mia dignità anche se sono disperata. Sono stanca e mi rivolgo agli amici di «Fraternità» chiedendo preghiere perché possa riuscire a superare questo momento di grande difficoltà. Sempre mi avete consolata, aiutata. Spero un giorno di scrivere che i momenti brutti sono passati. Con la penna vi lascio, ma vi assicuro che siete sempre nei miei pensieri. M.B. Si possono inviare offerte con assegni bancari, vaglia postali o tramite c.c.p. n. 10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi. 63 ROCCA 15 MAGGIO 2006 paesi in primo piano Carlo Timio rocca schede Rocca/foto d’archivio Calogero Cascio