disastri naturali - Liceo Sandro Pertini
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disastri naturali - Liceo Sandro Pertini
ISAT Istituto per le scelte ambientali e tecnologiche Con la collaborazione del Dipartimento della protezione civile DISASTRI NATURALI Conoscere per prevenireRoma, 2006 ISAT Istituto per le scelte ambientali e tecnologiche Con il contributo del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio Con il patrocinio scientifico del Consiglio Nazionale delle Ricerche Con il contributo dell’Università Telematica “Guglielmo Marconi” Con la collaborazione del Dipartimento della protezione civile ISAT Con la collaborazione del Dipartimento della protezione civile Istituto per le scelte ambientali e tecnologiche Con il contributo del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio Con il patrocinio scientifico del Consiglio Nazionale delle Ricerche Con il contributo dell’Università Telematica “Guglielmo Marconi” DISASTRI NATURALI Conoscere per prevenire a cura di Mario Signorino e Francesco Mauro (ISAT) con la collaborazione di Valerio Comerci (rischio sismico) e Fiorenzo Fumanti (rischio vulcanico) Roma, 2006 5 Disastri naturali | Conoscere per prevenire INDICE Introduzione DISASTRI NATURALI Conoscere per prevenire 7 Perché questo tema è importante A cura di Mario Signorino e Francesco Mauro 1. Con la collaborazione di Valerio Comerci I disastri naturali a livello globale 9 1.1 I disastri naturali del passato 9 1.2 I disastri del nuovo secolo 14 1.3 Alcune questioni di terminologia 16 Il rischio sismico in Italia 19 2.1 Elementi del rischio sismico 20 2.2 La pericolosità sismica in Italia 24 2.3 Forti terremoti avvenuti in Italia 27 2.4 La vulnerabilità sismica in Italia 28 2.5 Schede su alcuni forti terremoti avvenuti in Italia 33 Il rischio vulcanico in Italia 44 3.1 Le caratteristiche dei vulcani 44 3.2 I vulcani italiani 51 3.3 Il Vesuvio 54 3.4 I Campi Flegrei 66 Dipartimento della protezione civile 3.5 Ischia 72 Concetta Nostro e Daniela Riposati 3.6 Il Piano Vesuvio 74 3.7 Altri vulcani italiani attivi 75 Altre minacce per il territorio italiano 81 Università Federico II di Napoli 4.1 Alluvioni e frane 81 Paola Carrabba 4.2 Fenomeni riguardanti il livello del mare (rischio sismico) e Fiorenzo Fumanti (rischio vulcanico) Progetto grafico Aurelio Candido 2. Editing Valter Baldassarri Illustrazioni Koen Ivens (completare con le pagine) Gli autori desiderano ringraziare Gian Michele Calvi, Bernardo De Bernardinis, Elvezio Galanti, Leonello Serva, Vincenzo Spaziante, 3. per i commenti e i suggerimenti forniti Per il reperimento dell’iconografia, si ringraziano Attilio D’Annibale Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia Giovanni Orsi e Magda De Lucia © ISAT Istituto per le scelte ambientali e tecnologiche E-mail: [email protected] Osservatorio Vesuviano Giuseppe Luongo Enea 4. 8 Disastri naturali | Conoscere per prevenire | Introduzione Perché questo tema è importante L’Italia è un paese caratterizzato da una sovrapposizione di rischi naturali che ha pochi riscontri al mondo. Terremoti, eruzioni vulcaniche e dissesto idrogeologico si verificano in modo ricorrente su buona parte del territorio nazionale. La situazione è aggravata dall’antropizzazione del territorio e da carenze nella prevenzione e mitigazione che rendono disastrosi effetti di fenomeni anche non particolarmente forti. Scopo del presente lavoro è condurre una ricognizione del rischio di disastri naturali sul territorio nazionale. Un’informazione equilibrata ed obiettiva può essere un forte strumento di buongoverno per la salvaguardia di un patrimonio culturale e ambientale senza prezzo, ma per il cui mantenimento prezzi accettabili debbono pur essere pagati. La situazione non è tranquillizzante, come dimostrano i continui disastrosi effetti di frane e alluvioni sugli abitati e sulle popolazioni, la diffusa elusione delle normative antisismiche per l’edilizia, la piaga dell’abusivismo edilizio che accresce notevolmente la vulnerabilità sismica, vulcanica e geologico-idraulica del Paese, la presenza di vaste popolazioni in aree ad alto rischio come quelle intorno al Vesuvio e ai Campi Flegrei. Particolarmente carente l’attenzione verso i problemi di protezione dei beni culturali, nonostante lo choc a suo tempo causato dall’inondazione di Firenze del 1966 e la conoscenza della vulnerabilità di aree particolarmente importanti come la Val di Noto per il barocco siciliano. La tendenza diffusa nell’opinione pubblica e nei decisori a non preoccuparsi del rischio dovuto a fenomeni non immediati o comunque non definiti precisamente nel tempo, ancorché probabilisticamente attesi, è infatti ancor più rilevante nel caso dei beni culturali. Si ritiene quindi necessario uno sforzo particolare affinché queste problematiche vengano meglio apprezzate ed affrontate. L‘osservazione dei disastri naturali in Italia risale all’antichità: si pensi alla famosa eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei ed all’origine stessa del termine “vulcano”. Malgrado ciò, si è avuto un decollo tardivo delle moderne scienze della terra (a detta degli studiosi, solo in seguito al terremoto di Avezzano, detto anche del Fucino, nel 1915) e dell’approccio oggi identificato come protezione civile (nel secondo dopoguerra, dopo il terremoto dell’Irpinia nel 1980). Per quanto riguarda lo stato attuale della conoscenza e della ricerca di base e applicata, di rilevanza anche per la prestazione di servizi scientifici ed attività di supporto e consulenza, è opportuno aprire una seria discussione, assicurandosi che vi siano dedicate attenzione e risorse almeno pari a quelle riservate agli studi e alle attività di monitoraggio nel campo meteo-climatico. In linea generale, la gestione dei rischi associati ai vari fenomeni da parte delle strutture di governo, centrali e locali, potrebbe essere migliorata cambiando sostanzialmente le priorità della politica ambientale e, più in generale, le priorità di governo 7 Disastri naturali | Conoscere per prevenire 9 1. I DISASTRI NATURALI A LIVELLO GLOBALE 1.1. I disastri naturali del passato La storia del nostro pianeta è segnata da catastrofi, ma buona parte di questa storia ci è ignota. Le fonti scritte riguardano al massimo qualche migliaio di anni, a fronte di un genere Homo che potrebbe avere fino a 5 milioni di anni di età. Sicuramente la storia della Terra è caratterizzata da molteplici estinzioni di massa la cui causa è da ricercare in eventi capaci di mutare radicalmente, in tempi geologicamente brevissimi, le condizioni di vita dell’intero pianeta. Diversi ricercatori segnalano la corrispondenza temporale di alcune di tali estinzioni (ad esempio, quelle della fine del Devoniano, 367 milioni di anni fa; della fine del Triassico, 212 milioni di anni fa; della fine del Cretaceo, 65 milioni di anni fa; e della fine dell’Eocene, 34 milioni di anni fa) con l’impatto con corpi celesti di grandi dimensioni. L’impatto con i meteoriti L’ultimo impatto conosciuto con un corpo celeste di dimensioni apprezzabili (20-60 metri di diametro) è quello di Tunguska (Siberia) nel 1908, che non ha avuto effetti catastrofici solo perché ha colpito una zona quasi deserta e forse perché, essendo di origine cometaria, è esploso quando si trovava ancora in atmosfera. Le conseguenze della caduta di un grande meteorite, anche più piccolo di quello dello Yucatan, potrebbero essere apocalittiche, sia per gli effetti meccanici immediati dell’impatto che per l’insorgenza di ampie variazioni cli- La lunga storia dei disastri naturali può essere esemplificata dalla catastrofe planetaria causata dal grande meteorite, stimato di 10 km di diametro, caduto 65 milioni di anni fa nello Yucatan, noto come Chicxulub, ritenuto responsabile della grande estinzione di specie alla transizione dei periodi Cretaceo-Terziario. 10 Disastri naturali a livello globale | Il passato matiche (verso il freddo, a causa del lungo ”inverno planetario”causato dalla polvere sollevata dall’impatto), con relativa interruzione della catena alimentare e massiccia estinzione di specie. Tra i rischi provenienti dallo spazio extraterrestre, va segnalato quello dovuto alla caduta di satelliti artificiali che si sono progressivamente riavvicinati alla superficie terrestre. I luoghi di caduta dei satelliti o dei loro frammenti sono spesso difficili da prevedere e richiedono un’attenta gestione del rischio da parte della protezione civile. Le glaciazioni Il cratere di Manicouagan, Quebec, Canada. Ha un diametro di circa 100 km e risale a 212 milioni di anni fa. Fonte: Image Science and Analysis Laboratory, NASA-Johnson Space Center. 19 Oct. 2004. “Earth from Space - Available Images.” http://earth.jsc.nasa.gov/sseop/ efs/images.pl?photo=STS00948-3139. Gli effetti di tali fenomeni a livello planetario ricordano le glaciazioni - le cui cause, principalmente di natura astronomica, non sono ancora completamente chiare - di cui l’ultima, il Last Glacial Maximum (LGM), ha avuto il picco circa 18.000 anni fa ed è durata fino a circa 10.000 anni fa (in quel periodo, la temperatura si abbassò nell’emisfero nord di 5-10°C, il ghiaccio artico arrivò a coprire quasi tutta la Gran Bretagna e buona parte dell’Europa centrale, i ghiacciai alpini si estesero alla Pianura Padana). Le glaciazioni ed i relativi periodi interglaciali sono fenomeni di lunga durata e di entità planetaria. Non vanno perciò confusi con eventi di minor rilievo come la cosiddetta “piccola età glaciale” verificatasi tra il 1300 e il 1850 circa (caratterizzata da un abbassamento della temperatura dell’emisfero nord di circa mezzo grado centigrado). Le Grandi Province Magmatiche Per altre grandi estinzioni, non sono state individuate cause extraterrestri ed appare invece plausibile la correlazione con le Grandi Province Magmatiche (GPM). Le GPM sono aree molto estese, ricoperte da chilometri di depositi magmatici emessi da gigantesche eruzioni continuate per migliaia di anni. Tale attività eruttiva ha sicuramente determinato la fuoruscita di enormi quantità di gas in grado di modificare radicalmente la composizione dell’atmosfera e degli oceani con conseguenze catastrofiche sul clima e sull’ambiente. La più grande estinzione della storia della Terra, avvenuta alla fine del Permiano (circa 225 milioni di anni fa), è probabilmente connessa con il plateaux basaltico della Siberia, generato da almeno 45 eruzioni che hanno ricoperto con circa 4 km di lava un’area di 1,5 milioni di km2. L’accumulo delle lave nella GPM del Deccan, circa 65 milioni di anni fa, è probabilmente corresponsabile dell’estinzione della fine del Cretaceo. I maggiori terremoti della storia Tra le catastrofi registrate nella storia umana, quella che forse ha provocato il maggior numero di vittime (800.000 morti) è il terremoto nello Shansi (Cina) del 1556; seguono l’uragano di Calcutta del 1737 (300.000 morti) e, nella stessa zona, quello del Bangladesh (sempre circa 300.000 morti) del 1970. Alcuni studi danno invece il triste primato alla grande inondazione verificatasi in Cina nel 1931 con 3.700.000 morti stimati. Un elenco dei terremoti maggiormente significativi in termini di perdite di vite umane è prodotto dall’US Geological Survey (USGS) e riportato nella tabella 1.1. 11 Disastri naturali | Conoscere per prevenire Tabella 11 - Terremoti con il maggior numero di vittime DATA LOCALITÀ VITTIME MAGNITUDO 23-01-1556 26-12-2004 27-07-1976 9-08-1138 22-12-856 16-12-1920 22-05-1927 23-03-893 01-09-1923 05-10-1948 Shansi, Cina Sumatra, Indonesia Tangshan, Cina Aleppo, Siria Damghan, Iran Ningxia-Gansu, Cina Tsinghai, Cina Ardabil, Iran Kwanto, Giappone Ashgabat, Turkmenistan Chihli, Cina 830.000 283.106 255.000 (ufficiali) 230.000 200.000 200.000 200.000 150.000 143.000 110.000 ~8 9.0 7.5 Non Disponibile N.D. 7.8 7.9 N.D. 7.9 7.3 100.000 6.7 27-09-1290 NOTE Vittime per terremoto e tsunami 655.000 morti stimati Fagliazione superficiale, frane Fagliazione superficiale Grande incendio di Tokyo Fonte: United States Geological Survey. http://earthquake.usgs.gov. Altri cataloghi, tra i quali quello del National Geophysical Data Center statunitense (http://www.ngdc.noaa.gov/seg/hazard) che copre l’arco temporale compreso tra il 2150 a.C. ed il 2005 d.C., riportano un maggior numero di eventi disastrosi, tra i quali quelli che avrebbero interessato: G Antiochia nell’odierna Turchia nel 115 (260.000), nel 526 (250.000) e nel 533 (130.000); G Kiapas in Azerbaijan nel 1139 (300.000); G Egitto o Siria nel 1201 (1.100.000 morti); G Kwanto in Giappone (compresa la zona di Tokyo) nel 1703 (140.000); G Tabriz in Iran nel 1780 (200.000); G la Baia del Bengala in India nel 1876 (215.000); G Tovin in Armenia nell’893, pochi mesi dopo quello di Ardabil (180.000). Bisogna comunque tener presente che esiste una certa incertezza nei dati inseriti nei cataloghi, maggiore per gli eventi più antichi, e studi più accurati possono ridimensionare la portata del fenomeno. Un caso classico è quello del supposto terremoto (inserito come tale anche nel database del NGDC) che avrebbe colpito l’area di Calcutta nel 1737 determinando la morte di 300.000 persone. Secondo studi recenti (vedi sito http://earthquake.usgs.gov) il disastro fu invece originato da una violentissima tempesta tropicale. Un altro caso è quello del terremoto di Hokkaido in Giappone nel 1730, riportato in alcuni cataloghi come evento responsabile della morte di 137.000 persone, che è invece da riferirsi, secondo sismologi giapponesi, al sisma che colpì Tokyo nel 1703. Anche recentemente si sono avuti terremoti La storia dei terremoti è ovviamente molto antica. Per limitarsi ai tempi storici, si può attribuire ad effetti sismici l’episodio biblico della caduta delle mura di Gerico nel 1250 a.C. circa; sono state causate da terremoti la caduta del Colosso di Rodi nel 224 a.C. e quella del Faro di Alessandria nel 365 a.C. (con 50.000 morti come effetto del sisma), nonché la distruzione di Antiochia in Siria nel 526 (250.000 morti). Il famoso terremoto di San Francisco del 1906, che fu seguito da un grande incendio, fece solo 700 vittime (forse una sottostima), ma viene oggi ricordato come causato dalla faglia di San Andreas (alla sua estremità nord) e quindi come precursore dell’atteso “big one” che dovrebbe colpire la California. 12 Disastri naturali a livello globale | Il passato Disastri naturali | Conoscere per prevenire devastanti, come quello di Izmit in Turchia nel 1999 (150.000 edifici distrutti e 17.000 morti), di Bhuj nel Gujarat, India, nel 2001 (400.000 case crollate e quasi 100.000 morti), del Golfo del Bengala (Sumatra) nel 2004 e del Kashmir nel 2005. I terremoti recenti più violenti, tutti superiori a magnitudo 9 della scala Richter, si sono avuti, oltre che nel Golfo del Bengala come sopra citato, in vari punti del cosiddetto ”anello di fuoco”del Pacifico, sempre in zone dove si verifica la subduzione delle placche: a Valdivia in Cile (il più violento e con magnitudo più alta: 9,4-9,6 della scala Richter) nel 1960, in Alaska nel 1957 e nel 1963, nel Kamchakta nel 1952. Terremoti con tsunami sono stati quelli citati del Golfo del Bengala e del Krakatoa (vedi oltre), quello citato di Tokyo nel 1703 che è risultato il più grave mai avvenuto in Giappone, quello famoso di Lisbona nel 1755 (45.000 vittime), di Arica in Cile nel 1868 (70.000 vittime fra terremoto e maremoto), e alcuni italiani come quello del 1783 in Calabria e quello famoso di Messina del 1908. Altri si sono avuti in Alaska, nelle Aleutine, nelle Hawaii, in Giappone e nel Pacifico. Non vanno infine dimenticate grandi frane, alluvioni (anche su scala quasi continentale), tornado (con un picco di 689 in una singola sequenza negli Stati Uniti nel 1925). È vero d’altro canto che questi fenomeni, a differenza di terremoti, maremoti ed eruzioni, sono in qualche modo collegati al clima e quindi all’eventuale, magari parziale, origine antropica dei fenomeni stessi. Le maggiori eruzioni vulcaniche della storia Oltre ai terremoti, effetti disastrosi, diretti e indiretti, sono legati alle grandi eruzioni vulcaniche. In particolare si citano quelle: G del Tambora a Sumatra, Indonesia, nel 1815 (92.000 morti), forse la più grande eruzione dalla fine dell’ultima glaciazione, con effetti climatici nel 1816 (“l’anno senza estate”) e negli anni successivi, G del Krakatoa sempre in Indonesia, fra Giava e Sumatra, nel 1883 (36.000 morti), con annesso maremoto, avvenuta a circa 60.000 anni di distanza della precedente eruzione importante, G della Montaigne Pelée nella Martinica nel 1902 (29.000 morti), G del Nevado del Ruiz (Colombia) nel 1985 quando una modesta eruzione determinò lo scioglimento dei ghiacciai con formazione di colate di fango (lahars) che uccisero 25.000 persone. Altre eruzioni di minore entità per quanto riguarda le vittime si sono verificate in Giappone, Colombia, Islanda, Messico, Guatemala, Indonesia, Filippine, Papua Nuova Guinea, Stati Uniti, Italia, ecc. Tipi di eruzione Le eruzioni possono essere di vario tipo (una classificazione più completa è riportata nel capitolo 3): G pliniane (da Plinio il Giovane che descrisse l’eruzione che distrusse Pompei), di tipo esplosivo e generatrici di flussi piroclastici, come quelle del Vesuvio, del Mount St. Helens (1980) e del Pinatubo nel 1991 l’eruzione più potente del secolo scorso che, grazie all’evacuazione di oltre 200.000 persone, produsse un numero limitato di vittime (870) ma ebbe effetti socio-economici ed ambientali devastanti; G peleane, legate all’ostruzione del condotto da parte di magma molto vischioso, fortemente esplosive e con flussi piroclastici, come quella della Montaigne Pelée (1902); G vulcaniane (da Vulcano, Isole Eolie), moderatamente violente e con possibili flussi piroclastici; G stromboliane (da Stromboli nelle Isole Eolie), con piccole esplosioni e fuoriuscita continua di lava; G hawaiane, con fuoriuscita continua e senza esplosioni di lava e gas, come nel caso delle Hawaii appunto e de La Réunion nell’Oceano Indiano. La variabilità del rischio 13 Grandi eruzioni sono avvenute in tempi remoti, come quella esplosiva dell’isola egea di Thera (i cui resti oggi sono noti come Santhorini), nel 1500 a.C. circa, spesso collegata alla leggenda di Atlantide ed alla fine della civiltà Minoica. Effetti ambientali ancor più devastanti hanno avuto le supereruzioni, molto più rare nel tempo, come quelle del distretto vulcanico dei Campi Flegrei (descritte in seguito) o come quella del Toba a Sumatra, 73.500 anni fa (con precedenti 700.000 e 840.000 anni fa), che ha formato un cratere di 100 km e provocato un lungo “inverno vulcanico” (crollo di 5-6°C delle temperature planetarie medie), forse responsabile di una quasi estinzione dell’Homo sapiens moderno (come suggerito dal ristretto pool genetico attribuibile ad un piccolo numero di individui per tutta l’umanità) ed eventualmente dell’innesco dell’ultima glaciazione. Note e ben studiate sono anche le supereruzioni della caldera dello Yellowstone, in Nord America, 600.000 e 2.000.000 anni fa. Assolutamente catastrofiche sono state le eruzioni che hanno generato le Grandi Province Magmatiche citate in precedenza. Va anche ricordato che la pericolosità (e quindi il rischio) di questi fenomeni è diversa: G di anno in anno, sia per ragioni di fluttuazioni statistiche, sia per ragioni di trend (per cause più o meno note: si pensi, ad esempio, non solo alla variabilità climatica, ma anche ai cicli astronomici e all’evoluzione del territorio); G riguardo agli effetti in termini di morti e feriti (nel 2000 le inondazioni, nel 2004 lo tsunami), danni economici, effetti sulla natura, sul paesaggio, sulla biodiversità e sui beni culturali; G a seconda della località colpita, sulla base della geografia e dello stato socio-economico, con differenze soprattutto a livello macroregionale. Diversa ancora è la percezione (variabile a sua volta nel tempo e nello spazio) da parte dell’opinione pubblica e degli stessi tecnici esperti (anche sulla scorta delle suddivisioni per corporazioni disciplinari e per approccio metodologico). Si rendono quindi necessarie attente e precise analisi comparate del rischio, sulla base sia di dati retrospettivi che di conoscenza dei meccanismi d’azione, allo scopo di stabilire il rischio potenziale per evento e per categorie di eventi. In prima approssimazione, è da ricordare che la stessa frequenza dei diversi tipi di eventi è estremamente variabile: dall’impatto di un meteorite di 10 km di diametro, che ha una probabilità di accadimento di una volta ogni 100 milioni di anni circa, ad una supereruzione vulcanica (con VEI, Volcanic Explosivity Index, di 8 o più) che si verifica in media ogni 50.000 anni, ad una scossa di terremoto di magnitudo 8 della scala Richter che avviene in genere ogni 2 anni, fino alle scosse meno violente con frequenze di mesi, settimane, giorni, ore, minuti. È un buon esempio di relativa distorsione nella percezione l’evento di alluvione/frane/smottamenti del 2000 nelle Alpi italo-svizzere, il cui ricordo, sicuramente ben presente nelle popolazioni padane e valdostane, nell’opinione pubblica italiana è divenuto nel frattempo assai “modesto”, probabilmente perché l’epicentro delle fatalità si trovava in Svizzera (intorno a Gondo nel Canton Vallese), ossia all’estero, e perché la laminazione della piena dal Po, di dimensioni paragonabili a quella del 1954 (alluvione del Polesine), tramite l’inondazione programmata delle aree golenali, riuscì a scongiurare un superamento degli argini che avrebbe avuto effetti ben peggiori di quello del 1954. Un altro buon esempio è quello relativo all’evento di dissesto geologico-idraulico avvenuto nell’ottobre 1910 nella Costiera Amalfitana. Le ondate di piena dei torrenti, associate all’innesco di numerose colate rapide di fango/detriti sui versanti, causarono circa 200 morti a Cetara e piu di 50 negli altri centri costieri (Maiori, Minori, Vietri, Erchie). Nonostante ciò, l’evento è stato rapidamente dimenticato, forse perché a cavallo dei disastri sismici del 1908-1915 e precedente al disastro bellico del 1915-18, o forse perché la zona di massima distruzione era localizzata in un piccolo paese (Cetara) allora di “insignificante” valore per l’economia nazionale. 14 Disastri naturali a livello globale | Il nuovo secolo Disastri naturali | Conoscere per prevenire 1.2. I disastri del nuovo secolo L’anno 2004 L’anno 2005 Il 2005 è stato caratterizzato dalla tragedia dell’uragano Katrina, che ha colpito soprattutto quattro stati degli USA (Louisiana, Mississippi, Alabama e Florida) e in particolare, il 29 agosto 2005, la città di New Orleans. L’8 ottobre 2005 un terremoto di magnitudo 7.6 ha colpito il Kashmir pakistano e parte di quello indiano facendo oltre 80.000 vittime (ma quelle stimate raggiungono le 200.000), devastando una zona soggetta per anni ad azioni di guerra e che, al momento del sisma, si trovava nella stagione fredda di alta montagna. L’uragano Katrina Pur essendo stato probabilmente l’uragano più disastroso a colpire gli USA per danni provocati, non è il più intenso registrato. É superato infatti da quello detto del Labor Day (2 settembre 1935, Florida Keys), da Camille (17 agosto 1969, Mississipi) e da Andrew (24 agosto 1992, Florida sud-orientale), tutti di categoria 5 sulla scala SaffirSimpson (da 1 a 5) al momento dell’arrivo sulla terraferma (mentre Katrina è stato di categoria 4). Gli uragani di categoria 5 negli USA, a partire dal 1886, sono stati 22. L’uragano precedente più disastroso è stato però quello di Galveston nel Texas (8 settembre 1900), anch’esso di categoria 4 come Katrina, dove i morti furono 8-12.000, per buona parte dovuti all’ondata di arrivo dell’uragano in una città dove quasi nessuno aveva ascoltato il suggerimento di evacuazione, che pure era stato dato. Sembra che, dal 1995, gli uragani siano diventati più intensi (nell’Atlantico ma non nel Pacifico, nonostante che la temperatura dell’acqua risulti maggiormente aumentata in quest’ultimo), ma non più frequenti, anzi forse in diminuzione; la correlazione con il cambiamento climatico globale è stata ipotizzata ma non dimostrata. Katrina è stata la dodicesima tempesta tropicale del 2005 a colpire gli USA; il vento ha raggiunto sulle coste i 280 km/ora e la massima intensità di pioggia è stata di 250 mm/giorno. In sintesi, la catastrofe indotta da Katrina non fu dovuta tanto alla forza dell’uragano, quanto alla vulnerabilità del territorio del delta del Mississipi ed in particolare della città di New Orleans, situata in gran parte sotto il livello del mare ed esposta agli effetti della rottura degli argini e delle dighe che la proteggono dal Mississippi, dal Lago Pontchartrain e dai canali ad essi collegati. Le vittime finora accertate di questa catastrofe sono 1.281, di cui 799 in Louisiana, morte a causa dell’inondazione ma non delle condizioni meteo. Circa 1 milione di persone ha lasciato New Orleans Alcuni osservatori, particolarmente attenti alla questione climatica, avevano già dichiarato il 2004 l’anno dei disastri e degli eventi climatici estremi. Più precisamente, sul piano degli effetti collegati al clima, l’anno 2004 è stato caratterizzato da: G un numero eccezionalmente alto di tifoni nel Pacifico (Giappone, Asia sud-orientale, isole del Pacifico); G 15 uragani delle classi più elevate nell’Atlantico (il numero annuo normalmente non è superiore a 10), di cui 9 hanno colpito Caraibi ed USA (un uragano anomalo nell’Atlantico meridionale ha colpito il Brasile); G monsoni particolarmente distruttivi (Golfo del Bengala e Cina) con piogge torrenziali, alluvioni, frane e smottamenti; G 182 tornado in agosto (56 in più rispetto al 1979 anno record) e 235 in settembre (139 in più rispetto al 1967 anno record) negli USA; G incendi boschivi eccezionali in Alaska; G accelerazione dello scioglimento dei ghiacciai artici; G siccità aggravata in Africa settentrionale con sciami di cavallette. 15 L’anno 2004 è cominciato e terminato rispettivamente con il disastroso terremoto di Bam (Iran) - 30.000 morti, il 70% degli edifici distrutti - e con il catastrofico terremoto/tsunami dell’Oceano Indiano, con epicentro fra Sumatra e le Isole Andamane (9,3-9,4 della scala Richter), con effetti a livello bicontinentale. L’anno 2000 Per il 2000, un servizio di monitoraggio/catalogazione attuariale (Munchener Ruck) ha elencato le seguenti catastrofi naturali considerate significative: G 3 terremoti (tutti in Estremo Oriente), G 6 grandi fenomeni tempestosi (tifoni, tornado, cicloni in Estremo Oriente, USA e Madagascar), G 5 inondazioni (in Asia ed Europa) di cui una con frane (nelle Alpi in Italia/Svizzera - l’evento che ha causato la massima perdita finanziaria), G 4 tra incendi di foreste, estrema siccità ed eventi franosi (in USA, Asia ed Europa). Alcune statistiche prima dell’arrivo dell’uragano; almeno 30.000 si sono rifugiate nel Super Dome situato in città; 273.600 sono state sgomberate d’autorità nei giorni successivi. La produzione di petrolio del Golfo del Messico si è ridotta temporaneamente del 95% (pari a 14 milioni di barili al giorno). Si stima che i danni superino i 200 miliardi di dollari, rendendo Katrina il più costoso disastro naturale verificatosi negli USA. La tragedia ha aperto la discussione su una serie di problemi rilevanti: la prevenzione di questi disastri, le caratteristiche e la manutenzione delle strutture antiinondazione, l’organizzazione delle strutture della protezione civile, l’importanza della ricerca e delle previsioni, il livello di priorità politica della gestione dei rischi naturali. Fonte: http://cimss.ssec.wisc. edu/tropic/archive/2005/storms/ katrina/avhrr/N17L.html . Le fatalità dovute a questi eventi variano da 0 a 1.450 morti per evento, la massima perdita economica sempre per evento è di 8.500 milioni di dollari, il massimo rimborso pagato da società di assicurazione per un dato evento è di 925 milioni di dollari. Se si guarda al numero di esseri umani coinvolti (morti, feriti, evacuati o comunque colpiti) da questi eventi, sempre sulla base di dati attuariali, gli effetti collegati al clima risultano indubbiamente i più rilevanti: per il periodo 1994-2004, il numero più alto si ha per le inondazioni (1.530.491.000), la siccità (778.123.000) ed i cicloni (312.075.000); mentre al confronto appaiono minori terremoti (33.954.000) ed eruzioni (818.000). D’altro canto, gli effetti collegati al clima potrebbero, secondo molti, non essere considerati disastri naturali ma eventi almeno in parte di origine antropica. Globalmente, il 2004 è stato comunque il quarto anno più caldo dal 1880; ed inoltre gli ultimi 10 anni, con l’esclusione del 1996, sono stati gli anni più caldi dal 1861. Stime dei danni recenti Il valore globale dei danni stimati per il 2004 è stato valutato (senza calcolare gli effetti dello tsunami della fine dell’anno) in almeno 90 miliardi di dollari, valore record negli ultimi decenni, e fino ad un massimo (con lo tsunami) di 145 miliardi di dollari (di cui 44 miliardi risarciti dalle assicurazioni)1. 1 Extensive Munich Re study: “Topics Geo - Annual Review: Natural Catastrophes 2004”, Munich Re Group, press release: 24 February 2005. 16 Disastri naturali a livello globale | Alcune questioni di terminologia Le catastrofi naturali del 2004 hanno inoltre ucciso il doppio delle persone rispetto al 2003, per una cifra totale di 180.000 morti (ma di cui 170.000, il 94%, causati dal grande tsunami). In proporzione però, i danni economici sono stati causati maggiormente da altri eventi rispetto allo tsunami: per il 27% dai soli uragani e tifoni che hanno colpito Caraibi e Giappone. Il numero totale degli eventi catastrofici analizzati per questi dati è stato di 650 di cui: 75 terremoti, 10 eruzioni vulcaniche, ed il resto eventi atmosferici e marini. 1.3. Alcune questioni di terminologia Glaciazione (glaciation): Fenomeno geologico di grandi dimensioni e durata, le cui cause sono ancora molto discusse, caratterizzato dall’estensione del ghiaccio polare verso l‘equatore e dei ghiacciai alpini o di altre montagne verso aree in precedenza libere da ghiacci per latitudine o altitudine; la glaciazione è caratterizzata da un clima freddo e secco, diminuzione del livello del mare (per i volumi d’acqua bloccati nei ghiacci) e, probabilmente, con modificazioni dell’equilibrio delle correnti oceaniche. L’ultima glaciazione è terminata circa 10.000 anni fa. Per“disastro naturale”si intende un evento dovuto, esclusivamente o prevalentemente, a forze della natura che causi, in un tempo medio-breve, un danno significativo. Sono compresi fra i disastri essenzialmente eventi come: terremoti, maremoti, eruzioni vulcaniche, cicloni tropicali, tempeste di terraferma (tornado), altri uragani e fenomeni tempestosi, precipitazioni (piogge, grandine e nevicate) eccezionali, siccità estrema o prolungata, ondate di calore, grandi incendi, ondate di freddo, ecc. Questi eventi sono di origine naturale, ma possono essere amplificati dall’azione dell’uomo. Vi sono poi fenomeni complessi, vasti e di lunga durata come le glaciazioni che, in un certo senso, esulano dal disastro naturale, pur essendo eventualmente all’origine di disastri. Per individuare in modo rigoroso i “disastri naturali”è necessario rispondere ad almeno due difficili quesiti. Il primo riguarda la significatività o rilevanza relativa del danno indotto; chiaramente, tale danno deve essere severo, con la distruzione o messa fuori uso di infrastrutture, danneggiamenti ad edifici, proprietà o elementi anche naturali del paesaggio, e la presenza di feriti o fatalità. Sui mezzi di informazione, per ragioni mediatiche o anche di opportunità politica locale, è invalso l’uso di qualificare come “disastri”anche fenomeni che tali non sono, come una normale grandinata che abbia effetti dannosi sulla produzione agricola. I disastri naturali possono causare, oltre al danno immediato o precoce, numerosi effetti tardivi, come i fenomeni di degrado territoriale, desertificazione, perdita di biodiversità (inclusa quella ecosistemica), oltre ovviamente alle conseguenze socio-economiche. Il secondo quesito concerne la distinzione tra disastri naturali e disastri causati dall’uomo: una sovrapposizione di origine è evidente, ad esempio, nel caso di alcuni dei grandi incendi. Essa è in genere invocata dai fautori dell’origine principalmente antropica dell’effetto serra per gran parte degli effetti collegati al cambiamento o alla variabilità climatica, i cui danni sono in effetti dipendenti anche dall’insufficiente o scorretta gestione del territorio. Sono in uso numerosi sinonimi del termine“disastro naturale”, come“calamità” o “evento calamitoso”; per i disastri naturali particolarmente gravi, caratterizzati da effetti in parte irrimediabili o irreversibili, si usano i termini “cataclisma”, “catastrofe” o “evento catastrofico” (ad esempio, un grande tsunami come quello recente nel Golfo del Bengala, un’eruzione vulcanica con effetti atmosferici a livello planetario, la caduta di un asteroide). Il termine “catastrofe” viene spesso anche usato in senso figurato. Per “cataclisma”, le assicurazioni intendono un incidente o serie correlata di incidenti che abbiano causato un danno alle proprietà superiore a 5-25 milioni di dollari (cifra in evoluzione). 17 Disastri naturali | Conoscere per prevenire Definizione dei vari disastri naturali Terremoto (earthquake) Movimento (con una o più scosse) della crosta terrestre, che si verifica in tempi estremamente rapidi, causato dal rilascio dello stress accumulatosi lungo faglie sismogenetiche o da attività vulcanica. Tsunami o maremoto Ondata (o più ondate) marina anomala causata da un terremoto, da un’eruzione vulcanica sottomarina o da una frana sommersa o emersa con scivolamento a mare. Eruzione vulcanica (volcanic eruption) Espulsione di materiale vulcanico (lava, materiale piroclastico, gas vulcanici), tramite uno o più condotti vulcanici, sulla superficie terrestre. Tempesta (storm) Un disturbo atmosferico che si manifesta con venti forti accompagnati da pioggia, neve o altre precipitazioni e spesso da tuoni e fulmini. Ciclone (cyclone) Un sistema atmosferico caratterizzato da una rapida rotazione verso l’interno di masse d’aria intorno ad un centro di bassa pressione atmosferica, in genere accompagnato da un tempo meteorologico tempestoso, spesso distruttivo; i cicloni ruotano in senso antiorario nell’Emisfero Nord ed in senso orario nell’Emisfero Sud. b. Violenta tempesta tropicale, specialmente con origine nell’Oceano Pacifico sud-occidentale o nell’Oceano Indiano. Tempesta tropicale (tropical storm) Una tempesta ciclonica con venti con velocità da 48 a 121 km (30 a 75 miglia) all’ora. Ciclone extratropicale (compresa la tempesta mediterranea). Ciclone di dimensioni vaste ma con contenuto energetico più modesto rispetto al ciclone tropicale, che nasce in aree oltre i 20 gradi di latitudine, nella zona temperata, nel periodo dall’autunno all’inverno; può colpire, tra l’altro, le coste del Mediterraneo e le coste atlantiche dell’Europa centro-meridionale. Uragano (hurricane) Un severo ciclone tropicale che ha origine nelle regioni equatoriali (tra il Tropico del Cancro ed il Tropico del Capricorno) dell’Oceano Atlantico (in genere sulla costa dell’Africa) o del Mar dei Caraibi o nelle regioni orientali dell’Oceano Pacifico, e si muove in direzione nord, nord-ovest o nordest rispetto al punto d’origine; caratterizzato di norma da grandi piogge. Sinonimo: ciclone tropicale. Tifone (typhoon) Un ciclone tropicale che si verifica nell’Oceano Pacifico occidentale o nell’Oceano Indiano. Tornado Una violenta tempesta di vento caratterizzata dalla presenza di una colonna d’aria, dal diametro da qualche metro fino ad un paio di chilometri, che ruota a velocità alta e distruttiva (in genere accompagnata da un’estensione serpentina a forma di imbuto verso il basso proveniente da una nuvola cumulonembo sovrastante) e si muove lungo un percorso ben definito sulla superficie terrestre; in alcuni casi, si osservano sciami di diversi mini-imbuti; un tornado, per definizione, deve essere in contatto sia con una nuvola che con il suolo. In inglese, esistono numerosi sinonimi, anche in gergo: twister, whirlwind, wedge, funnel, gustnado, landspout, willy-willy, rope. Tromba d’aria o marina Vortici depressionari di piccola estensione in cui i venti (in genere con rotazione antioraria nell’emisfero nord) possono raggiungere elevate velocità (anche di alcune decine di km/h), che si verificano alla base delle nuvole temporalesche chiamate cumulonembi, formandosi a seguito di forti instabilità dell’aria; una tromba tipica presenta la forma a tubo o a cono a pareti ripide con la base verso l’alto ed il vertice che si protende verso la superficie terrestre fino a toccarla, spesso con andamento sinuoso. Si parla di tromba d’aria (funnel cloud, detto tornado nelle forme più violente SEGUE DALLA PAGINA PRECEDENTE 18 Disastri naturali a livello globale | Alcune questioni di terminologia SEGUE DALLA PAGINA PRECEDENTE tipiche del Nord America) quando il vertice di base corre sul suolo e di tromba marina (waterspout) quando corre sul mare o sulle acque interne; sono noti casi in cui la tromba passa dall’acqua alla terraferma o viceversa. Inondazione (flood) Lo straripamento dell’acqua di fiumi, laghi o mare ad inondare dei suoli normalmente non allagati. Sinonimi: straripamento, esondazione, alluvione, allagamento. Sinonimi in inglese: deluge, surge, overflow, inundation, alluvion. Frana (landslide) Crollo o scivolamento più o meno rapido verso il basso di una massa rocciosa o terrosa (o mista); benché sia la gravità che agisce sul pendio la causa primaria delle frane, vi sono altri fattori concomitanti: erosione esercitata dall’acqua dei fiumi, dai ghiacciai e dalle onde marine; azione delle piogge ed altre precipitazioni; terremoti; eruzioni vulcaniche; vibrazioni naturali o di origine antropica; eccesso di peso sul terreno; azione delle acque superficiali e sotterranee. Sinonimo in inglese: landslip. Ondata di calore (heat wave) Condizioni diffuse e persistenti di tempo meteorologico eccezionalmente caldo (specialmente a causa di alte temperature). Siccità (drought) Un lungo periodo di eccezionalmente scarse precipitazioni, specialmente quando ha come effetto un serio squilibrio idrologico con conseguenze negative sulle condizioni di vita e di crescita nelle aree colpite. Incendio (fire) Una rapida, persistente modificazione chimica che rilascia calore e luce ed è accompagnata da fiamma – in particolare l’ossidazione esotermica di una sostanza combustibile – con effetti sul terreno, vegetazione, fauna, paesaggio, infrastrutture e proprietà. Ondata di freddo (cold wave) Insorgenza entro il periodo di 24 ore di un tempo meteorologico eccezionalmente freddo caratterizzato da una caduta della temperatura rapida e considerevole, in genere con effetto su un’area relativamente ampia. Meteorite Una massa metallica o rocciosa di materia di origine asteroidale o cometaria che, provenendo dallo spazio interplanetario, attraversa l’atmosfera terrestre e raggiunge eventualmente il suolo causando un impatto anche disastroso. Disastri naturali | Conoscere per prevenire 2. 19 IL RISCHIO SISMICO IN ITALIA L’Italia è caratterizzata da un’intensa attività vulcano-tettonica (endogena) che si esplica attraverso eruzioni vulcaniche e terremoti. In termini geodinamici questi fenomeni si spiegano per la presenza di una grande linea di subduzione (Figura 2.1) lungo la quale la zolla africana scorre al di sotto di quella europea. Nel Mediterraneo tale linea passa per Cipro, compie un arco nel Mar Egeo, raggiunge le Isole Ioniche, continua lungo il bordo orientale dell’Adriatico, passa lungo la Linea Insubrica, per ridiscendere lungo il bordo occidentale dell’Adriatico e, attraverso la fossa del Bradano, raggiungere lo Ionio, dove continua verso sud-ovest lungo il margine meridionale della Sicilia e lungo il fronte della Catena Kabilo-Maghrebide in Nord Africa, fino ad arrivare al Rif marocchino. Tale processo di sovrascorrimento di Europa su Africa ha anche determinato, nelle zone di retrocatena, l’apertura di bacini estensionali, di cui il Tirreno rappresenta l’esempio più importante. In Italia il rischio sismico costituisce un problema di entità rilevante, visto che nell’ultimo secolo ci sono state almeno 120.000 vittime e ingenti danni economici a seguito di terremoti: solo negli ultimi 25 anni, per la ricostruzione postsismica, sono stati spesi 145.000 miliardi di lire. Figura 2.1 In rosso è evidenziata la linea di subduzione lungo la quale la crosta continentale africana scorre al di sotto di quella europea. Le frecce nere indicano la parte di territorio che scende al di sotto di quella indicata con le frecce rosse.L’area limitrofa a tale linea tettonica è interessata da intensa sismicità. 20 Rischio sismico in Italia |Elementi del rischio sismico Disastri naturali | Conoscere per prevenire 21 2.1. Elementi del rischio sismico Il rischio. Secondo la definizione proposta dall’Ufficio del Coordinatore del Segretariato delle Nazioni Unite per la Mitigazione dei Disastri (UN/ISDR), il rischio consiste nell’atteso numero di perdite umane, feriti, danni a proprietà, interruzioni di attività economiche, in conseguenza di un particolare fenomeno naturale. Esso è espresso dal prodotto di tre parametri: R = H x V x E, dove H indica la pericolosità, V la vulnerabilità ed E il valore esposto. La pericolosità. È la probabilità che un dato evento si verifichi con una definita intensità in una data area. Ad esempio, è la probabilità che un terremoto di intensità IX della scala Mercalli si verifichi ogni 100 anni nell’area considerata. La vulnerabilità. È la stima della percentuale delle opere costruite dall’uomo che non è in grado di resistere all’evento considerato. Il valore esposto a rischio è dato dal valore dell’insieme degli elementi a rischio all’interno dell’area esposta, distinti per categorie. Esso si quantifica in termini relativi (valore monetario delle proprietà, attività economiche, beni e servizi pubblici, ecc.) o assoluti (numero di persone, di edifici, ecc.). Il territorio italiano è soggetto a rischio sismico nella quasi totale interezza. La penisola italiana è infatti geologicamente “giovane”e presenta una tettonica molto attiva. I due orogeni principali, le Alpi e gli Appennini, sono in continuo movimento. Gli Appennini si spostano verso est–nordest di alcuni centimetri all’anno (il mare Adriatico è destinato tra milioni di anni a chiudersi per la saldatura tra Appennini e Dinaridi), mentre le Alpi si sollevano di alcuni millimetri l’anno. Tutti questi movimenti sono il risultato del complesso rapporto tettonico, brevemente descritto in precedenza, intercorrente tra le placche Europa e Africa. Com’è facile immaginare, La paleosismologia nelle zone limitrofe alla linea di contatto tra è una disciplina delle queste due placche, lungo la quale si scontrano Scienze Geologiche che si occupa dello masse enormi di studio degli effetti roccia, è possibile sull’ambiente dei che si verifichino terremoti avvenuti nel dei terremoti anpassato. che di elevata intensità. Rispetto alle Alpi, gli Appennini sono più giovani e caratterizzati da maggiore sismicità sia in termini di frequenza che di intensità. Tale assetto geodinamico ha condizionato fortemente l’evoluzione geomorfologica del territorio italiano negli ultimi milioni di anni, durante i quali si sono succeduti innumerevoli terremoti, a volte rintracciabili sulla base di evidenze geologiche. In particolare, esistono evidenze paleosiFriuli, terremoto del 1976 smologiche che dimostrano che su gran parte del nostro Paese si sono verificati forti eventi sismici durante le ultime migliaia di anni. Tali informazioni sono particolarmente significative ai fini della valutazione della pericoloLa magnitudo sità sismica di un’area poiché il tempo di ri(definita da Richter torno dei terremoti può essere dell’ordine di nel 1935) è il grandezza delle migliaia di anni. logaritmo in base 10 La rilevante sismicità del territorio italiano è dell’ampiezza confermata dalle fonti scritte relative ai terremassima, misurata in micron, della moti avvenuti in epoca storica. L’Italia possiede registrazione, uno dei cataloghi sismici a livello mondiale più ottenuta con un ricco di informazioni e che si estende più indiesismografo standard, tro negli anni (fin dal 461 a.C.). L’interesse per di un terremoto questo genere di raccolte è stato infatti molto avvenuto ad una distanza epicentrale precoce, favorito dall’abbondanza di vecchie di 100 km dalla cronache, diari, manoscritti di vario genere, stazione di misura. epigrafi, e stimolato dal ripetersi di eventi sismici distruttivi che hanno attirato l’attenzione di letterati ed eruditi. Oltre duemila anni di informazioni sismiche disponibili comprovano che terremoti di magnitudo 7 della scala Richter sono piuttosto comuni nel territorio italiano e che alcune zone in particolare sono più soggette ad essere colpite da tali eventi. La scala Richter * Magnitudo Effetti del terremoto 0-1 2-4 >4 <5 Sisma molto lieve registrato dai sismografi locali 5 L’energia sprigionata è pari a quella della bomba atomica lanciata su Hiroshima nel 1945 6 Sisma distruttivo in un’area ristretta (10 Km di raggio) 7 Sisma distruttivo in un’area di oltre 30 Km di raggio (potenza pari alla più grande bomba termonucleare) >7 - 8 Grande terremoto distruttivo** (il terremoto di S. Francisco del 1906 fu di magnitudo 8) 8,5 Potenza pari a quella di 5 miliardi di tonnellate di tritolo (terremoto di Anchorage 1964) 8,6 L’energia prodotta dal sisma è tre milioni di volte superiore a quella della prima bomba atomica lanciata su Hiroshima nel 1945 9 Catastrofe con notevole spostamento della superficie terrestre (terremoto di Sumatra 2004) 9,5 Terremoto più forte che si sia mai verificato (Valdivia, Cile 1960), con effetti devastanti su un’area di centinaia di chilometri quadrati Scossa avvertita solo nelle immediate vicinanze Può causare danni localmente * La scala Richter non è una vera e propria scala in quanto la magnitudo consiste nel logaritmo dell’ampiezza massima dell’onda sismica registrata da un sismografo posto a 100 km all’epicentro. La scala Richter pertanto non ha né un massimo né un minimo, né degli intervalli predeterminati. **Sono stati terremoti di magnitudo superiore a 7 quelli della Sicilia orientale del 1693 (Val di Noto) e del 1908 (quest’ultimo meglio noto come terremoto di Messina o Calabro-Messinese, con un’intensità pari a XI secondo la scala Mercalli Modificata). 1906, le rovine di San Francisco Quando ancora non si disponeva di strumenti di misura delle onde sismiche, per classificare i terremoti era possibile utilizzare solo gli effetti da essi prodotti e di conseguenza furono introdotte le scale macrosismiche, come la Mercalli-Cancani-Sieberg (MCS), la Mercalli Modificata (MM), la MedvedevSponheuer-Karnik (MSK). La loro immediata utilità è quella di rappresentare la severità degli effetti di un terremoto, in una determinata area, attraverso un valore numerico: l’intensità macrosismica. I rilievi macrosismici che si conducono dopo un terremoto, e che consistono nella valutazione degli effetti (danni agli edifici e alle persone, frane, fagliazioni superficiali, ecc.) nelle varie località colpite, consentono una veloce stima della distribuzione areale dell’intensità. Le aree ad uguale valore di intensità vengono riportate sulle mappe macrosismiche, racchiuse da isolinee, dette isosisme. Tali mappe rendono immediatamente percepibile la distribuzione territoriale del risentimento sismico. 22 Rischio sismico in Italia |Elementi del rischio sismico Disastri naturali | Conoscere per prevenire dell’incalcinatura e dello stucco, di mattoni; generale caduta di tegole. Molti fumaioli vengono lesi da incrinature, da caduta di tegole, da fuoriuscita di pietre; camini già rovinati si rovesciano sopra il tetto e lo danneggiano. Da torri e costruzioni alte cadono decorazioni mal fissate. Con case a pareti intelaiate, i danni all’incalcinatura e all’intelaiatura sono abbastanza forti. Crollo singolo di case mal costruite oppure riattate. La scala Mercalli - Cancani - Sieberg (1930) Intensità Descrizione I Impercettibile: rilevato soltanto da sismografi. II Molto leggero: recepito soltanto da rari soggetti nervosi che si trovano in perfetta quiete, oppure estremamente sensibili, e quasi sempre nei piani superiori dei caseggiati. III Leggero anche in zone densamente abitate viene recepito come scuotimento soltanto da una piccola parte degli abitanti nell’interno delle case, come nel caso del passaggio di un’automobile a velocità elevata. Da alcuni viene riconosciuto quale fenomeno sismico soltanto dopo averne ragionato tra di loro. IV Moderato delle persone che si trovano all’esterno degli abitati, non molte percepiscono il terremoto. All’interno delle case viene identificato da molte, ma non da tutte le persone, in seguito al tremare oppure ad oscillazioni leggere di mobili; cristalleria e vasellame, posti a breve distanza, urtano come al passaggio di un pesante autocarro su pavimentazione irregolare. Finestre tintinnano, porte, travi e assi si muovono, scricchiolano i soffitti. In recipienti aperti, liquidi vengono leggermente mossi. Si ha la sensazione che, in casa, un oggetto pesante (sacco, mobili) si rovesci, oppure di oscillare con tutta la sedia o il letto come su una nave con mare mosso. Questo movimento provoca poca paura a persone che sono diventate nervose o apprensive a causa di terremoti precedenti. In rari casi i dormienti si svegliano. V VI VII Abbastanza forte perfino nel pieno delle attività giornaliere, il sisma viene percepito da numerose persone sulle strade o comunque in campo aperto. Negli appartamenti si perviene all’osservazione in seguito allo scuotere dell’intero edificio. Piante e rami deboli di cespugli ed alberi si muovono visibilmente come con un vento moderato. Oggetti pendenti entrano in oscillazione, per esempio: tendaggi, semafori e lampade pendenti, lampadari non troppo pesanti; campanelli suonano, orologi a pendolo si fermano od oscillano con maggior periodo, a seconda della direzione della scossa, se perpendicolare o normale al moto di oscillazione; a volte orologi a pendolo fermi possono rifunzionare; molle dell’orologio risuonano; la luce elettrica guizza o cade in seguito a movimenti della linea; quadri urtano battendo contro le pareti oppure si spostano: vengono versate piccole quantità di liquido da aperti recipienti colmi; ninnoli ed oggetti del genere si possono rovesciare, e pure oggetti addossati alle pareti, arredi leggeri possono essere spostati di poco dal posto; mobili rintronano; porte ed imposte si aprono o si chiudono sbattendo; i vetri delle finestre si infrangono. Quasi tutti i dormienti si svegliano. Sporadicamente persone fuggono all’aperto. Forte il terremoto viene notato da tutti con paura, molti fuggono all’aperto, alcuni credono di dover cadere. Liquidi si muovono fortemente; quadri, libri e oggetti simili cadono dalle pareti e dagli scaffali; porcellane si frantumano; suppellettili assai stabili, perfino isolati pezzi d’arredo vengono spostati o cadono; campane minori in cappelle e chiese, orologi di campanili battono. In singole case costruite solidamente sorgono danni leggeri: spaccature all’intonaco, caduta del rinzaffo di soffitti e di pareti. Dani più forti, ma non ancora perniciosi, si hanno sugli edifici mal costruiti. Qualche tegola o pietra di camino può cadere. Molto forte lesioni notevoli vengono provocate ad oggetti e arredamento degli appartamenti, anche di grande peso, con il rovesciamento e la frantumazione. Le campane maggiori rintoccano. Corsi d’acqua, stagni e laghi generano onde e intorpidiscono a causa della melma mossa. Parti delle sponde di sabbia e ghiaia scivolano via. Pozzi variano il livello d’acqua. Danni moderati a numerosi edifici costruiti solidamente: piccole spaccature nei muri, caduta di parti piuttosto grandi VIII Distruggente (rovinoso): interi tronchi d’alberi ondeggiano vivacemente o perfino si staccano. Anche i mobili più pesanti vengono in parte portati lontano dal proprio luogo d’origine e in parte rovesciati. Statue, pietre miliari nel terreno o anche in chiese, in cimiteri e parchi pubblici ruotano sul proprio piedistallo oppure si rovesciano. Solidi muri di cinta in pietra sono aperti ed atterrati. Un quarto circa delle case riporta gravi distruzioni; alcune crollano; molte divengono inabitabili. Negli edifici ad intelaiatura, cade gran parte della tamponatura. Case in legno vengono schiacciate o rovesciate. In particolare campanili di chiese e camini di fabbriche con la loro caduta provocano a edifici vicini lesioni. In pendii e terreni acquitrinosi si formano crepe. In terreni bagnati si ha espulsione di sabbia e di melma. IX Rovinoso (distruttivo): circa la metà di case in pietra sono gravemente distrutte; molte crollano; la maggior parte diviene inabitabile. Case ad intelaiatura sono divelte dalle proprie fondamenta e schiacciate su se stesse, con travi strappate, che possono contribuire molto alla rovina. X Annientante (completamente distruttivo): gravissima distruzione di circa ? degli edifici; la maggior parte crolla. Perfino costruzioni solide di legno e ponti subiscono gravi lesioni, alcuni vengono distrutti. Argini e dighe, ecc.. sono danneggiati notevolmente, binari leggermente piegati e tubature (gas, acqua e scarichi) troncate, rotte e schiacciate. Nelle strade lastricate e asfaltate si formano crepe e, per pressione, sporgono larghe pieghe ondose. In terre meno dense e specialmente in quelle umide si creano spaccature; in particolar modo sorgono parallelamente ai corsi d’acqua crepature che raggiungono larghezze fino a un metro. Non soltanto scivola terreno piuttosto molle dai pendii, ma interi macigni rotolano a valle. Grossi massi si staccano dagli argini dei fiumi e da coste scoscese, in riviere si spostano masse sabbiose e fangose, per cui il rilievo del terreno subisce cambiamenti. I pozzi variano di frequente il livello dell’acqua. Da fiumi, canali e laghi, le acque vengono gettate contro le sponde. XI Catastrofico crollo del complesso degli edifici in muratura; solide costruzioni e capanne di legno ad incastro di grande elasticità possono ancora reggere singolarmente. Anche i più grandi e sicuri tra i ponti crollano a causa della caduta dei pilastri in pietra o del cedimento di quelli in ferro. Argini e dighe vengono completamente staccati l’uno dall’altro, spesso anche per lunghi tratti; binari fortemente piegati e compressi. Tubature nel terreno vengono staccate l’una dall’altra e rese irreparabili. Nel terreno si manifestano vari mutamenti di notevole estensione, che sono determinati dalla natura del suolo: grandi crepe e spaccature si aprono; e soprattutto in terreni morbidi e acquitrinosi il dissesto è considerevole in direzione orizzontale e verticale. Ne segue il trabocco di acqua che porta sabbia e melma con le diverse manifestazioni. Sfaldamento di terreni e caduta di massi sono numerosi. XII Grandemente catastrofico non resiste alcuna opera dell’uomo. Lo scombussolio del paesaggio assume aspetti grandiosi. Corrispondentemente flussi d’acqua sotterranei e superficiali subiscono i mutamenti più vari: si formano cascate, laghi scompaiono, fiumi deviano. Fonte: Sieberg A., 1930, Geologie der Erdbeben. Handbuch der Geophysik, 2, 4, pp. 550-555. Traduzione a cura di L. Serva. 23 24 Figura 2.2 Mappa della pericolosità sismica dell’Europa centro–meridionale. Il grado di pericolosità è espresso in accelerazione orizzontale massima del suolo (m/s2) a seguito di terremoto con probabilità di superamento del 10% in 50 anni. Il territorio italiano è caratterizzato da una pericolosità medio-alta. Fonte: IGCP Seismotectonics and Seismic Hazard Assessment, SESAME, www.seismo.ethz.ch/gshap/sesa me/sesame99.html Rischio sismico in Italia | La pericolosità sismica in Italia Disastri naturali | Conoscere per prevenire La consapevolezza che i terremoti abbiano la tendenza a manifestarsi negli stessi luoghi e che ci siano aree più soggette di altre esiste fin dai tempi antichi, anche se allora era altrettanto diffusa la credenza che le crisi sismiche dipendessero dalla rottura dell’equilibrio con la divinità, tanto che, tra la metà del Quattrocento e il primo Seicento, la loro origine non naturale veniva asserita persino nei trattati naturalistici. Quindi, sebbene la storia umana costituisca una piccola finestra temporale aperta su processi che si sviluppano in tempi geologici, di molti ordini di grandezza più lunghi, disponiamo comunque di una banca dati, oltre che di conoscenze scientifiche, che ci permettono di eseguire delle previsioni di tipo probabilistico sull’intensità e la frequenza dei terremoti attesi. Infatti, poiché la causa geologica che genera i terremoti non si esaurisce alla scala dei tempi umani, dobbiamo aspettarci che le zone colpite da terremoti nel passato saranno colpite ancora nel futuro con un’intensità paragonabile a quella già sperimentata. Nel paragrafo 2.5 sono riportati nelle schede alcuni esempi di terremoti avvenuti nel territorio italiano, che sono quindi rappresentativi di scenari che potrebbero tragicamente riproporsi. tensità si verifichi in una data località in un dato momento, è stato possibile costruire una mappa della pericolosità sismica sulla base dell’analisi della serie storica degli eventi e delle caratteristiche sismo-genetiche del territorio. Sulla base di questi elementi, in Italia è stata effettuata una classificazione del territorio; l’ultimo aggiornamento risale al 2003 con l’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del 20 marzo 2003, recante “Primi elementi in materia di criteri generali per la classificazione sismica del territorio nazionale e di normative tecniche per le costruzioni in zona sismica”, che ha stabilito i criteri di riferimento per la definizione delle “zone sismiche”e ha permesso di allineare il sistema normativo per le costruzioni in zona sismica al sistema dei codici europei. Con la nuova classificazione, le tre categorie sismiche previste nella classificazione precedente (del 1984) sono state sostituite da quattro Zone. Sono state fatte ricadere nella Zona 4 aree precedentemente non classificate e sono state introdotte molte modifiche come, ad esempio, l’inserimento di Roma in Zona 3. L’intero territorio nazionale va considerato a rischio sismico, in quanto 25 Dal 2003 l’intero territorio italiano è stato classificato dal punto di vista sismico, sia pure con livelli di pericolosità molto diversi. Sono state individuate quattro Zone a pericolosità crescente dalla 4 alla 1. 2.2. La pericolosità sismica in Italia La pericolosità sismica (definita dalla frequenza e dall’intensità dei fenomeni) in Italia può essere considerata medio-alta nel contesto dell’area mediterranea (Figura 2.2), o addirittura modesta se paragonata a quella di altri paesi come ad esempio la California. Infatti, in California un evento che sprigioni una quantità di energia pari a quella liberatasi nel terremoto del 1980 in Irpinia avviene in media una volta ogni due anni. Anche se non si è in grado di prevedere che un terremoto di una certa in- Figura 2.3 Classificazione sismica dell’Italia (2004). Tutto il territorio è coperto da Zone a diversa pericolosità (crescente dalla 4 alla 1). Fonte: Dipartimento della Protezione Civile 26 Figura 2.4 Mappa di pericolosità sismica dell’Italia (2004). Il grado di pericolosità è espresso in accelerazione orizzontale massima del suolo (in frazioni di g) a seguito di terremoto con probabilità di superamento del 10% in 50 anni. Fonte: INGV Rischio sismico in Italia | La pericolosità sismica in Italia Disastri naturali | Conoscere per prevenire ogni sua parte può essere investita dalle onde sismiche prodotte da terremoti anche con epicentro distante. Dalla carta di Figura 2.3 risulta che le zone a maggior pericolosità sismica (I categoria) risiedono lungo l’arco appenninico a partire dall’Umbria fino ad arrivare in Sicilia, mentre lungo l’arco alpino solo l’area del Friuli è classificata in I categoria. Le mappe di pericolosità sismica rappresentano i documenti di sintesi necessari all’elaborazione di una classificazione sismica del territorio. In Italia, la Mappa di pericolosità sismica (Figura 2.4) è stata definita sulla base dei terremoti raccolti nei cataloghi sismici, di una zonazione sismo-genetica del territorio ricostruita in funzione della distribuzione spaziale e della profondità di terremoti conosciuti, e di relazioni di attenuazione delle onde sismiche con la distanza dall’epicentro. Purtroppo i terremoti catalogati rappresentano solo un’infinitesima parte di quelli avvenuti nella storia geologica. Inoltre, i cataloghi sismici di cui disponiamo coprono un intervallo di tempo spesso troppo breve rispetto ai tempi di ritorno dei terremoti, che possono essere anche di migliaia di anni. Il terremoto di Avezzano del 1915 è un esempio di forte terremoto (magnitudo 7) avvenuto in un’area dove storicamente non si erano verificati eventi di uguale grandezza, di cui risultasse menzione nei cataloghi sismici. Nelle stime di pericolosità sismica è pertanto importante utilizzare anche altri strumenti da affiancare alle conoscenze di sismicità storica e strumentale. I recenti progressi in campo paleosismologico possono sicuramente aiutarci a “retrodatare” i cataloghi sismici individuando terremoti avvenuti in tempi pre-storici. Anche la geomorfologia quantitativa può rappresentare uno strumento importante per riconoscere un “paesaggio sismico” frutto di un’evoluzione condizionata dal susseguirsi di terremoti. Mappa di pericolosità sismica dell’Italia (2004) 2.3. Forti terremoti avvenuti in Italia Storicamente, per quel che riguarda le vittime, il terremoto più catastrofico registrato in Italia è quello di Messina del 1908 (centrato sullo Stretto tra Messina e Reggio, con effetti devastanti dalla Sicilia orientale alla Calabria meridionale), con annesso tsunami (87.000 morti circa tra Sicilia e Calabria – le stime variano fra 60.000 e oltre 90.000 - di cui almeno 2.000 inghiottiti dalle onde). Nei cataloghi sismici italiani risulta che altri cinque terremoti, oltre quello appena citato, hanno raggiunto o superato il grado 7 di magnitudo Richter o equivalente: quello del 1349 nell’Aquilano, quello del 1456 in Molise, del 1693 nella Val di Noto, con effetti in tutta la Sicilia orientale, del 1743 nel Basso Ionio e del 1915 di Avezzano. Per quel che riguarda il numero di vittime, i terremoti più catastrofici sono stati, oltre a quello di Messina, quello della Val di Noto del 1693 (60.000 morti), quello terribile della Calabria del 1783, costituito in realtà da una serie di 6 terremoti (50.000 morti nel complesso) e quello di Avezzano del 1915 (33.000 morti). A seguito di quest’ultimo sisma, vi fu l’istituzione della prima commissione nazionale sui terremoti e l’avvio, in Italia come all’estero, di ricerche scientifiche moderne nel campo della sismologia, con particolare riferimento alla messa a punto di strumenti di registrazione dei fenomeni sismici. Se si prosegue con il conteggio dei terremoti con magnitudo equivalente uguale o superiore a 6, dal 217 a.C. all’anno 2000, in Italia sono noti 115 eventi. Nell’ultimo secolo, terremoti con magnitudo maggiore o uguale a 6 sono avvenuti in Garfagnana-Lunigiana (1920), Irpinia-Basilicata (1930, 1962 e 1980), Puglia settentrionale (1948), nella Valle del Belice in Sicilia (1968) ed in Friuli (due volte nel 1976). Va anche citato, benché di magnitudo 5.7, il terremoto di Umbria-Marche del 1997, per i danni causati e l’attenzione suscitata nell’opinione pubblica. Molti altri terremoti, di magnitudo inferiore a 6, hanno comunque colpito l’opinione pubblica negli ultimi secoli entrando a far parte della tradizione orale popolare. Tra gli altri: il violento terremoto della Maiella e del Sulmonese del 1706, quello di Casamicciola (già allora nota stazione termale) nell’Isola d’Ischia del 1883, quelli più recenti di Tuscania (con danni alle opere architettoniche) del 1971 e di Ancona del 1972, e diversi altri soprattutto nell’Italia centrale. A fine capitolo, nel paragrafo 2.5, sono riportate schede informative relative ad alcuni terremoti storici, rappresentative di scenari che potenzialmente potrebbero riproporsi, con l’aggiunta degli effetti dovuti alla mag- 27 Il terremoto di magnitudo 7 che colpì Avezzano il 13 gennaio 1915 causò la morte di 33.000 persone. Nel catalogo sismico italiano per l’area del Fucino non compaiono altri sismi precedenti di entità paragonabile. La geomorfologia quantitativa consiste nell’applicazione dei metodi matematici e statistici allo studio delle forme del rilievo terrestre e dei processi che le hanno generate. L’individuazione delle relazioni esistenti tra i vari parametri geomorfici permette di elaborare modelli che ci consentono di interpretare l’evoluzione passata del paesaggio e di prevedere quella futura. La magnitudo equivalente è la magnitudo, ricavata da relazioni empiriche, di quei terremoti che non sono stati registrati strumentalmente (perché avvenuti prima dell’esistenza dei sismografi o perché avvenuti in zone non coperte da reti sismiche). Essa viene essenzialmente ricavata a partire dall’Intensità del terremoto. Rischio sismico in Italia |Forti terremoti avvenuti in Italia 28 giore pressione antropica e industriale rispetto al passato. Nelle schede sono in particolare descritte le “serie”di terremoti avvenuti nell’arco di pochi anni, nonché alcuni terremoti devastanti del lontano passato (Veronese del 1117, della Val di Noto del 1693) e del passato più recente (dello Stretto di Messina nel 1908, della Valle del Belice in Sicilia nel 1968, del Friuli nel 1976, dell’Irpinia-Basilicata nel 1980) che sono rimasti impressi nella memoria degli italiani. Volendo paragonare la sismicità in Italia con quella in altre aree della Terra, si nota che mentre nessun terremoto noto italiano (ultimi 2000 anni) ha raggiunto o superato magnitudo 8, in altre zone del pianeta terremoti di tale e persino maggiore grandezza non sono rari. Nel periodo dal 1900 ad oggi vi sono stati 10 terremoti con magnitudo superiore a 8,5: in Cile nel 1960 (con il record di 9,5), in Alaska nel 1964, nella Isole Aleutine nel 1957 e nel 1965, nella Kamchatka nel 1925 e nel 1952, nel Golfo del Bengala al largo di Sumatra (con il noto tsunami) nel 2004, al largo dell’Ecuador nel 1906, ancora a Sumatra nel 2005, al confine IndiaCina nel 1950. Si calcola che sul pianeta si verifichino in media 1 terremoto all’anno di magnitudo 8 o più e 18 di magnitudo compresa tra 7 e 7,9; in Italia invece, negli ultimi 6 secoli circa, si sono verificati solo 6 eventi con magnitudo compresa tra 7 e 7,9. In altre parole, i terremoti in Italia sono meno forti rispetto a quelli di altri Paesi, e quelli relativamente più forti, comunque al di sotto di magnitudo 8, non sono molto frequenti. Tuttavia, a causa dell’alta vulnerabilità dei nostri centri abitati, gli eventi sismici italiani generano un notevole grado di danneggiamento. 2.4. La vulnerabilità sismica in Italia Il maschio murario è quella porzione di muratura portante che dalle fondamenta arriva fino al tetto dell’edificio (in pratica è il pilastro dell’edificio in muratura). La vulnerabilità sismica in Italia è molto elevata. Basti pensare al terremoto di San Giuliano di Puglia del 2002, quando una modesta scossa di magnitudo 5,4 ha procurato la morte di 30 persone, tra cui 27 bambini e un’insegnante per il crollo di una scuola elementare, la cui struttura era del tutto inadeguata a resistere alle sollecitazioni orizzontali di tipo dinamico dovute al sisma. Purtroppo gli edifici a struttura mista, la cui realizzazione prevede l’utilizzo di mattoni pieni o in laterizio forato di tipo portante per le strutture verticali e cemento armato per i solai e i tetti, sono molto diffusi in Italia. Tale tipologia costruttiva può essere idonea in condizioni statiche e dinamiche a patto che vengano rispettate le “buone tecniche costruttive di base”, ovvero non vengano praticate aperture vicino a incroci di murature portanti, i maschi murari siano ben dimensionati, e inoltre i tetti non siano pesanti, in quanto la forza dinamica del sisma è tanto più grande quanto più il peso è maggiore e posto in alto. Oltre a possedere un patrimonio edilizio diffusamente insicuro dal punto di vista della risposta sismica (si pensi ai centri storici delle città spesso vetusti e maltenuti), l’Italia è caratterizzata da un’alta densità di popolazione che fa sì che ogni evento interessi in generale un elevato numero di abitanti. Inoltre dal 1909, anno di entrata in vigore delle prime norme di costruzione antisismica nell’Italia unitaria, fino al 1981, un comune veniva classificato sismico solo se a partire da tale data veniva colpito da un evento distruttivo, indipendentemente dal fatto che ne avesse subiti altri precedentemente o che le conoscenze sismo-tettoniche lo indicassero come esposto ad alto rischio. Solo nel 1984 è stata introdotta una classificazione sismica omogenea del territorio nazionale basata su criteri più scientifici. Di conseguenza, in molte delle zone più pericolose d’Italia, in particolare in tutte quelle che avevano subito terremoti disastrosi prima del 1908, si è Disastri naturali | Conoscere per prevenire 29 La storia sismica di Roma Anche se oggi, in genere, la città di Roma non viene considerata dal grande pubblico a rischio di terremoto, i dati storici – tramandati in forma scritta e quindi oggi prezioso supporto alle conoscenze indicano come nel corso dei secoli vi siano stati avvertiti dei terremoti, spesso con danni a monumenti famosi. Si possono ricordare, tra gli altri: G i terremoti degli anni 15 (con danni alle Mura Serviane), 20 (con crollo del Teatro di Pompeo), 51, 85 e 116; G il terremoto del 191, avvenuto durante una tempesta con molti fulmini, seguito da diversi incendi; G quello del 223, il primo in cui si verificarono danni al Colosseo; G il terremoto molto forte del 258 con “1000 case distrutte”; G una sequenza di terremoti (304, 408, 422, 429) che danneggiarono di nuovo il Colosseo, il Foro, San Paolo fuori le Mura (443), il Circo Massimo (454), G il terremoto ancora più forte del 476-477 caratterizzato da 70 scosse, con danni ancora al Colosseo, colpito anche nel 492 e 508, con crollo dell’arena; G il Colosseo fu danneggiato, insieme ad altri monumenti, anche negli anni 801 (insieme a San Paolo fuori le Mura), 847, 849 e 896 (insieme a San Giovanni in Laterano); G nel 1231, dopo un lungo intervallo, forse apparente a cause della scarsezza di dati relativa a tale periodo, un sisma causò un primo crollo della Tor de’ Conti (oggi all’angolo di Via Cavour con Via dei Fori Imperiali) e il grande crollo della parete esterna sud-ovest del Colosseo, ancor oggi visibile; nel 1255 si ebbe ancora un altro evento; G i terremoti abbastanza forti del 1321, del 1334 (con danni alla Torre delle Milizie), del 1348 (col crollo di un altro strato della Tor de’ Conti, ridotta alla versione odierna) e del 1349 (con danni al Colosseo ed alla Colonna Antonina, come sotto descritto), citato anche dal Petrarca; G il terremoto del 1407, seguito da una lunga parentesi di quiete, almeno a giudicare dalle fonti; G due terremoti nel 1703 (danni al Colosseo), con epicentro a Norcia, 1706, con epicentro sotto la Maiella, e 1730 (danni a San Pietro in Vaticano); G una lunga sequenza di terremoti nella zona dei Castelli (1806, 1810, 1813, 1829 e 1892) ed uno forte a Tivoli (1826) con contemporanea piena devastante dell’Aniene; G nel 1895 si avvertì a Roma, ed in particolare ad Ostia, Foto: A. Candido un terremoto probabilmente con epicentro al largo del Tirreno, forse accompagnato da un piccolo maremoto; G il grande terremoto di Avezzano del 1915 che provocò danni in almeno 300 punti diversi della città, e quello della Val Nerina del 1979; entrambi raggiunsero a Roma il VII grado della scala Mercalli; G quello recente dell’agosto del 2005 (4.5 della scala Richter) con epicentro nel Tirreno, al largo di Anzio-Nettuno, che è stato avvertito, senza provocare danni, lungo la costa centro-meridionale del Lazio e nelle province di Roma, Latina e Frosinone (ha raggiunto il VI grado della scala Mercalli ad Anzio e il IV-V a Roma); un altro evento analogo, oltre a quello sopra segnalato del 1895, si ebbe anche nel 1919. Molti eventi sismici hanno pertanto lasciato il segno su vari monumenti romani. Maggiori effetti si riscontrano sugli edifici situati nella pianura alluvionale del Tevere, mentre già sui colli il risentimento sismico risulta minore. È notorio lo spostamento in senso rotatorio, tra il nono e il decimo rocchio, della Colonna Antonina a Piazza Colonna, avvenuto a seguito di un terremoto (forse quello del 1349), che non si riscontra invece nella Colonna Traiana, che è fondata su terreno più solido (arenaria) rispetto all’altra (sabbie e limi poco consolidati). I terremoti avvertiti a Roma hanno avuto origine in diverse zone epicentrali: l’Appennino Umbro (il caso più frequente, ultimo quello della Val Nerina, ed i cui violenti episodi sono spesso ben avvertiti), il Fucino ed altre zone dell’Appennino Abruzzese, l’Appennino Laziale-Molisano (come per il forte terremoto del 1349 con epicentro tra Cassino e Isernia), i Monti Tiburtini (come per i recenti episodi, di poco rilievo, avvertiti nel 1997, 1998 e 2000), i Castelli Romani (sono ben noti gli sciami sismici correlati all’attività tuttora in essere del Vulcano Laziale; ultimo episodio avvertito nel 2000), e al largo del Tirreno di fronte alla costa laziale (dove sono presenti alcune faglie sismogenetiche). 30 In anni recenti, hanno fatto notizia i gravi danni subiti dal complesso basilicale di San Francesco ad Assisi: a seguito del terremoto in Umbria-Marche del 1997 si verificò il crollo di parte della volta della Chiesa Superiore e la distruzione di importanti affreschi (tra cui il San Matteo di Cimabue) delle vele del soffitto. Rischio sismico in Italia | La vulnerabilità sismica in Italia Disastri naturali | Conoscere per prevenire iniziato a costruire con criteri antisismici solo a partire dalla metà degli anni ’80. Il risultato è che nelle zone sismiche classificate nel 1984, che coprono circa il 45% del territorio nazionale, solo il 14% delle abitazioni sono costruite secondo norme antisismiche1. 150 miliardi di Euro. Anche se questa cifra appare enorme, bisogna però considerare che essa è solo il doppio del costo affrontato dagli italiani per le ricostruzioni post-sismiche negli ultimi 25 anni3. Rischi per il patrimonio culturale Oltre ad un’azione di soccorso rapida e preventivamente ben organizzata da parte della Protezione Civile, l’informazione e la preparazione dei cittadini sono mezzi importanti di riduzione della vulnerabilità. Per queste ragioni, la Protezione Civile si è posta l’obiettivo di aumentare nella popolazione la conoscenza, la coscienza e quindi la capacità di autodifesa.Tale obiettivo può essere perseguito attraverso l’organizzazione di corsi, la distribuzione di materiale informativo sui comportamenti da tenere in caso di evento, campagne di esercitazione con simulazioni di eventi possibili ed attivazione delle associazioni di volontariato. Per ridurre l’esposizione, si può predisporre l’evacuazione degli abitanti che si vengano a trovare in edifici resi pericolanti da una prima scossa sismica ed il loro trasferimento in centri di accoglienza. È pertanto necessario che le aree idonee alla realizzazione di tali centri di accoglienza vengano individuate sul territorio preventivamente, per evitare di perdere tempo prezioso durante l’emergenza. Recentemente, si sta investendo anche in Italia sui sistemi di allerta sismici (seismic early warning) già in sperimentazione da molti anni in altri paesi sismicamente attivi come Giappone, Taiwan, Stati Uniti e Messico. Il principio su cui si basano tali sistemi è abbastanza semplice, mentre risulta ancora complesso il passo successivo, cioè lo sviluppo di sistemi affidabili ed efficienti direttamente utilizzabili per attività di prevenzione. Un sistema di allerta sismico si basa sull’elaborazione in tempo reale di dati acquisiti dalla rete sismica presente nell’area epicentrale del terremoto. La funzione della rete è quella di fornire una stima rapida e il più possibile precisa della localizzazione dell’evento sismico e della sua magnitudo. Sulla base di questi parametri, è possibile prevedere lo scuotimento al suolo atteso in aree anche distanti dalla zona epicentrale. Poiché le onde sismiche si propagano nella Terra ad una velocità inferiore rispetto ai segnali analogici (o digitali) trasmessi via radio (o cavo), è possibile far giungere in un’area distante dall’epicentro un segnale di avviso in anticipo rispetto all’arrivo delle onde stesse. In funzione della distanza dell’area dall’epicentro, l’anticipo sull’arrivo del terremoto può risultare di qualche secondo o di qualche decina di secondi. Alcuni secondi possono essere sufficienti per disattivare i meccanismi di funzionamento di impianti industriali a rischio, di reti di distribuzione elettrica o del gas, per l’interruzione del traffico ferroviario, per l’attivazione di sistemi di protezione e controllo di edifici strategici, e così via. Il problema maggiore da affrontare in Italia, data la sua conformazione fisica, è però la relativa breve distanza esistente in genere tra zona epicentrale e città da proteggere. I terremoti, oltre a provocare la perdita di vite umane, il ferimento di persone, il danneggiamento di infrastrutture, di impianti produttivi e di abitazioni, causano, in particolar modo nel caso dell’Italia, danni al patrimonio artistico–architettonico-culturale. Volendo fare solo due esempi (in Italia esistono innumerevoli situazioni analoghe), le città di Assisi e Noto sono dotate di un patrimonio artistico inestimabile che è messo a repentaglio dall’elevata sismicità caratterizzante il territorio nel quale esse si trovano. I terremoti della Val di Noto Secondo dati relativi all’ultimo millennio, Noto, Augusta e Siracusa sono state danneggiate in modo rilevante nel 1125 (15.000 vittime segnalate dalle fonti), nel 1169, nel 1542, nel 1693 (area di danneggiamento pari a 14.000 kmq, circa 60.000 morti, la popolazione di Catania di 30.000 abitanti venne dimezzata), nel 1727, nel 1818 e 1846 (epicentro nel Catanese) e poi ancora nel 1903, nel 1908 (il grande terremoto di Messina) e recentemente nel 1990. È particolare il caso di Noto (Antica) che, già danneggiata nel 1542, venne completamente distrutta dalle scosse del 9 e 11 gennaio 1693 e ricostruita in un nuovo sito entro il 1702: è questa l’origine del gioiello rappresentato dalla Noto barocca, pur danneggiata dai terremoti successivi. Oltre a queste città, a Catania (con i piccoli centri del Catanese) e Messina, sono a rischio sismico anche le altre città del sudest della Sicilia, tutte rilevanti dal punto di vista dei beni culturali: Caltagirone, Militello, Modica, Palazzolo Acreide, Ragusa e Scicli. Esse furono ricostruite dopo il 1693, sopra o accanto ai resti degli insediamenti distrutti, nello stile del tardo barocco siciliano. Vulnerabilità dei centri urbani Tutti i suddetti fattori contribuiscono in modo concomitante a determinare l’elevata vulnerabilità delle nostre città. Paradossalmente, poi, i lunghi periodi (anni o decine di anni) durante i quali in Italia la sismicità non si manifesta in modo rilevante, rendono il nostro Paese ancora più debole in quanto si insinua, nei cittadini e nei decisori, la tendenza a sottovalutare o addirittura rimuovere la possibilità che un nuovo forte evento possa verificarsi. Il risultato è che in Italia non si investe sufficientemente in prevenzione, come invece accade ad esempio in Giappone, dove si è costretti a convivere quasi quotidianamente con il terremoto. I terremoti sono fenomeni naturali indipendenti dall’attività antropica; allo stato attuale di sviluppo tecnologico, non è possibile intervenire per ridurre la pericolosità sismica di una determinata area. Pertanto, l’unico modo praticabile per ridurre il rischio sismico è quello di ridurre la vulnerabilità e l’esposizione degli elementi a rischio, e di incrementare la conoscenza sulla base di strumenti quali il monitoraggio e la costruzione di cataloghi sismici. La vulnerabilità sismica degli edifici può essere ridotta rendendo le strutture più resistenti alle onde elastiche prodotte dai terremoti. Ciò è possibile, per i nuovi edifici, seguendo le modalità costruttive previste dalla normativa antisismica vigente e dalle disposizioni regionali per le zone sismiche e, per i vecchi edifici, approntando idonei interventi di adeguamento strutturale. Bisogna considerare che in Italia, come in molti altri paesi, vi è un debito arretrato di investimenti antisismici che si è accumulato nel tempo e che ha comportato che per secoli si costruisse con tecniche incapaci di garantire sufficiente sicurezza nei confronti dei terremoti. Ci sono città come Catania che, sulla base di dati storici, sappiamo esposta a eventi del X–XI grado della scala Mercalli, dove oggi vivono 330.000 abitanti e dove il patrimonio edilizio, in parte abusivo, è stato realizzato con criteri antisismici solo per il 5% del totale2. È facile immaginare quali possano essere le conseguenze di un forte sisma nell’area di Catania, o in un altro qualsiasi centro fortemente urbanizzato, senza la messa in atto di una seria politica di prevenzione. La prevenzione sismica in Italia è un problema di dimensioni enormi. Infatti, si stima che nelle sole zone sismiche classificate nel 1984 vi siano 7 milioni di abitazioni insicure costruite precedentemente. Il costo del miglioramento sismico di tutte queste abitazioni potrebbe aggirarsi intorno ai Azioni di mitigazione La questione assicurativa Da qualche anno si è cominciato a discutere dell’ipotesi di introdurre anche in Italia il ricorso al sistema assicurativo privato all’interno di una normativa quadro per la copertura finanziaria dei danni da disastri naturali. Attualmente, il risarcimento di danni conseguenti a fenomeni catastrofici quali terremoti, eruzioni vulcaniche, inondazioni, frane, è escluso dalle condizioni generali delle normali polizze. D’altro canto, l’esperienza di al- 2 1 Barberi F., Santacroce R., Carapezza M.L.,Terra Pericolosa. A cura di Barberi V., Edizioni ETS, 2005. Manfredi G., 2005, In Italia terremoti medio-alti ma vulnerabilità molto elevata. In Villaggio Globale,VIII, n. 29, pp.68-70. 3 Barberi F., Santacroce R., Carapezza M.L., 2005, Terra Pericolosa, cit. 31 32 Rischio sismico in Italia |La vulnerabilità sismica in Italia tri paesi è incoraggiante, dato che i risarcimenti governativi a seguito di calamità risultano più contenuti rispetto all’Italia proprio grazie al concorso delle compagnie di assicurazione. L’ipotesi assicurativa deve necessariamente accompagnarsi ad una definizione preventiva delle caratteristiche e dei limiti dell’intervento statale. Si possono schematicamente ipotizzare i seguenti modelli: G modello totalmente volontario con la stipulazione facoltativa di una polizza-base (in genere contro l’incendio) e l’estensione della copertura alle calamità naturali (ad esempio, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia, Belgio, ecc.); G modello semi-obbligatorio: facoltativa la stipulazione della polizza-base ma obbligatoria (automatica) l’estensione di questa al rischio da calamità naturale (ad esempio, Francia, Norvegia, ecc.); G modello obbligatorio per tutti gli immobili contro l’incendio e contro le calamità naturali (Svizzera). Va anche tenuto presente il rapporto tra le polizze contro i disastri naturali e quelle contro altri eventi di origine antropica. Per esempio, i due eventi più costosi dal punto di vista assicurativo sono stati fino al 2004 l’uragano Andrew (1992, in Stati Uniti e Bahamas) con 22.145 milioni di dollari, seguito a ruota dagli attacchi terroristici negli Stati Uniti nel 2001 con 20.095 milioni di dollari (dati riportati da ANIA), mentre le valutazioni per l’uragano Katrina sembrano indicare la cifra di circa 40 miliardi di dollari; rilevanti sono state e saranno le conseguenze sulle compagnie di assicurazione e ri-assicurazione. Confronti con altri paesi Volendo fare un paragone tra quanto si fa in termini di prevenzione in Italia e quanto in altri Paesi tecnologicamente avanzati, non si può non notare la grande differenza di investimenti effettuati nel nostro Paese rispetto, ad esempio, alla California o al Giappone. Questi ultimi paesi sono caratterizzati dalla diffusa presenza sul proprio territorio di edifici ed infrastrutture relativamente recenti, realizzati con criteri antisismici e quindi in grado di resistere a terremoti di elevata magnitudo. L’Italia invece presenta un patrimonio edilizio storico e spesso molto antico (unico al mondo e di inestimabile valore culturale) che, come già accennato, non ha in genere subito gli interventi di miglioramento sismico di cui necessiterebbe. Inoltre, solo recentemente sono state stabilite normative tecniche avanzate per la costruzione in zone sismiche, con forte ritardo ad esempio sul Giappone, dove da anni è stata messa in pratica un’efficace politica di prevenzione degli eventi sismici e di attenuazione dei loro effetti. Il terremoto disastroso di Nobi del 1981, che causò più di 7.000 vittime, destò infatti una grande sensibilità verso il tema dello sviluppo di tecnologie per la protezione dei fabbricati che, tradottasi in grossi investimenti, ha portato il Giappone all’avanguardia in tale campo. Disastri naturali | Conoscere per prevenire 33 2.5. Schede su alcuni forti terremoti avvenuti in Italia Ipotesi di campo macrosismico del terremoto del 1117. Legenda: Intensità stimata, a) IX MCS; b) VIII MCS; c) VII MCS. SCHEDA 1 Data 3 GENNAIO 1117 Epicentro VERONESE Intensità massima IX MCS GENERALITÀ Massimo terremoto storico avvenuto lungo il margine pedealpino bresciano–veronese. Sono state individuate due scosse: una prima avvenuta nella notte tra il 2 e il 3 gennaio e una seconda, più forte, avvenuta nel primo pomeriggio del 3 gennaio. G Campo macrosismico complesso con varie aree di maggior risentimento, localizzate sia in Italia (veronese, pedeappennino emiliano, pisano) che in Germania (Augsburg). G Epicentro probabilmente ubicato 10–15 km a SE di Verona, in corrispondenza della zona del veronese maggiormente danneggiata; la stessa area è stata sede di altri terremoti il 25/04/1907 e il 04/03/1963. Anche alcuni dei terremoti segnalati a Verona fin da prima dell’anno 1000 potrebbero avere avuto origine nella medesima area. G Intensità epicentrale non superiore al IX grado MCS, anche se in località Ronco all’Adige può essere ipotizzato conservativamente il X grado MCS. Fonte: modificata da Serva, 1990 G EFFETTI NEL CONTESTO ANTROPICO Il terremoto ebbe grande fama e influenzò la società e la cultura del tempo in Veneto e nell’alta Emilia. Il terremoto veniva utilizzato come elemento di riferimento cronologico per datare altri avvenimenti sociali. Nessuna fonte contiene una stima delle vittime, menzionate solo in maniera generica. EFFETTI SULL’AMBIENTE Numerose cronache riportano notizie di grandi sconvolgimenti dei fiumi, in particolare in Italia relativamente al Po e all’Adda, e nell’Europa centrale relativamente all’Unstrut e alla Mosa. Fonti dei dati: Boschi E., Ferrari G., Gasperini P., Guidoboni E., Smriglio G., Valensise G., 1995, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a. C. al 1980. Istituto Nazionale di Geofisica, SGA storia geofisica ambiente. Serva L., 1990, Il ruolo delle Scienze della Terra nelle analisi di sicurezza di un sito per alcune tipologie di impianti industriali: il terremoto di riferimento per il sito di Viadana (MN). Boll. Soc. Geol. It., 109, 375-411. Rischio sismico in Italia | Schede 34 SCHEDA 2 Data 11 GENNAIO 1693 Epicentro VAL DI NOTO Intensità massima XI MCS Disastri naturali | Conoscere per prevenire Incisione raffigurante la Sicilia settentrionale colpita dal terremoto del 1693. L’evento ebbe larga eco fino in centro Europa. La raffigurazione è in generale poco aderente alla realtà. Fonte: University of California Berkeley da Margottini & Kozak, 1992. 35 Particolare della copertina della Domenica del Corriere, disegnata da A. Beltrame, dedicata al devastante terremoto di Messina. Fonte: University of California Berkeley da Margottini & Kozak, 1992. Sotto, L’abside crollata del duomo di Messina. Fonte: Archivio Candido Mappa delle isosisme relative al terremoto del 1693 in Val di Noto. Fonte: modificata da Postpischl, 1985 GENERALITÀ G Il terremoto dell’11 gennaio fu preceduto da una forte scossa due giorni prima, il 9 gennaio, che provocò danni gravissimi ad Augusta, dove crollò quasi la metà delle abitazioni e si ebbero 200 morti, ad Avola, dove due quartieri furono quasi del tutto distrutti, a Noto, dove crollarono molti edifici e ci furono oltre 200 vittime. Danni analoghi si ebbero a Floridia, Lentini, Melilli. Crolli totali e vittime si ebbero a Catania, Vizzini e Sortino. G La seconda scossa, dell’11 gennaio, fu violentissima e gli effetti furono catastrofici poiché spesso si sovrapposero a quelli della scossa precedente. G L’area colpita fu molto vasta: si ebbero danni di rilievo in un’area che va dalla Calabria meridionale a Palermo e all’arcipelago maltese. La scossa fu avvertita chiaramente dalla Calabria settentrionale fino in Tunisia. G Tutte le città importanti della Sicilia orientale furono sconvolte. Catania fu quasi interamente distrutta, al pari di Acireale e di tutti i centri sparsi sul versante orientale dell’Etna. Tutti gli abitati della Val di Noto furono pesantemente distrutti: Vizzini, Sortino, Scicli, Ragusa, Palazzolo Acreide, Modica, Melilli, Lentini, Ispica, Occhiolà, Carlentini, Avola, Augusta, Noto. Molti crolli si ebbero a Siracusa, Caltagirone, Vittoria, Comiso. G Nel complesso furono 70 i centri nei quali si verificarono danni uguali o maggiori al IX grado MCS EFFETTI NEL CONTESTO ANTROPICO Le distruzioni più gravi si ebbero nella zona sud-orientale della Sicilia e interessarono il versante orientale dell’Etna, la Piana di Catania, la Val di Noto e la Contea di Modica (le attuali province di Catania, Siracusa e Ragusa), coinvolgendo centri di grande importanza economica e culturale per l’intera isola. Il XVII secolo era un periodo di generale crisi economica. Il Regno di Sicilia usciva dalla recessione economica dovuta a una crisi dei commerci. La ripresa economica appena iniziata risultò incentivata dalla vasta attività edilizia sviluppatasi in tutta l’area colpita dal terremoto, attraverso progetti di ricostruzione e spesso di completa rifondazione di intere città, a cui fu conferito il volto barocco che ancor oggi possiamo apprezzare. Gli interventi si differenziarono da caso a caso. In generale però i cambiamenti di sito furono pochi. In alcuni casi, come a Catania, furono tracciate nuove piante urbane, in altri ci si limitò a poche modifiche, nella maggior parte dei casi, come a Siracusa e Caltagirone, la ricostruzione fu eseguita seguendo la pianta originaria della città. EFFETTI SULL’AMBIENTE Il terremoto causò notevoli effetti sull’ambiente. Furono segnalate molte fratture nel terreno dalle quali fuoriuscivano gas e acqua calda in località ricoprenti un territorio molto vasto (Messina, Mascali, piana di Catania, Lentini, Augusta, Piazza Armerina). A Paternò, Sortino, Noto, tra Ferla e Cassaro si verificarono frane e smottamenti. L’ostruzione di corsi d’acqua causò la formazione di nuovi invasi tra Noto e Siracusa e lungo il fiume Irminio. Un lago vicino l’attuale Ispica si disseccò. Molte sorgenti scomparirono mentre altre comparvero. Il periodo sismico fu accompagnato da una forte attività eruttiva dell’Etna. In varie località tra Messina e Siracusa il terremoto indusse dei maremoti, con gli effetti più gravi ad Augusta, dove le onde raggiunsero l’altezza di circa 15 metri. Fonti dei dati: Postpischl D., 1985, Atlas of isoseismal maps of italian earthquakes. CNR Progetto finalizzato geodinamica. Boschi E., Ferrari G., Gasperini P., Guidoboni E., Smriglio G., Valensise G., 1995, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a. C. al 1980. Istituto Nazionale di Geofisica, SGA storia geofisica ambiente. Margottini C. & Kozak J., 1992, Terremoti in Italia dal 62 A.D. al 1908. ENEA. SCHEDA 3 Data 28 DICEMBRE 1908 Epicentro sud CALABRIA - MESSINA Intensità massima XI MCS GENERALITÀ G E’ uno degli eventi di più elevata magnitudo della storia sismica italiana. Gli effetti più gravi interessarono un’area di 6.000 kmq. La scossa fu registrata da 103 stazioni sismiche italiane e straniere e fu avvertita dalle persone su un’area vastissima. G Il terremoto causò effetti catastrofici a Messina e Reggio Calabria fu completamente distrutta. Nell’entroterra delle due città si registrarono i danni maggiori, fino alla completa distruzione di interi paesi. G Nel Messinese l’area delle distruzioni complete fu più ristretta, limitata ai centri periferici della città e a quelli lungo le propaggini settentrionali dei Peloritani, per un totale di 17 paesi. G In Calabria gli effetti distruttivi si ebbero lungo tutti i versanti dell’Aspromonte e in particolare in 25 paesi. G In Calabria effetti rovinosi si ebbero fino nella Piana di Gioia Tauro e a Siderno e Bovalino, nella penisola del Poro; in Sicilia l’area fortemente colpita comprende Milazzo, Barcellona Pozzo di Gotto, Castroreale, il versante ionico dei Peloritani e le pendici nord-orientali dell’Etna . EFFETTI NEL CONTESTO ANTROPICO L’evento scosse fortemente la coscienza dell’intero Paese e dell’Europa per il fatto che una città moderna come Messina fosse stata completamente distrutta. Reggio Calabria suscitò minore attenzione e questo gravò sui tempi della ricostruzione, che fu avviata solo una decina di anni dopo il sisma. Il terremoto colpì duramente sia aree urbanizzate e sviluppate economicamente, che zone più emarginate che videro ridurre ulteriormente le già scarse opportunità di uscire dall’isolamento e dall’arretratezza. Le perdite umane furono ingentissime: circa il 42% della popolazione di Messina, e circa il 21% di quella di Reggio Calabria. Si verificarono flussi di migrazione interna, consistenti prima in fughe dalle città distrutte, e poi nel loro ripopolamento a seguito della fase di ricostruzione delle stesse. Né l’ammontare dei danni né il numero delle vittime è indicabile con certezza: le stime più accreditate indicano in 80000 il numero di morti complessivi, di cui circa 2000 a causa del maremoto che seguì lo shock sismico. Secondo studi recenti a Messina il sisma causò circa 60.000 vittime mentre a Reggio Calabria il numero delle vittime fu di 12.000 unità. A Messina il reddito immobiliare distrutto fu stimato ammontare a 150 milioni di lire, mentre per Reggio Calabria fu valutato in circa 25 milioni di lire. L’ammontare dei danni del terremoto fu valutato in 600 milioni di lire, una cifra nettamente superiore all’interesse sul debito pubblico del periodo 1907-1912. EFFETTI SULL’AMBIENTE A Messina, a Reggio Calabria e a Villa San Giovanni avvennero variazioni altimetriche del terreno. Notevoli furono le variazioni della linea di costa in numerose località calabresi a seguito del loro abbassamento rispetto al livello del mare. Presso Pellaro la costa arretrò di circa 70 metri; a Gallico la spiaggia si restrinse, in alcuni tratti, di 10 metri. Nelle aree più colpite si verificarono frane, smottamenti e si aprirono spaccature al suolo. Numerose frane interessarono la linea ferroviaria tra Bagnara Calabra e Favazzina. La statale 18 fu danneggiata da una frana di vaste proporzioni nel tratto tra Scilla e Porticello. Il terremoto fu accompagnato da onde di maremoto, le più devastanti alte da 6 a 12 metri. In particolare queste ultime colpirono la costa orientale della Sicilia a sud di Messina, da Galati Marina a Giardini Naxos, causando gravissimi danni ai fabbricati e spazzando via persino le macerie degli edifici distrutti dal terremoto. Sul litorale reggino le località più colpite furono San Leo, Pellaro e Lazzaro, dove l’onda distruttiva raggiunse i 6-10 metri. Fonte dei dati: Boschi E., Ferrari G., Gasperini P., Guidoboni E., Smriglio G., Valensise G., 1995, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a. C. al 1980. Istituto Nazionale di Geofisica, SGA storia geofisica ambiente. Rischio sismico in Italia | Schede 36 Disastri naturali | Conoscere per prevenire 37 SCHEDA 4 Data Epicentro Intensità massima 23 luglio 1930 ALTA IRPINIA X MCS GENERALITA’ G Questo terremoto è noto impropriamente come “Terremoto del Vulture”. Tale denominazione è infatti quella che si trova negli articoli pubblicati sulla stampa dell’epoca e nei fascicoli presenti presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. G L’epicentro della scossa principale fu localizzato in un’area compresa tra Villanova del Battista e Aquilonia. G L’evento del 23 luglio fu preceduto da scosse premonitrici e seguito da una intensa attività sismica. G Il terremoto colpì un’area di oltre 6300 kmq ed ebbe i massimi effetti tra Melfi e Ariano Irpino, nelle province di Benevento, Avellino e Foggia. G La scossa fu distruttiva soprattutto ad Aquilonia e Macedonia, dove il 70% circa delle abitazioni crollò totalmente. Furono danneggiate gravemente anche Benevento e Napoli. G L’area di risentimento fu vastissima, raggiungendo verso nord Brescia e Vicenza, e verso sud Catanzaro e Lecce. Mappa delle isosisme relative al terremoto del 1968 in Valle del Belice. Fonte: modificata da Postpischl, 1985. A destra, case distrutte a Gibellina. SCHEDA 5 Fenditura nel terreno provocata dal terremoto lungo la strada Lacedonia-Rocchetta S.Antonio. Fonte: Comune di Lacedonia EFFETTI NEL CONTESTO ANTROPICO Il bilancio delle vittime supera i 1400 morti, gran parte dei quali nelle località di Macedonia, Aquilonia e Villanova. Si ebbe la distruzione totale di 20 centri abitati e parziale di altri 30, il crollo di 5000 abitazioni, il lesionamento di altre 35000. L’evento rappresentò una dura prova per il regime fascista, che tre anni prima aveva già sperimentato un altro terremoto in Friuli, ma di entità assai minore. Lo Stato infatti non era certo attrezzato per far fronte a una simile catastrofe. Il panorama che si presentò, dopo il terremoto, agli occhi dei funzionari spediti da Roma fu desolante. La situazione fu aggravata dall’isolamento dei paesi colpiti dal sisma, in particolare nell’area irpina, collegati solo da strade malridotte. EFFETTI SULL’AMBIENTE Gli effetti al suolo, indotti sia dalla scossa principale che dalle repliche successive, furono numerosi in tutta l’area epicentrale. Si verificarono sollevamenti e dislocazioni con conseguenti attivazioni di frane, aperture di fratture e rotazioni di edifici e manufatti a S. Giorgio La Molara, a Savignano di Puglia e a Melfi. Frane importanti si ebbero a Rocchetta S. Antonio, Trevico, Zungoli, Villanova del Battista. La frana maggiore si ebbe a S. Giorgio La Molara dove si verificò uno sprofondamento di circa 8 metri di lunghezza, collegato a un vasto sistema di spaccature e crepacci, sviluppato per chilometri, che provocò la deviazione e lo sbarramento del fiume Tammaro. Tra Ariano di Puglia e Villanova si aprì un crepaccio di oltre 500 metri ed altre voragini si aprirono in molte località: S. Giorgio di Puglia, Macchia Cupa, Tre Monti, Flumeri, Vallata, Trevico, Bisaccia, Aquilonia, Melfi, Rocchetta S. Antonio, Tocco Gaudio. Fonti dei dati: Boschi E., Ferrari G., Gasperini P., Guidoboni E., Smriglio G., Valensise G., 1995, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a. C. al 1980. Istituto Nazionale di Geofisica, SGA storia geofisica ambiente. Una pagina de Il mattino d’Italia a pochi giorni dal sisma Fonte: Castenetto & Sebastiano, 2002 Castenetto S. & Sebastiano M., 2002, Il terremoto del Vulture. Servizio Sismico Nazionale, Dipartimento della Protezione Civile. Data 15 GENNAIO 1968 Epicentro VALLE DEL BELICE Intensità massima X MCS GENERALITÀ G Quasi tutta la zona collinare della Sicilia occidentale (6.200 kmq) fu interessata dal terremoto. L’area con i massimi risentimenti fu il medio e basso bacino del fiume Belice, comprendente 14 centri abitati, per una popolazione residente di circa 100.000 abitanti. G Si trattò di un periodo sismico, che iniziò il 14 gennaio, caratterizzato da una successione molto ravvicinata di scosse distruttive. G Secondo i dati ufficiali il periodo sismico causò la distruzione completa di 2.960 case rurali. Nell’area epicentrale fu distrutto il 90% dei fabbricati rurali e di quelli sociali e l’85% delle strutture fondiarie. Nella campagna palermitana crollarono 400 case coloniche e l’economia agricola subì una grave crisi. G All’epoca del terremoto le aree colpite non figuravano tra le zone sismiche ad elevato rischio. EFFETTI NEL CONTESTO ANTROPICO L’area più colpita fu l’entroterra collinare e montuoso della Sicilia occidentale, dove più della metà della popolazione attiva era impiegata nell’agricoltura. I danni maggiori furono infatti registrati in questo settore, che rappresentava il traino dello sviluppo economico dell’area, oltre che la maggiore fonte di reddito. Il sisma ebbe un impatto drammatico sulla vita e le attività della popolazione, interrompendo modi consolidati di gestione della terra. Le stime del governo, precedenti oltretutto la rovinosa replica del 25 gennaio, indicarono in 200 miliardi di lire le spese necessarie per riparare i danni. Nella sola provincia di Trapani si stimarono 5.200 alloggi completamente distrutti, e in totale la cifra fu di 9.000. Complessivamente la popolazione di senza tetto fu di 100.000 unità. Anche l’attività commerciale e industriale fu gravemente colpita, in particolare nell’Agrigentino. Secondo alcuni autori le vittime furono oltre 400 e i feriti più di 1.000. Tali cifre furono relativamente contenute grazie all’allertamento deciso dal generale Dalla Chiesa, all’epoca comandante dei Carabinieri di Palermo, che dopo le prime scosse raccomandò alle popolazioni di non pernottare in casa. L’impatto degli eventi sismici si manifestò anche con un conseguente forte aumento del fenomeno migratorio da parte della popolazione in età lavorativa. EFFETTI SULL’AMBIENTE Gli effetti al suolo furono di limitata estensione. Le varie scosse indussero movimenti franosi, aperture di fenditure con fuoriuscita di fango, esalazioni gassose e variazioni nel regime delle acque sotterranee. La maggior parte degli effetti fu osservata nei paesi di Ghibellina, Montevago, Partanna, Camporeale, Contessa Entellina e Bisacquino. Vicino le Terme Segestiane scaturirono nuove sorgenti calde in seguito alle scosse. La forte replica del 16 gennaio fu avvertita anche in mare da un peschereccio in navigazione nel Canale di Sicilia a 10 chilometri dalla costa. Fonti dei dati: Boschi E., Ferrari G., Gasperini P., Guidoboni E., Smriglio G., Valensise G., 1995, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a. C. al 1980. Istituto Nazionale di Geofisica, SGA storia geofisica ambiente. Michetti A.M., Brunamonte F., Serva L., 1995, Paleoseismological evidence in the epicentral area of the january 1968 earthquakes, Belice, Southwestern Sicily. In: Serva & Slemmons, Perspectives in Paleoseismology. Association of Engineering Geologist, Special Pubblication n. 6. Postpischl D., 1985, Atlas of isoseismal maps of italian earthquakes. CNR Progetto finalizzato geodinamica. Rischio sismico in Italia | Schede 38 Disastri naturali | Conoscere per prevenire SCHEDA 6 SCHEDA 7 Data 6 MAGGIO 1976 Epicentro FRIULI Intensità massima X MCS Data 23 NOVEMBRE 1980 Epicentro IRPINIA-BASILICATA Intensità massima X MCS GENERALITÀ primavera-estate del 1976 un periodo sismico di oltre 400 scosse colpì il Friuli. Dopo l’evento principale del 6 maggio, altre due violente repliche si ebbero l’11 e il 15 settembre. G La scossa del 6 maggio colpì l’alta valle del Tagliamento ed ebbe i massimi effetti in un’area di circa 900 kmq, comprendente gli abitati di Moggio Udinese, Tenzone, Bordano, Trasaghis, Gemona del Friuli, Lusevera, Osoppo, Montenars, Forgaria nel Friuli, Buia, Sequals e Majano, dove la percentuale di edifici crollati o resi inabitabili fu compresa tra il 50 e il 90% del totale. G L’area di risentimento fu molto vasta: la scossa fu avvertita da Roma fino in Germania e in Francia. 39 G Nella EFFETTI NEL CONTESTO ANTROPICO Complessivamente le abitazioni distrutte furono circa 17.000, appartenenti a circa 120 comuni, per una popolazione di 500.000 persone. I comuni disastrati furono 41 (29 nella provincia di Udine e 12 nella provincia di Pordenone); quelli gravemente danneggiati furono 45 (39 in provincia di Udine e 6 in quella di Pordenone); quelli danneggiati furono 33 (29 in provincia di Udine e 4 in provincia di Pordenone). Lesioni e crolli parziali si verificarono anche a Udine e Trieste. Le vittime della scossa principale furono 965 e 2.400 circa i feriti; i senzatetto furono 189.000. Secondo la prima stima i danni ammontarono a circa 4.400 miliardi di lire. Dopo quattro mesi di attività per lo sgombero delle macerie e il ripristino degli edifici, le scosse dell’11 e 15 settembre, che causarono la morte di 13 persone, fecero risalire il numero di senzatetto da 45.000 unità a oltre 70.000. L’effetto psicologico fu devastante e si ebbe l’inizio dell’esodo di parte della popolazione dalle zone più colpite. A sinistra, pagina del Messaggero Veneto dedicata al terremoto del Friuli. Fonte: Dipartimento di Protezione Civile. In alto, strada di Osoppo dopo il terremoto. Fonte: Vigili del Fuoco di Milano, distaccamento di via Sardegna Sotto, il paese di Venzone. EFFETTI SULL’AMBIENTE A seguito della serie di scosse si attivarono o riattivarono numerose frane, in particolare lungo i fronti pedemontani da Artegna a Tenzone e da Forgaria a Bordano. In tutte le località colpite si verificarono cadute di massi che bloccarono e danneggiarono molte strade e la linea ferroviaria, ostacolando anche l’opera di soccorso. Si verificarono fenomeni di liquefazione, soprattutto vicino Osoppo, e molte rotture del terreno, con casi spettacolari lungo i versanti meridionali dei monti Cuarnan e Cuar. Sprofondamenti di pavimenti con fuoriuscita d’acqua furono rilevati ad Avasinis e vicino Gemona e Bordano. Fonti dei dati: Peruzza L., Slejko D., Riuscetti M., 2000, Itinerario Millenovecento76. OGS. Boschi E., Ferrari G., Gasperini P., Guidoboni E., Smriglio G., Valensise G., 1995, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a. C. al 1980. Istituto Nazionale di Geofisica, SGA storia geofisica ambiente. Mappa delle isosisme relative al terremoto irpino del 1980. A e B sono zone ad elevata attenuazione del danno. Sopra: San Mango sul Calore, a sinistra il paese di Laviano GENERALITÀ G Il terremoto, con epicentro a Laviano, ebbe effetti devastanti in particolare nel settore appenninico dell’Irpinia e della Basilicata. Furono quasi completamente distrutte 31 località, 55 subirono crolli e gravi lesioni, 780 furono danneggiate in modo più o meno grave. G L’area dei massimi effetti comprende le alte e medie valli dell’Ofanto e del Sele, il bacino del Tanagro, le zone montane del potentino, del Terminio, l’alta valle del Calore e l’alta valle del Sabato. G Danni rilevanti si ebbero in Campania, Basilicata e Puglia e risentimenti in quasi tutta l’Italia peninsulare. EFFETTI NEL CONTESTO ANTROPICO Il numero ufficiale di morti fu di 2.914 mentre circa 10.000 furono i feriti. Oltre 75.000 case furono distrutte e circa 275.000 gravemente danneggiate. I danni al patrimonio storico, architettonico, archivistico e librario furono ingenti. Le località più colpite erano economicamente deboli e basate su un sistema agricolo e pastorale piuttosto arretrato. L’evento ha inciso profondamente nella struttura sociale ed economica delle zone colpite anche a causa di una mai realizzata vera ricostruzione che doveva rilanciare il sistema produttivo ed economico. In ogni caso i finanziamenti stanziati dai vari governi ammontano a più di 50 mila miliardi. Fonte: giornali dell’epoca EFFETTI SULL’AMBIENTE Il terremoto provocò rotture del terreno, in alcuni casi molto profonde, a Campagna, Conza della Campania, Rocca San Felice, Valva e Volturara Irpina. Si verificarono riattivazioni di faglie preesistenti oltre che di movimenti franosi, come nei pressi di Caposele, a Senerchia e a Calitri, dove causarono il crollo di molte case. Frane più modeste avvennero a Valva e a Rocca San Felice. La faglia sismogenetica ruppe la superficie del terreno lungo una serie di frammenti continui: tra Lioni e il Pantano di San Gregorio Magno si formò una scarpata lunga circa 40 km, orientata NO-SE, con rigetti fino a un metro. A fianco: Specchio di faglia riattivatosi presso Senerchia. Foto: A. Pissart Fonti dei dati: Boschi E., Ferrari G., Gasperini P., Guidoboni E., Smriglio G., Valensise G., 1995, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a. C. al 1980. Istituto Nazionale di Geofisica, SGA storia geofisica ambiente. Lagorio H.J., Mader G.G., 1981, Earthquake in Campania-Basilicata, Italy Novembre 23, 1980. EERI, Berkeley California. Postpischl D., 1985, Atlas of isoseismal maps of italian earthquakes. CNR Progetto finalizzato geodinamica. Rischio sismico in Italia | Schede 40 Disastri naturali | Conoscere per prevenire rimasero in gran parte inabitabili. Ad Ancona la quasi totalità degli edifici pubblici e privati fu danneggiata. Crollarono oltre 100 dei 2000 edifici privati e molti altri rimasero inagibili. Crollarono diverse chiese e campanili, oltre a diverse porzioni delle mura della città. Anche Numana subì gravi danni. Ad Ancona le vittime furono tra 7 e 10 e ci fu un morto a Sirolo. Sul Monte Conero si aprì un’ampia frattura nella roccia e si formarono 4 voragini dalle quali fuoriuscì materiale bituminoso. A Sirolo si aprirono voragini nel terreno e ci fu un esteso smottamento. Ad Ancona le strade subirono spaccature e sul litorale furono osservate onde anomale in seguito al momentaneo ritiro del mare. SCHEDA 8 SERIE DI 14 FORTI TERREMOTI SUCCEDUTISI A RITMO QUASI ANNUALE DAL 1688 AL 1706 Intensità massima: da VIII a XI MCS Nel periodo compreso tra il 1688 e il 1706 il territorio italiano fu interessato da 14 forti terremoti. La maggior parte di essi appare concentrata lungo la fascia appenninica, ma altri hanno colpito anche la zona alpina e la Sicilia. | VAL DI NOTO 11 gennaio 1693 XI grado MCS Vedi descrizioni nella Scheda 2 IRPINIA | BASILICATA | ROMAGNA 11 Aprile 1688 IX grado MCS I danni maggiori si ebbero a Cotignola, dove crollò il 40% delle abitazioni e l’intero patrimonio edilizio risultò inagibile e a Bagnocavallo, dove fu distrutto il 20% delle case. Gravi danni si ebbero a Solarolo, Russi e Lugo e risentimenti minori a Terra del Sole, Castrocaro, Ravenna, Forlì, Cesena e Bertinoro. Tale evento e alcune alluvioni che seguirono determinarono una crisi economica locale dovuta alla sfiducia sui tempi della ricostruzione che portò artigiani e commercianti a lasciare temporaneamente l’area. | SANNIO 5 giugno 1688 XI grado MCS Effetti disastrosi si ebbero nei paesi a sud–ovest dei Monti del Matese, nel beneventano e nell’Irpinia. Una quarantina di paesi subirono estese distruzioni e altri 80 circa riportarono gravi danni. A Benevento delle 1.607 abitazioni esistenti, 997 furono distrutte o rese inabitabili, 325 subirono lesioni e solo le restanti 285 restarono abitabili. Crolli e molte lesioni si ebbero anche a Napoli e Avellino. La maggior parte delle case distrutte a Benevento risultavano costruite con ciottoli di fiume, mentre quelle in mattoni resistettero meglio. Le vittime furono in totale circa 10.000, concentrate soprattutto a Cerreto Sannita, Benevento e Guardia Sanframondi. A Benevento città i morti furono 1.367 su 7.500 abitanti, più 700 in campagna. La distruzione delle infrastrutture agricole (mulini, frantoi, forni) innescò una crisi alimentare. Gli effetti del terremoto sull’ambiente furono notevoli. Si aprirono fenditure nel terreno nei monti del Sannio, a Pomarico e tra San Giorgio la Molara e San Marco dei Cavoti, dove raggiunsero la lunghezza di alcuni chilometri. Una massa rocciosa staccatasi dal monte Erbano uccise 600 persone a San Lorenzello. | CARINZIA 4 dicembre 1690 VIII-IX grado MCS La scossa colpì la regione della Carinzia, causando distruzioni e vittime a Villach, Tobring e Wernberg. Danni gravi si ebbero a Klagenfurt. L’area di risentimento fu molto estesa e in Italia coinvolse il Veneto, il ferrarese e il ravennate, causando danni a Trieste e Venezia. | ANCONA 23 dicembre 1690 IX grado MCS La prima scossa, che colpì particolarmente Ancona, Sirolo e Numana, durò trenta secondi e fu seguita da varie repliche. A Sirolo numerose case crollarono e le altre 5 giugno 1694 XI grado MCS Si verificò una prima scossa di circa un minuto, seguita da una violenta replica e da una ulteriore sequenza che durò circa un quarto d’ora. I danni cumulativi furono pesantissimi in oltre 120 località della Campania, della Basilicata e della Puglia. In 56 paesi il patrimonio edilizio fu reso completamente inagibile e furono quasi completamente distrutti oltre 30 paesi della dorsale appenninica nelle province di Avellino e Potenza: tra questi Bisaccia, Sant’Angelo dei Lombardi, Calitri, Lioni, Conza della Campania, San Fele, Muro Lucano, Bella, Picerno. Crolli e lesioni si verificarono dalla costa tirrenica a quella adriatica. La scossa fu avvertita da Messina a Chieti e Fano. Le vittime furono oltre 6.000. Nell’area colpita, che attraversava già un periodo di crisi, la situazione economica si aggravò ulteriormente e numerosissimi senzatetto emigrarono. La scossa innescò crolli nell’area di Sorrento, Capua e Napoli e generò fenditure nel terreno. Inoltre un blando maremoto fu osservato sulla costa di Brindisi. | ASOLO (TV) 5 giugno 1695 X grado MCS L’evento causò gravi danni in larga parte del Veneto e l’area più danneggiata fu l’alto trevigiano, a sud del Monte Grappa. 41 Le località più colpite furono Asolo e i villaggi circostanti: oltre 30 centri abitati subirono distruzioni gravissime mentre in altri 24 si ebbero crolli e dissesti. Ad Asolo crollarono 1.477 case e 1.284 furono gravemente danneggiate. Lievi danni ci furono anche a Rovigo, Ferrara e Verona. Le vittime furono alcune centinaia. Il terremoto aggravò una crisi economica già in corso nella zona, tanto che si verificò uno spopolamento dei centri asolani. BAGNOREGGIO | (VT) 11 giugno 1695 IX grado MCS L’evento distrusse gran parte dei castelli di Bagnoregio, Lubriano, Ponzano, Vetriolo e Celleno, causò danni fino ad Orvieto e fu avvertito da Perugia e Assisi sino a Civita Castellana, Viterbo e Tivoli. Anche se le scosse premonitrici consentirono a molti di salvarsi, il numero di vittime raggiunse le 200 unità, con 25-30 morti a Bagnoregio. Il lago di Bolsena si alzò di circa 4 metri, allagando i terreni circostanti per una estensione di oltre 4 chilometri. | CARNIA (UD) 28 Luglio 1700 IX grado MCS Il terremoto colpì in particolare il Canale di Gorto (valle del Degano) e il Canale di Socchieve (alta valle del Tagliamento). Le distruzioni maggiori si ebbero a Enemonzo, Esemon di Sotto, Mediis, Quinis e Raveo. A Enemonzo crollarono gran parte delle abitazioni e diverse chiese. A Raveo crollarono quasi tutte le case e le due chiese subirono gravissimi danni. Lesioni e dissesti più o meno gravi furono segnalati in decine di paesi. Complessivamente vi furono oltre 20 morti. Nei pressi di Ovaro ci furono smottamenti e una grande frana si staccò dal Monte Forchianon. gennaio 1688 || NORCIA (PG) Montereale14(Aq) 16 gennaio L’Aquila, Barete, Pizzoli, Arischia 2 febbraio, | XI grado MCS La prima scossa del 14 gennaio fu seguita da numerose altre, altrettanto forti. Tutta l’Italia centrale da Camerino a Roma ne fu interessata. Una ventina di centri abitati risultarono quasi completamente distrutti, altrettanti subirono molti crolli e un centinaio di paesi subirono danni gravi. La prima scossa colpì gravemente Norcia e Cascia, danneggiando anche Rieti e L’Aquila, quella del 16 gennaio colpì Montereale, nei dintorni di L’Aquila, e quella del 2 febbraio L’Aquila, Barete, Pizzoli e Arischia. Complessivamente oltre 150 paesi furono pesantemente danneggiati e vi furono crolli e lesioni anche a Roma. Dalle fonti a disposizione le vittime oscillano tra le 10.000 e le 30.000. Secondo fonti dello Stato Pontificio in Umbria ci furono 2.067 morti e in Abruzzo 7.694, di cui 2.000–2.500 a L’Aquila. Il terremoto causò una grave crisi economica per l’interruzione delle attività produttive nelle zone colpite, da cui si manifestarono flussi migratori. Sono segnalati effetti al suolo (spaccature del terreno con fuoriuscita di gas, intorbidamento di acque e nascita di nuove sorgenti) a Antrodoco, Arischia, Bacugno e Leonessa. | MAIELLA (CH) 3 novembre 1706 XI grado MCS Fu colpita un’ampia area dell’Abruzzo meridionale e del Molise, in gran parte su entrambi i versanti del massiccio della Maiella, attualmente ricadente nelle province di L’Aquila, Pescara, Chieti e Isernia. Le località quasi totalmente distrutte furono 7, in un’altra trentina crollò la maggior parte delle case e una cinquantina di paesi e villaggi subirono danni diffusi. Sulmona fu la città più importante tra quelle colpite. Isernia subì dei crolli, Chieti e L’Aquila danni leggeri. Il terremoto fu avvertito a Roma, Rieti e Napoli. Le vittime furono 2.400. A Sulmona 1.000 furono i morti e 2.000 i feriti. A Pettorano sul Gizio, a Caramanico e a Tocco da Casauria si ebbero spaccature del terreno. Vicino alla Maiella si aprì una grande fenditura da cui fuoriuscirono gas solforosi. Fonti dei dati: Postpischl D., 1985, Atlas of isoseismal maps of italian earthquakes. CNR Progetto finalizzato geodinamica. Boschi E., Ferrari G., Gasperini P., Guidoboni E., Smriglio G., Valensise G., 1995, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a. C. al 1980. Istituto Nazionale di Geofisica, SGA storia geofisica ambiente. Serva L., 1981a, Il terremoto del 1688 nel Sannio. In: Contributo alla caratterizzazione della sismicità del territorio italiano. Commissione ENEA-ENEL per lo studio dei problemi sismici connessi con la realizzazione di impianti nucleari. Serva L., 1981b, Il terremoto del 1694 in Irpinia e Basilicata. In: Contributo alla caratterizzazione della sismicità del territorio italiano. Commissione ENEAENEL per lo studio dei problemi sismici connessi con la realizzazione di impianti nucleari. Rischio sismico in Italia | Schede 42 Disastri naturali | Conoscere per prevenire | MONTERCHI (AR) SCHEDA 9 SERIE DI 6 FORTI TERREMOTI DAL 1915 AL 1920 Fu colpita l’alta Val Tiberina e i paesi più danneggiati furono Monterchi e Petretole, che furono distrutti pressoché completamente. A Monterchi e nel suo territorio il 90% delle case crollarono o divennero inabitabili. Altri cinque paesi subirono crolli estesi a gran parte dell’abitato. Sansepolcro subì gravi danni, con 200 case rese inagibili e 900 danneggiate più lievemente. L’area di risentimento si estese in Toscana, Umbria e Marche. Le vittime furono una ventina e una trentina i feriti. Il patrimonio artistico dell’area subì molti danni. Presso Monterchi si aprirono spaccature nel terreno, alcune lunghe un chilometro e larghe 20-50 centimetri. Il regime delle acque sotterranee subì variazioni, con aumenti delle portate e intorbidamenti. A Citerna e Monterchi furono segnalati getti di acqua solforosa. Intensità massima: da VIII a XI MCS Tra il 1915 e il 1920 sei forti terremoti scossero l’Italia centro–settentrionale. | SANTA SOFIA (FO) | AVEZZANO (AQ) In alto a sinistra: terremoto della Marsica. Una foto di gruppo sulle macerie di una casa crollata in P.zza S. Giovanni a Celano. Fonte: Comune di Celano (Aq). A sinistra, la prima pagina della Domenica del Corriere 13 gennaio 1915 XI grado MCS Fu uno dei disastri sismici più gravi della storia italiana. La scossa principale interessò un’area molto estesa dell’Italia centrale con effetti distruttivi in tutta la Marsica, nel Cicolano fino a Perugia, nell’alta valle del Liri fino a Cassino, nella valle dell’Aterno e nell’alta valle del Vomano, lungo le pendici opposte del Gran Sasso, della Maiella, e nell’area dei monti Simbruini e Ernici. Fu avvertita dalla Pianura Padana fino in Puglia. Oltre 20 centri abitati subirono una distruzione pressoché totale, oltre 80 persero gran parte del patrimonio edilizio, oltre 200 subirono crolli o danni che determinarono l’inagibilità delle case, circa 240 ebbero lesioni o danni più lievi. Tutti i centri maggiormente distrutti (Avezzano, Cese, Gioia dei Marsi, Ortucchio, San Benedetto dei Marsi, Venere) si trovano a est e a ovest della piana che ospitava l’antico lago del Fucino. Persino Roma subì dei crolli parziali e numerose lesioni. Le vittime furono circa 33.000. Altre 3.000 perirono per malattie e stenti nei mesi successivi, che furono caratterizzati da gravi emergenze. Ci fu un crollo demografico in tutta l’area epicentrale. Numerosi paesi, oltre a dover essere ricostruiti in altri siti, persero gran parte della loro popolazione. Avezzano e Cese persero il 95% della popolazione, Massa d’Albe l’85%, Piscina il 72%, Ortucchio il 71%, San Benedetto dei Marsi più del 70%, ecc. Gli effetti sul terreno furono notevoli ed estesi su un’area molto vasta. Oddone descrisse un’ampia spaccatura che attraversava in direzione SE-NO tutto il Fucino per circa 70 chilometri, assumendo l’aspetto di un crepaccio largo da 30 a 100 centimetri e 26 Aprile 1917 IX - X grado MCS con un dislivello tra i bordi compreso tra 30 e 90 centimetri. Nei pressi di Ortucchio dalla spaccatura fuoriuscirono per molti giorni acqua e gas infiammabili. Anche presso San Benedetto dei Marsi da ampie fratture fuoriuscirono acqua e gas solforosi. A Pescina, Sora e Concerviano si formarono vulcanetti di fango. Furono innescate frane e crolli di massi in molte località. Tutta la piana del Fucino si abbassò in media di circa 40 centimetri. Il sistema freatico dell’area subì delle modificazioni: ci furono intorbidamenti, variazioni di portata, scomparsa di sorgenti, variazioni di livello nei pozzi. A Tivoli si prosciugò un lago e a Posta Fibreno aumentò la portata del fiume Fibreno. 10 novembre 1918 VIII grado MCS Furono colpiti una ventina di paesi dell’Appennino forlivese, causando crolli, lesioni e danni diffusi alle abitazioni. I centri più danneggiati furono Santa Sofia e Galatea. Bagno di Romagna e Civitella di Romagna subirono gravi danni, Predappio, Rocca San Casciano e Verghereto subirono lesioni alle case, mentre danni più lievi si ebbero in provincia di Arezzo. Risentimenti si ebbero in Toscana, nel ferrarese e nelle Marche settentrionali. I morti furono tra 8 e 16. Nel giugno successivo l’area fu nuovamente danneggiata dal terremoto del Mugello del 1919. | MUGELLO (FI) 29 giugno 1919 IX grado MCS 12 paesi furono distrutti e molte case rurali crollarono completamente. 70 centri abitati furono danneggiati e gravi danni si ebbero anche nell’alto casentino, nella Val d’Arno e nelle località appenniniche romagnole, dove gli effetti si sommarono a quelli dovuti al precedente terremoto del novembre 1918. L’area di risentimento raggiunse l’Umbria e la pianura Padana. Ci furono oltre 100 morti e 400 feriti. Nel versante romagnolo non ci furono vittime molto 43 probabilmente perché la popolazione viveva ancore in baracche a seguito del terremoto del 1918. La vita economica e sociale fu profondamente segnata da questo evento. A Vicchio, San Godendo e Dicomano si verificarono frane e crolli di massi che bloccarono la linea ferroviaria Firenze–Marrani e le strade dei passi appenninici. A Rostolena e San Piero in Bagni si aprirono fenditure nel terreno. Le acque sotterranee subirono variazioni di portata, comparvero nuove sorgenti e altre si intorbidarono. | PIANCASTAGNAIO 10 settembre 1919 VIII grado MCS Gli effetti maggiori riguardarono una ventina di paesi sul Monte Amiata, fra le province di Siena e Grosseto. I danni più gravi si verificarono a Piancastagnaio, Celle sul Rigo, Montorio, Radicofani, San Casciano dei Bagni e San Giovanni delle Contee. A Piancastagnaio crollarono 8 case e 10 furono gravemente danneggiate, a San Casciano dei Bagni 40 case furono lesionate e a Radicofani 15. Ci furono un morto e una ventina di feriti. L’unico effetto sull’ambiente segnalato fu l’intorbidamento di acque sorgive. GARFAGNANA | (LU) 11 giugno 1920 X grado MCS Il terremoto colpì un’area estesa dalla Lunigiana alla Garfagnana. Villa Collemandina e Vigneta furono quasi completamente distrutte e oltre 30 paesi subirono crolli. I centri abitati colpiti a vari livelli furono 350, di cui più di 100 subirono crolli e lesioni. L’area di risentimento si estese dalla Costa Azzurra al Friuli, alla Toscana, all’Umbria e alle Marche. Le repliche si protrassero fino all’agosto del 1921. I morti furono 171, i feriti 650 e i senzatetto alcune migliaia. Il relativo basso numero di vittime fu dovuto in parte ad una scossa premonitrice avvenuta il giorno precedente a quella più forte, e in parte al fatto che l’economia era basata sull’agricoltura e l’allevamento e quindi all’ora del terremoto (7:56 locali) in casa c’erano solo poche donne e bambini. A Castiglione di Garfagnana, Rigoso e Trefiumi si verificarono spaccature nel terreno oltre a frane e crolli di massi. Si ebbero anche intorbidamenti e variazioni di portata delle sorgenti. Fonti dei dati: Serva L., 1991, Un metodo per una migliore comprensione della sismicità di un’area: la Conca del Fucino. In E. Boschi e M. Dragoni (a cura di) : Aree sismogenetiche e rischio sismico in Italia, Roma, 2, pp. 187-196. Boschi E., Ferrari G., Gasperini P., Guidoboni E., Smriglio G., Valensise G., 1995, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a. C. al 1980. Istituto Nazionale di Geofisica, SGA storia geofisica ambiente. Oddone E., 1915, Gli elementi fisici del grande terremoto marsicano fucense del 13 gennaio 1915. Boll. Soc. Sismol. Ital., 19, pp. 71-215. 44 Rischio vulcanico in Italia | Le caratteristiche dei vulcani Disastri naturali | Conoscere per prevenire 3. IL RISCHIO VULCANICO IN ITALIA La Terra è un pianeta dinamico, in continuo divenire, in cui le placche che suddividono la sua parte superficiale sono in costante, lento movimento l’una rispetto all’altra. I movimenti delle placche hanno determinato l’attuale assetto geologico del pianeta e sono responsabili delle manifestazioni più appariscenti e drammatiche della sua dinamicità: terremoti e vulcani. La distribuzione planetaria di tali fenomeni naturali non è, infatti, casuale ma strettamente correlata con i limiti delle placche; il loro tipo di attività riflette i diversi ambienti geodinamici in cui vengono originati (Figura 3.1). di ferro, magnesio e calcio, elementi che riescono ad interrompere i forti legami tra silicio ed ossigeno determinando una diminuzione della viscosità ed una conseguente bassa esplosività delle eruzioni (eruzioni effusive). L’origine e la composizione chimica dei magmi sono strettamente legate all’ambiente geodinamico di formazione. In corrispondenza dei margini divergenti (dorsali oceaniche) fuoriescono magmi basaltici direttamente derivanti dalla fusione parziale del mantello superiore (astenosfera). Tale fusione è indotta da processi di decompressione connessi con la risalita di masse calde profonde. In corrispondenza dei margini convergenti (zone di subduzione, Figura 3.2), invece, la fusione del mantello superiore è legata al trasporto in profondità di rocce e sedimenti contenenti minerali idrati che liberando l’acqua, tra i 100 ed i 200 km di profondità, determinano l’abbassamento del punto di fusione. Il materiale fuso, ricco in volatili e più leggero delle rocce circostanti, risale fino al punto in cui la sua densità uguaglia quella delle rocce incassanti (generalmente all’interfaccia mantellocrosta), dove staziona all’interno di una camera magmatica. Un vulcano è definito come un’apertura della crosta terrestre tramite la quale una miscela di materiale fuso e gas (magma) fuoriesce in superficie (lava). Il magma deriva dalla fusione parziale delle rocce profonde quando si verificano particolari condizioni di pressione e temperatura. Esso contiene al suo interno quantità variabili di quasi tutti gli elementi chimici, con preponderanza di silicio ed ossigeno, che condizionano fortemente il tipo di magma e di attività vulcanica. I magmi ricchi in silice (SiO2) (magmi acidi) hanno maggiori concentrazioni di sodio e potassio ed una elevata viscosità che determina, a causa della difficoltà a fluire del magma, un’alta esplosività delle eruzioni associate (eruzioni esplosive). I magmi più poveri in silice (magmi basici) presentano tenori più elevati Durante la permanenza nella camera magmatica, il magma subisce complessi processi di differenziazione (frazionamento, mescolamento, contaminazione) che lo rendono sostanzialmente diverso da quello originario. Il magma può stazionare all’interno della camera sino al suo totale raffreddamento (rocce intrusive) oppure può riprendere la sua ascesa verso la superficie, generalmente a causa di variazioni di pressione che possono essere determinate da varie cause. Quale che sia il meccanismo, per la generazione di un’eruzione è necessario che si alteri l’equilibrio tra magma e rocce incassanti e che si creino fratture tramite le quali il magma può fuoriuscire in superficie (Figura 3.3) creando un apparato vulcanico, la cui forma dipende dal tipo di materiale eruttato e dalle modalità di eruzione. 3.1. Le caratteristiche dei vulcani Figura 3.1 – Distribuzione globale dei vulcani. La maggior parte dell’attività vulcanica è situata in corrispondenza dei limiti delle placche sia dove si crea nuova crosta (dorsali oceaniche) sia dove la crosta viene distrutta sprofondando al di sotto di un’altra placca (zone di subduzione). Altri apparati vulcanici sono localizzati all’interno delle placche (vulcani intraplacca) e sono legati alla risalita di magmi profondi. Fonte: Isat 45 Figura 3.2 Formazione del vulcani in relazione all’ambiente geodinamico. Fonte: ISAT. 46 Rischio vulcanico in Italia | le caratteristiche dei vulcani Disastri naturali | Conoscere per prevenire 1. Fin qui il magma risale perchè meno denso del materiale circostante 2. Da qui il magma risale perchè la pressione sopra la camera magmatica è diminuita 1 2 Figura 3.3 – Esempio di meccanismo di risalita del magma. Fonte: ridisegnato da http://vulcans.fis.uniroma3.it/gnv. Anatomia di un vulcano I vulcani rappresentano i punti in cui avviene un trasferimento di masse, liquide ed aeriformi, dall’interno della terra verso l’esterno. Sebbene l’immaginario collettivo percepisca, ovviamente, solo l’effetto distruttivo dell’attività vulcanica, senza tale attività non ci sarebbe stata la formazione della crosta terrestre, dell’atmosfera e dell’idrosfera, ed il determinarsi di condizioni che hanno permesso la complessità biologica del pianeta In linea generale, un vulcano (Figura 3.4) può essere considerato un sistema costituito da: una camera magmatica, situata a profondità variabili, dove staziona il magma; un condotto eruttivo tramite il quale il magma può salire verso la superficie fuoriuscendo in corrispondenza della bocca eruttiva (cratere); ed un apparato la cui forma è strettamente legata al chimismo del magma, agli stili eruttivi ed alla tipologia del materiale emesso. Nelle eruzioni effusive il magma viene emesso come liquido (lava) che scende, anche per molti chilometri, lungo i fianchi dell’apparato (colata la- atmosfera da colonne eruttive sostenute e più o meno sviluppate a seconda del tipo di eruzione. Se l’eruzione è altamente esplosiva, il progressivo incremento in peso del materiale sostenuto può determinare il parziale collasso della colonna con formazione di distruttive correnti piroclastiche ad alta temperatura (fino a 700°C) e velocità (>80 km/h) che scorrono lungo i fianchi del vulcano. Le correnti possono originarsi anche per trabocco dal cratere quando la miscela gas-piroclasti è troppo densa per dare origine alla colonna oppure a seguito della distruzione, per esplosione, di duomi lavici. Le correnti vengono distinte in flussi (alta concentrazione di piroclasti) e surges (alta concentrazione di gas). Questi ultimi possono essere originati anche da eruzioni freatomagmatiche. La propagazione dei flussi è generalmente vincolata dalla morfologia dell’edificio mentre i surges presentano mobilità molto maggiore e possono superare barriere morfologiche investendo areali molto ampi. Grandi frane o fratture sui fianchi del vulcano possono originare pericolosissime esplosioni laterali che generano correnti piroclastiche ad alta densità ed elevatissima velocità (> 100m/s). Nel corso delle eruzioni più violente, gli enormi tassi eruttivi determinano un collasso continuo della colonna dando origine a flussi piroclastici (ignimbriti) che possono avere dimensioni e potenza tali da riuscire a superare i rilievi e ricoprire ampie aree con depositi spessi decine di metri (ad esempio, le ignimbriti flegree). A causa delle grandi emissioni di vapore le eruzioni esplosive sono sempre accompagnate da forti piogge che possono mobilizzare il materiale incoerente depositato sulle pendici del vulcano o nei rilievi circostanti dando origine ad enormi e distruttive colate rapide di fango e detriti (lahar) che, incanalate nelle depressioni vallive, possono raggiungere in breve tempo le aree pianeggianti antistanti. I lahar possono essere originati anche dalla fusione rapida di neve e ghiaccio (es. Nevado del Ruiz) o da eruzioni in un lago craterico (Lago di Albano), e possono verificarsi anche molto tempo dopo l’eruzione vulcanica (Sarno). 47 I vulcani vengono in genere classificati come: vulcani attivi: con una storia registrata di attività più o meno continua (ci sono almeno 600 vulcani considerati attivi sul pianeta, con eruzioni in media ogni 50-60 anni); vulcani quiescenti: senza una storia registrata di attività ma con segni evidenti di attività in un passato geologico relativamente recente e che possono dare luogo a violentissime eruzioni (è il caso del Vesuvio, che nel 79 a.C. era considerato estinto; ma anche del St. Helens con l’eruzione del 1980, che era stato quiescente per 123 anni, e del Pinatubo nelle Filippine con l’eruzione del 1991, che era stato quiescente per oltre 400 anni; il caso del Vulcano Laziale verrà discusso più avanti); vulcani estinti: senza alcun segno di attività recente. Eruzioni e tipi di apparato Figura 3.4 Schema di un apparato vulcanico con condotto centrale e delle fenomenologie associate ad un’eruzione. Fonte: ISAT. vica), mentre in quelle esplosive il magma è emesso in forma frammentata, allo stato liquido e solido (prodotti piroclastici o tefra). I prodotti piroclastici possono avere dimensioni variabili da metriche-plurimetriche (bombe e blocchi) a centimetriche (lapilli-scorie-pomici) e millimetriche (ceneri-polveri). Nel corso di un’eruzione, i piroclasti vengono trascinati in Le modalità di emissione del magma variano fortemente in dipendenza dalle caratteristiche chimico-fisiche del magma stesso (principalmente viscosità e contenuto in acqua) e dallo stato di chiusura od apertura del condotto. È comunque possibile classificare i tipi di eruzione in alcune principali categorie (Tabella 3.1). Esse non possono però essere considerate rigidamente poiché, in particolare durante un’eruzione esplosiva, un vulcano è generalmente interessato, spesso in modo repentino ed inaspettato, da cambiamenti nello stile eruttivo e nella tipologia dei materiali emessi a causa di variazioni del chimismo del magma, della sua viscosità e del contenuto in volatili, dell’allargamento del cratere o del contatto con acque sotterranee. Un’eruzione può essere in genere considerata come l’insieme di distinte fasi eruttive (ad esempio, fasi freatica, pliniana e freato-magmatica, come nel caso del Vesuvio nel 79 d.C.). Non esistendo, per i vulcani, una scala di magnitudo strumentale come quella dei terremoti, una valutazione dell’energia liberata nel corso di un’eruzione, indipendentemente dalle modalità con cui viene liberata, può Il lago di Albano 48 Rischio vulcanico in Italia | le caratteristiche dei vulcani Tabella 3.3 – Schematizzazione dei tipi di apparato vulcanico Tabella 3.1 – Classificazione dei tipi di eruzioni TIPO DI ERUZIONE CARATTERISTICHE PRINCIPALI ESEMPI Hawaiana Attività ad esplosività bassa o nulla, emissione di magmi basaltici molto fluidi da un cratere centrale e da fessure sui fianchi dell’apparato con formazione di chilometriche colate laviche. Presenza di laghi di lava all’interno del cratere. Nelle fasi a bassa esplosività si formano getti di lava verso l’alto fino ad altezze di qualche centinaio di metri (fontane di lava). Mauna Loa Kilauea Attività intermittente a media esplosività con fuoriuscita di bombe, lapilli e ceneri che nelle fasi più intense possono raggiungere qualche chilometro d’altezza. Fontane e colate di lava. Stromboli Vulcaniana Attività esplosiva con prevalente produzione di ceneri e bombe, magmi viscosi ricchi in silice e gas, flussi piroclastici. Vulcano Peleana Eruzioni violente e distruttive, magmi viscosi ricchi in silice e gas, flussi piroclastici. Mount Pelee PlinianaUltrapliniana Attività esplosiva violentissima con enormi e continue fuoriuscite di gas e materiale piroclastico, colonna sostenuta molto elevata, colate e surges piroclastici, formazione di caldere per svuotamento della camera magmatica. Le eruzioni ultrapliniane presentano le stesse fenomenologie ma con una potenza decisamente maggiore. Depositi ignimbritici. Vesuvio Krakatoa Santorini Stromboliana Freatomagmatica Violenta attività esplosiva legata al contatto del magma con le acque sotteranee o marine. Surtsey, Vesuvio Freatica Vesuvio Vulcano Mount St. Helens Potentissime esplosioni di gas dovute al riscaldamento delle acque sotterranee da parte della camera magmatica, nessuna emissione di magma ma solo di frammenti di rocce strappati dal condotto che possono essere lanciati anche a distanze notevoli. TIPO DI APPARATO CARATTERISTICHE GENERALI Vulcani a scudo Originati da eruzioni effusive con colate di lava molto fluida; hanno in pianta una forma allargata e fianchi poco inclinati. Per la continua sovrapposizione di lave basaltiche dal condotto centrale o dai fianchi possono raggiungere dimensioni enormi. Strato-vulcani (vulcani compositi) Sono formati dalla sovrapposizione di prodotti piroclastici e colate laviche dovute all’alternanza di eruzioni esplosive ed effusive. Le eruzioni più violente possono determinare il collasso di una porzione del vulcano in parte obliterata dalle eruzioni successive. Con dimensioni generalmente inferiori a quelle dei vulcani a scudo hanno pendii molto ripidi. Si accrescono prevalentemente per emissioni da un condotto centrale, assumendo spesso la tipica forma a cono, ma possono essere presenti anche coni eruttivi sviluppati sui fianchi (coni laterali). Se l’eruzione è fissurale il vulcano assume una forma allungata. Le eruzioni esplosive sono legate all’ostruzione del condotto da parte di un tappo di magma viscoso con conseguente accumulo delle pressioni dei gas all’interno della camera magmatica. La distruzione dell’occlusione determina generalmente il passaggio ad una fase prevalentemente effusiva a moderata esplosività (fase a condotto aperto). Duomi lavici Si formano quando le lave sono talmente viscose da non riuscire a dare origine a colate e si sovrappongono in corrispondenza del cratere formando dei rilievi cupuliformi. Spesso rappresentano la fase finale di un’eruzione durante la quale vengono emessi magmi sempre più acidi e viscosi (St. Helens). L’occlusione del cratere può dare luogo a violentissime fuoriuscite di gas e ceneri che sotto forma di flussi piroclastici scendono sui fianchi del vulcano (Pelee). Mount Pelee St. Helens Ischia Sono apparati costituiti prevalentemente da scorie vulcaniche, con fianchi molto ripidi, forma circolare ed altezza variabile da 30 a 300 metri. Facilmente erodibili a causa dell’incoerenza del materiale si formano abbastanza velocemente (decine di giorni) durante eruzioni a moderata esplosività. Il materiale piroclastico ad elevata temperatura può dare origine a coni di scorie saldati (spatter). Monti Silvestri (Etna) Coni di tufo Coni di cenere Sono prevalentemente formati da cenere consolidata e presentano pendii moderatamente ripidi. Meno frequenti dei precedenti, sono legati a fasi esplosive freatomagmatiche. I coni di cenere si differenziano per l’incoerenza dei depositi. Monte Nuovo, Solfatara (Campi Flegrei) Anelli di tufo Anelli di cenere Maar Di origine analoga ai precedenti, se ne differenziano per una minor ripidità dei fianchi ed un maggior diametro del cratere. I maar sono un tipo di anello di tufo caratterizzato dal fatto di avere il fondo del cratere al di sotto del piano campagna. Averno, Astroni (Campi Flegrei) Porto d’Ischia Caldere Sono legate al rapido svuotamento di un’ampia camera magmatica a seguito di eruzioni di estrema violenza ed alti tassi di emissione (pliniane-ultrapliniane). Lo svuotamento della camera determina il collasso delle rocce sovrastanti con creazione, in superficie, di una vasta struttura depressa sovente di forma circolare. Le caldere risorgenti (esempio M. Epomeo-Ischia) hanno nella parte centrale un sollevamento a forma di cupola, provocato da duomi lavici che si formano appena sotto la superficie (cripto-duomi) per la risalita di nuovo magma. Ciò può preludere a nuove fasi eruttive. Campi Flegrei Vulcani laziali Yellowstone, Krakatoa Santorini Coni di scorie essere effettuata tramite l’Indice di Esplosività Vulcanica (VEI) (Tabella 3.2). La variabilità dei tipi di magma, degli stili eruttivi e dei tipi di materiali emessi determina un’ampia variabilità nelle forme degli apparati vulcanici, schematizzata in Figura 3.5 e Tabella 3.3. Tabella 3.2 – Indice di Esplosività Vulcanica (VEI) tipi di osservazioni e di dati che possono permettere di definire l’indice. VEI ESPLOSIVITÀ DESCRIZIONE QUALITATIVA ERUZIONE TIPO DI ERUZIONE INIEZIONE IN TROPOSFERA 0 1 Non esplosiva Debole Effusiva Mite 2 Moderata Esplosiva 3 Severa 4 Moderataforte Forte Violenta 5 6 Molto forte Molto forte Catastrofica Parossistica 7 8 Molto forte Molto forte Colossale Terrificante Hawaiana HawaianaStromboliana StrombolianaVulcaniana VulcanianaSubpliniana VulcanianaSubpliniana Pliniana PlinianaUltrapliniana Ultrapliniana Ultrapliniana INIEZIONE IN STRATOSFERA 49 Disastri naturali | Conoscere per prevenire TASSO ERUTTIVO (KG/S) VOLUME PRODOTTI (M3) ALTEZZA COLONNA ERUTTIVA (KM) POTENZA TERMICA (LOG KW) DURATA EMISSIONE CONTINUA (ORE) Trascurabile Nessuna Minore Nessuna 102-103 103-104 >104 104-106 <0,1 0,1-1 5-6 6-7 <1 <1 Moderata Nessuna 104-105 106-107 1-5 7-8 1-6 Grande Possibile 105-106 107-108 3-15 8-9 1-12 Grande Sicura 106-107 108-109 10-25 9-10 1->12 Grande Grande Significativa Significativa 107-108 108-109 109-1010 1010-1011 >25 >25 10-11 11-12 1->12 6->12 Grande Grande Significativa Significativa >10 ? 10 -10 >1012 >25 >25 >12 ? >12 >12 9 11 12 Fonti : Bell F.G., 2003, Geological hazards, Spon Press Ed., London; Newhall C.G. and Self S., 1982, The volcanic explosivity index (VEI): An estimate of explosive magnitude for historical volcanism, J. Geophys. Res., 87; Barberi F., Santacroce R., Carapezza M.L., 2005, Terra pericolosa, ETS edizioni. Pericoli connessi con l’attività vulcanica L’attività vulcanica produce una serie di fenomeni che possono rappresentare un serio pericolo per l’uomo, le sue attività e l’ambiente. Tali fenomeni sono direttamente (colate di lava, flussi piroclastici, eiezione di materiali) o indirettamente (colate di fango, terremoti, tsunami) legati alle eruzioni. Generalmente il loro grado d’intensità - e quindi la pericolosità di un vulcano attivo - è strettamente correlato con il tempo di quiescenza. Più questo è ESEMPI Hawaii Etna Vesuvio Fujiama Rainer Popocatepetl Hekla 50 Rischio vulcanico in Italia | le caratteristiche dei vulcani Figura 3.5 - Rappresentazione grafica di alcuni tipi di apparato vulcanico. Fonte: Ridisegnato da http://mediatheek.thinkquest.nl. prolungato, più aumenta la probabilità di una ripresa dell’attività con eruzioni ad alta esplosività, a causa del continuo accumulo di magma e gas all’interno della camera magmatica. Le principali caratteristiche dei fenomeni sono schematicamente riportate nella tabella 3.4. Tabella 3.4 – Fenomeni connessi con le eruzioni FENOMENO CARATTERISTICHE PRINCIPALI Colate di lava Raramente pericolose per la vita umana a causa della loro velocità generalmente bassa, che permette la previsione e l’evacuazione. Le aree interessate vengono però distrutte. Possibili interventi di raffreddamento, contenimento e deviazione delle colate. Emissione di materiali Possibile impatto diretto con blocchi e bombe in un raggio di 3-4 km dal centro eruttivo. Ricaduta di ceneri in aree vastissime con problemi di stabilità dei solai (per spessori > 10 cm), danneggiamenti alle linee elettriche e telefoniche, contaminazione dei prodotti agricoli e delle acque, difficoltà alla viabilità. Immissione di ceneri in atmosfera/stratosfera con seri problemi agli aeromobili e parziale schermatura della radiazione solare con possibili effetti climatici. 3.2. I vulcani italiani Come si è detto, l’attuale assetto geologico-strutturale del Bacino del Mediterraneo è, in linea generale, legato al processo di subduzione della placca africana al di sotto di quella euroasiatica. Tale schema è complicato dalla presenza di una serie di microplacche che danno origine a un complesso quadro geodinamico in cui coesistono aree stabili, in compressione (margini convergenti), ed aree in distensione (margini divergenti). La complessità geodinamica si riflette nella forte variabilità del vulcanismo italiano, in cui sono presenti praticamente tutti i tipi di eruzione ed i cui prodotti coprono quasi interamente lo spettro delle rocce magmatiche. Schematizzando, si può affermare che a processi di subduzione sono legati i vulcani del margine tirrenico laziale-campano e delle Isole Eolie; ad un vulcanismo di intraplacca potrebbero essere associati i vulcani del Canale di Sicilia ed alcuni dei vulcani sommersi del bacino tirrenico, mentre la posizione geodinamica dell’Etna è tuttora fonte di notevoli discussioni scientifiche. Flussi piroclastici L’alta velocità (> 80 km/h), le temperature elevate (fino a 700°), l’enorme carico solido e i gas tossici determinano la totale distruzione Surges Esplosioni laterali delle aree investite dal corpo centrale del flusso. Danni notevoli anche al margine del flusso. I surges interessano areali più vasti e a causa della loro mobilità possono superare barriere morfologiche. Difficile la loro esatta previsione e praticamente impossibile la fuga. Colate di fango e detriti (lahars) Fenomeni molto frequenti e ad elevato potere distruttivo. Legati alla mobilizzazione, sotto forma di flusso acquoso, del materiale incoerente depositato dal vulcano, si innescano sia durante l’evento eruttivo sia anni dopo il suo termine. In dipendenza dalla loro fluidità e dalle caratteristiche morfologiche dell’area possono percorrere decine di km e seppellire le aree sotto molti metri di fango. Se l’eruzione è monitorata è possibile individuare ed evacuare la aree interessate dai lahars. Frane vulcaniche Legate all’incremento della instabilità dei versanti a causa di terremoti, sollevamenti del suolo, apertura di fratture ecc., possono avere dimensioni notevoli (es. Valle del Bove-Etna, Sciara del fuoco– Stromboli). Riconoscibili tramite l’attento monitoraggio dell’apparato. Terremoti L’attività vulcanica è costantemente accompagnata da una attività sismica locale dovuta agli stress interni alla camera magmatica. I terremoti sono generalmente di moderata magnitudo ma, in aree densamente popolate, possono determinare crolli capaci di creare impedimenti alle attività di evacuazione. Tsunami Tsunami possono essere generati da eruzioni vulcaniche sottomarine o sublacuali, collassi calderici, entrata a mare di colate laviche, di flussi piroclastici e lahars, collassi dei fianchi dell’apparato. L’altezza dell’onda è ovviamente legata alle dimensioni del fenomeno innescante. Lo tsunami generato dall’eruzione del Krakatoa (1883) determinò la morte di 36.000 persone. Emissione di gas tossici Nel corso dell’attività vulcanica vengono emesse grandi quantità di gas (H2S, CO2, SO2, CO) che possono essere molto pericolosi per ogni forma di vita. La pericolosità è minore nel caso di eruzioni ad alta esplosività, poiché tali gas vengono dispersi in alta quota, e maggiore nelle aree interessate da fuoriuscita permanente di gas (aree fumaroliche) o da potenziali esplosioni freatiche (campi geotermici). 51 Disastri naturali | Conoscere per prevenire Vulcani attivi I vulcani che possono essere ritenuti sicuramente attivi, per i quali, cioè, l’intervallo di tempo trascorso dall’ultima eruzione ad oggi è minore del massimo intervallo di quiescenza conosciuto, sono alcuni di quelli localizzati (Figura 3.6): G nell’area campana: Vesuvio (ultima eruzione nel 1944), Ischia (1302) e Campi Flegrei (1538, con la comparsa della nuova struttura del Monte Nuovo); G nelle Isole Eolie: Stromboli (permanentemente attivo), Vulcano (1888-1890), Lipari (circa 800 d.C.) e, con qualche dubbio, Panarea (forse eruzione sottomarina nel 126 a.C.; è ben nota recentemente l’attività di fumarole sottomarine intorno all’isola); G Etna (permanentemente attivo); G area del Canale di Sicilia (eruzioni sottomarine nel 1831 e 1891, ultima eruzione a Pantelleria circa nel 1000 a.C); G con tutta probabilità, i Colli Albani (Vulcano Laziale) a sud di Roma. Nel caso del Vulcano Laziale, si tratta di un sistema complesso, costituito da una caldera collassata (Tuscolano-Artemisia) e da un’altra più recente (Faete), parzialmente sovrapposte, con un cono recente (Monte Cavo) marginale all’ultima caldera. Sono presenti numerosi crateri eccentrici più recenti, di cui alcuni trasformati in laghi (Albano, Nemi), molti prosciugati artificialmente in epoca romana (Ariccia, ecc.); nonchè colate vulcaniche che raggiungono Roma (tra cui la Capodibove su cui corre la Via Appia). I fenomeni catastrofici che hanno portato al collasso della caldera Tuscolano-Artemisia sono datati 500-600.000 anni fa; dopo numerosi cicli, il vulcano è attualmente caratterizzato da una serie di fenomenologie (sciami sismici, sollevamenti del suolo, fumarole, emissioni di anidride carbonica ed altro, esplosioni freatiche) che associate all’evento eruttivo, riportato da fonti storiche, del 114 a.C., ed a modeste eruzioni sublacustri che hanno determinato esondazioni di laghi craterici anche in epoca romana lasciano presumere che il vulcano sia tuttora attivo ed in una fase di quiescenza. L’esistenza del Vulcano Laziale è stata fondamentale per determinare le caratteristiche della zona su cui sarebbe sorta Roma. In realtà, la città è cresciuta sui famosi colli che altro non sono che gli accumuli prodotti dall’attività emissiva, compresi flussi piroclastici, del Vulcano Laziale sulla sinistra del Tevere (i colli del Palatino, Capitolino, ecc.) e del Vulcano Sabatino (Lago di Bracciano, anch’esso dotato di numerosi crateri eccentrici trasformatisi in laghi) sulla destra del Tevere (i colli del Gianicolo, Monte Verde, Vaticano, Monte Mario). Il corso del fiume e le scarse zone paludose ed alluvionali che lo accompagnano rappresentano il confine riconoscibile tra i due distretti vulcanici. I prodotti vulcanici hanno anche fornito la pozzolana e la pietra tenera (tufo), facilmente lavorabile, di cui Roma è costruita, ed il materiale lavico che è stato usato, sotto forma di basolato o sanpietrini, per lastricare le strade romane. 52 53 Disastri naturali | Conoscere per prevenire Distribuzione territoriale dei vulcani Figura 3.6 – Localizzazione dei vulcani italiani di età inferiore a 2.000.000 di anni: estinti (in azzurro), attivi (in rosso) e sottomarini (in verde). Fonte: Grafica ISAT su base NASA World Wind. È opportuno un breve cenno alla distribuzione sul territorio dei vulcani italiani considerati non più attivi (estinti), ma attivi fino ad epoche geologicamente “recenti”(ossia meno di 2 milioni di anni fa), che sono posizionati seguendo grosso modo un allineamento lungo la costa del Tirreno. Da nord-ovest verso sud-est, si ritrovano: G G i vulcani dell’Amiata, Vulsino, Cimino-Vico, Sabatino; le Isole Pontine (tutte vulcaniche, comprese Ventotene e Santo Stefano, con l’eccezione di Zannone); G i grandi vulcani spenti del Roccamonfina e del Vulture, nella catena degli Appennini; G nel Golfo di Napoli la vulcanica Procida (ma non Capri) e banchi sommersi che rappresentano i resti di bocche vulcaniche; G in Sicilia i sette vulcani corrispondenti a ciascuna delle Isole Eolie, compresi i 3-4 attivi di cui sopra; la catena degli Iblei, il vulcano di Ustica nel basso Tirreno e quello di Linosa nel Canale di Sicilia; G in Sardegna, alcuni apparati nelle aree di Orosei, Montiferru e Logudoro. Immaggine del Marsili ottenuta tramite rilevamenti con multibeam sonar. Fonte:http://www.bo.ismar.cnr.it I vulcani sottomarini La situazione diviene ancora più complessa se si prendono in considerazione i vulcani sottomarini. A livello planetario, si contano circa 20.000 vulcani sottomarini, dalla lunghissima catena per la maggior parte sommersa delle Hawaii all’alto numero dei vulcani dell’Atlantico che emergono solo in alcuni casi: Capo Verde, Canarie, Madeira, Azzorre, Islanda, ecc. Eruzioni sottomarine collegate a maremoti (relativamente frequenti nell’Egeo e nel Mar del Levante) sembrano non essere rare nel Mediterraneo, se si tiene presente tra l’altro il già citato collasso della caldera del vulcano dell’Isola di Santhorini (Thera) nell’Egeo, intorno al 1500 a.C., dopo una serie di eruzioni parossistiche. Per quanto riguarda l’Italia, diverse bocche vulcaniche sommerse (Figura 3.6), potenziali responsabili di eruzioni o frane sottomarine (del tipo di quella verificatasi recentemente nella parte emersa e sommersa dello Stromboli), si trovano come prolungamento delle Isole Eolie, sia a nord di Stromboli che fra Alicudi ed Ustica. Sempre nel Tirreno meridionale, a nord del Marsili, più o meno a metà strada tra il Cilento e la Sardegna, si ritrovano poi altri due sistemi vulcanici sottomarini di grandi dimensioni più antichi del Marsili e considerati estinti: il Vavilov (40 x 15 km di lunghezza, 2.800 m dal fondo del mare) ed il Magnaghi. È ben noto poi il caso, nel Canale di Sicilia a sud di Sciacca, dell’Isola Ferdinandea (anche nota come Julie o Graham a seconda della rivendicazione territoriale borbonica, francese o inglese), riapparsa al di sopra del livello del mare nel 1831 (con emersioni segnalate a partire dal 10 a.C.) e quindi risommersasi dopo alcuni mesi di attività vulcanica in superficie. Altre manifestazioni sottomarine si sono avute nel Canale di Sicilia nel 1981 ed ai giorni nostri. Un importante vulcano sottomarino presumibilmente attivo, il Marsili, scoperto nei primi anni ’60 ma di cui si dispongono da poco le immagini, è situato proprio nel Tirreno, a sud-ovest del Golfo di Napoli (ossia in direzione dei vulcani delle Isole Eolie, da cui dista circa 70 km), ed è di dimensioni notevoli (65 x 40 km di lunghezza, 3.000 m dal fondo del mare, con bocche multiple e la cima a circa 500 m sotto il pelo dell’acqua, forse il più grande vulcano europeo in termini assoluti); anche se non esistono dati su eventuali eruzioni, a questo vulcano potrebbe essere attribuita la responsabilità di alcuni maremoti nel Tirreno anche di epoca recente. 54 Rischio vulcanico in Italia | Il Vesuvio 3.3. Il Vesuvio Figura 3.7 Schema dell’apparato vulcanico Somma-Vesuvio con rappresentati il vulcano prima dell’eruzione del 79 d.C. Fonte: ridisegnato da www.ov.ingv.it 55 Disastri naturali | Conoscere per prevenire L’attuale morfologia dell’apparato vulcanico Somma-Vesuvio (1.281 m) (Figura 3.7) deriva dalla coesistenza di uno strato-vulcano più antico (Monte Somma), parzialmente smantellato dallo sprofondamento della parte sommitale, e del più recente cono del Vesuvio, cresciuto all’interno di questa caldera nel corso della lunga attività medioevale. Attualmente, il vulcano si trova in uno stato di quiescenza che perdura dal 1944, con attività soltanto fumarolica e terremoti superficiali con ipocentro lungo il condotto. Negli ultimi 25.000 anni però il Somma-Vesuvio è stato caratterizzato da attività estremamente variabili riconducibili, per semplicità, a tre principali tipologie eruttive: 1. eruzioni moderate, attività stromboliana ed effusiva; 2. eruzioni forti, esclusivamente esplosive (subpliniane); 3. eruzioni catastrofiche, esclusivamente esplosive (pliniane). L’apparato è caratterizzato da un serbatoio profondo (localizzato tra 10 e 20 km di profondità), da dove risalgono i magmi che ristagnano in una camera magmatica superficiale localizzabile a 3-5 km di profondità prima delle eruzioni pliniane, ed a meno di 2 km di profondità prima dell’attività stromboliana (dati INGV). Tabella 3.5a. Tipi di eruzione del Vesuvio TIPO DI ERUZIONE VOLUMI DI MAGMA EMESSO PERIODI DI QUIESCENZA PRECEDENTI L’ERUZIONE CONDOTTO moderata Piccoli (dell’ordine di 0.01 kmc) Brevi (dell’ordine degli anni) aperto subpliniana Medi (dell’ordine di 0.1 kmc) Lunghi (da decenni a qualche secolo) ostruito pliniana Grandi (maggiori di 1 kmc) molto lunghi (da diversi secoli a più di un millennio) ostruito Secondo stime recenti1, il volume di magma profondo entrato nelle camere magmatiche del Vesuvio dal 1944 ad oggi ammonterebbe a 100-300 milioni di m3 e, se emesso in un unico evento esplosivo, potrebbe produrre una eruzione subpliniana (tipo quella dell’anno 1631). Come accennato nelle pagine precedenti, uno strato-vulcano può essere interessato da eruzioni estremamente variabili in termini di esploLa storia vulcanologica dell’apparato del Somma-Vesuvio inizia sività, quantità di materiale circa 25.000 anni fa con l’accrescimento dell’edificio, al di sopra di emesso, tipologia dell’eruzione e, lave antiche, a seguito di eruzioni prevalentemente effusive e di norma, le modalità eruttive vasubordinatamente esplosive, di bassa energia (stromboliane). Tale riano anche durante un singolo attività è durata fino a circa 18.000 anni fa e ha determinato la evento. Ne consegue che la conoformazione dell’apparato vulcanico del Somma (Figura 3.7), la cui forma originaria è stata profondamente modificata da una serie di scenza accurata della storia erutcollassi calderici generati dallo svuotamento della camera tiva di un vulcano è indispensabile magmatica a seguito di violentissime eruzioni. La prima caldera è per cercare di prevedere le modalegata all’eruzione pliniana delle Pomici Basali ed è stata lità di una futura eruzione. successivamente modificata ed ampliata da altre eruzioni pliniane Con una documentazione che sino all’ultima del 79 d.C. (Figura 3.8), che interruppe un periodo di quiescenza durato almeno 7 secoli. Dopo quest’ultima, le eruzioni parte con l’eruzione di Pompei del 79 più violente, con caratteristiche subpliniane, si sono registrate negli d.C., la storia eruttiva del Vesuvio è anni 472, 512 e 1631, intervallate da periodi di attività di bassa sicuramente quella più conosciuta tra energia a condotto aperto durante il I, III, V, VIII, X e XI secolo. i numerosi vulcani attivi sulla Terra. L’attività a condotto aperto ha caratterizzato anche il periodo dal 1631 al 1944 durante il quale sono state prodotte grandi quantità di lava, che hanno quasi completamente ricoperto i versanti sud-orientali e sud-occidentali del vulcano. Figura 3.8 Ricostruzione della storia eruttiva del Vesuvio. Fonte: INGV-Osservatorio Vesuviano Tabella 3.5b. Modalità eruttive del Vesuvio CONDOTTO MODALITÀ ERUTTIVE ESEMPIO Attività a condotto aperto Attività alimentata da magmi poco differenziati che colmano il condotto e formano un lago di lava all’interno del cratere. Si generano colate laviche per trabocco dal cratere o per eruzioni laterali. Attività esplosiva finale freato-magmatica per interazione con le acque di falda a seguito del progressivo svuotamento della camera magmatica. Periodo 1631-1944 Attività a condotto chiuso Il magma si accumula all’interno della camera magmatica. Eruzioni esplosive sono determinate dalla risalita di nuovo magma o dalla formazione di fratture a seguito di fasi tettoniche 79, 472, 1631 1 Barberi F., Santacroce R., Carapezza M.L., 2005, Terra pericolosa, ETS edizioni. 56 Rischio vulcanico in Italia | Il Vesuvio Figura 3.9 Carta geologica schematica dell’apparato Somma-Vesuvio. Fonte INGV-Osservatorio Vesuviano. 57 Disastri naturali | Conoscere per prevenire Tutte le eruzioni successive sono con buona probabilità segnalate, ma è solo a partire dall’eruzione del 1631 che i fenomeni associati alle eruzioni vengono descritti con una certa precisione. Le eruzioni precedenti il 79 d.C., invece, sono state identificate in base ad analisi stratigrafiche. Si tenga comunque presente che, in linea generale, nella stratigrafia geologica sono evidenti solo gli eventi di maggior entità che hanno prodotto depositi piroclastici ingenti ed arealmente diffusi. I prodotti di eventuali eruzioni minori possono essere stati, cioè, completamente cancellati/obliterati dalle eruzioni più violente soprattutto se localizzati all’interno delle aree interessate dai collassi calderici. Non è pertanto escluso che durante i periodi riportati in Figura 3.8 come lunghe fasi di quiescenza si siano verificate eruzioni di moderata potenza, attualmente non identificabili. Una carta geologica schematica dell’apparato SommaVesuvio è riportata in Figura 3.9. Nella Figura 3.10 è riportata un’immagine satellitare del vulcano, con il cratere chiaramente visibile e con le pendici circondate da zone pesantemente urbanizzate dell’area metropolitana di Napoli (Figura 3.11) e dell’Agro Sarnese (compresa la zona di Pompei). Seguono alcune schede sulla storia eruttiva del Vesuvio. Figura 3.10 Immagine satellitare della zona del Vesuvio con il Golfo di Napoli. Fonte: Image Science and Analysis Laboratory, NASA-Johnson Space Center. 18 Mar. 2005. “Earth from Space - Image Information”. http://eol.jsc.nasa.gov/sseop/EFS/photoinfo. pl?PHOTO=NM21-771-75. Figura 3.11 Evoluzione dell’urbanizzazione dell’area circumvesuviana dal 1936 al 1990. (Ridisegnato e semplificato da Alberico et alii, 2004). Fonte Alberico I., Caiazzo S., Dal Piaz S., Lirer L., Petrosiono P. & Scandone R., 2004. Volcanic risk and evolution of the territorial system in the active volcanic areas of Campania. EGU, 1st General Assembly, Nice, France, 25-30 April 2004. 58 Rischio vulcanico in Italia | Il Vesuvio SCHEDA 1 SCHEDA 2 Data 24-26 AGOSTO 79 d.C. ERUZIONE PLINIANA DEL VESUVIO V.E.I. (Indice di esplosività vulcanica) 5 Data GENERALITÀ evento eruttivo degli ultimi 2000 anni. G Periodo di quiescenza a condotto ostruito, determinabile con i dati disponibili: più di sette secoli. G Fenomeni precursori (terremoti e deformazioni del suolo) avvertiti dalla popolazione a partire da alcune settimane prima dell’eruzione. G Durata 48-60 ore, con fase più intensa (pliniana) poche ore dopo l’inizio dell’eruzione. G Fase più distruttiva, durante la quale si generano numerosi flussi piroclastici, circa 24 ore dopo l’inizio dell’attività. G Distruzione dei centri abitati posti nel settore meridionale del vulcano. 59 Disastri naturali | Conoscere per prevenire Il Vesuvio prima e dopo l’eruzione del 1631. Fonte: G. B. Alfano e I. Friedlaender, 1929. Die Geschichte des Vesuv: illustriert nach gleichzeitigen Urkunden. Reimer, Berlino. 16-18 DICEMBRE 1631 ERUZIONE SUBPLINIANA DEL VESUVIO V.E.I. (Indice di esplosività vulcanica) = 4 G Massimo Carte delle isopache per i depositi delle unità EU2 e EU3 Fonte: INGV- Osservatorio Vesuviano Sotto: Stratigrafia dei depositi dell’eruzione Fonte: INGV- Osservatorio Vesuviano CRONOLOGIA DELL’ERUZIONE 1° Fase: 24 agosto, prime ore della mattina, inizio dell’eruzione con una serie di moderate esplosioni freatiche. Formazione di una colonna sostenuta che risale nella stratosfera fino ad un’altezza di 24 km (eruzione delle pomici chiare). Le pomici si disperdono fino a 70 km di distanza dal vulcano. 2° Fase: nella notte la colonna raggiunge la sua massima altezza con l’eruzione delle pomici scure (32 km) ed in seguito (ore 7.30 del 25 agosto) collassa, generando flussi e surges piroclastici che devastano ogni insediamento nel raggio di 10-15 km dal centro eruttivo. 3° Fase: nel tardo pomeriggio del 25 agosto la camera magmatica, parzialmente svuotata, collassa formando una caldera. Le falde acquifere, non più in pressione, interagiscono con il magma residuo determinando una serie di forti esplosioni che chiudono l’eruzione. Il crollo del serbatoio è accompagnato da violenti terremoti. 4° Fase (Post-eruzione): molteplici colate di fango (lahars) dovute alla rimobilizzazione dei prodotti non consolidati si verificano, per diversi anni, in occasione di piogge. GENERALITÀ G Massimo evento eruttivo della storia recente del vulcano (ultimi 1000 anni). G Periodo di quiescenza di almeno 131 anni, ma non ancora ben definito (le eruzioni del 1306 e del 1500 sono incerte). G Fenomeni precursori (terremoti e deformazioni del suolo) avvertiti dalla popolazione a partire dalla settimana precedente l’eruzione. G Durata 48 ore, con fase più intensa (pliniana) a poche ore dall’inizio dell’eruzione. G Fase più distruttiva, durante la quale si generarono numerosi flussi piroclastici, circa 28 ore dopo l’inizio dell’attività. G 4.000 vittime ed ingenti danni al territorio, specialmente nel settore meridionale del vulcano. G Terremoti ed uno tsunami accompagnano il collasso del cratere. CRONOLOGIA DELL’ERUZIONE -16 dicembre, ore 7:00 (fase pliniana): inizio dell’eruzione con formazione di una colonna eruttiva e successiva caduta di blocchi e lapilli ad E e NE del vulcano (area blu in figura). Questa fase dura fino alle 18:00 dello stesso giorno. -Notte tra il 16 ed il 17 dicembre (fase vulcaniana): serie di modeste esplosioni, accompagnate dalla caduta di ceneri e da forti manifestazioni temporalesche che causano l’innesco di molte colate piroclastiche (lahars) (frecce bianche in figura) -17 dicembre, ore 10:00 (fase delle nubi ardenti): diversi flussi piroclastici (area rossa in figura). devastano i paesi posti alla base del vulcano e raggiungono il mare in corrispondenza di Torre del Greco e Torre Annunziata, sbarrando le vie di fuga alla popolazione costiera. -Notte tra il 16 e 17 e pomeriggio del 17 dicembre: le intense piogge causano l’innesco di violenti ed estesi lahars, che scorrono lungo le valli sui fianchi del vulcano e nelle piane a N e NE. EFFETTI MORFOLOGICI SUL VULCANO Collasso del cratere con abbassamento del vulcano di 470m (misure effettuate da Gregorio Carafa immediatamente dopo l’eruzione). EFFETTI MORFOLOGICI SUL VULCANO Creazione di una caldera sul lato est del vulcano in corrispondenza delle caldere già esistenti. Con le eruzioni successive comincia a formarsi il Vesuvio. Fonti dei dati: Giacomelli L., Perrotta A., Scandone R., Scarpati C., 2003, The eruption of Vesuvius of 79 AD, and its impact on human environment, Episodes, 26 (3). Carey S.N., Sigurdsson H.,1987, Temporal variations in column heigth and magma discharge rate during the 79 A.D. eruption of Vesuvius. Geol. Soc. Am. Bull., 99. Distribuzione dei depositi da caduta nella fase pliniana (blu) e dei depositi da flusso piroclastico (rosso) dell’eruzione del 1631. Le frecce indicano la distribuzione dei lahars. Fonte: INGV- Osservatorio Vesuviano Fonti dei dati: http://www.ov.ingv.it. http://www.dst.unina.it/vesuvio. http://vulcan.fis.uniroma3.it/GNV/campania/vesuvio. Santacroce R. (ed.), 1987, Somma-Vesuvius, Quaderni de “La ricerca scientifica”, 114, CNR. 60 Rischio vulcanico in Italia | Il Vesuvio 61 Disastri naturali | Conoscere per prevenire SEGUE DALLA PAGINA PRECEDENTE Scheda 3 - Storia eruttiva dell’apparato Somma-Vesuvio Scheda 3 - Storia eruttiva dell’apparato Somma-Vesuvio CICLO CICLO I 25.000 anni fa pliniana Codola 991 17.000 anni fa pliniana Sarno-Pomici Basali prima eruzione pliniana del Vesuvio di cui si riconoscano con certezza i prodotti, è probabilmente la più violenta tra le eruzioni vesuviane. Colonna eruttiva alta circa 20 km e una sequenza complessa di depositi da caduta, da flusso e da surge piroclastico. Il deposito da caduta principale è disperso verso est e conserva uno spessore di 6.5 m. ancora a 10 km di distanza dal vulcano. Prima fase di calderizzazione del Somma. 999 . forte Fontane e colate di lava 1006 o 1007 forte Eruzione esplosiva con lancio di bombe a 3 miglia dal cratere. 1037 effusiva Colate di lava sino al mare. 1139 esplosiva Forte emissione di cenere e lapilli, la ricaduta interessa per almeno 30 giorni Napoli, Capua, Salerno e Benevento. 18.000 16.000 anni fa. effusiva Ai depositi delle due eruzioni pliniane si intercalano lave prodotte da modeste eruzioni effusive 15.500 anni fa pliniana Pomici Verdoline seconda eruzione pliniana di cui è possibile riconoscere i prodotti. Segue a un periodo dominato da attività effusiva e ad una lunga fase di quiescenza. Tale eruzione ha generato un deposito costituito da un livello di pomici da caduta alla base, cui fa seguito una serie di livelli da flusso e da surge piroclastico. III Non datata IV 7.900 anni fa pliniana non datata 3.750 anni fa (UniNa) – 3.800 (OV) Mercato costituita alla base da due depositi di pomici da caduta, separati da un sottile livello di surge piroclastico, stratificati nella parte alta e localmente intercalati a depositi da flusso e da surge. Un terzo deposito di pomici da caduta termina la successione. I depositi da caduta sono dispersi verso E-NE e conservano spessori di circa 50 cm fino a oltre 30 km dal cratere del Vesuvio, mentre quelli da flusso e da surge non hanno raggiunto distanze considerevoli. Anche quest’eruzione fu accompagnata dalla formazione di una caldera sommitale. Novelle pliniana Avellino eruzione pliniana, che si verificò probabilmente dopo un lungo periodo di stasi nell’attività del vulcano. É stata una delle più violente della storia eruttiva del Vesuvio. Ha generato spessi depositi di pomici da caduta (circa 50 cm nei pressi della città di Avellino) e di depositi da flusso e surge piroclastico, dispersi fino a oltre 15 km dal centro di emissione in direzione NW. Centro eruttivo localizzato in corrispondenza del Piano delle Ginestre, in un’area posta circa 2 km ad ovest del cratere attuale. 1000 a.C. subpliniana 700 a.C. subpliniana 79 d.C. pliniana Pompei (vedi scheda precedente). 172 esplosiva Violenta attività stromboliana. 203 esplosiva Eruzione esplosiva con una fase pliniana. Terremoti ed esplosioni. 1150 Violenta attività stromboliana. 1306 ? Forte eruzione effusiva con lave sino al mare. 1500 ? Attività fumarolica e forse esplosioni freatiche. 1631 Subpliniana 16-18 dicembre Pomice di Amendolara (UniNa) – 8.000 (OV) VI NOME DELL’ERUZIONE - NOTE NOME DELL’ERUZIONE - NOTE (UniNa) 16.000 (OV) V TIPO ERUZIONE TIPO ERUZIONE (UniNa) 18.300 (OV) II ETÀ ETÀ 1649-1650 Esplosiva 1660 3 luglio Esplosiva Bocche alla base del Cono. Flussi in tutte le direzioni, specialmente a W e S. Il vulcano si abbassa di circa 480 m, si forma la caldera del Vesuvio. I lahars arrivano fino al mare variando la linea di costa. Caduta di cenere verso NE. 1680 26-30 marzo Esplosiva Fontane di lava. 1682 Esplosiva Fontane di lava. Incendi. Caduta di piroclastiti su Torre del Greco e Ottaviano. 1685 Esplosiva Fontane di lava. Il Cono cresce molto. 1689 Esplosiva Lava all’interno della caldera del Vesuvio. Il Cono cresce di 66 m. 1694 Effusiva Lave ad W e SE (Torre del Greco, Ercolano, S. Giorgio a Cremano e Boscotrecase). Distruzioni. Tentativo di deviare la colata di lava. Per la prima volta dal 1631 le lave scorrono al di sotto dell’orlo della caldera verso le falde del vulcano. 1697 16-27.2; 18-26.9; 30.11. Effusiva Lava a SE, WSW (Torre del Greco, Ercolano) e W. Riempimento del cratere 1698 10.5-1.6 EffusivaEsplosiva Lava ad W e verso i Cappuccini di Torre del Greco. La lava si ferma a mezz’ora di cammino dal mare. Danni gravissimi alle coltivazioni, i maggiori dal 1631. Danni per caduta di cenere a Boscotrecase, Torre Annunziata, Ottaviano. 222-235 Attività stromboliana più o meno continua. 1701 1-15 luglio Effusiva Lava a SE (Boscotrecase, Ottaviano). 379-395 Attività fumarolica con una possibile fase effusiva. 1707 28.7-13.8 EffusivaEsplosiva Lava ad W e SE. Caduta abbondante di piroclasti a Torre del Greco, Striano, Scafati e Boscotrecase. Danni alle coltivazioni. Feriti. 1714 6-16.1; 15-30.6 EffusivaEsplosiva Lave verso SW, SE (sulla colata del 1701), N e NE. Danni a Ottaviano, Somma V., S. Anastasia, Torre Annunziata e Boscotrecase. 1717 6-18.6; 22.12 Effusiva Lava a SE (sopra la colata del 1714) e SW. Danni alle coltivazioni di viti a Trecase e intorno ai Camaldoli. Tre bocche attive sulla piattaforma craterica. 1723 28.6-4.7 EffusivaEsplosiva Lave verso E e SE. Danni alle coltivazioni per la caduta di lapilli a Ottaviano, Nola, Palma C., Sarno, Gragnano, Nocera e Castellamare. Piroclastiti fino al Vallo di Diano. Effusiva Effusiva Le lave formano cupole nell’Atrio. Il Vesuvio cambia aspetto 472 5-6 Novembre subpliniana 512 Pollena cenere fino a Costantinopoli. Flussi piroclastici tutto attorno al vulcano. Attualmente i depositi sono osservabili a nord e a nordest del vulcano fino a circa 30 km di distanza; ad Ottaviano raggiungono lo spessore di circa 2 metri e di oltre 15 metri nel territorio di Pollena Trocchia. Attività stromboliana più o meno continua 536 esplosiva Ceneri in Mesopotamia 685 Febbraio-Marzo forte Forti terremoti, colonna pliniana e relativo fallout, alcune fonti riportano colate laviche sino al mare 1725 gennaio -luglio,settembre 787 autunno grande Fontane di lava e colate laviche (o piroclastiche?) lunghe sei miglia. 968 forte Colate di lava sino al mare. 1727-1728 Effusiva marzo-maggio; 29.7.1727-29.7.1728 SEGUE ALLA PAGINA SUCCESSIVA Si forma una cupola sul versante di Torre del Greco. SEGUE ALLA PAGINA SUCCESSIVA 62 Rischio vulcanico in Italia | Il Vesuvio 63 Disastri naturali | Conoscere per prevenire SEGUE DALLA PAGINA PRECEDENTE SEGUE DALLA PAGINA PRECEDENTE Scheda 3 - Storia eruttiva dell’apparato Somma-Vesuvio Scheda 3 - Storia eruttiva dell’apparato Somma-Vesuvio CICLO CICLO ETÀ TIPO ERUZIONE NOME DELL’ERUZIONE - NOTE Le fontane di lava innalzano notevolmente la cima del vulcano e la rendono più acclive. 1834 23.8-10.9 EffusivaEsplosiva Lava a SE tra Boscoreale ed Ottaviano. Distrutto il borgo di Caposecchi e di S. Giovanni (800 persone senza tetto). EffusivaEsplosiva Lava ad W (verso Torre del Greco) e S (verso Boscotrecase). La lava interrompe la strada regia. Un flusso di lava invade Torre del Greco. Caduta di cenere e lahar. 1839 EffusivaEsplosiva 1751-52 25.10.1751 -25.2.1752 Effusiva Bocche a S nell’Atrio dalla sutura del 1631. Lave verso Boscoreale, Boscotrecase, Torre Annunziata e Ottaviano. Lave circa 10 volte più abbondanti del 1737. La lava del 25.10 verso SE percorre 4 miglia in 6 ore. Formazione di un piccolo cratere profondo 285 m. Lave a SW (sopra le colate del 1767 e del 1810) e SE verso Boscotrecase ed Ercolano. Boscotrecase e Castellammare coperti da uno strato di scorie. Danni per caduta di lapilli. 1850 5.2-2.3 EffusivaEsplosiva Lava a SE verso Boscoreale lunga circa 9 km. Danni alle colture a Torre Annunziata ed Ottaviano. Forte attività esplosiva. Il cratere si innalza di diverse decine di metri. 1754-55 2.12.175417.3.1755 Effusiva Bocche a S nell’Atrio dalla sutura del 1631. Lave verso Bosco di Ottaviano, Boscoreale e Boscotrecase (in parte sulle lave del 1737). Ingenti danni alle coltivazioni. 1760-61 23.12.17605.1.1761 EffusivaEsplosiva Bocche a circa 300 m s.l.m. in località Noto (Torre Annunziata). Lava verso S (si ferma a meno di 300 m dal mare). Interruzione della strada regia. Crolli per terremoti. Fratture del suolo fino al mare. 1767 19-27 ottobre Effusiva Colata di Lava a SW verso Ercolano e S. Giorgio a Cremano. Danni alle coltivazioni e agli edifici (anche per il tremore). Si forma un piccolo cratere. ETÀ TIPO ERUZIONE NOME DELL’ERUZIONE - NOTE 1730 febbraio-marzo Effusiva 1737 19.5-6.6 1855 1-28 maggio Effusiva Bocche sul versante N tra 898 e 1068 m s.l.m. Colata a NW verso S. Sebastiano, Massa e le Novelle di S. Vito. Distruzione di case e danni alle colture. 1858-1861 27.5.185810.4.1861 Effusiva Bocche nell’Atrio. Apertura di 6 fenditure tra la base del Gran Cono e l’Atrio. La lava emessa dalla IV fenditura riempie il Fosso Grande e scende fin quasi a S. Vito (Ercolano). Ingrottamento delle lave nel Piano delle Ginestre. 1861 8-10 dicembre EffusivaEsplosiva Bocche nel rione Montedoro tra 300 e 218 m s.l.m., poco più a valle di quelle del 1794. Lava ad W a monte di Torre del Greco, dove si rilevano distruzioni e crolli (rione Capotorre). Sollevamento del suolo prima dell’eruzione. 1867-1868 13.11.186715.1.1868 Effusiva Lave nell’Atrio ad E e W presso Crocelle e presso le bocche del 1794. 1868 15-30 novembre Effusiva Lava a NW attraverso il Fosso del Faraone verso Novelle di S. Vito e Cercola. Gravi danni alle colture. 1771 1-11 maggio Effusiva Colata di lava verso NW (Ercolano). Danni a vari poderi di Ercolano. 1773.1776 Effusiva 12.73-1.74; 8-12. 74;12.75-4.76 Lave nel Canale dell’Arena (1774) e nel Fosso della Vetrana (1775-76). Eruttati 20 milioni di m3 di lave dal 1770 al 1776. 1779 8-15.08 Esplosiva Lave ad W. Enorme quantità di piroclastiti (lapilli e scorie) a NNE e nell’Atrio che nel Vallone della Vetrana viene sollevato di 75 m. Cenere e proietti su Ottaviano. Notevolissime fontane di lava che superano l’altezza di 4 km. 1871 13.1-5.11 Effusiva Lave fluide e veloci nell’Atrio della Vetrana fino ai Canteroni in corrispondenza dell’Osservatorio Vesuviano. Il 13 gennaio si forma un conetto sul bordo N del cratere che rimane attivo fino all’eruzione dell’aprile 1872. 1785 novembre Effusiva Lave a NW, una lingua sorpassa il Fosso del Faraone, un’altra distrugge il Romitorio della Vetrana. 1872 24.4-2.5 Effusiva -Esplosiva 1794 15-24.06 EffusivaEsplosiva Bocche sul versante W tra 480 e 320 m s.l.m. Lava a SE, verso il Mauro di Ottaviano, e ad W, verso Torre del Greco, dove raggiunge il mare e vi si inoltra per oltre 100 m. Lava verso NW. Una colata attraversa l’Atrio, supera il Fosso del Faraone e discende verso Cercola, invade S. Sebastiano e Massa di Somma. Danni ingenti, 9 morti. Si forma un cratere di 250 m di diametro. Forte eruzione. Dosso di lava sul fianco SE del Gran Cono. Effusiva Lava a SW attorno ai Camaldoli tra Torre del Greco e Torre Annunziata. Danni alle colture. 1881-1884 12.1881-3.1884 Effusiva 1804 15.8-5.10; 22.11 1805 13.02; 12.08 Effusiva Effusiva Lava a SW (sopra la colata del 1804) in direzione dell’Epitaffio (Torre del Greco). Uno dei 5 rami raggiunge il mare in circa 4 ore (Torre Annunziata). 1806 31.5-5.6 Effusiva 1810 11 settembre Effusiva 1891-1894 Effusiva 7.6.1891-3.2.1894 Frattura a N del Gran Cono. Bocche tra 825 e 850 m s.l.m. (sutura del 1631). Le lave a N nell’Atrio formano il Colle Margherita, una cupola alta 135 m. Lava a SW (Camaldoli). Fontane di lava. 1895-1899 Effusiva 3.7.1895-7.9.1899 Frattura a NW del Gran Cono. Bocche intorno ai 750 m s.l.m. (sutura del 1631). Le lave a NW nell’Atrio formano il Colle Umberto, una cupola alta 160 m. Bocche alla sutura del 1631. Lave a W, SE verso Ercolano, Boscotrecase ed Ottaviano. Danni ai campi coltivati. 1903-1904 Effusiva 27.8.1895-10.1899 Le lave a E nella Valle dell’Inferno formano una cupola alta 50 m che contribuisce notevolmente a sollevare il livello dell’Atrio. 1812 1-4 gennaio Effusiva Lava ad W verso Torre del Greco. 1906 4-22 aprile 1813 25-27 dicembre Effusiva Lava a W, attraversa il Fosso Bianco in direzione di Torre del Greco. 1817 22-26 dicembre Effusiva Lava a SE verso il Mauro di Ottaviano si ferma a poche decine di metri dalla strada Torre Annunziata-Ottaviano. Bocche sulla base S del Gran Cono (sutura del 1631) come le eruzioni del 1751-52 e 1754-55. Lave a S, asse di dispersione dei piroclasti verso ENE. Danni a Torre Annunziata. Boscotrecase invasa. Distruzioni ad Ottaviano e S. Giuseppe Vesuviano (cadute di solai). 227 morti (11 a Napoli per il crollo del mercato di Monteoliveto). Danni alle colture. Il vulcano si abbassa notevolmente lasciando un grande cratere, che si riempie completamente durante l’attività stromboliana del luglio 1913. La più forte eruzione del secolo. 1819-1820 1.12. Effusiva 1819-31.5.1820 Lava da 6 bocche sul versante NW del Gran Cono. Nel gennaio 1820 nuova frattura ad W e lava verso il Colle del Salvatore. 1822 21.10-11.11 EffusivaEsplosiva Lave in tutte le direzioni nell’Atrio; colate più lunghe verso Boscotrecase ed Ercolano. Forti danni per i lahar e la caduta di lapilli e scorie. Piogge posteruttive. La più forte eruzione del secolo. 1831-1832 14.8.1831 -23.12.1832 Effusiva Terremoto il 14 agosto ed emissione intracraterica. Lave a SE verso Bosco (20.8); a SSE (20.9-fine 1931); verso Torre del Greco (20.11), Ercolano (25.12), Boscotrecase e Piano delle Ginestre (27.2), Ottaviano ed Eremo (23.7); verso W (8.8); verso Bosco (ottobre-15.11); verso Torre del Greco (16-23.12). SEGUE ALLA PAGINA SUCCESSIVA EffusivaEsplosiva 1929 4-10 giugno Effusiva Lave ad E verso Terzigno (Pagani e Campitelli) e, più a S, attraverso il burrone della Cupaccia, verso le lave del Mauro (1751 e 1754) e dei Caposecchi (1834). Distruzione di case e campi coltivati. Notevoli fontane di lava. Crollo del conetto. Dal 1930 al 1944 Effusiva Attività pressoché continua con emissioni lente. Lave nell’Atrio. 1944 4-22 aprile Lave a NW. Attraverso il Fosso del Faraone verso S. Sebastiano, Massa e Cercola si ferma a 120 m s.l.m. S. Sebastiano e Massa distrutte. 45 morti per crollo dei solai (Nocera, Pagani e Terzigno) e 2 per le mofete (Ercolano). Si forma l’attuale cratere di forma ellittica (580x480 m) EffusivaEsplosiva Fonti dei dati: http://www.ov.ingv.it. http://www.dst.unina.it.vesuvio. Principe C., Tanguy J.C., Arrighi S., Paiotti A., Le Goff M., Zoppi U., 2004, Chronology of Vesuvius’ activity from A.D. 79 to 1631 based on archeomagnetism of lavas and historical sources. Bull. Volcanology, 66 64 Rischio vulcanico in Italia |Il Vesuvio Pericolosità vulcanica e rischio associato La storia eruttiva precedentemente esposta dimostra inequivocabilmente che il Vesuvio è un vulcano ad elevatissima pericolosità, in grado di generare eruzioni totalmente distruttive per le aree circostanti l’edificio. A causa della forte concentrazione urbana, aumentata a dismisura negli ultimi decenni, l’area vesuviana presenta uno dei più elevati gradi di rischio dell’intero pianeta e, allo stato attuale, una ripresa dell’attività, anche con eruzioni di moderata potenza, se non preceduta da azioni volte a mitigare il rischio ed educare la popolazione, potrebbe generare effetti disastrosi. Nel caso di un’eruzione stromboliana o vulcaniana (tipo 1944), potrebbero essere interessate da colate di lava gli abitati di Torre del Greco, San Sebastiano, Boscotrecase, Terzigno; mentre quelli posti nel settore settentrionale dell’edificio sarebbero protetti dal rilievo del M. Somma. Le aree interessate potrebbero però essere evacuate in tempi ragionevoli mentre il 65 Disastri naturali | Conoscere per prevenire carico delle ceneri da ricaduta, se non rimosso in tempo, potrebbe determinare il crollo dei solai con conseguenti vittime. Nel caso di eruzioni subpliniane (tipo 1631) o ancor peggio pliniane (tipo 79), l’intero areale vesuviano è da considerare ad elevato rischio. In questo caso il pericolo maggiore deriva dalle correnti piroclastiche (flussi e surges) che potrebbero velocemente raggiungere le popolatissime aree costiere, la zona orientale della città di Napoli ed anche il settore settentrionale dell’edificio con effetti distruttivi. La previsione dei loro percorsi, che potrebbero essere differenti da quelli del passato a causa delle variazioni morfologiche del vulcano, è estremamente difficile. La ricaduta di ceneri interesserebbe, in dipendenza dai venti dominanti, un areale estremamente vasto con probabili collassi dei tetti delle abitazioni. L’ampia diffusione delle ceneri genererebbe un’alta probabilita di lahars sui versanti del vulcano e sui versanti dei rilievi circostanti. Figura 3.10 Immagine tridimensionale dell’area vesuviana. Fonte: INGV-Osservatorio Vesuviano, Laboratorio di Geomatica e Cartografia 66 Rischio vulcanico in Italia | I Campi Flegrei Disastri naturali | Conoscere per prevenire LEGENDA Sedimenti di piana attivi e recenti Vulcaniti di età inferiore a 15 ka a) depositi prossimali da flusso e surge b) depositi distali, da caduta 67 Figura 3.13 Carta strutturale schematica dei Campi Flegrei. Fonte: Ridisegnato e modificato da Santacroce et al. (2003). Tufo Giallo Napoletano (15 ka) Vulcaniti eruttate tra 39 e 15 ka Ignimbrite Campana (39 ka) Vulcaniti più antiche di 39 ka Faglie Caldera dell’Ignimbrite Campana Caldera del Tufo Giallo Napoletano Figura 3.12 – Carta geologica schematica dei campi Flegrei. Fonte: INGV Osservatorio Vesuviano. 3.4. I Campi Flegrei Il distretto vulcanico Flegreo è costituito dai Campi Flegrei e dalle isole vulcaniche di Procida e Ischia. La sua origine è connessa agli eventi tettonici distensivi, legati all’apertura del bacino Tirrenico, che hanno determinato la formazione della Piana Campana e generato le condizioni favorevoli alla risalita dei magmi alcalino-potassici che hanno alimentato l’attività eruttiva del distretto. I Campi Flegrei (Figura 3.12) sono un grande campo vulcanico in cui sono stati attivi, negli ultimi 39.000 anni, più di 70 centri eruttivi. L’attuale assetto morfologico è il risultato di due collassi calderici (Figura 3.13) di vaste proporzioni legati alle eruzioni dell’Ignimbrite Campana (39.000 anni fa) e del Tufo Giallo Napoletano (15.000 anni fa). La prima caldera, più estesa, comprende i Campi Flegrei, la parte meridionale della città di Napoli, la parte settentrionale della baia di Napoli e la baia di Pozzuoli. La seconda, formatasi all’interno di quella dell’Ignimbrite Campana, comprende i Campi Flegrei e la baia di Pozzuoli, ed è caratterizzata da una risorgenza tuttora attiva. Nel periodo compreso tra le due catastrofiche eruzioni, si verificarono almeno altre 11 eruzioni esplosive localizzate ai bordi della caldera dell’Ignimbrite Campana e di cui è ancora possibile riconoscere i depositi. Eventuali centri eruttivi presenti all’interno dell’area interessata dalla successiva caldera del Tufo Giallo potrebbero essere stati completamente distrutti. L’eruzione del Tufo Giallo Napoletano fu seguita da tre epoche di intensa attività vulcanica, concentrata all’interno o ai bordi della caldera del Tufo Giallo, separate da prolungati periodi di quiescenza (Figura 3.14). L’ultima eruzione risale al 1538 (eruzione e formazione del Monte Nuovo). Tale fenomeno eruttivo in tempi vulcanologicamente recenti, associato all’attività fumarolica della Solfatara, ad una pronunciata anomalia termica nel sottosuolo, ad un elevato livello di sismicità ed a fenomeni bradisimici, testimonia inequivocabilmente che l’attività vulcanica dei Campi Flegrei sta attraversando un periodo di quiescenza. Di seguito sono riportate due schede relative al massimo evento eruttivo verificatosi nell’area flegrea (Ignimbrite Campana) ed all’evento massimo atteso nel caso di una ripresa dell’attività eruttiva all’interno del distretto vulcanico dei Campi Flegrei. Immagine tridimensionale dell’area flegrea. Fonte: INGVOsservatorio Vesuviano, Laboratorio di Geomatica e Cartografia. 68 Rischio vulcanico in Italia | I Campi Flegrei 69 Disastri naturali | Conoscere per prevenire SCHEDA 4 Figura 3.14 Ricostruzione della storia eruttiva dei campi Flegrei. Fonte: INGV-Osservatorio Vesuviano. Data 39.000 ANNI FA IGNIMBRITE CAMPANA V.E.I. (Indice di esplosività vulcanica) = 6 -7 GENERALITÀ evento eruttivo degli ultimi 200.000 anni nell’area mediterranea. G Camera magmatica con diametro di almeno 16 km, localizzata 4 km sotto il livello del mare. 3 G Circa 200 km di materiale emesso e colonna eruttiva non inferiore a 44 km. G Depositi distribuiti su un’area di circa 2 30.000 km con spessori sino a 100 m. G Creazione di una caldera ampia circa 2 230 km . G Effetti ambientali sicuramente devastanti, enormi volumi di cenere in atmosfera e sconvolgimenti climatici a scala globale; secondo alcuni autori possibile connessione con la transizione culturale tra Paleolitico medio e superiore e con la scomparsa dell’Homo neanderthalensis. RICOSTRUZIONE DELL’ERUZIONE (semplificato da Pappalardo et alii, 2002 e sito OV) L’eruzione inizia probabilmente con una prima fase esplosiva freatomagmatica che determina l’apertura del condotto (A), a cui segue una fase esplosiva pliniana con formazione di una enorme colonna eruttiva sostenuta alta sino a 44 km (B). G Massimo La diminuzione del tasso eruttivo e la comparsa di fratture (C) determinano una colonna pulsante ed instabile; inizia la formazione della caldera e collassa la colonna con genesi di flussi piroclastici che raggiungono Roccamonfina a nord e la Penisola Sorrentina a sud (D). L’eruzione raggiunge la fase parossistica. La caldera collassa definitivamente, si attivano numerosi condotti eruttivi tramite i quali viene svuotato quasi totalmente il serbatoio magmatico. Genesi di numerosi, giganteschi flussi piroclastici che si espandono su tutta la piana campana, superando barriere morfologiche alte oltre 1000 m (E). Distribuzione e spessore dei depositi dell’Ignimbrite campana. Fonte: Ridisegnato da Rolandi et alii, 2003 Fonti dei dati: Rolandi G., Bellucci F., Heizler M.T., Belkin H.E. & De Vivo B., 2003. Tectonic controls of ignimbrites from the Campanian Volcanic Zone, southern Italy. Mineralogy and Petrology, 79: 3-31. Pappalardo L., Civetta L., de Vita S., Di Vito M., Orsi G., Carandente A., Fisher R.V., 2002, Timing of magma extraction during the Campanian Ignimbrite eruption (Campi Flegrei caldera). J. Volcanol. Geotherm. Res., 114. Nelle fasi finali dell’eruzione il magma residuo alimenta flussi piroclastici di modesto volume che raggiungono solo zone limitrofe all’area calderica (F). 70 SCHEDA 5 data CIRCA 4.100 ANNI FA nome AGNANO – MONTE SPINA V.E.I. (Indice di esplosività vulcanica) = 4-5 GENERALITÀ G Massimo evento eruttivo degli ultimi 5.000 anni nell’area Flegrea. G Circa 1,2 km3 di materiale emesso. G Depositi distribuiti su di un’area di circa 1.000 km2 con spessori di almeno 10 cm (attualmente abitata da 2.000.000 di persone). G Attività esplosiva magmatica e freatomagmatica. G 200 km2 investiti dai flussi piroclastici (attualmente 600.000 abitanti). Rischio vulcanico in Italia | I Campi Flegrei Disastri naturali | Conoscere per prevenire RICOSTRUZIONE DELL’ERUZIONE (sulla base di dati stratigraficosedimentologici) Pericolosità vulcanica e rischio associato Prima fase: forti esplosioni magmatiche determinano l’apertura del condotto e la formazione di una colonna sostenuta alta almeno 4 km. Esplosioni freato-magmatiche associate al collasso della colonna generano flussi piroclastici. Seconda fase: una nuova forte esplosione magmatica genera una colonna pulsante che si innalza sino a 23 km. Nuovi flussi piroclastici. Un parziale collasso calderico e la creazione di fratture producono nuovi centri eruttivi esplosivi con flussi e surge piroclastici. L’attività eruttiva entra in una fase di stasi che permette la deposizione delle ceneri atmosferiche. Terza fase: ripresa dell’attività con esplosioni freatomagmatiche e surge piroclastici, cui seguono esplosioni magmatiche con creazione di una colonna di 27 km. I centri eruttivi sono localizzati all’interno della piana di Agnano. Collasso calderico delimitato dalle faglie che bordano la piana, nuovi centri di emissione e flussi piroclastici che superano i bordi calderici sconfinando per almeno 15 km nella piana campana. Quarta fase: attività simile alla fase precedente; esplosioni inizialmente freato-magmatiche e successivamente magmatiche, colonna pulsante e poi collassata con flussi piroclastici, i centri eruttivi migrano verso il settore settentrionale della piana. Quinta fase: una serie di esplosioni freato-magmatiche di moderata potenza segna la fine dell’attività eruttiva. Fonti dei dati: De Vita S, Orsi G, Civetta L, Carandente A, D’Antonio M, Deino A, di Cesare T, Di Vito M A, Fisher R V, Isaia R, Marotta E, Necco A, Ort M, Pappalardo L, Piochi M, Southon J, 1999. The Agnano-Monte Spina eruptions (4100 years BP) in the restless Campi Flegrei caldera (Italy). J Volc Geotherm Res, 91: 269-301. http://www.ov.ingv.it. Distribuzione dei prodotti dell’eruzione di Agnano-Monte Spina. L’area gialla rappresenta la distribuzione dei depositi da correnti piroclastiche. Le curve rappresentano le isopache cumulative dei depositi da caduta. Fonte: INGV Osservatorio Vesuviano 71 I Campi Flegrei rappresentano un complesso vulcanico in cui si sono manifestate eruzioni catastrofiche come quelle di 39.000 anni fa (Ignimbrite Campana, eruzione esplosiva con 300 km cubi di prodotti vulcanici deposti con spessori fino a 100 m su un’area di circa 30.000 km quadrati; si è stimato che buona parte dell’Europa sia stata ricoperta da uno strato di circa 1 cm di cenere) e di 15.000 anni fa (Tufo Giallo Napoletano, eruzione simile alla precedente con minor volume di prodotti emessi). Nella comunità scientifica esiste una quasi totale unanimità nel considerare eventi di questo tipo estremamente improbabili a breve e medio termine. Probabilità più elevate di accadimento hanno eruzioni tipo quella di Agnano-Monte Spina o quella del 1538, che ha portato alla formazione del Monte Nuovo (un conetto vulcanico di 123 metri vicino al lago craterico Averno), preceduta da una crisi sismica e bradisismica. Le crisi bradisismiche più recenti si sono avute nel 1970-72 e nel 1982-84. Tali crisi rappresentano un ottimo esempio delle difficoltà delle previsioni. Il manifestarsi di classici fenomeni precursori (cambiamento nel chimismo delle fumarole, accentuato sollevamento del suolo a Pozzuoli, intensa attività sismica superficiale) poteva essere sintomatico di una eruzione a breve termine (come ad esempio prima dell’eruzione del Pinatubo), che invece non si verificò. Oltre che dal punto di vista vulcanologico, la crisi bradisismica del 1982-84 è importante anche per la valutazione del comportamento di una popolazione impreparata all’eventualità di una eruzione vulcanica. Voci incontrollate, alimentate anche dai mezzi d’informazione, determinarono una generale situazione di panico che produsse diverse vittime per infarto e disordini sociali. Oltre a ciò l’evacuazione di circa 40.000 persone dal Rione Terra e la loro rilocalizzazione in aree ad uguale pericolosità vulcanica non diminuirono il rischio. Analogamente al Vesuvio, anche per l’area flegrea esiste un nuovo Piano di emergenza, così come è prefigurato nel documento presentato nel 1995, aggiornato nel 2001 ed attualmente in fase di revisione. Il vecchio piano, redatto nel 1983, prevedeva due scenari eruttivi di gravità crescente (un’eruzione tipo quella del Monte Nuovo nel 1538, un’eruzione tipo quella di Agnano Monte Spina del 4000 a.C.); questo nuovo piano, legato a quello relativo al Vesuvio, invece, si basa su uno scenario eruttivo catastrofico, prevedendo per gli abitanti della maggior parte della zona rossa l’allontanamento preventivo dall’area, con destinazione al di fuori della Campania, nell’ipotesi che si verifichino danni tali da non permettere alla popolazione coinvolta di far ritorno entro breve tempo. Una strategia differenziata, con soluzioni all’interno della regione, verrebbe invece adottata per la porzione di zona rossa che potrebbe essere interessata dal fenomeno del bradisismo. 3.5. Ischia Il campo vulcanico dell’Isola d’Ischia (Figura 3.15) rappresenta la porzione sommitale di un apparato vulcanico che si erge per circa 900 metri dal fondo del mare, localizzato all’intersezione di sistemi di faglie NE-SW e SE-NW. L’inizio dell’attività vulcanica non è conosciuto con precisione, ma le più antiche rocce affioranti testimoniano l’esistenza di un antico e complesso apparato vulcanico, su cui si sovrappongono i prodotti di una serie di eruzioni sia effusive, con creazione di duomi lavici e subordinate colate, sia esplosivomagmatiche e freato-magmatiche, avvenute tra 150.000 e 74.000 anni fa. Il periodo successivo è ancora oggetto di studio e discussione, ma sembra plausibile, anche se alcuni autori riportano una prolungata fase di quiescenza durata più di 20.000 anni2, che sia stato caratterizzato da una serie di eruzioni esplosive, culminate con la grande eruzione esplosiva del Tufo Verde (55.000 2 Santacroce R., Cristofolini R., La Volpe L., Orsi G., Rosi M., Italian active volcanoes, Episodes, 26/2003. 72 Rischio vulcanico in Italia | Ischia 73 Disastri naturali | Conoscere per prevenire anni fa) che determinò il collasso calderico del M. Epomeo. La caldera sarà in seguito interessata da una risorgenza che, nell’arco di 30.000 anni, determinerà un sollevamento di circa 900 m del M. Epomeo. Dopo l’eruzione del Tufo Verde, la storia vulcanologica dell’isola può essere suddivisa sulla base dei dati stratigrafici e delle variazioni composizionali dei magmi eruttati, in tre periodi d’attività (1°: 55-33.000 anni fa; 2°: 28-18.000 anni fa; 3°: da 10.000 anni fa al 1302 d.C.), separati da lunghi periodi di quiescenza, schematizzati in Figura 3.17; l’ultima eruzione risale al 1302. Negli ultimi 5.500 anni nell’isola sono state registrate almeno 35 eruzioni effusive ed esplosive, localizzate nella parte orientale dell’isola, che hanno originato duomi lavici, coni di scorie, anelli di tufo, e prodotto sia colate laviche sia depositi legati a flussi piroclastici e a ricadute di tefra. Nel febbraio 1302 un’eruzione da un cratere apertosi in zona Fiaiano produsse emissione di lava per circa due mesi originando una colata (Colata dell’Arso) che raggiunse il mare in prossimità dell’attuale porto, distruggendo l’antico centro urbano. Il fenomeno di risorgenza del blocco dell’Epomeo è tuttora in corso e ad esso sono associati sia terremoti sia l’instabilità dei versanti che hanno ripetutamente generato movimenti franosi. I più disastrosi terremoti verificatisi in tempi recenti sono quelli del 1881 Figura 3.15 Carta geologico-strutturale del sistema vulcanico dell’isola d’Ischia. Fonte: INGV Osservatorio Vesuviano. Figura 3.16 Modello Digitale del Terreno (DEM) dell’Isola d’Ischia. I centri eruttivi più recenti sono localizzati nel settore orientale dell’isola. Fonte: INGV Osservatorio Vesuviano. (129 morti e 2315 senzatetto) e del 1883 (2313 morti, di cui 1784 a Casamicciola, e 9500 senzatetto). Gli ipocentri superficiali e la limitata area colpita fanno supporre una stretta relazione con il sollevamento del monte Epomeo, probabilmente in connessione con i movimenti della camera magmatica. L’intensa attività idrotermale, i fenomeni fumarolici, i bradisismi, i recenti terremoti e la storia eruttiva indicano che l’Isola d’Ischia è da considerarsi un vulcano attivo a tutti gli effetti. La mancanza di un apparato centrale rende complicata l’individuazione di futuri centri eruttivi che dovrebbero comunque essere, con tutta probabilità, localizzati nelle aree interessate dalle eruzioni più recenti (settore orientale). Sull’isola vivono stabilmente circa 50.000 persone (a cui vanno aggiunte le numerose presenze turistiche pendolari e stagionali che nel periodo estivo moltiplicano gli abitanti) che, in caso di violenta ripresa dell’attività, potrebbero essere evacuate esclusivamente via mare. Al momento attuale non è stato ancora redatto un piano d’emergenza analogo a quello di Vesuvio e Campi Flegrei che contempli scenari di rischio elaborati sulla base di un determinato evento eruttivo. Figura 3.17 Cronogrammi dell’attività vulcanica ad Ischia. Fonte: INGV-Osservatorio Vesuviano. 74 Rischio vulcanico in Italia | Il Piano Vesuvio Disastri naturali | Conoscere per prevenire Figura 3.18 a Immagine di parte del settore orientale dell’isola d’Ischia. Si noti l’elevata urbanizzazione che interessa anche la colata dell’Arso ed il maar di Porto d’Ischia originato dall’eruzione del 466 a.C.. sumibilmente al limite del panico, nei tempi stretti che precedono una probabile eruzione. La situazione potrebbe esser resa più grave da vie di fuga inadeguate che potrebbero intasarsi già nelle prime fasi dell’evacuazione. In questo scenario, l’evacuazione potrebbe essere possibile solo tramite una totale militarizzazione del territorio (con l’impiego quindi di forze di pubblica sicurezza e delle forze armate), con costi enormi e risultati forse insoddisfacenti. Sarebbe quindi opportuno, durante le fasi di quiescenza dell’attività, pianificare e realizzare opere di mitigazione del rischio che possono concretizzarsi solo con il “decongestionamento” preventivo, sulla base degli scenari di rischio, della cintura circumvesuviana e dell’Area Flegrea. Dato che l’evento potrebbe verificarsi anche a distanza di anni o decenni, questi interventi potrebbero però rivelarsi addirittura controproducenti per quel che riguarda l’atteggiamento delle popolazioni interessate (ad esempio, già dopo due mesi dall’evacuazione dell’area del St. Helens, i residenti facevano forti pressioni sull’US Geological Service per poter ritornare nell’area che successivamente venne investita da flussi piroclastici), se non accompagnati da una capillare e corretta informazione sulla pericolosità vulcanica. La popolazione va cioè preparata ad una“convivenza consapevole”, che comprenda la coscienza dell’ineluttabilità dell’evento, ma anche l’eventualità di lunghi tempi d’attesa, il possibile verificarsi di falsi allarmi e l’evenienza che l’eruzione si verifichi con modalità ed intensità diverse da quelle previste. Fonte: http://www.googleearth.com. 3.6. Il Piano Vesuvio Figura 3.18 b dettaglio del porto d’Ischia. Fonte: INGV-Osservatorio Vesuviano. Il territorio italiano è caratterizzato dalla presenza di diversi apparati vulcanici attivi, i più pericolosi dei quali risultano quelli attualmente in fase di quiescenza. Una lunga stasi nell’attività, quando non accompagnata da una corretta percezione del pericolo, determina una caduta di attenzione, favorisce lo sviluppo dell’urbanizzazione (spesso con edilizia abusiva) ed espone al rischio un numero sempre crescente di persone. In queste condizioni, anche eventi moderatamente potenti sono in grado di arrecare danni ingentissimi. Il caso di Napoli e del suo hinterland, esposti al sistema formato dal Vesuvio e dai Campi Flegrei, rappresenta, in tal senso, un esempio unico al mondo. Si tenga presente che 3.000.000 di persone vivono nel raggio di 30 km dal Vesuvio con una densità che raggiunge (Portici) i 15.000 abitanti per km quadrato. Nel caso del Vesuvio, sulla base di valutazioni della storia eruttiva del vulcano, è stato definito un Piano di emergenza (1995, rivisto nel 2001, attualmente in fase di aggiornamento), dimensionato per un’eruzione subpliniana, analoga a quella avvenuta nel 1631 (con colonna eruttiva alta diversi km, bombe vulcaniche, ceneri e lapilli anche a decine di km di distanza, flussi piroclastici per alcuni km). In base alle esperienze su altri vulcani ed alla storia eruttiva del Vesuvio, si valuta che i segnali precursori dovrebbero essere significativi ed inequivocabili a partire da mesi o settimane prima dell’evento eruttivo. Per quanto riguarda la gestione dell’emergenza, si confida nell’organizzazione ed efficienza del Dipartimento della protezione civile, già rodate nelle varie emergenze nazionali ed internazionali degli ultimi anni. Nel caso di un’emergenza vulcanica, occorre gestire centinaia di migliaia di persone, pre- 3.7 Altri vulcani italiani attivi L’Etna L’Etna, il più grande vulcano attivo subaereo europeo, è localizzato in prossimità della zona di convergenza tra la placca africana e quella euroasiatica ed in corrispondenza del sistema di faglie che bordano la parte orientale della Sicilia (scarpata Ibleo-Maltese). La genesi del vulcano ricade quindi in un complicato ambiente geodinamico il cui tentativo di interpretazione ha dato origine all’elaborazione di diversi modelli, a volte contra3 stanti tra loro . L’Etna è un vulcano complesso la cui forma fortemente irregolare deriva dalla sovrapposizione di edifici vulcanici, attivi in tempi diversi, dai quali sono fuoriuscite enormi quantità di magma. Ogni edificio ha avuto una propria storia vulcanologica conclusasi spesso con collassi parziali che hanno originato strutture calderiche, la più nota delle quali è quella della Valle del Bove. L’assetto morfologico è ulteriormente complicato dalla presenza, sui fianchi, di centinaia di coni piroclastici minori (con altezze da poche decine a qualche centinaio di metri) spesso allineati lungo fratture. L’attività nell’area etnea è iniziata circa mezzo milione di anni fa con eruzioni in zone sottomarine e costiere che portarono all’emersione della costa a nord di Catania (Acicastello, Acitrezza) e furono seguite da un altro episodio analogo circa 0,3 milioni di anni fa nella zona sudoccidentale dell’Etna. A partire da circa 170 mila anni fa, si formarono numerosi centri eruttivi e probabilmente il primo edificio principale dell’Etna (Etna antico). In seguito i magmi divennero più complessi, portando ad un vulcanismo esplosivo e alla creazione di una serie di edifici vulcanici che alternavano prodotti effusivi e piroclastici e presero il nome di Trifoglietto. Principali centri eruttivi erano il Trifoglietto II, Vavalaci e Cuvigghiuni4. Un’altra serie di edifici vulcanici principali nacque, e fu parzialmente distrutta, dal collasso della caldera durante la fase del Mongibello, che è solitamente suddivisa in Antico e Moderno Mongibello. La prima fase include i centri vulcanici Ellittico e Leone e la formazione degli omonimi crateri, 75 Zone territoriali individuate dal Piano Vesuvio. Considerando il tipo e l’entità dei fenomeni attesi nello scenario di riferimento, sono state individuate tre zone a diversa pericolosità: zona rossa (zona potenzialmente invasa da flussi piroclastici;18 comuni, 200 kmq, quasi 600.000 abitanti, di cui è prevista l’evacuazione entro 7 giorni), zona gialla (zona interessata dalla ricaduta di piroclastiti, 96 comuni di 4 province nei settori orientali del vulcano, 1.100 kmq, 1.100.000 abitanti), zona blu (all’interno della zona gialla ma con caratteristiche geomorfologiche tali da poter essere interessata da lahars ed inondazioni: di fatto i comuni alle pendici settentrionali del Monte Somma e della Conca di Nola con 180.000 abitanti). Per i comuni della zona rossa, interessata da flussi piroclastici, è prevista l’evacuazione totale e preventiva. Per la zona gialla è prevista l’eventuale evacuazione di un’area limitata (quella in cui gli spessori delle ceneri raggiungano valori tali da compromettere la stabilità dei tetti) in dipendenza dalla direzione dei venti dominanti che influenzano la distribuzione al suolo delle particelle piroclastiche. 3 Doglioni C., Innocenti F. and Mariotti G., Why Mt Etna?, Terra Nova 13/2001. 4 Gillot P.Y., Kieffer G. and Romano R., The evolution of Mount Etna in the light of potassium-argon dating, Acta Vulcanologica, 5 /1994. Behncke B., Volcanism in the Southern Apennines and Sicily, in: Vai G.B. and Martini I.P. (eds), Anatomy of an orogen: the Apennines and adjacent Mediterranean basins, Kluwer Academic Publishers, DordrechtBoston-London, 2001(Etna: pp. 111113). 76 Rischio vulcanico in Italia | Gli altri vulcani attivi in Italia Figura 3.19 Schema dell’evoluzione dell’apparato etneo. Dall’alto verso il basso: genesi dei primi centri eruttivi, cui segue la creazione del Trifoglietto (vulcano a scudo) e successivamente quella del Mongibello (stratovulcano asimmetrico). Fonte: ISAT. Figura 3.20 I crateri sommitali dell’Etna. Fonte: Protezione Civile. 77 Disastri naturali | Conoscere per prevenire mentre la successiva include la costruzione dell’attuale cono sommitale, che fu interrotta almeno una volta da un collasso (Piano Caldera, circa duemila anni fa). Pericolosità vulcanica e rischio associato Attualmente il vulcano si trova in condizioni di condotto aperto (Figura 3.20) che unitamente alla bassa viscosità dei magmi determina modalità eruttive piuttosto diversificate ma senza caratteri di estrema violenza. I tipi di attività più comuni sono quella stromboliana, con moderata esplosività e fontane di lava, e quella hawaiana, con fuoriuscita di imponenti colate laviche. Nel corso della sua evoluzione il vulcano ha sperimentato anche eruzioni a grande esplosività (eruzioni pliniane o subpliniane, l’ultima delle quali risale al 122 d.C.), che sono però da escludere a breve termine a meno di poco probabili ostruzioni dei condotti. Tale tipo di attività difficilmente determina la perdita di vite umane poiché, generalmente, le aree raggiunte dalla caduta di lapidei sono limitate all’intorno del centro eruttivo e le colate laviche, sebbene imponenti, si muovono a velocità tale da permettere l’evacuazione delle aree interessate. Pericolosa è comunque la permanenza in prossimità dei centri in eruzione, come dimostrato dal fatto che dal 1500 ad oggi le cronache riportano 73 vittime legate direttamente all’attività etnea e quasi tutte dovute ad improvvise esplosioni freatiche. Diverso è ovviamente il discorso riguardo alla perdita di beni economici, che può essere totale e particolarmente gravosa nel caso di fuoriuscita di magma da fratture laterali poste a bassa quota in aree densamente popolate come quelle nei dintorni di Catania. La più recente eruzione laterale a bassa quota risale al 1669 con colate laviche che arrivarono a mare distruggendo parzialmente Catania e molti dei centri limitrofi. Poiché la nascita dei centri eruttivi è preceduta da una serie di segnali premonitori (terremoti, sollevamenti del suolo, ecc..), l’attuale sistema di sorveglianza del vulcano dovrebbe permettere di riconoscere con anticipo la nascita del nuovo centro. Le Isole Eolie Le Isole Eolie costituiscono un arcipelago di forma arcuata composto da sette isole vulcaniche. La genesi di tale arco vulcanico è dovuta alla convergenza tra le placche euroasiatica ed africana ed al processo di subduzione di quest’ultima, testimoniato dall’intensa attività sismica profonda. L’evoluzione dell’arco può essere schematizzata in quattro fasi (da sito GNV): 1. inizio attività a Filicudi (circa 1.000.000 anni fa); 2. crescita di Filicudi, formazione di Panarea e Strombolicchio, inizio crescita di Lipari e Salina (430.000–200.000 anni fa); 3. formazione di Alicudi e Vulcano, continuazione nella crescita degli altri edifici (160.000–110.000 anni fa); 4. formazione di Stromboli, crescita di Vulcano, conclusione dell’attività di Figura 3.21 L’eruzione dell’Etna del 1669. Fonte: INGV. 78 Rischio vulcanico in Italia | Gli altri vulcani attivi in Italia Figura 3.23 – Evoluzione dell’apparato vulcanico dello Stromboli. L’attuale assetto morfologico di Stromboli deriva dallla sovrapposizione di 5 edifici vulcanici, ognuno dei quali ha avuto una propria storia vulcanologica conclusasi con catastrofici collassi calderici, oppure con il crollo di ampie porzioni dell’edificio. L’instabilità del versante occidentale dell’isola, dovuta al continuo accumulo dei prodotti delle eruzioni, è uno degli aspetti più pericolosi del vulcano a causa del potenziale innesco di tsunami. Fonte: ridisegnato e modificato da F. Fumanti su dati http://www.swissedu.ch e http://vulcan.fis.uniroma3.it/ingv Alicudi (110.000 – attuale). Attualmente sono considerati estinti gli apparati di Alicudi, Filicudi e Salina, mentre Lipari e Vulcano si trovano in una fase di quiescenza (ultime eruzioni rispettivamente nel 729 d.C e nel 1888-90). Stromboli è in costante attività Stromboli è uno strato-vulcano con attività persistente del quale sono visibili solo i 900 metri che affiorano dal mare, mentre 1.500 metri si trovano sott’acqua. Lo Stromboli è ininterrottamente attivo da oltre 2000 anni con un peculiare stile eruttivo (eruzioni stromboliane). L’attività è caratterizzata da intermittenti esplosioni di bassa/moderata energia, con emissione di brandelli di lava, bombe, lapilli e ceneri da 4 bocche eruttive localizzate all’interno di un cratere più ampio (La Fossa). I prodotti ricadono generalmente all’interno del cratere ed in parte all’esterno, nel punto dove questo è più basso, scivolando lungo un ripido pendio chiamato la Sciara del Fuoco. Tale attività è periodicamente interrotta dalla fuoriuscita di colate di lava che si incanalano lungo la Sciara del Fuoco e da esplosioni di maggior violenza con lanci di bombe e blocchi oltre i limiti del cratere. L’attività dello Stromboli viene suddivisa in 5 cicli, che corrispondono a emissioni di magmi con caratteristiche diverse. Nel corso del ciclo detto del Vancori si è costruita l’attuale cima, al cui interno si è impostata l’attività recente. Durante le fasi di ordinaria attività le eruzioni esplosive e le colate di lava dello Stromboli generano un rischio praticamente nullo, in quanto i prodotti restano confinati all’interno del cratere oppure sono incanalati nella Sciara del Fuoco, cioè in zone non frequentate. Un rischio maggiore è associato alle eruzioni ad esplosività più alta (in media due all’anno), perché i prodotti possono fuoriuscire dal cratere e raggiungere l’area di Pizzo Sopra La Fossa dove, soprattutto nel periodo estivo, si radunano decine di persone ad osservare l’attività del vulcano. Tali eruzioni possono avvenire in qualsiasi momento e senza alcun segnale 79 Disastri naturali | Conoscere per prevenire Figura 3.23 Stromboli, la sciara del fuoco (foto A.Candido) premonitore. Eruzioni ancora più potenti, fortunatamente non frequenti, lanciano bombe e blocchi a distanze notevoli dal cratere e possono generare flussi piroclastici che scendono sino al mare. L’evento più recente si è verificato nel 1930 e ha interessato anche le aree abitate di Ginostra e Stromboli determinando la morte di 6 persone. A seguito dell’eruzione buona parte della popolazione abbandonò definitivamente l’isola. Nel corso delle maggiori eruzioni è possibile l’innesco di movimenti franosi che possono generare tsunami. L’ultimo di questi casi è avvenuto il 30 dicembre 2002 quando una frana di circa 16 milioni di metri cubi di materiale (di cui 8 sommersi) ha innescato uno tsunami che oltre ad interessare le coste dell’isola ha colpito le zone costiere delle altre isole, della Calabria e della Sicilia. A Stromboli l’onda ha raggiunto una altezza massima di circa 8 metri e ha interessato aree distanti anche 100 metri dalla linea di costa. Fortunatamente l’evento, capitato in pieno inverno, non ha provocato vittime ma ben altri effetti avrebbe avuto se fosse accaduto durante i mesi con maggior afflusso turistico. Vulcano. L’isola di Vulcano (Figura 3.24) rappresenta la parte emersa di un grande edificio che si è costruito attraverso diversi stadi d’attività a partire da circa 150.000 anni fa. I maggiori eventi eruttivi si sono verificati circa 80.000 anni fa (Caldera del Piano), 50.000 anni fa (settore sud della caldera La Fossa) e circa 15.000 anni fa, probabilmente il più potente, con una grande esplosione che determinò il collasso della parte occidentale della caldera La Fossa, all’interno della quale si è accresciuto, a partire da 6.000 anni fa, l’attuale centro eruttivo (Cono di La Fossa). La formazione di Vulcanello è iniziata intorno al secondo secolo a.C. e l’isolotto si è collegato a Vulcano intorno al 1550. Vulcano è caratterizzato da un peculiare stile eruttivo (eruzioni vulcaniane), legato all’interazione del magma con le acque freatiche, e caratterizzato da esplosioni a moderata magnitudo, genesi di modeste colonne eruttive, emissione di lave ad elevata viscosità e lancio di blocchi e bombe. Nel corso di tali eruzioni sono possibili anche flussi piroclastici (surges) che rappresentano sicuramente la fenomenologia maggiormente pericolosa. L’ultima fase eruttiva è avvenuta al cratere La Fossa tra il 1888 e il 1890 (Figura 3.25). Forti esplosioni hanno lanciato in aria scorie, ceneri e pezzi 80 Rischio vulcanico in Italia | Gli altri vulcani attivi in Italia del cono vulcanico anche di diverse tonnellate. Il nuovo magma è stato eruttato sotto forma di bombe che si sono raffreddate al suolo formando una superficie screpolata (bombe a crosta di pane). Attualmente il vulcano è in uno stato di quiescenza con condotto ostruito ed attività limitata alla continua emissione di gas. Pericolosità vulcanica e rischio associato Figura 3.24 Immagine aerea dell’isola di Vulcano. Si noti la prossimità del centro abitato al cratere. Fonte: Prof. G. Luongo. Figura 3.25 L’ultima eruzione di Vulcano (1888-90) in una foto scattata da G. Mercalli. Fonte: Da G. Mercalli e O. Silvestri, Le eruzioni dell’isola di Vulcano; Ann. U. Centr. Mer.(Roma 1891). Il vulcano è costantemente monitorato ed attualmente non ci sono evidenze di risalita del magma. Basandosi sulla storia vulcanologica dell’apparato è comunque probabile che una nuova futura eruzione presenti caratteristiche esplosive con formazione di surges piroclastici, che con tutta probabilità raggiungerebbero la zona di Vulcano Porto5. Il paese è stabilmente abitato da circa 500 persone. Nel periodo estivo la popolazione ammonta a diverse migliaia, quasi totalmente residenti in aree potenzialmente interessate dai prodotti di una eventuale eruzione, accrescendo enormemente il rischio e le difficoltà di una evacuazione possibile solo via mare. Lipari, la più grande delle Isole Eolie, ha avuto l’ultima eruzione nel 729 d.C., preceduta da un periodo di riposo che si è protratto per circa 3500 anni. L’attività si sviluppò contemporaneamente in due centri eruttivi detti Forgia Vecchia e Monte Pelato. Il ciclo eruttivo iniziò con una grande esplosione che determinò l’apertura del cratere, a cui seguì l’emissione di pomici e altri prodotti piroclastici, e si chiuse con l’emissione di limitati volumi di lave molto viscose. I magmi eruttati a Lipari erano molto ricchi in silice e la loro viscosità al momento dell’emissione doveva essere talmente alta da impedire la formazione di cristalli (colate di ossidiana). A Lipari risiedono permanentemente circa 8500 persone che aumentano in modo esponenziale nel periodo estivo, con problematiche simili a quelle di Stromboli e Vulcano in caso di ripresa dell’attività. 5 Santacroce R., Cristofolini R., La Volpe L., Orsi G., Rosi M., 2003, Italian active volcanoes, Episodes, 26 (3). 81 Disastri naturali | Conoscere per prevenire 4. ALTRE MINACCE PER IL TERRITORIO ITALIANO 4.1. Alluvioni e frane. Fenomeni catastrofici possono essere indotti anche da intensi eventi meteorologici (esogeni) in porzioni di territorio, spesso degradate per cause antropiche dal punto di vista geologicoidraulico. In tali situazioni possono verificarsi alluvioni, frane, valanghe, erosione accelerata. Si tratta di fenomeni che evolvono in tempi relativamente brevi ma con forte intensità, come peraltro quelli vulcano-tettonici, che hanno però bisogno di tempi di innesco lunghissimi. Alluvioni e inondazioni Tra i vari disastri naturali, sono le alluvioni a comportare a livello mondiale le maggior perdite di vite umane. Tali perdite si accentuano nei paesi in via di sviluppo dove, alle conseguenze dirette dell’evento, si sommano effetti secondari come la diffusione di epidemie e la distruzione di prodotti alimentari. Le esondazioni dei fiumi, insieme alle frane, sono i fenomeni calamitosi più ricorrenti sul territorio italiano. Le alluvioni in particolare colpiscono di frequente vaste regioni del territorio nazionale, a cominciare dalla grande pianura del Po e dai bacini degli altri fiumi principali fino alle fiumare meridionali che, pur non portando acqua per lunghi periodi di tempo, sono soggette ad improvvise ondate di piena. Eventi meteorologici intensi o anche estremi, che a loro volta innescano o sono fra le concause di alluvioni e frane, non sono tipici soltanto di tempeste e cicloni tropicali. Sono noti, infatti, veri e propri cicloni mediterranei (tempeste mediterranee), che hanno origine nello stesso mare interno (nota zona ciclonigenica è il Golfo di Genova, e sembra che ne esista un’altra nell’Italia nord-orientale) oppure entrano nel Bacino del Mediterraneo provenienti dall’Atlantico secondo diversi meccanismi: ex cicloni tropicali che arrivano dall’Atlantico attraverso la soglia della Provenza-Linguadoca o, più raramente, lo Stretto di Gibilterra; creazione o rafforzamento di una depressione sulla Penisola Iberica per effetto dell’aria umida tropicale che si muove verso nord nell’Atlantico; penetrazione dell’aria umida tropicale dall’Atlantico attraverso l’Europa centrale e orientale. Con queste origini complesse, cicloni mediterranei autunnali o invernali, che “rassomigliano” alle tempeste tropicali ed agli uragani, si sono avuti nel Mediterraneo, per gli ultimi decenni, nel 1947, 1969, 1982, 1983, 1995 e 2004 (quest’ultimo particolarmente intenso nel Mar del Levante, con chiusura temporanea del Canale di Suez). Nel caso specifico dell’Italia, sembra comunque che le precipitazioni più intense siano in genere dovute ai cicloni di origine mediterranea locale. Questi fenomeni sono anche all’origine delle ampie tempeste di sabbia, provenienti dal Sahara o da altri deserti del Nord Africa, che attraversano il Mediterraneo e lambiscono l’Italia (piogge di sabbia, e qualche volta persino di locuste africane che arrivano stremate per la trasvolata, sono note in diverse città italiane, soprattutto sul versante tirrenico, tra cui Roma). Figura 4.1 Alluvione nel bacino del Po. Crollo del viadotto sulla Dora Baltea dell’autostrada Milano-Torino, 17 ottobre 2000 Fonte: APAT-Servizio geologico d’Italia, Dipartimento difesa del suolo. 82 Altre minacce | Alluvioni e frane Ponte crollato dopo una piena improvvisa nel 2005 a Villanova Strisaili (Nu) Foto: A. Candido Negli ultimi 80 anni, si sono verificate in Italia 5.400 alluvioni1. Negli ultimi 20 anni 70.000 abitanti sono stati coinvolti da alluvioni e frane e i danni hanno raggiunto i 30.000 miliardi di lire Frane e colate di fango Fonte:(http://www.apat.gov.it/site/itIT/Temi/Suolo_e_Territorio/Rischio_ idrogeologico). 1 Plenizio E., Quando il cemento diventa fango, Scienza Nuova 3/1998. Figura 4.2 Ottobre 2000: la colata di fango e detriti che ha investito l’abitato di Pleod di Fenis (AO). Fonte: APAT-Servizio geologico d’Italia, Dipartimento difesa del suolo. L’alluvione dell’Arno a Firenze nel 1966 (con precedenti eventi record nel 1269, 1333, 1500 e 1547) danneggiò con le acque ed il fango beni architettonici e culturali rilevanti come Palazzo Vecchio, Piazza del Duomo, il Battistero (la Porta del Paradiso perse alcune formelle), Santa Croce, strade e piazze medievali, mettendo in pericolo le opere conservate nella Galleria degli Uffizi e nella Biblioteca Nazionale. L’alluvione produsse anche varie frane secondarie. Le vittime furono 35 più 61 dispersi, per la maggior parte a causa dei movimenti franosi. Nel 1954, a Vietri sul Mare, Salerno e Costiera Amalfitana, si verificò una piena fluviale catastrofica in un’area di costa rocciosa, che provocò la perdita di 318 vite umane, ingentissimi danni al patrimonio edilizio ed alle attività produttive in ambito urbano, nonché notevoli modifiche all’ambiente naturale. L’evento alluvionale, innescato da un nubifragio, fu caratterizzato dall’enorme quantità di materiali alluvionali accumulatisi alla foce del torrente Bonea. La Costiera Amalfitana, ed in particolare Maiori e Cetara, era stata già colpita da inondazioni improvvise nel 1735, nel 1773 e nel 1910 (con effetti disastrosi). 83 Disastri naturali | Conoscere per prevenire Le alluvioni comportano un impatto socio-economico estremamente elevato, anche se minore, in termini di perdite totali per singolo evento, rispetto agli eventi sismici di elevata magnitudo. La recente alluvione del Po nel 2000 (alluvione numero 1.200 a partire dal XIV secolo nell’Italia settentrionale) ha comportato 40 vittime e 32.000 persone evacuate; è stata senza dubbio un disastro naturale, causato da una pioggia di oltre 800 litri d’acqua per metro quadrato, aggravato da una componente antropica molto forte. Le grandi piene con disastrose alluvioni sono frequenti nel bacino del Po: le più recenti nel 1839, 1892, 1949, 1952 (quella famosa del Polesine, una delle più disastrose), 1960, 1992, 1993, 1994 e 2000. La frequenza di queste alluvioni sembra aumentare negli ultimi anni, probabilmente a causa delle piogge eccezionali. Le piene e le alluvioni mettono in evidenza l’intreccio tra cause insite in fattori naturali (almeno in parte, come l’assetto geomorfologico e climatico del territorio) e le responsabilità dovute ad un uso scorretto del territorio. Ad esempio: G occupazione delle aree golenali con insediamenti abitativi o industriali che, oltre a ostacolare lo sfogo delle acque, comporta anche una dannosa impermeabilizzazione del terreno; G presenza di aree inquinate e discariche abusive che, oltre ad inquinare, costituiscono ulteriori ostacoli al deflusso delle acque; G cementificazione e rettificazione degli alvei e sopraelevazione degli argini, preceduta da deforestazione delle aree lungo i fiumi, con ulteriori possibili effetti (come l’accelerazione della corrente fluviale e l’ostacolo all’espansione delle acque), nel caso di piene eccezionali; G insufficiente manutenzione geologico-idraulica e, più in generale, malgoverno del territorio che impone successivi interventi di bonifica e recupero. Agli stessi fenomeni di origine meteorologica e geologico-idraulica possono essere collegate le frane, comprese le grandi colate di fango costituite da materiale di origine vulcanica. È questo il caso del noto episodio di Sarno nel 1998 (153 vittime) in una regione, la Campania, che risulta (soprattutto nel triangolo NapoliAvellino-Salerno) da questo punto di vista la più disastrata d’Italia, con il concorso di cause antropiche, a cominciare dall’urbanizzazione selvaggia di zone a rischio geologico-idraulico, sismico e vulcanico. Le regioni più esposte sono Trentino-Alto Adige, Marche e Friuli-Venezia Giulia, ma quelle che subiscono danni più disastrosi sono, proprio per cause antropiche, la Campania, la Calabria, la Sicilia e la Basilicata. Per ricordare i singoli eventi, si possono citare, tra quelli distruttivi più recenti, la frana di Stava nel Trentino nel 1985 (269 vittime) collegata ad attività minerarie, quella in Val di Pola nel 1987 (40 vittime, 19.500 senzatetto), in varie località del Piemonte nel 1994 (70 vittime), in Versilia nel 1996 (13 vittime), in molte regioni (Soverato in Calabria, nel Nord-Ovest, Liguria, Toscana) nel 2000 (con un totale di 61 tra morti e dispersi e 40.000 evacuati). Le conseguenze dei fenomeni franosi in Italia assumono una rilevanza tale da rappresentare un vero e proprio problema socio-economico. È sufficiente dare uno sguardo ad alcune statistiche, basate sui dati raccolti negli ultimi anni dal CNRGNDCI (Gruppo Nazionale per la Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche)2: G le vittime e i dispersi in seguito a fenomeni franosi negli ultimi sei secoli ammontano a 10.555, dei quali 5.939 nel XX secolo (in media 59 per anno) e 2.447 nel dopoguerra (in media 54 per anno); G nell’ultimo dopoguerra, lo Stato ha stanziato, per far fronte ai problemi di rischio da frana, una media di oltre 500 milioni di Euro ai valori correnti per anno (importo corrispondente attualmente a circa lo 0,5 per mille del PIL); G le stime del costo totale dei danni provocati dai fenomeni 2 Canuti P., Casagli N., Tarchi D., Le nuove tecnologie di allertamento strumentale per la mitigazione del rischio da frana. Presentato alla Giornata di Studio “Tecnologie per la mitigazione del rischio idrogeologico” organizzata dal Comitato dei parlamentari per l’innovazione tecnologica e lo sviluppo sostenibile (COPIT), Roma, 2001. È stato causato da una frana il grande disastro del Vajont nel 1963, quando dal Monte Toc si staccarono oltre 100.000 metri cubi di materiale roccioso di una zona sottoposta ad alta erosione; questa enorme massa piombò nell’invaso artificiale creato da una diga di cemento, che resse all’ondata, ma venne scavalcata da oltre 25 milioni di metri cubi d’acqua e frammenti rocciosi che distrussero Longarone e parti di altri comuni (provincia di Belluno) con 1917 morti. La relazione tra degrado del territorio, abusivismo edilizio e fenomeni franosi è stata ancora una volta confermata dal movimento di versante occorso ad Ischia il 30 aprile 2006. Un’ondata di fango sotto il Monte Vezzi ha causato la distruzione di una casa, costruita abusivamente 20 anni fa, con 4 vittime, e imposto lo sgombero di altre 200 abitazioni. Il territorio di Ischia, peraltro sottoposto anche a rischio vulcanico e sismico, è particolarmente esposto al rischio geologico-idraulico. L’isola è caratterizzata da una orografia tormentata e la sua superficie è costituita da materiale vulcanico relativamente giovane, che tende a franare in occasione di forti piogge. L’area colpita era ufficialmente nota come ad alto rischio e tuttavia vedeva la presenza di case sparse, che gli amministratori locali attribuiscono a un “abusivismo di necessità”. 84 Altre minacce | Alluvioni e frane Figura 4.3 Gli effetti di una delle colate di fango che il 24 ottobre 1910 colpirono, insieme con l’esondazione del torrente Cetus, l’abitato di Cetara (SA) provocando più di 150 vittime. Fonte: APAT-Servizio geologico d’Italia, Dipartimento difesa del suolo, su gentile concessione della Scuola media di Cetara. Anche l’attività vulcanica può innescare movimenti franosi, a volte di grandi dimensioni. L’ultimo caso italiano, con conseguente modesto tsunami, è avvenuto a Stromboli sul versante emerso e sommerso nella zona della Sciara del Fuoco nel 2002; la conformazione di Stromboli è tale da aver dato origine a cinque eventi di questo tipo in 100 anni. Si ipotizza, tra l’altro, che i movimenti franosi, e non le eruzioni in quanto tali, siano il pericolo maggiore legato ai vulcani sottomarini del Tirreno meridionale, a causa dei maremoti che possono innescare. Gli studi internazionali hanno individuato un pericolo di frana a mare del vulcano Cumbre Vieja a Las Palmas (Isole Canarie), a seguito di un precedente movimento franoso parziale avvenuto nel 1949, che, qualora si verificasse, potrebbe causare un maremoto devastante (con onde alte fino a 30 metri) fino alle coste del Brasile, Caraibi e Stati Uniti. franosi sono variabili fra 1 e 2 miliardi di Euro per anno (somme corrispondenti mediamente allo 1,5 per mille del PIL); tali valutazioni si ritengono approssimate per difetto in quanto molti danni causati da frane sono spesso imputati ad altre calamità naturali; G sulla base di tali considerazioni, e tenendo conto anche dei danni indiretti associati alle perdite di produttività, alla riduzione del valore del patrimonio immobiliare, alla riduzione delle entrate fiscali ed ad altri effetti economici indotti, una stima più completa del costo complessivo dei danni causati dalle frane in Italia è probabilmente inquadrabile intorno al 3-4 per mille del PIL (a valori del 2000); G in seguito ad indagini svolte recentemente, il numero di centri abitati effettivamente instabili risulta stimabile in oltre 5.000; G oltre 9.600 aree sono state ad oggi individuate e perimetrate come “a rischio di frana estremamente elevato”dalle Regioni e dalle Autorità di Bacino. Tali dati acquistano un significato ancora maggiore se inquadrati in un contesto globale: G con una media di 59 vittime all’anno dovute a frane nell’ultimo secolo, l’Italia risulta al quarto posto nel mondo dopo i Paesi Andini (735 vittime per anno), la Cina (150 vittime per anno) ed il Giappone (130 vittime per anno); G con un ammontare di danni per frana stimato fra 1 e 2 miliardi di Euro all’anno, l’Italia è al secondo posto assoluto a pari merito con USA ed India, dietro al Giappone (con danni stimati in oltre 4 miliardi di Euro all’anno); G in termini di rapporto danni/PIL l’Italia si colloca al secondo posto, con l’1,5 per mille, fra i paesi tecnologicamente avanzati, subito dopo il Giappone (2 per mille). Negli ultimi decenni il rischio legato a frane e alluvioni è progressivamente aumentato. Le analisi più approfondite, comprese quelle retrospettive, indicano che Disastri naturali | Conoscere per prevenire la pericolosità degli eventi è rimasta sostanzialmente invariata, anche se non possono essere esclusi effetti futuri del cambiamento climatico. È cresciuta invece l’esposizione degli elementi a rischio a causa dell’aumento degli insediamenti, spesso abusivi, nelle zone instabili ed inondabili. Anche la vulnerabilità è sostanzialmente aumentata di pari passo con il nostro sistema produttivo e socio-economico. Si ritorna quindi ancora una volta al problema della riduzione del rischio, alla necessità di un’accorta politica di gestione e manutenzione del territorio, per la messa in sicurezza delle opere strategiche per la salvaguardia dei cittadini, del sistema produttivo e dei beni culturali di maggior valore. D’altro canto, va puntualizzato che, per quel che riguarda il rischio geologico-idraulico, non è mancata né l’attenzione da parte dell’opinione pubblica e dei decisori, né l’iniziativa legislativa, sia pure caratterizzata da ritardi e sovrapposizioni. 4.2. Fenomeni riguardanti il livello del mare Oltre ai fenomeni a carattere tettonico ed a quelli di tipo geologico-idraulico fin qui trattati, va ricordata un’altra categoria, comprendente fenomeni apprezzabili a scala più lunga (dell’ordine dell’anno o più) ed in genere collegati alla complessa interazione tra clima e tettonica: G eustasia (variazione del livello del mare in conseguenza delle oscillazioni climatiche e in particolare della formazione di calotte glaciali); G subsidenza (progressivo abbassamento del terreno, dovuto alla naturale diagenesi dei sedimenti o al prelievo da parte dell’uomo di acqua di falda o di altri composti come gli idrocarburi, che provoca una diminuzione di pressione nel sottosuolo e quindi la sua compattazione. La subsidenza lungo le zone costiere provoca la penetrazione del mare nell’entroterra); G moti isostatici (legati all’attività tettonica ed al clima attraverso le variazioni del livello del mare e l’evoluzione delle masse glaciali). Questi fenomeni vanno comunque distinti dalle maree, ossia dall’innalzamento temporaneo del livello del mare per effetto combinato della marea astronomica e della componente meteorologica (variazioni dell’intensità e della direzione del vento e del valore della pressione atmosferica). Tale innalzamento del mare però, unitamente alla subsidenza ed all’eustasia, può causare il fenomeno noto come“acqua alta”. Il fenomeno è ben noto nella laguna di Venezia, con un evento estremo di +194 cm di “acqua alta” registrato nel 1966, e con sullo sfondo un lento ma continuo aumento sia del livello del mare negli ultimi 500 anni, sia del numero degli eventi classificabili come“acqua alta”(da circa 15/anno negli anni ’20 ad oltre 60/anno negli anni ’90). Un fenomeno correlato è quello della “sessa”, un’oscillazione periodica dell’Adriatico simile ad una bilancia con fulcro sul parallelo di Otranto. 85 Venezia, il fenomeno dell’acqua alta Fonte: Dipartimento della Protezione Civile