Sofocle, Edipo re, cur. F. Condello (pdf, it, 1998 KB

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Sofocle
Ed i p o r e
a c u ra d i
Fe d e r i c o Co n d e l l o
Te s t o g r e c o a f r o n t e
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© Lorenzo Barbera Editore S.r.l.
via Massetana Romana, 52/a
53100 Siena
tel: 0577 44120 | fax: 0577 47883
e-mail: [email protected]
web: www.barberaeditore.it
Prima edizione 2009
Promosso e distribuito da
Messaggerie Libri S.p.a.
Finito di stampare nel mese di maggio 2009
presso L.E.G.O., Lavis, (TN)
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Prefazione
“I classici sono la riserva del futuro” (Pontiggia).
Con tale convinzione nasce questa nuova collana di classici
greci e latini che si pone come opera di divulgazione curata
da specialisti, anche per non specialisti. In particolare intende
rivolgersi ai giovani, curiosi dell’antico, per un contatto diretto
con i testi, al fine di offrire la possibilità di interrogarli e confrontare i modelli culturali del loro tempo con quelli delle età
posteriori e con i nostri.
Il testo con traduzione a fronte è una scelta che ormai è nella
tradizione editoriale della presentazione dei testi antichi. Siamo
ben consapevoli che la lettura della traduzione non può essere
equivalente, e quindi sostitutiva, di quella dell’opera in lingua
originale, ma siamo altrettanto consapevoli che la capacità di
leggere e comprendere perfettamente in piena autonomia le lingue antiche, oggi in particolare, è di pochi. È vero: la traduzione
è “quasi la stessa cosa” (Eco), ma spesso è necessaria opera di
mediazione che permette al lettore di altra lingua, e nel nostro
caso, anche di altra epoca, di riudire voci di classici che diversamente non sentirebbero mai. “L’accesso alle culture antiche è un
diritto” (Vegetti) che non vorremmo fosse sottratto a nessuno e
soprattutto ai giovani. Ed è stato in particolare pensando a loro
che si è per lo più scelto di affidare a giovani studiosi l’arduo
compito del tradurre, troppo spesso ancora oggi misconosciuto
o comunque ritenuto di scarso prestigio. D’altronde, come è
noto, la traduzione ha un alto tasso di deperibilità e, seppure
alcune traduzioni del passato ancora oggi ci appaiano efficaci,
sono a loro volta divenute dei classici anch’esse in quanto ogni
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Anna Giordano Rampioni
generazione si appropria dei testi antichi attraverso un proprio
codice linguistico e culturale, risultato della cultura e del gusto
del tempo. Certo il traduttore sa bene che dietro una semplice
parola o concetto espresso nell’idioma del testo-fonte c’è “un di
più” spesso inesprimibile, vuoi per il valore emozionale proprio
dell’opera d’arte, vuoi perché l’autore rinvia, attraverso la sua
lingua, ad una visione, ad un mondo culturale che non è quello
del lettore moderno. Per questo aspetto si affida alle note che,
di vario genere (storico, antropologico ecc.), hanno lo scopo di
aiutare a recuperare le conoscenze necessarie per meglio intendere quanto si va leggendo.
L’introduzione è affidata sempre ad ‘esperti’, studiosi di lingue
e letterature classiche, che, partendo rigorosamente dall’opera
in lingua, offrono una chiave di lettura che pone in un’ottica
illuminante, o almeno chiarificatrice, gli elementi significativi
del testo.
Anna Giordano Rampioni
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Introduzione
Informazioni preliminari
L’Edipo re di Sofocle andò in scena per la prima volta ad Atene,
verosimilmente nella seconda metà del V sec. a.C.1: più non
si può dire, perché nessun documento antico fornisce la data
dell’epocale rappresentazione. Le ipotesi a oggi proposte oscillano fra gli estremi del 456 (Bruhn)2 e del 411 a.C. (Perrotta)3, con
una diffusa preferenza per il periodo intermedio (430-425 a.C.):
preferenza non del tutto giustificata, come si avrà modo di vedere
(infra, CIX-CXV). Se ignota è la datazione, noto è l’insuccesso
cui andò incontro la ‘prima’: Sofocle fu sconfitto da Filocle I, un
1
Sui concorsi tragici attici la migliore raccolta documentaria resta
quella di Pickard-Cambridge, 1-175. Il lettore italiano può ricorrere
altresì alle ottime sintesi di Cerri; Lanza, La disciplina, 13-78; Di Marco; Canfora, 115-142; Avezzù, Il mito, 11-58. Per tutti i titoli citati in
forma abbreviata si faccia riferimento, di qui in poi, alla Bibliografia
(infra, CXLVII-CLXIV).
2
Opinione condivisa da Robert, II, 106, ma ormai senza séguiti. La
datazione più alta oggi sostenuta è quella di Müller, 47-59, che conclude per gli anni 434 o 433; al volume si rinvia per un’utile raccolta
dossografica.
3
Perrotta, 257-268. A favore, fra gli altri, Diano, Longo, Degani, 289s.;
per una datazione indicativa al 413 a.C. si esprime ora anche Avezzù,
Il mito, 214-216, con l’approvazione di G. Serra in Avezzù, Il dramma,
323 n. 8. Fermamente contrari alla datazione bassa Pohlenz, II, 106 e
Lesky, 324 n. 106 («inaccettabile»; così ora Gigante, Dalla parte, 64).
Per maggiori dettagli si veda infra, CXIII-CXV.
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Federico Condello
nipote di Eschilo oggi dimenticato, cui le fonti antiche attribuiscono però ben cento titoli tragici. Dell’imbarazzante sconfitta
ci informa Dicearco, un allievo di Aristotele che aveva facile
accesso alle liste ufficiali attiche studiate dal maestro: non si ha
dunque motivo di dubitarne, al di là dello scandalo condiviso
da pressoché tutti i moderni4. Circa un secolo più tardi, tuttavia,
la tragedia sofoclea era già un indiscusso modello agli occhi di
Aristotele5; e l’epiteto tyrannos apposto a Edipo veniva inteso da
qualche commentatore antico quale segno di assoluta eccellenza:
quasi l’«Edipo principale» o addirittura «la tragedia principe»6.
Che l’Edipo re costituisca «il capolavoro della tragedia attica»
– come si esprimeva Jebb all’esordio della sua fondamentale
edizione – è stato giudizio per secoli unanime; giudizio che oggi
si tace solo per l’abbandono, che ci si augura permanente, di
ogni criterio valutativo assoluto o di ogni classicismo normativo.
Ma è un silenzio pudico che non può scuotere né la fama, né
l’imponenza monumentale, né la fortuna stratificata e amplissima – che è fatto obiettivo – della tragedia sofoclea.
4
La testimonianza di Dicearco (fr. 80 W.) è conservata dal secondo
Argomento premesso alla tragedia sofoclea in gran parte della tradizione manoscritta (TrGF T Hd 39). Si è giunti a credere che Filocle
potesse aver riproposto una tragedia di Eschilo (Dain in Dain-Mazon, 66); e si è variamente speculato su quanto può aver urtato la
sensibilità della giuria ateniese (novità drammaturgiche, scabrosità
del tema, sgradevolezza delle allusioni politiche, etc.). Ma nulla è
fondato, e nulla si sa di Filocle; né bisogna dimenticare che il verdetto non riguardava la singola tragedia, ma la tetralogia nel suo
complesso. Sulle giurie teatrali cf. Pickard-Cambridge, 131-136.
5
Cf. Poet. 14, 1453b 6s., 31s.; 16, 1455a 16-18; 26, 1462b 2s.; su queste e
altre menzioni aristoteliche della tragedia sofoclea si veda S.A. White
in R.A. Oksenberg (ed. by), Essays on Aristotle’s Poetics, Princeton
1992, 221-240.
6
Così registra il citato secondo Argomento dell’Edipo re. Per i valori
connessi al titolo «tiranno» cf. infra, LXIX-LXXVIII.
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Introduzione
Quando l’Edipo re va in scena, il tema edipico è già canonico.
Tale l’hanno reso secoli di produzione epica (cf. infra, 175179) e almeno un capolavoro della produzione tragica attica:
la trilogia tebana di Eschilo rappresentata nel 467 a.C., che
comprendeva – oltre ai superstiti Sette contro Tebe – un Laio e
un Edipo. Ancora nel 405 a.C., stando alle Rane di Aristofane
(vv. 1180-1194: cf. infra, 187s.), il trattamento eschileo del mito
edipico era un riferimento di spontanea immediatezza tanto per
il commediografo quanto per il pubblico ateniese. Inoltre, nella
seconda metà del secolo, al mito del re tebano risultano dedicate innumerevoli opere drammatiche fra le quali la ‘tragedia
principe’ di Sofocle ancora non spicca, se non per il prestigio
già conclamato del suo autore: in un periodo verosimilmente
posteriore al 420 a.C. andò in scena l’Edipo di Euripide (cf. infra,
Appendice, 183s.); con un Edipo vinse alle Dionisie del 415 a.C.
Senocle I (TrGF 33 F 1); fra il 411 e il 408 a.C. lo stesso Euripide
presentò le sue Fenicie (cf. infra, Appendice, 184-187 e 212 n. 61);
Sofocle, del resto, aveva rappresentato la sua Antigone verosimilmente nel 442-441 a.C., e postumo sarà offerto al pubblico, nel
401, l’Edipo a Colono7. E dunque non c’è da stupirsi, quando
un commediografo del secolo successivo, Antifane, polemizza
contro gli scontati e sin troppo comodi soggetti prescelti dai
colleghi tragediografi: «davvero, è un bel poetare / la tragedia.
7
Poco dopo toccherà all’Edipodia di Meleto il Giovane, l’accusatore
di Socrate, rappresentata nel 399 a.C. (TrGF 48 F 1), su cui cf. ora
Avezzù, Il mito, 261s. Per un elenco completo delle tragedie intitolate
a Edipo si veda Radt in TrGF III, 288. Fra le commedie, è certo un
Edipo di Eubulo (e una Sfinge completava, come dramma satiresco, la
trilogia eschilea del 467 a.C.). In àmbito romano, oltre a Seneca, merita una menzione particolare l’Edipo perduto di Cesare: il tyrannos
del tu quoque fu anche in questo caso, edipicamente, tradito da un
figlioccio (la censura fu di Augusto, testimonia Svetonio [Iul. 56,7];
cf. L. Alfonsi, «Aevum» LVII, 1983, 70s.).
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Le storie, innanzitutto, / sono ben note al pubblico, ancor prima
/ che uno cominci. Basta che il poeta / rinfreschi la memoria. Io
dico “Edipo” / e il resto già lo sanno: che suo padre / fu Laio,
che Giocasta fu sua madre, / e poi le figlie, e i figli…» (fr. 189,
1-7 K.-A.). Dunque una «storia» (λόγος), quella di Edipo, che appartiene all’orizzonte d’attesa più ovvio del pubblico ateniese.
Eppure già per Aristotele – e poi indiscutibilmente per la modernità – Edipo è l’Edipo re di Sofocle. Complice, come si sa,
Freud. «Freud scopre Edipo nella sua autoanalisi? Nella sua
autoanalisi o nella sua cultura classica goethiana?», si chiedono
Deleuze e Guattari8; malevole insinuazioni che sanciscono
– quale che sia la scelta, in questa alternativa poco fondata
– l’efficacia del canone. Poiché nelle pagine a seguire si tenterà
di fornire una sintesi, benché modesta, di quanto in Sofocle
è sofocleo – e di quanto è sofocleo in Freud, e freudiano in
Sofocle – sembra opportuno fornire qui, innanzitutto, una
mera sinossi della tragedia, che così si struttura:
1) prologo. Edipo raccoglie la supplica di una delegazione tebana riunita di fronte al palazzo reale. La città è afflitta da una
disastrosa epidemia: il re garantisce il massimo impegno a difesa del suo popolo. Creonte, di ritorno da Delfi, comunica il responso del dio, interrogato su ordine di Edipo: trovare e punire
chi ha ucciso il precedente sovrano, Laio, caduto vittima di
un’imboscata poco prima che Edipo giungesse a Tebe. Edipo si
assume immediatamente e risolutamente l’onere dell’inchiesta.
2) Parodo. Il Coro dei Vecchi Tebani descrive gli effetti della
pestilenza su uomini, donne, animali, e prega gli dèi perché respingano l’immane catastrofe. 3) Primo episodio. Edipo pronun8
G. Deleuze-F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, trad.
it. Torino 1975, 58. Una buona ricognizione dei presupposti culturali
di Freud in relazione a Edipo (da Schiller a Nietzsche) si trova in
Rudnytsky, 111-223.
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Introduzione
cia un solenne bando che impone a tutti i Tebani – colpevoli,
complici o informati dei fatti – un’autodenuncia, una denuncia
o almeno una testimonianza immediata; agli assassini di Laio è
interdetta la terra di Tebe; con gli assassini è vietato ai Tebani
qualsiasi rapporto di comunanza. Il Coro afferma la propria
personale innocenza e riepiloga, con Edipo, i pochi dettagli
noti dell’assassinio. Tiresia giunge sulla scena, convocato dallo
stesso Edipo su consiglio di Creonte. Costretto dal sovrano a
parlare, accusa lo stesso Edipo di regicidio e allude ad altri,
ancor più orribili crimini. Edipo reagisce con durezza e accusa
Tiresia e Creonte di un complotto ai suoi danni. 4) Primo stasimo. Il Coro si interroga sull’identità del colpevole e si rifiuta
di credere alle accuse di Tiresia contro un sovrano che è sempre
stato il benefattore del suo popolo. 5) Secondo episodio. Creonte
entra in scena allarmato: gli è giunta notizia delle accuse lanciate contro di lui da Edipo. Il Coro tenta di rassicurarlo, ma lo
stesso Edipo, uscendo dal palazzo, rincara le imputazioni e ignora le proteste d’innocenza del cognato. Interviene Giocasta,
che separa i due contendenti. Edipo, supplicato dal Coro e
dalla sposa, rinuncia alla condanna a morte di Creonte, che
abbandona la scena. Giocasta interroga lo sposo, e quando
apprende del diverbio con Tiresia rievoca, per tranquillizzare
Edipo, i passati insuccessi dell’arte mantica: tutte le profezie
rese a Laio – che avrebbe dovuto morire per mano del figlio, ed
è stato invece ucciso in un agguato a un trivio – si sono rivelate
fallimentari; dunque la mantica non ha alcun valore. All’udire
il racconto, Edipo, inquieto, ricorda quanto gli è accaduto durante il suo viaggio verso Tebe: egli è fuggito da Corinto – e
dai genitori, Polibo e Merope, sovrani del paese – in séguito a
un infausto pronunciamento del dio Apollo, che gli annunciava
incesto e parricidio; giunto a un trivio non lontano dalla città,
si è scontrato con un uomo e con la sua scorta; ha ucciso tutti.
Ora egli teme di essere il regicida e può soltanto sperare nella
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conferma della testimonianza resa a suo tempo dall’unico superstite del regicidio, che ha parlato di un assalto da parte di
briganti. Giocasta torna a tranquillizzare lo sposo e promette
che il testimone – un vecchio pastore al servizio di Laio – sarà
presto fatto convocare. 6) Secondo stasimo. Il Coro, turbato da
quanto ha sentito, esprime tutta la sua pena: che non debba
mai vedere il trionfo della prepotenza tirannica, e il definitivo
tramonto della devozione religiosa. 7) Terzo episodio. Giocasta
rientra in scena per pregare Apollo: che il dio voglia restituire
serenità al sovrano. Da Corinto giunge un Messaggero: viene ad
annunciare l’improvvisa morte di Polibo e l’imminente incoronazione di Edipo, suo successore. Edipo, rientrando in scena,
ascolta con sollievo la notizia: è la conferma – come Giocasta
sottolinea – che anche i pronunciamenti oracolari resi a Edipo
erano destinati a fallire. Ma Edipo continua a temere l’incesto
con Merope. Il Messaggero, per togliere al sovrano ogni preoccupazione, rivela a Edipo che Polibo e Merope non sono i suoi
veri genitori: è stato proprio lui a ricevere un trovatello da un
pastore tebano, e a consegnarlo ai sovrani di Corinto. Il pastore
tebano, verosimilmente, è lo stesso uomo scampato al massacro
di Laio e dei suoi. Edipo esige di vederlo subito, per integrare
la storia narrata dal Messaggero e per apprendere l’identità
dei suoi veri genitori. Giocasta lo invita a non farlo; redarguita
dallo sposo, scompare in casa. Edipo si dichiara pronto ad affrontare qualsiasi scoperta, né lo spaventa rivelarsi uomo di
origini umilissime. 8) Terzo stasimo. Il Coro augura a Edipo di
scoprirsi figlio di una divinità, e confida che presto ogni mistero sarà dissipato a maggior gloria del sovrano. 9) Quarto episodio. Il Pastore tebano è condotto in scena. Posto a confronto
con il Messaggero, si rifiuta di parlare, ma Edipo minaccia di
costringerlo con la forza. Il vecchio cede, e conferma la versione
fornita dal Messaggero: è lui che gli ha consegnato un bambino
che avrebbe dovuto uccidere. Incalzato da Edipo, il vecchio
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rivela tutto: il bambino era il figlio di Laio e di Giocasta, che intendevano evitare, con l’infanticidio, la realizzazione degli oracoli apollinei. 10) Quarto stasimo. Disperato, il Coro commenta
la catastrofe abbattutasi su Edipo: e dichiara la vita umana
pari a nulla. 11) Esodo. Un Messaggero esce dal palazzo reale e
descrive la sanguinosa scena che in esso si è svolta. Giocasta si
è impiccata. Edipo si è tolto gli occhi con i fermagli strappati
alla veste della sposa-madre uccisa. Edipo, accecato, rientra in
scena. In un lungo dialogo con il Coro lamenta la sua sorte e
difende le ragioni della mutilazione che si è inferto. All’arrivo
di Creonte, che impone un immediato rientro in casa di Edipo,
il sovrano supplica di poter incontrare le figlie, Antigone e
Ismene. Le bambine sono condotte al suo cospetto ed Edipo
piange insieme a loro, affidandole alle cure di Creonte. Allo
stesso Creonte chiede di poter essere immediatamente esiliato
da Tebe. Creonte annuncia di voler attendere un nuovo pronunciamento da parte dell’Apollo delfico.
Tale, nelle sue nude linee, la trama dell’Edipo re. Essa, come
si avrà modo di vedere (XXVI-XLIV), costituisce il punto
d’arrivo di una lunga tradizione mitica e letteraria, prima ancora che un punto di partenza per la tradizione successiva9;
dalla quale è spesso assunta, falsamente, come una sorta di
‘grado zero’ – versione neutra o non orientata – del mito. Un
assunto spontaneo ma grossolano che l’Edipo re di Sofocle,
capolavoro di selezione mitica, smentisce come pochi altri casi.
9
«L’Edipo del teatro greco è, certo, un inizio. Ma […] è anche una
conclusione» (L. Edmunds in Gentili-Pretagostini, 237). Un’articolata riflessione sul tema è in March, passim e in P. Burian, Myth into
Mythos. The Shaping of Tragic Plot, in P.E. Fasterling (ed. by), The
Cambridge Companion to Greek Tragedy, Cambridge 1997, 178-210.
Lucidissima la sintesi di Avezzù, Il mito, 22-29; cf. ora anche Avezzù,
Edipo: variazioni, 13.
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Un assunto su cui invita a riflettere, innanzitutto, l’evento di
gran lunga più rilevante e fecondo nella storia dell’Edipo re: il
fatale intrecciarsi della sua fortuna, a partire dal 1900, con le
sorti della psicoanalisi e del pensiero freudiano.
Dopo Freud, e prima di Sofocle
In una teca del Sigmund Freud Museum di Vienna – sito al 19
della Berggasse, che fu casa e studio dello psicoanalista – è ancor oggi visibile il documento con cui la città natale, dopo anni
di sospetti, decise di conferire a Freud l’onore del Bürgerrecht,
la cittadinanza onoraria10. Datata 25 aprile 1924, la pomposa
pergamena riproduce un mediocre acquerello di Max Pollak
rappresentante «Edipo e la Sfinge». La scelta iconografica è
delle più ovvie: non solo in relazione al patrimonio antico o alla
vague romantica e decadente11, ma anche alla stessa iconografia
o mitologia privata di Sigmund Freud. L’«Edipo e la Sfinge» di
Luigi Kasimir spicca infatti sull’ex libris del Viennese; un medaglione di analogo soggetto – opera di Karl Maria Schwerdtner
– fu donato a Freud dai più intimi seguaci in occasione del suo
10
L’episodio è narrato in E. Jones, Vita e opere di Freud, trad. it. Milano 1962, III, 126; cf. inoltre ibid. 154. «Altri ancora devono aver pensato che il mio prossimo 68o compleanno può esser l’ultimo, poiché la
città di Vienna si è affrettata a tributarmi quel giorno l’onore del suo
Bürgerrecht, che di solito spetta ai 70 anni», commentò lo stesso Freud
(lettera a K. Abrahm, 4 maggio 1924, citata in Jones, o.c., III, 126).
11
Per l’iconografia classica – dove il soggetto predomina per diffusione
su ogni altro tema edipico – si vedano, oltre al LIMC, s.v., le trattazioni
di M. Cristofani, J.-M. Moret e I. Krauskopf in Gentili-Pretagostini,
191-203, 205-214, 327-341; J.-M. Moret, Oedipe, la Sphinx et les Thebains. Essai de mythologie iconographique, Genève 1984. Per la fortuna
del soggetto fra Otto- e Novecento – da Ingres a G. Moreau e Redon, su
su fino a De Chirico e Bacon – una sintetica ricognizione è fornita da S.
Chiodi e C. Franzoni in Guidorizzi, 239-244, con tavole annesse.
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Introduzione
cinquantesimo compleanno12: omaggio malamente scelto, in
verità, e omen tutt’altro che favorevole, se a rimarcare il carattere già sinistro di un Edipo trionfante si aggiunge – sull’ex libris
come sul medaglione – un motto desunto dal v. 1525 dell’Edipo
re, «[Edipo] che risolse il grande enigma, ch’era l’uomo più
forte», e cioè le parole con cui il Coro, affranto e disilluso,
commenta la finale rovina dell’eroe13. Come tutto ciò suonasse
a Freud non è dato appurare: ma il devoto Jones registra una
reazione sconcertata14 e la giustifica con una rêverie giovanile
dello stesso Freud, che avrebbe fantasticato di un suo glorioso
busto, collocato fra i monumenti celebrativi dell’Università di
Vienna e munito, appunto, del motto sofocleo; e non senza
orgoglio Jones precisa di aver realizzato, postumo almeno, il
sogno adolescenziale del Maestro, «col donare all’Università di
Vienna un suo busto, scolpito nel 1921 da Königsberger, e destinato a essere installato nel cortile, naturalmente con il verso
di Sofocle inciso sul piedistallo. Esso fu scoperto nel corso di
una cerimonia il 4 febbraio 1955»15.
Tanto ominoso accanimento può sfidare la razionalità più
compassata: e di omen in omen potremmo risalire fino alla
prova di greco sostenuta da Freud, nel 1873, per l’esame di
licenza superiore – «un passo di trentatré versi dall’Edipo Re»,
giudicato «lodevole» – oppure a una memorabile messinscena
12
Una riproduzione dell’ex libris è disponibile al lettore italiano in
Guidorizzi, 35. Una riproduzione del medaglione in Rudnytsky, fig. 1.
13
Parole, per di più, sospettate d’inautenticità: cf. infra, 173s. n. 151.
14
«Dopo aver letto l’iscrizione, Freud impallidì, si turbò e chiese con
voce strozzata di chi fosse stata l’idea» (Jones, o.c., II, 30; l’idea era
di Federn). Il valore dei versi finali era ben chiaro a Freud, che come
«monito che tocca noi stessi e il nostro orgoglio» li commentava nella
stessa Interpretazione dei sogni (S. Freud, Opere, III. 1899. L’interpretazione dei sogni, trad. it. Torino 1966, 244): cf. infra, 173s. n. 151.
Sull’episodio, cf. anche Rudnytsky, 4-6.
15
Jones, o.c., II, 31 (corsivo mio).
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Federico Condello
dell’Oedipus Rex allestita dalla Comédie Française e vista da
Freud, a Parigi, fra il 1885 e il 188616. Aneddoti facilmente
moltiplicabili: a fornire un indiscreto quanto trascurabile corredo per la celebre pagina della Traumdeutung (1900) che
segna, nell’interpretazione dell’Edipo re, una cesura secolare.
In quella pagina Freud evoca per la prima volta pubblicamente
«la leggenda del re Edipo e l’omonimo dramma di Sofocle»17:
la congiunzione «e», sulla quale si tornerà, è della massima
importanza. Basti per ora osservare come la potente reazione
antropologica e filologica all’esegesi freudiana dell’Edipo re
si sia giocata in gran parte, e inconsapevolmente, proprio su
quella congiunzione: e nel più paradossale dei modi, dovremmo dire, se è vero che contro una lettura accusata di scarso
senso storico e di ancor più scarsa attenzione al testo sofocleo
si è fatto appello – prima ancora che al «dramma di Sofocle»
– alla «leggenda del re Edipo». Per desumere da essa – come
avviene almeno nelle analisi della Delcourt, di Lévi-Strauss e
del più antifreudiano fra i critici contemporanei, Jean-Pierre
16
Per i due episodi cf. la lettera a E. Fluss del 16 giugno 1873, in S. Freud,
Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti, 1873-1939, trad. it. Torino
1960, 4 e Jones, o.c., I, 223. Il brano interessato era tratto dai vv. 14-57
della tragedia: cf. Rudnytsky, 12. L’incontro scolare con Edipo
ricorda quanto accaduto a F. Nietzsche nel 1864: cf. Ugolini, Friedrich Nietzsche, 42-44. Per l’epocale Edipo re interpretato da Jean
Mounet-Sully e per altre rappresentazioni edipiche viste da Freud
cf. Armstrong, nonché F. Macintosh in P.E. Easterling (ed. by),
The Cambridge Companion, cit., 289; per l’altrettanto celebre Edipo re allestito da Max Reinhardt (Vienna, 1911), cf. ibid. 298-301.
17
S. Freud, Opere, III. 1899. L’interpretazione dei sogni, trad. it. Torino 1966, 243. La prima menzione privata dell’Edipo e del complesso
edipico data, com’è noto, al 1897: cf. S. F., Lettere a Wilhelm Fliess.
1887-1904, trad. it. Torino 1990, 306; un parziale censimento dei passi
freudiani dedicati all’Edipo re si può trovare in Starobinski; Bollack,
La naissance, 282-321; Paduano, Lunga storia, 4s. n. 7.
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Introduzione
Vernant – consistenti argomenti contro l’esegesi psicoanalitica
di Sofocle. Tale esegesi si conferma, anche per questa via, come
la tappa capitale nella fortuna odierna di Edipo re: non solo per
l’incalcolabile influenza esercitata su messinscene e riscritture
novecentesche della tragedia18, ma anche e soprattutto per la
reazione che essa ha suscitato sul versante dell’antropologia culturale e dell’antichistica. E così, quando Lévi-Strauss elegge quasi
casualmente il mito di Edipo – «che ha il vantaggio di essere noto
a tutti» – a oggetto esemplare per un saggio d’analisi strutturale
dei miti, della sua malizia antifreudiana non è da dubitare19. C’è
da dubitare invece che la reazione sia eccessiva e ormai sterile,
e produca accecamento anziché illuminazioni, quando si può
serenamente scrivere, senza un tremore d’ironia, che Freud «ha
intravisto situazioni edipiche che non risultano dal testo»20.
18
Alla fortuna dell’Edipo re sono dedicati repertori molto ricchi, resi
incompleti solo dall’incessante accumulo di nuova documentazione; si
vedano almeno Jebb, XXXIII-LI; Kérenyi in Kérenyi-Hillmann, 29-72;
G. Bevilacqua, M. Fernández-Galiano, C. Bo in Gentili-Pretagostini, 4559, 135-161, 313-325; AA.VV., Edipo in Francia; Astier; Paduano, Lunga
storia, con amplia bibliografia sui singoli testi; Halter (ibid. 156-165 altra
ricca bibliografia); Susanetti, 81-100; R. Dalle Luche in Tatossian, 7-52;
Edmunds, Oedipus, 57-141; Segal, Oedipus, 144-178; Serra, Edipo, 61-109;
Plassard, 225, 229-231 e passim; Vanden Berghe-Biet-Vanhae (scarsamente utile); Paduano, Edipo; Avezzù, Edipo: variazioni; cf. da ultimo anche
F. Ahl, Two Faces of Oedipus. Sophocles’ Oedipus Tyrannus and Seneca’s
Oedipus, Ithaca, NY 2008. Per il negletto Edipo a Colono si può ora
ricorrere a Rodighiero, Una serata a Colono, in part. 47-91 per le sorti
novecentesche, e a Markantonatos, 231-255. Per singoli momenti della
fortuna cf. infra, CLVIII-CLXIV, al secondo capo della Bibliografia.
19
Lévi-Strauss, Antropologia, 231-261, in part. 236-245 e 238 per la frase citata. La malizia della scelta («una scelta da imbonitore») è sottolineata da
M. Detienne, Dioniso e la pantera profumata, trad. it. Roma-Bari 1981, 6s.
Che le esegesi di Lévi-Strauss, Vernant e altri confondano indebitamente
«dramma» e «leggenda» è osservato a ragione da Flashar, 131-136.
20
I. Tsamopulos in Montanaro-Tsamopulos, 35 (corsivo mio).
XV
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Federico Condello
Ma su tutto questo si tornerà in conclusione. Proprio dalla
«leggenda del re Edipo», per quanto si è premesso, conviene ora
ripartire.
Materia del mito
Del passato di Edipo tratta, da capo a fondo, l’Edipo re: ciò che ha
ispirato a Schiller la celebre definizione dell’opera sofoclea quale
«analisi tragica»21. Del passato dell’Edipo re, per contro, Sofocle
sembra aver cancellato o confuso volontariamente le tracce. Esse
sono state progressivamente ricostruite dalla critica attraverso una
duplice via: riconoscimento dei mitemi costituivi della leggenda
– per loro natura gerarchicamente sovraordinati a ogni singolo
testo o corpus testuale – e analisi degli sparsi lacerti letterari che
testimoniano delle molte trattazioni presofoclee o para-sofoclee
del mito. Di queste ultime si troverà uno specimen in Appendice
(175-198) e una sintetica trattazione nel capitolo successivo (XXVIXXXII). Dei mitemi o unità minime della leggenda converrà
fornire qui – sulla scorta della Delcourt e di coloro che ne hanno
proseguito il meritorio lavoro22 – una sinossi essenziale.
21
Nella lettera a Goethe del 2 ottobre 1797 (Schillers Werke, XXIX.
Briefwechsel Schillers, hrsg. v. N. Oellers und F. Stock, Weimar 1977,
140-142). Si veda in proposito P. Szondi, Teoria del dramma moderno,
trad. it. Torino 1962, 15-17; cf. anche Id., Saggio sul tragico, trad. it.
Torino 1996, 79-86.
22
Per le seguenti considerazioni sulla struttura del mito edipico – e
per le fonti relative – si vedano Delcourt, Oedipe, passim; Propp, Edipo; Vernant, Il tiranno zoppo; Edmunds, Oedipus. The Ancient Legend, 6-38 e Oedipus, 3-7; C. Brillante in Gentili-Pretagostini, 81-96;
Bettini-Borghini, ibid. 215-225; Bremmer; Burkert, Edipo; Guidorizzi, 83-182. Altre trattazioni canoniche in Comparetti; Nilsson, Der
Oidipusmythos; Id., The Mycenaean Origin, 102-113; Deubner; Brelich, Gli eroi, passim; cf. anche G. Kirk, La natura dei miti greci, trad. it.
Roma-Bari 1993, 168-170. Un’origine micenea dell’intero mito edipico
XVI
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Introduzione
A) L’esposizione. Un bambino viene abbandonato subito dopo
la nascita: «esposto» alla nuda natura, acqua o monte o altro
luogo liminale23. Il mitema è tratto costitutivo nelle biografie
di numerosi personaggi extragreci – da Romolo e Remo al
Sargon accadico, dall’indiano Karna all’assira Semiramide, da
Gilgamesh a Ciro il Grande, da Gregorio Magno a Beowulf,
per tacere di Mosè – e di un cospicuo numero di eroi greci:
si ricordino almeno Perseo, Telefo, Paride, Ione, Cicno, Reso,
Atalanta, Pelia e Neleo, Anfione e Zeto, Anio, Tennes24, etc.;
fra gli dèi, Dioniso; fra i personaggi storici, Cipselo di Corinto
e Tolomeo Soter25. A1) Il ruolo del persecutore può spettare al padre (Acrisio per Perseo, Aleo per Telefo, Iaso per
Atalanta, Enomao per Ippodamia, etc.), alla madre (Derceto
è stata recentemente argomentata – su base onomastica – da M.S. Ruipérez in E. De Miro-L. Godart-A. Sacconi (a c. di), Atti e memorie
del secondo congresso internazionale di Micenologia, I. Filologia, Roma
1996, 125-129.
23
Per la pratica storica dell’«esposizione» infantile (ekthesis o apothesis), cf. per es. P. Brulé, «Dialogues d’Histoire Ancienne» XVIII (1992)
53-90; R. Truffi, «Miscellanea di Studi Storici» XII (2002-2003) 253278. Per il motivo qui evocato, analisi recenti (con ampia bibliografia)
sono quelle di A. Borghini-M. Bettini, «Materiali e Discussioni» III
(1979) 122-153; E. Pellizer, La peripezia dell’eletto: racconti eroici della
Grecia antica, Palermo 1991. La pertinenza del motivo al mito di Edipo era ben riconosciuta da S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica. Tre saggi, in Opere, XI. L’uomo Mosè e la religione monoteistica
e altri scritti. 1930-1938, trad. it. Torino 1979, 341.
24
Per la vicenda di Tennes cf. Brelich, Gli eroi, 134s.
25
Per la mitizzazione cui sono sottoposti sovrani e tiranni storici
– spesso in tempi eccezionalmente rapidi – si veda l’avvincente trattazione di Catenacci, passim. Per Cipselo e i Bacchiadi, cf. Delcourt,
Oedipe, 16-21; Wehrli, 114; Vernant, Il tiranno zoppo, 42-55; per Tolomeo I – e per altri autocrati di IV-III sec. a.C. – cf. Catenacci, 67s.
Per la variante del mito dionisiaco cui si allude, cf. Pausania, III 24,3
e Delcourt, Oedipe, 7.
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per Semiramide, Tiro per Pelia e Neleo, Creusa per Ione, etc.),
o a un parente maschio di parte materna (zio, prozio o nonno:
Amulio per Romolo e Remo, Lico per Anfione e Zeto, Astiage
per Ciro, etc.). A2) Il motivo dell’esposizione (o, a priori, della
castità imposta a una figlia) può essere o non essere esplicitato
in un oracolo (prenatale o postnatale) che annuncia la futura uccisione, esautorazione o generica rovina del persecutore da parte
del nuovo nato o del futuro genero (Perseo e Acrisio, Telefo e
Aleo, Pelope ed Enomao, Giasone ed Eeta, Telegono e Odisseo,
Catreo e Altemene, etc.); l’oracolo alterna spesso con il sogno
profetico (Paride e Priamo, Cipselo e i Bacchiadi, Ciro e i Medi,
etc.); se oracolo o sogno sono assenti, si tratta almeno di nascita
illegittima, frutto d’adulterio o stupro, spesso divino (Ione, Pelia
e Neleo, Romolo e Remo, Anfione e Zeto, etc.), o comunque di
rapporto prematrimoniale (Telefo); non di rado i due motivi risultano compresenti (Perseo). A3) L’abbandono – che, specie in
caso d’adulterio, può coinvolgere la madre – prevede l’impiego
di un’arca, cassa, baule, cesta o analoga suppellettile26 in cui
l’infante è relegato dal persecutore; ciò vale specialmente per
le esposizioni marine o fluviali (Perseo, Telefo, etc.), ma il dettaglio non è estraneo alle variazioni montane (o domestiche) del
mitema27. A4) L’atto dell’abbandono può essere associato a una
26
Su questo punto cf. per es. Delcourt, Oedipe, 9s., 45-57; Brelich, Gli
eroi, 298.
27
Ne è indizio l’impiego di χυτρίζειν (letteralmente «chiudere in un
orcio») a indicare l’esposizione di Edipo in Eschilo (fr. 122 R., dal
Laio) e quella di Paride in Sofocle (fr. 532 R.2): cf. C. Brillante in
Gentili-Pretagostini, 87s.; Guidorizzi, 77; l’esposizione dei neonati
in «pentole» o «giare» è ben documentata: cf. Ar. Thesm. 505. Nella stessa direzione va la κυψέλη («cassa» o «alveare») di Cipselo: cf.
Delcourt, Oedipe, 22; G. Roux, «Revue des Études Anciennes» LXV
(1963) 279-289; Vernant, Il tiranno zoppo, 46s. Per la larnax di Deucalione – in cui si è voluto riconosciuto il tipo del bambino esposto – cf.
XVIII
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Introduzione
forma di mutilazione esercitata sul corpo del bambino, e tale da
lasciare su di lui segni indelebili (cf. infra, punto B3); il mitema
della mutilazione è del resto associato stabilmente a miti di
successione regale, non di rado segnati dall’incombenza di un
oracolo minaccioso (Kronos e Urano, Zeus e Tifeo, nonché gli
omologhi ittiti Anu, Kumarbi, Ullikummi, etc.)28. A5) Il motivo
si confonde o si intreccia con quello dei segni di riconoscimento
affidati al bambino, e tali da garantire un permanente legame
con la famiglia d’origine (la spada e i calzari di Teseo29).
B) Lo spazio selvaggio. Il bambino esposto o abbandonato sopravvive nello spazio selvaggio30. B1) Spesso la sua sopravvivenza
è garantita da un adiuvante animale, che nutre e protegge il
neonato (le lupe di Romolo e Remo, le colombe di Semiramide,
l’aquila di Gilgamesh, la cagna di Ciro, la cerbiatta di Telefo,
l’orsa di Paride o di Atalanta, le serpi di Iamo, etc.)31. B2) Il
salvataggio del bambino è garantito da un casuale ritrovamento,
spesso da parte di un pastore (Pelia e Neleo, Anfione e Zeto,
G.A. Carduff, Antike Sintflutsagen, Göttingen 1986, 258-262.
28
Cf. per es. C. Brillante in Gentili-Pretagostini, 88s. Per i miti di
successione in Esiodo e nella tradizione mediorientale si vedano, fra i
molti possibili, M. Detienne–J.-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza
nell’antica Grecia, trad. it. 1999, 41-76; improbabili antefatti comuni
– di origine beotica e di più remota matrice ‘egea’ – fra le leggende
esiodee e il mito di Edipo, immaginava Dirlmeier, 17-37 e passim.
29
In questo caso il tema dei calzari appare – oltre che funzionale all’agnizione – come una forma indebolita di zoppia; per il ‘monosandalismo’ di Teseo e di eroi affini si veda da ultimo Guidorizzi, 120s.,
e già A. Brelich, «La Nouvelle Clio» VII-IX (1955-1957) 469-489; Id.,
Gli eroi, 198 e 220 n. 82.
30
Ciò che collima con il tema, più generale, dell’educazione montana
– o comunque liminale – riservata agli eroi: si veda, uno per tutti,
Brelich, Gli eroi, 124-129; più recentemente C. Brillante, «Quaderni
Urbinati di Cultura Classica» n.s. XXXVII (1991) 7-28.
31
Per la storia parallela di Gabis o Habis, re e legislatore di Tartesso,
cf. Propp, Edipo, 116; Edmunds, Oedipus. The Ancient Legend, 30.
XIX
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Telefo, Ciro, etc.) o di un pescatore (Perseo); talvolta, colui
cui è affidato l’infanticidio coincide con il salvatore (Paride,
Cipselo, etc.). B3) La permanenza nello spazio selvaggio, o l’atto
stesso dell’abbandono, lasciano sul corpo del bambino segni
indelebili (i piedi neri di Melampo, il livido sul volto di Pelia, il
colore violaceo di Iamo, etc.), non di rado destinati a suggerire
il nome stesso del futuro eroe (Melampo = «Piede Nero», Pelia
= «l’uomo livido [πελιός]», Iamo = «l’uomo color di viola [ἴον]»,
Cipselo = «l’uomo della cassa», etc.)32; la ferita ai piedi – o in
genere agli arti inferiori – è in sé un mitema autonomo, dotato di
ampia diffusione (il tallone di Achille; la cicatrice di Odisseo; i
piedi feriti o sofferenti di Filottete, Anchise, Orione, Melampo;
il femore di Bellerofonte; la coscia di Telefo, etc.) e spesso alternante – o concomitante – con il mitema della cecità33.
C) Prove d’eccellenza. Salvato dallo spazio selvaggio, e cresciuto
lontano dalla famiglia d’origine, il bambino abbandonato diviene un giovane eccezionale e fornisce – per lo più a spese
dei coetanei – i primi segni della sua eccellenza. C1) Tali segni
indicano l’origine nobile e annunciano il futuro statuto regale
del giovane eroe, non di rado scatenando l’invidia o l’ostilità
dei coetanei (Paride, Romolo e Remo, Ciro34, etc.). C2) Spesso
le prove qualificanti affrontate dall’eroe coincidono con la
32
Inutile sottolineare che si tratta spesso di rimotivazione semantica
a posteriori, per via pseudoetimologica. Alla serie va forse aggiunto
Partenopeo, compagno di Telefo, cresciuto sul monte Partenio: cf.
Propp, Edipo, 112; lo stesso nome di Telefo era connesso con ϑηλή
(«mammella»): cf. Brelich, Gli eroi, 306 n. 36.
33
Ampia documentazione in Brelich, Gli eroi, 244-248; con particolare
riguardo a Edipo cf. Vernant, Il tiranno zoppo; Devereux; M. BettiniA. Borghini in Gentili-Pretagostini, 215-225; Edmunds, ibid. 237-246;
Burkert, Edipo, 84; Guidorizzi, 106s. Si veda anche infra, XCVI n. 230.
34
Cf. Hdt. I 114 con il commento di Propp, Edipo, 116s. e di Edmunds,
Oedipus. The Ancient Legend, 31.
XX
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Introduzione
topica uccisione di mostri o animali mostruosi (Eracle, Teseo,
etc.); esse possono inoltre coincidere con la prova – uccisione
del mostro, agone sportivo o impresa bellica – che dà diretto
accesso al titolo regale. C3) Spesso ciò avviene tramite la concomitante conquista di una regina o di una principessa offerta in
premio da un re, se non offertasi di propria iniziativa (Perseo,
Telefo, Bellerofonte, Pelope, Anfitrione, Melampo, etc.)35.
D) Regicidio e parricidio. Fra le prove che consacreranno lo statuto eroico (e regale) del giovane, è frequente il confronto con
un eroe più anziano, spesso detentore del trono su cui l’eroe
giovane è destinato a sedere, spesso padre o marito della donna
che l’eroe giovane è destinato a possedere (Pelope ed Enomao,
Eracle ed Eurito, Telegono e Odisseo, Ida ed Eveno, etc.36),
spesso antagonista ereditario dell’eroe, perché già persecutore
del padre o della madre (Egisto e Atreo, Oreste ed Egisto,
Giasone e Pelia, Perseo e Polidette, Anfione-Zeto e Lico, Epito
e Polifonte37, etc.; sul piano storico, Licofrone e Periandro38);
talora, più precisamente, l’eroe anziano è lo stesso responsabile
dell’abbandono infantile (Perseo e Acrisio, Anfione-Zeto e Lico,
etc.). Il confronto si conclude con l’uccisione dell’antagonista o
35
Il motivo, diffusissimo, è trattato con dovizia d’esempi da Delcourt,
Oedipe, 153-189.
36
Ma anche – per restare in famiglia – Laio e Meneceo, se si bada
alla notizia secondo cui il padre di Edipo avrebbe ucciso il suocero
(schol. Eur. Phoen. 1010, che rinvia a Sosifane tragico [fr. 4 Sn.-K.]).
Quanto alla vicenda di Odisseo e Telegono, si è ipotizzato che di essa
si trattasse nei perduti Niptra sofoclei: cf. per es. Whitman, 143s.; ma
si vedano i motivi di dubbio registrati in Jouanna, 650.
37
Per questo mito collaterale della saga eraclide cf. Apollod. II 8,5;
Hygin. 137; Paus. IV 3,7s.
38
Cf. Vernant, Il tiranno zoppo, 50-53. Per la storia di Alessandro e
Nectanebo – tràdita dal Romanzo di Alessandro – cf. Delcourt, Oedipe, 75; Catenacci, 123 n. 29.
XXI
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persecutore. D1) Il confronto – e la conseguente uccisione
– avvengono talora nella più completa ignoranza delle rispettive identità (Telegono e Odisseo, Perseo e Acrisio, Altemene
e Catreo, Leucippo e Xantio, etc.). D2) L’uccisione dipende
spesso da un errore o da una distrazione: l’eroe si limita a causare, indirettamente, la morte dell’antagonista (Teseo ed Egeo,
Perseo e Acrisio, Anfitrione ed Elettrione, Peleo ed Eurizione,
Telefo e i fratelli di Auge, etc.)39. D3) L’uccisione – specie nella
forma del parricidio – è talora semplicemente sfiorata (Egisto
e Tieste, Fenice e Amintore40 ; anche nella forma inversa dello
sfiorato infanticidio: Teseo ed Egeo).
E) Incesto. L’eroe conquista il letto della madre. In tale forma,
con completa realizzazione del crimine sessuale, il mitema accomuna Edipo ai soli Menefrone e Arcade41; ma esso è attribuito
volentieri a sovrani o tiranni storici, da Periandro a Nerone42.
39
Per il modello erodoteo di Creso, Adrasto e Atys (I 34s.) si veda il
paragone con Edipo istruito da Manuwald, 5-9.
40
Per questo caso di incesto sostitutivo e di parricidio potenziale – oggetto di una celebre censura antica in Il. IX 450-484, in part. 458-461 – cf.
Brelich, Gli eroi, 247 e ora M. Pizzocaro, «Vichiana» IV (1993) 3-12.
41
Personaggi del resto quasi ignoti (Ov. Met. VII 387s., Hygin. 253):
cf. Delcourt, Oedipe, 211; Wehrli, 117; Guidorizzi, 169. Ben altrimenti
diffuso il motivo dell’incesto padre-figlia o fratello-sorella: cf. Brelich, Gli eroi, 253s; sulle molte «variations péri-oedipiennes» cf. anche
D. Anzieu in AA.VV., Psychanalyse, 17-19. L’incesto madre-figlio – con
eventuale aggiunta di parricidio – è in compenso attribuito a dèi (Ares
in Erodoto II 63) o ad animali (l’ippopotamo trattato da Plutarco, De
Is. et Os. 32, 364a; De soll. an. 4, 962e): cf. per es. Dirlmeier, 25.
42
Per Periandro e la madre – che ha il nome trasparente di Krateia – cf. Diog. Laert. I 96, nonché Vernant, Il tiranno zoppo, 48; B.
Gentili in Gentili-Pretagostini, 119s.; Catenacci, 174. Per Nerone cf.
Delcourt, Oedipe, 195s., 201-204 (della passione di Nerone per Edipo, peraltro, ci informa Svetonio: cf. F. Caviglia in Gentili-Pretagostini, 268s.). Per altri incesti attribuiti a monarchi o leaders politici
cf. per es. L. Piccirilli, «Quaderni di Storia» X (1984) 171-177 (per
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Introduzione
E1) L’incesto è talora soltanto sfiorato, perché il riconoscimento
interviene – per opera del caso o degli dèi – quando i due sposi
stanno per congiungersi (Telefo, «un vero e proprio Edipo indebolito»43); il rapporto incestuoso può essere rifiutato dalla madre
(Licurgo). E2) In luogo dell’incesto si ha più spesso il matrimonio
dell’eroe con una donna del padre diversa dalla madre (Telemaco
e Circe, Telegono e Penelope, Fenice e Clizia, etc.); secondo il
diffuso ‘tema di Putifarre’, la relazione para-incestuosa può essere
rifiutata dal giovane eroe, che viene tuttavia accusato dalla matrigna (Ippolito e Fedra, Bellerofonte e Stenebea, Peleo e Astiochea,
etc.)44. E3) Un incesto simbolico è spesso attribuito a sovrani e
tiranni, nella forma di un connubio onirico con la madre reale o
con la Madre Terra (Ippia, Tarquinio, Cesare, etc.).
F) Riconoscimento. L’eroe che ha superato le prove qualificanti viene riconosciuto dalla famiglia d’origine. F1) Il riconoscimento può
avvenire sulla base delle insegne affidate un giorno al bambino esposto (Teseo). F2) Altrimenti, a favorire il riconoscimento possono
essere i peculiari tratti fisici dell’eroe (Odisseo e la sua cicatrice).
F3) In altri casi, il legame di sangue può essere rivelato dagli dèi
(Telefo) o seguire genericamente – senza precise indicazioni di modalità – all’omicidio del padre o di un congiunto (Telegono).
Il reticolo, come si vede, è complesso: e affianca motivi di larga
Cimone); G. Rosati, «Aufidus» XIII (1991) 39-43 (per Semiramide);
cf. anche Burkert, Edipo, 85, e in generale – sulla sessualità ‘tirannica’
– L. Gernet, Droit et institution en Grèce antique, Paris 1982, 229-249.
Su Edipo e le saghe tiranniche è tornato M. Treml in W. Pircher-M. T.
(hrsg. v.), Tyrannis und Verführung, Wien 2000, 217-234.
43
M. Bettini-A. Borghini in Gentili-Pretagostini, 219. Una tipica vicenda d’incesto rasentato è nella storia dell’Aegritudo Perdicae: cf. L.
Edmunds in Gentili-Pretagostini, 243 n. 14; e ora D. Di Rienzo, «Bollettino di Studi Latini» XXIX/2 (1999) 541-549.
44
Per il ‘tema di Putifarre’ cf. Brelich, Gli eroi, 302s., con ampia documentazione.
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o larghissima fortuna a variazioni più rare, talvolta del tutto peculiari. Ciascuno dei mitemi censiti, virtualmente autonomi, può
espandersi in un plot indipendente, trovarsi subordinato a mitemi
affatto diversi, combinarsi variamente con questi o altri motivi a
formare sintagmi narrativi del carattere più vario. Tutto ciò è noto e
consueto: e il censimento potrebbe essere tanto più ampio se arricchito dal ricorso alle infinite «storie delle balie» (Plat. Resp. 377a)
– ossia ai corpora di tradizione orale e folclorica45 – ovvero a diverse
tradizioni letterarie in cui il mito edipico appare sfigurato o trasfigurato, ma ben riconoscibile46; nell’elenco che precede, del resto, si
saranno riconosciuti motivi proppiani fra i più diffusi, dalla «lotta»
alle «nozze», dalla «marchiatura» all’«identificazione», e via elencando47. In questo come in casi analoghi, la scelta della disposizione
sincronica, spesso elevata a dogma48, rischia di mascherare non solo
il carattere secondario e marginale di variazioni apparentemente
45
Per Edipo, ciò è stato fatto fra gli altri da Comparetti; da Propp; da
Edmunds, Oedipus in the Middle Ages, The Cults and the Legend e Oedipus. The Ancient Legend; si aggiungano l’Edipo rumeno di Vernant,
Il tiranno zoppo, 55-64 e i paralleli indiani censiti da M. Piantelli in
Uglione, 157-167; ulteriori contributi in Edmunds-Dundes, dall’Albania all’Oceania, dalla Grecia moderna all’India; una bibliografia
essenziale in Edmunds, Oedipus. The Ancient Legend, 228-232 e ulteriori addenda in Edmunds-Dundes, 271-274. Per tutti i mitemi censiti,
altro si troverà in A. Aarne-S. Thompson, The Types of the Folktale.
A Classification and Bibliography, Helsinki 1981, dove il plot edipico è
rubricato al numero 931.
46
Si pensi al Bupalo di Ipponatte, in cui è stato convicentemente riconosciuto un Edipo degradato a misura giambica: si vedano le acute
osservazioni di V. Citti in Uglione, 89-92 (e già in Gentili-Pretagostini, 131s.), e ora E. Degani, Ipponatte. Frammenti, Bologna 2007, 88.
47
Si veda naturalmente V.J. Propp, Morfologia della fiaba, a c. di G.L.
Bravo, Torino 1966, passim.
48
In maniera esplicita, almeno, da Edmunds, Oedipus. The Ancient
Legend, 6s. e 34; cf. anche Detienne, Dioniso, cit., 15, 25 e passim.
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Introduzione
‘tipiche’, ma anche la profonda interdipendenza di produzione
letteraria e produzione folclorica, non necessariamente risolvibile
– secondo inveterati clichés romantici – nella priorità della seconda
sulla prima. In assenza di documentazione, la sincronia spesso non
è che necessità elevata a virtù.
Ciò non toglie che la leggenda edipica, ridotta alla sua ossatura
narrativa, mostri, al di là di ogni dubbio, il suo carattere tradizionale: il suo carattere, diremmo, quasi ovvio. Ciò che appare
irriducibile, o almeno del tutto peculiare, è la precisa sequenza
dei mitemi, che solo la storia di Edipo realizza nella sua interezza; a ciò si aggiunge quella che Brelich chiamava la «funzione
‘caratterizzante’» della tradizione mitica greca, che è lascito di
un trattamento eminentemente letterario, più che latamente
mitico, delle tradizioni, qualsiasi valore si voglia annettere alla
nozione problematica di ‘mito’49. Quanto un’analisi sincronica
della leggenda giovi all’intelligenza dell’Edipo re, è problema
che si toccherà in seguito. Basti per ora osservare che, in una
ideale sinossi di tutte le versioni attestate, la leggenda edipica
sembra non solo distinguersi per la peculiare ‘linearizzazione’
narrativa di tutti i mitemi censiti50, ma anche per la sostanziale
realizzazione di tutte le possibili varianti che lo schema succitato
dispiega come mere possibilità alternative. Anche in questo caso
ci si accontenterà di richiamare i dati essenziali.
49
Cf. A. Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Roma 1966,
207s. Per alcune polemiche e acute considerazioni sul rapporto irrisolto fra ‘mitologia’ e letteratura greche si vedano M. Detienne, L’invenzione della mitologia, trad. it. Torino 1981 e M. Augé, Genio del
paganesimo, trad. it. Torino 2002.
50
Per il concetto di linearization, cf. in breve A.J. Greimas-J. Courtés,
Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, trad. it. Milano 2007, 181. Per il peculiare dispiegamento di motivi esibito dalla
leggenda edipica cf. ora Edmunds, Oedipus, 6s.; cf. anche i lavori di
Krappe e Megas in Edmunds-Dundes, 122-132 e 133-146.
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Storie parallele
Un’ideale sinossi di tutte le varianti edipiche a noi note, se posta
a confronto con la mera struttura del mito sin qui delineata,
fornirebbe i seguenti risultati. Edipo è esposto (A) in un luogo
selvaggio (B): in montagna e particolarmente sul Citerone, secondo la versione sofoclea e secondo molte altre (Eur. Phoen. 25,
Nic. Dam. FGrHist 90 F 8, Apollod. III 5,7, Paus. IX 2,4, etc.)51;
ma Edipo è esposto in mare, e affidato a una cesta (A3), secondo
varianti minori (schol. Eur. Phoen. 26, Hygin. 66); di una generica esposizione in una giara (ἐν ὀστράκῳ) parla Aristofane (Ran.
1190), che in ciò dipenderà dal Laio di Eschilo (cf. fr. *122 R. e
supra, n. 27). L’esposizione è ovunque voluta dal padre, non senza
il concorso della madre (A1), ed è per lo più motivata da un oracolo (A2; la prima sicura attestazione è in Pind. O. 2,39s.); la funzione dell’oracolo è assunta dalla maledizione di Pelope, padre
di Crisippo, nei resoconti che legano più strettamente la vicenda
di Laio a quella del figlio (forse Eur. Phoen. 161152, Aeschyl.
Sept. hypoth., scholl. Eur. Phoen. 60, 69, etc.). L’esposizione è
connessa al ferimento dei piedi o delle caviglie (A4, B3), sempre
effettuato dal padre, ma con mezzi di carattere variabile (περόναι,
«fibbie» o «fermagli», in Eur. Phoen. 805, Apollod. III 5,7; più
spesso generici κέντρα, «punte» metalliche: Eur. Phoen. 2653,
51
I principali fra i testi antichi menzionati di qui in poi si possono
trovare nell’Appendice del presente volume, 175-198.
52
Il passo (che parla di generiche «maledizioni di Laio») è di esegesi
problematica, e altrove Euripide si limita a menzionare l’oracolo (cf.
vv. 15-20 e 1595-1599); cf. in proposito Mastronarde, ad l. Edmunds,
Oedipus. The Ancient Legend, 8s., mostra come maledizione e oracolo possano convivere nelle fonti erudite più tarde. Sulla sostanziale
«fungibilità della profezia» cf. Propp, 91.
53
La contraddizione fra questo dettaglio e il v. 805 della stessa tragedia
gettava nello sconcerto gli scoliasti (ad v. 805, I 336 Schw.), e suggerisce
XXVI
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Introduzione
Diod. IV 64,1, Paus. X 5,3, etc.54); che tale dettaglio nasca dalla
sovrapposizione di mitemi diversi – l’abbandono dell’infante, la
marchiatura del figlio, la mutilazione del nemico – è dimostrato
dal carattere gratuito che il tema del ferimento neonatale assume nell’economia del plot edipico55. Comune, in ogni caso, è la
connessione dell’evento con il nome del trovatello (B3), benché
perforazione delle caviglie e tumescenza dei piedi siano tutt’altro
che conseguenti56. Il salvataggio del piccolo Edipo è affidato ad
attori variabili: pastori, per lo più (B2); più precisamente, pastori
di Polibo (Apollod. III 5,7, Nic. Dam. FGrHist 90 F 8), o suoi
guardiani di cavalli (Eur. Phoen. 28, schol. Od. XI 271); oppure
Polibo stesso (Myth. Vat. 2,230, schol. Stat. Th. I 64); talvolta, invece, il ruolo del salvatore spetta al sicario o ai sicari prescelti da
Laio (Diod. IV 64,2,); il bambino è affidato a un altro pastore (è
la versione sofoclea), o direttamente alla moglie di Polibo (Eur.
Phoen. 29s.); la stessa moglie di Polibo − si chiami Merope, o
Peribea − può raccogliere il bambino dalle acque (Hygin. 66).
Cresciuto in altra città (Corinto, Sicione o addirittura Antedone),
Edipo eccelle fra i coetanei (C); essi, per invidia, lo chiamano
bastardo (C1: Apollod. III 5,7, schol. Eur. Phoen. 33). Edipo lascia
dunque Corinto. Se la meta è Delfi, l’incontro con Laio può avvea molti editori moderni una radicale espunzione: cf. Mastronarde, ad l.
54
In Sofocle si parla genericamente di caviglie o piedi «perforati» (v.
1034), se non addirittura «aggiogati» (v. 718); per questa oscillazione
cf. infra, LII.
55
Come osservava Propp, 102s.; cf. anche Bremmer, 44; una spiegazione è avanzata da schol. Eur. Phoen. 26: la mostruosa menomazione avrebbe scoraggiato un salvataggio del trovatello (cf. infra, 223 n.
121). Per un’interessante analisi del motivo e per un confronto con i
riti del maskalismós e del katádesmos magico cf. Brody, 21-35.
56
Non a caso, anche per questo punto, una spiegazione razionalistica
sarà fornita da Nic. Dam. FGrHist 90 F 8 e schol. Eur. Phoen. 26: cf.
infra, 219 n. 99.
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nire sia sulla strada d’andata (Eur. Phoen. 35-38, Diod. IV 64,2)57,
sia su quella di ritorno, ormai in direzione di Tebe (Apollod. III
5,7). Il viaggio a Tebe può essere altrimenti motivato dal semplice desiderio di cercare i propri veri genitori (schol. Od. XI 271)
o da una generica scorreria («per procurarsi cavalli», dice Nic.
Dam. FGrHist 90 F 8, che indirizza Edipo verso Orcomeno).
Anche il motivo del viaggio compiuto da Laio è variamente spiegato: consultazione delfica circa le sorti del figlio esposto (Eur.
Phoen. 36, Diod. IV 64) o altro, imprecisato motivo (Nic. Dam.
FGrHist F 90 8; confuso e incongruo Pisand. FGrHist 16 F 10).
Naturalmente segue il parricidio (D), sempre nella più completa
inconsapevolezza (D1), ma non sempre al fatidico trivio eternato
da Sofocle (la «Strada divisa» è collocata da Aeschyl. fr. 387a
R. nei pressi di Potnie, dunque in direzione di Platea e non di
Delfi). Talora Edipo sottrae all’ucciso la spada e la cintura (A5:
Pisand. FGrHist 16 F 1058); talaltra si accanisce sul cadavere con
straordinaria crudeltà, bevendone il sangue (se a ciò si riferisce
Aeschyl. fr. 122a R.); in un caso almeno, la moglie di Laio assiste
all’omicidio (Nic. Dam. FGrHist 90 F 8)59; in un altro, Giocasta
è addirittura uccisa insieme al marito (schol. Eur. Phoen. 26).
Subito dopo Edipo affronta la Sfinge, benché non manchino
attestazioni di altri topici confronti con creature teriomorfe
(C2)60. La Sfinge è tradizionalmente collocata nei pressi di Tebe,
57
È evidente che in questo caso Edipo non fa in tempo a ricevere alcun vaticinio. Per la duplicazione degli oracoli in Sofocle cf. infra, XLI; si veda anche Kamerbeek, 6, 9 e ad v. 114.
58
Si è sospettato spesso che questo dettaglio – evidentemente funzionale a una diversa modalità di riconoscimento – fosse presupposto
anche da Od. XI 273: cf. infra, Appendice, 175 e 200 n. 5.
59
Ciò che ha fatto pensare a una trama alternativa in cui il possesso
della donna avvenisse per stupro o conquista violenta da parte di Edipo, all’atto stesso del parricidio: cf. K. Kerényi, Gli dei e gli eroi della
Grecia. II. Gli eroi, trad. it. Milano 1962, 98s.
60
In particolare la volpe di Teumesso: cf. infra, Appendice, 223s. n.
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Introduzione
in luogo montano (Eur. Phoen. 806, Paus. IX 26,2, Apollod. III
5,8, Myth. Vat. 2,230), oppure nella stessa acropoli (Apollod. III
5,8, schol. Eur. Phoen. 45); essa è per lo più descritta come mostro antropofago (Palaeph. 4, Pisand. FGrHist 16 F 10, Diod. IV
64, Hygin. 67, Aeschyl. Sept. hypoth., etc.); altrove essa decapita
le sue vittime (Myth. Vat. 2,230) o genericamente le uccide (Ov.
Ib. 377s.); la sua azione si configura a volte come generico ratto
(Eur. Phoen. 45s., Pisand. FGrHist 16 F 10). Unanime è il riferimento all’enigma, la cui mancata risoluzione comporta la morte;
stabile, nella sostanza, anche il contenuto dell’indovinello61. Il
premio posto in palio da Creonte per la risoluzione dell’enigma
è la mano di Giocasta, e con essa il regno di Tebe; l’enigma è
risolto da Edipo (C3: Eur. Phoen. 47-49, 1505-1507, 1728-1731,
Diod. IV 64,3, Apollod. III 5,8, Hygin. 67, etc.62), magari del
tutto involontariamente (indicando per caso se stesso e lasciando
intendere «l’uomo»: schol. Eur. Phoen. 50)63; la Sfinge allora si
124. Su origini, varianti e valori delle leggende relative alla Sfinge la
bibliografia è ormai cospicua; per ciò che segue si vedano almeno
Robert, I, 48-58, 98-100, 152s.; Lesky, Sphinx; Edmunds, The Sphinx
(anche in Edmunds-Dundes, 147-173).
61
Per la sua forma più diffusa cf. infra, Appendice, 191. La più brillante variazione contemporanea è quella offerta da A. Robbe-Grillet, Le
gomme, trad. it. Torino 1961, 232: «qual è l’animale che è parricida il
mattino, incestuoso a mezzogiorno e cieco la sera?».
62
È dubbio se a ciò alluda Pindaro (P. 4,263) con il suo «conosci ora
la sapienza di Edipo»; che si tratti già della leggendaria virtù di un
eroe enigmista (così per es. Kamerbeek, 4; P. Giannini in Pindaro. Le
Pitiche, a c. di B. Gentili et al., Milano 1995, 501) è stato negato non
senza buoni argomenti: cf. Edmunds, The Cults, 225 n. 14.
63
La soluzione dell’enigma sembra una «overdetermination of the
monster-slaying motif» (Edmunds, Oedipus. The Ancient Legend,
12s.; cf. Id., The Sphinx, passim), dal momento che i due mitemi sono
di norma autonomi e sufficienti; cf. già Robert, I, 57 (ma contra Delcourt,
Oedipe, 128). Che l’enigma sia innovazione recente, sovrimposta a uno
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uccide (Aeschyl. Sept. hypoth., schol. Eur. Phoen. 50, 1505, etc.; a
sua volta sulla base di un oracolo, precisa Palaeph. 4), ovvero è
uccisa da Edipo (forse Eur. Phoen. 150764, schol. Eur. Phoen. 26);
non mancano forse allusioni – per quanto dubbie – a intercorsi
erotici fra Edipo e il mostro: uno spunto fertile nell’edipologia
novecentesca65; in fonti di età bizantina l’uccisione di Laio avviene dopo la sconfitta della Sfinge, e addirittura nel contesto di
un confronto militare: un dettaglio di cui si è voluta riconoscere
una traccia già in Od. XI 27366. Dopo la morte della Sfinge,
Edipo sposa la madre (E), Giocasta ovvero Epicasta (per questa
variante del nome cf. Od. XI 271, Nic. Dam. FGrHist 90 F 8, cf.
schol. Eur. Phoen. 12 e Apollod. III 5,7); l’unione avviene sempre
nella completa ignoranza delle rispettive identità67. Parricidio e
incesto vengono alla luce qualche tempo dopo: «presto», dice
con vaghezza Omero (Od. XI 274); dopo lunghi anni di regno e
quattro figli, com’è noto, secondo la versione sofoclea. Che i figli
più celebri derivino da un secondo matrimonio – contratto con
scontro originariamente fondato sulla forza fisica dell’eroe, è ipotesi
spesso avanzata: cf. e.g. Robert, I, 49; Lesky, Sphinx, 1709; Wehrli,
111s.; De Kock, 10 e 21; March, 124; contra Segal, Oedipus, 50.
64
L’espressione euripidea può essere una ellittica menzione del motivo
più consueto (la soluzione dell’enigma come uccisione della Sfinge):
cf. Mastronarde, ad l.
65
Cf. schol. Eur. Phoen. 26, infra, Appendice, 224 e n. 126. Per la
caratterizzazione della Sfinge come incubus femminile è ancora utile
Delcourt, Oedipe, 109-119. Scettico Calame, 33 n. 8.
66
Per le fonti bizantine cf. Höfer, 705; Edmunds, Oedipus. The Ancient
Legend, 19. La presenza del motivo in Omero resta dubbia (cf. infra,
200 e n. 5). Complicazioni erotiche del parricidio – «entrambi amavano
Crisippo» – sono registrate in schol. Eur. Phoen. 60, su cui Höfer, 711.
67
A ciò non obsta la παράνοια, «pazzia», menzionata da Aeschyl. Sept.
756: cf. infra, Appendice, 181 e 209 n. 45. Una variante di spiccata coloritura necrofila è attestata in schol. Eur. Phoen. 26: Edipo e Giocasta
si sarebbero congiunti per la prima volta durante il funerale di Laio.
XXX
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Introduzione
Eurigane o Eurigania – è variante ben attestata e in apparenza arcaica (Pherecyd. FGrHist 3 F 95, Pisand. FGrHist 16 F 10, Paus.
IX 5,11, Apollod. III 5,8), sicché si può presumere che incesto e
generazione dei figli siano rimasti a lungo, almeno in parte della
tradizione, due motivi distinti68. La finale agnizione di Edipo e
Giocasta può avvenire genericamente per volontà degli dèi (F3:
Od. XI 274), ovvero tramite l’esibizione degli oggetti sottratti a
Laio (F1: Pisand. FGrHist 16 F 10), o ancora grazie alle peculiarità fisiche di Edipo (F2: Hygin. 67, Myth. Vat. 2,230)69; non mancano varianti che connettono la rivelazione alla morte di Polibo
e alla conseguente confessione della madre putativa (Hygin. 67, e
forse già l’Edipo di Euripide), o addirittura – in età bizantina – a
una personale inchiesta di Giocasta70. Le conseguenze dell’agnizione sono altresì variabili: è dubbio se la tradizione epica arcaica
conoscesse già un Edipo cieco (B3)71; certo è che la sua protratta
permanenza a Tebe, in qualità di re, sembra comune a Omero (Il.
XXIII 679s., Od. XI 275s.), a Esiodo (frr. 192 e 193 M.-W.) e ai
68
Si veda in generale March, 121-138. Addirittura una terza moglie
conosce Ferecide (FGrHist 3 F 95). La complessità delle genealogie
post-edipiche di età arcaica è suggerita dal Tersandro cantato in Pind.
O. 2,35-43.
69
E così è per es. nel Roman de Thèbes (vv. 496-498): cf. G. Paioni in
Gentili-Pretagostini, 290-294. La variante avrà fortuna – probabilmente
per facile poligenesi – fra gli autori contemporanei: cf. per es. J. Cocteau,
La macchina infernale, in Id., Teatro, trad. it. Torino 1963, 133 e 142 (su
cui Halter, 49s.); per analoghe soluzioni nella tradizione medioevale e
folclorica, si vedano Propp e soprattutto Edmunds, Oedipus. The Ancient Legend, 59-223 (per es. 127, 129, 130s., 135, 144, etc.).
70
Cf. Edmunds, Oedipus. The Ancient Legend, 14. Per l’Edipo di Euripide cf. infra, Appendice, 185s. e 212 n. 60.
71
Cf. infra, Appendice, 175 e 178s., Od. XI 275 e i frammenti della Tebaide, con relative note. Un Edipo precocemente accecato da Polibo
– che voleva così impedire la realizzazione degli oracoli – è noto a
schol. Eur. Phoen. 26.
XXXI
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frammenti ciclici72. Un Edipo accecato dai servi di Laio – dopo
la scoperta del regicidio, non ancora del parricidio – era l’apice
patetico dell’Edipo euripideo (fr. 541 K.).
Un Edipo senza passato
Come si vede, quasi tutte le possibilità offerte dal paradigma
mitico sono esaurite dalle diverse varianti leggendarie. Quanto
di esse risalga a età presofoclea, e quanto si debba invece a
isolate innovazioni successive, non è facile dire. Certo è che
all’altezza del V sec. a.C. il mito edipico mostra già cospicui
tratti di variabilità. Vistosi, alcuni: a partire dal regno di Edipo
protratto ben oltre la scoperta del parricidio e dell’incesto,
e nonostante il suicidio di Giocasta/Epicasta. Ma la stessa
Giocasta sopravvive alla tragica agnizione nella variante recepita dalle Fenicie di Euripide: variante che si poteva credere
isolata sino alla scoperta, nel 1977, del cosiddetto ‘Stesicoro di
Lille’, che sembra attestare l’arcaicità di tale tradizione73. Non
soltanto i séguiti, ma anche gli antefatti della vicenda erano
variamente stabiliti. La storia di Laio, il ratto di Crisippo, la
maledizione di Pelope potrebbero appartenere allo strato più
arcaico della leggenda; essi ricevevano forse un compiuto trattamento nella trilogia tebana di Eschilo – benché resti dubbio
se la vicenda di Crisippo trovasse spazio nel perduto Laio – e
72
Oltre ai frammenti del ciclo tebano, anche i Canti Ciprii sembrano
aver conosciuto la storia di Edipo, narrata a Menelao da Nestore, accanto a numerose altre storie, «in una digressione»: così attesta Proclo nel riassunto del perduto poema (p. 31 Dav.); cf. Höfer, 703.
73
Ammesso e non concesso, naturalmente, che la protagonista del
frammento stesicoreo sia Giocasta/Epicasta: cf. infra, Appendice,
176s. e 203s. n 18.; in sintesi Jouanna, 158s. Una Giocasta uccisa dallo
stesso Edipo subito dopo l’agnizione è nota a schol. Eur. Phoen. 26.
XXXII
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Introduzione
nel Crisippo di Euripide: la possibilità dipende in gran parte
dal misterioso «scolio di Pisandro» (infra, 190s.), sconclusionata sintesi della saga conservata fra gli scolii euripidei e non
a torto connessa con materiale di antica tradizione epica74, lo
stesso cui attinsero – probabilmente – Eschilo ed Euripide. In
Eschilo, tuttavia – come già in Pindaro – il motivo dell’oracolo
delfico ha ampiamente sostituito il tema della maledizione
scagliata da Pelope. Che Tiresia, altrove, abbia potuto fare le
veci dello stesso oracolo, è possibilità da non escludere75. Sulle
fluttuazioni onomastiche e toponomastiche che interessano il
séguito del racconto – a partire dall’alternanza Corinto/Sicione
– non è nemmeno il caso di insistere. Più importa sottolineare
come l’incontro al trivio fatale appaia mutevole – e in dettagli
tutt’altro che marginali – ancora in Eschilo (fr. 387a R.: cf. infra,
158s. n. 84), per tacere della tradizione mitografica, che giunge
a contemplare la presenza di Giocasta, a svincolare il tragitto
di Edipo da ogni pellegrinaggio delfico e a immaginare un suo
ritorno a Corinto dopo il parricidio (cf. infra, Appendice, 186 e
189). Tali varianti si spiegherebbero a fatica quali arbitrarie e
isolate innovazioni, e difficilmente avrebbero potuto evitare la
cogenza del modello sofocleo senza un autorevole fondamento in
altra, e ugualmente solida, tradizione. Con ogni verosimiglianza,
dunque, storie parallele: estranee a una compiuta canonizzazione
letteraria, ma parte dell’orizzonte su cui rileva l’Edipo, imponente
ma non isolato, sofocleo.
Di tradizioni così varie e fluide, che cosa rimane nell’Edipo re?
74
Per le possibili fonti dello scolio cf. infra, 214 n. 74.
Cf. Robert, I, 69s. e Bremmer, 43. A questa ipotesi indirizza per es.
il ruolo di Tiresia – che cerca di dissuadere Laio dal viaggio a Delfi
– nello «scolio di Pisandro»: cf. infra, Appendice, 188s. Per la progressiva ‘delfizzazione’ della trama edipica – processo che in Sofocle
giunge al suo apice – si veda De Kock, 21-27, con bibliografia; e ora
Jouanna, 164-169.
75
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Salvo il nucleo fondamentale della leggenda – parricidio e incesto
– molto, come si vedrà, è stato oggetto di sistematica ristrutturazione, sul piano della fabula come sul piano dell’intreccio: la storia di Edipo appare, in Sofocle, rescissa dal suo passato mitico e
dalle sue precedenti incarnazioni letterarie. Ciò che sopravvive, di
tanti mitemi e varianti tradizionali, si lascia cogliere semmai solo
allo stato di indizio: traccia di un motivo canonico noto e perciò
assimilato – non senza qualche resistenza o residuo – nella trama
rimessa a nuovo. Si pensi solo al nomen loquens «Edipo»: enfaticamente enunciato a esordio della tragedia (v. 8), e più volte accostato a forme di οἶδα, «so», intese a suggerirne un etimo intonato
alla problematica sofoclea (vv. 397, 924-926)76, esso trova il suo più
vulgato aition etimologico77 soltanto ai vv. 1031-1036, durante il
dialogo con il Messaggero corinzio che rievoca le piaghe infantili
del trovatello; lo stesso si può dire per l’altra più fortunata etimologia del nome, quella che in esso legge un riferimento alla ben nota
lysis dell’enigma («colui che sa i piedi»)78: anche di ciò, in Sofocle,
nessuna traccia. E il motivo stesso dei «piedi gonfi» – altrove
76
Cf. per es. Jebb, XIX n. 2; Knox, Oedipus at Thebes, 127s., 183s., e
Word, 99s., in particolare per la scomposizione etimologica operata dalle
clausole dei vv. 924-926; Vernant, Ambiguità, 100s.; C. Segal in GentiliPretagostini, 463 e 472s. = Sophocles’ Tragic World, 141s. e 150s.; Pucci,
37s. e 66-78. I giochi etimologici sofoclei hanno suscitato, in alcuni interpreti, una vera e propria caccia all’anagramma: un esempio estremo in
Ahl, 180-187. Per analoghi giochi di parole in Seneca, cf. Halter, 116.
77
Da cui il memorabile «Piedone» sanguinetiano, su cui si veda ora
Sanguineti, Teatro antico, 9. Sull’etimologia di «Edipo» cf. in sintesi
Daly, 2104s. e C. Calame in Gentili-Pretagostini, 395-407; per la relativa indifferenza di Sofocle alle etimolgie vulgate, cf. M. FernándezGaliano, ibid. 404, nonché Maxwell-Stuart e Serra, Edipo e la peste,
32 n. 32.
78
Si vedano per es. Vernant, Ambiguità, 100s. e Il tiranno zoppo, 39s.;
Segal, Tragedy, 207s.; Hay, 27-33; Pucci, 73; Ahl, 51 e 181.
XXXIV
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Introduzione
spunto per agnizioni d’effetto – è mero argomento di rincalzo nel
corso di una rivelazione che ha già convinto l’interlocutore e già
sortito pressoché tutti i suoi effetti tragici79. I «piedi» di Edipo,
del resto, sono afflitti da un male che nessun dettaglio precisa con
chiarezza: sono ora «caviglie aggiogate», ora «perforate» (vv. 718,
1034)80; le περόναι, strumento della violenza originaria, compaiono
sì, ma dislocate e destinate a ben altra funzione: esse divengono
le «fibbie» di Giocasta con cui Edipo si acceca (v. 1269); e del
resto i κέντρα, che sostituiscono altrove le περόναι adibite alla
mutilazione neonatale, compaiono quali armi di Laio durante lo
scontro al trivio (v. 809), e sono a loro volta mutati in metafora – il
«pungolo» del rimorso che assilla Edipo – ai vv. 1317s. Sfumato e
quasi marginalizzato è altresì il principale exploit eroico di Edipo,
l’uccisione della Sfinge81: oggetto di evocazioni essenziali, quasi
sempre menzionata in perifrasi, senza nessuna concessione ai dettagli teratologici che incanteranno ancora Euripide (fr. 540 K.) o
79
«Preuve inutile», la giudica, non a torto, Delcourt, Oedipe, 26; e cf.
anche Lattimore, 83; la valorizza fortemente Lévi-Strauss, La vasaia,
185 (e così Bollack, ad l. e Id., La naissance, 156); ben altro rilievo avrà
il dettaglio fisico in Sen. Oed. 811-813, vero e proprio test di veridicità.
Quanto alla spiegazione del nome proposta dal Messaggero, nulla induce a credere che si tratti di «an etymology of which Oedipus himself
is painfully aware» (Segal, Tragedy, 207); una posizione radicalmente
opposta, per es., in Ahl, 182s. Ma su questo punto il testo sofocleo,
irrimediabilmente, tace; cf. anche infra, 165 n. 116.
80
«Quando uno studioso presenta una relazione su Edipo lo zoppo, è
fin troppo facile obiettargli che quello sofocleo va a piedi da Corinto
a Delfi, il che è una bella passeggiata», è stato detto con spirito, e non
senza pertinenza al nostro tema (V. Citti in Uglione, 86; cf. V. Di Benedetto in Gentili-Pretagostini, 311). Ma su ciò scherzava già l’Eschilo
di Aristofane: cf. Rane, v. 1192 (e infra, Appendice, 187s.).
81
Per la fortuna iconografica del motivo cf. supra, XII n. 11. Le ellittiche menzioni sofoclee risaltano a paragone delle roboanti espansioni
operate da tutti gli epigoni, a partire da Seneca: cf. Halter, 125-132.
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alle complicazioni narrative sviluppate in altre versioni del mito;
la Sfinge è soltanto «la dura cantatrice» o «la cagna-rapsodo» (vv.
36 e 391, cf. anche vv. 1199s.)82, nominata esplicitamente una sola
volta (v. 130); e la vittoria di Edipo è una generica «cessazione»
(v. 397 ἔπαυσα) del flagello, determinata dal vigoroso e generoso
impegno (v. 48 προθυμίας) profuso dall’eroe: una caratterizzazione generica, ma intonata ai moduli di una sovranità partecipe e
salvifica, a maggior gloria di un Edipo che nulla ha del tiranno
(cf. infra, LXXV-XCI), né del folclorico enigmista. Sottaciuto, del
resto, è lo stesso enigma di cui Edipo si vanta solutore: a meno
che non si voglia riconoscerne una singolare trasposizione nelle
ricorrenti speculazioni numerologiche di Edipo83, o cogliere un
riferimento alle tre età dell’indovinello nella composizione della
rappresentanza tebana – peraltro problematica – che è in scena
all’inizio della tragedia84; quanto al «terzo piede» dell’enigma, lo
σκῆπτρον («bastone») che sosterrà Edipo accecato ne sostituisce
mirabilmente la mancata evocazione. Ancora: nell’allusione di
Creonte a una triarchia formata da Edipo, Giocasta e lui stesso
(vv. 577-582) si potrà cogliere il lascito di versioni in cui il tema
della regalità svolgeva un ruolo di primo piano e si trovava inquadrato in termini folclorici tradizionali; ma il motivo è piegato da
Creonte a un razionalistico cui prodest, inteso a scagionarlo dalle
accuse di Edipo; le ragioni addotte per la singolare triarchia sono
82
Per le numerose perifrasi che designano la Sfinge si veda Brody, 36-42.
Oltre al ben noto problema relativo al numero dei «predoni» (cf.
infra, XLVII e 142s. n. 24), si è osservato che «at crises Oedipus seems
to count one-two-three» (Segal, Tragedy, 215): cf. vv. 280-283, 11351137, 1188s.; ma il computo della Sfinge – sarà bene ricordarlo – è
semmai un «quattro-due-tre».
84
Ma le tre età sono semmai ridotte, da Edipo, a tragica conflazione
e implosione: cf. Vernant, Ambiguità, 118; Segal, Tragedy, 208s. Per la
delegazione dei supplici, discussa quanto a formazione e consistenza,
si veda, infra, 138s. n. 4.
83
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Introduzione
riconosciute nella benevolenza maritale di Edipo (v. 580) e nella
φιλία che lega il re al cognato (vv. 581s.); nessuno spazio rimane,
insomma, per il motivo della vedova quale mezzo di trasmissione
regale, o per lo stesso interregno di Creonte, elemento chiave
– oltre che dei séguiti – degli antefatti85: ed è, come vedremo, un
silenzio non trascurabile, per la definizione statutaria del potere
riconosciuto a Edipo (cf. infra, LXXXI). Quanto alle maledizioni
di Pelope, se ne può forse riconoscere una drastica e significativa
metamorfosi nelle maledizioni che Edipo scaglia ai vv. 244-251
e 269-272, e che si rivolteranno – come si sa – contro lo stesso
enunciatore; in esse Sofocle sembra aver sintetizzato non solo gli
antefatti, ma anche i séguiti della vicenda, e cioè le maledizioni
scagliate sui figli (cf. v. 271) e già note alla Tebaide arcaica86. Lo
stesso ruolo di Tiresia nelle vicende che precedono il regno di
Edipo è ridotto al modesto accenno con cui l’indovino rievoca il
credito goduto presso i genitori del sovrano (v. 436)87; le Erinni
che già Omero connette ai crimini di Edipo, e che erano centrali
in Pindaro (O. 2,41s.) come nel trattamento eschileo del mito,
sopravvivono solo nelle colorite espressioni dello stesso Tiresia (v.
85
In assenza di matriarcati e di avuncolati, ben poco fondamento trovano le esegesi di stampo frazeriano che in parricidio e incesto hanno
scorto segni di sovrapposizione fra norme di successione matrilineare
patrilineare: cf. per es. Propp, 92-96; per ulteriore bibliografia si veda
C. Brillante in Gentili-Pretagostini, 85 n. 16: ma non va dimenticato
che una fase di passaggio fra matriarcato e patriarcato era ipotizzata,
per l’Edipo re, anche da J.J. Bachofen, Il matriarcato, trad. it. Torino
1988, I, 370-378. Utili, in proposito, anche le osservazioni, giustamente caustiche, di Greene, 242-247.
86
Per la mistione di ‘editto’ e ‘maledizioni’ che caratterizza il pronunciamento di Edipo cf. Dyson e infra, 147s. n. 43; per il rilievo
concesso a tale maledizione rispetto all’ἀρά edipica del Ciclo tebano
cf. Reinhardt, 118.
87
Cf. Pucci, 83, che vede un’allusione a Tiresia anche nel riferimento
ai «ministri» di Apollo al v. 712.
XXXVII
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418 δεινόπους ἀρά, «la maledizione dal piede terribile»)88. Forse un
finale ritiro di Edipo sul nativo Citerone è sottinteso alla minacciosa allusione di Tiresia (v. 421), e la soluzione è prospettata dallo
stesso re accecato (vv. 1451-1453)89: ma altra sorte, come si sa, attende l’Edipo di Sofocle; quanto ai motivi che hanno dato avvio
alle peregrinazioni dell’eroe, la topica invidia dei coetanei è ridotta
alle frasi inconsulte di un ubriaco (vv. 779s.). Infine, con qualche
zelo, si potrà forse cercare nelle immagini belliche applicate da
Edipo alla morte di Laio (vv. 806-813) la traccia di antiche versioni intonate a un confronto militare; o presumere che qualche
oscillazione tradizionale si rifletta nelle due diverse o divergenti
testimonianze relative al ruolo di Giocasta nell’abbandono del
neonato90; o ancora ipotizzare che il v. 1411 – dove Edipo auspica
88
Cf. Cameron, 11. Per l’espressione del v. 418 («la maledizione dal
piede terribile») è d’obbligo il rinvio a Soph. El. 491 χαλχόπους Ἐρινύς,
alla καμψίπους Ἐρινύς di Eschilo (Sept. 791, proprio in tema edipico) o
già alla descrizione omerica di Ate (Il. IX 505): cf. per es. Jebb o Roussel, ad l. Ma è evidente che l’hapax sofocleo comprende un’allusione al
nome «Edipo», come i tanti – ma forse non tutti – «piedi» che compaiono nella tragedia: cf. per es. Knox, Oedipus at Thebes, 183 e Word,
99; Vernant, Ambiguità, 100-102; Schwartz, 198s.; supra, XXXIV n. 76.
Sul culto storico delle «Erinni di Edipo» (cf. Hdt. IV 192,2) si veda Edmunds, The Cults, 225-233; Id. in Gentili-Pretagostini, 245; Bremmer,
48s. sulla generale emarginazione delle Erinni in Sofocle, cf. Winnington-Ingram, 205-213.
89
Si può cogliere qui un’allusione al motivo dell’«interramento», centrale nell’Edipo a Colono e nelle versioni medioevali della leggenda
(in primis papa Gregorio: cf. Zuntz; Propp, 88s.; Edmunds, Oedipus
in the Middle Ages, 140-155) e testimoniato in altre forme anche da
Myth. Vat. 2,230; si vedano inoltre C. Brillante in Gentili-Pretagostini,
94-96; Rodighiero, Una serata a Colono, 12-22.
90
Ma la differenza fra i due resoconti non sembra casuale, e svolge
un ruolo non secondario nell’impedire una rapida conclusione
dell’inchiesta: cf. infra, LII.
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di essere gettato a mare – serbi memoria di un’originaria esposizione marina91. Ma sarebbe zelo eccessivo e mal impiegato, che
può solo rimarcare a contrario l’originale operazione compiuta da
Sofocle, estremamente selettivo nei confronti di varianti mitiche
che possiamo immaginare almeno in parte diffuse e notorie.
Un Edipo senza passato, si diceva, e come rescisso dai suoi antecedenti mitici: così appare l’eroe dell’Edipo re. Sofocle – è stato
giustamente osservato – «è tutto preso da Edipo»92: né il padre
Laio né i figli Eteocle, Polinice e Antigone interessano il tragediografo quale esempio di sciagurata continuità dinastica e genetica.
Quella di Edipo non è la tragedia di un genos – com’era ancora
la trilogia eschilea del 467 a.C. – bensì la tragedia di un singolo
eroe93. L’inevitabile selezione compiuta da Sofocle si configura, sin
91
Cf. per es. Höfer, 707. Il verso è del resto sospetto: Dawe, con molti
altri, lo espunge (cf. Studies, I, 262s.); Roussel, ad l., osserva che il
mare non è a due passi da Tebe: obiezione d’ingenuo realismo.
92
Cameron, 11; cf. anche Knox, Oedipus, 51. Sulla singolare omissione
degli antefatti nella prima parte della tragedia – e sulla loro progressiva emersione nella seconda parte – cf. Bain, 86-89. La stessa centralità di Edipo in àmbito drammatico nasce da una drastica selezione nel
complesso ‘tebano’ della leggenda: cf. Burkert, Seven, 34s.
93
Sulle differenti impostazioni di Eschilo e Sofocle sono da vedere soprattutto le considerazioni di Cameron, 3-31; cf. anche Reinhardt, 112; Whitman, 123s.; Lesky, 336; Bremer, 154-157; Schwartz, 189s.; M.L. West in
Griffin, 31-45. «Sophocles’ careful exclusion of the external factor from
the plot of the play is more than a device to preserve dramatic excitement: it is essential to the play’s meaning», osserva a ragione Knox, Oedipus, 51. Significativa la genealogia tebana dei vv. 267s. (infra, CXVIIIs.).
Il silenzio di Sofocle sui crimini del genos è reso più significativo dal
fatto che l’idea della colpa ereditaria sia invece valorizzata dall’Antigone:
cf. Bowra, 163 e infra, Appendice, 184s. Un effetto della colpa genetica
anche sull’Edipo dell’Edipo re era supposto da Lloyd-Jones, Justice, 119123 (argomenti pressoché identici in Perrotta, 202-206): ma si vedano
le confutazioni di T.C.W. Stinton in AA.VV., Greek Tragedy and Its
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da questo livello, innanzitutto come drastica riduzione. Una riduzione che opera sul piano della fabula, come si è visto, eliminando
o accantonando infiniti dettagli altrove centrali; una riduzione
che opera, tuttavia, soprattutto sul piano dell’intreccio: a partire
dal macroscopico dato per cui la storia di Edipo inizia qui dalla
propria fine; ovvero, per tornare a Schiller, «l’azione ha già avuto
luogo e cade quindi completamente al di là della tragedia […].
Tutto è già presente, e non fa che essere sviluppato»94. E in un
solo giorno, si dovrà aggiungere, come il testo stesso rimarca in
una battuta dal chiaro valore metateatrale («è questo giorno che ti
farà nascere; e ti farà morire», v. 438). A tale fine, eminentemente
‘riduttivo’, e insieme intensivo, congiurano anche quelle che sembrerebbero – allo stato attuale delle nostre conoscenze – addizioni
o invenzioni sofoclee: innanzitutto l’epidemia su cui si apre la
tragedia, primum movens dell’indagine avviata dal protagonista,
ma in séguito – come è stato molte volte osservato – destinata a sfumare o a scomparire dall’orizzonte della vicenda95. Nuove o nuovaLegacy. Essays Presented to D.J. Conacher, ed. by M. Cropp et al.,
Calgary, Alberta, Canada 1986, 72-74 e di Di Benedetto, 133-135.
94
Schiller, l.c. Il riscontro è spesso ripetuto: fra i molti possibili cf. Whitman, 125; Pohlenz, I, 253; Schadewaldt, 280, che conia la definizione
di «Enthüllungs-Drama» («dramma dello svelamento»); Segal, Tragedy, 228-231; C. Segal in Gentili-Pretagostini, 467s. = Sophocles’ Tragic
World, 145s.; Gigante, Dalla parte, 64; la tragedia di Edipo consiste in
eventi destinati a essere (v. 341 ἥξει) proprio perché già stati e destinati
solo alla scoperta: cf. Budelmann, 56. Critica i presupposti fatalistici del
giudizio schilleriano Reinhardt, 115. Ulteriori osservazioni in G. Ugolini, «Philologus» CXXXI (1987) 19-31.
95
Cf. per es. Dyson, 211s.; Hulton, 116-119; Budelmann, 230; Paduano, Lunga storia, 121; Dawe 2006, 174; Serra, Edipo e la peste, 49s.;
Id. in Curi-Treu, 119; Paduano, ibid. 52. Che la peste sia invenzione di
Sofocle è da molti ammesso, ma posto in dubbio da Maddalena, 333 n.
13, senza motivi cogenti. Per le presunte allusioni della peste sofoclea
all’epidemia che afflisse Atene fra il 430 e il 427 cf. infra, CXIIs.
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mente rilevate appaiono altresì le figure del Messaggero corinzio e
del Pastore tebano: figure obbligate, ben inteso, quali meri attanti
di un plot ideale, e autori di un salvataggio che il mito impone e
variamente sviluppa (cf. supra, XIXs.); ma nuove in quanto caratteri, e nuove nella loro stessa incarnazione in due distinti personaggi96, di cui la trama dell’Edipo re duplica lo stesso incontro
in due distinte fasi: la prima, confinata agli antefatti e rievocata
ai vv. 1040-1044; la seconda, destinata a svolgersi sotto gli occhi
degli spettatori nella scena-madre dei vv. 1110-1185. Un’identica
norma di duplicazione interessa altresì le premesse ‘oracolari’
della vicenda: se il vaticinio reso a Laio appartiene ai presupposti
strutturali del mito e alle sue più antiche versioni (cf. supra, XVIII
e XXVI), il simmetrico oracolo reso a Edipo appare – se non addirittura un’innovazione di Sofocle97 – un originale e non casuale
trattamento della vicenda, che si trova così a ruotare integralmente
sulla sorte profetizzata al protagonista più che sulla sciagura che
minaccia l’intero genos; e non è un caso che la simmetria dei due
oracoli – almeno per la menzione del parricidio – sia resa vistosa da
Sofocle tramite le rievocazioni parallele di Giocasta e di Edipo (vv.
708-725, 771-793): vistosa agli occhi degli spettatori, s’intende, e
affatto invisibile agli occhi dei due interlocutori (cf. infra, LI-LIII).
La stessa scelta di situare l’incontro fatale fra Edipo e Laio sulla
strada fra Tebe e Delfi – ben diversamente, come si è visto, scelse
Eschilo – enfatizza il ruolo che la sede apollinea gioca nella storia
96
Lo osservavano già Campbell, 119 e Jebb, XXIV. Sulla duplicazione dei personaggi e del loro incontro, cf. anche Maddalena, 320. Un
interessante spunto proviene da C. Catenacci in P. Angeli Bernardini
(a c. di), Presenza e funzione della città di Tebe nella cultura greca,
Pisa 2000, 199s., che ipotizza – per la duplicazione dell’attante – un
influsso del Ciro erodoteo (Hdt. I 107-130).
97
Cf. per es. Cameron, 11s. Di tale oracolo non c’è traccia in Eschilo (Sept.
720-791) né in alcuna delle versioni sicuramente anteriori a Sofocle. Per la
duplicazione degli oracoli cf. anche Knox, Word, 103 e Manuwald, 9-11.
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sofoclea98. Ed enfatizza, altresì, la norma di simmetria invertita
che regola tutto l’intreccio: all’incrocio del delitto, la meta di Laio
è il luogo – Delfi – da cui Edipo muove; e il luogo – Tebe – da
cui muove Laio, è la meta inconsapevole cui è destinato Edipo.
E il gioco dei parallelismi e delle inversioni è ben riconoscibile in
infiniti altri aspetti, e fra i più cospicui, della trama sofoclea99: si
pensi solo alla puntuale parabola che conduce dalla zoppia neonatale al conclusivo accecamento, con facile e collaudato scambio
simbolico fra piedi (anzi: ποδῶν ἄρθρα, v. 1032) e occhi (anzi: ἄρθρα
κύκλων, v. 1270)100, complici – si direbbe in entrambi i casi – le citate «fibbie» (περόναι) di Giocasta. O si pensi al ricercato confronto
fra le diverse ‘cecità’ di Edipo e Tiresia (vv. 370-372, 412-414, 419),
e insieme al paradosso tante volte osservato per cui rivelazione e
auto-accecamento coincidono. O ancora al ruolo di un «bastone»
(σκῆπτρον) che è prima strumento di parricidio (v. 811) e che sarà
poi sostegno dell’eroe accecato (v. 456)101. O infine, sul piano dei
personaggi, alla sistematica duplicazione funzionale che impone a
98
Cameron, 10. I motivi del viaggio delfico di Laio non sono precisati
da Sofocle: Creonte parla di una generica θεωρία (v. 114), che altre fonti attribuiscono alla volontà di consultare l’oracolo circa le
sorti del figlio esposto (cf. supra, XXVIII); possibile che l’evasivo
ὡς ἔφασκεν del v. 114 (espressione sospettata: cf. Nota al testo)
sottintenda la natura riservata e quasi segreta della missione.
99
«L’inversione […] percorre tutto il dramma dall’inizio alla fine»
(Reinhardt, 111). E del resto «il tema della corrispondenza, della symmetría, è evocato varie volte [vv. 73, 84, 963]» (Bettini, 111); cf. anche
C. Segal in Gentili-Pretagostini, 468 = Sophocles’ Tragic World, 146s.;
Id., Tragedy, 229s.
100
Per questa coincidenza terminologica cf. per es. Lattimore, 86;
Hay, 125s.; L. Edmunds in Gentili-Pretagostini, 241; Pucci, 70s. Si
veda già S.A. Hurlbut, «Classical Review» XVII (1903) 141-143, con
un riesame della ambigua terminologia relativa a occhi e piedi.
101
Segal, Tragedy, 210, 216. Probabile che un bastone portasse Edipo
durante il suo ingresso ai vv. 1297-1306: cf. Cameron, 23.
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ogni persona della tragedia di ricoprire non uno, ma due ruoli: talvolta contemporanei e inconsapevolmente assunti, talvolta invece
situati all’inizio e alla fine di una peculiare peripeteia che riproduce, su altri piani, la peripezia del protagonista102, di quell’Edipo
inquirente e colpevole, liberatore invocato e responsabile primo del
miasma. Ecco dunque Laio, infanticida e vittima del proprio figlio;
Giocasta, volonterosa consolatrice del marito (vv. 707-710) e involontaria promotrice della rivelazione finale; il Messaggero corinzio,
che – scrive Aristotele – «arriva per recare gioia a Edipo e liberarlo
dal timore della madre», ma infine «rivela chi lui sia» (Poet. 11,
1452a 25s.)103; il Pastore tebano, testimone del tentato infanticidio
come del riuscito parricidio, salvatore di Edipo bambino, ma anche responsabile ultimo della sua rovina. E così via104.
Molto di tutto ciò, evidentemente, dipende dalla struttura stessa
della leggenda edipica: da quella norma di specularità invertita
che tanto facilmente si è offerta alle analisi di Lévi-Strauss e alle
102
Per il ruolo della peripezia nell’Edipo re, cf. infra, LXVII.
Aristotele condensa in una sola, imprecisa sintesi due punti diversi
della trama (arrivo del Messaggero e dialogo sulle origini di Edipo).
La distorsione mnemonica si comprende benissimo e correggere, interpungere o interpretare tortuosamente il passo è superfluo (cf. D.W.
Lucas, Aristotle. Poetics, Oxford 1968, 129). Per questo errore – e per
una ben più grave confusione in Aristot. Rhet. II 1415a – cf. Ahl, 1618; si veda anche infra, LVI n. 138.
104
Dei riflessi di tale strutturazione sul linguaggio dei personaggi
– ovvero sulla cosiddetta ‘ironia tragica’ – non è nemmeno il caso
di dire: basti ricordare che è soprattutto a partire dall’Edipo re che
tale concetto è stato formalizzato per la prima volta da C. Thirlwall, «Philological Museum» II (1833) 483-537; una classificazione
del fenomeno è in Paduano, Sull’ironia; per l’Edipo re, fra
i molti possibili, si vedano Hug; Campbell, 126-133; Stanford, 163-173; Vernant, Ambiguità; Budelmann, 80-87; N. Andrade, «Synthesis» VIII (2001) 105-120; importanti le osservazioni di Paduano, Lunga storia, 75-78; e cf. ora Jouanna, 463-485.
103
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variazioni fornite in tema da Vernant e da altri. Ma molto dipende invece dalla particolare strutturazione del mythos tragico
che si deve a Sofocle. E proprio perché tutto, nell’Edipo re, avviene sotto specie di «analisi tragica», tali simmetrie possono
risaltare in tutta la loro chiarezza: il rovesciamento che instaura
l’intreccio – con moto retrogrado, dagli effetti alle cause – fa
sì che l’intreccio altro non sia se non riconoscimento e ricostruzione delle simmetrie sino a quel momento invisibili (cf.
infra, LVII-LXVIII). «Macchina infernale», certo: «uno degli
ordigni più perfetti costruiti dagli dei […] per l’annientamento
matematico di un mortale»105. Ma anche macchina testuale,
ordigno narrativo altrettanto perfetto. «La fabula l’ha scritta il
fato», si è detto di recente106 ; ma l’intreccio, senza dubbio, l’ha
scritto Sofocle: rivoluzionando con ciò, o a questo scopo, anche
la fabula, e finendo per rendere canonica proprio quella che
doveva essere, in parte consistente, una singolare e innovativa
variazione su tema edipico. Per dirla con Lévi-Strauss, qui «lo
stampo conta più del contenuto»107.
Già un primo confronto fra «la leggenda del re Edipo e l’omonimo
dramma di Sofocle» – secondo le citate parole di Freud – serve
innanzitutto a far emergere le peculiarità narrative del «dramma»
a paragone della «leggenda». Ma prima di tornare ad altre, più
rischiose interferenze fra leggenda e dramma, conviene indugiare sull’intreccio sofocleo: valutando sino a che punto la forma
impressa al materiale mitico sia riuscita perfetta, e abbia saputo
tramutare – ancora Schiller – «vicende complicate» in «azione
semplicissima». Un risultato di cui molti dubitano.
105
Secondo il celebre prologo di Cocteau, Teatro, cit., 76 (su cui cf. R.
Guerini in AA.VV., Edipo in Francia, 140-167; Paduano, Lunga storia,
165-183 e Edipo, 154-160; Avezzù, Edipo: variazioni, 42-51).
106
Bettini, 122.
107
Lévi-Strauss, La vasaia, 185.
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Introduzione
«Uno degli ordigni più perfetti…»
«Grossolanità», «assurdità», «errori contro la verosimiglianza»:
questo trovava Voltaire108 nella tragedia che Aristotele, da parte
sua, giudicava esemplare per coerenza e concisione narrativa109.
Certo Aristotele (Poet. 15, 1454b 6-8; 24, 1460a 26-30) riconosceva la presenza di tratti incongrui (ἄλογα), ma collocati rigorosamente ἔξω τῆς τραγῳδίας o τοῦ μυθεύματος, «fuori dalla tragedia» o
dalla vera e propria «struttura narrativa»: primo fra tutti il fatto
che Edipo, da anni installato sul trono di Tebe, ignori ancora i
dettagli relativi alla morte di Laio (vv. 99-131)110. Ma il giudizio
di Voltaire – se non, previa forzatura, quello di Aristotele – ha
fatto proseliti fra i moderni, al punto che la caccia all’errore è
divenuta esercizio critico frequente. Una contrapposta apologia
della ‘macchina testuale’ sofoclea può sembrare oziosa: e tale
108
Lettres a M. de Genonville. Lettre III, contenant la critique de
l’Oedipe de Sophocle (1719), in Oeuvres complètes. Théatre, I, Paris
1820, 19-32. Sul giudizio di Voltaire si vedano fra gli altri Jebb, XLIIs.;
Kitto, Greek Tragedy, 179s.; Carrière, 5s.; Kerényi in Kerényi-Hillman, 32; Gigante, Dalla parte, 64. Sull’Oedipe di Voltaire (1718) cf. R.
Pomeau in AA.VV., Edipo in Francia, 69-77; Paduano, Lunga storia,
301-313 e Id., Edipo, 111-118.
109
Cf. supra, VI n. 5. Per l’influenza del modello sofocleo su Aristotele
si veda anche Jones, 159-166.
110
All’incongruenza apporterà una tacita correzione A. Gide, Edipo,
in Id., Teatro, trad. it. Milano 1950, 298: «Giocasta. Ogni volta che ho
cercato di parlartene, amico mio, tu mi hai interrotta. “No, non parlarmi del passato”, esclamavi». La frigida trovata – gia in Voltaire, ma
a parti inverite – non è rara: cf. Jebb, XLVI e Paduano, Lunga storia,
157 e n. 92. Simmetrica e non meno sensibile è l’incongruenza per cui
Edipo non sembrerebbe aver mai parlato a Giocasta della propria vita
a Corinto, né mai menzionato il nome dei propri (supposti) genitori,
né mai narrato gli eventi occorsi al fatale trivio (vv. 774-813): si veda
infra, LVs.
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sarebbe, se smontaggio e rimontaggio dell’ordigno non servissero a meglio comprendere le novità dell’intreccio, e i suoi nessi
intimi e necessari con il trattamento sofocleo della «leggenda»
edipica. Un ottimo punto di partenza, a questo fine, è fornito
da quanto osserva Dawe, ultimo editore della tragedia; «l’analisi
strutturale dell’Edipo re» – egli assicura – «è un atto di vandalismo»; ma ciò non gli impedisce di censire con spietata pazienza
almeno sei clamorosi tratti d’inverosimiglianza111. Li si veda qui,
in ordine, con il corredo di alcune osservazioni:
1) l’unico superstite della strage in cui è morto Laio, nonché
unico testimone dell’assalto – ma non del delitto: cf. infra, 157s.
n. 86 – mente e parla di «molti» assalitori (vv. 122s., cf. v. 842);
111
Dawe 2006, 5 e 7-16 per l’elenco che segue. Esso riprende in gran
parte i capi d’accusa volterriani, e segue dappresso – senza dichiarazioni esplicite – l’elenco fornito da Vellacott, 114-122. Censimenti
analoghi si troveranno, per esempio, in Jebb, XXVs.; Greene, 75s.;
Roussel, 101; Turolla, 82s.; Perrotta, 211-214; Lattimore, 86-88; Waldock, 161-166; Carrière, 5s.; Cameron, 74 e 90 n. 22; Bain; Segal, Oedipus, 55s. Una riflessione più generale sulle «illogicalities» sofoclee è
in H.D.F. Kitto, Form and Meaning in Drama, London 19642, 87-93.
Su ambivalenze, reticenze e presunte incongruenze dell’Edipo re ha
costruito un pretenzioso – ma fragilissimo – edificio esegetico F. Maiullari, L’interpretazione anamorfica dell’Edipo re: una nuova lettura della
tragedia sofoclea, Pisa 1999, che sviluppa la linea iper-colpevolistica
già avviata da Vellacott e da F. Egermann, Von attischen Menschenbild,
München 1952 (su cui Pholenz, II, 103): Edipo sarebbe consapevole,
sin dall’inizio, dei propri crimini; giuste nel metodo, e moltiplicabili
nel merito, le critiche di P. Cipolla, «Orpheus» n.s. XXI (2000) 267278 e di G. Ugolini, «Athenaeum» LXXXIX (2001) 598-606. Non è
mancato il tentativo – simmetricamente opposto – di individuare in
Edipo un innocente che si autoconvince della tesi colpevolistica: cf.
il citato Ahl, con i rilievi critici di Griffith, 29-44, che ricostruisce gli
antefatti di questa fertile vague critica. Altre osservazioni su queste
esegesi – sospese fra il poliziesco e il paranoico – in Paduano, Lunga
storia, 49 n. 125 e 108 n. 117.
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senza tale menzogna, l’intera indagine non avrebbe luogo, né
la vicenda fondamento112. Ma non va dimenticato che lo stesso
testimone, al suo ritorno in città, ha riconosciuto Edipo e volontariamente taciuto a Giocasta la verità (vv. 758-761), così come
egli persevererà nella sua volontà di tacere in quel drammatico
confronto a tre che prelude alla lysis tragica (vv. 1118-1185, in
part. 1144-1146): speculare sui motivi della falsa testimonianza è
improprio113, ma sembra difficile non scorgere, fra la menzogna
e l’omissione, un sensato e probabilmente studiato legame. Si osserverà di passata che i vv. 758s. (ἦλθε καὶ κράτη / σέ τ᾿ εἶδ᾿ ἔχοντα
Λάϊόν τ᾿ ὀλωλότα, «venne e vide / che il potere era tuo e Laio
era morto») dimostrano che il Pastore fu testimone dell’assalto
ma non dell’uccisione: solo al suo ritorno egli si capacita del
compiuto regicidio114, e la sua omertosa reazione è immediata
ed emotivamente marcata (vv. 760-762). Quanto alla falsa testimonianza, l’ambiguità sul numero degli assassini è rinfrancata,
112
Molto si è scritto sul problema numerico originato dalla menzogna
del testimone, al punto che l’aritmologia edipica è ormai quasi branca
a sé della critica sofoclea; il problema è rimarcato dallo straordinario
lapsus con cui Edipo esordisce al v. 124, tramutando in singolare («un
predone») i «predoni» menzionati da Creonte: cf. infra, 142s. n. 24.
113
Dawe 2006, 7 pensa però si tratti di una «esagerazione dovuta alla
paura», o alla volontà di nascondere le proprie mancanze di servitore.
L’illazione è frequente (cf. e.g. Greene, 85; Delcourt, Oedipe, 88; Salmon,
162s.), ma non convincente, specie perché all’ipotesi alternativa – menzogna dovuta al riconoscimento di Edipo – il testo, pur ellittico, porta
almeno qualche elemento d’appoggio. Il carattere omertoso del Pastore
fa dunque ‘sistema’ con la congiura del silenzio cui Edipo, singolarmente,
si oppone: cf. infra, LIIIs. e LXIIIs. Per l’ostinato silenzio del Pastore, cf.
anche Knox, Oedipus, 13s. Sulle ragioni e sul carattere del testimone ricameranno generosamente le riscritture moderne: cf. Halter, 86-89. Altre
ipotesi sono censite in Paduano, Lunga storia, 108 n. 117.
114
Il dettaglio fornito dal v. 759 è spesso trascurato: si veda infra, 157s.
n. 86.
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e nel modo più autorevole, dall’ambiguo dettato dell’oracolo
delfico (vv. 106s.), che parla al plurale di «autori» o «colpevoli»,
con un termine la cui rarità (αὐτοέντας) sembra funzionale a una
fuorviante polisemia115. La protratta incomprensione di Edipo
non ha bisogno, su questo punto, di altre scusanti; né la scelta
di Sofocle appare artificiosa o immotivata.
2) Benché venga a sapere di un testimone ancora vivo (vv.
118s.), Edipo non si affretta a farlo convocare e ritarda incomprensibilmente la più facile risoluzione dell’inchiesta; nel frattempo – scriveva Voltaire – «si diverte a lanciare imprecazioni
e a consultare oracoli»116. L’obiezione, spesso ripetuta, è fragile:
Edipo ha espresso la volontà di ricominciare daccapo l’indagine
(v. 132), quando il sopraggiungere di Tiresia – convocato dallo
stesso Edipo in una sorta di ‘filone collaterale’ dell’inchiesta
(cf. v. 287) – porta al ben noto scontro con l’indovino e con
Creonte (vv. 334-462, 532-630); l’indagine non è mai dimenticata, ma solo condotta su una falsa pista, e complicata da altre,
concomitanti indagini117. La reductio ad unum di tante piste è
la chiave strutturale della tragedia (cf. infra, LXIV-LXVII). E
l’impazienza di Edipo nell’attesa del testimone, ribadita a più
riprese dal testo (vv. 765, 771, 836s., 859s., 1111s.), è, a ben vedere, la stessa di Voltaire o di Dawe.
3) Le rivelazioni di Tiresia ai vv. 350-462 sono tanto esplicite che la
mancata presa di coscienza, da parte di Edipo, appare incredibile:
115
Cf. infra, 141s. n. 22.
Lettre III, cit., 22; cf. in proposito Maddalena, 292s.; Paduano, Lunga
storia, 102 n. 98; Id. in Curi-Treu, 45s. (dove si attribuisce la dimenticanza agli effetti dell’«universo simulato» in cui vivrebbe Edipo).
117
Per questo aspetto dell’inchiesta condotta da Edipo – e per le
‘nuove’ indagini che si diramano dall’indagine principale – si veda
l’ottima sintesi offerta da Burkert, Edipo, 87-91. Per la «deviazione»
cui sin dall’inizio è costretta l’indagine di Edipo cf. Reinhardt, 116s.,
che muove proprio dalle critiche di Voltaire.
116
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Introduzione
e tale è apparsa, dopo Voltaire, a più di un epigono letterario118.
Ma le parole di Tiresia sono chiare solo sull’identità del regicida
(v. 362): esse sono anzi troppo chiare, e la reazione scandalizzata
di Edipo non è diversa, se non nei toni, da quella del Coro (vv.
404-406)119. Per il resto, l’espressione del vate è elusiva e propriamente oracolare, come Edipo gli rimprovera (v. 439): ed è stato
giustamente osservato che tutte le espressioni impiegate da Tiresia
possono essere applicate a un regicidio, prima ancora che a un parricidio120. Solo ai vv. 457-460 la denuncia è esplicita anche per ciò
che concerne parricidio e incesto, ed è significativamente espressa
alla terza persona, senza una diretta apostrofe a Edipo121. Knox,
da parte sua, ha ipotizzato che Edipo, dopo la battuta dei vv.
445s., dovesse uscire di scena122; si potrà forse supporre un brusco
118
Voltaire, Lettre III, cit., 23; ma si veda anche, fra i successivi, Cocteau, Teatro, 122-127. Quando Voltaire, ibid., osserva che con la
rivelazione di Tiresia «la pièce è del tutto finita all’inizio del secondo
atto», non sa di essere stato anticipato dagli scolii antichi (cf. schol. ad
v. 354 [p. 181 Pap.]: «se l’indovino fosse stato creduto fin dal principio, la consequenzialità del dramma sarebbe stata annullata»).
119
Cf. Whitman, 130s.
120
È la linea, a mio avviso convincente, seguita da Carrière, 7s., che mostra
come le accuse dei vv. 366s., 413s., 415s., 422, 425 possano riferirsi alla
colpa di un regicida che convive con la vedova dell’ucciso e ne usurpa
il regno. Ciò è confermato dallo stesso Edipo, che ha l’impressione
di sentire ripetuta l’accusa principale (v. 367 ταῦτ᾿ ἀεὶ λέξειν, dove è
tentante ma non necessario leggere, con Schneidewin, ταὔτ᾿), e che
in séguito interpreterà come forma di μίασμα, di «contaminazione»,
il semplice possesso della vedova (vv. 821s.). Cf. anche Adams, 91.
121
Su questo punto – e sul suo possibile effetto scenico – cf. Seale,
226s. Minimizza il dettaglio Carrière, 7.
122
B.M.W. Knox, «Greek, Roman and Byzantine Studies» XXI (1980) 321332, che riprende un’idea di T. Kock, Sophokleische Studien, II, GubenBerlin 1857, 25, recepita almeno in parte da Wilamowitz, Sophokles.
Oedipus, 61; su questa linea (del tutto indipendentemente) Carrière;
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allontanamento in direzione della skené, ma ciò è indimostrabile:
basterà osservare che nulla di quanto Tiresia rivela – a questo
livello del discorso e in questo contesto polemico – può essere
altrimenti inteso che come una sfacciata, provocatoria, aggressiva
menzogna123. In altri termini: l’eccesso di chiarezza in relazione al
regicidio (v. 362) è del tutto funzionale al completo occultamento,
nella dinamica comunicativa che oppone Edipo a Tiresia, di tutte
le informazioni successivamente fornite. Non a caso, la completa
cecità di Tiresia («tu sei cieco d’orecchi e di pensiero, come sei
cieco d’occhi») è seccamente diagnosticata da Edipo sin dal v. 371:
di lì in poi, non c’è più spazio per alcuna comunicazione.
per altri autorevoli assensi all’ipotesi cf. Lloyd-Jones–Wilson 1997, 52
(che riepiegano, da parte loro, su motivazioni di ordine psicologico); contra per es. Vellacott, 170s.; Hester, 39; Taplin, 43; Di Benedetto, 107 n.
3; Pucci, 177 n. 2; possibilisti Gould, 596 e Paduano, Lunga storia, 51 n.
131 (ma contra Paduano, ad l.). Una difficoltà consistente rimane però
nell’ἰὼν / εἴσω, «andando dentro», con cui Tiresia conclude la sua tirata
(vv. 460s.).
123
Cf. soprattutto Maddalena, 294 e Paduano, Lunga storia, 50-53,
ma già Untersteiner, I, 174. Edipo «ha fin troppe ragioni di dubitare
dell’interlocutore, per credere a ciò che dice», osserva a ragione Hester,
39; cf. anche Taplin, 44; P.E. Easterling, «Greek, Roman and Byzantine
Studies» XXIV (1977) 124s.; Lesky, 328; Pucci, 19; Manuwald, 29-31.
Sul problema è tornata D. Galeotti Papi, «Sileno» XXII (1996) 99-106.
Non giudicavano diversamente i commentatori antichi (cf. scolio al v.
354 [p. 181 Pap.]: «a ragione [Tiresia] non viene creduto, perché sembra parlare per rabbia»). Un puro ripiego, per giustificare la presunta
incongruenza di queste precoci rivelazioni, è appellarsi alle diverse modalità percettive del pubblico teatrale, che non avrebbe avuto il tempo di
registrare la stranezza della scena (è la lysis resa canonica da Bain, 87-91;
ma così già Perrotta, 215; Bignone, 4 n. 1; in parte Hester, 41); non del
tutto soddisfacente nemmeno la comune spiegazione psicologica secondo cui Edipo sarebbe troppo in collera per capacitarsi di quanto Tiresia
gli rivela (cf. e.g. Bowra, 203; Di Benedetto, 107; Segal, Oedipus, 80).
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4) Durante il confronto con Giocasta, Edipo si comporta come
se Creonte avesse esplicitamente dichiarato Edipo uccisore
di Laio (v. 703): ciò non è mai accaduto, evidentemente, ma è
quanto Edipo stesso, interrogato dalla sposa, ammette ai vv.
705s. («ha messo avanti un lurido indovino. / Quanto a lui, la
sua bocca è immacolata»); del resto, già al v. 643, la τέχνη κακή
che Edipo attribuisce a Creonte è forse tecnicismo giuridico
per la produzione di falsi tesimoni124: il nesso fra le due scene
è dunque stretto e tematicamente giustificato. È semmai da
osservare che fin dal dialogo con Creonte Edipo riferisce le accuse di Tiresia in termini ambigui (vv. 572s.), tali da lasciar presumere – almeno nella percezione del pubblico – un’anticipata
ammissione dell’omicidio125. In entrambi i casi – ora in virtù
della consueta ambiguità verbale, ora per precisa e intenzionale
estremizzazione delle tesi avverse – la strategia di Sofocle congiura a un unico fine: portare Edipo sulla soglia della verità,
ma con tragico e protratto indugio. In linea generale, dunque,
le erronee illazioni di Edipo risultano parte integrante del depistaggio avviato con il primo episodio.
5) Ai vv. 711-722 Giocasta narra a Edipo la storia di un figlio
abbandonato, con catene alle caviglie, in un luogo inaccessibile:
il figlio che – da oracoli – avrebbe dovuto uccidere Laio. Di
tutto il racconto, Edipo nota stranamente solo il dettaglio relativo all’«incrocio di tre vie» dove Laio è stato ucciso. Tutto ciò
è vero, ed evidentemente intenzionale – si apprezzi l’ambiguità
Per un possibile riferimento alla κακοτεχνία come corruzione di
testimoni (tecnicismo ben assestato nel IV sec.) cf. Knox, Oedipus, 90.
Per la mancata distinzione fra Tiresia e Creonte, da parte di Edipo, cf.
anche Bowra, 195s.
125
«“Non avremmo sentito una parola sull’uccisione di Laio da parte
mia”», ben parafrasa i vv. 572s. Jebb, ad l., che commenta: «Soph. has
purposely chosen a turn of phrase which the audience can recognise
as suiting the fact that Oed. had slain Laïus».
124
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del v. 710, che annuncia trionfalmente «prove» (σημεῖα), destinate però a un fatale effetto ritorsivo – ma occorrerà notare
almeno che Giocasta è recisa nell’asserire che nulla di quanto
previsto dagli oracoli è accaduto (vv. 720-722) e che il bambino,
evidentemente, non è sopravvissuto per più di tre giorni alla sua
nascita (ciò è presupposto, con eufemistica ellissi, ai vv. 717-719,
e affermato senza reticenze ai vv. 855s.). Si osserverà inoltre che
la regina parla semplicemente di «caviglie incatenate»; solo ai vv.
1031-1037 Edipo apprenderà che si tratta di «piedi perforati» (v.
1034), e che questa antica cicatrice è imputabile, precisamente, ai
veri genitori126. Non sembra casuale, inoltre, che la prima battuta
pronunciata da Edipo dopo il racconto di Giocasta (vv. 726s.)
denunci uno stato di smarrimento e di shock confusivo (ψυχῆς
πλάνημα κἀνακίνησις φρενῶν), il cui inizio è scrupolosamente
situato dal testo (ἀρτίως, «un attimo fa», ἀκούσαντ᾿, «mentre ti
ascoltavo») come avvenuto durante il discorso di Giocasta: una
volta tanto, le scusanti psicologiche spesso addotte dai critici
sofoclei sembrano anticipate dallo stesso Sofocle127.
6) Dello stesso racconto di Giocasta, Edipo non riuscirebbe
a cogliere la perfetta simmetria fra l’oracolo reso a Laio – tuo
figlio ti ucciderà – e l’oracolo che Apollo ha reso a lui personalmente. Il dato è innegabile, ma non casuale (cf. infra, LXIII126
Per la domanda del v. 1037 cf. infra, 165s. n. 116. Per le diverse
descrizioni del supplizio patito da Edipo cf. supra, XXVIs. Per le reticenze di Giocasta nella descrizione dell’abbandono cf. Carrière, 12s.
e supra, XXXVIII n. 90.
127
Turolla, 82-86 e passim (ma non si può parlare della ‘cecità’ come di
una caratteristica generale di Edipo: così invece anche Sheppard, ad
l. o Valgimigli, Edipo re di Sofocle, 113: «Edipo è come un incantato,
un affascinato»). Si è ipotizzato (Seale, 232s.) che la reazione di Edipo
ai vv. 726s. fosse tradotta nello «stage movement» di un improvviso
allontanamento da Giocasta: ma non è questo il valore di ὑποστραφείς
(v. 728; cf. Jebb, ad l.).
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LXVIII); è da osservare però che i due responsi non sono affatto simmetrici – Giocasta non menziona incesto128 – e che
tutto il discorso si mantiene, e non per caso, nella prospettiva
di una generale demistificazione degli oracoli.
Analoghe considerazioni si potrebbero svolgere per altre presunte incongruenze additate dalla critica: perché, ad esempio,
Tiresia non ha rivelato, prima dello scontro con Edipo, parricidio
e incesto?129 Ma Sofocle delinea un personaggio testardamente
intenzionato a tacere (vv. 316-318, 320s., 328s., 341, 343s.), secondo una pratica d’omertà ch’è condivisa – come si è visto – dal
Pastore tebano, e che in forme diverse interessa tutti i comprimari: Giocasta, con la sua istintiva adesione a un’ingenua o confortante teoria della casualità e dell’imperscrutabilità universale
(vv. 977-983), che quietamente convive con atti d’irriflessa devozione agli dèi (vv. 711s., 724s., 911-913: cf. infra, XC); Creonte,
con i suoi pomposi appelli alla necessità di tacere ciò che si
ignora (vv. 574, 1520)130 ; il Coro stesso, che proclama la propria
incapacità di comprendere (vv. 484-505), se non addirittura una
volontaria resa intellettuale di fronte alle ragioni di chi comanda
(vv. 527, 530); e ancor prima Polibo e Merope, ritratti in flashback
128
Non a caso Voltaire, Lettre III, cit., 27, presume che i due oracoli siano del tutto simmetrici e che il silenzio di Giocasta sia un puro trucco
di Sofocle (a pudicizia della regina lo attribuiscono invece Maddalena,
303 o Pucci, 16). Ma una fittizia uniformazione delle due profezie sarà
effettuata solo dalle fonti più tardive: cf. per es. Nic. Dam. FGrHist
90 F 8 (su cui Delcourt, Oedipe, 15); similmente procederanno gli
epigoni moderni, a partire dallo stesso Voltaire: cf. Halter, 43-45. La
solita correzione implicita in Gide, per voce di Tiresia: «Egualmente
l’oracolo aveva predetto a Laio che sarebbe stato ucciso da suo figlio.
Edipo, Edipo trovatello! Monarca empio!» (Teatro, cit., 334).
129
La domanda è posta, fra gli altri, da Lattimore, 87s.; severo sui
silenzi di Tiresia, giudicati artificiosi, è Roussel, Oedipe, 101. Contra,
molto acutamente, Ronnet, 60 n. 2.
130
Cf. Knox, Oedipus, 188.
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quali archetipi di una generale tendenza a occultare la verità131.
Proprio a paragone di tale omertà diffusa, e intenzionalmente
rimarcata, acquista consistenza il personaggio di Edipo132: e non
si potrà negare a Sofocle di aver saputo adibire, a tale scopo, accurati espedienti etopoeitici, che consentono al complesso meccanismo testuale di trovare in sé le proprie ragioni.
Un discorso analogo varrà anche per quei due «accorgimenti» che
– a voler usare la delicata espressione di Burkert – Sofocle «si è
consentito»133: il fatto che il testimone dell’assassinio coincida con
il pastore che ha salvato Edipo in fasce, e il fatto che il messaggero
di Corinto coincida con l’altro custode di greggi che ha accolto il
neonato e l’ha condotto sull’opposto versante del Citerone. Due
tratti inverosimili? Certo, due tratti funzionali all’economia della
trama e alla finale deflagrazione dell’anagnorisis tragica, e tuttavia
perfettamente preparati dal testo: il servitore tebano è tra i più
fidati schiavi della famiglia reale – è nato in casa di Laio, afferma
con orgoglio (v. 1123), e tratta personalmente con Giocasta, forte
dei meriti acquisiti (vv. 760-764) – sicché non stupirà vederlo
svolgere alcune delle mansioni più delicate, dall’esposizione di un
figlio indesiderato alla scorta personale del sovrano134. Quanto al
131
Cf. in proposito già Bignone, 14s. e Pohlenz, I, 253; si vedano inoltre Waldock, 154s.; Whitman, 139s.; Adams, 103; Maddalena, 307;
Paduano, Lunga storia, 21 («autentica, insistente e protettiva “congiura del silenzio”»), 106s., 111. Di scarsa utilità F. Maiullari, «Quaderni
Urbinati di Cultura Classica» n.s. LXIV (2000) 45-85.
132
Ne dà una robusta versione drammatica J. Anouilh, Antigone, in
Antigone. Variazioni sul mito, a c. di M.G. Ciani, Venezia 2000, 105:
«Antigone. Come mio padre, sì! Noi siamo di quelli che fanno le
domande fino in fondo. Fino a che non resta veramente la più piccola
possibilità vivente di speranza»; cf. in proposito Lesky, 336.
133
Burkert, Edipo, 97. Per queste «sundry ‘punctualities’» cf. anche
Waldock, 164.
134
Questa insistita caratterizzazione del Pastore è posta nella giusta
evidenza da Greene, 84.
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Introduzione
Messaggero corinzio, il titolo di ἄγγελος non deve ingannare: nulla
fa pensare che egli sia un inviato ufficiale della città; egli viene
per ottenere i favori del futuro sovrano, confessa senza remore
(vv. 1002-1006)135, e l’affabilità a tratti irriguardosa che mostra
nei confronti di Edipo ha quale presupposto l’antica vicenda del
ritrovamento: un presupposto che non tarda a rivelarsi nella sua
tonalità confidenziale e paternalisitica, se non paterna136, e nel
toccante quanto intempestivo orgoglio di cui dà mostra additando
in Edipo, ora adulto e sovrano, il povero trovatello di un tempo
(v. 1145). Due personaggi, si dovrà ammettere, tratteggiati con
piena verosimiglianza caratteriale e circostanziale, benché posti
al servizio del meccanismo tragico.
Quanto agli stessi ἄλογα, «tratti irrazionali», che Aristotele confinava ἔξω τοῦ μυθεύματος, «al di fuori della struttura narrativa», sarà
meglio riconoscere in essi incongruenze convenzionali, obbedienti
alle leggi interne della narrazione drammatica; in effetti, impugnare
come inverosimili le ‘autobiografie parallele’ che Edipo e Giocasta
si scambiano ai vv. 707-813, dopo anni e anni di apparente silenzio coniugale, significa scordare le convenzioni teatrali più ovvie,
prima fra tutte quella tipica ridondanza informativa che maschera
da comunicazione intradiegetica – fra personaggio e personaggio,
cioè fra ‘narratore’ e ‘narratario’ – quella che è in realtà comunicazione extradiegetica, fra autore e pubblico, cioè fra ‘destinatore’
e ‘destinatario’. Se nulla si concede a tale convenzione, tanto vale
chiedersi come mai, nel Filottete, Odisseo illustri a Neottolemo le
135
Su questo punto si vedano per es. Cameron, 72 e Ahl, 171s.
Essa si rivela soprattutto al v. 1008, dove all’improvviso il Messaggero si rivolge a Edipo con l’apostrofe παῖ, «ragazzo» o «figlio mio». Il
conseguente γεραιέ, «vecchio», di Edipo (v. 1009) intende essere, probabilmente, una pronta reazione al tono informale dell’interlocutore;
ma nello stesso tempo esso sancisce i rispettivi ruoli in termini di classi
d’età che annunciano, in qualche modo, l’imminente rivelazione: cf.
per es. Seale, 240 e infra, 165 n. 113.
136
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premesse della loro missione quando entrambi sono già approdati
a Lemno (vv. 1-12)137; o come mai, nell’Antigone, Ismene senta il
bisogno di rammentare alla sorella la recentissima morte di Eteocle
e Polinice (vv. 12s., 55-57). Semmai, si potrà osservare come questa
sorta di prologo ritardato – che del prologo mantiene i tratti di
ridondanza informativa138 – sia da Sofocle perfettamente rifuso e
adattato per aderire al contesto d’appartenenza, e cioè all’azione
già avanzata, se non addirittura ai caratteri dei due interlocutori:
e ciò tramite gli accorti tocchi etopoietici che mostrano Giocasta
intenta a minimizzare l’accaduto (cf. supra, n. 126), rievocato solo a
titolo di occasionale esempio, ed Edipo costretto invece a rivelare,
quasi controvoglia (vv. 771s. ἐς τοσοῦτον ἐλπίδων / ἐμοῦ βεβῶτος,
«visto che ho tanti / presentimenti»), antefatti penosi (v. 800 καί
σοι, γύναι, τἀληθὲς ἐξερῶ, «a te, donna, dirò la verità»)139. Fra convenzioni drammatiche e pretese di verosimiglianza, insomma, un
buon compromesso.
137
I vv. 11s. («ma perché dire tutto questo? Non è il momento per
lunghi discorsi») sottolineano la perfetta consapevolezza della convenzione: cf. e.g. J. Kittmer, «Materiali e Discussioni» XXXIV (1995)
9-35: 12s. Per il paragone fra i due passi cf. anche Lesky, 326.
138
E nel prologo, non a caso, collocava Aristotele l’episodio (Rhet. II
1415a), con un serio ma significativo lapsus mnemonico. Per l’effetto
di convenzionale ‘trasparenza’ di queste e simili scene cf. Waldock,
91-94, 161s., 165s. Per una riflessione più generale cf. per es. K. Elam,
Semiotica del teatro, trad. it. Bologna 1988, 152s.
139
In ciò le estremizzazioni operate da Gide e da altri (cf. supra, XLV
n. 110) colgono almeno qualche aspetto del testo originale. Questa
linea è sviluppata, con più di un eccesso, da Gregory, 142 e passim (e
cf. anche Ahl, 18 e 142). Si vedano semmai Knox, Oedipus, 92 e più in
generale le riflessioni di Di Benedetto, 85-90 sul ruolo della «paura»
nello svolgimento del dramma (su linea analoga già Kitto, Greek Tragedy, 178s.); cf. anche infra, Cs. n. 242.
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Introduzione
Indizi, coincidenze
Di errori di Sofocle non sarà dunque il caso di parlare, escluso
quanto si trova ἔξω τοῦ μυθεύματος, «al di fuori della struttura
narrativa», o meglio entro gli obblighi della comunicazione
teatrale. Può sembrare preferibile, semmai, rilevare gli errori di
Edipo, ripetendo magari con Carrière che «Sofocle non deve
rispondere delle debolezze umane dei suoi eroi; tacciare lui in
persona d’illogicità significa confonderlo con i suoi personaggi»140. Ma si può propriamente affermare che Edipo commetta
errori o che egli mostri, sul piano intellettuale, indiscutibili
«faiblesses humaines»? E quanto hanno a che fare tali debolezze con le presunte colpe – caratteriali e politiche, oltre che
intellettuali – attribuite generosamente al personaggio da un
sin troppo fortunato filone critico?
Che l’ignoranza sia un fattore indispensabile in quella che è
ormai, per antonomasia, tragedia della conoscenza, è una placida ovvietà: fattore indispensabile per la caratterizzazione del
protagonista e dei comprimari, per lo sviluppo del meccanismo
narrativo, per l’intera dinamica del rapporto uomo/dio che
struttura la tragedia141. Al punto che il concetto aristotelico di
140
Carrière, 13. Sui presunti errori di Edipo è tornato da ultimo Bettini, 114-116. La questione (errori di Sofocle o errori di Edipo) è già
nettissima in Vellacott, 122-124.
141
«[Edipo] è davvero l’“ignorante Edipo” che, con modestia, egli crede
di essere stato un tempo (397)», commenta Bowra, 190; «tutto ciò che
Edipo impara – e tutto ciò che deve imparare – è la sua ignoranza», scrive
Knox, Oedipus, 49; infine, Edipo è «simbolo dell’umana ignoranza» per
Winnington-Ingram, 319. Fra i mille altri possibili, e con diverse sfumature, cf. Pohlenz, I, 253s.; Turolla, 82-84; Perrotta, 186s.; Kamerbeek, 24s.;
Diller, passim; Drexler; C. Segal in Gentili-Pretagostini, 461; Paduano,
Lunga storia, 111; B. Zimmermann in Sophokles. König Oidipus, übers. v.
W. Willige, überarb. v. K. Bayer, Düsseldorf-Zürich 1999, 130-132.
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hamartia, nell’esegesi ‘intellettualistica’ che si è ormai imposta
per dominante, ha trovato nell’Edipo re – ancor più che nel
capitolo tredicesimo della Poetica – uno dei suoi principali
punti d’appoggio142. Senza tale ignoranza, che è dato strutturale, non si darebbe ragione per una trama tragica che in una
progressiva «presa di coscienza»143 consiste e si risolve. Senza
tale ignoranza, che è insieme premessa e tema ricorsivo, non si
darebbe l’indagine (ζήτημα, v. 278) che Apollo impone e Edipo
si assume144. All’ignoranza quale semplice premessa hanno
guardato tutti coloro che, con un cliché fra i più durevoli, hanno
paragonato l’Edipo re al genere poliziesco, alla detective story e
anzi al canonico wodunit: un confronto che è alla radice – lo
osservava già Bignone – di numerose cacce all’errore moderne e contemporanee145. Ma l’Edipo re si oppone fermamente
142
Per l’opposizione fra esegesi morale e intelletuale dell’hamartia aristotelica, cf. P. van Braam, «Classical Quarterly» VI (1912) 266-272; Dawe,
Some Reflections; T.C.W. Stinton, «Classical Quarterly» XXV (1975) 221254; Bremer, passim. Per il ruolo dell’Edipo re nel dibattito aristotelico, si
vedano soprattutto M. Ostwald in AA.VV., Festschrift Ernst Kapp, Hamburg 1958, 93-108 e L. Golden, «Classical World» LXXII (1978) 3-12;
un’ampia ricostruzione del dibattito moderno in Lurje, 78-91, 118-127
e passim. Per la pericolosa vaghezza di Aristotele e per le gravi ipoteche
critiche causate dal concetto di hamartia si veda quanto osservano Winnington-Ingram, 323s.; Manuwald, 4s.; Di Benedetto-Medda, 353-355;
per un’esemplare applicazione del concetto all’Edipo re si veda Bremer,
159-161, le cui difficoltà sono per molti aspetti istruttive.
143
Così Propp, 128, attentissimo a distinguere la fabula presofocolea
dall’intreccio che ne fornisce Sofocle; cf. in proposito anche Gigante,
Dalla parte, 69.
144
Knox, Oedipus, 78-98, ha dimostrato che il modello per l’indagine avviata da Edipo è l’escussione testimoniale tipica del processo attico; ulteriore documentazione in Greiffenhagen e – con più cautela – in Lewis.
145
Bignone, 4. L’inserzione dell’Edipo re nella genealogia del ‘poliziesco’ è per lo più un atto d’ufficio; fra i molti rinvii possibili, sul
versante dell’antichistica si vedano Schadewaldt, 280; Jones, 201 (con
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Introduzione
all’assimilazione, non tanto perché esso infrangerebbe quella
legge del ‘giallo’ che vieta l’identificazione del detective con il
colpevole146, quanto per altre, più vistose e perciò più trascurate
ragioni: perché il pubblico conosce già il colpevole, tanto per
cominciare147; e perché l’ignoranza non è qui solo premessa,
perplessità); Vernant, Edipo senza complesso, 82; B. Gentili in GentiliPretagostini, 122 (e Id. in Uglione, 135); Beer, 99; Burkert, Edipo, 87;
Serra, 37. Utili panoramiche offrono Bettini, 107-124 e C. Petrocelli
in L. Canfora (a c. di), Studi sulla tradizione classica per Mariella Cagnetta, Roma-Bari 1999, 391-412. Sul versante della teoria letteraria,
piace citare almeno N. Boileau, Le roman policier, Paris 19942, 12s.;
J. Dubois, Le roman policier ou la modernité, Paris 1992, 205-218; Y.
Reuter, Il romanzo poliziesco, trad. it. Roma 1998, 14. Fra i classici
critici dedicati al ‘giallo’, nettamente contrari all’assimilazione A. del
Monte, Breve storia del romanzo poliziesco, Roma-Bari 1962, 21; E.
Mandel, Delitti per diletto. Storia sociale del romanzo poliziesco, trad.
it. Milano 1997, 63. L’assimilazione è presupposta, sviluppata e resa
aporetica da Les Gommes (1953) di Robbe-Grillet (su cui cf. Paduano, Lunga storia, 192-203; da ultimo P. Dubois, «Yale French Studies»
CVIII, 2005, 102-115). Recentemente, una rivendicazione delle istanze conoscitive del poliziesco – a partire dall’Edipo re – ha offerto, con
molte ovvietà, A. Perissinotto, La società dell’indagine, Milano 2008,
51-70. Sulla primogenitura della trovata si discute: cf. Lévi-Strauss,
La vasaia, 183 n. 2, ripreso da Bettini, 112 n. 20, che risale sino a
Gaboriau. Un saggio acuto sulle premesse socio-economiche borghesi
e sui conseguenti dati strutturali e attanziali del ‘giallo’ – tali da non
conciliarsi se non superficialmente con la trama sofoclea – è offerto da
R. Stracuzzi, «Poetiche» I (2001) 111-131.
146
Lo ha ricordato, efficacemente, Bettini, 114-116, sulla scorta autorevole – in fatto di polizieschi – di S.S. Van Dine e con rinvio a T.
Todorov in La trama del delitto. Teoria e analisi del racconto poliziesco,
a c. di R. Cremante e L. Rambelli, Parma 1980, 159.
147
La palmare osservazione è di un maestro del genere: cf. G.K. Chesterton, Come si scrive un giallo, trad. it. Palermo 2002, 36. Contro
l’assimilazione dell’Edipo re alla detective story si vedano anche Daux,
116s. e Dodds, 40s.
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appunto, ma tema esibito e ribadito: sempre e strutturalmente
Edipo non vede e non comprende, e la sua ignoranza rompe, a
ogni snodo della trama, la solidarietà – o comunque il necessario rapporto di complicità e cooperazione – fra detective e
pubblico. Il pubblico sa sempre più del presunto inquirente: è
il ben noto meccanismo per cui tutte le informazioni e tutti gli
indizi forniti dai comprimari, così come i pronunciamenti dello
stesso protagonista, s’indirizzano sempre un doppio destinatario; il meccanismo per cui tutta la comunicazione si svolge
su un doppio livello: quanto è chiaro per il pubblico, non lo è
per Edipo; e viceversa (cf. supra, XLIII n. 104). Nel divario fra
la conoscenza di Edipo e quella del pubblico si gioca tutta la
potenza dell’Edipo re; e tutto l’effetto di consolante padronanza
che, duce Freud, il pubblico trae dallo spettacolo: un punto su
cui torneremo (infra, CXXXVs.).
Ma di che ignoranza si tratta, più precisamente? È davvero, tale
ignoranza, un errore intellettuale? Conviene ripartire ancora
dalla sintesi offerta da Dawe, le cui conclusioni sono offerte in
forma d’elenco: un quadro sinottico di così spietata e volterriana
ironia che non ci si trattiene dal parafrasarlo. All’altezza del v.
1076 – osserva l’editore sofocleo – Edipo possiede almeno le
seguenti informazioni: a) egli è pressoché certo di aver ucciso
Laio; b) egli sa che Laio doveva essere ucciso dal figlio; c) egli
sa che lui stesso doveva uccidere suo padre; d) egli sa che Polibo
e Merope non sono i suoi genitori; e) egli sa che Laio e Giocasta
hanno esposto un bambino con i piedi mutilati; f) egli sa di aver
avuto, da bambino, i piedi mutilati; g) indipendentemente da
tutto questo, ha già saputo ogni verità dall’infallibile Tiresia148.
Così elencati, i dati non possono che impressionare, o far sorridere; e sembrerebbero esserci ragioni a sufficienza per dire,
con Voltaire: «quest’Edipo solutore d’enigmi non capisce le cose
148
Dawe 2006, 16.
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Introduzione
più chiare»149. Ma se tale censimento non può indurre, come si è
visto, a trasferire eventuali manchevolezze a Sofocle, esso rischia
di essere parziale anche in riferimento a Edipo: parziale, perché
elenca solamente le informazioni che dovrebbero forzare il supposto detective alla conclusione inevitabile; e omette di citare le
contro-informazioni di cui Edipo è in possesso, e che rendono
tale conclusione impossibile: anzi, a rigore, del tutto illogica.
Le si veda in analogo elenco: a) Edipo sospetta di aver ucciso
Laio, ma sa anche – per menzogna originaria, per voce unanime,
per conferma oracolare – che gli uccisori sono stati più di uno
(vv. 107, 121s., 842s., 848-850); sa inoltre che all’agguato in cui
è caduto Laio si è sottratto il testimone, mentre crede di non
aver lasciato alcun superstite dopo lo scontro al trivio (v. 813)150 ;
l’unica coincidenza fra i due eventi, come noti a Edipo, risiede
a rigore proprio nel trivio: ed è l’unico dettaglio su cui Edipo
notoriamente si appunta, con una logica che pare a Giocasta
troppo affrettata (vv. 852-858, 914-917); b-c) egli conosce entrambi gli oracoli, ma sa anche che il figlio di Laio è morto (vv.
717-719, 855s.); sa inoltre, appunto, che Laio non è stato ucciso
da una sola persona, e la differenza fra l’accaduto e il vaticinato
è stata rimarcata con decisione da Giocasta (vv. 848-850)151; de-f) egli sa che Polibo e Merope non sono i suoi veri genitori; sa
149
Voltaire, Lettre III, cit., 27.
Giocasta ha parlato di cinque componenti (v. 752) per la scorta
di Laio; l’esclamazione di Edipo al v. 754 («ecco, ora è chiaro») non
implica affatto che egli sia giunto allo stesso computo, come vuole
Salmon, 156: Edipo si appunta solo su κῆρυξ e ἀπήνη (v. 753), poi rievocati dallo stesso protagonista con esplicito rinvio al discorso della
sposa (vv. 802s.). Per i problemi connessi al computo degli accompagnatori cf. anche infra, 160s. n. 93.
151
Cf. in proposito quanto osservano Greene, 82 e Maddalena, 305s. e
333 n. 12. Su alcune delle contro-informazioni che impediscono a Edipo
di trarre conclusioni precoci è tornato, con acume, Manuwald, 23-25.
150
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di essere stato raccolto, infante, sul Citerone; sa che Laio ha deciso l’ekthesis di un figlio destinato a ucciderlo; ma da Giocasta
Edipo ha ricevuto informazioni che contrastano radicalmente
con quelle fornite dal Messaggero: la regina ha parlato di generici «altri» (v. 719), non ha menzionato il Citerone152, ha dato per
certa, e comunicato come mero fatto, la morte del neonato. Non
a caso Giocasta, che possiede tutte le informazioni necessarie, e
nessuna controinformazione atta a turbare o a interrompere il
processo logico, conclude prima di Edipo (vv. 1056-1072)153; e
non a caso Edipo, una volta chiarito il ruolo del Pastore tebano,
si affretta a ripeterne la convocazio-ne (vv. 1054s.). Nemmeno il
dettaglio relativo ai piedi mutilati può essergli d’aiuto: Giocasta
si è espressa, a riguardo, con evasivi eufemismi (v. 718); quanto
a Edipo, tutto mostra che egli, da adulto, presta ben poca attenzione a un handicap fisico che il testo minimizza o addirittura
esclude; tanto meno egli ha mai connesso tale difetto alla sua
infanzia, o addirittura al suo nome (cf. vv. 1031-1037 e supra, n.
79); g) quanto alle rivelazioni di Tiresia, esse – nella loro oscurità – lasciano intendere soltanto ciò che Edipo puntualmente
e perfettamente intende: l’accusa di regicidio; ma Edipo resta
convinto di non aver mai visto (v. 105) il re Laio: il prematuro
eccesso di verità, come si è detto, cozza con le verità note, e il
séguito della rivelazione risulta irricevibile dopo un’accusa tanto
lampante da risultare abbacinante.
152
Contrariamente a quanto afferma – con svista significativa – Waldock, 163. L’unica precedente evocazione del monte si deve a Tiresia
(v. 421): ma l’espressione è ambigua e retoricamente elaborata (cf. infra, 151 n. 57).
153
Cf. Paduano in Curi-Treu, 53s. e Manuwald, 26s.; ma la primazia
di Giocasta nella risoluzione dell’inchiesta si traduce, non a caso, in
una reiterata volontà di non sapere: cf. supra, LIII. Si veda anche Lattimore, Oedipus, 107s., sul primato intellettuale che Sofocle concede
a Edipo sopra tutti i comprimari.
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Introduzione
Insomma, ciò che impedisce a Edipo di giungere – prima del
dialogo con il Pastore – alla sua tragica agnizione, è esattamente
il problema che egli enuncia all’atto del bando: è l’assenza di un
σύμβολον (v. 221), cioè delle informazioni necessarie a provare
l’identità fra individui apparentemente diversi, a «far combaciare» (συμβάλλειν) dati che si ostinano a divergere, se non a
contraddirsi reciprocamente154. Tali dati, che si desumono da
indizi testuali ben calibrati e abilmente distribuiti da Sofocle,
inducono non solo a scagionare il tragediografo da presunte
fautes narrative, ma anche a escludere che il testo intenda davvero mostrare Edipo come vittima di un persistente errore
intellettuale. Ben altra cosa è ammettere che Sofocle intenda
rappresentare, agli occhi del pubblico, un vero e proprio spettacolo d’ignoranza. Ma sarà Edipo stesso – a tempo debito e non
prima – a dissipare tale ignoranza: quando ogni σύμβολον sarà
al suo posto, e quando la «macchina infernale» – macchina del
testo, prima che del fato – concederà di sviluppare deduzioni
sino a quel punto, e a fortiori, impossibili.
Un Edipo ignaro, dunque, ma anche avverso a ogni forma
d’ignoranza; e ciò su un duplice piano: sul piano del metodo,
innanzitutto, giacché Edipo è il solo a mettere in opera sistematicamente e testardamente un procedimento di induzione o di
abduzione che i comprimari intorno a lui praticano soltanto con
imperfette applicazioni. È Giocasta (v. 916) a rimproverargli di
non sapere valutare sul piano indiziario (τεκμαίρεσθαι) il presente
a partire dal passato (τὰ καινὰ τοῖς πάλαι): ma l’enunciazione del
metodo corrisponde, in lei, a una frettolosa archiviazione di ogni
Per il valore di σύμβολον, al v. 221, come marca d’identificazione, cf.
per es. Kamerbeek, ad l. e Segal, Oedipus, 65s. Come osserva Whitman,
138, «the genius of this famous plot lies in the fact that the evidence on
which the various characters draw their various conclusions leads truly
to those conclusions». Sul presunto «aveuglement» di Edipo ha osservazioni pertinenti – contro Allègre, 120 e Bowra, 202 – Ronnet, 62-66.
154
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indizio profetico sulla base dei presunti fallimenti in cui sarebbe
incorsa, nel passato, l’arte mantica (cf. vv. 708s.)155. Il metodo, in
mano a Edipo, è invece rigorosamente razionale: e pecca semmai per troppo rigore, sin da quando egli si rifiuta di attribuire
al caso l’agguato di cui Laio sarebbe stato vittima (vv. 124s.), e
inizia a sviluppare quell’interpretazione politica del regicidio
che deflagrerà dinanzi alle inverosimili rivelazioni di Tiresia
(vv. 345-349); un eccesso di metodo, questo, su cui torneremo
(infra, CXXVIs.). Ma Edipo è avverso a ogni forma d’ignoranza
anche e soprattutto sul piano delle intenzioni, della volontà,
dell’habitus: è solo in virtù della sua tenacia inquisitoria – contro
le omertà di Tiresia e del Pastore, contro le affrettate conclusioni
di Giocasta, contro la stessa pigrizia di Creonte e dei Tebani tutti
(vv. 128s., 255-258) – che la verità può infine emergere156.
E la verità, infine, emergerà, quando i σύμβολα – epurati da false
informazioni e da continue resistenze – giungeranno a coincidere
compiutamente. Si comprende bene come all’esaustivo dispiegamento del metodo, condotto sino alle sue ultime conseguenze, congiuri proprio quella struttura ‘duplicata’ dell’intreccio
cui ci si richiamava sopra (XLI-XLIV). L’intreccio stesso altro
non è che il tentativo, tragicamente coronato dal successo, di
adattare l’una all’altra (συμβάλλειν) storie in apparenza diverse:
il regicidio narrato dal Pastore e l’omicidio compiuto da Edipo;
155
Jebb, ad l.; Hulton, 115; Knox, Oedipus, 123; Paduano, Lunga storia, 115. Si vedano inoltre le puntualizzazioni di J. Hangard, «Mnemosyne» XXI (1968) 418-420 e supra, LIIIs..
156
È la caratteristica su cui sarà costruito, per inversione, il Creonte di
Anouilh, che vale la pena tornare a citare: «Se domani un messaggero
sozzo scende dal fondo delle montagne per annunciarmi che non è
proprio del tutto sicuro della mia nascita lo pregherei semplicemente
di tornarsene da dove è venuto e non me ne andrò per così poco a
piantare gli occhi in faccia a tua zia e a mettermi a confrontare le date»
(Antigone, cit., 92).
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l’abbandono del figlio di Giocasta e l’abbandono di Edipo;
il vaticinio reso a Laio e il vaticinio reso a Edipo. Storie che
il testo continuamente accosta e lascia correre in parallelo157;
storie che apparentemente si elidono, perché dettagli inesatti
o informazioni mancanti ne impediscono la perfetta sovrapposizione; storie che infine si rivelano come l’ingannevole duplicazione di una sola storia.
La coincidenza fra le storie è fatalmente siglata dalla riconosciuta
coincidenza fra il testimone del regicidio compiuto da Edipo e il
testimone dell’ekthesis subita da Edipo, identificati nel personaggio
del Pastore tebano158. In lui le storie parallele convergono, le piste
collaterali si concludono in un solo interrogatorio: nel personaggio
come nello sviluppo delle vicende la reductio ad unum è finalmente
realizzata, e solo allora – con un ritardo rimproverato dalla critica
volterriana, ma necessitato dall’intreccio sofocleo – il teste può
comparire dinanzi al giudice, che si rivela inquisito e colpevole. A
questo proposito, si è spesso ripetuto che l’indagine di Edipo – a
partire dal terzo episodio, con l’irruzione del Messaggero corinzio
– muterebbe improvvisamente oggetto: dalla ricerca del regicida
alla ricostruzione della propria genealogia, cui il protagonista si
vota esplicitamente al v. 1059, peraltro con la stessa espressione
(φανῶ, «porterò alla luce»; cf. anche v. 1063) già impiegata per
l’inchiesta originaria (v. 132 ἐγὼ φανῶ, «io porterò alla luce»).
Ciò è senz’altro vero, ed è a questo fine che una sorta di ‘prologo
ritardato’ marca, nel confronto fra Edipo e Giocasta, un nuovo
inizio dell’inchiesta (cf. supra, LVI); ma lo scarto avviene appunto
157
Il caso principe, come si è detto, è rappresentato dalle ‘autobiografie parallele’ di Edipo e Giocasta: cf. supra, LIs. Sulla struttura
duplicata dell’Edipo re e sulla progressiva coincidenza ‘simbolica’ di
storie parallele ha osservazioni molte acute M. Foucault, La verità e le
forme giuridiche, trad. it. Napoli 2008, 58-63.
158
Cf. supra, LIV. Si veda inoltre C. Segal in Gentili-Pretagostini, 473s.;
Lesky, 335, per la «concentrazione degli eventi» nello snodo finale.
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quando testimone del regicidio e testimone dell’ekthesis sono
giunti a coincidere, per ammissione del Coro (vv. 1051-1053)159: e
quando Edipo ha già sospettato – contro le resistenze di Giocasta
– d’essere il regicida (vv. 813-833); sicché, agli occhi dello spettatore, le due diverse inchieste sono l’ininterrotta prosecuzione di
una sola indagine. E Laio – vittima manifesta in un caso, complice
adombrato indirettamente dal Messaggero nell’altro (v. 1042) – è
un ulteriore nesso fra le due vicende.
Il tema di Laio, da questo punto di vista, è davvero sottoposto
a un «gradual development»160 che non conosce interruzioni né
causa diversioni d’intreccio. L’intreccio stesso, più che costituire
un abbandono del modello bipartito – del cosiddetto «diptych
play» – tradizionalmente riconosciuto nell’Antigone, nell’Aiace o
nelle Trachinie, ne offre un’originale variazione o evoluzione161:
159
E il Coro come lo sa? Una domanda che, nell’ansiosa caccia agli errori sofoclei, ci si è talora posti (cf. per es. Perrotta, 214). Ma il Coro si
limita a dire οἶμαι, «credo» (v. 1051); del resto, che il testimone fosse un
«pastore», un βοτήρ, era già stato spiegato da Giocasta (vv. 758-764) e
ribadito da Edipo (v. 837). La diffusa caratterizzazione del testimonePastore come fidatissimo uomo di Laio (cf. supra, LIV) fa il resto.
160
Webster, 107. La problematica relativa all’identità dei genitori è del
resto ancipata – con ulteriore effetto di continuità – al v. 437: cf. Cameron, 49. Il miglior giudizio sulla coimplicazione dei due interrogativi posti a Edipo – «chi ha ucciso Laio?» e «chi sono io?» – è in Reinhardt, 118. Si veda anche Greene, 80s. Che Edipo, dinanzi al Pastore
tebano, non si interessi più al regicidio ma solo alla propria identità
di potenziale parricida, è dunque perfettamente comprensibile: non si
dovrà dichiarare sospeso e irrisolto – con gravose implicazioni filosofiche – il caso del regicidio, come fa S. Goodhart, «Diacritics» VIII/1
(1978) 55-71, in uno dei più fortunati contributi edipici del decostruzionismo americano (cf. Rudnytsky, 350-357, con giuste critiche).
161
Per il modello ‘a dittico’, cf. le pagine canoniche di Waldock, 49-79 e
di Kirkwood, 30-63; per il distacco che rispetto al modello opererebbe
l’Edipo re – «dramma fortemente lineare» – cf. Gigante, Dalla parte, 71. Di
opinione analoga, per es., Webster, 168; Pohlenz, I, 267; Kamerbeek, 23.
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ne tramuta l’impianto in una struttura ‘a dittico speculare’ rigorosamente fondata sulla simmetria invertita, dove la seconda
parte ripete la prima fino a far coincidere, per necessità, storie o
fabulae in apparenza diverse. È in qualche modo il modello enucleato da Aristotele: il modello in cui la ‘peripezia’ (περιπέτεια),
e cioè «il mutamento delle azioni rappresentate (πραττόμενα) nel
loro opposto», coincide in tutto e per tutto con il «riconoscimento» (ἀναγνώρισις)162. Ovvero, in base a quanto si è detto: il
modello in cui l’ἀναγνώρισις, il «riconoscimento», consiste esattamente nel far coincidere in una sola storia storie diverse, tutte
già accadute, e fino a quel momento erroneamente distinte; la
‘peripezia’ dell’Edipo re non può che essere ‘riconoscimento’,
nella misura in cui l’azione della tragedia si risolve in una ricostruzione d’azione, in una «analisi tragica», in una conoscenza
progressiva e progressivamente dispiegata.
Se le storie ‘duplicate’ si radunano e coincidono, Edipo – primo
agonista indiscusso e ragione d’unità per la tragedia tutta163 – è
costretto a duplicarsi o meglio a esibire la propria intrinseca ‘duplicità’: inquisitore e colpevole, re e regicida, ‘padre della patria’
e parricida164, e via elencando, secondo un insieme di polarità
162
Su ‘peripezia’ sofoclea e aristotelica cf. Jones, 176. La struttura
speculare è rimarcata dalle riprese verbali – talvolta patenti – che
connettono la prima parte alla seconda: cf. da ultimo G. Massimilla,
«Studi Italiani di Filologia Classica» s. III, XIX/1 (2001) 167-174.
Un’analisi accurata di tali fenomeni in D.H. Porter, «Transactions and
Proceedings of the American Philological Association» CII (1971)
465-496, e in part. 479-488; cf. anche supra, XLIIs.
163
Il 77,5% dei versi – e cioè 1187 su 1530 – spetta a Edipo (i dati,
derivati da V.N. Jarcho, sono in Gigante, Dalla parte, 71). Edipo non
lascia quasi mai la scena, se non durante le brevi sezioni iniziali del
secondo e del terzo episodio (cf. Kamerbeek, 23); si vedano inoltre
Pohlenz, I, 251; Knox, Oedipus, 14; Jones, 204-207.
164
Per le connotazioni ‘paterne’ di Edipo, cf. il τέκνα incipitario (v. 1)
e infra, LXXXIV.
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che la critica ha ampiamente enucleato e talvolta elevato, impropriamente, a principio costitutivo del ‘tragico in sé’165. Il principio,
semmai, è costitutivo dell’Edipo re: a tutti i livelli dell’intreccio e
dello schema personarum. Tutto ciò fa dell’Edipo re – del «dramma», non della «leggenda» – un vero e proprio ‘mito di regalità’ al
contrario: se nella fabula canonica da cui siamo partiti – comune
ai diversi Ciro, Romolo, Teseo, etc. – la scoperta dell’identità
equivale alla conquista del trono, per Edipo, al contrario, la
conquista del trono è anteriore a ogni compiuta autocoscienza, e
l’agnizione si traduce in una drastica perdita del potere166. Anche
per questa via si mostra come la presunta fabula originaria, ridotta
ai suoi mitemi costitutivi, poco illumini l’intreccio fornitone da
Sofocle. Intreccio, a ben vedere, piuttosto ben fatto167.
165
Si veda soprattutto Vernant, Ambiguità; con più equilibrio Jones, 212214 descrive il «quasi-mathematical mode» attuato da Sofocle nell’Edipo
re. Contro il principio dell’«ambiguità» elevato a legge della tragedia valgono le obiezioni espresse a più riprese da Di Benedetto (Di BenedettoMedda, 359-367; Id. in Euripide. Medea, Milano 1997, 62-75); e sulla
sostanzializzazione del ‘Tragico’, le giuste ironie di Buxton, 42s. Rischiose
generalizzazioni sulla ‘duplicità’ di Edipo e dei Labdacidi sono fornite,
quasi esemplarmente, da U. Curi, Endiadi. Figure della duplicità, Milano
1995, 13-111; su una linea analoga è ora M. Leonard, «Phoenix» LIX
(2005) 133-142. Si veda anche infra, CVIs. nn. 263 e 264, per i nessi che
questa linea interpretativa intrattiene con il tema del ‘capro espiatorio’.
166
Ciò è splendidamente osservato da Segal, Tragedy, 224 ed equivale
alla confutazione di ogni esegesi ‘mitematica’ dell’Edipo re, a partire
da quella di Delcourt, Oedipe. Su ciò si veda infra, CXV-CXXVIII.
167
«A play that is plot in excelsis», commenta Waldock, 149: ma la
strutturazione del plot è essa stessa funzione della fabula nel modo in
cui Sofocle ha saputo riorganizzarla; cf. anche quanto osserva Flashar,
120-131 e passim.
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Edipo: tiranno?
Edipo, a quanto sembra, andrà scagionato da patenti colpe intellettuali; le informazioni in suo possesso non consentono, a ogni
snodo della trama, conclusioni certe, salvo porsi, erroneamente,
dalla parte dello spettatore onnisciente. Per contro, laddove è il
tempo del sospetto, Edipo sospetta prima di ogni altro; laddove è
il tempo delle conclusioni, Edipo tragicamente conclude. E a chi
ritiene che Sofocle abbia inteso rappresentare un Edipo incapace
– per difetto intellettivo o per traviamento caratteriale – di comprendere avvisi e indizi, va opposta l’evidenza palmare del testo: è
Edipo che a ogni tratto vuole sapere, contro le rinunce, le resistenze o gli espliciti consigli dei suoi interlocutori; è Edipo, infine, che
riesce a sapere: la tragedia non mostra altro inquirente né concede
ad altri l’onore orrendo della scoperta; la denuncia di Edipo è
una solenne autodenuncia: «ecco chi sono: nato / da chi non mi
doveva generare. Vissuto accanto a chi non mi doveva / vivere
accanto. Chi non dovevo uccidere, io l’ho ucciso» (vv. 1184s.).
Con la rovina di Edipo – in qualità di colpevole – il successo di
Edipo – in qualità d’inquirente – è manifesto e manifestamente
sancito168. E non per rivelazione divina (come forse in Omero),
non per scoperta altrui (come forse nell’Edipo euripideo), non
per «innata verità» (come nelle premature rivelazioni di Tiresia),
bensì per paziente collazione di dati e per esaustiva applicazione
del metodo razionale enunciato – proprio contro Tiresia – ai vv.
396-398. Il metodo di Edipo non fallisce: fallisce Edipo, che è
cosa ben diversa, e altrimenti problematica.
Eppure, «il collasso tragico di Edipo pretende commento o giu168
Per la paradossale riuscita del protagonista, cf. Whitman, 130,
142; Knox, Oedipus, 52; Lattimore, Oedipus, 109; Vegetti, 29s. e 37s.;
Foley, 535. Qualche eccesso, ma molte osservazioni condivisibili, in
Untersteiner, I, 203 e 212s.
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stificazione»169: e giustificazioni di ogni sorta sono state addotte
da commentatori antichi, moderni e contemporanei, alla ricerca
di una causa che è innanzitutto, e quasi automaticamente, accusa. L’esegesi dell’Edipo, tragedia d’inchiesta, si è così tramutata
a sua volta in un’inchiesta: più precisamente, in una caccia alla
colpa di Edipo. Minoritaria, a somma fatta, la schiera dei critici
innocentisti, che non di rado si sono richiamati al modello della
Schicksalstragödie: l’Edipo re sarebbe dunque «la grande, l’autentica,
la vera tragedia del destino», scriveva Theodor Fontane170; modello facilmente assolutorio, che fa risalire all’atroce piano divino
– alle già omeriche θεῶν βουλαί, «decisioni degli dèi» (Od. XI 276)
– ogni causa dell’azione e delle sofferenze edipiche171. Tale modello è punto di partenza obbligato per lo stesso Freud – che ne
169
Bowra, 163; sono quelli che Waldock, 158, chiamava a ragione «attempts at normalization»: in senso moralistico come in senso fatalistico.
«Il moralista, se vede un uomo distrutto, presume che in qualche modo
egli meritasse la distruzione» (Whitman, 127): ed è quanto già osservava
Nietzsche, su cui cf. Ugolini, Friedrich Nietzsche, 46.
170
L’affermazione di Fontane – che risale a una recensione teatrale
del settembre 1873 – è citata e discussa da Pohlenz, I, 255; cf. anche
Lesky, 335.
171
Canonici pronunciamenti a favore dell’esegesi fatalistica sono in
Schneidewin-Nauck-Bruhn, 17-21; in Wolff-Bellermann, 136-142.
Altre opinioni sono censite in Ničev, 583-590. Un’ampia analisi
della Schicksalstragödie e della sua fortuna nella cultura tedesca
dell’Ottocento è offerta da von Fritz, 1-112 e ora da Lurje, 218-240;
si veda anche Schadewaldt, 278 e 570-578. Un’esemplare ripresa
dell’ipotesi – pur sfumata – è in R.A. Pack, «American Journal of Philology» LX (1939) 350-356. Una sua polemica rielaborazione recente
dà G. Bonelli in AA.VV., Voce di molte acque. Miscellanea di studi offerti a Eugenio Corsini, a c. di G. Barberi Squarotti et al., Torino 1994,
29-45. Per un aggiornamento ‘teistico’ dell’esegesi ‘fatalistica’ cf. infra,
XCIV-XCVI. Un riesame delle numerose immagini di ‘costrizione’ e
‘necessità’ presenti nell’Edipo re offre Brody, 36-64 e passim.
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fornirà, come vedremo, un’originale declinazione – così come lo
era per il giovane Nietzsche172; ma di esso poco o nulla resiste
alle confutazioni offerte da Dodds e da Knox173: e nulla può
resistere, proprio perché l’intreccio narrativo ordito da Sofocle
fa consistere l’Edipo re non in un’azione, ma nella scoperta
di un’azione. All’azione – più che destinata: addirittura già
avvenuta – si applicheranno pertinentemente, e anzi obbligatoriamente, predicati di necessità o di fatalità scelti a piacere in
un lessico del ‘destino’ che è a sua volta troppo ampio e poco
limpido174; ma tali predicati non si possono applicare a ciò in
cui consiste, propriamente, la trama dell’Edipo re: che è «analisi
tragica» e scoperta di ciò che è già accaduto. In questa scoperta,
Edipo è soggetto attivo a pieno titolo: unico, tenace e determinato soggetto attivo, come si è visto. E un paradosso solo
apparente è quello enunciato da Knox: proprio l’incombente, e
anzi già realizzata profezia rende Edipo libero175, perché la sua
172
Per Freud cf. infra, CXXXVIIs.; per Nietzsche cf. Ugolini, Friedrich
Nietzsche, 42s.; Nietzsche, Sullo studio, passim; un quadro ampio e approfondito in C. Gentili, A partire da Nietzsche, Genova 1998, 19-51.
173
Cf. Dodds; Knox, Oedipus, 3-14.
174
Si veda quanto osservano, pur da diversi punti di vista, Whitman,
129s. e Pohlenz, I, 255-257; lo stesso vocabolario del destino, in Sofocle e nell’Edipo re in particolare, risulta ambiguo e asistematico: istruttiva l’analisi, per molti aspetti aporetica, di Winnington-Ingram,
172-178; cf. anche Bowra, 179-182, con le ulteriori osservazioni di
Withman, 141s., e ora Schwartz, 200-205; cf. infra, XCIV-XCVIII; gli
stessi «demoni» più volte evocati sono facilmente conciliabili, da un
punto di vista concettuale e terminologico, con una piena individualizzazione dei fatti compiuti: cf. Bowra, 180s.; Kirkwood, 283s.; Howe,
132 n. 22 e 135 n. 32.
175
Knox, Oedipus, 43. «In un’azione in cui il passato è sussunto nel
presente, è il presente che conta», scrive Cameron, 133. Osservazioni
pertinenti, in questo senso, erano già in A. e M. Croiset, Histoire de
la littérature grecque, III, Paris 1935, 255; cf. inoltre Whitman, 140;
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azione consiste nello scoprire e nel sapere, non nel fare, che è
già un ‘esser fatto’; quidquid timebam facere fecisse arguor, sottolineerà, con appropriato bisticcio, l’Edipo di Seneca (v. 660).
In mancanza di assoluzioni fatalistiche, è naturale che i critici
colpevolisti abbiano a lungo tenuto il campo dell’esegesi sofoclea; e il loro numero è forse appena soverchiato dalla schiera
dei tanti interpreti che, fra colpevolisti e innocentisti, hanno
preferito concludere per un Edipo ‘né colpevole né innocente’:
compromesso di chiara ascendenza aristotelica, e non tanto
perché in medio, come è noto, stat virtus, ma perché nel delicato
equilibrio fra κακία e ἀρετή, fra bassezza ed eccellenza, colloca
Aristotele l’ethos tragico ideale (Poet. 13, 1452b 34-1453a 13),
in connessione con quella hamartia – quella «colpa innocente»,
parafrasava Marcuse176 – che sembra legare indissolubilmente
l’esegesi della Poetica e l’esegesi dell’Edipo re.
Una «colpa» di Edipo, dunque? Già si è visto come la particolare selezione operata da Sofocle entro il materiale mitico
escluda alcune facili e consolidate soluzioni: la colpa del genos, per esempio, o la mera follia177; già si è visto come una
«colpa» o un difetto propriamente intellettuali siano esclusi
Kullmann, 107s. Giudicava «un sofisma» questa linea interpretativa
Perrotta, 109s.
176
H. Marcuse, La dimensione estetica, trad. it. Milano 1978, 41. «Unschuldig schuldig», «incolpevolmente colpevole», scriveva Schadewaldt, 279. Sul «paradoxical dual character» di Edipo è esemplare
Hester, 43. «Se Edipo ha qualche ἁμαρτία non può aspettarsi pietà:
gli dèi hanno letto la Poetica», scherzava Dodds, 37. Per il dibattito
relativo alla hamartia aristotelica cf. supra, LVIII n. 142.
177
Per queste soluzioni ‘eschilee’ cf. supra, XXXIX, nonché Bowra,
182. Per la ἀιδρείη («ignoranza») di Epicasta in Odissea XI 272 non
è necessario pensare a leggerezza o indifferenza per presunti oracoli
(così G. Bona in Uglione, 96): cf. anche infra, Appendice, 177. Improbabili indizi di colpe ‘genetiche’, perfettamente incarnate dal figlio
di Laio, sono censiti, con più di una forzatura, da Ničev, 625-629.
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dal paradossale successo che arride al protagonista. Rimangono
altri, più tentanti capi d’imputazione, e un appunto severo alla
colpevole curiositas di Edipo offriva – ben prima di Hölderlin
– Plutarco178. Una colpa ‘di carattere’, insomma, è stata spesso
e spesso rimane la preferita fra i critici colpevolisti. A Edipo
si rimprovera innanzitutto l’ὀργή, l’«irosità» o «impulsività»179,
manifestata sin dallo scontro al trivio (vv. 800-813), dove l’eroe
colpisce «pieno di rabbia» (δι᾿ ὀργῆς, v. 807), e sembra ammettere una reazione sproporzionata all’offesa ricevuta (οὐ μὴν
178
Plut. De curios. 522b, su cui cf. Cameron, 53s. Si paragoni con
Hölderlin, 195, la cui eco è ancora percepible in Schadewaldt, 282 e in
Vernant, Ambiguità, 92; un’idea non dissimile, da ultimo, ha espresso
Dawe, Some Reflections, 116-121. «Vi mettevo in guardia contro la vostra infausta abitudine d’interrogare, di sapere, di capire tutto», dice
Tiresia a Edipo in Gide, Teatro, cit., 141. Su questi presunti ‘eccessi’
intellettuali – impropriamente trasformati in colpa tragica – si sofferma
con lucidità Paduano, Lunga storia, 111s.; e si veda già Perrotta, 189.
179
Cf. per es. Allègre, 362; M. Barstow, «Classical Weekly» VI (1912)
2-4; Adams, 82; Méautis, 108s.; R.A. Pack, «American Journal of Philology» LX (1939) 354; Kirkwood, 172s., 175; Lattimore, 94s.; Ničev,
601-628 e passim; Harsh, 256s.; Webster, 65; Kitto, Sophocles, 60 e
Form and Meaning, cit., 270; V. Leinekes, «Classical World» LXXIX
(1975) 35-44; Vernant, Edipo senza complesso, 83. Lo stesso Bowra,
185 – pur in un’impostazione innocentistica – riconosce che negli
scontri con Tiresia e Creonte Edipo «ha perduto parte della nostra
simpatia e ha rivelato tendenze pericolose»; sull’«ira» di Edipo cf.
ibid. 193-195, nonché Perrotta, 251. Per un censimento delle opinioni
in merito, a partire da Dacier, cf. Paduano, Sofocle, Seneca, 300 n.
1; Id., Lunga storia, 88 n. 51; un lungo elenco di colpevolisti forniscono Hester, 49-51 e Lurje, passim. Recentemente, una gragnuola
di imputazioni morali e politiche hanno rovesciato su Edipo Griffith,
45-58 e Ugolini, Sofocle, 131-133. «Sono impulsivo di carattere, vendicativo», confessa l’Edipo di Gide (Teatro, cit., 126); tasto su cui è
tornato a battere anche E. Lefèvre, «Würzburger Jahrbücher für die
Altertumswissenschaft» n.F. XIII (1987) 37-58.
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ἴσην γ᾿ ἔτεισεν, «certo, lui l’ha pagata cara», v. 810); la rabbia
è confessata e ampiamente esemplificata da Edipo durante lo
scontro con Tiresia (vv. 316-462), dove ὀργή e derivati ricorrono
con impressionante frequenza (vv. 335, 337, 339, 344s., 364, 405);
non meno chiara l’ὀργή che regola lo scontro con Creonte, come
premette il Coro (v. 524) e come lo stesso Creonte, pur graziato,
conclude (vv. 673s. βαρὺς δ᾿ ὅταν / θυμοῦ περάσῃς, «e sei altrettanto odioso / quando varchi i confini della rabbia»). Strettamente
connessa all’ira sembra la colpa – a Edipo non di rado imputata
– della σπουδή, della «fretta» impetuosa, dell’incontenibile precipitazione180 : che può tradursi in giudizi avventati, come il Coro
rimprovera al sovrano («chi è svelto a giudicare può sbagliarsi»,
v. 617) e come lo stesso Edipo sembra generosamente esemplificare nel concludere frettolosamente per un congiura politica
ordita ai suoi danni; la σπουδή di Edipo pare sancita, del resto,
dal giudizio pur affettuoso di Giocasta (vv. 911-917): un Edipo
che troppo si esalta (v. 914) e cede a ogni sospetto (v. 917). Più
in generale, tali difetti si tradurrebbero nella tendenza alla
ὕβρις, all’atto violento e irrispettoso, che il Coro stesso rimprovererebbe al sovrano nel discusso pronunciamento del secondo
stasimo (v. 872 ὕβρις φυτεύει τύραννον, «la prepotenza genera
il tiranno»: cf. infra, CII-CVI). Più volentieri – ma non senza
connessioni con l’uno o l’altro di questi difetti – si rimprovera
a Edipo l’orgoglio intellettuale, la pretenziosa confidenza in se
180
Cf. per es. Allègre, 362; W.C. Helmbold, «American Journal of
Philology» LXXII (1951) 299; Kirkwood, 118; Ničev, 610, 631 e passim; Adams, 82; qualche accenno anche nell’iper-innocentista Waldock, 144 e già in Sheppard, LXXII. Non mancano retrodatazioni
di questa caratteristica agli antefatti della vicenda, quando Edipo – si
dice – poteva tutto sommato lasciar perdere i sospetti insinuati sulla
sua origine: cf. Méautis, 127s.; una versione aggiornata dell’accusa in
A. Paolucci, «Classical Journal» LVIII (1963) 241-247; si vedano, per
idee simili, le giuste ironie di Waldock, 145s.
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stesso e nei propri mezzi razionali181: confidenza presto tradotta
in empie manifestazioni di scetticismo nei confronti degli oracoli o dei profeti (vv. 390-398, 964-966, 971s.), cui l’eroe pare
indotto da un’ancor più disincantata Giocasta (vv. 707-709, 720725, 857s., 946s., 977-979).
Tali giudizi sono messi a frutto dall’altra grande e feconda linea
della critica colpevolistica: linea politica e non più soltanto etica;
linea che nei tratti propriamente tirannici dell’Οἰδίπους τύραννος
individua la ‘colpa tragica’ dell’eroe. È davvero – quest’Edipo già
condannato dalla critica moralistica – un Edipo passibile di critica politica? È davvero, e fino a che punto, un «tiranno»?182 Ora,
181
Cf. per es. Lattimore, 94s.; Untersteiner, I, 165 («superbia logica»);
Webster, 90; Allègre, 339; Méautis, 110; Winnington-Ingram, 203s. (che
registra l’«intellectual pride» come colpa veniale; così già Maddalena,
295); Kane, 190s., 197; Ugolini, Sofocle, 132. L’orgoglio intellettuale fa
tutt’uno con una pervicace e volontaria cecità per quella particolare linea colpevolistica che è stata sviluppata dalla psicoanalisi post-freudiana: ampia documentazione e bibliografia in Paduano, Lunga storia,
38-54. Un censore illustre degli errori intellettuali (e dell’iracondia) di
Edipo è P. Ricoeur, Dell’interpretazione, trad. it. Milano 1991, 472-476.
La colpevole ottusità di Edipo, troppo orgoglioso per capire, è più recentemente impugnata da A. Schmitt, «Rheinisches Museum» CXXXI
(1988) 8-30 (su cui cf. le osservazioni di Lurje, 263-277).
182
La diagnosi ‘tirannica’ è condivisa, quale esito ultimo, da pressoché
tutti i critici moralistici. Con particolare attenzione all’aspetto politico, cf. Lanza, Il tiranno, 141-144, che vede un netto ribaltamento del
personaggio, corrispondente a una chiara bipartizione della tragedia;
così anche Cerri, 322; l’impostazione è ripresa e rincarata da Ugolini,
Sofocle, 129s. L’interpretazione ‘tirannica’ dell’Edipo re ha ricevuto
nuovo impulso, nel secondo Novecento, dai lavori di Vernant, Edipo senza complesso, 82-85 e Ambiguità, 112-114 e passim: marcato
ritorno all’esegesi ‘moralistica’, pur antropologicamente aggiornata.
Che Edipo incarni il tipo del sovrano assoluto achemenide è idea
– piuttosto genericamente argomentata – di E.D. Francis, «Ameri-
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che il titolo τύραννος, apposto al semplice Οἰδίπους, sia aggiunta
seriore intesa a distinguere il primo Edipo dal secondo, l’Edipo
a Colono, nessuno dubita. Ma sulla pertinenza e sul significato
dell’epiteto si interrogavano già i commentatori antichi, non senza
qualche bizzarria (cf. supra, VI). Reso in latino con Oedipus
rex, il titolo ha fatto scuola: si pensi solo all’Ubu roi di Jarry, o
all’infinita sequenza di melodrammi dall’analoga titolazione,
edipici o meno. Ma la resa in apparenza più letterale – «tiranno»
– ha goduto a sua volta di qualche fortuna, dalla storica rappresentazione vicentina del 3 marzo 1585 sino alla messinscena
dell’Edipo sanguinetiano da parte di Benno Besson (1980)183; e in
che misura Edipo sia tyrannos è interrogativo cruciale nell’esegesi
del dramma sofocleo.
Che la qualifica di tyrannos, in tragedia, possa costituire tanto
vox media per «monarca, sovrano» – giusta la valenza originaria
del termine – quanto esplicita designazione denigratoria, è cosa
perfettamente nota; altrettanto nota è la prevalenza del valore
neutro, nettamente arcaicizzante in relazione al coevo uditorio
ateniese, e perciò non privo di risonanze ambigue e stranianti.
Bastino i dati ricavabili dallo stesso Edipo: delle quindici occorrenze di tyrannos e derivati – comunque la percentuale più
alta entro il corpus sofocleo184 – solo una può dirsi con certezza
can Journal of Philology» CXIII (1992) 333-357, in part. 340-353.
183
Per l’Edipo tiranno volgarizzato da Orsatto Giustiniani e rappresentato all’Olimpico di Vicenza, cf. Vidal-Naquet, Edipo a Vicenza e
a Parigi, 201-210, nonché S. Mazzoni in AA.VV., Storia del teatro moderno e contemporaneo, dir. R. Alonge e G. Davico Bonino, I. La nascita del teatro moderno. Cinquecento-Seicento, Torino 2000, 897s. Per
l’Edipo tiranno a firma di Sanguineti-Besson – il titolo ‘tirannico’ fu
richiesta esplicita del regista – cf. ora Sanguineti, Teatro antico, 9, nonché U. Albini in Gentili-Pretagostini, 125. Sul «Herr»/«Herrschaft»
della traduzione hölderliniana cf. Kerényi in Kerényi-Hillman, 46.
184
Un picco significativo, che non avrà mancato di avvalorare
l’addizione dell’epiteto: cf. per es. Knox, Oedipus, 53; Id., Word, 87.
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marcata in senso negativo: è la già ricordata espressione «la
prepotenza (ὕβρις) genera il tiranno» (v. 872; cf. infra, CIICVI). Delle altre occorrenze, sei appartengono a battute dello
stesso Edipo (vv. 128, 380, 535, 541, 799, 1043), che in tre casi
(vv. 128, 799, 1043) si riferisce al regno – indiscutibilmente
legittimo – di Laio; altri tre casi appartengono all’elogio della
τυραννίς («regno», «potere del tyrannos») intessuto da Creonte
(vv. 513, 588 [bis])185; una alla designazione puramente informativa del Messaggero (v. 925; cf. El. 661), e un’altra, addirittura,
alla deliberazione della comunità corinzia che designa tyrannos
Edipo (v. 939)186 ; un’altra ancora al Coro, in un contesto pieno
di deferenza (v. 1095): e via dicendo. Solo per l’εἰ καὶ τυραννεῖς
di Tiresia (v. 408, «anche se tu sei tyrannos») si potrà sospettare
una qualche risonanza polemica, non imputabile, in ogni caso,
al termine in sé. Siamo di fronte, dunque, a un quadro com185
In queste occorrenze, tuttavia, si è voluta cogliere una valorizzazione negativa della tirannide (così per es. B. Gentili in Gentili-Paioni,
133 e in Uglione, 130); contra Knox, Oedipus, 212 n. 1. Per la valenza
generica del titolo cf. anche Hester, 42; Winnington-Ingram, 191s.;
Budelmann, 214-219.
186
Cf. O. Longo in Uglione, 71. Specularmente, il potere conquistato
da Edipo in Tebe è «dono» della comunità: cf. v. 384 e infra, LXXXIV.
Si veda lo stesso Longo, ibid. 72-76 per l’ambigua posizione istituzionale e genealogica di Edipo in relazione alle città di Tebe e di Corinto.
L’occorrenza del v. 939 rende meno probabile l’interpretazione di
Knox, Oedipus, 54-60 e Word, 87-95 (ripreso per es. da Pucci, 30s.),
secondo cui il titolo di τύραννος alluderebbe al carattere avventizio
e genealogicamente infondato – almeno all’apparenza – del potere
rivestito da Edipo (contra anche V. Di Benedetto in Gentili-Pretagostini, 301). Difficili a intendersi, in tale prospettiva, anche gli impieghi
riferiti al regno di Laio, che Knox è costretto a liquidare come eufemismi o tentativi indebiti d’equiparazione al precedente sovrano (cf.
Harsh, 250s. n. 16). A fronte degli esempi citati, non si vede ragione di
ipotizzare che «Edipo è chiamato tyrannos quando il suo tornaconto
personale […] diventa il centro dell’attenzione» (Budelmann, 218).
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pattamente positivo o almeno asetticamente neutro, che pure
colpisce per l’insistenza del vocabolario tirannico.
Un giudizio sospeso
Non su fatti di lessico, dunque, ma su tipi e moduli drammatici
andrà giocata la valutazione di un eventuale carattere e/o statuto
‘tirannico’ attribuito da Sofocle al suo protagonista. E ciò rinvia,
inevitabilmente, alle diagnosi di stampo propriamente etico su cui
ci siamo già soffermati: diagnosi da non risolvere in mero giudizio
moralistico, ma da finalizzare semmai al riconoscimento di un
tradizionale ethos tragico – quello del ‘tiranno’ – di cui Lanza ha
mostrato meglio di altri caratteri e varietà.
Si rivedano, innanzitutto, le imputazioni caratteriali addossate a Edipo: ira smodata, precipitosità, aggressività, eccesso
d’orgoglio e irriverenza religiosa. A ciascuna di esse il testo
sembra portare, in apparenza, elementi d’appoggio; ma non
senza dosare altrettanti – se non più – elementi di contrasto.
Si prenda, per esempio, il famigerato scontro con Tiresia; l’ira,
come si è visto, è ammessa da Edipo per primo (vv. 334s., 345)
e confermata dal Coro (vv. 404s.): ma proprio l’esplosione
dell’ὀργή è studiatamente predisposta dalle insistite offese di
Tiresia (vv. 324s., 328), sempre aggirate da Edipo nei toni della
più garbata persuasione (v. 319) o addirittura della supplica (vv.
326s.); la stessa ammissione del protagonista («tu faresti / perdere la pazienza anche a una pietra», vv. 334s.), dunque, è meno
un’autoaccusa che un’accorta sottolineatura delle provocazioni
(e degli atti apertamente illegali: cf. v. 322 οὔτ’ ἔννομ᾿187) cui
187
L’omertà di Tiresia infrange esplicitamente l’obbligo della testimonianza enunciato da Edipo ai vv. 230-235. Non si tratta dunque di generica mancanza nei confronti del bene pubblico (così per es. Kamerbeek, ad l.), ma di aperta illegalità: cf. Greiffenhagen, 159s.; Paduano,
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Tiresia si è abbandonato188. La stessa strategia, del resto, è seguita da Sofocle nella rievocazione del massacro compiuto al
trivio di Daulide: altra riprova d’inguaribile irosità, stando ai
critici colpevolisti. Ma anche in questo caso il testo evidenzia
con accuratezza l’offesa di cui Edipo è fatto oggetto: Laio e
il suo auriga tentano di scacciarlo dalla strada πρὸς βίαν, «con
la forza» (v. 805); dopo la prima reazione di Edipo, è ancora
Laio – con lenta premeditazione – a colpire per primo (vv.
807-809); tutto, insomma, congiura a definire la strage come
atto di legittima difesa, che lo stesso Edipo può narrare con
orgoglio affatto adeguato alla sua statura d’eroe («e li ho ammazzati, tutti quanti», v. 813)189.
Lunga storia, 91; Id. in Curi-Treu, 49. Agli occhi di Edipo, del resto
– per tutta la tragedia e non senza chiari effetti ironici – colpevole e
testimone omertoso sono esplicitamente equiparati: cf. le giuste osservazioni di Dyson, 205s. Nel caso di Tiresia, dunque, l’equazione è
del tutto conseguente.
188
È l’acuta osservazione che troviamo già nei commenti antichi (cf.
schol. ad v. 334 [p. 181 Pap.]). Per la sostanziale grandiosità di Edipo,
pur nel temperamentoso trattamento riservato a Tiresia, cf. già WolffBellermann, 139; un’analisi convincente dei difetti caratteriali esibiti
da Tiresia offre A. Moreau in Machin-Pernée, 219-232 (ma di «riduzione a proporzioni umane della figura di Tiresia» parlava già Untersteiner, I, 171); cf. in proposito anche Reinhardt, 122; Ronnet, 75 e
119; Gould, 595s.; Paduano, Lunga storia, 91-93; Kullmann, 109.
189
Le illazioni sui riposti intenti aggressivi del protagonista, o le razionalistiche obiezioni a un comportamento che appare imprudente, per chi è sotto la minaccia dell’oracolo delfico, non appaiono
né fondate né freudiane: se ne veda qualche esempio infra, 159s.
n. 92; ma l’argomento era già nell’Edipo del Tesauro (at. V sc. 2: cf.
E. T., Edipo, a c. di C. Ossola, Venezia 1987, 160: «[Tiresia] Dovea
sempre temer ciò che era incerto. / Creder madre ogni moglie, e creder padre / anco un ladron, senza macchiar la mazza / di sconosciuto sangue»);
cf. Paduano, Edipo, 102s. Sulla logica eroica che presiede al resoconto
della strage e sulla impunibilità di Edipo cf. Sheppard, XXVIIIs.; Robert,
I, 290; Bowra, 164s.; Perrotta, 188s.; H.D.F. Kitto, Poiesis. Structure and
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Più sottile, ma perciò più significativa, la tecnica etopoietica adibita durante la lite con Creonte, tante volte paragonata alla scena
che nell’Antigone oppone lo stesso Creonte alla protagonista
(vv. 441-525)190 ; ma proprio tale paragone lascia emergere, per
contrasto, il carattere ben più problematico di Edipo. Il Creonte
dell’Antigone – prima in dialogo con la nipote, poi con il figlio
Emone ai vv. 631-765 – grida, come Edipo, al complotto; come
Edipo, egli esordisce tentando di costringere l’interlocutore
alla piena confessione (Ant. 441s., 446s., 449, cf. OT 532-542,
555-575); come Edipo, egli minaccia morte all’accusato (Ant.
497s., cf. OT 622s.); le parole con cui entrambi i personaggi
descrivono il loro statuto regale impressionano per somiglianza
(Ant. 173 ἐγὼ κράτη δὴ πάντα καὶ θρόνους ἔχω, «io che ho pieni
poteri e trono», OT 236s. γῆς / τῆσδ᾿, ἧς ἐγὼ κράτη τε καὶ θρόνους
νέμω, «questa / terra, di cui amministro potere e trono»)191. Ma
il Creonte dell’Antigone è isolato, contro un’opinione pubblica
Thought, Berkeley-Los Angeles 1966, 202s.; Dodds, 43; Knox, Oedipus,
57s.; Greiffenhagen, 166-168; Lloyd-Jones, The Justice, 39; Paduano, Sofocle, Seneca, 301 e Lunga storia, 90; Bollack, ad l. e Id., La naissance, 150;
indecisi Cameron, 131s. e Winnington-Ingram, 201.
190
Fra i molti possibili si vedano Webster, 45s.; Adams, 94s.; Turolla,
101s.; Hester, 39s.; Ehrenberg, 98 e 106s.; da ultimo Ugolini, Sofocle,
121-136, con ferma diagnosi di dispotismo tanto per Creonte quanto per Edipo. Le somiglianze fra il Creonte dell’Antigone e l’Edipo
dell’Edipo re erano alla base della cronologia alta proprosta da Bruhn.
Molto attenta alle differenze fra le due scene è invece Cameron, 45;
su tale linea anche Reinhardt, 117s.; Pohlenz, II, 103; Perrotta, 232;
Paduano, Lunga storia, 96-98; Id., Edipo, 58s.
191
Ma l’attenuazione operata nell’Edipo appare evidente: non tanto per
l’uso di νέμω, «amministro, governo», in luogo di ἔχω, «posseggo» (così
Sheppard, ad l., giustamente criticato da Ehrenberg, 98 n. 25), quanto
per πάντα («pieni poteri»). Il pronunciamento di Edipo avviene inoltre in un contesto di stretta formalità legale (l’editto), mentre quello
di Creonte segna l’autopresentazione del personaggio alla sua prima
comparsa in scena: dettagli contestuali che non è possibile ignorare.
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unanime ma ridotta al silenzio dalla paura (Ant. 508-510, cf. vv.
690-700, 732); egli proclama l’indiscutibilità del potere, nella
giustizia come nell’ingiustizia (Ant. 666s.), e dichiara senza remore che «la città è di chi la domina» (τοῦ κρατοῦντος ἡ πόλις, v.
738); per tutto ciò Emone, con il plauso del Coro, lo proclama
degno di «comandare su un deserto» (v. 739) e gli rinfaccia di
non saper tollerare dissensi o repliche (v. 757); tanto Creonte
quanto Edipo, del resto, devono subire l’accusa d’essere fuori
di senno (Ant. 755 οὐκ εὖ φρονεῖν, OT 627 οὐ γὰρ φρονοῦντα σ᾿
εὖ βλέπω). Nel caso di Edipo, tuttavia, il modulo del dialogo
con l’autocrate – pur innestato da chiari indizi verbali e situazionali – è vòlto a ben diverso esito e come rimodulato in un
quadro di sapiente ambivalenza. Il diritto di replica è garantito,
dal sovrano, a Tiresia come a Creonte, che ne fanno esplicita
richiesta (vv. 408s., 543s.); l’appello di Edipo alla città, con il
celebre ὦ πόλις, πόλις («città, città») del v. 629, è l’esatto opposto
dell’identificazione fra il singolo governante e il suo Stato192,
benché Creonte possa replicare, nei toni di Emone, «città che è
anche la mia, non tua soltanto» (v. 630); l’invocazione di Edipo
rinvia piuttosto a quella battuta del dialogo con Tiresia che
è quanto di meno tirannico un re possa dire in tragedia: «ho
salvato il paese. Il resto non mi importa» (vv. 442s.)193; ed è lo
stesso Creonte, nel corso del dialogo, a ricordare come Edipo
tratti alla pari Giocasta e il cognato, in un’ideale triarchia a base
affettiva che contraddice la topica solitudine del tiranno. Anche
perciò, a differenza del re iroso e inflessibile rappresentato
nell’Antigone, Edipo non perde mai il favore del Coro (vv. 660192
Così invece Kamerbeek, ad l. («disobedience to him means anarchy
in the πόλις»). Per i possibili valori dell’apostrofe si veda infra, 154s.
n. 72.
193
«Nessun tiranno tragico potrebbe esprimersi così», giudica con
chiarezza Lattimore, 92; cf. anche Whitman, 131; Bowra, 186-189; B.
Knox in De Romilly, 17s.
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664)194. Infine – il dettaglio non è da dimenticare – il re grazia
Creonte su preghiera dello stesso Coro e di Giocasta (vv. 646194
Cf. Paduano, Lunga storia, 99s. (per converso, il Creonte dell’Antigone
«è tiranno immediatamente perché tutti lo considerano tale»: Lanza, Il
tiranno, 151). Di qui l’impressione, da molti condivisa, che nonostante
la ragione obiettiva il Creonte dell’Edipo re sia rappresentato, qui come
altrove, quale ipocrita pusillanime (cf. per es. Whitman, 131; Gould,
597; per altri, egli sarebbe addirittura l’ideale etico di Sofocle: Webster,
70s.; più cauti, ma simpatetici, Jebb, XXIX o Cameron, 72). È indubbio
che il monologo dei vv. 583-600, intonato al più franco opportunismo,
getti sul personaggio una luce sinistra (cf. Hester, 40); e la sua bolsa
sentenziosità ha già meritato le spazientite reazioni del sovrano (vv. 8790). È sempre Creonte a presumere che il colloquio fra i regnanti debba
avvenire a porte chiuse, lontano dal popolo (vv. 91s.): ciò che merita la
ferma reprimenda di Edipo (vv. 93s.). Tali aspetti caratteriali non sono
senza relazioni con la drastica durezza che il personaggio mostra nel finale, e che è parsa a qualcuno ingiustificata (cf. per es. Dawe 2006, ad v.
1445; per contro, Beer, 111 ha supposto che Sofocle rinvii qui al Creonte tirannico della sua Antigone: l’ipotesi era già di Wilamowitz, Excurse,
64). Ma non a torto Kamerbeek (ad v. 1445) ha parlato di una «mediocrità» congiunta a un «non disumano, ma pedantesco rigore»: che è la
nota dominante del personaggio per tutta la tragedia; e il Creonte del
finale non è in ciò diverso dal Creonte ‘anti-tragico’ degli episodi precedenti (Davies, The End … Revisited, 12-14); del suo primo ingresso in
scena egli sembra anzi fornire qui una distorta «parodia» (Gellie, 40), a
paragone della ben più tragica situazione in cui viene a collocarsi. «Personaggio non tragico», è la sintetica ma giusta definizione di Reinhardt,
150, che analizza la funzione meramente contrastiva del comprimario
durante lo scontro con Edipo (ibid. 128-130); di «contre-héros» parla F. Jouan in Machin-Pernée, 280-284: e per la tipica strutturazione
drammatica sofoclea fondata sui contrasti di carattere cf. già Webster,
88s. Per altre critiche valutazioni di Creonte si vedano Wilamowitz,
Excurse, 62-64; T. von Wilamowitz, 86; Pohlenz, I, 251; Hester, 40 e
45; Maddalena, 328; Perrotta, 246-248; Ronnet, 76-78; G. Paduano in
Curi-Treu, 173-176. Di una istruttiva controversia fra attori, intorno
al ‘carattere’ di Creonte, dà conto Perrotta, 246 n. 2, riferendosi allo
storico Edipo re di Mounet-Sully (su cui cf. supra, XIV n. 16).
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677), benché ciò equivalga, ai suoi occhi, alla sicura e completa
rovina personale (vv. 658s.)195. Non è probabilmente un caso che
laddove il Creonte dell’Antigone proclama la necessità di lasciarsi comandare (εὖ δ᾿ ἂν ἄρχεσθαι θέλειν, v. 669), il protagonista
dell’Edipo opponga a Creonte una frase che andrà giudicata
almeno ambigua: ἀρκτέον γ᾿ ὅμως (v. 628): «e tuttavia bisogna
obbedire»; ma anche, forse: «e tuttavia bisogna comandare»196 ;
è del resto una piena assunzione di responsabilità dinanzi agli
obblighi del regno quella con cui Edipo motiva la sua decisa
prontezza nel reagire al presunto complotto (vv. 618-621).
In ogni caso, i dati che il testo accumula, onde sottolineare il
carattere positivamente marcato della regalità e dello stesso ethos
di Edipo, sono tanti e tali che la strategia di Sofocle deve dirsi
affatto intenzionale. Semmai, anche in questo caso occorrerà osservare che tale strategia consiste più precisamente in un’abile
inserzione o insinuazione di tocchi etopoietici e di moduli topici
a tratti divergenti, secondo un procedimento che ribalta – ma allo
stesso fine – la ‘rimodulazione’ attuata con gli episodi di Creonte e
di Tiresia: come là due scene di impostazione ‘tirannica’ si lasciavano giustificare o contraddire internamente da condotte di chiara
magnanimità, qui è un indiscutibile censimento di virtù politiche
e caratteriali che si lascia attraversare da venature sinistre. Edipo
compare sulla scena – è commento già antico197 – come buon
padre dei suoi sudditi: τέκνα, «figli miei», è la sua prima, tragica
195
Cf. per es. Whitman, 131s.; Maddalena, 300s.; Paduano, Lunga storia, 98; Foley, 535.
196
In questa frase Edipo sembra discostarsi «dalla correttezza programmatica del buongoverno», ammette lo stesso Paduano, Lunga storia, 97
(e cf. Id. in Curi-Treu, 51; Id., Edipo, 58); ma cf. infra, 154 n. 71.
197
«Il carattere di Edipo esprime amore per il popolo e sollecitudine
per il bene comune; la gente gli vuole bene per tutti i benefici che
lui ha arrecato; è dunque appropriato il termine “figli”, come per un
padre» (schol. ad v. 1 [p. 161 Pap.]).
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parola; destinato a scoprirsi figlio, Edipo è per ora un benevolo e
benvoluto «pater patriae»198. Del resto, Sofocle non menziona alcun
bando pubblico o ‘avviso d’asta’ per il regno, da parte di Creonte:
un silenzio che si è già notato (cf. supra, XXXVIs.), e che serve a
giustificare l’eloquente battuta del v. 384: il potere di Edipo altro
non è che un «dono» della comunità. Niente di meno tirannico199.
Da parte sua, fra sé e i sudditi Edipo non ammette intermediari
(vv. 6s.): egli si presenta di persona, e concede agli interlocutori
ogni replica o commento (vv. 282s.)200. Le sofferenze del popolo
sono le sue sofferenze, rincarate dalla responsabilità del regno (vv.
59-61). Ogni impropria sopravvalutazione o aperta divinizzazione
del sovrano è scongiurata dalle parole equilibrate dal Sacerdote
(vv. 31-34), che sa così adeguarsi alla «democratic temper»201 del
suo re. Lo stesso Edipo si pone all’opera invocando l’aiuto degli
dèi, e intonando la sua condotta alla pia supplica del Sacerdote (vv.
145s.); in questo modo, la rischiosa ‘apoteosi’ di questo indiscusso
princeps (v. 33) è sventata, pur essendo latente nei toni dei supplici
e nella stessa situazione d’esordio, dove si ribalta – è stato osservato
– il modulo tradizionale che impone a un sovrano di consultare
l’autorità religiosa202; il testo non risparmia, a questo fine, tratti
198
Bowra, 186, che rinvia al Creso di Erodoto I 155,2. Per le connotazioni paterne di Edipo cf. per es. Perrotta, 222; Pohlenz, I, 251;
Cameron, 118; Reinhardt, 112; Vellacott, 131; Lanza, Il tiranno, 143;
Paduano, Sofocle, Seneca, 306s.; Id., Lunga storia, 78s.
199
Cf. Bowra, 186; Ehrenberg, 97.
200
Per la straordinaria e sempre rimarcata ‘educazione’ di Edipo – in
termini di politeness theory – si veda l’ampio esame di M.A. Lloyd in
De Jong-Rijksbaron, 225-239.
201
Knox, Oedipus, 25. Per le caute espressioni del Sacerdote cf. Whitman, 126.
202
Whitman, 125s.; si veda anche Delcourt, Les suppliants, 67s. e
Knox, Oedipus, 159. Per la latente divinizzazione di Edipo cf. Paduano, Lunga storia, 117 e Serra, 33, e già Untersteiner, I, 157s. Eccessivo
Vernant, Ambiguità, 95, che abbisognando di un isotheos da opporre
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d’ambiguità espressiva203, ma il modulo tradizionale è subito ripristinato dalla scena con Tiresia: dove è regolarmente l’eroe
‘laico’ a consultare il profeta, non senza ricorrere, per contrasto o
contrappeso, a un lessico della supplica che riprende intenzionalmente le parole dell’esordio204. Quando Creonte fa il suo ingresso,
il «parla di fronte a tutti» di Edipo (ἐς πάντας αὔδα, v. 93) è un altro
reciso rifiuto opposto a qualsivoglia inclinazione autocratica. Ed è
in un contesto di massima sollecitudine patriottica che Edipo dà
prova delle qualità additate a titolo di biasimo dalla critica moralistica: qualità il cui indubbio pregio, valorizzato dall’esordio, non
può non riverberare sulle scene successive. Così è per la fretta con
cui il sovrano attende prima Creonte (vv. 73-77) e poi Tiresia (vv.
287-289), o con cui congeda i supplici nell’impazienza delle azioni
da compiersi (v. 141 ὡς τάχιστα, «al più presto»); così è anche per
la sospettosità con cui subito intravede i contorni di un complotto
dietro la morte di Laio (vv. 124s.), strappando per il momento
l’assenso – è bene non dimenticarlo – di quello stesso Creonte che
avrà poi a lagnarsi di tanto razionalismo politico (vv. 126s.)205.
al pharmakós scrive che «il sacerdote di Zeus fa di Edipo, in qualche
modo, l’uguale degli dei: ἰσούμενος θεοῖσι». L’omissione della negativa,
in tale citazione, è ben poco corretta (cf. Flashar, 132 n. 40).
203
Come il βωμοῖσι τοῖς σοῖς, «i tuoi altari», del v. 16, che i commenti si affrettano a spiegare quale brachilogia («gli altari di fronte alle tue case»):
cf. però Adams, 86. Non meno ricercata sembra l’ambiguità del v. 8 ὁ πᾶσι
κλεινὸς Οἰδίπους καλούμενος, per cui cf. infra, nota al passo.
204
Cf. in part. v. 41 ἱκετεύομέν σε πάντες («siamo qui a supplicarti, noi tutti») ~ v. 327 πάντες σε προσκυνοῦμεν οἵδ᾿ ἱκτήριοι («siamo tutti qui supplici,
ai tuoi piedi»). Si vedano inoltre Bain, 82s. e Paduano, Lunga storia, 93.
205
Ciò fa sì che anche la teoria del complotto usata contro Tiresia
e Creonte appaia come coerente conseguenza di una logica interpretativa ovunque perseguita, più che come deriva paranoide tipica di molti ritratti tirannici: cf. Wilamowitz, Excurse, 61; Pohlenz,
I, 248; Whitman, 268; Bowra, 190s.; Gould, 596s.; Bremer, 158;
Paduano, Sofocle, Seneca, 308s. e Lunga storia, 94s. (per contro,
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Lo stesso può dirsi, infine, per i presunti tratti di irreligiosità
che una lunga tradizione critica ha riconosciuto tanto in Edipo
quanto e più in Giocasta, scorgendo nella loro finale rovina
«una vivida prova dell’ingenua fede e della pura devozione nutrite da Sofocle»206. Anche in questo caso, la strategia sofoclea
appare fortemente elusiva. Edipo, come si è visto, si appella al
sostegno divino sin dalla sua entrata in scena, facendo séguito
ai detti del Sacerdote; è lui che ha inviato Creonte a Delfi (vv.
70-72) e che dichiara di volersi attenere scrupolosamente agli
ordini del dio (vv. 76s.); in nome del dio non meno che del
paese sofferente egli assume le difese dell’antico re (v. 136 γῇ
τῇδε ... τῷ θεῷ θ᾿ ἅμα, «per questa terra […] e insieme per il
dio»); è come σύμμαχος, «alleato» della divinità che egli intende agire (v. 135), e dalla divinità si attende aiuto (v. 146)207.
Adams, 88, coglie già ai vv. 124s. indizi di attitudine tirannica). La teoria del complotto, e il razionalismo che essa sottintende, diverranno
centrali in molte riscritture contemporanee dell’Edipo: prima fra tutte
quella di F. Dürrenmatt, La morte della Pizia (1976), trad. it. Milano
1992; più discretamente in T.S. Eliot, L’anziano statista (1959), in Id.,
Tutto il teatro, a c. di R. Sanesi, trad. it. Milano 2003, II, 407-567.
Ricama amabilmente sul motivo M. Hubay, La Sfinge, ovvero addio
agli accessori, trad. it. Firenze 2005.
206
Whitman, 123, che per parte sua – con utile eccesso correttivo
– ribalta la favola del «pio Sofocle»; quest’ultima ha un aureo esempio
in Wilamowitz, Excurse, 57s. («Sofocle è il più nobile rappresentante
della religione ateniese; se si vuole, egli è l’unico, vero pagano credente accanto a Pindaro») e passim. Più recentemente, cf. J. Schmidt
in Id. (hrsg. v.), Aufklärung und Gegenaufklärung in der europäischen
Literatur, Darmstadt 1989, 33-55. Contro l’annosa lettura moralistica
del personaggio di Giocasta – che rimonta almeno a A.W. Schlegel
– cf. Reinhardt, 134 e più dettagliatamente infra, LXXXVIII-XC.
207
Da questo punto di vista, non c’è alcuna differenza fra l’approccio
che Edipo mostra nei confronti della nuova indagine e la descrizione
fornita dal Sacerdote circa la vittoria sulla Sfinge (cf. in part. v. 38).
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Introduzione
Contemporaneamente, dinanzi alla preghiera della parodo
egli richiama il Coro a una solerzia operativa che nulla ha di
religioso (vv. 216-218): anche a prescindere dall’ordine divino
– dichiarerà più oltre – l’indagine è imposta da un’etica tutta regale, tutta politica e tutta terrena (vv. 255-258)208. Ma, di fronte
a Tiresia, Edipo riconosce all’indovino il ruolo di προστάτης
(«guida») e di σωτήρ («salvatore») che il popolo ha appena
riconosciuto a lui (vv. 303s.)209; un’impostazione rispettosa e
devota che viene presto contraddetta, però, dall’orgogliosa
tirata dei vv. 390-403, dove alla mantica inefficace di Tiresia
è contrapposta la pura γνώμη, la «facoltà razionale», di Edipo
(v. 398): una polemica che a ben vedere rimane ad personam,
senza coinvolgere più generalmente il ruolo della mantica – o
addirittura della religione – negli affari umani210. Non a caso
il Coro, altrove tanto pio, fa propri i dubbi di Edipo (vv. 499511), contrapponendo l’indiscussa sapienza divina alla dubbia
sapienza degli uomini, indovini o meno: un’autentica banalità,
si è osservato, nel contesto delle frequenti polemiche ateniesi
Per la pietas di Edipo cf. per es. gli equanimi giudizi di Sheppard,
XXVII; Jebb, XXVII; Ehrenberg, 97; Perrotta, 192s.; Maddalena,
287-289; Ronnet, 123; Gould, 600; Jones, 211.
208
Il contrasto fra le fughe celesti del Coro e le ragioni terrene di Edipo
sarà costante, nel séguito della tragedia: si veda quanto osserva – anche in termini di contrasto spaziale fra scena e orchestra – S. Scully,
«Syllecta Classica» X (1999) 65-86.
209
Per il titolo di προστάτης, «guida», carico di risonanze allusive in
àmbito democratico, cf. Ehrenberg, 142-146.
210
Come ha ben mostrato Di Benedetto, 96s., quella che caratterizza
Edipo è semmai una valorizzazione della mantica come techne fra le
altre, in una sintesi di γνώμη («intelligenza») e profezia che sarà sancita
dal Coro ai vv. 1086s., dove non sempre si dà adeguato rilievo alla densità – e alla ricercata antitesi – dell’espressione μάντις ... καὶ κατὰ γνώμαν
ἴδρις («se io sono indovino, e se la mia / capacità d’intendere mi ispira»),
su cui cf. anche Segal, Sophocles’ Tragic World, 192s.
LXXXVII
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contro falsi profeti e oracoli tendenziosi211. La linea sembra
seguita da Giocasta, che nel suo primo, celebre intervento contro l’arte dei profeti distingue accuratamente Apollo dai suoi
ministri (vv. 711s.), per evidenziare solo di questi ultimi la dubbia attendibilità. Il tono della regina si fa più acceso, tuttavia,
dopo i primi turbamenti causati a Edipo dalla menzione del
trivio: la profezia fallimentare resa a Laio viene attribuita, pur
in un rapido accenno, ad Apollo stesso (vv. 853s.); e la chiusa
è perentoria: «e perciò, d’ora in poi, quanto alle voci / degli
indovini, io sono indifferente» (vv. 857s.). La sensazione di una
gradatio ascendente, nella polemica antidelfica di Giocasta212, è
confermata dalla sua reazione di fronte al Messaggero corinzio
che annuncia la morte di Polibo; non solo i vaticini resi a Laio,
ma anche i vaticini resi a Edipo si dimostrano ora falsi: «oracoli divini, / ecco come finite!», esclama la regina (vv. 946s.);
e non tarda a farle eco lo stesso Edipo, pur nei toni di una
sconcertata sorpresa: «ah, donna, e adesso chi potrà guardare /
a Delfi, al focolare degli oracoli, o agli uccelli che gracchiano /
nel cielo?» (vv. 964-966); la morte di Polibo ha portato con sé,
all’inferno, «tutti gli oracoli, che non valgono nulla» (v. 971).
A questo punto – apice, si giudica, di una polemica in perenne
excalation – Giocasta enuncia il suo celebre εἰκῇ κράτιστον ζῆν,
«vivere come viene, come puoi: questa è la via migliore» (v.
979), perché «comanda la fortuna» e «nulla si prevede con
chiarezza» (v. 978). Sotto le vesti di una sentenza che pare del
tutto occasionale, «una frase tecnica, se non nella forma, nella
211
Knox, Oedipus, 42-45. Si veda anche Whitman, 136. Circa il ‘razionalismo’ pericleo – che è lontano da ogni ateismo o da ogni dissoluzione delle credenze tradizionali – valgano i giudizi sfumati di Ehrenberg, 131-139.
212
Tale sviluppo è riconosciuto da numerosi commentatori: cf. per
es. Maddalena, 302; Knox, Oedipus, 171-174; Hulton, 113-116; Winnington-Ingram, 180-184; Vegetti, 30.
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Introduzione
sostanza», si è detto213: una frase – sempre secondo Diano, in
un saggio memorabile – che rinvia al pensiero antifinalistico e
antifatalistico delle più illuminate cerchie ateniesi, e in particolare di Anassagora, cui rimanda la triade di tempo, intelligenza
e tyche che sostiene la trama dell’ultimo, lancinante monologo
pronunciato da Edipo prima della catastrofe («ma io mi sento
figlio della Sorte, / della Sorte felice», vv. 1080s.).
Eppure, ancora una volta, il testo complica il quadro e prepara
da sé le migliori repliche a ogni esegesi unilaterale. Dinanzi
al più franco e trionfalistico scetticismo di Giocasta, è Edipo
che continua a temere il vaticinio di Apollo relativo all’incesto
(vv. 974-988): la facile conclusione in senso agnostico è dunque
riaperta e superata; lo scetticismo continua a nutrirsi di timore
dinanzi agli dèi (v. 1011), e tale timore, a sua volta, provoca
un avanzamento dell’indagine con il successivo interrogatorio
del Messaggero corinzio (vv. 1015-1046) e il nuovo, fiducioso
φανῶ («porterò alla luce») pronunciato da Edipo (v. 1059).
La stessa Giocasta, lungi dal figurare come trasparente icona
del razionalismo sofistico o anassagoreo, appare – di fronte
a Edipo – come un’argomentatrice frettolosa e impulsiva (cf.
supra, LXIIIs.); e per sovrana ironia – dopo i primi audaci
pronunciamenti contro la mantica e dopo un canto corale che
si è letto quale ferma presa di posizione sofoclea (cf. infra, CIII)
– ecco Giocasta tornare sulla scena carica di offerte per Apollo;
213
Diano, 137; si veda, per ciò che segue, ibid. 135-155. Di Benedetto,
116, esprime dubbi sulla pertinenza del richiamo ad Antifonte – che
risale a W. Nestle, «Classical Philology» V (1910) 129-157 = Id., Grieschische Studien, Stuttgart 1948, 195-225, in part. 218s. – per spiegare l’espressione di Giocasta; cf. anche Serra, Edipo e la peste, 55;
Rodighiero, La parola, 149s. Il riscontro esatto, qui, importa meno
di una generale consonanza con la vague sofistica, che è comunque
più facilmente riconoscibile nel vocabolario euristico di Edipo che nel
personaggio, piuttosto ondivago, di Giocasta. Cf. anche Vidal-Naquet,
Edipo ad Atene, 137, sull’assenza di precisi «portavoce» filosofici.
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un’idea estemporanea, precisa il testo (v. 911 δόξα μοι παρεστάθη,
«ecco l’idea / che ho avuto»), onde scongiurare i turbamenti del
marito; ed è ora Giocasta – come già i Tebani di fronte a Edipo
ed Edipo di fronte a Tiresia – a dichiararsi «supplice», ἱκέτις (v.
920), dinanzi al dio Apollo214. Se le parole, dunque, rinviano a
idee di marcato scetticismo, gli atti le negano; e il personaggio
rifiuta la risoluzione in allegoria: un personaggio che è eccessivo accusare, con Wilamowitz, di «Frivolität»215, ma che nelle
sue oscillazioni e nelle sue incertezze mal si presta a fornire una
risolutiva chiave di lettura per la tragedia.
Ristrutturazione di moduli tradizionali, giustapposizione di
tratti caratteriali divergenti, contrasti fra parole e condotte
sceniche sono alcuni dei mezzi con cui Sofocle ha tratteggiato
un sistema di personaggi – e un mythos atto a sostenerli, ad
animarli, a rapportarli per parallelismi e contrasti – che in
nessun modo si lascia ridurre a parabola morale, fondata su
214
Cf. Winnington-Ingram, 182, e già Perrotta, 240. Per il canonico
paragone con la preghiera di Clitemnestra in Soph. El. 634-658 cf.
quanto osserva Di Benedetto, 112; il semplice confronto evidenzia la
distanza – almeno in termini di responsabilità personale – fra i due
caratteri femminili; si veda ora Jouanna, 469.
215
Wilamowitz, Excurse, 58, che liquidava così la leggerezza religiosa
di Giocasta; per il carattere emotivo e incostante del personaggio cf.
Schneidewin-Nauck-Bruhn, 22; Jebb, XXVIIIs.; Untersteiner, I, 188190; Webster, 76; Turolla, 100s.; Perrotta, 235s., 249s.; Whitman,
132s.; Reinhardt, 138; Hester, 40; Ehrenberg, 103; Buxton, 41s. Alcune considerazioni interessanti – fra molte sovrinterpretazioni – in
Pucci, 90-104. Il punto è ottimamente rimarcato da Paduano, Lunga
storia, 110. Ma di avviso non dissimile era, infine, lo stesso Diano, 155.
Vede in Giocasta un vero e proprio ‘doppio’ di Edipo – almeno nella
prima parte della tragedia – L.M. Napolitano Valditara in Curi-Treu,
143-162; così anche Ugolini, Sofocle, 181s.; ben più condivisibili le
osservazioni di Untersteiner, I, 188-190, Ronnet, 126s. e Vegetti, 30s.
sull’effetto contrastivo garantito dalla regina.
XC
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Introduzione
colpe caratteriali, etiche, religiose o politiche. Decisamente, «il
dramma non concerne le colpe di Edipo»216 ; e se la strategia
attuata da Sofocle non bastasse, rimane l’argomento, palmare e
logicissimo, cui ricorreva non senza ironia Dodds217: la catastrofe di Edipo non può dipendere dagli errori, dalle mancanze,
dalle colpe morali del protagonista, per la semplice ragione che
tale catastrofe è già avvenuta, e che qualsiasi comportamento
adottato in scena da Edipo è tragicamente e inevitabilmente
post eventum. Non c’è alcuno spazio – né drammatico, né logico
– per la colpa di Edipo.
216
Waldock, 155.
Dodds, 39; cf. anche Paduano, Sofocle, Seneca, 300s.: e in ogni caso
– dettaglio fondamentale – «l’ὀργή è estranea all’incesto» (ibid. 301),
ciò che implicherebbe comunque la parzialità di ogni impostazione
moralistica, e dunque la sua sostanziale inapplicabilità alla ‘tragedia’
edipica nel suo solidale, inscindibile insieme; cf. anche Manuwald, 21.
Che questo insieme sia spesso arbitrariamente dissolto è altra questione: cf. infra, CXV-CXXVIII.
217
XCI
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«Edipo è Atene»
«“Siate mansueti!” – forse era questo l’insegnamento di Sofocle –
“altrimenti sposerete vostra madre e ucciderete vostro padre”»218.
Così Friedrich Nietzsche, nel febbraio del 1872, voltava in irridente caricatura ogni esegesi a base morale dell’Edipo re; e una
caricatura tali esegesi continuano a sembrare, poco importa se
esse si appuntino su mende caratteriali e fiammate passionali, ovvero sul gramo fabula docet che chiude – in versi tanto triti quanto
sospetti – la tragedia di Edipo (vv. 1524-1530)219. La sorte del
protagonista è inquietante «esempio», παράδειγμα, agli occhi del
Coro (v. 1193), ma il suo carattere – come si è visto – non sopporta
riduzioni a paradigma didascalico. Può essere tentante trovarne
la formula in un solo tratto dominante, radice dei suoi eccessi nel
bene come nel male220; può essere altrettanto facile concludere
che Edipo sia «an assembly of quality»221, e perciò un individuo
irriducibile a tipi letterari o a universali umani: di qui il risoluto
truismo secondo cui «l’Edipo re è un dramma sul leggendario
Edipo, re di Tebe, scritto da Sofocle, e aderente alle convenzioni
curiosamente rigide della tragedia greca»; esso non è, insomma,
218
F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, in Opere, III/2, trad.
it. Milano 1973, 149. Contro i tentativi di ridurre l’Edipo re a una morale della moderazione – che è portato tradizionale e tema ricorsivo
degli interventi corali, ma non chiave di lettura per l’intera tragedia
– si vedano le giuste ironie di Waldock, 155-158 e Whitman, 129; cf.
anche Maddalena, 331 n. 3 contro Bruhn, 28.
219
Cf. anche supra, XIII. Intorno all’autenticità della chiusa gnomica
cf. infra, 173s. n. 151.
220
«La qualità predominante dell’Edipo sofocleo è il suo alto temperamento, il suo θυμός», concludeva esemplarmente Bowra, 192; cf.
anche Knox, Oedipus, 31: tutto deriva dal «carattere di Edipo nel suo
complesso».
221
Waldock, 166.
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Introduzione
«Man’s Quest for his own Identity»222. Più prudente, tuttavia – e
forse più «aderente alle rigide convenzioni della tragedia greca»
– è riconoscere che l’irriducibilità di Edipo, come dell’Edipo,
deriva da una precisa strategia testuale finalizzata ovunque ad
accostare, confrontare, manipolare convenzioni forse in sé rigide,
ma rese tanto più flessibili e complesse proprio in virtù di tali
accostamenti. Il congegno narrativo e drammatico dell’Edipo re
innesca e al contempo disinnesca meccanismi esegetici fra loro
contraddittori; esso delinea orizzonti di attesa che improvvisi
scarti – di trama o di carattere – giungono a frustrare; esso non
può patire riduzioni, ma può sopportare esegesi molteplici perché
in qualche misura le predispone e le alimenta.
Ciascuna di tali esegesi sembra trovare appigli testuali; e, con essi,
altrettanto solide confutazioni. Se la lettura moralistica suona risibile, a suo modo unilaterale appare il giudizio che vede in Edipo
«un uomo caparbiamente innocente, appassionatamente nobile in
tutti i suoi moventi, e pieno di areté eroica»223. Ad esso si oppongono scene di pur sfumato tenore tirannico, che il testo tratteggia,
senza compiute conclusioni; eppure, se anche per Edipo giunge
«il tempo della tirannia»224, è proprio in tale tempo che Sofocle
222
Frasi (e maiuscole) di Dawe 2006, 3 = Dawe 1982, 3, che ha di mira
soprattutto le ‘generalizzazioni’ freudiane. Su tale giudizio si veda il
divertito commento di Serra, 23, che ricorda l’analogo veto di S. Sontag, Contro l’interpretazione, trad. it. Milano 1967, 47: «se Amleto è
“su” qualcosa, esso è su Amleto e sulla sua condizione particolare,
non sulla condizione umana». Ma si ricordi anche il plateale «there
is no meaning in the Oedipus Tyrannus» di Waldock, 168: reazione
drastica contro gli eccessi della critica moralistica.
223
È il giudizio incondizionato, e istruttivamente estremistico, di
Whitman, 129.
224
Lanza, Il tiranno, 143. Si veda, per contro, la sfumata valutazione di
Serra, 26-32. Contro l’idea di una progressiva metamorfosi di Edipo
in tiranno – così com’essa era enunciata da Sheppard – si esprimeva
XCIII
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attribuisce al personaggio pronunciamenti e condotte inconciliabili con il tipo del tyrannos, accostandogli comprimari a funzione
attenuante più che contrastiva: un Tiresia carico di ὀργή, «ira», e
un Creonte teorico del τύραννα δρᾶν, «agire come un tyrannos» (v.
588). Ma anche l’esegesi fatalistica, apparentemente, sembra trovare nel testo le sue ragioni: accantonandone la forma più rudimentale, che è mera chiave allegorica, si può continuare a credere – con
la Cameron e con altri – che Edipo si muova in un mondo pieno
di dèi come quello di Talete; che la piaga epidemica, le rivelazioni
involontarie di Giocasta, l’irruzione del Messaggero, i comportamenti del Pastore – insomma, tutto ciò che infastidiva Voltaire – sia
inteso a suggerire la costante opera di una potenza soprannaturale,
«un tipo d’azione teistica, più che deistica»225. Saremmo di fronte,
insomma, a drastiche δαιμόνων συναλλαγαί, «eventi sovrumani», in
tutte le accezioni in cui l’ambigua espressione può essere intesa al
v. 34 della tragedia: attivi «rapporti con gli dèi» – il privilegiato
sostegno divino di cui Edipo ha goduto, stando al Sacerdote – ma
anche e soprattutto, passivamente, «eventi causati dagli dèi», ovgià Ehrenberg, 100 n. 26; e cf. supra, LXXX-LXXXIII.
225
Cameron, 79; cf. ibid. 63-95, con una lettura che è ora enfatizzata – in senso marcatamente colpevolistico – da Griffith, 45-69:
un’estremizzazione utile, che equivale per molti aspetti a una reductio
ad absurdum. Sul tema, con impostazione più aperta ed equilibrata, è
tornato Schwartz, 196-199. Interpretazioni analoghe erano già in Maddalena, 312-314 e in Perrotta, 199-202, che sostituisce la nozione di «determinismo teologico» a quella di Schicksalstragödie. I germi di questa
particolare declinazione dell’esegesi fatalistica, anzi ‘teistica’, sono in Reinhardt, 139-141, ma con ben altra complessità; si vedano anche Bremer,
161-165; Gould, 586-590; Kane, 195-198. Recentemente, J. Peradotto,
«Transactions of the American Philological Association» CXXII (1992)
1-15 ha scritto pagine molto acute sulla tecnica narrativa sofoclea e sulla
metafisica – o sulla teologia – che essa suggerisce; ma occorrerà guardarsi
dal tramutare in esplicita intenzione testuale (o autoriale) un effetto che
deriva soprattutto dai silenzi e dalle omissioni dell’Edipo re.
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Introduzione
vero improvvise irruzioni del divino nella vita umana. Ma in tale
rischioso rapporto con il divino – dichiara il Sacerdote nello stesso
distico, con espressione di cui si è sottolineata la valenza politica
– Edipo è «il primo degli uomini»226: frase sinistra, nella misura
in cui il privilegio si tradurrà in privilegiata catastrofe; ma anche
adeguato riconoscimento di un’autonomia umana che il testo comprova e rimarca: non sul piano degli eventi già avvenuti o delle
coincidenze ‘fatali’, bensì sul piano della loro assunzione da parte
di Edipo, che ne fa volontà d’agire e cioè – secondo la particolare
azione dell’Edipo re – volontà di sapere. Se a qualche titolo si
può stimare Apollo «il solo attore – il solo autentico agente – nel
dramma»227, la conclusività dell’affermazione è smentita o fortemente attenuata dal carattere strutturalmente ‘meta-narrativo’, e
perciò, si vorrebbe dire, ‘meta-fatalistico’ dell’Edipo re: se l’azione
è di Apollo, la volontà di illuminare e di far emergere l’azione è
tutta di Edipo. Che non a caso dichiara, sin dai vv. 255-258, il
carattere umanamente e politicamente obbligatorio dell’inchiesta (ἐξερευνᾶν), dell’«affare» o «impresa» (πρᾶγμα) pur «imposta
dal dio» (θεήλατον). Si può presumere che la grandiosa epidemia
d’esordio intendesse suggerire al pubblico – complice l’Iliade – una
diretta azione di Apollo: ma è appunto presupposizione, e gravosa, cui il testo non porta alcun appoggio; «l’immensità mitica del
Flagello», del resto, è innanzitutto funzionale alla «grandezza di
Per i rapporti fra l’ἀνδρῶν ... πρῶτον, «primo degli uomini», del v. 33,
e il titolo di πρῶτος ἀνήρ, «primo uomo» o princeps, tradizionalmente
riconosciuto a Pericle, restano valide le considerazioni di Ehrenberg,
141-148 e 158s.; non c’è alcun bisogno di pensare a un travestimento
drammatico di immediata trasparenza, e giustamente Knox, Oedipus,
73 ha ricordato la generica pertinenza al tipo ‘edipico’ del tipo ‘temistocleo’; cf. anche Degani, 290.
227
Gould, 589. Affermazioni analoghe ma più temperate in Schwartz,
195-197. Per contro, Schadewaldt, 285, osserva che «il dio Apollo,
con le sue istruzioni», si limita a «dare l’impulso».
226
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Federico Condello
Edipo» che ad essa si oppone228. E lo stesso ordine divino – che
come tale Creonte riporta e descrive (vv. 96, 106) – è raddoppiato
e per molti aspetti superato da un’azione che ricade integralmente
su Edipo, e che è fondamentale snodo della trama; azione a un
tempo politica e religiosa, qual è il solenne editto enunciato dal
sovrano, con supplemento imprecatorio, ai vv. 224-275229. È a tale
gesto che Edipo farà costante riferimento quando paventerà, e infine comprenderà, la propria condanna (vv. 744s., 816-820, 1290s.,
1379-1382). In modo del tutto parallelo, la punizione che attende
Edipo – e che consiste, da oracolo, in morte o esilio – è raddoppiata e superata dall’azione libera dell’accecamento autoinferto,
descritto con enfasi dall’Exangelos e dallo stesso Edipo (vv. 1230,
1331s.), che difende orgogliosamente le ragioni del proprio atto di
fronte alle commosse proteste del Coro («se non ho fatto tutto ciò
che è meglio, / non me lo dire, non mi fare prediche», vv. 1369s.).
Molto si è scritto sulle valenze simboliche – siano esse teologiche,
gnoseologiche o apertamente freudiane – dell’autoaccecamento; e
molto resta valido230. Ma non si può ignorare la primaria funzione
228
Daux, 121. Per l’ipotesi che nella peste si debba cogliere un diretto
intervento di Apollo cf. per es. Gould, 587s.; Griffith, 40, 56; Schwartz,
190s.; contra Knox, Oedipus, 9s.; e si veda anche Howe, 128.
229
Per questa libera azione di Edipo cf. Bowra, 172; Schwartz, 191. Per
la mistione di elementi politici e religiosi nell’editto, cf. infra, 149 n. 43.
230
Per la cecità come simbolo supremo dell’«apparenza» cf. per es. Reinhardt, 196-198; Cameron, 15-21; Seale, 247-254; più recentemente
H. Erbse, «Illinois Classical Studies» XVIII (1993) 57-71, con ampia
bibliografia; su linea analoga Calame, con i giusti rilievi di Buxton; cf.
lo stesso R. Buxton, «Journal of Hellenic Studies» C (1980) 22-37, con
equilibrata sintesi fra valenze sessuali e valenze gnoseologiche. Per la
simbologia sessuale cf. l’imponente documentazione apportata da Devereaux, e giudicata con favore da B. Gentili in Gentili-Pretagostini,
121; da Bettini ibid. 131; da Burkert, Edipo, 84; da Paduano, Lunga storia, 122. Si vedano anche Howe, 137s. e L. Edmunds in Gentili-Pretagostini, 240-242. Un’ampia analisi dei valori connessi alla cecità in E.A.
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Introduzione
drammatica ed etopoietica del gesto: che è quella di rimarcare,
nella fatalità della catastrofe ormai realizzata, la stabile presenza di
un’azione libera e autodeterminata231. Compresenza e distinzione
dei due piani sono esplicite, del resto, nelle parole che Edipo pronuncia ai vv. 1329-1334: «Apollo, è stato Apollo, amici miei, / che
ha compiuto il mio male, il mio dolore! / Ma nessuno ha colpito: io
sono stato, / io, infelice»232; con analogo accostamento di antonimi
si esprimeva il protagonista al v. 1272: «tutto il male che ho fatto e
che ho patito». E non è un caso che subito dopo il pronunciamento
del Coro al v. 1213 – laddove si sottolinea che «il tempo» ha scovato Edipo ἄκοντ(α), «contro la sua volontà» – intervenga l’Exangelos
a rimarcare l’orrore di atti «volontari e non involontari» (ἑκόντα
κοὐκ ἄκοντα, v. 1230): sofferenze αὐθαίρετοι, «autonomamente
scelte» (v. 1231). Ancora negli estremi versi della tragedia è un
soggetto libero, determinato e a tratti orgoglioso quello che chiede
una rapida esecuzione dell’esilio (vv. 1516-1523); è un Edipo che
ancora intende πάντα ... κρατεῖν (v. 1522), «vincere in tutto», e che
ancora si scontra con la prudenza di Creonte e con la decisione,
dubbia e sospesa, degli dèi (vv. 1518s.)233.
Bernidaki-Aldous, Blindness in a Culture of Light. Especially the Case of
Oedipus at Colonus of Sophocles, New York 1990, 11-136.
231
Ulteriore prova di un’impulsività incorreggibile, per altri: cf. per
es. Adams, 94. «Per la prima volta nel dramma ciò che accade è scelto
e calcolato», osserva per contro – a ragione – Gellie, 36. Per il modo
in cui il tema sarà rielaborato nelle Fenicie di Euripide, si veda ora G.
Serra in G. Avezzù (a c. di), Didaskaliai II. Nuovi studi sulla tradizione
e l’interpretazione del dramma attico, Verona 2008, 373-410.
232
Per questo accostamento di ‘agenti’ cf. Pohlenz, I, 255s.; Cameron,
114s.; Hester, 44; Vidal-Naquet, Edipo ad Atene, 149s.; Kullmann,
114-116. Vi scorge un segno dello strapotere di Apollo Adams, 105; e
così Bremer, 163s., che riferisce anche la prima parte dell’affermazione
all’autoaccecamento (ma ciò contrasta con i citati vv. 1369s.).
233
Knox, Oedipus, 191-196; contra Hester, 45 e Di Benedetto, 132 n. 44,
che valorizza i tratti – indubbiamente compresenti – di sottomissione e
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Di fronte a tali dati, l’esegesi ‘fatalistica’ risulta inadeguata o unilaterale anche nel suo aggiornamento – se tale può dirsi – ‘teistico’,
numinoso o pan-apollineo. Per le stesse ragioni, risulta inadeguata
la riduzione dell’Edipo re a una morale della σωφροσύνη, della «moderazione» umana, congiunta – per contrappeso meramente ‘simbolico’ o per autentica fede234 – all’asserzione dell’incontrastabile
kratos divino; insomma, la morale che Solone o Pindaro avrebbero
espresso in un distico – e il delfico γνῶθι σεαυτόν, «conosci te stesso», in un motto – estesa sino alla misura di una tragedia. Eppure
si è già visto come i presunti crimini di lesa religione, commessi da
Edipo e da Giocasta, si lascino comprendere in un quadro molto
più sfumato e articolato, sul piano dei comportamenti come sul
piano dei caratteri; la presunta irreligiosità non spiega né motiva
incesto e parricidio, come non li spiegano né li motivano irosità,
impulsività o altra biasimevole faute caratteriale. Non si tratta solo
di ‘sproporzione’ fra presunte ‘colpe’ e presunta ‘pena’: si tratta più
radicalmente e più semplicemente di un nesso causale che il testo
non esplicita né sostiene. «È un fatto impressionante – ha osservato Dodds – che dopo la catastrofe nessuno, sulla scena, dica una
parola per giustificare gli dèi o per criticarli»235. Anche in questo
caso, il silenzio del testo va accettato in tutto il suo peso. Per colmare tale silenzio, si sono invocate affermazioni di Sofocle – meabbattimento. Sulla finale, immutata indole di Edipo si vedano da ultimo
le condivisibili osservazioni di Davies, The End, 273-277 e di Foley, 534s.
234
Che la forza degli dèi e la sicura realizzazione dei loro oracoli fungessero, per Sofocle, da traslato per generiche leggi del Cosmo o della
Natura, è stato talvolta affermato esplicitamente, in una ideale ma precaria sintesi fra ‘razionalismo’ e apparato divino: si veda per es. Kitto,
Sophocles, 47-49 (la dike sofoclea come legge d’equilibrio universale)
e 54s. (le profezie come pura forma di ‘leggibilità’ del reale); cf. anche
Id., Greek Tragedy, 140-147; per converso, negli dèi di Sofocle si è
potuto vedere un simbolo dell’irrazionalità del mondo: diffusamente
Winnington-Ingram, 304-329; già Drexler, 16.
235
Dodds, 45.
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glio: dei suoi personaggi – irrimediabilmente ἕξω τῆς τραγῳδίας,
«al di fuori della tragedia». Affermazioni pro o contra la divinità:
«i dadi di Zeus cadono sempre bene», ad esempio236; oppure, per
il partito avverso, il celebre finale delle Trachinie (vv. 1265s.), dove
alla «compassione» (συγγνωμοσύνη) umana si oppone la μεγάλη ...
θεῶν ἀγνωμοσύνη, «la grande crudeltà degli dèi»237; e su questa via
si è giunti a immaginare – con polare ribaltamento dell’esegesi teologica – un Sofocle impegnato in una laica se non titanica protesta
contro gli dèi; o addirittura un Sofocle convintamente antidelfico,
in una paradossale lettura ‘obliqua’ dell’intera tragedia238. A mediare fra i due estremi, interviene l’esegesi che fu di Nietzsche, risorse con Reinhardt e piacque a Heidegger: esegesi che nel sospeso
finale della tragedia, e nello stesso autoaccecamento dell’eroe, vuol
cogliere i segni di una «rivelazione del divino in coincidenza con
la rivelazione dell’umano», in un atto di necessaria «correlazione»
fra uomo e dio239.
236
Soph. fr. 895 R.2, valorizzato ai suoi fini da Griffith, 62s.
«No one answers it. I can only suppose that the poet had no answer
to give», osserva ragionevolmente Dodds, 46. Non si è mancato di osservare che Sofocle, con l’Edipo re, avrebbe scelto una ben incongrua
vicenda per suscitare, nei suoi scettici contemporanei, l’amore per la
divinità: cf. Withman, 134. Se il dio stravince, la simpatia per Edipo è
garantita, nota Knox, Oedipus, 51. Riflessioni analoghe in Gould, 601.
238
Per il primo versante cf. Waldock, 158 e 167s.; per il secondo,
l’esegesi condotta da Ronnet, 330, su cui si vedano le critiche di Knox,
Word, 181. Altri hanno immaginato, più prudentemente, un Sofocle
«passing through an antireligious phase» (W.C. Hembold, «American
Journal of Philology» LXXII, 1951, 294 n. 3).
239
Così Reinhardt, 151s.; Bowra, 177 e 210s. scorgeva
nell’autoaccecamento addirittura un atto di «conciliazione» fra uomo
e dèi: lo segue su questo punto Lesky, 336. Quanto a Heidegger, si
veda M. H., Introduzione alla metafisica, trad. it. Milano 1968, 116s.
(con le osservazioni di Pucci, 52-61). Tali spunti risalgono, pur fra gli
accenti diversi, a Nietzsche, La nascita, 65s., che però faceva ricorso al
237
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Con diverso e meno ottimistico paradosso, Knox ha scritto
che «l’Oedipus Tyrannus di Sofocle congiunge due temi apparentemente inconciliabili, la grandezza degli dèi e la grandezza
dell’uomo»240. In questa forma, la linea critica dell’«heroic humanism» è correttivo indispensabile alle riduzioni moralistiche
e teologiche; a patto che si precisi come la stessa «grandezza
dell’uomo» – di un «uomo» che si colloca entro precise coordinate storiche e culturali – sia ritratta da Sofocle in un quadro
profondamente problematico e articolato. È questo un punto su
cui l’analisi di Di Benedetto ha portato contributi essenziali241,
sottolineando la dimensione emotiva che interpunge l’esperienza
di Edipo sin dalla prima menzione dei «genitori» da parte di
Tiresia (v. 436)242 e valorizzando il finale della tragedia, tradizioColoneo ed evitava il confronto diretto con il testo di Sofocle (bene
Ugolini, Friedrich Nietzsche, 48, che sottolinea lo «scarto dalla tragedia al mito»). «Ciò significa chiaramente pensare a un dramma non
ancora scritto», osservava Hester, 44 a proposito delle non rare interpretazioni in chiave ‘conciliativa’ (o apertamente positiva) del finale;
similmente – proprio su Nietzsche – si esprimeva Perrotta, 187.
240
Knox, Oedipus, 195. Considerazioni analoghe su Sofocle e sulla sua
relazione con l’‘umanesimo’ ateniese in Schadewaldt, 215-230.
241
Per ciò che segue, si vedano Di Benedetto, 85-140 e passim e Id. in
Gentili-Pretagostini, 299-311.
242
Si vedano già Maddalena, 296 e Perrotta, 216s., che parla di «dramma dell’angoscia»; utile anche G.O. Hutchinson in Griffin, 64-66. Nella
domanda che segue al v. 437 («aspetta: e chi sarebbero? Chi è che mi
ha fatto nascere?») Edipo ripete la frustrante esperienza già vissuta dinanzi all’oracolo di Apollo (vv. 788s.), quando nessuna risposta segue
all’ansiosa interrogazione circa le proprie origini: cf. Cameron, 126s.;
si veda inoltre supra, LVI n. 139. Sulle diverse tappe dell’angoscia vissuta da Edipo si sofferma Lanza, La disciplina, 200-210. Tale caratteristica sarà estremizzata da Seneca: cf. Paduano, Seneca. Edipo, 5-24.
Una rilettura integralmente dedicata all’esperienza emotiva del protagonista – con rimozione della dimensione intellettuale – è quella
di Pasolini: cf. G. Paduano, in AA.VV., Il mito greco nell’opera di PaC
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nalmente considerato – se non bolsa appendice – convenzionale
e del tutto prevedibile effusione d’affetti243. È nel finale che
hanno luogo, al contrario, alcune fondamentali ridefinizioni del
personaggio, tali da gettare luce sull’intera vicenda: è qui che
Edipo dà compimento alla dimensione emotiva che accompagna
lo sviluppo del suo implacabile raziocinio; è qui che il fondamentale metodo d’inchiesta fatto proprio da Edipo, con orgoglio
pari alla dedizione, è marcato da un significativo shifting delle
diatesi verbali: dal «trovare» assunto in prima persona ai vv. 68,
108, 120, 304 all’irrimediabile «essere trovato» (ἐφηύρημαι) del
v. 1421 (ma cf. già v. 1213); dall’attivo «portare alla luce» (φανῶ)
dei vv. 132 e 1059 al passivo e definitivo πέφασμαι, «appaio alla
luce per ciò che sono», del v. 1184. È qui, soprattutto, che si
consuma una definitiva «dissociazione del problema di Edipo
da quello della polis»244, o un ripiegamento sul genos – e specie
sul versante femminile della discendenza – che intrattiene con il
tema dell’incesto un rapporto su cui si tornerà (infra, CXXIVCXXVI). Siamo qui all’eroe di Sofocle come ritratto da Fraenkel:
«un essere umano che […] è fuori della polis umana»245.
solini, a c. di E. Fabbro, Udine 2004, 79-98; Id., Edipo, 164-171 (dello stesso Pasolini è ora da vedere – capitolo trascurato del Fortleben
edipico – il giovanile Edipo all’alba [1942], di cui qualche estratto è in
P.P. P., Teatro, Milano 2001, 19-38; su manoscritti e varianti inedite cf. G.
Trevisan, «Studi Pasoliniani» II, 2008, 55-71).
243
Contro il finale si pronunciava, naturalmente, Voltaire, Lettre III,
cit., 29; riprendeva e rincarava il giudizio Perrotta, 217-220; Per simili
deprezzamenti, si veda in sintesi Gigante, Dalla parte, 66; per la condanna espressa da Dawe sull’intera ultima scena cf. infra, 170s. n. 142.
Più consistenti i sospetti sui vv. 1524-1530, per cui cf. infra, 173s. n.151.
244
Di Benedetto, 130 e in generale 130-135; cf. Id. in Gentili-Pretagostini, 303.
245
Due seminari romani di Eduard Fraenkel. Aiace e Filottete di Sofocle,
a c. di alcuni partecipanti, prem. di L.E. Rossi, Roma 1977, 24. Come
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Da questo punto di vista, naturalmente, «non è più proponibile
una visione eroica dell’eroe sofocleo»246. Non è più proponibile,
senz’altro, una visione eroica che pretenda di esaurire quel
particolare eroe sofocleo che è Edipo: e che nel finale, se pure
mantiene tratti di forza e d’orgoglio che garantiscono la continuità del personaggio, è costretto a un drastico abbandono della
razionalità politica e a un ripiegamento – parte imposto, parte
assunto – sul genos. Ma esaurire l’Edipo è impossibile altresì
– per le ragioni conclamate che si sono ripercorse – ai modelli
del fatalismo, del moralismo colpevolistico o della generica esegesi in chiave etica o etico-politica. L’oggetto è semplicemente
troppo complesso. E la complessità della strategia sofoclea si
condensa in quel passo che a lungo è stato riconosciuto – ma
senza riuscire a estorcerne risposte nette – come chiave di volta
dell’intera tragedia: il famoso, «famigerato»247 secondo stasimo
(vv. 863-910), laddove il Coro tocca a un di presso tutti i temi
più sensibili – e più soggetti a variazioni e inquadramenti elusivi
– dell’Edipo re; laddove il Coro prega ἁγνεία, «purezza», di parole e d’azioni, e invoca i nomoi eterni di cui è padre l’Olimpo;
minaccia l’improvviso erompere del «tiranno» da uno stato
di hybris, e annuncia dello stesso tiranno l’inevitabile rovina;
paventa la decadenza dei culti oracolari per la mancata realizzazione dei «vaticinii di Laio», e conclude diagnosticando la
osserva B. Knox in De Romilly, 26, «the polis, as Sophocles had his
chorus sing in Antigone, is a human invention, perhaps man’s greatest
creation, but it is no more than that». Si veda anche Segal, Oedipus,
117-120.
246
Così ha commentato V. Di Benedetto in Avezzù, 124, proprio a partire dalle citate pagine di Fraenkel. Contro la «humanistic heresy» si è
espresso di recente – parodiando le formule di Dodds – W.H. Race,
«Syllecta Classica» XI (2000) 89-105. Il giudizio sarebbe stato condiviso da Lacan: cf. infra, CXLV n. 366.
247
Così Paduano, Sofocle, Seneca, 301 n. 1.
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morte e la rovina dei «culti divini», o addirittura del «divino» (τὰ
θεῖα)248. Un tale stasimo può prestarsi a essere squalificato come
esempio dei «balbettamenti ideologici del Coro»249, ovvero
– partendo dal presupposto che il Coro sia formato da «sane
and independent spectators» – essere equiparato a una condanna emessa da Sofocle su Edipo e sulla sua hybris250. Poiché
il Coro è qui, come e più che altrove, personaggio soggetto a
variazioni emotive e a reazioni occasionali 251, si può presumere
Per il valore forte e ampio di τὰ θεῖα in questo contesto cf. Knox, Oedipus, 209 n. 96; Schadewaldt, 294; Bollack, ad l.; Serra, Edipo e la peste, 59.
249
Paduano, Sofocle, Seneca, 301 (cf. anche Lunga storia, 100s. n. 95),
che chiama a sostegno le posizioni – per molti aspetti diverse – di
G. Müller, «Hermes» XCV (1967) 269-291 (giudicato «delirante» da
Di Benedetto, 136 n. 54) e Winnington-Ingram, 190-202; cf. anche
Paduano, 482s. n. 52 e Id. in Curi-Treu, 163-173, con osservazioni
puntuali sul carattere ondivago dei vecchi Tebani nel corso della tragedia. Drastico Whitman, 134s., secondo cui il Coro esprimerebbe,
nel secondo stasimo, «a popular reflection» intonata a «the somewhat
confused morality of the bourgeoisie» (si veda contra Ehrenberg, 55
n. 27); un giudizio analogo in Gould, 600. Una squalificazione dei
pronunciamenti gnomici del Coro – e in particolare del v. 873 – era
già in Wilamowitz, Excurse, 58.
250
Così Webster, 90, senza il minimo dubbio. Fra i molti possibili, si
vedano Campbell, ad l. e Jebb, XXII; Bowra, 164s. Questa interpretazione, oggi per lo più abbandonata, è ancora in Kamerbeek, ad l., e
ben più recentemente in Schwartz, 193s.; contra, fra i molti possibili,
Untersteiner, II, 63 n. 48; Lesky, 338; Burton, 162.
251
Per le funzioni del Coro in Sofocle e in particolare nell’Edipo re, una
sintesi fornisce Burton, 138-185. Fra i sostenitori di opposte interpretazioni del Coro – personaggio o voce d’autore – equilibrato il giudizio
di Knox, Word, 190: il Coro è «a minor character and one he [Sofocle]
was prepared to sacrifice for an important effect»; si veda anche T.G.
Rosenmeyer in R.M. Rosen-J. Farrell (ed. by), Nomodeiktes. Greek Studies in Honor of Martin Ostwald, Ann Arbor, MI 1993, 557-571. Frequente il tentativo d’intendere il secondo stasimo quale brano a doppia
248
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che esso esprima un giudizio – condiviso o no da Sofocle – su
quanto ha appena visto o sentito; sull’empietà di Giocasta, si
ammette per lo più252; o sulla violenza che ha segnato gli esordi
regali di Edipo – con l’uccisione di un uomo che potrebbe essere Laio – esattamente come una violenza non meno cruda
– l’infanticidio – ha segnato il regno di Laio e Giocasta 253;
non meno bene, tuttavia, il sospetto di tirannide potrebbe
appuntarsi, in ottica filo-edipica, su coloro che sino a questo
punto sono stati i soli, espliciti oggetti di una simile accusa: e
cioè gli stessi Tiresia e Creonte, coinvolti in una possibile congiura ai danni del sovrano254. In ogni caso, anche se riferito a
Edipo, il pronunciamento del Coro può essere inteso in bonam
partem, quale partecipe monito nei confronti di un sovrano
che non cessa d’essere amato e che proprio perciò suscita le
preoccupazione dei suoi seguaci 255. Fuori da ogni immediata
reazione al contesto, il Coro può leggersi come riflessione su
una permanente «condition of mortality, a contingent possibility of human life»256 ; ovvero, con maggior enfasi politica,
lettura: battuta ‘in parte’ per il Coro e professione di fede per Sofocle;
esemplare Adams, 99: «the old men are […] dramatically mistaken, but
they are expressing an eternal verity»; cf. anche Kane, 201s.
252
Era già il giudizio degli scolii al passo (su cui cf. Hester, 42). Si vedano
poi, fra i molti possibili, Wilamowitz, Excurse, 58; Schneidewin-NauckBruhn, 13; Robert, I, 301; Kamerbeek, 20; Ehrenberg, 55; Lesky, 336s.;
Di Benedetto, 136s. Sulla parzialità di questa esegesi cf. Burton, 165.
253
Su improbabili allusioni a Laio si è concentrato I. Errandonea,
«Hermes» LXXXI (1953) 129-145.
254
Così, da ultimo, Ph. Brandenburg, «L’Antiquité Classique» LXXIV
(2005) 29-40.
255
Così per es. Sheppard, ad l.; Maddalena, 310-312; Kamerbeek, ad
l.; A.S. McDevitt, «Classica et Medioevalia» XXX (1969) 78-101, in
part. 92s.; contra Hester, 42 e già Perrotta, 238 n. 1.
256
Così Segal, Sophocles’ Tragic World, 189. Si veda anche Kitto, Greek
Tragedy, 164s.
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come richiamo ai rischi insiti in ogni forma di potere, anche
quello positivamente valorizzato di Edipo, inteso o no quale
emblema del potere ateniese257; o addirittura – fuori da ogni
immediata relazione con la trama – quale improvvisa rottura
della finzione scenica, ‘parabasi tragica’ rivolta all’uditorio
contemporaneo onde metterlo in guardia dagli incipienti rischi
di una tirannide storica, variamente riconosciuta – al variare
delle datazioni proposte per l’Edipo – in uno o più fenomeni
politici contemporanei 258.
Che lo stasimo, presunta ‘morale’ della tragedia, possa leggersi in
tanti modi, è già in sé un fatto significativo; e se si escludono le
più agguerrite (o le più ingenue) letture colpevolistiche, che indicano in Edipo la fonte di ogni hybris, nessuna esegesi del passo
è in sé propriamente ‘falsificabile’. Si dovrà ritenere senz’altro,
di tutto l’ambiguo pronunciamento, il rinvio al tema dei nomoi
eterni – che offre un ovvio parallelo per il celebre monologo di
Antigone – e quanto ne consegue nei termini di una «dimensione […] che va al di là dello Stato nel suo aspetto più propriamente politico»259; nei termini, cioè, di una limitazione apposta
257
Knox, Oedipus, 61-77 e 100-106. Per un messaggio politicamente
non circoscritto cf. per es. anche Bowra, 189, e ora Serra, 26-28.
258
La lotta fra Tucidide di Melesia e Pericle, come voleva G.H. Macurdy, «Classical Philology» XXXVIII (1942) 307-310, o l’incipiente
golpe del 411 a.C., come ha argomentato – in una delle più suggestive
analisi del brano – Diano, 159s. (così ora Longo 2007, XXVIs.; cauto
Degani, 287-289). L’esegesi ‘parabatica’ del brano risale almeno a W.
Linwood, Sophocles. Tragoediae superstites, London 1878, secondo
Hester, 41; una recente, vigorosa opposizione in Gigante, Dalla parte,
84s. L’interpretazione del corale come parabasi d’attualità («un vero
e proprio pamphlet contro i sofisti», scherzava Burkert, Edipo, 102) è
facilitata dal carattere metateatrale del v. 895: cf. infra, 162 n. 101.
259
Di Benedetto, 137. Si vedano anche le canoniche pagine di Ehrenberg, 53-58.
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all’autonomia della polis e della sua prassi, che sembra collimare
con la valenza dell’intera tragedia. Tale «questione del divino»
– come osserva Burkert – risponde alla momentanea crisi in cui
versa Edipo, «e spinge alla ricerca di un’autorità suprema, al di là
del re, del tiranno o del criminale»260 : in questa forma, nella particolare situazione in cui l’ode si colloca, resta dunque aperta la
possibilità di intendere il pronunciamento del Coro come forma
di sostegno e d’integrazione, non necessariamente d’opposizione
o di limitazione, al sapere/potere incarnato da Edipo. Qui, come
altrove nella tragedia, la ricerca di un messaggio netto è impedita
da una precisa strategia d’indecisione e d’elusione261. L’interprete,
da parte sua, può decidere. Ma il testo non decide, né su Edipo
né – dietro Edipo – su Atene. Ciò che è perfettamente adeguato
a una tragedia in cui «non esiste un vero paladino del mondo
divino o di quello umano»262.
In questa prospettiva, poco giova – ed è anzi un’evidente rinuncia critica – il rinvio ai tratti caratteristici del «hero-king», figura
‘ambivalente’ a sua volta ‘spiegata’ dai modelli rituali del capro
espiatorio o di una generica ‘liminalità’ à la Van Gennep263. Ma
260
Burkert, Edipo, 103.
Per quanto riguarda il secondo stasimo, equilibrato il giudizio di
Hester, 41-43, che riconosce la deliberata oscurità del brano. Così anche Burton, 165. Molto attento ai riferimenti polisemici e indeterminati
del testo Lesky, 337-339. Due ricchi contributi d’insieme, con rinuncia
a una lettura riduzionistica dell’ode, sono quelli di R. Scodel, «Classical
Philology» LXXVII (1982) 214-223 e di C. Carey, «Journal of Hellenic
Studies» CVI (1986) 175-179; cf. anche Burkert, Edipo, 154 n. 31.
262
È l’eccellente diagnosi di Ehrenberg, 105.
263
Si veda soprattutto Segal, Tragedy, 43-59, che riconosce la vaghezza di tali riscontri; cf. anche Bremmer, 47. L’esegesi centrata
sul modello del pharmakós o ‘capro espiatorio’ è stata resa celebre
soprattutto da Vernant, Ambiguità, ma risale almeno a J.E. Harrison, Epilegomena to the Study of Greek Religion, Cambridge
1921, XLI; la sua più estremistica applicazione si deve ovviamente
261
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Introduzione
la spiegazione è solo apparente, perché essa dipende dall’Edipo
sofocleo molto più di quanto Edipo dipenda da questo generico ‘tipo’ drammatico-rituale, e si risolve in fondo in una
petizione di principio, in cui l’essenziale resta da spiegare264:
perché la scelta del ‘tipo’, ad esempio, e secondo quali modalità
di distribuzione sincronica (il carattere complesso di Edipo) e
diacronica (lo sviluppo del personaggio); e ancora, soprattutto,
con quali possibili referenti storici o ideologici. Ammettere la
complessità e l’irriducibilità dell’Edipo re non significa ammeta R. Girard, La violenza e il sacro, trad. it. Milano 1980, 97-121; Id.
in AA.VV., La critica tra Marx e Freud, trad. it. Rimini 1973, 119159 (cf. Pucci, 39-41; Rudnytsky, 344-350; Segal, Oedipus, 165s.;
Paduano, Lunga storia, 59-63). Si veda anche F. Fergusson, Idea di un
teatro, trad. it. Milano 1973, 36. Un’espressione molto prudente della
teoria in Vidal-Naquet, Edipo ad Atene, 158s.; oscillante Bollack, La
naissance, 104.
264
Per le critiche al modello ‘espiatorio’ si veda soprattutto Di Benedetto, 131; Id. in Gentili-Pretagostini, 302s.; Di Benedetto-Medda, 366;
cf. anche Howe, 130, 136 e 139 e ora Foley, 526s.; Lanza, La disciplina, 209; Flashar, 132-134; Calame, 24; Serra, Edipo e la peste, passim e
111-128; Paduano in Curi-Treu, 56. Come osserva Paduano, Sofocle,
Seneca, 304, la generica formula del pharmakós «si applicherebbe con
altrettanta facilità a molti eroi tragici, e in particolare sofoclei»; cf. anche Burkert, Edipo, 100: «lo schema del capro espiatorio è un accorgimento introduttivo piuttosto che un principio fondamentale di questo
dramma». Su un punto essenziale – come è stato più volte osservato da
Di Benedetto – il modello del capro espiatorio è direttamente smentito
dal testo: Edipo, alla fine della tragedia, non lascia Tebe; i suoi crimini
non causano la sua espulsione, ma la sua inclusione nella casa d’origine:
cf. infra, CXXVI-CXXVIII. Solo per una svista – e per l’ovvia interferenza dell’Edipo a Colono – Vernant, Ambiguità, 105 può dichiarare che
«Edipo, al termine della tragedia, è cacciato da Tebe»; lo scivolone non
è raro: cf. G. Steiner, Morte della tragedia, trad. it. Milano 1965, 12 (su
cui Davies, The End, 269) e, in Italia, il classico S. D’Amico, Storia del
teatro drammatico, Milano 1960, I, 48.
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tere un’ambiguità consustanziale all’opera di Sofocle o – peggio
– al tragico tutto. Significa, più semplicemente, riconoscere la
complessità della risposta storica che Sofocle – entro i margini
delle convenzioni tragiche – offre dinanzi a una crisi storica, o
alla crisi storica, della società e della cultura ateniesi. Società e
cultura che l’Edipo re non traveste in uno schema di personae
drammatiche dal carattere allusivo – la fortunata quanto speciosa equazione Edipo-Pericle, Giocasta-Aspasia265 – ma piuttosto
assimila e sussume in un sistema di valori morali e filosofici, in
una studiata campionatura di Wertbegriffe e di lessemi tecnici,
in una trasfigurata ma ben riconoscibile compagine di pratiche
istituzionali, teorie politiche, idee à la page o credenze tradizionali266. Da questo punto di vista, la pur discussa equivalenza
stabilita da Knox – «Edipo è Atene» – merita il massimo credito, almeno in assenza di più precise determinazioni storiche267.
Un’Atene che significa innanzitutto la cultura del razionalismo
politico, etico, tecnico di marca lato sensu sofistica o ‘periclea’,
della quale Sofocle sembra riconoscere a un tempo grandezza e
insufficienza, eroismo e miseria. «Un Sofocle ancora e sempre
conservatore, dunque, quello che si rivela nell’Edipo re»268; un
conservatore che sembra giudicare con severità i limiti, ma non
senza ammirazione i meriti di un modello di cui constata la
crisi, se non la fine. Non a caso, quando Edipo lascia vacante il
suo ruolo di guida politica, costretto a un drastico ripiegamento
265
Qualche traccia di tale identificazione sopravvive ancora in Pohlenz,
I, 258, almeno per Giocasta/Aspasia; per l’infondatezza di simili identificazioni si veda Canfora, 181.
266
Per la ricorrenza, nell’Edipo, di lessico attinto all’inquisizione processuale, alla ricerca medico-scientifica e in genere al vocabolario
euristico, fondamentali Knox, Oedipus, 61-98 e Di Benedetto, 86-100;
si vedano inoltre Vegetti, 23-30; Ugolini, Sofocle, 161-171.
267
Knox, Oedipus, 61-77. Si veda anche Id. in De Romilly, 1-37.
268
Degani, 290.
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Introduzione
sul genos d’origine (cf. infra, CXV-CXXVIII), al suo posto non
rimane che un Creonte incapace di decisioni, in un irrisolto
«conflitto fra due stili di leadership»269 che è l’esito ultimo,
aperto e aporetico, della tragedia. Anche in questo caso il giudizio di Sofocle – attraverso la complessa macchina testuale
o ideologica dell’Edipo re – è destinato a restare splendidamente indeciso.
Posizione storica e posizione cronologica
Oltre il riconoscimento di una così vaga posizione storica, in
direzione di una più precisa posizione cronologica, i dati non
consentono d’andare. In assenza di documenti (cf. supra, V), gli
indizi su cui fondare congetturalmente la datazione sono i seguenti: 1) per un terminus ante quem, le presunte eco dell’Edipo
re in opere sicuramente datate; 2) per un terminus post quem, le
allusioni dell’Edipo re a eventi storici contemporanei; 3) per una
cronologia relativa, interna al corpus sofocleo, le caratteristiche
di stile e di metro. Per quanto concerne il primo punto, nessuna
delle reminiscenze via via isolate dalla critica può dirsi sicura: né
Aristofane, Acarnesi, v. 27 (425 a.C.), con la generica apostrofe
«città, città» (cf. OT 629)270; né le presunte citazioni dall’Edipo
269
Foley, 534, in una equilibrata valutazione dei presupposti politici
ricavabili dal finale. Sulla mancata espulsione di Edipo e sul suo terminale confronto con Creonte cf. infra, CXV-CXXVIII.
270
Un riscontro che risale a F. Marx (in Festschrift für Theodor Gomperz, Wien 1902, 129-140) e che ha goduto di ampio credito: cf. per es.
Ritter, 183; Kamerbeek, 28; Lesky, 322s.; D. Del Corno in Cantarella,
26; Müller, 7-11. Ma il tragicismo aristofaneo – che torna in Eupoli, fr.
219 K.-A., e che peraltro ha forma quasi identica in Eur. Andr. 1222
– è vago, anche a fronte della documentazione superstite: cf. Perrotta, 258s. e P. Rau, Paratragodia. Untersuchung einer komischen Form
des Aristophanes, München 1967, 185; giusto lo scetticismo di Dawe
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ai vv. 62 e 106 della Pace aristofanea (421 a.C.)271; né la ‘parodia
di struttura’ intravista nei Cavalieri dello stesso Aristofane, dove
il motivo della profezia e il carattere del Paflagone si sono voluti
ricondurre – ma si intuisce quanto genericamente – a influssi
sofoclei272. Un riscontro convincente non offrono nemmeno i vv.
1008-1020 dell’Ippolito euripideo, dove l’interrogatorio fra Teseo e
Ippolito ha ricordato ad alcuni lo scontro fra Edipo e Creonte273.
Altre supposte e ancor più incerte consonanze fra l’Edipo re e
opere di sicura o probabile datazione possono qui essere tralasciate274, mentre la palmare somiglianza fra i tetrametri finali e
2006, ad l. (e ad vv. 1513-1530). Altre improbabili eco dell’Edipo negli
Acarnesi ha rintracciato W.N. Bates, «American Journal of Philology»
LIV (1933) 166-168.
271
L’eco è data per certa da Knox, Word, 124 n. 36, ma anche in
questo caso siamo di fronte a espressioni troppo circoscritte e facilmente poligenetiche: Ar. Pax 62 ὦ Ζεῦ, τί δρασείεις ποθ᾿ ἡμῶν τὸν λεών;
(~ OT 738 ὦ Ζεῦ, τί μου δρᾶσαι βεβούλευσαι πέρι;) e 105s. Ἑλλήνων πέρι
/ … ὅ τι ποεῖν βουλεύεται (che riprenderebbe la seconda parte dello
stesso verso sofocleo). Per un’altra possibilità cf. infra, CXIVs. n. 287.
272
La tesi risale a V. Milo, Per la cronologia dell’Edipo re, «Bollettino di
Filologia Classica» XXXV (1928-1929) 203-205, ripreso da Knox, Word,
120-122. I pochi riscontri verbali che sostengono il paragone – tutto
‘tematico’ – sono affatto generici. Si veda ora Avezzù, Il mito, 215s.
273
L’ipotesi risale a Th. Zielinski, «Philologus» LV (1896) 523, ed è stata
riproposta con convinzione da R.M. Newton, «Greek, Roman and Byzantine Studies» XXI (1980) 5-22; cf. anche Müller, 12-26 e già Webster,
92 e Masqueray, 162 n. 1. Poiché si tratta di convergenza in una mera
situazione drammatica, il riscontro non può avere peso decisivo: e ciò
anche a prescindere dall’impossibilità di stabilire la precisa direzione
della presunta imitatio – Newton, o.c. 10-17 si sforza di stabilire la maggior congruenza della scena alla trama dell’Edipo – e dai ben noti problemi relativi al rapporto fra il Kalyptomenos e lo Stephanephoros (cf. da
ultimo Avezzù, Il mito, 152-157). Contatti verbali precisi non si trovano
(nonostante Müller, 27-31, e G. Karsai in Machin-Pernée, 329-342).
274
Per es. la supposta ripresa di OT 353 ἀνοσίῳ μιάστορι in Eur. El.
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la chiusa delle Fenicie euripidee, se non dimostra l’origine spuria
della gnome apposta al nostro Edipo, fornisce comunque indicazioni cronologiche inservibili275. Tra lo storico e il letterario oscilla
invece la presunta allusione dei vv. 56s. («perché non sono nulla
torri o navi / vuote, senza nessuno che le abiti») alle parole pronunciate da Nicia – secondo Tucidide VII 77,7 – nell’imminenza
dell’ultima battaglia al Porto Grande di Siracusa (agosto del
413: «gli uomini sono la città, non le mura o le navi vuote
d’uomini»)276; riscontro significativo, certo, ma solo se si dà per
assodato che tanto Sofocle quanto Tucidide citino indipendente683 ἀνοσίους μιάστορας, su cui si sofferma pur con cautela Longo
2007, 154, ma datando al 413/412 l’Elettra euripidea: un assunto
largamente insicuro. Ugualmente generica la presunta allusione
dell’Ecuba euripidea – con l’accecamento di Polimestore – alla scena
di autoaccecamento nell’Edipo re, argomentata per es. da S. Sudhaus,
König Ödipus’ Schuld, Kiel 1912, 17: contra Perrotta, 259s.
275
Per la supposta inautenticità del finale sofocleo, cf. Dawe, Studies,
I, 270-272 e infra, 173s. n. 151. Con pari o più ragione, però, si giudica
interpolato il finale delle Fenicie, che proprio dalla chiusa dell’Edipo
re (autentica o meno) parrebbe desunta: cf. Lesky, 339; Mastronarde,
ad l., e da ultimo Medda, 361. La priorità dell’Edipo re sulle Fenicie è
ammessa da numerosi studiosi (cf. e.g. Lloyd-Jones–Wilson, Sophoclea,
114; forti argomenti già in Perrotta, 261s.; dubbioso Avezzù, Il mito,
214). Purtroppo, le Fenicie darebbero un terminus ante quem fissabile
fra il 411 e il 408 (una sintetica discussione in Mastronarde, 11-14;
cf. ora Medda, 77-81), e dunque conciliabile con pressoché tutte le
datazioni proposte per l’Edipo re. Inutili anche le presunte coincidenze
con Eur. Andr. 100-102 (altro parallelo, o sospetta fonte, per il finale
dell’Edipo re), la cui datazione resta incerta, benché abbastanza alta da
escludere una datazione tarda dell’opera sofoclea; ma le coincidenze,
in questo caso, sono molto esili (cf. Dawe, Studies, I, 271).
276
La coincidenza è altamente valorizzata, in prospettiva cronologica,
da Diano, 157s. e O. Longo, «Atti dell’Accademia Patavina di Scienze, Lettere e Arti», LXXXVII (1974-1975) 61-76; cf. anche Gigante,
Dalla parte, 73 e Longo 2007, 111; molto cauto Degani, 289 n. 211.
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mente una testimonianza orale del discorso (riportata dai «pochi
di tanti», ὀλίγοι ἀπὸ πολλῶν [Tucidide VII 87,6], che scamparono
al disastro) e se si escludono tutte le altre – non meno probabili
– eventualità: che Tucidide dipenda da Sofocle, per esempio, o
che entrambi rielaborino autonomamente un cliché oratorio, tipicamente attico277. Quanto alle vere e proprie allusioni storiche, è
bene precisare che esse, quand’anche dimostrate, non possono in
alcun modo garantire la prossimità dell’opera agli eventi oggetto
d’allusione, benché talvolta si trascorra da un’ipotesi di posteriorità a una presunzione di sostanziale contemporaneità; ma la peste
d’Atene, per esempio – che da più parti si è voluta intravedere dietro lo scenario d’apertura della tragedia278 – non può assicurare
che l’Edipo re si collochi a ridosso del 430-429 a.C. Al contrario,
non mancherebbero ragioni per supporre che un’eventuale allusione a eventi così dolorosi non possa ammettersi che a consistente
distanza dai fatti279. E se è vero che alcuni dettagli del λοιμός,
277
Per il quale cf. già il celebre discorso di Temistocle in Hdt. VIII 61. Si
vedano inoltre Jebb, ad l. e Kamerbeek, ad l. La menzione delle «navi»,
al v. 56, si spiega male a Tebe, ma è ovvia in Atene: cf. Knox, Oedipus,
63, che la include fra i più clamorosi anacronismi della tragedia.
278
Tra i sostenitori più convinti dell’ipotesi, Knox, Word, 112-124; fra
i molti altri possibili – con diversi gradi di certezza – Kamerbeek, 28s.;
Pohlenz, I, 259; Ehrenberg, 160s.; Winnington-Ingram, 342; cauti
Sheppard, 100; Lesky, 324; Jouanna, 42 e 578. In Italia, si veda da
ultimo Ugolini, Sofocle, 113 e 157-160.
279
Così ragionava, a proposito della peste, Jebb, XXX, ricordando la
polemica accoglienza riservata a Frinico – probabilmente nel 493 a.C.
– per la sua messinscena della Presa di Mileto (Erodoto VI 21,2; un
quadro sintetico in Degani, 256-258). Questa era già l’opinione di Weil
nel 1844, citato con plauso da Perrotta, 257s., e di Dain in Dain-Mazon,
67; così ora Canfora, 181. Per una «esperienza dell’epidemia di qualche anno prima, ormai decantata» si pronuncia Avezzù, Il mito, 216.
La peste ateniese è troppo fiduciosamente trasformata in un terminus
ante quem da Müller, 37s. (così, con qualche dubbio, anche Hester, 60;
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della «pestilenza» descritta da Sofocle, presentano interessanti
coincidenze con il quadro epidemico e insieme bellico di Atene280,
è altrettanto vero che non c’è qui particolare che non possa spiegarsi sul piano propriamente letterario; come è stato osservato, è
la datazione dell’Edipo re che può promuovere ad allusione storica
la generica descrizione sofoclea, non quest’ultima che può datare
l’Edipo re281. Ciò vale, a maggior ragione, per tutte le altre allusioni
storiche volenterosamente riconosciute fra le pieghe della tragedia: assunti a volte gratuiti282, a volte più convincenti, ma sempre
lontani da ogni forma di solida accertabilità.
Quanto a elementi di metro e di stile, è ben nota l’insicurezza
che grava su tali criteri283. Perrotta, con qualche séguito, ha
Griffith, 87; O. Taplin ap. March, 128 n. 53).
280
Per esempio l’insistenza sulla carestia ai vv. 169-171 (cf. Thuc.
II 54); la trasfigurazione della peste nell’immagine di un Ares assalitore ai vv. 190-215; la possibile allusione a una nuova ondata
epidemica al v. 164 (Thuc. III 87); la menzione di un fuoco quasi
febbrile ai vv. 27, 166, 176, 191 (cf. Thuc. II 49); il riferimento al
contagio causato dai cadaveri al v. 180 (cf. Thuc. II 50). Un’analisi
della terminologia ippocratica nell’Edipo re offre D. Curiazi, «Museum Criticum» XXXII-XXXV (1997-2000) 51-60; una sinossi delle
coincidenze con Tucidide (peraltro ovvie) in Ugolini, Sofocle, 158s.
281
Daux, 115s. Per una spiegazione integralmente letteraria dei motivi
adibiti da Sofocle cf. per es. Bowra, 170s.; Maddalena, 332s. n. 10; Vidal-Naquet, Edipo ad Atene, 137; cf. inoltre Müller, 32-38. Un tentativo di negare al λοιμός sofocleo ogni connotazione medica, a vantaggio
di una ‘piaga’ integralmente mitica, è quello di Delcourt, Sterilités.
282
Su queste e simili allusioni all’attualità esprimeva il suo scetticismo
Wilamowitz, Excurse, 59. Le numerose allusioni a Pericle riconosciute
da Ehrenberg, 159-162 e passim non forniscono che un vago terminus
post quem.
283
Cf. per es. Knox, Word, 122; si veda inoltre quanto osserva H.D.F.
Kitto, «American Journal of Philology» LX (1939) 178-193. Per una
recente riflessione sulle tecniche di datazione dei testi tragici e per una
fondata messa in discussione di molte date tradizionali cf. S. Scullion,
CXIII
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riconosciuto nel finale impiego dei tetrametri trocaici (vv. 15151530) un tratto recenziore, accostabile alla più tarda produzione euripidea284. Il riscontro è in sé indiscutibile, ma indebolito
dalla scarsità della nostra base documentaria. Altro si può dire,
e si è detto, a favore di una datazione orientata verso gli ultimi
anni di Sofocle: la crisi religiosa che si è ipotizzata a monte del
secondo stasimo (cf. supra, CII) può serbare memoria degli
scandali occorsi nel 415 a.C.285, o della montante ostilità che
verso mantica e oracoli ispirò il fallimento della spedizione siciliana; un fatto è che temi analoghi percorrono, e ben più che
marginalmente, l’Elena di Euripide (412 a.C.) e le Tesmoforianti
aristofanee (411 o 410 a.C.)286 ; e da quest’ultima opera si
potrebbe forse trarre spunto per qualche riscontro testuale287.
«Classical Quarterly» LII (2002) 81-101.
284
Perrotta, 257-268. Non fornisce indicazioni chiare, in materia di
metro, la percentuale delle risoluzioni in trimetro, che per Sofocle
sortisce risultati fluttuanti e inconcludenti: il 6% di OT è prossimo al
6,2 % di Ai. e al 5,9 % di Tr., sicuramente fra le più antiche, mentre
è lontanissimo dall’11 % di Ph.; ma il 5,2% di OC, ultima tragedia
sofoclea, basta a complicare il quadro (i dati sono in E.B. Ceadel,
«Classical Quarterly» XXXV, 1941, 84s. e n. 2). Tali oscillazioni non si
lasciano disporre in alcuna salda progressione, nemmeno tendenziale;
cf. ora anche Scullion, o.c. 91. Per una panoramica sui tetrametri in
tragedia, cf. N. Imhof, «Musaeum Helveticum» XIII (1955) 125-143.
285
Scandali connessi, come si sa, alla figura di Alcibiade (profanazione dei
misteri e mutilazione delle erme); una ricostruzione avvincente dell’affaire
in L. Canfora, La lista di Andocide, Palermo 1998. Per l’addensarsi di
tragedie edipiche negli ultimi anni del V sec. a.C. cf. supra, VII.
286
Diano, 156-165, approvato da Degani, 287-290. Il confronto con
l’Elena, purtroppo, è legittimato dal tema ma non dai riscontri testuali, piuttosto magri, che se ne possono ricavare: cf. Diano, 160s.
287
Si potrebbe paragonare il v. 738 dell’Edipo (ὦ Ζεῦ, τί μου
δρᾶσαι βεβούλευσαι πέρι;) con Ar. Th. 71 ὦ Ζεῦ, τί δρᾶσαι διανοεῖ με
τήμερον;. Ma il rinvio all’Edipo non è l’unico possibile (cf. C. Prato,
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Il non liquet è comunque soluzione obbligata; e quanto si potrà
dire, semmai, è che la radicalità della crisi culturale e politica
rappresentata dall’Edipo re – insieme al complesso e combattuto giudizio che se ne ricava sulla gloria di Atene – sembra
presupporre una condizione assai inoltrata di smarrimento e di
pericolo288; e uno sguardo gettato su Atene – sull’Atene periclea
– che sa già di rammaricata retrospezione, anche in ciò che esso
conserva di ammirato e orgoglioso.
Che c’entra l’incesto?
Se tale è la posizione storica dell’Edipo re, e se ben stabilito è il suo
radicamento nella cultura e nella società ateniesi del tardo V sec.
a.C., si può dubitare che quanto appartiene al nucleo leggendario
della storia trovi in Sofocle un rilievo degno della sua eco postuma:
parricidio e incesto, prima di ogni altra cosa. Quanto al parricidio,
tuttavia, si è già osservato come la particolare angolatura narrativa
scelta da Sofocle – una «disposizione dei fatti», una σύστασις τῶν
πραγμάτων, che procede dagli effetti alle cause – valorizzi al massimo grado una possibilità che è in germe nella leggenda, pur senza
costituirne un esito obbligato289: la trasformazione del mito edipico
in un mito di regalità a rovescio (cf. supra, LXVIII), dove tutta
l’azione compiuta dal protagonista – su un piano rigorosamente
conoscitivo – si traduce in una demistificazione e in una distruzione dei presupposti politici su cui poggia la sua stessa praxis di
sovrano.
Aristofane. Le donne alle Tesmoforie, Milano 2001, 160, ad l.; e supra,
CX n. 271). Altri echi di Sofocle in Ar. Th. rintracciava Diano, 164s.
288
È quanto prudentemente si concede Di Benedetto, 121 n. 23.
289
Come dimostrano le versioni presofoclee che mantengono saldamente
Edipo sul trono di Tebe, o che comunque non ne imputano la detronizzazione al carattere e alle scelte del protagonista: cf. supra, XXXIs.
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Passi dunque per il parricidio, che in quanto regicidio – tradotto
a sua volta nel suicidio politico di un re – si lega strettamente al
nucleo ideologico della tragedia. Ma l’incesto, che c’entra? Tratta
d’incesto, l’Edipo re sofocleo? La domanda parrebbe peregrina,
se una compatta linea critica non avesse promosso – per lo più in
esplicita funzione antifreudiana – una decisa minimizzazione del
nucleo ‘edipico’; ciò che comporta, per lo più, una triplice operazione ermeneutica: dichiarare il parricidio variante marginale e
secondaria del regicidio; dichiarare l’incesto dettaglio laterale, del
tutto subordinato al parricidio-regicidio; dichiarare il nodo parricidio-incesto secondario rispetto ai temi della leggenda edipica
o dello stesso Edipo re290. La mossa è rude ma efficace: peccato
290
Per la prima opzione, cf. esplicitamente Delcourt, 66-103 e passim;
Propp, 92-96; per la seconda, oltre alla stessa Delcourt, 190-213 e a
Propp, 123-126, si vedano Fromm, 192s. e Hillman in Kerényi-Hillman,
81s.; inoltre Paduano, Lunga storia, 58 e 82 e da ultimo Guidorizzi, 180
(«il senso del loro [scil. di Edipo e Giocasta] matrimonio non è l’eros ma
appunto la regalità […]. L’Edipo greco ha poco di edipico […]: Giocasta
è solo il premio di una gara nuziale»); per la terza, la scelta è a piacere, se
non altro quanto a omissioni e silenzi: per qualche dichiarazione esplicita
si vedano almeno Lévi-Strauss, Antropologia, 242-246 («in Lévi-Strauss
tali motivi [scil. parricidio e incesto] non sono un messaggio, ma elementi
di un codice», osserva Edmunds, Oedipus. The Ancient Legend, 44) e
Vernant, Ambiguità, 119s. e passim (su cui cf. Paduano, 28: «ci riesce
difficile credere a […] Vernant quando individua una struttura tragica
indifferente al tabu del parricidio-incesto»; cf. anche Pucci, 2; Green,
248-250; Paduano, Lunga storia, 8; Id. in Curi-Treu, 41; per l’incesto,
una ferma replica alla sua sottovalutazione offre Burkert, Edipo, 98). Tali
posizioni non sono che l’esito ultimo di una progressiva ‘simbolizzazione’
dell’incesto che da Seneca conduce sino a Corneille, a Dryden e oltre:
su questo punto si è soffermato di recente, con osservazioni acute, D.
Konstan, «Scholia» n.s. III (1994) 3-23. Diversa ma convergente strategia
è quella – ormai archiviata – che tenta di scorgere nell’incesto una tarda
aggiunzione al mito edipico: cf. per es. Robert, I, 44-47 o Wehrli, passim;
contra si vedano per es. Dirlmeier, 15 o Mastronarde, 21.
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Introduzione
non abbia potuto giovarsene l’Edipo di Sofocle, così intento a
dolersi di un parricidio e di un incesto che altro non sarebbero se
non metonimia (e corollario) di un ordinario regicidio. La mossa
è tanto più efficace, poi, perché proveniente dal versante antropologico – o addirittura psicoanalitico – prima ancora che dal versante
filologico: al punto che dichiarare infondate e non pertinenti le
osservazioni di Freud sull’Edipo re è diventato ormai uno scontato
segno di bon ton critico. Eppure, a quanto sembra, l’incesto c’entra:
se non con «la leggenda del re Edipo», certo con «l’omonimo
dramma di Sofocle»291. Su questo punto vale la pena soffermarsi.
Quando Edipo, ai vv. 258-268, sigla il suo proclama con un
diffuso riferimento al proprio statuto di successore al trono,
l’‘ironia tragica’ sofoclea si fa prossima, come è stato osservato, al
«black humor»292: «io detengo» – dice Edipo – «i poteri che un
tempo erano suoi [scil. di Laio], / e il suo letto, e una donna che
ha raccolto / entrambi i nostri semi». Il riferimento al ruolo dei
parenti prossimi nel processo attico per omicidio (δίκη φόνου) è
evidente293, ma il séguito non può che risultare superflua divagazione e, perciò, più lancinante rincaro d’ironia (vv. 261-265): «e
potevamo / generare, noi due, figli fratelli, / figli d’entrambi»;
e quindi: «ma fu sfortunato, con i figli: e la sorte / ora si è rovesciata sul suo capo – / per questo lotterò come se fosse / mio
padre». A questo punto della tirata, il doppio canale comunicativo cui Edipo è costretto si fa completa divaricazione fra lettera
e senso. In apparenza, le sue parole si situano sul piano della
mera legittimità giuridica e politica: ciò che dimostrano i versi
291
Secondo la già ricordata espressione di Freud (L’interpretazione,
cit., 243): cf. supra, XIV.
292
Pucci, 80. Crocianamente implacabile, nella condanna di così artificiose trovate, era Perrotta, 254s.
293
Cf. Knox, Oedipus, 82 e Greiffenhagen, 152-154. Ulteriori osservazioni in Lewis, 42-47.
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successivi, dove l’albero genealogico dei Labdacidi è sciorinato
da Edipo nel tono formale che impronta tutto il bando, in modo
da avvalorare – nel ricordo di così antica e durevole discendenza
– la nobile aspirazione del nuovo re a farsi paladino, e legittimo
erede, del predecessore assassinato (vv. 267s.): «Laio […] figlio
/ di Labdaco, che nacque a Polidoro, / figlio di Cadmo, figlio
dell’antico / Agenore»294. Tutto ciò, con le sue valenze dinastiche
e politiche, si situa con piena coerenza al livello del discorso
cosciente; ma a tale discorso altro si oppone: e non già un presunto ‘inconscio di Edipo’ – concetto infondato, l’onore della
cui invenzione non va reso, come vedremo, a Freud – bensì, più
banalmente, la coscienza degli spettatori, che decifrano ogni
dettaglio del discorso secondo la chiave già impostata all’esordio
della tragedia, con quell’ambiguo e rilevatissimo τέκνα, «figli
miei», del v. 1 (cf. supra, LXXXIIIs.). Sotto questa luce, la stessa
terminologia impiegata dal sovrano appare sinistra: il γυναῖχ᾿
ὁμόσπορον del v. 260 («donna che ha raccolto / entrambi i nostri
semi») implica una mistione genetica tutt’altro che risolvibile
sul piano dell’asettica successione al trono; quando l’epiteto
ὁμόσπορος ritornerà, in bocca a Tiresia, al v. 460, esso mostrerà
tutta la sua polisemia: trasferendosi da Giocasta a Edipo (πατρὸς
/ ὁμόσπορος), esso passerà dalla valenza di «con-seminata (da due
uomini)» a quella di «con-seminatore (della stessa donna)»295.
294
In questa sintetica ma «armonica storia del potere tebano» (Paduano, Lunga storia, 83) Edipo si inserisce quale sommo incidente, eppure
degnissimo e legittimo (sin troppo legittimo) membro: per le funzioni
della genealogia qui esibita cf. Bowra, 173; Reinhardt, 120; Knox, Oedipus, 56; G. Paduano in Curi-Treu, 47, che parla giustamente di «filialità simbolica e analogica»: il piano su cui Edipo vorrebbe, e non può,
mantenersi; cf. ora anche Avezzù, Edipo. Variazioni, 18. Tale genealogia, peraltro, evidenzia la significative rimozione dei crimini genetici in
Sofocle: cf. Pucci, 82 e supra, XXXIX n. 93.
295
Cf. per es. Jebb, ad ll.; Knox, Oedipus, 115; Vernant, Ambiguità,
116; Pucci, 80s.
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Introduzione
Anche l’espressione impiegata ai vv. 261s. per indicare gli ipotetici ‘figli comuni’ di Laio e di Edipo esibisce il suo carattere
di perifrasi gravosa e allusiva: κοινῶν ... παίδων κοίν᾿ ἄν ... / ...
ἦν ἂν ἐκπεφυκότα, «di figli congiunti […] / […] la produzione
congiunta», rendeva Sanguineti296, a mimesi di quella «subtle
emphasis […] of the iteration in κοινῶν κοινά»297, che è insieme
concretizzante metonimia (κοινά = κοινωνία, κοινὴ φύσις) ed evasiva generalizzazione (κοινῶν = ἀδελφῶν)298; se ne ricava l’idea di
una ‘comunanza’ che va ben oltre la parentela acquisita (e per di
più ipotetica: si noti il doppio ἄν, parimenti enfatico) e allude invece a un eccesso di κοινωνία, di «comunanza» o «congiunzione»,
e a una consanguineità non più regolata da norme differenzianti
e gerarchizzanti. Ha qui i suoi primi accenni – e resterà costante
in ogni approssimazione sofoclea al tema dell’incesto – quella
distorsione espressiva che forza la sintassi in tortuose ambage e la
semantica in enfatici pleonasmi, per piegarle a esprimere valenze
normalmente escluse dal lessico, fermamente ipotattico, della
parentela. Una marca di stile che non è «né degna né decorosa»,
ma «indecente»299; e che trova la sua prima espressione, nel modo
296
Sanguineti, Teatro antico, 235.
Jebb, ad l., che resta il miglior commento al passo per l’esplicitazione
dei suoi sottintesi.
298
Impossibile non pensare al primo verso dell’Antigone (ὦ κοινὸν
αὐτάδελφον Ἰσμήνης κάρα), dove si registra la stessa reiterazione semica,
a indicare una ‘comunanza’ che supera e complica la consanguineità
consueta; l’inafferrabile quid dell’incesto, con le iperboli genetiche che
ne derivano, pare sempre inquadrato semanticamente da un surplus di
senso, da un’addizione di valori che strania la sintassi e la semantica;
per questo il mostruoso «gemeinsamschwesterliches» di Hölderlin
(Antigone di Sofocle, trad. it. Torino 1996, 5) rimane a suo modo la
resa più fedele; per i composti in αὐτο- (con funzione semantica paragonabile a quella dei composti in ὁμο- nel caso qui trattato) cf. N.
Loraux, «Metis» I (1986) 165-196.
299
Così Sanguineti, Teatro antico, 228, a proposito dello stile sofocleo
297
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più significativo, all’interno di un discorso intonato al più rigido
registro della parola legale e dinastica. Sin da questo primo
approccio, l’incesto mostra il suo ruolo nell’economia generale
dell’Edipo re: esso risulta, propriamente, l’inverso del politico;
il suo esatto rovescio, verso il quale Edipo – nella sua drastica
caduta – sarà irrimediabilmente respinto.
Dunque una peripeteia – ancora una volta – che dalla polis
riconduce al genos, dalla posizione paterna e insieme politica
dell’esordio alla posizione filiale e meramente familiare della
conclusione. Anzi: iper-familiare, se in questa linea si vorrà
recuperare il risultato dell’analisi condotta da Lévi-Strauss
sul mito edipico; un’analisi che colloca tale mito fra i due
estremi dei «rapporti di parentela sopravvalutati» (Cadmo/
Europa, Edipo/Giocasta, Antigone/Polinice) e dei «rapporti
di parentela sottovalutati o svalutati» (strage degli Sparti,
Edipo/Laio, Eteocle/Polinice), con annessa opposizione fra
mito dell’autoctonia umana e sua negazione300. La negazione,
nell’Edipo re, interessa semmai quella lineare e armonica sequenzialità delle successioni – familiari e politiche allo stesso
tempo – che si è vista esibita nella genealogia regale tebana dei
vv. 267s.; e quel tentativo di affiliazione meramente politica
(«come se fosse / mio padre», vv. 265s.) con cui Edipo legit– filtrato evidentemente da Hölderlin – nell’Edipo re.
300
Lévi-Strauss, Antropologia, 239-246, con la precisazione: «la sopravvalutazione della parentela di sangue sta alla sottovalutazione di
quest’ultima, come lo sforzo di sfuggire all’autoctonia sta all’impossibilità
di riuscirci» (ibid. 242). Su questa interpretazione, alquanto schematica, cf. per es. S. Turner, «Arethusa» X (1977) 103-163; J. Peradotto
in Edmunds-Dundes, 179-196; per il versante antropologico, si veda
la critica di M.P. Carroll, «American Anthropologist» LXXX/4 (1978)
805-614. Divagazioni edipico-filosofiche, a partire da Hegel, Freud e
Lévi-Strauss, in J. Butler, La rivendicazione di Antigone, trad. it. Torino
2003, 79-112.
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tima il proprio statuto di re e di inquirente. Alla verticalità
delle successioni regali, in cui Edipo cerca la propria posizione,
si sostituisce, tramite l’incesto, l’esplosione dei rapporti genealogici, il crollo di ogni possibile «architettura del ghenos»301:
una conflazione delle linee parentali in cui verticalità e orizzontalità si confondono, e in cui ogni relazione è destinata, più
che alla «sopravvalutazione», allo sdoppiamento e alla moltiplicazione. Così il testo sofocleo sottolinea a più riprese, a partire
dalla ben nota profezia di Tiresia («si scoprirà che vive con i
figli / fratello, a un tempo, e padre: e che è marito / e figlio,
a un tempo, della stessa donna. E con suo padre ha mescolato
il seme / e di suo padre è l’assassino», vv. 457-460); paradossi
parentali su cui già l’Ismene dell’Antigone aveva insistito (v. 53
μήτηρ καὶ γυνή, διπλοῦν ἔπος, «sua madre e moglie – è doppia,
la parola»)302, e su cui Seneca (Edipo, vv. 1009s., 1034-1036)
costruirà virtuosistiche variazioni, portando all’estremo quella
«esattezza nel contare i propri titoli incestuosi» che Voltaire
rimproverava all’Edipo sofocleo303.
Il διπλοῦν ἔπος, la «doppia parola», ovvero il raddoppio di ogni
termine parentale, è ciò cui Edipo si troverà irrimediabilmente
costretto, sul piano espressivo, quando invocherà i γάμοι, le
«nozze», che hanno «mostrato al mondo padri, figli, fratelli,
sangue identico, ragazze / che erano madri e mogli» (vv. 1405301
O. Longo in Uglione, 81.
Espressivamente ancor più audace il lamento di Antigone ai vv. 864s.
κοιμήματά τ᾿ αὐτογέννητ᾿ ἐμῷ πατρὶ δυσμόρου ματρός, «gli amplessi consanguinei» o «con i propri consanguinei» o «che generano (da sé) se
stessi», «di mio padre con la mia disgraziata madre» (o viceversa), secondo uno stravolto sistema di relazioni su cui si veda ora il commento
di M. Griffith, Sophocles. Antigone, Cambridge 1999, 272s.
303
Voltaire, Lettre III, cit., 30; gli fa eco Perrotta, 220. Ulteriori estremizzazioni del modulo si avrannno – a partire da Seneca – nell’Edipo di
Alfieri: cf. P. Paradisi, «Italianistica» XXXVI/3 (2007) 37-49.
302
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1407); un ἄγαμον γάμον πάλαι / τεκνοῦντα καὶ τεκνούμενον (vv.
1214s., «queste tue nozze che non sono nozze, / dove da tanti
anni il padre è il figlio, / il figlio è il padre»), aveva detto il Coro,
nel tentativo di circoscrivere – per accostamento d’antonimi
– l’intima autocontraddittorietà di queste «nozze non-nozze»
che «generano generate»304. E la duplicazione si farà lacerazione
d’identità quando Edipo inviterà le figlie a toccare le sue mani
«di fratello» che hanno strappato i suoi occhi «di padre» (vv.
1481-1483). A tutto ciò Edipo è costretto dalla drastica moltiplicazione dei legami genetici cui ha tentato di sottrarsi prima con
la fuga da Corinto, poi con l’utopica affiliazione politica al genos
tebano, infine con la trionfale proclamazione dei vv. 1076-1085,
dove dichiararsi «figlio della Sorte», παῖδα τῆς Τύχης (v. 1080),
equivale ad azzerare ogni legame parentale umano305, demandandone illusoriamente il ruolo ai συγγενεῖς / μῆνες, a quei «mesi
fratelli» in cui si assomma il tempo vissuto e a cui si riduce, in
una allucinazione d’autoreferenza, l’identità dell’individuo. Il
Coro, che nell’iporchema subito seguente asseconderà l’illusione
del sovrano306, demanda al Citerone il ruolo di «compatriota,
madre e balia» di Edipo (vv. 1090s.), prospettando in avanzo genealogie divine intese a negare ogni vincolo di parentela umana
(vv. 1097-1109). Ma, del regicida, Tiresia aveva profetizzato:
Nozze «in which ὁ τεκνούμενος has long been identified with
ὁ τεκῶν: i.e. in which the son has become the husband», parafrasa
Jebb, ad l.: ma non si può non osservare la straordinaria brachilogia
dell’espressione, che quasi mima la conflatio di ogni categoria oppositiva rappresentata dall’incesto.
305
«Significa mettersi al di fuori sia dei valori che dei rischi del ghenos», ben commenta Paduano, Lunga storia, 119. Per la polisemia
connessa al termine τύχη – «caso», «disgrazia», «fortuna» – cf. infra,
166 n. 117.
306
Per questo tipico interludio di gioia corale, premessa alla catastrofe
inevitabile, cf. infra, 166 n. 118.
304
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ἐγγενὴς / φανήσεται Θηβαῖος, «si scoprirà che egli è un tebano
autentico» (vv. 442s.); anzi, più precisamente – a voler valorizzare
ἐγγενής – «chiuso nel genos», nel suo stesso genos. È la negazione
di ogni autonomia individualistica, di ogni serena sintesi fra polis
e genos: Edipo precipita dalla sfera di un kratos liberamente e
orgogliosamente esercitato in una dimensione iper-genetica, iperfamiliare e iper-parentale.
La sopravvalutazione (coatta) dei rapporti di parentela è affidata da Sofocle a un sistema semantico e retorico che funziona,
come si è visto, per antitesi, per accostamenti e sdoppiamenti,
ma anche per sorprendenti figure d’enfasi che rimarcano, in
una sorta di potente distinctio, la valenza moltiplicata di lessemi che vanno ben oltre l’accezione consueta. Di tali fenomeni
abbiamo già visto un esempio in ὁμόσπορος (vv. 260 e 460), in
sé mero aulicismo per «consanguineo»; apparenti ‘pleonasmi
parentali’ che sottintendono, in realtà, la forma iperbolica che
il genos edipico viene ad assumere: così i citati ἐγγενής (v. 442) o
αἷμ᾿ ἐμφύλιον (v. 1406), «sangue identico», letteralmente «sangue
consanguineo» o «parentale», che – non senza allusioni al
sangue versato da Laio e poco sopra menzionato (v. 1400)307
– indica in realtà l’abnorme mistione cui i regolari rapporti di
parentela si trovano qui sottoposti. Per questa via si spiegheranno anche problematici truismi come quello del v. 1361 ὁμογενὴς
δ᾿ ἀφ᾿ ὧν αὐτὸς ἔφυν308, dove l’‘omogenesi’ di Edipo è pleonasmo
307
Per questa probabile allusione cf. O. Longo in Uglione, 80, e già
Maddalena, 327.
308
Letteralmente reso da più di un traduttore («consanguineo
di coloro dai quali sono io stesso nato»: il che capita a tutti) e corretto da più di un editore con ὁμολεχής di Meineke (così da ultimo
Dawe: cf. Dawe 2006, ad l.), «compagno di letto (scil. dei miei genitori)»: intervento splendido ma non necessario. Si può forse intendere ὁμογενής = ὁμοῦ γεννῶν, «che genera insieme, nello stesso luogo
(scil. del proprio padre e/o con la propria madre)», ma come osserva
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che suggerisce una consanguineità abnorme e iperbolica. E
analogamente, come intendere la prima parte dell’espressione
utilizzata da Tiresia al v. 425 (ἅ σ᾿ ἐξισώσει σοί τε καὶ τοῖς σοῖς
τέκνοις, «[la sorte] che farà te uguale a te stesso e ai tuoi figli»)?
«Uguale a te stesso», oltre che «uguale ai tuoi figli»: dunque
uguale a un «te stesso» che è già più di un singolo individuo,
perché è insieme fratello dei suoi figli e padre dei suoi fratelli309.
La mostruosità dell’incesto si esprime nelle forme, tautologiche
o iperboliche, dell’identità a sé: ma è un’identità raddoppiata
e moltiplicata in tutti i nessi differenziali che, entro il reticolo
delle parentele, la definiscono.
Alla ‘paternità’ tutta politica di Edipo, alla sua natura conclamata di sovrano ξένος, «straniero» (v. 220; ξένος λόγῳ
μέτοικος, «straniero all’apparenza», correggerà Tiresia al v.
452), subentrano dunque una ‘filialità’ e una ‘fratellanza’ che
negano ogni identità autonoma al protagonista. È una peripeteia che fa dell’incesto, come si è detto, l’antitesi perfetta del
politico310, e che nella deflagrazione di una parentela ormai
Jebb, ad l., ὁμογενής può significare solo «che ha il genos in comune».
Comunanza di genos che qui sarà rimarcata sia dalla parte degli ascendenti (il che è ovvio) sia da quella dei discendenti, che si trovano paradossalmente sullo stesso piano di Edipo (figli e fratelli insieme). È il prefisso
ὁμο- che qui sembra risemantizzato e amplificato sino a significare una
comunanza decisamente iperbolica (cf. Vernant, Ambiguità, 116).
309
«Oedipus present equated with Oedipus past», intende Knox,
Word, 102: interpretazione che si concilia perfettamente con quella
che qui si propone. Il testo è non di rado corretto: cf. le osservazioni
di Wilamowitz, Excurse, 65s. e ora Lloyd-Jones–Wilson.
310
Significativo è il ribaltamento cui è sottoposta la trama delle metafore marine e agricole che imperano nell’Edipo re: cf. infra, 137s.
nn. 6 e 7. In entrambi i casi, dalla dimensione statale e politica si
trascorre rapidamente alla dimensione personale. Per le metafore agricole, si veda quanto osservava già, pur en passant, S. Freud, Totem
e tabù, in Opere, VII. Totem e tabù e altri scritti. 1912-1914, trad. it.
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Introduzione
troppo stretta, e integralmente ‘orizzontale’, minaccia la fine
della stessa stirpe; di qui le parole rivolte alle figlie, in un finale
spesso squalificato quale appendice patetica311. In questo finale
è l’incesto – non il parricidio – a occupare tutta l’attenzione del
protagonista e del Coro312. E ciò che incombe su Antigone e
Ismene – significativamente, il pendant femminile del genos313
– è la stessa implosione endogamica che ha annientato Edipo: è
l’esclusione da ogni rapporto con un mondo esterno connotato
per la sua dimensione cittadina, relazionale, pubblica (ἀστῶν
... ὁμιλίας, «riunioni di cittadini», v. 1489; ἑορτάς, «feste», v.
1490), idealmente coronata dal legame inter-genetico di un
matrimonio ormai precluso alle figlie (ἀγάμους, «senza nozze»,
v. 1502; ἀνάνδρους, «senza marito», v. 1506; cf. vv. 1494s.). Un
solo annientamento (δηλήματα, v. 1495) consacra la fine della
stirpe, per i padri come per i figli314. Quando Edipo supplica
Torino 1975, 86 n. 4.
311
Cf. supra, CI. Si veda per es. Adams, 107; Sheppard, ad l.; Dain in
Dain-Mazon, 66; Kamerbeek, ad l.; Kitto, Greek Tragedy, 138. Contro
le interpretazioni troppo liriche della chiusa cf. Gellie, 38. Esemplare
per semplicismo H. Love, Introductions and Traslations to the Plays of
Sophocles and Euripides, I, Cambridge 2006, 32s.
312
Lo hanno osservato, contro ogni minimizzazione del tema, Burkert,
Edipo, 98 e Gellie, 35. Non a caso, le più estremistiche riprese contemporanee del mito edipico si concederanno – a contrario – paradossali e giubilatori elogi dell’incesto: si vedano specialmente G. Testori,
Edipus (1977), ora in Id., Opere. 1965.1977, a c. di F. Panzeri, Milano
2003, 1323-1374, in part. 1360-1365; S. Berkoff, Alla greca (1980), in
Id., Alla greca. Decadenze, trad. it. Roma 1991, 15-81, in part. 78-81;
cf. in proposito Paduano, Lunga storia, 227-230, 239-242; Id., Edipo,
178-182. Ma qualcosa del genere era già in Dryden (1678): cf. J. D.-N.
Lee, Edipo, a c. di M. Sestito, Venezia 2008, 219-225 (at. V sc. 1).
313
Per la rottura della linea padre-figlio, cf. Di Benedetto, 128s.; Id. in
Gentili-Pretagostini, 303; Paduano, Lunga storia, 123s.
314
Il distico 1494s. è purtroppo contrassegnato da un guasto testuale
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Creonte di non lasciar «eguagliare» Antigone e Ismene ai mali
che hanno distrutto lui, il verbo ἐξισώσῃς (v. 1507) non può
non rinviare a quella paradossale ‘uguaglianza’, o identità tautologica, che Tiresia aveva profetizzato a Edipo (v. 425, su cui
supra, CXXIV)315. E la preghiera rivolta al nuovo reggente di
Tebe è il tentativo di ripristinare, per le figlie, quel rapporto
di ‘verticalità’ parentale che appare compromesso sul versante
dei genitori autentici: Creonte è μόνος πατήρ, «unico padre» (v.
1503), per Antigone e Ismene; il piano legale dell’affidamento316
è l’unica fuga possibile dall’iperbolica relazione familiare
causata dall’incesto. Edipo, nell’ultimo gesto della sua tragica
paternità, tenta di strappare Antigone e Ismene al vincolo della
propria stirpe. È l’estremo conato del contrasto fra polis e genos
che ha strutturato l’intera peripezia edipica.
‘O la polis o il genos’, diceva con chiarezza l’oracolo apollineo
reso a Laio, secondo la versione scelta da Eschilo per la sua
trilogia tebana; e l’oracolo, tre volte ripetuto, non poteva essere
più chiaro: «fu quando Laio insorse contro Apollo: / per tre
volte il dio disse nei suoi oracoli / di Pito, dove è il centro della
terra, / “morire senza figli, / salvezza per la patria” [θνήσκοντα
γέν- / νας ἄτερ σώζειν πόλιν]» (Sette contro Tebe, vv. 745-749). Il
Laio di Eschilo optava per il genos e per la generazione (γέννα),
causando la rovina della polis317. Tanta chiarezza è estranea a
quasi certo: si veda infra, 171s. n. 145.
315
Per il nesso fra il v. 1507 e il v. 425 cf. anche Knox, Word, 101s.;
Wilamowitz, Excurse, 65, correggeva il secondo sulla base del primo.
316
La relazione cui Edipo si richiama è ben riconoscibile – come osserva
Jebb, ad l. – per l’uditorio ateniese: Creonte è invocato quale ἐπίτροπος
(«tutore») di due ragazze tecnicamente equiparate a orfane (v. 1505).
317
Si vedano le osservazioni di Diano, 329-333, sviluppate da O. Longo
in Uglione, 69-83, che trasferisce anche all’Edipo re analoghi sottintesi
ideologici; si veda inoltre D. Sabbatucci, Il mito, il rito, la storia, Roma
1978, 91-103.
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Sofocle. La rigida alternativa è svuotata del suo tenore propagandistico e trasferita in toto nella vicenda di Edipo, sotto forma
di parabola o peripezia, non d’alternativa: è un re, portatore
di prassi e razionalità politiche, a compiere il percorso che lo
ricaccerà fra le maglie del genos. Edipo è l’illusione stessa della
polis, e il genos è ancora il suo inverso: ma i due termini non
consentono più né scelte né chiare partizioni. È per l’azione
stessa di Edipo, per la sua azione politica, che il genos, infine, ha
la meglio: mostrando con ciò l’illusoria autonomia di una polis
che si vorrebbe chiusa in un orizzonte esclusivamente razionale
o esclusivamente umano. Da questo punto di vista, un finale che
non conosce esilio, ma drastica inclusione nella casa d’origine, è
esattamente quanto ci dobbiamo attendere318; l’aspro ἴθι στέγης
ἔσω («torna dentro», v. 1515) con cui Creonte condanna Edipo
è la logica conclusione della sua peripezia: Sofocle non ha voluto
trasformare la vicenda di Edipo «nella consolante rappresentazione di una cerimonia espiatoria»319. Forse le ultime parole di
Creonte (στεῖχέ νυν, τέκνων δ᾿ ἀφοῦ, «va’, allora: senza figlie», v.
1521) lasciano intravedere la possibilità di un esilio ormai prossimo, di cui l’abbandono delle figlie sembra in qualche modo
la prefigurazione320. Ma esilio per ora non c’è. Edipo lascerà
318
Ciò, ad onta dei sospetti di chi nel mancato esilio di Edipo – che
contraddirebbe le profezie di Tiresia e lo stesso oracolo di Apollo – vede
la più valida ragione per espungere il finale (così Dawe 2006: cf. infra,
170s. n. 142); ma né Tiresia né Apollo hanno mai profetizzato la data
esatta dell’esilio (G. Serra in Avezzù, Il dramma, 328s.), né Creonte lo
esclude (v. 1518). Qualche utile osservazione sulla progressiva «introversione» di Edipo in T.F. Hoey, «Classical Journal» LXIV (1969) 296-299;
si veda anche Bollack, La naissance, 271-281.
319
G. Serra, «Quaderni di Storia» XXV/49 (1999) 41; cf. Id. in CuriTreu, 119, e Gellie, 39. Contro la teoria del ‘capro espiatorio’ – che
falsifica i dati testuali immaginando la finale espulsione di Edipo – cf.
supra, CVII n. 264.
320
Cf. infra, 170s. n. 142. Naturalmente, chi espunge l’intera ultima
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la polis? Significativamente, Sofocle non risponde. Ma in ogni
caso – incluso nel genos o escluso dalla città – Edipo lascia, irrimediabilmente, la dimensione autosufficiente della politica. E
in tutto ciò, senza alcun dubbio, l’incesto c’entra.
Noi, «più fortunati di lui»
«Vivere una vita più felice / di quella che è toccata a vostro padre»: con questo augurio Edipo si congeda dalle figlie (vv. 1513s.).
L’augurio era pensosamente raccolto da Freud: «più fortunati di
lui, siamo riusciti in seguito – nella misura in cui non siamo diventati psiconevrotici – a staccare i nostri impulsi sessuali da nostra
madre, a dimenticare la nostra gelosia nei confronti di nostro
padre. Davanti alla persona in cui si è adempiuto quel desiderio
primordiale dell’infanzia, indietreggiamo inorriditi, con tutta la
forza della rimozione che questi desideri hanno subito da allora
nel nostro intimo»321. Ciò si legge nel capitolo celeberrimo della
Traumdeutung da cui abbiamo preso le mosse, e a cui conviene
tornare, ora, per alcune considerazioni conclusive.
Come si osservava più sopra (XIV), è caso bizzarro che tante esegesi antifreudiane intendano opporre a Freud non già una lettura
dell’Edipo re, bensì un’interpretazione della leggenda edipica,
nelle sue infinite e oscillanti variazioni. Caso bizzarro, in effetti,
specialmente perché la distinzione fra «leggenda» e «omonimo
dramma di Sofocle» era ben chiara a Freud: e chiara rimarrà
sempre, nel séguito della Traumdeutung – dove espressioni come
«leggenda», «storia» o «favola di Edipo» ritornano con frescena (cf. infra, 170s. n. 142) può credere che un definitivo esilio di
Edipo sia stato sostituito, con qualche residuo, da un successivo interpolatore: così per es. March, 148-154.
321
Freud, L’interpretazione, cit., 244.
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quenza – e nelle opere successive322. Questa distinzione, peraltro,
consente a Freud un rilievo di cui pochi critici – e pochi epigoni
– hanno tenuto conto323: esso riguarda l’effetto di razionalizzazione – Freud parlava, in relazione a Sofocle, di «intento teologizzante» – cui la «materia» del mito può venire «asservita»; è la
ben nota «sekundäre Bearbeitung», «elaborazione secondaria»,
di cui Freud riconosce l’effetto nel regime delle convenzioni let-
322
Cf. L’interpretazione, cit., 243, 244, 245 [bis]; si veda supra, XIV. Di
«mito del greco del re Edipo» Freud parlerà ancora in Psicologia del
ginnasiale (in Opere, VII. Totem e tabù, cit., 479); di «dramma» che «si
riallaccia alla leggenda» in Dostoevskij e il parricidio (in Opere, X. Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti. 1924-1929, trad. it. Torino 1978,
532); di «leggenda del re Edipo» distinta da «la rappresentazione a opera
di un grande drammaturgo» nel Compendio di psicoanalisi (in Opere, XI.
L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti. 1930-1938, trad.
it. Torino 1979, 614). E le citazioni si potrebbero moltiplicare. «Plus on
avance dans l’examen des pages consacrées à l’Oedipe roi, plus s’affermit
le sentiment que le texte de Sophocle n’est pas leur véritable objet», medita C. Stein in Delcourt, Oedipe, XXII: un «sentiment» che Freud conferma, in verità, con tutta la chiarezza possibile; ma Stein ha in mente soprattutto i famosi errori che, nel riassumere la trama dell’Edipo re, Freud
imperdonabilmente commette (ibid. XXV), come dichiarare che Edipo si
allontanerebbe da Corinto su consiglio di Apollo (L’interpretazione, cit.,
243); sono sviste ovvie: di ben più serie, ma altrettanto comprensibili, ne
commetteva Aristotele (cf. supra, XLIII n. 103 e LVI n. 138) e ne commette
Vernant (cf. supra, CVII n. 264). Cf. anche Bollack, La naissance, 297.
323
Il protratto abbaglio è certo dovuto al fatto che il più influente
lavoro antifreudiano del Novecento (Vernant, Edipo senza complesso) si rivolgeva contro Freud soprattutto tramite il lavoro di Anzieu,
Oedipe avant le complexe (1966, ora in AA.VV., Psycanalyse, 9-52),
fiduciosamente votato a una complessiva «lecture de la mythologie
grecque» (ibid. 9); nel lavoro di Anzieu, l’analisi del «drame» (ibid.
24, 25, 27) è in realtà una generica analisi del mito, dai suoi antefatti
(Laio) ai suoi séguiti (Eteocle e Polinice, Antigone). Retrodatare a
Freud tali confusioni è però improprio.
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terarie (l’Edipo re come presunta «tragedia del destino»324) e delle
idee morali («l’intento teologizzante», appunto325). Distinguendo
«leggenda» e «dramma», e ponendo quest’ultimo sotto l’influsso
di precise condizioni storiche o culturali, Freud rendeva alla
cultura, alla letteratura e alla storia quei diritti che – accusano i
critici – le tendenze metastoriche della psicoanalisi porterebbero
a negare326. Del dramma sofocleo, propriamente, Freud faceva
uso per due soli aspetti della sua lettura: per rimarcarne il carattere di «analisi tragica» – ciò che gli consentiva di paragonarne
la struttura temporale, graduata e retrospettiva, «al lavoro della
psicoanalisi»327 – e per diffondersi, non senza compiacimento, sui
vv. 980-983, laddove Giocasta menziona i sogni d’incesto quale
comune esperienza umana: un passo su cui torneremo.
324
Poco importa, ovviamente, che con ciò Freud riconoscesse le convenzioni letterarie attiche attraverso la lente delle convenzioni critiche
coeve (cf. supra, LXXs. e XCIV-XCVI per l’Edipo re come Schicksalsdrama). Tali convenzioni erano evocate per mero contrasto: e a scopo
confutatorio. Non è del tutto corretto, dunque, ascrivere Freud alla
schiera dei critici ‘fatalisti’ (così Dodds, 42).
325
Nella Introduzione alla psicoanalisi (in Opere, VIII. Introduzione
alla psicoanalisi e altri scritti. 1915-1917, trad. it. Torino 1976, 488)
Freud tornerà sulle particolari declinazioni imposte da Sofocle («un
credente») alla «materia della leggenda». A conferma di una distinzione che rimane stabile e sicura.
326
«Nella prospettiva di Freud, questo carattere storico della tragedia
resta interamente incomprensibile» (Vernant, Edipo senza complesso,
68); su linea parzialmente analoga, ma da altro punto di vista, Paduano, Lunga storia, 26-30 e Segal, Oedipus, 38-42. L’importanza del
riferimento freudiano alla «secondary elaboration» è ben còlta da
Cameron, IX. Tali idee sono ribadite da Freud in Introduzione, cit.,
488. Fraintende la distinzione freudiana L.M. Napolitano Valditara
in Curi-Treu, 73. Netto e corretto nel riconoscere l’opposizione fra
«senso» della leggenda e «ideologia» della tragedia F. Orlando, Per
una teoria freudiana della letteratura, Torino 19872, 190s.
327
Freud, L’interpretazione, cit., 243.
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È solo nel séguito, con l’altrettanto celebre analisi di Amleto, che
Freud indulgerà a una vera e propria psicoanalisi del personaggio, rincarata da imprudenti illazioni sulla psiche dell’autore328;
metodo, questo sì, psicologistico e biografistico, che farà sentire
il suo influsso anche su altre incursioni freudiane nel dominio
della storia letteraria o artistica329. Ma, nel caso di Edipo re, nulla
di tutto questo. È dunque una tesi che Freud non ha mai sostenuto quella contro cui si sono scagliati, con scrupolo degno di
miglior causa, tanti critici antifreudiani330 : la tesi, invero risibile,
secondo cui Edipo rappresenterebbe il tipo del ‘nevrotico’, sì
che il complesso di Edipo debba inerire, quale attributo caratteriale, al suo mitico eponimo. Contro tali tesi, ci si è premurati
di precisare che l’Edipo sofocleo ignora d’essere figlio di Laio
e di Giocasta: dimostrazione che non richiede, in verità, profonde indagini331. «Una facile, troppo facile obiezione a Freud»,
328
L’analisi shakespeariana è ripresa e ampliata, come si sa, da E. Jones;
per una avvincente ricostruzione si veda Starobinski. La differenza fra
i due trattamenti riservati a Edipo e ad Amleto è ben riconosciuta da
Paduano, Lunga storia, 18.
329
Per le derive (e per i limiti di legittimità) del biografismo psicoanalitico, uno dei quadri più equilibrati è in Orlando, Per una teoria, cit.,
7-23, 175-179, 183-188.
330
È una tesi che si ingegna invece a sostenere D. Anzieu in AA.VV.,
Psychanalyse, 27s., osservando per es. che solo a Corinto Edipo avrebbe potuto essere al sicuro, o che «si Oedipe avait décidé d’épouser
une jeune fille, il se mettait à l’abri d’une union incestueuse». Di tali
argomenti si può sorridere (cf. anche infra, 159s. n. 92), salvo non
confonderli con gli argomenti di Freud. Si veda in proposito la giusta
distinzione operata – contro Vernant – da Cerri, 319s. n. 40.
331
Questa critica trova formulazioni di grande chiarezza, per esempio, in Vernant, Edipo senza complesso, 84 («se il dramma si fonda
sull’ignoranza di Edipo […] è chiaro che l’eroe dell’Edipo re non ha
il minimo complesso di Edipo»); von Fritz, 14; Bain, 81; K. Kerényi in Kerényi-Hillman, 15; Fromm, 192 Gould, 602; Pucci, 40-47;
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osservava Burkert332; obiezione facile senza dubbio: ma non
un’obiezione a Freud, come hanno ribadito, pur da diversi punti
di vista, Starobinski e Paduano333. Ironia vuole che lo stesso
Segal, Tragedy, 460s. (pur con esitazioni); Bremmer, 54; Paduano, Lunga
storia, 24s. (ma cf. infra, CXXXIV n. 338); Id. in Curi-Treu, 40; Id., Edipo, 20s., nonché Il teatro antico. Guida alle opere, Roma-Bari 2005, 67;
Glei, passim; L.M. Napolitano Valditara in Curi-Treu, 77; Segal, Oedipus, 41; Guidorizzi, 180 («chi si ispira a un modello psicoanalitico dovrà
dimostrare che Edipo sapeva o intuiva chi era, nel momento in cui entrò
nel letto di sua madre»); Jouanna, 491; l’argomento trapela in Bollack,
La naissance, 236; cf. anche M. Innamorati, «QUCC» n.s. XLIX (1995)
161-172. Analoghe considerazioni in H. Bloom, Il canone occidentale,
trad. it. Milano 1996, 340. Da premesse non dissimili («Edipo soffriva
di un complesso di Edipo?») parte ora G.W. Most, «Studi Italiani di
Filologia Classica» IV s., V/2 (2007) 201-221. Una desolante sintesi
del dibattito anti-freudiano – integralmente fondata sull’argomento
dell’ignoranza di Edipo – in Montanaro-Tsamopulos, 15-36. Ma in
generale si dimentica che questa era già l’opinione polemica di Schnitzler, in un appunto del 1921: cf. A. S., Sulla psicoanalisi, trad. it. Milano 2001, 11s. («la storia di Edipo è totalmente estranea al cosiddetto
complesso di Edipo. Edipo ama sua madre ignorando che è tale […].
Nel mito, il parricidio di Edipo non è commesso per odio, ma in un
certo qual modo per errore»). Queste obiezioni sono recepite dalla
riscrittura di R. Rosso, dove Edipo uccide Laio solo perché si ricorda
di Polibo, e rifiuta di sentirsi figlio incestuoso perché non ritiene sufficiente la maternità meramente biologica di Giocasta (R. R., Edipo.
Ambigui presagi disadorni e senza profumo, Roma 1991, 69s. e 86);
cf. Paduano, Lunga storia, 243-248, che saluta nel lavoro di Rosso un
«superamento» della psicoanalisi.
332
Burkert, Edipo, 83s.
333
Starobinski, 333 («niente è nascosto, e non è il caso di sondare i
moventi e i pensieri riposti di Edipo. Sarebbe irrisorio attribuirgli una
psicologia»); Paduano, Lunga storia, 17 (ma ibid. 36-38 una dura critica
di Starobinski, rincarata in Curi-Treu, 39s.); cf. anche M. Lavagetto,
Freud, la letteratura e altro, Torino 20012, 104; assennate osservazioni in
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Freud, all’altezza del 1938, tra Vienna e Londra, si fosse premurato di rispondere: «ci è stata rivolta l’obiezione che la leggenda
del re Edipo non ha in verità nulla a che fare con la costruzione dell’analisi […] dal momento che il re Edipo ignorava che
l’uomo da lui ucciso fosse suo padre e la donna da lui sposata
sua madre»334. Ecco tutta la polemica fra Vernant e Anzieu;
ecco tutto il contrasto – prolungato quanto sterile – fra psicoanalisti intesi ad affermare la segreta consapevolezza di Edipo, e
filologi intesi a riaffermarne la palmare ignoranza; ciò che già
faceva – senza enfasi, perché il punto è inessenziale – Jacques
Lacan: «Edipo, in un certo senso, non ha affatto il complesso di
Edipo, bisogna ricordarlo»335. La preventiva risposta di Freud
fa leva ancora sulla distinzione fra la «leggenda» e il «dramma
omonimo», perno argomentativo di tante altre pagine; essa anzi
sembra spostare tale distinzione, rinviando a un più generico
«tema» e alla sua permanente validità: «si trascura il fatto che
una simile deformazione» – e cioè la manifesta ignoranza di
Edipo – «è inevitabile quando si tenta di trasfigurare un certo
materiale in una forma poetica che non elabora contenuti nuovi
e si limita invece a valorizzare con abilità gli elementi di un
certo tema. L’insipienza [Umwissenheit] di Edipo è la legittima
P. Traverso, “Psiche è una parola greca…”. Forme e funzioni della cultura
classica nell’opera di Freud, Genova 2000, 48-55. In questa direzione va
ora G. Bottiroli, Che cos’è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Torino 2006, 222-232. Che un certo psicologismo rispondesse
alla pratica post-freudiana, più che all’approccio di Freud, era riconosciuto del resto da Knox, Oedipus, 3-5 e 197s. n. 2.
334
Freud, Compendio, cit., 618.
335
J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960),
trad. it. Torino 1994, 382. La battuta – è bene sottolinearlo – precede di
oltre sei anni il polemico intervento di Vernant, Edipo senza complesso.
Sul tema Lacan tornerà brevemente l’anno successivo (Le séminaire.
Livre VIII. Le transfert (1960-1961), Paris 20012, 335).
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raffigurazione della inconsapevolezza nella quale, per l’adulto,
l’intera vicenda è sprofondata»336. Con tutto ciò, la tragedia
sofoclea si vede ancora una volta riconosciuti i suoi diritti di autonoma ‘deformazione’ o ‘trasfigurazione’ – la scelta del termine
è indifferente – e il luogo proprio del complesso edipico è situato
laddove ci si attende di trovarlo: in un generico «adulto», non
altrimenti specificato. Nella celebre pagina della Traumdeutung,
tale «adulto» occupava un posto ben preciso: un posto in platea,
o sulle gradinate del teatro attico. In ogni caso non sulla scena,
e non in Edipo, perché altrimenti non si spiegherebbe, in quella
pagine, il continuo riferimento agli «spettatori» o allo «spettatore», all’«uomo moderno» così come al «greco suo [scil. di
Sofocle] contemporaneo», tutti parimenti «scossi» dalla vicenda
edipica337. In altri termini: Edipo è sulla scena e il complesso di
Edipo – strutturalmente – è fuori scena.
Vero è che Freud, a partire dalla Traumdeutung, ricorrerà sempre più volentieri a un facile, e del resto scoperto, espediente
retorico338: l’antonomasia che promuove «Edipo» da personaggio a figura universale, coincidente con quel «noi» in cui Freud
generalizza l’esperienza dello spettatore, antico o moderno. In
336
Freud, Compendio, cit., 618s.
Freud, L’interpretazione, cit., 243s.
338
Lo intende come «una improvvisa e arbitraria personalizzazione»
Paduano, Lunga storia, 22; la «clinicizzazione del personaggio» sarebbe
«l’esito a cui tende inevitabilmente il discorso di Freud» (ibid); perciò si
troverà ibid. 23-30 una paziente replica fondata sul motivo dell’ignoranza,
che le precedenti e ben più radicali osservazioni dello studioso (supra,
CXXXII n. 333) rendono a mio avviso non necessaria (cf. ora anche Paduano, Edipo, 18-42). Certo è che su tale antonomasia gli epigoni hanno
costruito una macchinosa psicologia ‘di Edipo’, a sua volta ripetuta dagli
avversari – Vernant in testa – in una forma di contro-psicologia assolutoria, fondata appunto sull’ignoranza, ma non perciò meno fantasmatica o
immetodica. Sottolineare il tropo freudiano non è dunque superfluo.
337
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tale accezione, Freud potrà dichiarare Edipo «mitico criminale» o parlare delle «sue [scil. di Edipo] tendenze criminali»
di «natura inconscia»339. Ciò non muta la precisa localizzazione
del complesso edipico: che non riguarda Edipo ma riguarda
«noi», o se si vuole il lacaniano «Soggetto». Su questo punto,
nessuna incertezza o ambiguità. Semmai, si dovrà osservare
come Freud tenda a presupporre, nel «noi» specularmente
contrapposto a Edipo, reazioni affatto diverse: da una parte,
il pieno riconoscimento soggettivo di quanto la fabula (che de
nobis, appunto, narratur) rappresenta sotto specie obiettiva,
impersonale, fatale; sicché l’«analisi tragica» schilleriana può
diventare una «psicoanalisi», nella misura in cui «il poeta ci
costringe a prendere coscienza del nostro intimo»340 ; dall’altra
parte, la reazione del pubblico può consistere in una drastica
presa di distanza: «indietreggiamo inorriditi», scrive Freud
nella stessa pagina; e in un saggio composto cinque anni dopo,
preciserà che «condizione» del dramma è «che non faccia soffrire lo spettatore»341. Questa duplicità non stupisce, in uno
339
Cf. rispettivamente S. F., Autobiografia, in Opere, X. Inibizione,
cit., 130; Id., Il perturbante, in Opere, IX. L’Io e l’Es e altri scritti.
1917-1923, trad. it. Torino 1977, 92. Altrove Freud parla addirittura di «delitti» (Totem e tabù, cit., 136). Evidente, a mio avviso,
che «sue tendenze criminali» non può essere altrimenti inteso che
come ‘le tendenze criminali incarnate da Edipo’, e situate – dove altro? – nell’Es: che come tale non ha persona drammatica, né storica.
Non a caso Freud ha appena scritto che «nella tragedia di Edipo era
stata colta […] una legge generale dell’accadere psichico» (cf. infra,
CXXXIX). Sembra giudicare diversamente Paduano, Lunga storia,
22s. (e ora Id., Edipo, 18s.); cf. anche Bollack, La naissance, 295-297.
340
Freud, L’interpretazione, cit., 244.
341
S. Freud, Personaggi psicopatici sulla scena, in Opere, V. Il motto di
spirito e altri scritti. 1905-1908, 232. È evidente che a ciò congiura il meccanismo dell’‘ironia tragica’ (cf. supra, XLIII n. 104). Altrove – in una
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studioso che ha praticato Aristotele e ha tanta familiarità con
il Bernays esegeta della ‘catarsi’342. L’esito della «analisi» o
«psicoanalisi» tragica è dunque aperto: immedesimazione o
straniamento, riconoscimento o mero orrore.
Qui s’innesta l’altra peculiare costante dell’esegesi freudiana,
che ha fatto immaginare un’impropria colpevolizzazione di
Edipo, con annesso sospetto di ‘psicologismo selvaggio’; una
costante che in realtà si fonda proprio sulla separazione strutturale fra Edipo e il suo pubblico, fra Edipo e «noi». È il tema
dell’autoaccecamento343, che Freud – muovendo da una certezza
incrollabile: l’ignoranza, e dunque l’innocenza, di Edipo – può
isolare come spia di un fenomeno che si situa, in realtà, dalla
parte del «Soggetto». Tale fenomeno non è la colpevolizzazione
di Edipo, bensì l’autocolpevolizzazione del suo distanziato ma
pagina di arrischiate ipotesi sull’origine dalla tragedia – Freud analizzerà la «raffinata ipocrisia» del Coro, evidente riflesso delle reazioni
da parte del pubblico: Totem e tabù, cit., 159.
342
Si possono vedere – per i rapporti fra Freud e Jacob Bernays, di cui
lo psicoanalista sposò la nipote – V. Langholf, «Medizin-historisches
Journal» XXV (1990) 5-39; Traverso, «Psyche», cit., 86-104. Non
trascurabili somiglianze fra l’approccio freudiano e l’approccio aristotelico – ma soprattutto platonico – riscontra Gould, 591-593.
343
Per Freud, come è noto, si tratta di uno smaccato Ersatz
dell’evirazione: cf. e.g. Totem e tabù, cit., 134; Il perturbante, cit., 92.
L’equivalenza fra occhi e fallo è ampiamente documentata in Grecia
come altrove: cf. supra, XCVI n. 230. Tale equivalenza, ovviamente,
non è valorizzata da Sofocle: ma valorizzata è l’equivalenza fra ‘occhi’
e ‘piedi’ (cf. supra, XLII). La pertinenza si situa, dunque, a livello della «leggenda» e non del dramma. Freud non poteva purtroppo conoscere il nome *Oidyphallos, «Fallo-gonfio», attestato nelle tavolette
micenee (M. Ventris-J. Chadwick, Documents in Mycenaean Greek,
Cambridge 19732, 40), e da molti posto in connessione con il nome
«Edipo», quale suo non eufemistico antenato: cf. per es. L. Edmunds
in Gentili-Pretagostini, 242.
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partecipe spettatore. Edipo – su ciò non c’è dubbio – è innocente: «in base al nostro giudizio, così come al suo, la costrizione
dell’oracolo avrebbe dovuto mandarlo assolto da ogni colpa»344.
E così è infatti nell’Edipo re sofocleo, dove in nessun modo, come
si è visto, può darsi legame causale fra presunte colpe e presunti
delitti del protagonista. Eppure, Edipo si acceca: un gesto che
ripugna non solo al «nostro giudizio», ma anche a quello del
Coro (vv. 1327s., 1367s.), e che Sofocle, in conformità alla strategia che regola l’intera opera, tramuta nell’ultima, paradossale
affermazione di volontà dell’eroe (cf. supra, XCVIs.). Tale punizione, osserva Freud, è tuttavia necessaria: non già dal punto
di vista di Edipo, ma da quello del suo spettatore; quest’ultimo,
nella misura in cui la «psicoanalisi» tragica ha avuto effetto, ha
già tradotto l’incongruo gesto autopunitivo in un personale riconoscimento di colpa. Una linea ‘colpevolistica’, dunque, che ha la
sola accortezza di trasferire le colpe da Edipo al suo spettatore?
Presupporre questo sarebbe far torto alla complessità dell’etica
freudiana345: un’etica che non ammette facili partizioni di colpe
in termini di ‘volontarietà’ o ‘involontarietà’; e che proprio perciò trasferirà almeno in parte i caratteri della Schicksalstragödie
– negati all’Edipo re – alla vicenda stessa del Soggetto, ai
Triebschicksale, ai «destini delle pulsioni»346. Basterà rileggere i
problematici Nachträge all’Interpretazione dei sogni, laddove si
344
Freud, Compendio, cit., 633. L’incidentale «così come al suo» sembra avere di mira l’Edipo a Colono: cf. infra, CXLV.
345
Si intende «etica» nell’accezione approfondita da Lacan, Il seminario.
Libro VII, cit.; cf. anche Discorso ai cattolici (1960) in Id., Dei Nomi-delPadre, seguito da Il trionfo della religione, trad. it. Torino 2006, 65-91.
346
S. Freud, Pulsioni e loro destini, in Opere, VIII, cit., 13-35; dal ‘destino’ della ‘pulsione’ si trascorrerà coerentemente all’ipotesi dell’«istinto
di morte»: sul nesso fra i due concetti (mediati dalla ‘coazione a ripetere’)
cf. J. Lacan, Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica
della psicoanalisi (1954-1955), trad. it. Torino 1991, 35-81 e passim.
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discute della «responsabilità morale per il contenuto dei sogni»,
e ci si renderà conto di quanto le riflessioni di Freud prescindano
dai consueti presupposti di ‘innocenza’, ‘colpa’ o ‘responsabilità’,
e si concludano sulla constatazione per cui, dal punto di vista
della psicoanalisi, la stessa assunzione di responsabilità è un fato,
una costrizione347. In questa inestricabile convergenza di fatalità
e di volontarietà, di colpa ‘oggettiva’ e ‘soggettiva’, Freud incontra
forse proprio la complessa e problematica visione dell’Edipo re,
più che la «leggenda del re Edipo».
Dunque, da una parte l’opera autonoma, storicamente e individualmente determinata, di Sofocle; dall’altra, una leggenda
che trova nel parricidio e nell’incesto il suo nucleo irriducibile:
come si è visto sopra (XXIIs.), la sua differenza specifica a
fronte di tanti miti affini o derivati. La distinzione fra i due
àmbiti – leggenda edipica e opera sofoclea – in Freud resta
ferma. E in entrambi gli àmbiti, forse, l’incontro è più felice di
quanto si presupponga. Ne Il poeta e la fantasia, Freud isolerà
precisamente quella «classe delle opere poetiche in cui non
sono da vedersi libere creazioni ma elaborazioni di un materiale
già noto e dato», riconoscendo che «anche qui rimane al poeta
una certa indipendenza, che può esprimersi nella scelta del
materiale e nelle modificazioni profonde che egli vi apporta»;
ma «per quel tanto che […] i materiali sono già dati, essi derivano dal patrimonio popolare di miti, leggende e favole»348.
347
S. Freud, Alcune aggiunte d’insieme all’«Interpretazione dei
sogni», in Opere, X. Inibizione, cit., 159s. Lacan ripartirà da nozioni analoghe quando dichiarerà la psicoanalisi inconciliabile con
la pratica della criminologia (J. L., Scritti, trad. it. Torino 1974,
119-144); curiosamente, un’analoga problematizzazione dei concetti di ‘colpa’, ‘volontà’ e ‘responsabilità’ è quanto Vernant attribuisce alla tragedia attica nel suo insieme: Mito e tragedia, 3-63.
348
S. Freud, Il poeta e la fantasia, in Opere, V. Il motto di spirito e altri
scritti. 1905-1908, trad. it. Torino 1972, 382.
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Edipo non è qui nominato, ma che Edipo re si collochi a tale
livello non si può dubitare. Parricidio e incesto si situano, indiscutibilmente, sul versante della leggenda, del «materiale già
noto e dato»: il loro trattamento sofocleo a Freud non interessa,
se non nella misura – etica – a cui si è accennato. È davvero
improprio, questo rilievo concesso da Freud a quanto in Sofocle
non è sofocleo, e cioè al nucleo ‘leggendario’ dell’Edipo re? Se
i critici vi riconosceranno un’ennesima riprova di scarso senso
storico – da parte di Freud o della psicoanalisi tutta – basterà
ricordare che l’impostazione metastorica, qui, è metodo e non
deriva; e si fonda sull’ipotesi – che non è, a quanto consta,
della sola psicoanalisi, né del solo Freud – secondo cui il tabù
dell’incesto rappresenta una costante umana; storicizzabile,
sì, ma non storicamente circoscritta. Proprio perciò l’Edipo re
può mostrare «una legge generale dell’accadere psichico»349.
Ed è di questa costante umana – e cioè culturale – che Freud
riconosceva un’incursione nello stesso Edipo re, al di là del trattamento sofocleo, al di là dei suoi stessi presupposti leggendari.
È la famosa battuta di Giocasta in cui si rievocano i sogni
incestuosi come comune esperienza dell’uomo: «non temere
le nozze con tua madre: / è già accaduto a tanti altri uomini, /
di unirsi, anche nei sogni, con la madre; ma chi non dà alcun
peso / a cose come queste, vive meglio» (vv. 980-983)350. Sul
passo Freud è tornato a più riprese, e con evidente soddisfazione: l’incesto, dunque, non è solo nella leggenda del re Edipo,
è nello stesso Edipo re. Merita di essere rilevato, se non altro
quale sintomo, lo sforzo critico compiuto per negare la connotazione ‘edipica’ dell’esperienza onirica di cui Sofocle – o
349
Freud, Autobiografia, cit., 130.
Il passo, per merito di Freud, resta fra i più celebri dell’Edipo re; cf.
ora la testimonianza di E. Sanguineti, «Molti già, tra i mortali, nei sogni», in AA.VV., Madre, madri, a c. di I. Dionigi, Milano 2008, 71-79.
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Giocasta per lui – rende testimonianza351. Tale sogno, si dice
da più parti, non va inteso alla lettera, né spiegato sulla base di
categorie pericolosamente metastoriche come quelle della psicoanalisi: al contrario, secondo le coordinate interpretative di
tutta l’onirocritica antica (invero, del solo Artemidoro: cf. infra,
CXLII), e secondo doviziosi paralleli desunti dalle esperienze
di Ippia, di Tarquinio, di Cesare e tanti altri, il coito onirico con
la madre si risolve in un sogno di regalità, in un incesto simbolico con la Madre Terra, annuncio profetico di conquista più che
mero ritorno di un rimosso ‘edipico’352. Ecco, all’apparenza, le
ragioni della psicologia storica trionfare – documenti alla mano
– sulla metastorica psicoanalisi353: i Greci non avevano sogni
351
Nella stessa direzione va Platone, Resp. IX, 571d, altro celebre squarcio antico sulla costanza dei sogni incestuosi; il passo platonico – cf.
B. Gentili in Gentili-Pretagostini, 117 – è una vera e propria ‘lettura’
allusiva dell’Edipo re, con riferimento al sogno di Giocasta: dal che è improprio dedurre che – trattandosi anche in Platone di tiranni – il sogno
sia regale più che incestuoso. Come scrive – condivisiblmente, su questo
punto – D. Anzieu in AA.VV., Psychanalyse, 43, «non si regna perché
si è sognato di sposare la propria madre; si sposa la madre perché si è
tiranni»; e il tiranno, in Platone, è innanzitutto tipo psicologico.
352
Su questo aspetto dell’incesto onirico ci si è soffermati supra,
XXIII. Una trattazione esaustiva, e intesa a minimizzare le valenze
edipiche del sogno, in Delcourt, Oedipe, 192-211, da cui dipende
Vernant, Edipo senza complesso, 86s. e Il tiranno zoppo, 48s.; cf. ora
Guidorizzi, 160-164, con analoga impostazione. Un intervento antifreudiano esemplare, su base onirica, offre M.C. Nussbaum in Rudnytsky-Handler Spitz, 42-71. Si vedano le perplessità di Bollack, La
naissance, 302. Un’acuta panoramica delle interpretazioni (con una
confutazione dell’esegesi vernantiana) in G. Paduano, Il sogno di Giocasta, in AA.VV., Il sogno raccontato, a c. di N. Merola e C. Verbaro,
Vibo Valentia 1992, 35-43. Cf. anche Bremmer, 54s.
353
Vernant, Edipo senza complesso, 66 e passim. Sulla debolezza, anche
documentaria, di questo punto, le ironie di N. Nicolaïdis in AA.VV.,
Psychanalyse, 164s. – intervento per altri aspetti inconsistente – non
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Introduzione
incestuosi, solo sogni regali. Peccato che proprio il più cospicuo
e vistoso dei documenti – quello che su tale base si vorrebbe
neutralizzare – asserisca esattamente l’opposto: il sogno tipico
rievocato da Giocasta altro non può essere che sogno d’incesto,
e come tale è inteso e indicato da Sofocle; in caso contrario,
l’intero argomento svolto dalla regina equivarrebbe, nel contesto, a un non-sense. Si tratta qui della paura patita da Edipo: che
è paura d’incesto. Perché citare a termine di confronto un sogno il cui valore immediato – si garantisce – sarebbe tutt’altro?
Ma «non c’è traccia, in questo simbolismo, d’angoscia né di
colpevolezza propriamente edipici», si è detto354. In verità
non c’è altro, se si vogliono considerare senza pregiudizi i dati
testuali: o Giocasta non avrebbe bisogno di suggerire oblio o
indifferenza, tramite un’esplicita avversativa («ma chi non dà
alcun peso», ἀλλὰ ταῦθ᾿ ὅτῳ / παρ᾿ οὐδέν ἐστι, vv. 982s.). Proprio
l’angoscia, del resto, fonda il ricorso all’argomento – anzi
all’analogon – dell’esperienza onirica: si è ipotizzato, piuttosto
ingegnosamente, che la regina intendesse suggerire una realizzazione meramente immaginaria dell’oracolo355; più spesso,
si è opinato che la regina fondasse il paragone sulla natura
sono del tutto ingiustificate.
354
Vernant, Edipo senza complesso, 87. Per Winnington-Ingram, 183
n. 11, il fatto che il sogno incestuoso sia citato «in a context of triviality» dimostrerebbe la scarsa pertinenza all’Edipo re delle tematiche
freudiane.
355
Così propongono per es. Valgimigli, Edipo re di Sofocle, 167 n. 6 e
Gigante, Dalla parte, 87; così, a quanto pare, intende Ehrenberg, 103;
V. Leinieks, «Classical World» LXIX (1975) 35 giunge a credere che
Giocasta sottintenda consapevolmente una realizzazione simbolica intonata al modello della regalità. A minimale sostegno di queste letture,
si dovrebbe ricordare che poco sopra Edipo ha supposto una realizzazione puramente metaforica del parricidio (vv. 969s.: cf. Paduano,
Lunga storia, 109).
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soprannaturale comunemente riconosciuta al sogno come agli
oracoli, o che degli uni come degli altri intendesse sottolineare
l’inconsistenza e l’irrazionalità356. Ma tutto ciò va ben oltre la
lettera del testo: l’analogia che Giocasta intende stabilire (v.
981 γάρ) non coinvolge sogni e oracoli; essa coinvolge, più semplicemente, la paura vigile di Edipo (v. 980 μὴ φοβοῦ) e la paura
evidentemente connessa ad analoghe fantasticherie esperite
sul piano onirico («anche nei sogni», κἀν ὀνείρασιν, dice con
chiarezza il v. 981). Tutto ciò (ταῦθ᾿, v. 982), conclude Giocasta,
ha un solo e risolutivo rimedio: la dimenticanza, l’indifferenza
(παρ᾿ οὐδέν, v. 983), da opporre a tutti i timori che affliggono la
vita umana (v. 977). Non a caso, Edipo oppone a Giocasta la
dura evidenza della realtà: è di una madre viva (ζῶσ᾿ ἡ τεκοῦσα,
v. 985), e dunque di un incesto reale, che egli ha paura. Né
l’argomento di Giocasta né la replica di Edipo lasciano spazio a
esegesi simboliche del sogno; vissuto sul piano onirico o temuto
sul piano reale, l’incesto di cui si tratta è incesto letteralmente
inteso. Poco giova, dunque, ricorrere a un presunto simbolismo
valido «per i Greci», senza altre distinzioni357: questo sì, un assunto metastorico. E anche ammettendo che l’interpretazione
regale del sogno sia dimostrata da una «copiosa letteratura»358,
non si può non sottolineare come la «letteratura» considerata
sia unanimemente tratta da sogni di re in storie d’argomento
regale: dove il simbolismo è sempre frutto d’interpretazione,
ora erronea e ora azzeccata; dove esso è sempre ‘elaborazione
secondaria’ – di un personaggio o dell’autore – e mai contenuto
onirico al ‘grado zero’. Ignorare tale carattere, sovrimposto e
356
Cf. per es. Jebb e Kamerbeek, ad l.; W.C. Helmbold, «American
Journal of Philology» LXXII, 1951, 296; Seale, 239s.; WinningtonIngram, 183; Guidorizzi, 161.
357
Vernant, Edipo senza complesso, 87.
358
Guidorizzi, 162.
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Introduzione
surrettizio, della valenza simbolica, appare sconsigliabile. La
conferma viene dalla stesso Artemidoro (I 79), che considera
l’esegesi regale soltanto come una delle interpretazioni possibili; la prima menzionata è semmai un’esegesi strettamente
e sfacciatamente edipica: «se ci si unisce [scil. in sogno] con la
propria madre viva, quando il padre è ancora in forze, ne verrà
odio nei suoi confronti, a causa della gelosia che sorge anche
verso gli altri uomini; se il padre è invece malato, morirà»359.
Il sogno d’incesto significa incesto, dunque, almeno nel passo
sofocleo; né ci sarebbe bisogno di questa preziosa incursione
onirica per trovare consenso su un innegabile ‘fatto di cultura’:
l’incesto è per i Greci un tabù, come e più che il parricidio.
È questa «la Regola» – per ricorrere all’antonomasia di LéviStrauss360 – che Edipo infrange. E ciò fa di lui, agli occhi di
Sofocle come di Freud, agli occhi del Coro come ai nostri, un
«paradigma». Oltre questa ammissione, basilare, sia le ragioni
di Freud che quelle di Sofocle possono reclamare, liberamente,
i propri diritti. Nel nodo, nella peripeteia che congiunge e
disgiunge politica e incesto si salda il nodo che lega le sorti
dell’Edipo re alle sorti della psicoanalisi. Nodo stretto, neces-
359
Inoltre – come osservava Freud – «l’antico interprete di sogni Artemidoro […] sosteneva che il sogno muta significato secondo la persona del sognatore» (Contributi alla psicologia della vita amorosa, in
Opere, VI. Casi clinici e altri scritti. 1909-1912, trad. it. Torino 1974,
419); ciò che Artemidoro in effetti rimarca a ogni passo: e che basterebbe a sconsigliarne l’elevazione a testimone di una presunta esperienza onirica dei «Greci» in quanto tali.
360
C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, trad. it.
Milano 1969, passim; una buona ricognizione sul tabù dell’incesto in
Grecia, a partire dall’Edipo re, fornisce Howe. Edipo continuerà a
funzionare come paradigma per le provocatorie negazioni del tabù
– altrettante dimostrazioni a contrario – in àmbito cinico e stoico: cf.
da ultimo B.S. Hook, «Classical Philology» C (2005) 17-40.
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sario e fecondo, che illumina a ritroso il testo sofocleo – con un
effetto simile a quella che Freud definiva Nachträglichkeit, «posteriorità»361 – e che ha influenzato e continuerà a influenzare in
maniera determinante ogni rilettura o riscrittura dell’Edipo re.
La tragedia sofoclea, come si è ricordato in principio, uscì
sconfitta dalla sua prima rappresentazione pubblica. Da allora,
però – ha scritto il più radicale dei freudiani – l’Edipo «tiene il
cartellone», anche se non potrà farlo «indefinitamente […] in
forme di società in cui sempre più si perde il senso della tragedia»362. In quanto «tragedia» e non solo in quanto «leggenda»
– ha sottolineato a più riprese lo stesso Lacan – Edipo fornisce
a Freud le coordinate essenziali del suo pensiero; nella misura
in cui in esso non si articolano soltanto i temi fondamentali del
parricidio e dell’incesto, ma anche una gnoseologia e un’etica:
«non è possibile affrontare seriamente il riferimento freudiano
senza far intervenire, oltre all’assassinio e al godimento, la
dimensione della verità»363. Attraverso Sofocle, dunque, una
«leggenda» è divenuta «dramma»; attraverso Freud, il dramma
è forse tornato a essere «leggenda»: ma nella forma di un
«metalinguaggio» – osservava Barthes in un breve ma acuto
appunto – «che per quanto intellettuale (o piuttosto, senza dub361
Regola d’après-coup ben nota in àmbito letterario come in àmbito
psicologico; cf. J. Laplanche–J.-B. Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi, trad. it. Roma-Bari 1989, 389-393 e soprattutto Lacan, Il seminario. Libro II, cit., 17-27.
362
Scritti, cit., 815.
363
J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi
(1969-1970), trad. it. Torino 2001, 143; ibid. 136-143 una ferma distinzione fra ciò che in Freud è ‘Edipo sofocleo’ e ciò che in Freud è
«buffonata darwiniana» (ibid. 137; cf. anche ibid. 140: «sembra che
nessuno si sia mai stupito di questa cosa curiosa, di fino a che punto
cioè Totem e tabù non abbia niente a che fare con l’uso corrente del
riferimento sofocleo»).
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Introduzione
bio: perché intellettuale), agisce sulla nostra immaginazione in
maniera panica»364. Lo stesso Freud era reciso nell’affermare
che, di fronte all’Edipo re, «l’ascoltatore non reagisce alla morale, ma al senso e al contenuto segreto della leggenda»365. Ma
è proprio grazie a Freud e al suo ‘metalinguaggio’ – e a quella
«dimensione della verità» in cui Edipo è nuovamente e legittimamente collocato – che il «contenuto segreto della leggenda»
incontra la «morale» dell’Edipo re: non la morale esteriore
della moderazione e della mansuetudine, bensì la morale sospesa, inquietante, problematica che deriva dal «dramma» e
non dalla «leggenda»; e con tutto ciò che ne segue in rapporto
all’«umanesimo» e ai suoi valori: un punto, come si è visto,
essenziale, nell’esegesi dell’Edipo re e nella sua storia366. La
chiusa della tragedia sofoclea – ricordava Freud già nella pagina
famosa della Traumdeutung – «esprime un monito che tocca
noi stessi e il nostro orgoglio»367. E come l’Edipo re, in molti
tratti del suo finale, sembra già aprirsi alle problematiche che
saranno dell’Edipo a Colono – alla disperata e dolorosa innocenza del suo protagonista, alla sua inconciliabile relazione con
364
Barthes, 559. Sul carattere obbligatoriamente ‘razionale’ e ‘metalinguistico’ di ogni moderno approccio al mito antico – e a Edipo in
particolare – si soffermava, commentando l’Edipo di Gide, W. Benjamin, Edipo ovvero il mito razionale, in Scritti 1932-1933, a c. di R.
Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it. a c. di E. Ganni con la coll.
di H. Riediger, Torino 2003, 186-189.
365
Introduzione alla psicoanalisi, cit., 488.
366
Cf. supra, C-CII. «C’è chi ha detto, credo anche che faccia da titolo a uno
dei numerosi lavori di cui ho fatto lo spoglio, che Sofocle è l’umanesimo
[…]. Ci sentiamo, da parte nostra, alla fine della vena del tema umanista.
L’uomo, secondo noi, si sta decomponendo, come per effetto di un’analisi
spettrale» (Lacan, Il seminario. Libro VII, cit., 345). Lacan allude verosimilmente al volume di Whitman, che data a otto anni prima.
367
L’interpretazione dei sogni, cit., 244.
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la sofferenza e con la morte – così la traduzione etico-filosofica
che Freud impercettibilmente opera, a partire dalla morale del
«dramma», si apre già agli esiti ultimi del suo pensiero: alle
riflessioni sull’istinto di morte, sul nesso fra conoscenza e infelicità, sui risvolti etici di una dottrina che non può decidere di
innocenza e colpa, ma che si rassegna – o piuttosto si dispone
necessariamente – all’interminabilità dell’analisi368. Dunque,
un’analisi tragica.
Non per caso, l’Edipo a Colono – e in particolare il μὴ φῦναι, il «non
nascere» del suo corale più celebre (v. 1224) – sarà al centro della riflessione di Lacan: cf. e.g. Il seminario. Libro II, cit., 264, 271, 291-296; Il
seminario. Libro III. Le psicosi (1955-1956), trad. it. Torino 1985, 291; Il
seminario. Libro VII, cit., 317, 358, 383s.
368
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Bibliografia essenziale
Avvertenza
Si registrano qui soltanto i testi fondamentali e alcuni dei
contributi critici più rilevanti messi a frutto per la presente opera;
altri se ne troveranno citati nell’Introduzione e nelle note al testo.
Per una bibliografia generale su Sofocle e in particolare sull’Edipo
re si vedano almeno le rassegne di H.F. Johansen, «Lustrum» VII
(1962) 94-343; di A. Lesky e quindi di H. Strohm, «Anzeiger
für die Altertumswissenschaft» II (1949) 1-11; III (1950) 209212; V (1952) 141-147; VII (1954) 138-147; XII (1959) 13-17;
XIV (1961) 16-21; XVI (1963) 146-150; XXX (1977) 129-144; di
H. van Looy, «L’Antiquité Classique» LIII (1984) 294-305; di S.
Saïd, «Revue des Études Anciennes» LXXXVI (1984) 259-264.
Per il periodo 1949-2005 si può ricorrere al data-base on line
della «Année Philologique» (<http://www.annee-philologique.
com/aph>). Ampie bibliografie generali e particolari si trovano
inoltre in Hester, 49-61, in Paduano, 47-98, in Bollack, 1280-1299
e ora in Jouanna, 689-740; cf. inoltre M. Fantuzzi in Letteratura
greca antica, bizantina e neoellenica, Milano 1989, 202-219 e S.
Fornaro in AA.VV., Lo spazio letterario della Grecia antica, III,
Roma 1996, 402-415.
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J. Vaio, The New Fragments of Euripides’ Oedipus, «Greek,
Roman and Byzantine Studies» V (1964) 43-55.
E. Valgiglio, Edipo nella tradizione pre-attica, «Rivista di Studi
Classici» XI (1963) 18-43.
P. Vanden Berghe-C. Biet-K. Vanhae (sous la dir. de), Oedipe
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Federico Condello
contemporain: tragedie, tragique, politique, Vic la Gardiole 2007.
P. Vidal-Naquet, Edipo a Vicenza e a Parigi: due momenti di una
storia, in J.-P. Vernant–P. V.-N., Mito e tragedia due. Da Edipo
a Dioniso, trad. it. Torino 1991, 197-220.
F. Wehrli, Oidipus, «Museum Helveticum» XIV (1957) 108117.
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Nota al testo e alla traduzione
Testo base della traduzione è stata la teubneriana di R.D.
Dawe, Sophocles. Oedipus rex, Stutgardiae-Lipsiae 19963, con
gli ulteriori contributi forniti in Id., Sophocles. Oedipus rex,
Cambridge 20062 («revised edition» che ripropone, per lo
più, le soluzioni adottate nel 1982). Il radicale interventismo
dell’editore – pur acutissimo e sempre salutare – consiglia, per
la presente sede, alcuni prudenti passi indietro. Dal testo di
Dawe ci si è inoltre distaccati, secondo l’uso della collana, per
alcune particolarità ortografiche. L’elenco che segue fornisce il
quadro delle scelte testuali operate; fra parentesi, la soluzione
adottata da Dawe, con qualche minimale osservazione. Per tutti
i titoli sinteticamente citati si rinvia alla Bibliografia.
1) Si è preferito ritornare al testo tràdito – paradosis unanime o
lezione più probabile – nei seguenti luoghi: v. 11 στέρξαντες
(στέργοντες Dawe); v. 18 ἱερῆς, ἐγὼ μὲν (ἱερεὺς, ἐγὼ μέν Bentley,
seguito da Dawe 1996, ἱερεὺς ἐγώ εἰμι Herwerden, seguito da
Dawe 2006; il passo resta altamente problematico, ma cf.
Kamerbeek, ad l. e già Wilamowitz, Sophokles. Oedipus, 24s.);
v. 31 ἰσούμενον (-ος Stanley: ma cf. v. 581 e Lloyd-Jones–Wilson,
Sophoclea, 79s.; per la strutturazione del periodo, cf. Campbell,
ad l. e ora Longo 2007, ad l.); v. 44s. senza ipotesi di lacuna (si è
seguita, con qualche esitazione, l’esegesi di Jebb, ad l. e pp. 207219; cf. anche Campbell, Paralipomena, 85s. e Diano, 152s.); v.
51 conservato (l’espunzione risale a Ritter: ma la parziale
ripetizione del v. 46, a cornice dell’apostrofe, sembra intenzionale
e intenzionalmente variata); v. 99 τρόπος (πόρος F.W. Schmidt;
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ma cf. Soph. fr. 314,126 R.2, Eur. HF 965s.); v. 107 τινας (†τινας†
Dawe; ma almeno il parallelo di Soph. OC 289 sembra
convincente: cf. Lloyd-Jones–Wilson, Sophoclea, 82; senza il
τινας, peraltro, la successiva incertezza di Edipo [v. 108] non si
comprende); v. 114 ἔφασκεν (ἔφασκον Kousis: una congettura
che non risolve le difficoltà del testo tràdito – su cui cf. Dawe,
Studies, I, 213 – ma anzi le rincara: perché il potente Creonte,
peraltro coinvolto in prima persona nell’indagine, dovrebbe
affidarsi alla vox populi? Cf. anche Lloyd-Jones–Wilson,
Sophoclea, 82); v. 175 ἄλλῳ (ἄλλῃ Dobree; ma cf. Jebb, ad l.); v.
221 ἔχων (ἔχειν Blaydes; a ἔχων torna Dawe 2006, ma con identica
interpretazione, contro cui si veda già Jebb, ad l., e Paduano,
127; si veda anche infra, 146s. n. 40); vv. 244-251 e 269-272
secondo l’ordine tràdito (la trasposizione proposta da Dawe
evidenzia problemi indubbi, ma cf. H. Lloyd-Jones, «Classical
Review» XXVIII, 1978, 220; N. Wilson, «Journal of Hellenic
Studies» XCVI, 1976, 176; Lloyd-Jones–Wilson pensano, a loro
volta, a un’interpolazione, ma cf. H. Erbse, «Illinois Classical
Studies» XVIII, 1993, 69-71 e quanto osserva, su tutto il
problema, Paduano, 128s.); v. 293 τὸν δ᾿ ἰδόντ᾿ (τὸν δὲ δρῶντα,
congettura anonima riferita da Burton, che rischia però la
tautologia [cf. Campbell, ad l.] e annulla l’ironia tragica [K.V.
Hartigan, «Classical Journal» LXX, 1975, 55s.]; e il bisticcio –
che suona spazientito, dopo tanti ‘si dice’ – appare irrinunciabile:
cf. Jebb, ad l.); v. 297 ἔστιν (εἶσιν Wecklein; ma non si vede
difficoltà a intendere ἔστιν nella duplice e ambigua valenza di
πάρεστιν – che è peraltro congettura di Heimsoeth, con νιν in
luogo di αὐτόν, accolta da Lloyd-Jones–Wilson – e di un più
solenne «c’è chi…»: cf. Soph. Phil. 1241; si veda inoltre Jebb,
ad l.); v. 329 senza cruces (interviene sul testo con τὰ λῷστα γ᾿
εἴπω Dawe 1982 = 2006; per le innumerevoli congetture al passo
si vedano Jebb, ad l. e Dawe, Studies, I, 227; per l’esegesi qui
seguita cf. Jebb, Dain-Mazon e Kamerbeek, ad l.; quali siano i
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Nota al testo
κακά di Tiresia si comprende benissimo: cf. vv. 321, 332); v. 342
οὐκοῦν ... ἐμοί (οὔκουν ... ἐμοί; Herwerden, seguito già da LloydJones–Wilson; le opzioni sono pressoché equiprobabili – cf.
Bollack, ad l., nonché le opposte scelte di Dain e Mazon – ma la
formulazione affermativa ha forse il vantaggio di rinforzare
l’attacco anaclastico della battuta successiva); vv. 416s. ἄνω con
punto fermo e nessuna ipotesi di lacuna (ἄνω; / <...> Dawe; il
testo insospettisce – cf. Dawe, Studies, I, 231 – ma più per il
secondo che per il primo καί [v. 415], su cui cf. Jebb, ad l. e ora
Longo 2007, ad l.; per la punteggiatura cf. Kamerbeek, ad l.); v.
421 ποῖος Κιθαιρών e nessuna ipotesi di lacuna dopo il v. 422
(ποῖος; e conseguente ipotesi di lacuna Dawe, con soluzione ben
poco economica; per la corposa sineddoche si veda Kamerbeek,
ad l.; cf. inoltre Nonn. D. X 93 e Lloyd-Jones–Wilson, Sophocles,
51); v. 442 τύχη (τέχνη Bentley; ma la correzione, non necessaria,
annulla una delle parole-chiave della tragedia); v. 511 τῶν (τώς
Lloyd-Jones, Dawe; per la v.l. τῷ opta Dawe 1982 = 2006; ma cf.
Kamerbeek, ad l.); v. 516 πρός γ᾿ ἐμοῦ (πρός τί μου Hartung; ma
per l’assenza di τι cf. Kamerbeek, ad l. e ora Lloyd-Jones–
Wilson, Sophocles, 53); v. 522 πρὸς σοῦ (πρός του Kvíčala, cf.
Dawe 2006, ad l.: ma il Coro è ovviamente incluso nel gruppo
dei φίλοι, e la climax rispetto al verso precedente comunque
assicurata); v. 541 πλήθους (πλούτου, proposto da un anonimo
nel 1803, e accolto in tempi recenti anche da Lloyd-Jones–
Wilson e Longo 2007; ma non si vedono vantaggi nel presunto
chiasmo così stabilito con il verso successivo, che costringe a
un’improbabile corrispondenza πλῆθος ~ φίλοι [Dawe 2006, ad
l.]; migliore la spiegazione del passo, con il testo tràdito, in
Jebb, ad l.; tentante anche la lettura per endiadi proposta da A.
Allen, «Glotta» LX, 198, 235); v. 566 του̃ θανόντος (του̃ κτανόντος
Meineke, e con κανόντος di Herwerden Lloyd-Jones–Wilson;
contra Kamerbeek, ad l. e ora Longo 2007, ad l.); v. 567 οὐχί;
Κοὐκ (οὐ; Τί δ᾿ οὐκ Dawe, ma lo stesso Creonte ha ammesso la
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superficialità dell’indagine [cf. vv. 130s.]; si intende ἀκούω, non
senza perplessità, quale espressione ellittica: un’ellissi forse
attenuata se sottintesa è la denuncia di Edipo – di cui si discorre
– e non un oggetto generico); v. 590 φόβου (φθόνου Blaydes, ma
la «paura» si attaglia benissimo al contesto: cf. vv. 585s.); v. 637
κατὰ στέγας (†κατὰ† στέγας Dawe, ma cf. Dawe 2006, ad l.); v.
640 δυοῖν ἀποκρίνας (†δυοῖν ἀποκρίνας† Dawe, ma cf. Dawe 2006,
ad l. per il problema prosodico, nonché Bollack, ad l. per la
presunta contraddizione rispetto al v. 623); v. 709 ἔχον τέχνης
(†ἔχον τέχνης† Dawe, ma †ἔχον† τέχνης Dawe 2006; il passo è
dubbio ma conservabile: cf. Lloyd-Jones–Wilson, Sophoclea,
97); v. 724 ὧν γὰρ (ἣν γὰρ Brunck, Musgrave; si è seguita l’esegesi,
comunque problematica, di Campbell e Jebb, ad l.); v. 772 καὶ
μείζονι (κἀμείνονι Richards; ma cf. Jebb e Kamerbeek, ad l. e Id.,
«Mnemosyne» XXVII, 1974, 195); v. 792 δ᾿ (τ᾿ Elmsley, Dawe,
ma cf. Dawe 2006 e Kamerbeek, ad l., con rinvio al v. 30); v. 815
non espunto (la diagnosi d’interpolazione è di Dindorf; il verso
è comunque di costituzione incerta: cf. Dawe, Studies, I, 243s.);
v. 873 ὕβρις φυτεύει τύραννον (ὕβριν ... τυραννίς Blaydes; l’intervento
è accolto e argomentato da Winnington-Ingram, 191-194 e da
C.W. Willink, «Classical Quarterly» n.s. LII, 2002, 78; ma il
carattere tradizionale della gnome protegge il testo al di là d’ogni
dubbio: cf. Longo 2007, ad l., Di Benedetto, 139s. e soprattutto
C. Austin, «Classical Quarterly» XXXIV, 1984, 233); v. 920
κατεύγμασιν (κατάργμασιν Wunder; ma cf. Jebb e Kamerbeek,
ad l.); v. 955 ἐκ τῆς (ἥκει Dawe e Dawe 2006, ma il testo tràdito
– ancora in Dawe 1982 – garantisce comunque una piena
coerenza con la domanda di Edipo); v. 1025 τεκών (τυχών Bothe,
correzione molto fortunata, che pecca forse d’iperrazionalismo:
cf. Campbell, ad l. e H. Dietz, «Rivista di Cultura Classica e
Medioevale» XVI, 1974, 285s.; cf. ora Longo 2007, ad l.); v.
1030 σοῦ δ᾿ (σύ τ᾿ Hermann; ma cf. Jebb e Kamerbeek, ad l.,
nonché Denniston, GP2 144); v. 1070 χαίρειν (χλίειν Subkow, ma
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Nota al testo
cf. Kamerbeek, ad l.); v. 1090 Οἰδίπου (Οἰδίπουν Voelcker; ma
che Edipo sia cantore di se stesso appare meno funzionale
all’effimero trionfalismo del Coro, e l’ordo verborum che ne
risulta lascia perplessi; si segue, pur con qualche dubbio, il testo
tràdito, su cui cf. Kamerbeek, ad l.; si vedano anche LloydJones–Wilson, Sophoclea, 104 e Sophocles, 61s. per la sintassi
della frase); v. 1135s. senza ipotesi di lacuna (segnata dopo il v.
1134 da Reiske e adottata anche da Lloyd-Jones–Wilson; si
segue l’esegesi di Jebb, ad l.; cf. anche Dain-Mazon e da ultimo,
per il probabile anacoluto, M.L. West, «Gnomon» L, 1978,
241), v. 1192 δόξαντ᾿ (δόξαν γ᾿ Dawe; ma cf. Lloyd-Jones–Wilson,
Sophoclea, 106); v. 1225 ἐγγενῶς (εὐγενῶς Hartung; ma non si
vede momento più opportuno per ricordare il γένος che
congiunge ai Labdacidi – e quindi a Edipo – i Tebani tutti); v.
1276 ἤρασσ᾿ ἐπαίρων (ἤρασσ᾿ ἔπειρεν Page, ma si veda Ferrari,
Ricerche, 35s.); v. 1361 ὁμογενὴς (ὁμολεχὴς Meineke; s’intende
l’aggettivo secondo l’esegesi di Jebb e Kamerbeek, ad l.; cf.
infra, 170 n. 138); v. 1380 non trasposto (dopo il v. 1397 lo
colloca Todt; altri ne hanno proposto l’espunzione, ma cf.
Lloyd-Jones–Wilson, Sophoclea, 111, con qualche ripensamento
in Sophocles, 65); v. 1411 non espunto (così invece Meineke; ma
alcuni tratti stilistici sembrano genuini: cf. Jebb, Appendix, ad v.
478 e Kamerbeek, ad l.; e cf. supra, Introduzione, CXXIIs.); v.
1423 senza alcuna ipotesi di lacuna (così invece Schenkl; per
Dawe 2006 qui terminerebbe l’Edipo autentico; cf. infra, 170s.
n. 142); vv. 1424-1428 non espunti (così invece Dawe e Dawe
2006, dopo Graffunder; ma nell’apostrofe ad anonimi attendenti
non si vede difficoltà: cf. Jebb, ad l.); v. 1445 senza successiva
lacuna (così invece Wunder); v. 1454 non espunto (così invece
Dawe); v. 1485 πατὴρ (ἀροτὴρ Herwerden: uniformazione della
metafora di cui non si sente il bisogno); v. 1512 εὔχεσθέ μοι
(εὔχεσθ᾿˙ ἐμὲ Deventer; ma cf. Jebb, ad l. e infra per la sistemazione
del verso successivo); v. 1516 ἡδύ. (ἡδύ; Dawe; ma la frase
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affermativa si concilia ugualmente con le condizioni dettate ai
vv. 1517s.); vv. 1524-1530 non espunti (così Dawe, sulla scorta
di Ritter: cf. infra, 173s. n. 151; la questione rimane ampiamente
dubbia).
2) Nei seguenti casi, si è preferita altra lezione rispetto a
quella stampata da Dawe: v. 88 ἐξελθόντα (ἐξιόντα Dawe; ma
cf. Kamerbeek, ad l.); v. 378 σοῦ (τοῦ Dawe; ma a Edipo non
sembrano addirsi dubbi sulla colpevolezza della coppia TiresiaCreonte: cf. vv. 345-349; che Tiresia replichi soltanto in difesa
di Creonte non contrasta con il suo carattere – così LloydJones–Wilson, Sophoclea, 88 – perché Tiresia ha già replicato,
e con durezza, per quanto concerne se stesso); v. 430 οὐ πάλιν
(αὖ π. Dawe, con conseguente cambio di punteggiatura; ma cf.
Kamerbeek, ad l.); vv. 523s. τοὔνειδος, τάχ᾿ ἂν / δ᾿ ὀργὴ τοὔνειδος
τάχ᾿ ἂν / ὀργὴ Dawe; per il valore di τάχ᾿ ἂν si segue Moorhouse,
215s., ma cf. anche G.C. Wakker in De Jong-Rijksbaron, 177); v.
742 μέγας (μέλας Dawe; ma cf. M.L. West, «Classical Philology»
LXXII, 1977, 267; Bollack, ad l.); v. 779 μέθῃ (μέθης Dawe; ma cf.
Kamerbeek, ad l. e Dawe 2006, ad l.); v. 957 σημήνας (σημάντωρ
Dawe, ma cf. Lloyd-Jones–Wilson, Sophocles, 60s.); v. 1055 τόν
θ᾿ (τόνδ᾿ Dawe, con conseguente interpunzione interrogativa;
ma cf. lo stesso Dawe, Studies, I, 253); v. 1249 διπλοῦς (διπλῇ
Dawe; ma cf. Jebb, ad l.); v. 1453 ζῶντε (ζῶντι Dawe; ma cf. Jebb,
ad. l.); 1477 ἥ σ᾿ εἶχεν (ἥ σ᾿ ἔχει Dawe; cf. Dawe 2006, ad l. per
le diverse possibilità esegetiche, e Jebb, ad l. per la scelta qui
adottata).
3) In un piccolo numero di casi, dove il guasto è certo o
probabile, si è preferita una diversa sistemazione congetturale
rispetto a quella adottata da Dawe: v. 570 τοσόνδε γ᾿ (τόσον δέ
γ᾿ Dawe 1996, ma cf. Dawe 1982 = 2006 e Jebb, ad l.); v. 1350
νομὰς (Hartung) ἐπιποδίας ἔλαβέ μ᾿ ἀπό τε φόνου (νομάδος ἐπὶ πόας
[Campbell] λῦσέ μ᾿ [Bothe] ἀπό τε φόνου Dawe, con i dubbi
espressi in Dawe 2006, ad l.; per il testo adottato si vedano
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Nota al testo
Lloyd-Jones–Wilson, con le doviziose precisazioni metriche
e testuali di L. Battezzato, «Prometheus» XXI, 1995, 97-101,
recepite da Lloyd-Jones–Wilson, Sophocles, 64s.); v. 1513 οὗ
καιρὸς ἐᾷ (Dindorf, seguito da molti editori; οὗ κ. ἀεὶ dei codici è
conservato da Dawe, che interviene però sul verso precedente:
cf. supra; ma si vedano Jebb, ad l. e Lloyd-Jones–Wilson,
Sophoclea, 113); v. 1526 οὗ τίς (Martin) οὐ ζήλῳ πολιτῶν ταῖς
(Canter) τύχαις ἐπέβλεπεν (Musgrave; l’insieme degli interventi,
per questo verso tormentato, è accolto da Lloyd-Jones–Wilson,
e già era recepito da Jebb – di cui si veda l’utile Appendix, 234
– e da altri; Dawe non interviene, espungendo il passo nel suo
insieme, e stampa il tràdito e insensato ὅστις οὐ ζήλῳ πολιτῶν
καὶ τύχαις ἐπιβλέπων; il luogo, ovviamente, rimane di estrema
problematicità).
Tuttavia, in molti altri passi in cui le scelte di Dawe appaiono
sì suscettibili di qualche dubbio, ma senza sensibili differenze
ai fini della traduzione (cf. e.g. vv. 538 γνωρίσοιμι [γνωριοῖμι
Elmsley], 576 φονεὺς [φονεὺς γ᾿ Blaydes], 597 ἐκκαλοῦσί με
[ἐκκαλοῦσ᾿ ἐμέ Meineke], 822 δι᾿ ὧνπερ [δι᾿ αἷνπερ Dawe], 825
μήτ᾿ [μήδ᾿ Dindorf] ἐμβατεύειν [-εῦσαι pap.], etc.), si è preferito
attenersi all’edizione di riferimento. Di altri passi difficoltosi o
sospetti si darà menzione essenziale nelle note, specie laddove la
traduzione è costretta a restituire un senso puramente indicativo
dinanzi a luoghi di impossibile o incerta costituzione testuale.
Quanto alla traduzione, solo poche parole introduttive: perché
una traduzione dell’Edipo re sembra richiedere, a chi scrive, più
scuse che preamboli; e perché la presente traduzione si aggiunge
a molte altre, di cui alcune ottime o canoniche, già disponibili
al lettore italiano: delle molte censite nella Bibliografia, piace
ricordare almeno – oltre alla versione classica, anzi neoclassica,
di Quasimodo – la splendida traduzione a calco di Sanguineti,
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che nella tesa artificiosità del dettato riproduce le tensioni stesse
della tragedia, facendone risaltare, proprio nel grottesco, la
tragicità più profonda; le rese ormai consacrate di Lombardo
Radice, Valgimigli, Pontani, che hanno retto a lungo, fra l’altro,
la prova dei palcoscenici; le traduzioni limpide e filologicamente
impegnate di Cantarella, Ferrari, Paduano e – recentissimamente
– Ciani; nonché i magistrali ‘saggi’ di versione forniti da Diano
e Gentili. La presente traduzione, da parte sua, risponde
innanzitutto a un intento negativo: offrire un testo dell’Edipo
re epurato, per quanto possibile, da traduttismi e automatismi
scolastici; un testo che si spera chiaro e chiaramente leggibile,
anche laddove la chiarezza ha richiesto prese di posizione
esegetiche o critico-testuali ben più nette di quanto i dati
consentano (a ciò portano rimedio, nei limite del possibile, le
note al testo); allo stesso intento – in ultima istanza – risponde
anche la scelta metrica, a base endecasillabico-settenaria, che ha
regolato tutta la traduzione.
Alla revisione del lavoro hanno contribuito, con suggerimenti
e correzioni, persone che è qui un piacere, più che un dovere,
menzionare: Massimo Magnani, Ornella Montanari, Riccardo
Stracuzzi. A loro la mia gratitudine.
Questo volume è dovuto a D.
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Sofocle
Edipo re
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Sofocle
ΟΙΔΙΠΟΥΣ ΤΥΡΑΝΝΟΣ
ΤΑ ΤΟΥ ΔΡΑΜΑΤΟΣ ΠΡΟΣΩΠΑ
ΟΙΔΙΠΟΥΣ
ΙΕΡΕΥΣ
ΚΡΕΩΝ
ΧΟΡΟΣ
ΤΕΙΡΕΣΙΑΣ
ΙΟΚΑΣΤΗ
ΑΓΓΕΛΟΣ
ΘΕΡΑΠΩΝ ΛΑΙΟΥ
ΕΞΑΓΓΕΛΟΣ
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Edipo re
EDIPO RE
PERSONAGGI
EDIPO
IL SACERDOTE
CREONTE
CORO di vecchi Tebani
TIRESIA
GIOCASTA
MESSAGGERO di Corinto
SERVO DI LAIO
MESSAGGERO domestico
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Sofocle
ΟΙΔΙΠΟΥΣ
῏Ὦ τέκνα Κάδμου τοῦ πάλαι νέα τροφή,
τίνας ποθ᾿ ἕδρας τάσδε μοι θοάζετε
ἱκτηρίοις κλάδοισιν ἐξεστεμμένοι;
Πόλις δ᾿ ὁμοῦ μὲν θυμιαμάτων γέμει,
ὁμοῦ δὲ παιάνων τε καὶ στεναγμάτων·
ἁγὼ δικαιῶν μὴ παρ᾿ ἀγγέλων, τέκνα,
ἄλλων ἀκούειν αὐτὸς ὧδ᾿ ἐλήλυθα,
ὁ πᾶσι κλεινὸς Οἰδίπους καλούμενος.
Ἀλλ᾿, ὦ γεραιέ, φράζ᾿, ἐπεὶ πρέπων ἔφυς
πρὸ τῶνδε φωνεῖν· τίνι τρόπῳ καθέστατε,
δείσαντες ἢ στέρξαντες; Ὡς θέλοντος ἂν
ἐμοῦ προσαρκεῖν πᾶν· δυσάλγητος γὰρ ἂν
εἴην τοιάνδε μὴ οὐ κατοικτίρων ἕδραν.
ΙΕΡΕΥΣ
Ἀλλ᾿, ὦ κρατύνων Οἰδίπους χώρας ἐμῆς,
ὁρᾷς μὲν ἡμᾶς ἡλίκοι προσήμεθα
βωμοῖσι τοῖς σοῖς, οἱ μὲν οὐδέπω μακρὰν
πτέσθαι σθένοντες, οἱ δὲ σὺν γήρᾳ βαρεῖς,
ἱερῆς, ἐγὼ μὲν Ζηνός, οἵδε τ᾿ ᾐθέων
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Edipo re
Prologo, vv. 1-18
PROLOGO
Edipo
Ultima stirpe nata a Cadmo antico1,
figli miei, cosa fate qui, seduti, di fronte alle mie case, a questo
modo?
E perché questi rami incoronati2, questi segni di supplica?
Tutta fumo d’incensi è la città:
tutta preghiere e pianti.
E io non voglio che sia un messaggero,
un estraneo, a informarmi, figli miei. E sono qui a sentire di
persona,
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io, Edipo: il mio nome è noto a tutti .
Ma, vecchio, parla tu: sei tu il più adatto
a parlare per loro. Perché sedete qui?
Vi porta la paura? O il desiderio? Parla, perché – lo sai –
io sono pronto a darvi ogni mio aiuto: sarei un uomo incapace
di dolore
se vi vedessi qui, così seduti, senza provare pena.
Sacerdote
Edipo, tu che tieni la mia terra,
vedi la nostra età, vedi chi siamo,
noi seduti ai tuoi altari4: costoro, ancora troppo
deboli a lunghi voli; e questi, invece, già gravi di vecchiaia,
sacerdoti – io di Zeus; gli altri che vedi
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Sofocle
λεκτοί· τὸ δ᾿ ἄλλο φῦλον ἐξεστεμμένον
ἀγοραῖσι θακεῖ, πρός τε Παλλάδος διπλοῖς
ναοῖς, ἐπ᾿ Ἰσμηνοῦ τε μαντείᾳ σποδῷ.
Πόλις γάρ, ὥσπερ καὐτὸς εἰσορᾷς, ἄγαν
ἤδη σαλεύει, κἀνακουφίσαι κάρα
βυθῶν ἔτ᾿ οὐχ οἵα τε φοινίου σάλου,
φθίνουσα μὲν κάλυξιν ἐγκάρποις χθονός,
φθίνουσα δ᾿ ἀγέλαις βουνόμοις τόκοισί τε
ἀγόνοις γυναικῶν· ἐν δ᾿ ὁ πυρφόρος θεὸς
σκήψας ἐλαύνει, λοιμὸς ἔχθιστος, πόλιν,
ὑφ᾿ οὗ κενοῦται δῶμα Καδμεῖον, μέλας
δ᾿ Ἅιδης στεναγμοῖς καὶ γόοις πλουτίζεται.
Θεοῖσι μέν νυν οὐκ ἰσούμενόν σ᾿ ἐγὼ
οὐδ᾿ οἵδε παῖδες ἑζόμεσθ᾿ ἐφέστιοι,
ἀνδρῶν δὲ πρῶτον ἔν τε συμφοραῖς βίου
κρίνοντες ἔν τε δαιμόνων συναλλαγαῖς˙
ὅς γ᾿ ἐξέλυσας ἄστυ Καδμεῖον μολὼν
σκληρᾶς ἀοιδοῦ δασμὸν ὃν παρείχομεν,
καὶ ταῦθ᾿ ὑφ᾿ ἡμῶν οὐδὲν ἐξειδὼς πλέον
οὐδ᾿ ἐκδιδαχθείς, ἀλλὰ προσθήκῃ θεοῦ
λέγῃ νομίζῃ θ᾿ ἡμὶν ὀρθῶσαι βίον.
Νῦν τ᾿, ὦ κράτιστον πᾶσιν Οἰδίπου κάρα,
ἱκετεύομέν σε πάντες οἵδε πρόστροποι
ἀλκήν τιν᾿ εὑρεῖν ἡμίν, εἴτε του θεῶν
φήμην ἀκούσας, εἴτ᾿ ἀπ᾿ ἀνδρὸς οἶσθά που·
ὡς τοῖσιν ἐμπείροισι καὶ τὰς ξυμφορὰς
ζώσας ὁρῶ μάλιστα τῶν βουλευμάτων.
Ἴθ᾿, ὦ βροτῶν ἄριστ᾿, ἀνόρθωσον πόλιν·
ἴθ᾿, εὐλαβήθηθ᾿· ὡς σὲ νῦν μὲν ἥδε γῆ
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Prologo, vv. 19-47
Edipo re
sono giovani scelti. Ma tutto intero il popolo ora porta
le corone dei supplici; e siede per le piazze, al doppio tempio
di Pallade, e alla cenere profetica
d’Ismeno5. Sì, lo vedi, in che tempesta
si agita la città: è incapace, ormai, di sollevare il capo
dal gorgo sanguinoso che la soffoca6.
E muore, la città: muore nei germi gonfi del suo suolo,
muore nei pascoli delle sue mandrie, nei parti senza frutto
delle sue donne7; e questa dea di fuoco,
questa febbre nemica8 ora la incalza, la assale: e per sua colpa
già la casa di Cadmo9 si fa vuota, e l’Ade nero accumula
un tesoro di pianti e di lamenti.
Né io né questi giovani crediamo
che tu sia pari a un dio: non è per questo
che noi sediamo qui al tuo focolare; ma tu, per noi, sei il primo
degli uomini
di fronte alle vicende della vita, di fronte a tutto ciò che è
sovrumano10 :
tu sei arrivato alla città di Cadmo, e subito l’hai sciolta dal tributo
che pagavamo all’aspra cantatrice11:
e questo, tu, l’hai fatto senza nulla
sapere, nulla apprendere da noi; un dio ti è stato accanto – così
dice
la gente, così pensa – e tu hai salvato
la nostra vita. E adesso, Edipo caro,
nessuno ai nostri occhi è più potente,
e siamo qui a pregarti, a supplicarti, noi tutti: trova qualche
difesa che ci salvi – ascolta il segno
di un dio, impara da un uomo, non importa.
Quando decide chi è capace – questo
io vedo – hanno fortuna anche i suoi atti12.
Tu, il migliore degli uomini, va’, rendi
la vita alla città. E pensa a te stesso: ora per tutti tu sei il salvatore,
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Sofocle
σωτῆρα κλῄζει τῆς πάρος προθυμίας·
ἀρχῆς δὲ τῆς σῆς μηδαμῶς μεμνώμεθα
στάντες τ᾿ ἐς ὀρθὸν καὶ πεσόντες ὕστερον·
ἀλλ᾿ ἀσφαλείᾳ τήνδ᾿ ἀνόρθωσον πόλιν.
Ὄρνιθι γὰρ καὶ τὴν τότ᾿ αἰσίῳ τύχην
παρέσχες ἡμῖν, καὶ τανῦν ἴσος γενοῦ·
ὡς εἴπερ ἄρξεις τῆσδε γῆς ὥσπερ κρατεῖς,
ξὺν ἀνδράσιν κάλλιον ἢ κενῆς κρατεῖν·
ὡς οὐδέν ἐστιν οὔτε πύργος οὔτε ναῦς
ἔρημος ἀνδρῶν μὴ ξυνοικούντων ἔσω.
ΟΙ. Ὦ παῖδες οἰκτροί, γνωτὰ κοὐκ ἄγνωτά μοι
προσήλθεθ᾿ ἱμείροντες· εὖ γὰρ οἶδ᾿ ὅτι
νοσεῖτε πάντες, καὶ νοσοῦντες ὡς ἐγὼ
οὐκ ἔστιν ὑμῶν ὅστις ἐξ ἴσου νοσεῖ.
Τὸ μὲν γὰρ ὑμῶν ἄλγος εἰς ἕν᾿ ἔρχεται
μόνον καθ᾿ αὑτόν κοὐδέν᾿ ἄλλον, ἡ δ᾿ ἐμὴ
ψυχὴ πόλιν τε κἀμὲ καὶ σ᾿ ὁμοῦ στένει.
Ὥστ᾿ οὐχ ὕπνῳ γ᾿ εὕδοντά μ᾿ ἐξεγείρετε·
ἀλλ᾿ ἴστε πολλὰ μέν με δακρύσαντα δή,
πολλὰς δ᾿ ὁδοὺς ἐλθόντα φροντίδος πλάνοις·
ἣν δ᾿ εὖ σκοπῶν ηὕρισκον ἴασιν μόνην,
ταύτην ἔπραξα· παῖδα γὰρ Μενοικέως
Κρέοντ᾿, ἐμαυτοῦ γαμβρόν, ἐς τὰ Πυθικὰ
ἔπεμψα Φοίβου δώμαθ᾿, ὡς πύθοιθ᾿ ὅ τι
δρῶν ἢ τί φωνῶν τήνδ᾿ ἐρυσαίμην πόλιν.
Καί μ᾿ ἦμαρ ἤδη ξυμμετρούμενον χρόνῳ
λυπεῖ τί πράσσει· τοῦ γὰρ εἰκότος πέρα
ἄπεστι, πλείω τοῦ καθήκοντος χρόνου.
Ὅταν δ᾿ ἵκηται, τηνικαῦτ᾿ ἐγὼ κακὸς
μὴ δρῶν ἂν εἴην πάνθ᾿ ὅσ᾿ ἂν δηλοῖ θεός.
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Prologo, vv. 48-77
Edipo re
qui, nel nostro paese, tanto è l’affetto che hai mostrato allora;
ma fa’ che del tuo regno non rimanga
solo questo ricordo: siamo risorti per cadere ancora.
Ma no: rendi la vita alla città; e rendila per sempre.
Allora la fortuna era con te,
quando tu ci hai salvati: fallo ancora.
Se a lungo regnerai su questa terra, come ora la governi,
sappi che è meglio governarla piena, con tutti i cittadini, e non
deserta.
Perché non sono nulla torri o navi
vuote, senza nessuno che le abiti13.
Edipo
Poveri figli miei, conosco già, conosco i desideri
che vi portano qui. Perché io so bene
quanto soffrite, tutti. Eppure, in tanta
sofferenza, non c’è fra voi chi soffra
quanto me14: voi soffrite di un dolore
solo, ciascuno il suo, e niente di più; la mia anima invece
soffre per la città, e per me, e per te
insieme. No, non siete qui a riscuotermi
dal sonno: no, sappiate che ho già pianto
molte lacrime, e molte vie ho tentato, fra me, nei miei pensieri,
da ogni parte.
Ho riflettuto a fondo: e l’unico rimedio che ho trovato
l’ho messo in atto, subito. Così ho mandato il figlio di Menèceo,
Creonte, mio cognato15, fino a Delfi,
alle case di Febo, perché chieda
che cosa dovrò fare o dovrò dire
per mettere al sicuro la città. E ormai misuro il tempo, penso quanti
giorni sono passati: mi chiedo cosa fa e non trovo pace.
È troppo, ormai, che manca: un tempo lungo più del necessario16.
Ma quando sarà qui, farò ogni cosa
che il dio vorrà indicare; sarei un vigliacco se non lo facessi.
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Sofocle
ΙΕ. Ἀλλ᾿ εἰς καλὸν σύ τ᾿ εἶπας οἵδε τ᾿ ἀρτίως
Κρέοντα προσστείχοντα σημαίνουσί μοι.
ΟΙ. Ὦναξ Ἄπολλον, εἰ γὰρ ἐν τύχῃ γέ τῳ
σωτῆρι βαίη λαμπρὸς ὥσπερ ὄμματι.
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ΙΕ. Ἀλλ᾿ εἰκάσαι μέν, ἡδύς· οὐ γὰρ ἂν κάρα
πολυστεφὴς ὧδ᾿ εἷρπε παγκάρπου δάφνης.
ΟΙ. Τάχ᾿ εἰσόμεσθα· ξύμμετρος γὰρ ὡς κλύειν.
Ἄναξ, ἐμὸν κήδευμα, παῖ Μενοικέως,
τίν᾿ ἡμὶν ἥκεις τοῦ θεοῦ φήμην φέρων;
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ΚΡΕΩΝ
Ἐσθλήν· λέγω γὰρ καὶ τὰ δύσφορ᾿, εἰ τύχοι
κατ᾿ ὀρθὸν ἐξελθόντα, πάντ᾿ ἂν εὐτυχεῖν.
ΟΙ. Ἔστιν δὲ ποῖον τοὖπος; Οὔτε γὰρ θρασὺς
οὔτ᾿ οὖν προδείσας εἰμὶ τῷ γε νῦν λόγῳ.
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ΚΡ. Εἰ τῶνδε χρῄζεις πλησιαζόντων κλύειν,
ἕτοιμος εἰπεῖν, εἴτε καὶ στείχειν ἔσω.
ΟΙ. Ἐς πάντας αὔδα· τῶνδε γὰρ πλέον φέρω
τὸ πένθος ἢ καὶ τῆς ἐμῆς ψυχῆς πέρι.
ΚΡ. Λέγοιμ᾿ ἂν οἷ᾿ ἤκουσα τοῦ θεοῦ πάρα.
Ἄνωγεν ἡμᾶς Φοῖβος ἐμφανῶς ἄναξ
μίασμα χώρας ὡς τεθραμμένον χθονὶ
ἐν τῇδ᾿ ἐλαύνειν μηδ᾿ ἀνήκεστον τρέφειν.
ΟΙ.
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Ποίῳ καθαρμῷ; Τίς ὁ τρόπος τῆς ξυμφορᾶς;
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Prologo, vv. 78-99
Edipo re
Sacerdote
Parli al momento giusto: ecco, mi fanno
segno. Creonte arriva.
Edipo
Apollo, mio signore, fa’ che il suo arrivo porti qualche bene,
vista la luce che egli mostra in volto17.
Sacerdote
Porta buone notizie, se non sbaglio: o non avrebbe addosso
tante fronde d’alloro così vivo.
Edipo
Lo sapremo fra un attimo: è vicino abbastanza da sentire18.
Tu, signore, cognato, tu, figlio di Menèceo:
quale voce del dio vieni a portare?
Creonte
Voce buona. Perché anche le disgrazie – io dico – se alla fine
si concludono bene, sono tutte fortune19.
Edipo
Ma il responso qual è? A sentirti, ancora
io non so se esaltarmi o preoccuparmi.
Creonte
Se vuoi sapere, qui, in loro presenza,
sono pronto a parlare; ma se vuoi, andiamo dentro.
Edipo
Parla di fronte a tutti: se ora soffro
non è per la mia vita, è per la loro.
Creonte
Questo ho udito dal dio, se posso dirlo.
Febo, nostro signore, ci dà un ordine
chiaro: cacciare via da questa terra
la macchia che nutriamo, qui, fra noi20; non lasciare che cresca,
incancellabile.
Edipo
E qual è il rito per purificarci? Che razza di malanno ci ha colpiti?
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Sofocle
ΚΡ. Ἀνδρηλατοῦντας, ἢ φόνῳ φόνον πάλιν
λύοντας, ὡς τόδ᾿ αἷμα χειμάζον πόλιν.
ΟΙ.
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Ποίου γὰρ ἀνδρὸς τήνδε μηνύει τύχην;
ΚΡ. Ἦν ἡμίν, ὦναξ, Λάϊός ποθ᾿ ἡγεμὼν
γῆς τῆσδε, πρὶν σὲ τήνδ᾿ ἀπευθύνειν πόλιν.
ΟΙ.
Ἔξοιδ᾿ ἀκούων· οὐ γὰρ εἰσεῖδόν γέ πω.
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ΚΡ. Τούτου θανόντος νῦν ἐπιστέλλει σαφῶς
τοὺς αὐτοέντας χειρὶ τιμωρεῖν τινας.
ΟΙ. Οἱ δ᾿ εἰσὶ ποῦ γῆς; Ποῦ τόδ᾿ εὑρεθήσεται
ἴχνος παλαιᾶς δυστέκμαρτον αἰτίας;
ΚΡ. Ἐν τῇδ᾿ ἔφασκε γῇ· τὸ δὲ ζητούμενον
ἁλωτόν, ἐκφεύγει δὲ τἀμελούμενον.
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ΟΙ. Πότερα δ᾿ ἐν οἴκοις, ἢ ᾿ν ἀγροῖς ὁ Λάϊος
ἢ γῆς ἐπ᾿ ἄλλης τῷδε συμπίπτει φόνῳ;
ΚΡ. Θεωρός, ὡς ἔφασκεν, ἐκδημῶν πάλιν
πρὸς οἶκον οὐκέθ᾿ ἵκεθ᾿ ὡς ἀπεστάλη.
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ΟΙ. Οὐδ᾿ ἄγγελός τις οὐδὲ συμπράκτωρ ὁδοῦ
κατεῖδ᾿, ὅτου τις ἐκμαθὼν ἐχρήσατ᾿ ἄν;
ΚΡ. Θνήσκουσι γάρ, πλὴν εἷς τις, ὃς φόβῳ φυγὼν
ὧν εἶδε πλὴν ἓν οὐδὲν εἶχ᾿ εἰδὼς φράσαι.
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Prologo, vv. 100-119
Edipo re
Creonte
Il rito è dare esilio. O uccidere chi ha ucciso, a nostra volta.
È questo sangue – dice – che getta la città nella tempesta.
Edipo
Chi è l’uomo a cui è toccata questa sorte? A chi si riferisce?
Creonte
Signore, un tempo noi avevamo un re,
Laio, che governava questa terra, prima che tu guidassi la città.
Edipo
Lo so, ho sentito, ma non l’ho mai visto21.
Creonte
È morto: e adesso il dio ci ordina chiaro
di vendicare, con le nostre mani, coloro che hanno colpa, chiunque
siano22.
Edipo
Coloro che hanno colpa: e dove sono? Dove si scopriranno
le tracce, così dure a decifrarsi, di un crimine ormai antico?23
Creonte
Qui, fra noi: così ha detto. Chi si cerca
si trova, e chi si lascia, fugge via.
Edipo
Dov’è caduto assassinato Laio?
È stato in casa sua? O nei suoi poderi? O in un altro paese?
Creonte
Era partito per interrogare
l’oracolo, diceva. Partito, non è più tornato a casa.
Edipo
Ma un messaggero, un uomo della scorta,
nessuno ha visto nulla? Nessuno che possiamo interrogare?
Creonte
No, sono morti tutti, tranne uno, che si è dato alla fuga, in preda
al panico:
di tutto ciò che ha visto, solo una cosa ci ha saputo dire.
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Sofocle
ΟΙ. Τὸ ποῖον; Ἓν γὰρ πόλλ᾿ ἂν ἐξεύροι μαθεῖν,
ἀρχὴν βραχεῖαν εἰ λάβοιμεν ἐλπίδος.
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ΚΡ. Λῃστὰς ἔφασκε συντυχόντας οὐ μιᾷ
ῥώμῃ κτανεῖν νιν, ἀλλὰ σὺν πλήθει χερῶν.
ΟΙ. Πῶς οὖν ὁ λῃστής, εἴ τι μὴ ξὺν ἀργύρῳ
ἐπράσσετ᾿ ἐνθένδ᾿, ἐς τόδ᾿ ἂν τόλμης ἔβη;
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ΚΡ. Δοκοῦντα ταῦτ᾿ ἦν· Λαΐου δ᾿ ὀλωλότος
οὐδεὶς ἀρωγὸς ἐν κακοῖς ἐγίγνετο.
ΟΙ. Κακὸν δὲ ποῖον ἐμποδών, τυραννίδος
οὕτω πεσούσης, εἶργε τοῦτ᾿ ἐξειδέναι;
ΚΡ. ῾Ἡ ποικιλῳδὸς Σφὶγξ τὸ πρὸς ποσὶ σκοπεῖν
μεθέντας ἡμᾶς τἀφανῆ προσήγετο.
ΟΙ. Ἀλλ᾿ ἐξ ὑπαρχῆς αὖθις αὔτ᾿ ἐγὼ φανῶ·
ἐπαξίως γὰρ Φοῖβος, ἀξίως δὲ σύ,
πρὸς τοῦ θανότος τήνδ᾿ ἔθεσθ᾿ ἐπιστροφήν·
ὥστ᾿ ἐνδίκως ὄψεσθε κἀμὲ σύμμαχον,
γῇ τῇδε τιμωροῦντα τῷ θεῷ θ᾿ ἅμα.
Ὑπὲρ γὰρ οὐχὶ τῶν ἀπωτέρω φίλων,
ἀλλ᾿ αὐτὸς αὐτοῦ τοῦτ᾿ ἀποσκεδῶ μύσος.
Ὅστις γὰρ ἦν ἐκεῖνον ὁ κτανὼν τάχ᾿ ἂν
κἄμ᾿ ἂν τοιαύτῃ χειρὶ τιμωρεῖν θέλοι·
κείνῳ προσαρκῶν οὖν ἐμαυτὸν ὠφελῶ.
Ἀλλ᾿ ὡς τάχιστα, παῖδες, ὑμεῖς μὲν βάθρων
ἵστασθε, τούσδ᾿ ἄραντες ἱκτῆρας κλάδους,
ἄλλος δὲ Κάδμου λαὸν ὧδ᾿ ἀθροιζέτω,
ὡς πᾶν ἐμοῦ δράσοντος· ἢ γὰρ εὐτυχεῖς
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Prologo, vv. 120-145
Edipo re
Edipo
E cosa, esattamente? Spesso una cosa può insegnarne molte,
se dà un minimo appiglio alla speranza.
Creonte
Parlava di predoni: un assalto improvviso. Non un solo
uomo l’ha assassinato: furono molte mani che l’uccisero.
Edipo
E credi che un predone24 avrebbe osato
tanto, senza un complotto, qui, in città? Un complotto: e denaro.
Creonte
Sì, questo era il sospetto; ma di Laio,
in mezzo a tanti guai, nessuno ha vendicato l’omicidio.
Edipo
Si rovesciava un regno: quali guai
potevano impedirvi d’indagare?
Creonte
La cantatrice dalle mille voci, la Sfinge, ci ha costretti
a lasciare i misteri, per pensare al presente25.
Edipo
Tutto daccapo, allora: su tutto io farò luce.
Perché è giusto che Febo, e tu con lui,
mostriate tanto impegno per chi è morto.
E perciò mi vedrete al vostro fianco,
com’è giusto: a difesa del paese, e a difesa del dio.
No, non è per lontane conoscenze26
che io voglio cancellare questa macchia: lo faccio per me stesso,
perché chi ha ucciso lui potrebbe presto
colpire me allo stesso modo. E allora,
se offro il mio aiuto a Laio, lo faccio a mio vantaggio.
Ma adesso in piedi, figli miei, al più presto: lasciate questi altari,
portate via con voi i rami di supplica.
E qualcuno raccolga qui la gente
di Cadmo27: io farò tutto, lo sapete. E allora, o riusciremo
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Sofocle
σὺν τῷ θεῷ φανούμεθ᾿, ἢ πεπτωκότες.
ΙΕ. ῏Ὦ παῖδες, ἱστώμεσθα· τῶνδε γὰρ χάριν
καὶ δεῦρ᾿ ἔβημεν ὧν ὅδ᾿ ἐξαγγέλλεται.
Φοῖβος δ᾿ ὁ πέμψας τάσδε μαντείας ἅμα
σωτήρ θ᾿ ἵκοιτο καὶ νόσου παυστήριος.
ΧΟΡΟΣ
῏Ὦ Διὸς ἁδυεπὲς Φάτι, τίς ποτε
τᾶς πολυχρύσου
Πυθῶνος ἀγλαὰς ἔβας
Θήβας; Ἐκτέταμαι φοβερὰν φρένα
δείματι πάλλων,
ἰήϊε Δάλιε Παιάν,
ἀμφὶ σοὶ ἁζόμενος· τί μοι ἢ νέον
ἢ περιτελλομέναις ὥραις πάλιν
ἐξανύσεις χρέος;
Εἰπέ μοι, ὦ χρυσέας τέκνον Ἐλπίδος,
ἄμβροτε Φήμα.
Πρῶτά σε κεκλόμενος, θύγατερ Διός,
ἄμβροτ᾿ Ἀθάνα,
γαιάοχόν τ᾿ ἀδελφεὰν
Ἄρτεμιν, ἃ κυκλόεντ᾿ ἀγορᾶς θρόνον
εὐκλέα θάσσει,
καὶ Φοῖβον ἑκαβόλον, ἰὼ
τρισσοὶ ἀλεξίμοροι προφάνητέ μοι,
εἴ ποτε καὶ προτέρας ἄτας ὕπερ
ὀρνυμένας πόλει
ἠνύσατ᾿ ἐκτοπίαν φλόγα πήματος,
ἔλθετε καὶ νῦν.
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Prologo, vv. 146-150; Parodo, vv. 151-166
Edipo re
– con l’aiuto del dio – o saremo vinti.
Sacerdote
Figli, alziamoci: è questa la promessa
per cui siamo venuti.
Febo ci manda queste profezie: che sia Febo a salvarci
e a medicare il male.
PARODO
Coro
Dolce voce di Zeus, chi sei, che vieni
da Delfi tutta d’oro
fino a Tebe gloriosa? Io attendo in ansia,
trema nello sgomento
la mia mente atterrita,
oh, tu Peane Delio28,
di fronte a te ho timore: qual è il prezzo
che io ti dovrò pagare, imprevedibile,
o al volgere dei tempi sempre identico?
Figlia della Speranza
d’oro, dimmelo tu, Voce immortale.
E te invoco per prima, Atena, figlia
di Zeus, dea senza morte,
e invoco, insieme a te, chi ti è sorella, Artemide che regge questa
terra
e siede sul suo seggio luminoso, nel cerchio della piazza29,
e invoco Febo arciere: tutti insieme,
voi tre, manifestatevi, cacciate via la morte,
se già in passato, contro la rovina
che invase la città30, voi respingeste
lontano, via da noi, la fiamma del dolore:
venite qui anche adesso.
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Sofocle
῏Ὦ πόποι, ἀνάριθμα γὰρ φέρω
πήματα· νοσεῖ δέ μοι πρόπας
στόλος, οὐδ᾿ ἔνι φροντίδος ἔγχος
ᾧ τις ἀλέξεται· οὔτε γὰρ ἔκγονα
κλυτᾶς χθονὸς αὔξεται οὔτε τόκοισιν
ἰηΐων καμάτων ἀνέχουσι γυναῖκες·
ἄλλον δ᾿ ἂν ἄλλῳ προσίδοις ἅπερ εὔπτερον ὄρνιν
κρεῖσσον ἀμαιμακέτου πυρὸς ὄρμενον
ἀκτὰν πρὸς ἑσπέρου θεοῦ·
ὧν πόλις ἀνάριθμος ὄλλυται.
Νηλέα δὲ γένεθλα πρὸς πέδῳ
θαναταφόρα κεῖται ἀνοίκτως·
ἐν δ᾿ ἄλοχοι πολιαί τ᾿ ἔπι ματέρες
ἀκτὰν παρὰ βώμιον ἄλλοθεν ἄλλαι
λυγρῶν πόνων ἱκετῆρες ἐπιστενάχουσι·
παιὼν δὲ λάμπει στονόεσσά τε γῆρυς ὅμαυλος·
ὧν ὕπερ, ὦ χρυσέα θύγατερ Διός,
εὐῶπα πέμψον ἀλκάν.
Ἄρεά τε τὸν μαλερόν, ὃς
νῦν ἄχαλκος ἀσπίδων
φλέγει με περιβόητος ἀντιάζων,
παλίσσυτον δράμημα νωτίσαι πάτρας
ἄπουρον, εἴτ᾿ ἐς μέγαν
θάλαμον Ἀμφιτρίτας,
εἴτ᾿ ἐς τὸν ἀπόξενον ὅρμων
Θρῄκιον κλύδωνα·
τέλει γάρ, εἴ τι νὺξ ἀφῇ,
τοῦτ᾿ ἐπ᾿ ἦμαρ ἔρχεται·
τόν, ὦ τᾶν πυρφόρων
ἀστραπᾶν κράτη νέμων,
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Parodo, vv. 167-201
Edipo re
I miei dolori sono senza fine:
e tutta la mia gente
soffre, nessun pensiero oppone un’arma
per resistere al male. E più non cresce
frutti la terra splendida, le donne
non sciolgono, nel parto, le grida dei travagli,
e un uomo dopo l’altro – vedi – come
voli d’uccelli corrono
più forte d’una fiamma incontenibile
alla riva del dio che dà il tramonto31.
Muore di tante morti la città,
senza numero: e giacciono, i suoi figli, abbandonati, a terra,
senza un pianto,
e spargono la morte: e ovunque, spose
che strillano alle sponde degli altari
e madri incanutite, supplicando
pace per tutto il male che le affligge.
Brilla, il peana: e brillano con lui
le voci del dolore. Ma contro tanta pena, figlia di Zeus dorata,
tu manda il tuo soccorso, così dolce.
Ares32 violento, nudo
di scudi, senza bronzo, ora mi assale,
grida, mi brucia: e tu caccialo indietro,
che corra, vòlto in fuga, via, lontano
di qui, fino all’immenso
talamo di Anfitrite33, fino ai vortici
di Tracia, che respingono ogni approdo34.
Ora, se mai la notte ha risparmiato
qualcosa, viene il giorno a terminare35.
Tu distruggilo, Zeus, sotto il tuo lampo,
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Sofocle
ὦ Ζεῦ πάτερ, ὑπὸ σῷ φθίσον κεραυνῷ.
Λύκει᾿ ἄναξ, τά τε σὰ χρυσοστρόφων ἀπ᾿ ἀγκυλᾶν
βέλεα θέλοιμ᾿ ἂν ἀδάματ᾿ ἐνδατεῖσθαι
ἀρωγὰ προσταθέντα, τάς τε πυρφόρους
Ἀρτέμιδος αἴγλας, ξὺν αἷς
Λύκι᾿ ὄρεα διᾴσσει·
τὸν χρυσομίτραν τε κικλήσκω,
τᾶσδ᾿ ἐπώνυμον γᾶς,
οἰνῶπα Βάκχον, εὔιον
Μαινάδων ὁμόστολον,
πελασθῆναι φλέγοντ᾿
>
ἀγλαῶπι <
πεύκᾳ ᾿πὶ τὸν ἀπότιμον ἐν θεοῖς θεόν.
уту
ΟΙ. Αἰτεῖς· ἃ δ᾿ αἰτεῖς, τἄμ᾿ ἐὰν θέλῃς ἔπη
κλύων δέχεσθαι τῇ νόσῳ θ᾿ ὑπηρετεῖν,
ἀλκὴν λάβοις ἂν κἀνακούφισιν κακῶν·
ἁγὼ ξένος μὲν τοῦ λόγου τοῦδ᾿ ἐξερῶ,
ξένος δὲ τοῦ πραχθέντος· οὐ γὰρ ἂν μακρὰν
ἴχνευον αὐτός, μὴ οὐκ ἔχων τι σύμβολον·
νῦν δ᾿, ὕστερος γὰρ ἀστὸς εἰς ἀστοὺς τελῶ,
ὑμῖν προφωνῶ πᾶσι Καδμείοις τάδε·
ὅστις ποθ᾿ ὑμῶν Λάϊον τὸν Λαβδάκου
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Parodo, vv. 202-215; Primo episodio, vv. 216-224
Edipo re
padre, tu che hai il dominio
dei fulmini infuocati.
E tu, Apollo dei Lupi36, fa’ che i colpi
scagliati dalla cocca del tuo curvo
arco, intrecciato d’oro, si spargano infallibili a difendermi:
così le torce ardenti
che accompagnano Artemide
per i monti di Licia37.
E invoco Bacco dalla mitra d’oro,
che ha dato nome a questa terra, viso
di vino, benedetto,
compagno delle Menadi38:
che venga accanto a noi, che bruci al fuoco
della sua fiaccola
il dio più disprezzato fra gli dèi.
PRIMO EPISODIO
Edipo
Tu preghi. Preghi questo. E allora ascoltami,
presta il tuo aiuto in tanta sofferenza,
e troverai la forza, troverai
un sollievo ai tuoi mali39. Io parlerò da uomo estraneo a tutto,
a ogni detto e a ogni fatto: non potrei
seguire molto a lungo la mia pista, privo come mi trovo d’ogni
indizio40.
Ora che sono l’ultimo a contarsi
cittadino fra voi concittadini, questo proclamo a tutti voi Cadmei:
chiunque conosca il nome di chi ha ucciso
Laio, figlio di Labdaco41,
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Sofocle
κάτοιδεν ἀνδρὸς ἐκ τίνος διώλετο,
τοῦτον κελεύω πάντα σημαίνειν ἐμοί.
κεἰ μὲν φοβεῖται τοὐπίκλημ᾿ ὑπεξελὼν
<…>
αὐτὸς καθ᾿ αὑτοῦ· πείσεται γὰρ ἄλλο μὲν
ἀστεργὲς οὐδέν, γῆς δ᾿ ἄπεισιν ἀσφαλής.
Εἰ δ᾿ αὖ τις ἄλλον οἶδεν ἐξ ἄλλης χθονὸς
τὸν αὐτόχειρα, μὴ σιωπάτω· τὸ γὰρ
κέρδος τελῶ ᾿γὼ χἠ χάρις προσκείσεται.
Εἰ δ᾿ αὖ σιωπήσεσθε, καί τις ἢ φίλου
δείσας ἀπώσει τοὖπος ἢ χαὐτοῦ τόδε,
ἃκ τῶνδε δράσω, ταῦτα χρὴ κλύειν ἐμοῦ·
τὸν ἄνδρ᾿ ἀπαυδῶ τοῦτον, ὅστις ἐστί, γῆς
τῆσδ᾿, ἧς ἐγὼ κράτη τε καὶ θρόνους νέμω,
μήτ᾿ εἰσδέχεσθαι μήτε προσφωνεῖν τινα,
μήτ᾿ ἐν θεῶν εὐχαῖσι μήτε θύμασιν
κοινὸν ποεῖσθαι, μήτε χέρνιβος νέμειν·
ὠθεῖν δ᾿ ἀπ᾿ οἴκων πάντας, ὡς μιάσματος
τοῦδ᾿ ἡμὶν ὄντος, ὡς τὸ Πυθικὸν θεοῦ
μαντεῖον ἐξέφηνεν ἀρτίως ἐμοί.
Ἐγὼ μὲν οὖν τοιόσδε τῷ τε δαίμονι
τῷ τ᾿ ἀνδρὶ τῷ θανόντι σύμμαχος πέλω·
κατεύχομαι δὲ τὸν δεδρακότ᾿, εἴτε τις
εἷς ὢν λέληθεν εἴτε πλειόνων μέτα,
κακὸν κακῶς νιν ἄμορον ἐκτρῖψαι βίον·
ἐπεύχομαι δ᾿, οἴκοισιν εἰ ξυνέστιος
ἐν τοῖς ἐμοῖς γένοιτ᾿ ἐμοῦ ξυνειδότος,
παθεῖν ἅπερ τοῖσδ᾿ ἀρτίως ἠρασάμην.
Ὑμῖν δὲ ταῦτα πάντ᾿ ἐπισκήπτω τελεῖν
ὑπέρ τ᾿ ἐμαυτοῦ, τοῦ θεοῦ τε, τῆσδέ τε
γῆς ᾧδ᾿ ἀκάρπως κἀθέως ἐφθαρμένης.
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Primo episodio, vv. 225-254
Edipo re
io gli ordino di rivelarmi tutto.
E se teme, a rimuovere l’accusa
<…>
da solo, per se stesso42: nessun male
soffrirà; dovrà andarsene, ma incolume, da questa terra.
E se qualcuno sa che è stato un altro, un uomo d’altra terra,
l’assassino,
non taccia: io pagherò la ricompensa; e avrà per pegno la mia
gratitudine.
Ma se non parlerete, e se qualcuno, preso dalla paura,
tenterà di sottrarre al mio proclama
un amico, o se stesso, sarà questa
la conseguenza, e voglio che sia chiaro:
io vieto che a quest’uomo, chiunque sia,
in questa terra che io comando e reggo,
qualcuno dia un ricovero; io vieto di parlargli,
di spartire con lui preghiere o riti, di toccare con lui l’acqua lustrale;
io impongo di scacciarlo da ogni casa, perché – voi lo sapete – è
lui la macchia
che ci contamina: me l’ha annunciato
ora il divino oracolo di Delfi43.
È questa l’alleanza che offro al dio
e all’uomo che è caduto. E contro chi l’ha ucciso
– si nasconda da solo o insieme a molti
complici – io lancio una maledizione:
che lui, l’infame, viva nel dolore
la sua vita d’infamia. E se mai fosse
compagno del mio fuoco, in casa mia, e se io fossi al corrente,
prego che tocchi a me tutto il dolore
che ora ho invocato contro gli assassini.
E ingiungo a voi di compiere i miei ordini:
e per me e per il dio e per questa terra
distrutta, che non sa più generare, che nessun dio più abita.
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Sofocle
Οὐδ᾿ εἰ γὰρ ἦν τὸ πρᾶγμα μὴ θεήλατον,
ἀκάθαρτον ὑμᾶς εἰκὸς ἦν οὕτως ἐᾶν,
ἀνδρός γ᾿ ἀρίστου βασιλέως τ᾽ὀλωλότος,
ἀλλ᾿ ἐξερευνᾶν· νῦν δ᾿ ἐπεὶ κυρῶ τ᾿ ἐγὼ
ἔχων μὲν ἀρχὰς ἃς ἐκεῖνος εἶχε πρίν,
ἔχων δὲ λέκτρα καὶ γυναῖχ᾿ ὁμόσπορον,
κοινῶν τε παίδων κοίν᾿ ἄν, εἰ κείνῳ γένος
μὴ ᾿δυστύχησεν, ἦν ἂν ἐκπεφυκότα –
νῦν δ᾿ ἐς τὸ κείνου κρᾶτ᾿ ἐνήλαθ᾿ ἡ τύχη·
ἀνθ᾿ ὧν ἐγὼ τάδ᾿, ὡσπερεὶ τοὐμοῦ πατρός,
ὑπερμαχοῦμαι, κἀπὶ πάντ᾿ ἀφίξομαι,
ζητῶν τὸν αὐτόχειρα τοῦ φόνου λαβεῖν,
τῷ Λαβδακείῳ παιδὶ Πολυδώρου τε καὶ
τοῦ πρόσθε Κάδμου τοῦ πάλαι τ᾿ Ἀγήνορος·
Kαὶ ταῦτα τοῖς μὴ δρῶσιν εὔχομαι θεοὺς
μήτ᾿ ἀροτὸν αὐτοῖς γῆς ἀνιέναι τινὰ
μήτ᾿ οὖν γυναικῶν παῖδας, ἀλλὰ τῷ πότμῳ
τῷ νῦν φθερεῖσθαι κἄτι τοῦδ᾿ ἐχθίονι.
Ὑμῖν δὲ τοῖς ἄλλοισι Καδμείοις, ὅσοις
τάδ᾿ ἔστ᾿ ἀρέσκονθ᾿, ἥ τε σύμμαχος Δίκη
χοἰ πάντες εὖ ξυνεῖεν εἰσαεὶ θεοί.
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ΧΟ. Ὥσπερ μ᾿ ἀραῖον ἔλαβες, ὧδ᾿, ἄναξ, ἐρῶ·
οὔτ᾿ ἔκτανον γὰρ οὔτε τὸν κτανόντ᾿ ἔχω
δεῖξαι. Τὸ δὲ ζήτημα τοῦ πέμψαντος ἦν
Φοίβου τόδ᾿ εἰπεῖν, ὅστις εἴργασταί ποτε.
ΟΙ. Δίκαι᾿ ἔλεξας· ἀλλ᾿ ἀναγκάσαι θεοὺς
ἃν μὴ θέλωσιν οὐδ᾿ ἂν εἷς δύναιτ᾿ ἀνήρ.
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ΧΟ. Τὰ δεύτερ᾿ ἐκ τῶνδ᾿ ἂν λέγοιμ᾿ ἅ μοι δοκεῖ.
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Primo episodio, vv. 255-282
Edipo re
E se anche non venisse, tutto questo, da un ordine divino,
no, non sarebbe giusto abbandonarlo,
così, senza espiazioni. È un grand’uomo che è morto: è morto un re.
Si doveva indagare, in ogni caso. E ora, poiché mi trovo a detenere
i poteri che un tempo erano suoi,
e il suo letto, e una donna che ha raccolto
entrambi i nostri semi – e potevamo
generare, noi due, figli fratelli,
figli d’entrambi, ma fu sfortunato, con i figli: e la sorte
ora si è rovesciata sul suo capo44 –
per questo lotterò come se fosse
mio padre: e farò tutto per trovare, per catturare l’uomo
che ha commesso il delitto. Io lo farò: per Laio, per il figlio
di Labdaco, che nacque a Polidoro,
figlio di Cadmo, figlio dell’antico
Agenore45. E per chi disobbedisce, ecco la mia preghiera:
che non abbia più frutto dalla terra
né figli dalle donne; e lo distrugga
la stessa sorte che distrugge noi, o un’altra anche peggiore.
Ma tutti voi che a Tebe mi approvate
abbiate sempre a fianco la Giustizia,
vostra alleata, e tutti gli altri dèi.
Coro
Tocca anche me la tua maledizione: perciò, sovrano, voglio dirti
che io
non ho ucciso e chi ha ucciso non so dire.
Quanto all’inchiesta, Febo, che ha mandato
l’oracolo, doveva dirlo, il nome: il nome del colpevole.
Edipo
È giusto, tu hai ragione. Ma costringere
gli dèi, quando non vogliono, nessuno lo può fare.
Coro
C’è un’altra via a cui penso, e vorrei dirtela.
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Sofocle
ΟΙ.
Εἰ καὶ τρίτ᾿ ἐστί, μὴ παρῇς τὸ μὴ οὐ φράσαι.
ΧΟ. Ἄνακτ᾿ ἄνακτι ταὔθ᾿ ὁρῶντ᾿ ἐπίσταμαι
μάλιστα Φοίβῳ Τειρεσίαν, παρ᾿ οὗ τις ἂν
σκοπῶν τάδ᾿, ὦναξ, ἐκμάθοι σαφέστατα.
285
ΟΙ. Ἀλλ᾿ οὐκ ἐν ἀργοῖς οὐδὲ τοῦτ᾿ ἐπραξάμην·
ἔπεμψα γὰρ Κρέοντος εἰπόντος διπλοῦς
πομπούς· πάλαι δὲ μὴ παρὼν θαυμάζεται.
ΧΟ. Καὶ μὴν τά γ᾿ ἄλλα κωφὰ καὶ παλαί᾿ ἔπη.
ΟΙ.
290
Τὰ ποῖα ταῦτα; Πάντα γὰρ σκοπῶ λόγον.
ΧΟ. Θανεῖν ἐλέχθη πρός τινων ὁδοιπόρων.
ΟΙ.
Ἤκουσα κἀγώ· τὸν δ᾿ ἰδόντ᾿ οὐδεὶς ὁρᾷ.
ΧΟ. Ἀλλ᾿ εἴ τι μὲν δὴ δείματός γ᾿ ἔχει μέρος,
τὰς σὰς ἀκούων οὐ μενεῖ τοιάσδ᾿ ἀράς.
ΟΙ.
295
῟ᾯ μή ᾿στι δρῶντι τάρβος, οὐδ᾿ ἔπος φοβεῖ.
ΧΟ. Ἀλλ᾿ οὑξελέγξων αὐτὸν ἔστιν· οἵδε γὰρ
τὸν θεῖον ἤδη μάντιν ὧδ᾿ ἄγουσιν, ᾧ
τἀληθὲς ἐμπέφυκεν ἀνθρώπων μόνῳ.
ΟΙ. ῏Ὦ πάντα νωμῶν Τειρεσία, διδακτά τε
ἄρρητά τ᾿, οὐράνιά τε καὶ χθονοστιβῆ,
πόλιν μέν, εἰ καὶ μὴ βλέπεις, φρονεῖς δ᾿ ὅμως
οἵᾳ νόσῳ σύνεστιν· ἧς σὲ προστάτην
300
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Primo episodio, vv. 283-303
Edipo re
Edipo
E, se c’è, un’altra ancora: te ne prego, non mi tacere nulla.
Coro
Io so un uomo che vede quanto il dio: quanto l’eccelso Febo
vede Tiresia eccelso. Se qualcuno
volesse interpellarlo, mio signore, saprebbe tutto quanto fino
in fondo.
Edipo
Nemmeno questo ho trascurato: e dietro
consiglio di Creonte ho inviato già
due messaggeri. E ancora non è qui. Questo mi sembra strano.
Coro
Sì – tutto il resto sono voci antiche. Voci senza alcun peso.
Edipo
Voci: e che voci intendi? Voglio sapere tutto.
Coro
Era morto – si disse – per mano di viandanti sconosciuti.
Edipo
Così ho sentito anch’io. Ma l’uomo che l’ha visto non si vede.
Coro
Ma se solo conosce la paura,
a sentire le tue maledizioni, non potrà più resistere.
Edipo
Non lo spaventa agire. Non lo spaventeranno le parole.
Coro
Ma ecco chi potrà presto smascherarlo:
stanno guidando qui il santo profeta, che come nessun altro
ha innato il dono della verità.
Edipo
Tu che conosci tutto – ciò che è lecito
sapere e ciò che è illecito, ciò che viene dal cielo e ciò che vive
sulla terra – Tiresia, tu non vedi, ma sai l’epidemia
che invade la città; vieni a proteggerla,
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Sofocle
σωτῆρά τ᾿, ὦναξ, μοῦνον ἐξευρίσκομεν.
Φοῖβος γάρ, εἴ καὶ μὴ κλύεις τῶν ἀγγέλων,
πέμψασιν ἡμῖν ἀντέπεμψεν ἔκλυσιν
μόνην ἂν ἐλθεῖν τοῦδε τοῦ νοσήματος,
εἰ τοὺς κτανόντας Λάϊον μαθόντες εὖ
κτείναιμεν ἢ γῆς φυγάδας ἐκπεμψαίμεθα.
Σὺ δ᾿ οὖν φθονήσας μήτ᾿ ἀπ᾿ οἰωνῶν φάτιν,
μήτ᾿ εἴ τιν᾿ ἄλλην μαντικῆς ἔχεις ὁδόν,
ῥῦσαι σεαυτὸν καὶ πόλιν, ῥῦσαι δ᾿ ἐμέ,
ῥῦσαι δὲ πᾶν μίασμα τοῦ τεθνηκότος·
ἐν σοὶ γάρ ἐσμέν· ἄνδρα δ᾿ ὠφελεῖν ἀφ᾿ ὧν
ἔχοι τε καὶ δύναιτο κάλλιστος πόνων.
305
310
315
ΤΕΙΡΕΣΙΑΣ
Φεῦ φεῦ. φρονεῖν ὡς δεινὸν ἔνθα μὴ τέλη
λύῃ φρονοῦντι· ταῦτα γὰρ καλῶς ἐγὼ
εἰδὼς διώλεσ᾿· οὐ γὰρ ἂν δεῦρ᾿ ἱκόμην.
ΟΙ.
Τί δ᾿ ἔστιν; ῾Ώς ἄθυμος εἰσελήλυθας.
ΤΕ. Ἄφες μ᾿ ἐς οἴκους· ῥᾷστα γὰρ τὸ σόν τε σὺ
κἀγὼ διοίσω τοὐμόν, ἢν ἐμοὶ πίθῃ.
320
ΟΙ. Οὔτ᾿ ἔννομ᾿ εἶπας οὔτε προσφιλῆ πόλει
τῇδ᾿ ἥ σ᾿ ἔθρεψε, τήνδ᾿ ἀποστερῶν φάτιν.
ΤΕ. Ὁρῶ γὰρ οὐδὲ σοὶ τὸ σὸν φώνημ᾿ ἰὸν
πρὸς καιρόν· ὡς οὖν μηδ᾿ ἐγὼ ταὐτὸν πάθω.
325
ΟΙ. Μή, πρὸς θεῶν, φρονῶν γ᾿ ἀποστραφῇς, ἐπεὶ
πάντες σε προσκυνοῦμεν οἵδ᾿ ἱκτήριοι.
ΤΕ.
Πάντες γὰρ οὐ φρονεῖτ᾿· ἐγὼ δ᾿ οὐ μή ποτε
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Primo episodio, vv. 304-328
Edipo re
salvala tu, signore: non abbiamo che te.
Perché Febo – se non l’hai già saputo
dai nostri messaggeri – è stato interrogato e ci ha risposto
che esiste un solo modo per guarire
da questa epidemia: scoprire il nome di chi ha ucciso Laio
e ucciderlo, o mandarlo via di qui.
Non risparmiare nulla, né un presagio
d’uccelli, né altra via, se c’è altra via, per la divinazione:
e preserva te stesso e la città, preserva me, preserva
noi da tutto il contagio di chi è morto46.
Siamo nelle tue mani. Non c’è prova più bella che aiutare
gli altri con tutti i mezzi che possiamo.
Tiresia
È tremendo conoscere, se questo
non dà nessun vantaggio a chi conosce. Dovrei saperlo bene,
ma l’ho dimenticato47. Non sarei qui, altrimenti.
Edipo
Ma cosa ti succede? Ti presenti talmente scoraggiato...
Tiresia
Lascia che io torni a casa. Sopporterai più facilmente il tuo
destino, e io il mio, se solo mi dai ascolto.
Edipo
Dicendo questo tu infrangi la legge48. E non dimostri amore
per questa tua città, che ti ha nutrito, se le neghi il responso.
Tiresia
È perché vedo che nemmeno tu
dici ciò che si deve. Non voglio che a me capiti lo stesso.
Edipo
Ma in nome degli dèi, non te n’andare, se davvero tu sai:
siamo tutti qui supplici, ai tuoi piedi.
Tiresia
E non sapete nulla, tutti quanti. Ma non accadrà mai
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Sofocle
τἄμ᾿, ὡς ἂν εἴπω μὴ τὰ σ᾿, ἐκφήνω κακά.
ΟΙ. Τί φῄς; Ξυνειδὼς οὐ φράσεις, ἀλλ᾿ ἐννοεῖς
ἡμᾶς προδοῦναι καὶ καταφθεῖραι πόλιν;
330
ΤΕ. Ἐγὼ οὔτ᾿ ἐμαυτὸν οὔτε σ᾿ ἀλγυνῶ· τί ταῦτ᾿
ἄλλως ἐλέγχεις; Ὃὐ γὰρ ἂν πύθοιό μου.
ΟΙ. Οὐκ, ὦ κακῶν κάκιστε - καὶ γὰρ ἂν πέτρου
φύσιν σύ γ᾿ ὀργάνειας - ἐξερεῖς ποτε,
ἀλλ᾿ ὧδ᾿ ἄτεγκτος κἀτελεύτητος φανῇ;
335
ΤΕ. Ὀργὴν ἐμέμψω τὴν ἐμήν, τὴν σὴν δ᾿ ὁμοῦ
ναίουσαν οὐ κατεῖδες, ἀλλ᾿ ἐμὲ ψέγεις.
ΟΙ. Τίς γὰρ τοιαῦτ᾿ ἂν οὐκ ἂν ὀργίζοιτ᾿ ἔπη
κλύων ἃ νῦν σὺ τήνδ᾿ ἀτιμάζεις πόλιν;
ΤΕ.
Ἥξει γὰρ αὐτά κἂν ἐγὼ σιγῇ στέγω.
ΟΙ.
Οὐκοῦν ἅ γ᾿ ἥξει καὶ σὲ χρὴ λέγειν ἐμοί.
340
ΤΕ. Οὐκ ἂν πέρα φράσαιμι· πρὸς τάδ᾿, εἰ θέλεις,
θυμοῦ δι᾿ ὀργῆς ἥτις ἀγριωτάτη.
ΟΙ. Καὶ μὴν παρήσω γ᾿ οὐδέν, ὡς ὀργῆς ἔχω,
ἅπερ ξυνίημ᾿. ἴσθι γὰρ δοκῶν ἐμοὶ
καὶ ξυμφυτεῦσαι τοὖργον, εἰργάσθαι θ᾿, ὅσον
μὴ χερσὶ καίνων· εἰ δ᾿ ἐτύγχανες βλέπων,
καὶ τοὖργον ἂν σοῦ τοῦτ᾿ ἔφην εἶναι μόνου.
345
ΤΕ. Ἄληθες; ᾽Eννέπω σὲ τῷ κηρύγματι
ᾧπερ προεῖπας ἐμμένειν, κἀφ᾿ ἡμέρας
350
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Primo episodio, vv. 329-351
Edipo re
che io riveli il mio male – e dovrei dire: il tuo.
Edipo
Come? Tu sai e rifiuti di parlare:
anzi, ci vuoi tradire, vuoi mandare in rovina la città.
Tiresia
Né a me stesso né a te darò dolore. Perché insisti con queste
inutili domande? Da me non potrai mai sapere nulla.
Edipo
Ultimo degli infami – tu faresti
perdere la pazienza anche a una pietra. Davvero vuoi tacere,
vuoi mostrarti così ostinato e chiuso?49
Tiresia
Giudichi come sono. Ma non vedi te stesso, come sei:
con che cuore convivi. E invece è me che critichi.
Edipo
Ma chi non perderebbe la pazienza,
a sentire parole come queste? Tu, in questo modo, insulti la città.
Tiresia
Tutto dovrà accadere, anche se io lo nascondo nel silenzio.
Edipo
Dovrà accadere? E allora devi dirmelo.
Tiresia
Altro non posso dire. Così stanno le cose. E ora, se vuoi,
da’ sfogo alla tua rabbia più selvaggia.
Edipo
E allora, tanta è la mia rabbia che io
ti voglio dire tutto ciò che penso. Sappi che credo questo:
che hai avuto la tua parte, nel delitto; e che tu l’hai compiuto.
Tu non l’hai ucciso di tua mano, no; ma se non fossi cieco,
direi ch’è tuo, soltanto tuo, il delitto.
Tiresia
Sul serio? Io dico: attieniti al proclama
che adesso hai pronunciato. E d’ora in poi
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Sofocle
τῆς νῦν προσαυδᾶν μήτε τούσδε μήτ᾿ ἐμέ,
ὡς ὄντι γῆς τῆσδ᾿ ἀνοσίῳ μιάστορι.
ΟΙ. Οὕτως ἀναιδῶς ἐξεκίνησας τόδε
τὸ ῥῆμα; Καὶ ποῦ τοῦτο φεύξεσθαι δοκεῖς;
ΤΕ.
Πέφευγα· τἀληθὲς γὰρ ἰσχῦον τρέφω.
ΟΙ.
Πρὸς τοῦ διδαχθείς; Ὂὐ γὰρ ἔκ γε τῆς τέχνης.
ΤΕ.
Πρὸς σοῦ· σὺ γάρ μ᾿ ἄκοντα προυτρέψω λέγειν.
ΟΙ.
Ποῖον λόγον; Λέγ᾿ αὖθις, ὡς μᾶλλον μάθω.
ΤΕ.
Οὐχὶ ξυνῆκας πρόσθεν, ἢ ᾿κπειρᾷ †λέγειν†;
ΟΙ.
Οὐχ ὥστε γ᾿ εἰπεῖν γνωστόν· ἀλλ᾿ αὖθις φράσον.
ΤΕ.
Φονέα σέ φημι τἀνδρὸς οὗ ζητεῖς κυρεῖν.
ΟΙ.
Ἀλλ᾿ οὔ τι χαίρων δίς γε πημονὰς ἐρεῖς.
ΤΕ.
Εἴπω τι δῆτα κἄλλ᾿, ἵν᾿ ὀργίζῃ πλέον;
ΟΙ.
Ὅσον γε χρῄζεις· ὡς μάτην εἰρήσεται.
355
360
365
ΤΕ. Λεληθέναι σέ φημι σὺν τοῖς φιλτάτοις
αἴσχισθ᾿ ὁμιλοῦντ᾿ οὐδ᾿ ὁρᾶν ἵν᾿ εἶ κακοῦ.
ΟΙ.
῏Ἦ καὶ γεγηθὼς ταῦτ᾿ ἀεὶ λέξειν δοκεῖς;
ΤΕ.
Εἴπερ τί γ᾿ ἐστὶ τῆς ἀληθείας σθένος.
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Primo episodio, vv. 349-369
Edipo re
non rivolgerti più né a me né a loro. Perché sei tu l’impuro
che infetta questa terra.
Edipo
Tu sei così sfacciato da lanciare
accuse come queste? E dimmi: come pensi di salvarti?50
Tiresia
Sono già salvo. Io nutro in me la verità, che è forte.
Edipo
E a te, la verità, chi l’ha insegnata? Non certo il tuo mestiere.
Tiresia
Me l’hai insegnata tu. Tu mi hai costretto a dire. Io non volevo.
Edipo
A dire cosa? Dillo un’altra volta: voglio capire meglio.
Tiresia
Perché? Non hai capito? O mi metti alla prova?51
Edipo
Non ho capito, no: non fino in fondo. Dimmelo un’altra volta.
Tiresia
Tu cerchi l’assassino di quell’uomo. L’assassino sei tu: questo ti
dico.
Edipo
Se predichi altro male sul mio conto, te ne dovrai pentire.
Tiresia
Vuoi che dica anche il resto? Così ti arrabbierai ancora di più.
Edipo
Di’ pure. Ciò che dici è detto invano.
Tiresia
Ecco cosa ti dico: tu non sai quale oscena intimità
ti lega ai tuoi più cari. E non vedi a che punto sei arrivato.
Edipo
Pensi di divertirti ancora a lungo, a parlare così?
Tiresia
Se nella verità c’è qualche forza.
33
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Sofocle
ΟΙ. Ἀλλ᾿ ἔστι, πλὴν σοί· σοὶ δὲ τοῦτ᾿ οὐκ ἔστ᾿, ἐπεὶ
τυφλὸς τά τ᾿ ὦτα τόν τε νοῦν τά τ᾿ ὄμματ᾿ εἶ.
370
ΤΕ. Σὺ δ᾿ ἄθλιός γε ταῦτ᾿ ὀνειδίζων, ἃ σοὶ
οὐδεὶς ὃς οὐχὶ τῶνδ᾿ ὀνειδιεῖ τάχα.
ΟΙ. Μιᾶς τρέφῃ πρὸς νυκτός, ὥστε μήτ᾿ ἐμὲ
μήτ᾿ ἄλλον, ὅστις φῶς ὁρᾷ, βλάψαι ποτ᾿ ἄν.
375
ΤΕ. Οὐ γάρ σε μοῖρα πρός γε μοῦ πεσεῖν, ἐπεὶ
ἱκανὸς Ἀπόλλων, ᾧ τάδ᾿ ἐκπρᾶξαι μέλει.
ΟΙ.
Κρέοντος ἢ σοῦ ταῦτα τἀξευρήματα;
ΤΕ.
Κρέων δέ σοι πῆμ᾿ οὐδέν, ἀλλ᾿ αὐτὸς σὺ σοί.
ΟΙ. Ὦ πλοῦτε καὶ τυραννὶ καὶ τέχνη τέχνης
ὑπερφέρουσα τῷ πολυζήλῳ βίῳ,
ὅσος παρ᾿ ὑμῖν ὁ φθόνος φυλάσσεται,
εἰ τῆσδέ γ᾿ ἀρχῆς οὕνεχ᾿, ἣν ἐμοὶ πόλις
δωρητόν, οὐκ αἰτητόν, εἰσεχείρισεν,
ταύτης Κρέων ὁ πιστός, οὑξ ἀρχῆς φίλος,
λάθρᾳ μ᾿ ὑπελθὼν ἐκβαλεῖν ἱμείρεται,
ὑφεὶς μάγον τοιόνδε μηχανορράφον,
δόλιον ἀγύρτην, ὅστις ἐν τοῖς κέρδεσιν
μόνον δέδορκε, τὴν τέχνην δ᾿ ἔφυ τυφλός.
Ἐπεί, φέρ᾿ εἰπέ, ποῦ σὺ μάντις εἶ σαφής;
Πῶς οὐχ, ὅθ᾿ ἡ ῥαψῳδὸς ἐνθάδ᾿ ἦν κύων,
ηὔδας τι τοῖσδ᾿ ἀστοῖσιν ἐκλυτήριον;
Καίτοι τό γ᾿ αἴνιγμ᾿ οὐχὶ τοὐπιόντος ἦν
ἀνδρὸς διειπεῖν, ἀλλὰ μαντείας ἔδει·
ἣν οὔτ᾿ ἀπ᾿ οἰωνῶν σὺ προυφάνης ἔχων
380
385
390
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Primo episodio, vv. 370-395
Edipo re
Edipo
Certo, ma non per te. Per te non c’è:
tu sei cieco d’orecchi e di pensiero, come sei cieco d’occhi.
Tiresia
Ma mi fai pena, tu, con questi insulti. Non c’è uomo che presto
non ti rivolgerà gli stessi insulti.
Edipo
Tu vivi in una notte senza fine: né a me né a nessun altro
che veda questa luce puoi far male.
Tiresia
Non è per mano mia che tu dovrai
cadere52. Apollo basta. È lui che pensa a compiere ogni cosa.
Edipo
È di Creonte, o è tua, questa trovata?
Tiresia
Non ti viene alcun male da Creonte. Viene da te il tuo male.
Edipo
Oh, denaro, oh, potere di chi è re53,
arte che non ha pari fra le arti, in questa vita che fa invidia a tutti,
quanto è il rancore che voi accumulate,
se per questo potere che fu un dono
della città e che non ho mai richiesto,
se, per questo, Creonte, il fedelissimo, l’amico dei miei primi
giorni, mi si fa sotto di nascosto, per rovesciarmi a terra:
e che specie di mago manda avanti, uno che le sa tutte,
bugiardo ciarlatano, che solo se si tratta di guadagni
ci vede; quanto a fare il suo mestiere, purtroppo, è un cieco nato.
Perché, sentiamo, spiegami: tu saresti davvero un indovino?
E allora come mai – quand’era qui la cagna cantatrice54 –
non hai mai pronunciato una parola
che liberasse questi cittadini? Certo non era un uomo di passaggio
che doveva spiegare quell’enigma: l’arte degli indovini ci voleva!
Ma è un’arte che nessuno ti ha insegnato, né gli uccelli, né un dio:
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Sofocle
οὔτ᾿ ἐκ θεῶν του γνωτόν· ἀλλ᾿ ἐγὼ μολών,
ὁ μηδὲν εἰδὼς Οἰδίπους, ἔπαυσά νιν,
γνώμῃ κυρήσας οὐδ᾿ ἀπ᾿ οἰωνῶν μαθών·
ὃν δὴ σὺ πειρᾷς ἐκβαλεῖν, δοκῶν θρόνοις
παραστατήσειν τοῖς Κρεοντείοις πέλας.
Κλαίων δοκεῖς μοι καὶ σὺ χὠ συνθεὶς τάδε
ἀγηλατήσειν· εἰ δὲ μὴ ᾿δόκεις γέρων
εἶναι, παθὼν ἔγνως ἂν οἷά περ φρονεῖς.
ΧΟ. Ἡμῖν μὲν εἰκάζουσι καὶ τὰ τοῦδ᾿ ἔπη
ὀργῇ λελέχθαι καὶ τὰ σ᾿, Οἰδίπου, δοκεῖ.
Δεῖ δ᾿ οὐ τοιούτων, ἀλλ᾿ ὅπως τὰ τοῦ θεοῦ
μαντεῖ᾿ ἄριστα λύσομεν, τόδε σκοπεῖν.
ΤΕ. Εἰ καὶ τυραννεῖς, ἐξισωτέον τὸ γοῦν
ἴσ᾿ ἀντιλέξαι· τοῦδε γὰρ κἀγὼ κρατῶ·
οὐ γάρ τι σοὶ ζῶ δοῦλος, ἀλλὰ Λοξίᾳ,
ὥστ᾿ οὐ Κρέοντος προστάτου γεγράψομαι.
Λέγω δ᾿, ἐπειδὴ καὶ τυφλόν μ᾿ ὠνείδισας,
σὺ καὶ δεδορκὼς οὐ βλέπεις ἵν᾿ εἶ κακοῦ,
οὐδ᾿ ἔνθα ναίεις, οὐδ᾿ ὅτων οἰκεῖς μέτα.
Ἆρ᾿ οἶσθ᾿ ἀφ᾿ ὧν εἶ; Καὶ λέληθας ἐχθρὸς ὢν
τοῖς σοῖσιν αὐτοῦ νέρθε κἀπὶ γῆς ἄνω.
Καί σ᾿ ἀμφιπλὴξ μητρός τε καὶ τοῦ σοῦ πατρὸς
ἐλᾷ ποτ᾿ ἐκ γῆς τῆσδε δεινόπους ἀρά,
βλέποντα νῦν μὲν ὄρθ᾿, ἔπειτα δὲ σκότον.
Βοῆς δὲ τῆς σῆς ποῖος οὐκ ἔσται λιμήν,
ποῖος Κιθαιρὼν οὐχὶ σύμφωνος τάχα,
ὅταν καταίσθῃ τὸν ὑμέναιον ὃν δόμοις
ἄνορμον εἰσέπλευσας εὐπλοίας τυχών;
Ἄλλων δὲ πλῆθος οὐκ ἐπαισθάνῃ κακῶν
ἅ σ᾿ ἐξισώσει σοί τε καὶ τοῖς σοῖς τέκνοις.
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Primo episodio, vv. 396-425
Edipo re
l’hanno capito tutti. Io, invece, appena il tempo d’arrivare,
io, Edipo, che non sapevo nulla55, subito l’ho azzittita,
forte soltanto della mia ragione, senza sapere niente dagli uccelli.
Ecco chi tenti di gettare a terra, sperando di sederti
alla destra del trono di Creonte.
Penso che pagherete con le lacrime, tu e chi ha ideato tutto,
questa caccia al colpevole. E se non ti vedessi così vecchio,
capiresti a tue spese se sei saggio!
Coro
Ad ascoltarvi entrambi, sia le sue
parole che le tue, sembrano, Edipo, dettate dalla collera.
Ma ora non serve questo: serve pensare al modo più efficace
per sciogliere gli oracoli del dio.
Tiresia
Tu sei il re, ma il diritto alla risposta
deve essere lo stesso, per entrambi. Questo almeno mi spetta.
Perché io non vivo certo al tuo servizio, ma al servizio di Apollo:
perciò non ho bisogno che il mio nome
sia iscritto fra i protetti di Creonte56. E visto che mi offendi,
che ora mi dai del cieco, ti dico che tu vedi, ma non vedi
quanto sei disgraziato. Non vedi dove vivi e con chi vivi.
Lo sai, di chi sei figlio? No, nemmeno ti accorgi quanto sei
nemico, tu, ai tuoi cari: ai morti come ai vivi.
Lama a due tagli la maledizione – di tua madre e di tuo
padre – un giorno verrà, a passi tremendi, per cacciarti di qui.
Ora vedi benissimo. Ma allora vedrai il buio.
E tutto sarà porto alle tue grida.
E tutti i Citeroni della terra
grideranno con te57, quando saprai
le nozze che hai contratto in queste case, approdo sfortunato
dopo tante
rotte così felici. E non riesci a vedere tutto il male
che farà te uguale a te stesso e ai tuoi
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Sofocle
Πρὸς ταῦτα καὶ Κρέοντα καὶ τοὐμὸν στόμα
προπηλάκιζε· σοῦ γὰρ οὐκ ἔστιν βροτῶν
κάκιον ὅστις ἐκτριβήσεταί ποτε.
ΟΙ. Ἦ ταῦτα δῆτ᾿ ἀνεκτὰ πρὸς τούτου κλύειν;
Οὐκ εἰς ὄλεθρον; Οὐχὶ θᾶσσον; Οὐ πάλιν
ἄψορρος οἴκων τῶνδ᾿ ἀποστραφεὶς ἄπει;
ΤΕ.
430
Οὐδ᾿ ἱκόμην ἔγωγ᾿ ἄν, εἰ σὺ μὴ ᾿κάλεις.
ΟΙ. Οὐ γάρ τί σ᾿ ᾔδη μῶρα φωνήσοντ᾿, ἐπεὶ
σχολῇ γ᾿ ἂν οἴκους τοὺς ἐμοὺς ἐστειλάμην.
ΤΕ. Ἡμεῖς τοιοίδ᾿ ἔφυμεν, ὡς μὲν σοὶ δοκεῖ
μῶροι, γονεῦσι δ᾿, οἵ σ᾿ ἔφυσαν, ἔμφρονες.
ΟΙ.
Ποίοισι; Mεῖνον· τίς δέ μ᾿ ἐκφύει βροτῶν;
ΤΕ.
Ἥδ᾿ ἡμέρα φύσει σε καὶ διαφθερεῖ.
ΟΙ.
Ὡς πάντ᾿ ἄγαν αἰνικτὰ κἀσαφῆ λέγεις.
ΤΕ.
Οὔκουν σὺ ταῦτ᾿ ἄριστος εὑρίσκειν ἔφυς;
ΟΙ.
Τοιαῦτ᾿ ὀνείδιζ᾿ οἷς ἔμ᾿ εὑρήσεις μέγαν.
ΤΕ.
Αὕτη γε μέντοι σ᾿ ἡ τύχη διώλεσεν.
ΟΙ.
Ἀλλ᾿ εἰ πόλιν τήνδ᾿ ἐξέσωσ’, οὔ μοι μέλει.
ΤΕ.
Ἄπειμι τοίνυν· καὶ σύ, παῖ, κόμιζέ με.
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Primo episodio, vv. 426-444
Edipo re
figli. È così. Ma tu infanga Creonte, infanga la mia bocca,
fa’ pure: non c’è uomo a questo mondo
che come te sarà ridotto a nulla.
Edipo
Ma si può sopportare di ascoltarle, da lui, certe parole?
Ma vattene a morire, cosa aspetti? Cosa aspetti a voltarti
e ad andartene via da questa casa?
Tiresia
Non volevo venire: sei tu che mi hai chiamato.
Edipo
Ma non sapevo che volessi dirmi
tante schiocchezze. O avrei esitato a lungo, prima di convocarti
qui da me.
Tiresia
Sono fatto così: pazzo, ai tuoi occhi,
ma saggio agli occhi dei tuoi genitori. Di chi ti ha fatto nascere.
Edipo
Aspetta: e chi sarebbero? Chi è che mi ha fatto nascere?58
Tiresia
È questo giorno che ti farà nascere; e ti farà morire59.
Edipo
Ami troppo gli enigmi. E dici sempre cose troppo oscure.
Tiresia
Ma non era la tua specialità, risolvere gli enigmi?
Edipo
Ridine pure. Ma vedrai presto quanto sono grande.
Tiresia
Proprio questa è la sorte che ti ha perso.
Edipo
Ma ho salvato il paese. Il resto non mi importa.
Tiresia
Va bene. Io me ne vado. (Al servo) Ragazzo, tu accompagnami60.
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Sofocle
ΟΙ. Κομιζέτω δῆθ᾿· ὡς παρὼν σύ γ᾿ ἐμποδὼν
ὀχλεῖς, συθείς τ᾿ ἂν οὐκ ἂν ἀλγύναις πλέον.
ΤΕ. Εἰπὼν ἄπειμ᾿ ὧν οὕνεκ᾿ ἦλθον, οὐ τὸ σὸν
δείσας πρόσωπον· οὐ γὰρ ἔσθ᾿ ὅπου μ᾿ ὀλεῖς.
Λέγω δέ σοι· τὸν ἄνδρα τοῦτον, ὃν πάλαι
ζητεῖς ἀπειλῶν κἀνακηρύσσων φόνον
τὸν Λαΐειον, οὗτός ἐστιν ἐνθάδε,
ξένος λόγῳ μέτοικος, εἶτα δ᾿ ἐγγενὴς
φανήσεται Θηβαῖος, οὐδ᾿ ἡσθήσεται
τῇ ξυμφορᾷ· τυφλὸς γὰρ ἐκ δεδορκότος,
καὶ πτωχὸς ἀντὶ πλουσίου, ξένην ἔπι
σκήπτρῳ προδεικνὺς γαῖαν ἐμπορεύσεται.
Φανήσεται δὲ παισὶ τοῖς αὑτοῦ ξυνὼν
ἀδελφὸς αὑτὸς καὶ πατήρ, κἀξ ἧς ἔφυ
γυναικὸς υἱὸς καὶ πόσις, καὶ τοῦ πατρὸς
ὁμόσπορός τε καὶ φονεύς. Καὶ ταῦτ᾿ ἰὼν
εἴσω λογίζου· κἂν λάβῃς μ᾿ ἐψευσμένον,
φάσκειν ἔμ᾿ ἤδη μαντικῇ μηδὲν φρονεῖν.
ΧΟ. Τίς ὅντιν᾿ ἁ θεσπιέπεια Δελφὶς ᾖδε πέτρα
ἄρρητ᾿ ἀρρήτων τελέσαντα φοινίαισι χερσίν;
Ὥρα νιν ἀελλάδων
ἵππων σθεναρώτερον
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Edipo re
Primo episodio, vv. 445-468
Edipo
Accompagnalo, sì: se mi resti fra i piedi mi dai noia.
Vattene e non potrai più infastidirmi.
Tiresia
Me ne andrò via dopo aver detto tutto
ciò per cui sono qui: non mi spaventi, non puoi farmi alcun male.
E ti dico: quell’uomo che tu cerchi, da tanto e tanto tempo,
l’uomo per cui minacci e lanci editti
contro chi ha ucciso Laio, quell’uomo è proprio qui.
Straniero, all’apparenza: ma fra poco
si scoprirà che egli è un tebano autentico. Ma non sarà per lui
una bella scoperta. Vede, ma sarà cieco,
e povero, da ricco come è ora, e andrà per altre terre
tastando la sua strada col bastone.
Si scoprirà che vive con i figli
fratello, a un tempo, e padre: e che è marito
e figlio, a un tempo, della stessa donna. E con suo padre ha
mescolato il seme
e di suo padre è l’assassino. Pensaci,
pensaci su, mentre rientri in casa. E se scopri che ho torto,
di’ che io non so fare l’indovino.
PRIMO STASIMO
Coro
Chi cantava la pietra
profetica di Delfi?61 Chi ha compiuto
con mani d’assassino
cose che è vergognoso nominare
fra tutte le vergogne?
È tempo che si levi e fugga via
più forte dei puledri
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Sofocle
φυγᾷ πόδα νωμᾶν·
ἔνοπλος γὰρ ἐπ᾿ αὐτὸν ἐπενθρῴσκει
πυρὶ καὶ στεροπαῖς ὁ Διὸς γενέτας,
δειναὶ δ᾿ ἅμ᾿ ἕπονται
Κῆρες ἀναπλάκητοι.
Ἔλαμψε γὰρ τοῦ νιφόεντος ἀρτίως φανεῖσα
φήμα Παρνασοῦ τὸν ἄδηλον ἄνδρα πάντ᾿ ἰχνεύειν.
Φοιτᾷ γὰρ ὑπ᾿ ἀγρίαν
ὕλαν ἀνά τ᾿ ἄντρα καὶ
πετραῖος ὁ ταῦρος,
μέλεος μελέῳ ποδὶ χηρεύων,
τὰ μεσόμφαλα γᾶς ἀπονοσφίζων
μαντεῖα· τὰ δ᾿ αἰεὶ
ζῶντα περιποτᾶται.
Δεινὰ μὲν οὖν, δεινὰ ταράσσει σοφὸς οἰωνοθέτας
οὔτε δοκοῦντ᾿ οὔτ᾿ ἀποφάσκονθ᾿, ὅ τι λέξω δ᾿ ἀπορῶ·
πέτομαι δ᾿ ἐλπίσιν, οὔτ᾿ ἐνθάδ᾿ ὁρῶν οὔτ᾿ ὀπίσω.
Τί γὰρ ἢ Λαβδακίδαις
ἢ τῷ Πολύβου νεῖκος ἔκειτ᾿ οὔτε πάροιθέν ποτ᾿ ἔγωγ᾿ οὔτε τανῦν πω
ἔμαθον, πρὸς ὅτου δὴ
>
βασάνῳ <
ἐπὶ τὰν ἐπίδαμον
φάτιν εἶμ᾿ Οἰδιπόδα, Λαβδακίδαις
ἐπίκουρος ἀδήλων θανάτων.
¯˘˘¯
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Primo stasimo, vv. 468-498
Edipo re
nel vento della corsa:
si arma di fuoco e folgori, lo assale
il dio nato da Zeus,
e insieme a lui, tremende,
le Chere che non sbagliano62.
Ora ha brillato, è apparsa, dalle nevi
del Parnaso la voce:
cercate in ogni luogo
l’uomo che si nasconde.
Si perde per selvagge
foreste, fra le grotte,
bestia di rupe, il toro, disperato
in corsa disperata: è solo, cerca
scampo dai vaticini che pronuncia
il cuore della Terra. Ma perenni
vivono, e fanno sciame intorno a lui63.
Paure orrende, orrende, agita in me
quel saggio che sa i voli degli uccelli,
e io non posso credergli, io non posso
smentirlo: cosa dire, io non lo so.
E mi lascio portare dalle attese,
non ho sguardo al presente né al futuro.
Che lotta ha contrapposto
i Labdacidi e il figlio
di Polibo? Né adesso né in passato
l’ho saputo: e davvero io non ho prova
<…> per oppormi
alla gloria di Edipo
fra il popolo,
non posso stare al fianco dei Labdacidi
per vendicare morti ancora oscure.
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Sofocle
Ἀλλ᾿ ὁ μὲν οὖν Ζεὺς ὅ τ᾿ Ἀπόλλων ξυνετοὶ καὶ τὰ βροτῶν
εἰδότες· ἀνδρῶν δ᾿ ὅτι μάντις πλέον ἢ ᾿γὼ φέρεται,
κρίσις οὐκ ἔστιν ἀληθής· σοφίᾳ δ᾿ ἂν σοφίαν
παραμείψειεν ἀνήρ,
ἄλλ᾿ οὔποτ᾿ ἔγωγ᾿ ἄν,
πρὶν ἴδοιμ᾿ ὀρθὸν ἔπος, μεμφομένων ἂν καταφαίην.
Φανερὰ γὰρ ἐπ᾿ αὐτῷ
πτερόεσσ᾿ ἦλθε κόρα
ποτέ, καὶ σοφὸς ὤφθη
βασάνῳ θ᾿ ἡδύπολις· τῶν ἀπ᾿ ἐμᾶς
φρενὸς οὔποτ᾿ ὀφλήσει κακίαν.
ΚΡ. Ἄνδρες πολῖται, δείν᾿ ἔπη πεπυσμένος
κατηγορεῖν μου τὸν τύραννον Οἰδίπουν
πάρειμ᾿ ἀτλητῶν. Εἰ γὰρ ἐν ταῖς ξυμφοραῖς
ταῖς νῦν νομίζει πρός γ᾿ ἐμοῦ πεπονθέναι
λόγοισιν εἴτ᾿ ἔργοισιν εἰς βλάβην φέρον,
οὔτοι βίου μοι τοῦ μακραίωνος πόθος,
φέροντι τήνδε βάξιν. Οὐ γὰρ εἰς ἁπλοῦν
ἡ ζημία μοι τοῦ λόγου τούτου φέρει,
ἀλλ᾿ ἐς μέγιστον, εἰ κακὸς μὲν ἐν πόλει,
κακὸς δὲ πρὸς σοῦ καὶ φίλων κεκλήσομαι.
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Primo stasimo, vv. 499-512; Secondo episodio, vv. 513-522
Edipo re
Ma è Zeus che intende tutto, è Apollo: loro
conoscono le vite dei mortali.
Ma fra noi uomini, che un indovino
la vinca su di me, non è giudizio
sicuro. Si può vincere in sapienza
la sapienza d’un altro, ma se prima
io non vedrò parole vere, mai
potrò dare il mio assenso
se qualcuno lo accusa.
Tutti hanno visto, allora: lo assaliva
quella vergine alata64
e a tutti lui mostrò la sua sapienza
– ne diede prova certa – e il suo favore
per la città. E così, da parte mia,
lui non sentirà mai nessuna accusa.
SECONDO EPISODIO
Creonte
Cittadini, ho saputo: Edipo, il re,
va dicendo di me cose terribili.
Per questo sono qui: mi è insopportabile. Se crede che in momenti
come questi, se crede di soffrire
da me, in parole o in opere, qualcosa
che possa danneggiarlo, ebbene, io non ho voglia di protrarre
più a lungo la mia vita: non posso tollerare questa infamia.
No, non è poco il male che mi viene
da quest’accusa: è un male incalcolabile, se ora agli occhi di
tutta la città
passerò per vigliacco; io, un vigliacco, per te e per chi mi è caro.
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Sofocle
ΧΟ. Ἀλλ᾿ ἦλθε μὲν δὴ τοῦτο τοὔνειδος, τάχ᾿ ἂν
δ᾿ ὀργῇ βιασθὲν μᾶλλον ἢ γνώμῃ φρενῶν.
ΚΡ. Τοὖπος δ᾿ ἐφάνθη ταῖς ἐμαῖς γνώμαις ὅτι
πεισθεὶς ὁ μάντις τοὺς λόγους ψευδεῖς λέγοι;
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ΧΟ. Ηὐδᾶτο μὲν τάδ᾿, οἶδα δ᾿ οὐ γνώμῃ τίνι.
ΚΡ. Ἐξ ὀμμάτων δ᾿ ὀρθῶν τε κἀξ ὀρθῆς φρενὸς
κατηγορεῖτο τοὐπίκλημα τοῦτό μου;
ΧΟ. Οὐκ οἶδ᾿· ἃ γὰρ δρῶσ᾿ οἱ κρατοῦντες οὐχ ὁρῶ.
Αὐτὸς δ᾿ ὅδ᾿ ἤδη δωμάτων ἔξω περᾷ.
ΟΙ. Οὗτος σύ, πῶς δεῦρ᾿ ἦλθες; ῏Ἦ τοσόνδ᾿ ἔχεις
τόλμης πρόσωπον ὥστε τὰς ἐμὰς στέγας
ἵκου, φονεὺς ὢν τοῦδε τἀνδρὸς ἐμφανῶς
λῃστής τ᾿ ἐναργὴς τῆς ἐμῆς τυραννίδος;
Φέρ᾿ εἰπὲ πρὸς θεῶν, δειλίαν ἢ μωρίαν
ἰδών τιν᾿ ἐν ἐμοὶ ταῦτ᾿ ἐβουλεύσω ποεῖν;
Ἢ τοὖργον ὡς οὐ γνωριοῖμί σου τόδε
δόλῳ προσέρπον κοὐκ ἀλεξοίμην μαθών;
Ἆρ᾿ οὐχὶ μῶρόν ἐστι τοὐγχείρημά σου,
ἄνευ τε πλήθους καὶ φίλων τυραννίδα
θηρᾶν, ὃ πλήθει χρήμασίν θ᾿ ἁλίσκεται;
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ΚΡ. Οἶσθ᾿ ὡς πόησον· ἀντὶ τῶν εἰρημένων
ἴσ᾿ ἀντάκουσον, κᾆτα κρῖν᾿ αὐτὸς μαθών.
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Secondo episodio, vv. 523-544
Edipo re
Coro
Ma sono offese uscite a caso, credo,
per rabbia, non per vera riflessione.
Creonte
Ma non si è detto chiaro che per mio
consiglio, perché io l’avrei convinto, l’indovino ha mentito?
Coro
Così si è detto, ma non so il motivo.
Creonte
Ma quando mi imputava questo crimine
aveva gli occhi e il senno di chi è in sé?
Coro
Non lo so. Ciò che fanno i miei signori, io non lo vedo.
Ma ecco, è proprio lui, che esce di casa. (Entra Edipo)
Edipo
Tu, sei qui? Come puoi? Ti porti in faccia
tanta impudenza da venire qui, venire a casa mia,
tu che tutto dichiara mio assassino,
e ladro del mio regno, senza dubbio?
Dimmi, per dio: che razza di codardo
o che razza di sciocco hai visto in me, per progettare un piano
come questo?
O credevi che non l’avrei capita,
questa manovra oscura, questo inganno? E credevi che non l’avrei
respinta,
una volta scoperta? Ma dimmi, non è sciocco il tuo progetto
d’assalire il mio regno senza il popolo,
senza qualche alleato? Serve il popolo, sai. Serve il denaro.
Creonte
Sai cosa devi fare? Tu hai parlato
e ora devi ascoltare una risposta. E poi, quando hai ascoltato,
da’ un giudizio.
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Sofocle
ΟΙ. Λέγειν σὺ δεινός, μανθάνειν δ᾿ ἐγὼ κακὸς
σοῦ· δυσμενῆ γὰρ καὶ βαρύν σ᾿ ηὕρηκ᾿ ἐμοί.
ΚΡ.
Τοῦτ᾿ αὐτό νυν μου πρῶτ᾿ ἄκουσον ὡς ἐρῶ.
ΟΙ.
Τοῦτ᾿ αὐτὸ μή μοι φράζ᾿, ὅπως οὐκ εἶ κακός.
ΚΡ. Εἴ τοι νομίζεις κτῆμα τὴν αὐθαδίαν
εἶναί τι τοῦ νοῦ χωρίς, οὐκ ὀρθῶς φρονεῖς.
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550
ΟΙ. Εἴ τοι νομίζεις ἄνδρα συγγενῆ κακῶς
δρῶν οὐχ ὑφέξειν τὴν δίκην, οὐκ εὖ φρονεῖς.
ΚΡ. Ξύμφημί σοι ταῦτ᾿ ἔνδικ᾿ εἰρῆσθαι· τὸ δὲ
πάθημ᾿ ὁποῖον φῂς παθεῖν δίδασκέ με.
ΟΙ. Ἔπειθες ἢ οὐκ ἔπειθες ὡς χρείη μ᾿ ἐπὶ
τὸν σεμνόμαντιν ἄνδρα πέμψασθαί τινα;
ΚΡ.
Καὶ νῦν ἔθ᾿ αὑτός εἰμι τῷ βουλεύματι.
ΟΙ.
Πόσον τιν᾿ ἤδη δῆθ᾿ ὁ Λάϊος χρόνον...
ΚΡ.
Δέδρακε ποῖον ἔργον; Οὐ γὰρ ἐννοῶ.
ΟΙ.
Ἄφαντος ἔρρει θανασίμῳ χειρώματι;
ΚΡ.
Μακροὶ παλαιοί τ᾿ ἂν μετρηθεῖεν χρόνοι.
ΟΙ.
Τότ᾿ οὖν ὁ μάντις οὗτος ἦν ἐν τῇ τέχνῃ;
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Secondo episodio, vv. 545-562
Edipo re
Edipo
Tu, a parlare, sei bravo. Ma stare qui a sentirti
non mi riesce: ora ti so nemico, non posso sopportarti.
Creonte
Ma proprio questo è il punto: prima, ascoltami.
Edipo
Ma proprio questo è il punto: non stare a dirmi che non sei un
infame.
Creonte
Se credi che convenga essere tanto
spavaldi senza prima ragionare, tu non valuti bene.
Edipo
Se credi che si possa fare tanto
male a chi è tuo parente e uscirne indenne, tu non giudichi bene.
Creonte
Lo ammetto: questo è giusto. Ma tu spiegami:
quale sarebbe il danno che hai sofferto?
Edipo
Sei tu che mi hai convinto, o non sei tu, che bisognava subito
chiamare quel sant’uomo, quel profeta?
Creonte
E sono ancora dello stesso avviso.
Edipo
È stato quanto tempo fa che Laio…
Creonte
Che Laio ha fatto cosa? Non capisco.
Edipo
Che Laio se ne è andato, che è scomparso. Che qualcuno l’ha
ucciso.
Creonte
Lunghi anni, e lontani, a misurarli.
Edipo
E dimmi, al tempo, questo tuo indovino, esercitava già?
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Sofocle
ΚΡ.
Σοφός γ᾿ ὁμοίως κἀξ ἴσου τιμώμενος.
ΟΙ.
Ἐμνήσατ᾿ οὖν ἐμοῦ τι τῷ τότ᾿ ἐν χρόνῳ;
ΚΡ.
Οὔκουν ἐμοῦ γ᾿ ἑστῶτος οὐδαμοῦ πέλας.
ΟΙ.
Ἀλλ᾿ οὐκ ἔρευναν τοῦ θανόντος ἔσχετε;
ΚΡ.
Παρέσχομεν, πῶς δ᾿ οὐχί; Κοὐκ ἠκούσαμεν.
ΟΙ.
Πῶς οὖν τόθ᾿ οὗτος ὁ σοφὸς οὐκ ηὔδα τάδε;
ΚΡ.
Οὐκ οἶδ᾿· ἐφ᾿ οἷς γὰρ μὴ φρονῶ σιγᾶν φιλῶ.
ΟΙ.
Τόσον δέ γ᾿ οἶσθα καὶ λέγοις ἂν εὖ φρονῶν...
ΚΡ.
Ποῖον τόδ᾿; Εἰ γὰρ οἶδά γ᾿, οὐκ ἀρνήσομαι.
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ΟΙ. Ὁθούνεκ᾿, εἰ μὴ σοὶ ξυνῆλθε, τὰς ἐμὰς
οὐκ ἄν ποτ᾿ εἶπε Λαΐου διαφθοράς.
ΚΡ. Εἰ μὲν λέγει τάδ᾿, αὐτὸς οἶσθ᾿· ἐγὼ δὲ σοῦ
μαθεῖν δικαιῶ ταὔθ᾿ ἅπερ κἀμοῦ σὺ νῦν.
ΟΙ.
Ἐκμάνθαν᾿· οὐ γὰρ δὴ φονεύς γ᾿ ἁλώσομαι.
ΚΡ.
Τί δῆτ᾿; Ἀδελφὴν τὴν ἐμὴν γήμας ἔχεις;
ΟΙ.
Ἄρνησις οὐκ ἔνεστιν ὧν ἀνιστορεῖς.
ΚΡ.
Ἄρχεις δ᾿ ἐκείνῃ ταὐτὰ γῆς ἴσον νέμων;
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Secondo episodio, vv. 563-579
Edipo re
Creonte
Ma certo: era sapiente come adesso; come adesso, stimato.
Edipo
E a quel tempo, di me, ha mai detto nulla?
Creonte
No, mai, che io sappia, almeno in mia presenza.
Edipo
Non avete indagato sul delitto?
Creonte
Senz’altro, come no? Ma non abbiamo mai sentito nulla.
Edipo
E perché mai non ve le ha dette allora, queste cose, il sapiente?
Creonte
Non so. Se non capisco fino in fondo, preferisco tacere.
Edipo
Ma una cosa la sai, credo, e puoi dirmela, capendo fino in fondo…
Creonte
Che cosa? Se io so, non intendo negare.
Edipo
Che senza un qualche accordo fra voi due, non l’avrebbe mai detto
che la fine di Laio è causa mia65.
Creonte
Se dice questo, tu lo sai. Ma credo
sia giusto che io ti interroghi a mia volta, come fai tu con me.
Edipo
Interrogami pure. Non si dimostrerà che io l’ho ammazzato.
Creonte
Dimmi, allora: hai per moglie mia sorella?
Edipo
Se chiedi questo, dire no è impossibile.
Creonte
Sei re di questa terra insieme a lei? È pari a te, nel regno?
51
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Sofocle
ΟΙ.
Ἃν ᾖ θέλουσα πάντ᾿ ἐμοῦ κομίζεται.
ΚΡ.
Οὔκουν ἰσοῦμαι σφῷν ἐγὼ δυοῖν τρίτος;
ΟΙ.
Ἐνταῦθα γὰρ δὴ καὶ κακὸς φαίνῃ φίλος.
ΚΡ. Οὔκ, εἰ διδοίης γ᾿ ὡς ἐγὼ σαυτῷ λόγον.
Σκέψαι δὲ τοῦτο πρῶτον, εἴ τιν᾿ ἂν δοκεῖς
ἄρχειν ἑλέσθαι ξὺν φόβοισι μᾶλλον ἢ
ἄτρεστον εὕδοντ᾿, εἰ τά γ᾿ αὔθ᾿ ἕξει κράτη.
Ἐγὼ μὲν οὖν οὔτ᾿ αὐτὸς ἱμείρων ἔφυν
τύραννος εἶναι μᾶλλον ἢ τύραννα δρᾶν,
οὔτ᾿ ἄλλος ὅστις σωφρονεῖν ἐπίσταται.
Νῦν μὲν γὰρ ἐκ σοῦ πάντ᾿ ἄνευ φόβου φέρω,
εἰ δ᾿ αὐτὸς ἦρχον, πολλὰ κἂν ἄκων ἔδρων.
Πῶς δῆτ᾿ ἐμοὶ τυραννὶς ἡδίων ἔχειν
ἀρχῆς ἀλύπου καὶ δυναστείας ἔφυ;
Οὔπω τοσοῦτον ἠπατημένος κυρῶ
ὥστ᾿ ἄλλα χρῄζειν ἢ τὰ σὺν κέρδει καλά.
Νῦν πᾶσι χαίρω, νῦν με πᾶς ἀσπάζεται,
νῦν οἱ σέθεν χρῄζοντες ἐκκαλοῦσ᾿ ἐμέ·
τὸ γὰρ τυχεῖν αὐτοῖσι πᾶν ἐνταῦθ᾿ ἔνι.
Πῶς δῆτ᾿ ἐγὼ κεῖν᾿ ἂν λάβοιμ’, ἀφεὶς τάδε;
[Οὐκ ἂν γένοιτο νοῦς κακὸς καλῶς φρονῶν.]
Ἀλλ᾿ οὔτ᾿ ἐραστὴς τῆσδε τῆς γνώμης ἔφυν,
οὔτ᾿ ἂν μετ᾿ ἄλλου δρῶντος ἂν τλαίην ποτέ.
Καὶ τῶνδ᾿ ἔλεγχον, τοῦτο μὲν Πυθώδ᾿ ἰών,
πεύθου τὰ χρησθέντ᾿ εἰ σαφῶς ἤγγειλά σοι․
Tοῦτ᾿ ἄλλ᾿, ἐάν με τῷ τερασκόπῳ λάβῃς
κοινῇ τι βουλεύσαντα, μή μ᾿ ἁπλῇ κτάνῃς
ψήφῳ, διπλῇ δὲ, τῇ τ᾿ ἐμῇ καὶ σῇ, λαβών·
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Secondo episodio, vv. 580-607
Edipo re
Edipo
Tutto ciò che lei vuole, io lo concedo.
Creonte
Dimmi: non sono forse pari a voi, terzo accanto a voi due?66
Edipo
Sì, certamente. Ecco perché tu sei un amico infame.
Creonte
No, se ora segui il mio ragionamento.
Per prima cosa, pensa a questo: è meglio,
per un uomo, comandare vivendo nel terrore
o dormire tranquilli, e comandare nello stesso modo?
Personalmente, non ho alcuna smania
d’essere re: ma è vivere da re che io preferisco.
Così ragiona chiunque abbia buon senso.
Ora ho tutto da te, senza paure: ma se il re fossi io,
dovrei farne di cose che non voglio!
E come potrebbe essermi più caro, il titolo di re,
di questa autorità senza dolore,
di questa signoria? Non sono tanto
cieco da volere altro se non questo:
un onore che torna a mio vantaggio. Ora il mio bene è caro a
tutti, tutti
mi accolgono da amici: hanno bisogno
di te e chiamano me, perché da me dipende ciò che vogliono.
Come potrei lasciare tutto questo, e ambire a quella vita?
[Chi ha buon senso non può volere il male]67.
Ma no, non covo in me alcuna passione
per idee come queste; né vorrei realizzarle con l’aiuto
di qualche complice. Ma vuoi una prova? Va’ a Delfi, va’, domanda
se io ti ho riferito fedelmente
gli oracoli del dio. E poi, se tu mi cogli a congiurare
d’accordo con l’interprete dei segni, non mi mandare a morte
con un semplice voto, ma con due: al tuo somma anche il mio.
53
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Sofocle
γνώμῃ δ᾿ ἀδήλῳ μή με χωρὶς αἰτιῶ.
Οὐ γὰρ δίκαιον οὔτε τοὺς κακοὺς μάτην
χρηστοὺς νομίζειν οὔτε τοὺς χρηστοὺς κακούς.
Φίλον γὰρ ἐσθλὸν ἐκβαλεῖν ἴσον λέγω
καὶ τὸν παρ᾿ αὑτῷ βίοτον, ὃν πλεῖστον φιλεῖ.
Ἀλλ᾿ ἐν χρόνῳ γνώσῃ τάδ᾿ ἀσφαλῶς, ἐπεὶ
χρόνος δίκαιον ἄνδρα δείκνυσιν μόνος,
κακὸν δὲ κἂν ἐν ἡμέρᾳ γνοίης μιᾷ.
610
615
ΧΟ. Καλῶς ἔλεξεν, εὐλαβουμένῳ πεσεῖν,
ἄναξ· φρονεῖν γὰρ οἱ ταχεῖς οὐκ ἀσφαλεῖς.
ΟΙ. Ὅταν ταχύς τις οὑπιβουλεύων λάθρᾳ
χωρῇ, ταχὺν δεῖ κἀμὲ βουλεύειν πάλιν.
Εἰ δ᾿ ἡσυχάζων προσμενῶ, τὰ τοῦδε μὲν
πεπραγμέν᾿ ἔσται, τἀμὰ δ᾿ ἡμαρτημένα.
ΚΡ.
Τί δῆτα χρῄζεις; Ἦ με γῆς ἔξω βαλεῖν;
ΟΙ.
Ἥκιστα· θνῄσκειν, οὐ φυγεῖν σε βούλομαι.
KP.
<…>
620
<ΟΙ.> Ὅταν προδείξῃς οἷόν ἐστι τὸ φθονεῖν.
<KP.> Ὡς οὐχ ὑπείξων οὐδὲ πιστεύσων λέγεις.
OI.
<…>
ΚΡ.
Οὐ γὰρ φρονοῦντά σ᾿ εὖ βλέπω.
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Secondo episodio, vv. 608-626
Edipo re
Ma per un’opinione indimostrata, tu non mi condannare:
perché è sbagliato valutare a vanvera
nobile chi è un infame, e chi è un infame
crederlo nobile. Ti dico questo: disfarsi di un amico
autentico è disfarsi della vita,
della vita che abbiamo e che ci è cara68. Ma con il tempo ti
convincerai:
solo il tempo rivela l’uomo giusto;
chi è ingiusto, basta un giorno a riconoscerlo69.
Coro
Per chi non vuole incorrere in errori, è giusto ciò che ha detto,
mio signore.
Chi è svelto a giudicare può sbagliarsi.
Edipo
Ma se è svelto chi trama, chi avanza di nascosto,
occorre che io sia svelto, e che risponda
subito. Se sto fermo ad aspettare, presto tutti i suoi piani
saranno ormai compiuti; e i miei falliti.
Creonte
Dunque, che cosa vuoi? Mi vuoi cacciare via?
Edipo
Nient’affatto. La morte, non l’esilio, voglio per te.
Creonte
<…>70
<Edipo>
Quando dimostrerai cos’è l’invidia.
<Creonte>
Tu parli e non vuoi cedere, né credermi.
Edipo
<…>
Creonte
È perché vedo che non sei più in te.
55
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Sofocle
ΟΙ.
ΚΡ.
Τὸ γοῦν ἐμόν.
Ἀλλ᾿ ἐξ ἴσου δεῖ κἀμόν.
ΟΙ.
ΚΡ.
Ἀλλ᾿ ἔφυς κακός.
Εἰ δὲ ξυνίης μηδέν;
ΟΙ.
ΚΡ.
Ἀρκτέον γ᾿ ὅμως.
Οὔτοι κακῶς γ᾿ ἄρχοντος.
ΟΙ.
ΚΡ.
Ὦ πόλις, πόλις.
Κἀμοὶ πόλεως μέτεστιν, οὐχὶ σοὶ μόνῳ.
630
ΧΟ. Παύσασθ᾿ ἄνακτες· καιρίαν δ᾿ ὑμῖν ὁρῶ
τήνδ᾿ ἐκ δόμων στείχουσαν Ἰοκάστην, μεθ᾿ ἧς
τὸ νῦν παρεστὸς νεῖκος εὖ θέσθαι χρεών.
ΙΟΚΑΣΤΗ
Τί τήνδ’ ἄβουλον, ὦ ταλαίπωροι, στάσιν
γλώσσης ἐπήρασθ᾿, οὐδ᾿ ἐπαισχύνεσθε γῆς
οὕτω νοσούσης ἴδια κινοῦντες κακά;
Οὐκ εἶ σύ τ᾿ οἴκους σύ τε, Κρέον, κατὰ στέγας,
καὶ μὴ τὸ μηδὲν ἄλγος εἰς μέγ᾿ οἴσετε;
ΚΡ. Ὅμαιμε, δεινά μ᾿ Οἰδίπους, ὁ σὸς πόσις,
δρᾶσαι δικαιοῖ, δυοῖν ἀποκρίνας κακοῖν,
ἢ γῆς ἀπῶσαι πατρίδος, ἢ κτεῖναι λαβών.
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Secondo episodio, vv. 626-641
Edipo re
Edipo
Per quanto mi riguarda, sono in me.
Creonte
Ma anche di me dovresti interessarti.
Edipo
Ma tu non vali nulla.
Creonte
E se tu ti sbagliassi?
Edipo
Si obbedisce lo stesso71.
Creonte
No, se il comando è ingiusto.
Edipo
Città, città…
Creonte
Città che è anche la mia, non tua soltanto72.
Coro
Smettetela, signori. Ecco, al momento giusto,
vedo Giocasta che esce dalle case. Rivolgetevi a lei:
bisogna che la lite si risolva. (Entra Giocasta)
Giocasta
Ma perché, disgraziati, fomentare
questa insensata guerra, questi insulti? Non avete pudore del
paese,
che soffre così tanto?73 E voi qui a rimestare i vostri guai.
Edipo, non rientri? E tu, Creonte, non ritorni a casa?
Volete veramente ingigantirla, questa pena da nulla?
Creonte
Sorella, è spaventosa la minaccia
di Edipo, del tuo sposo. Lui decide di me e sceglie fra due
pene: cacciarmi via dal mio paese, o prendermi e ammazzarmi.
57
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Sofocle
ΟΙ. Ξύμφημι· δρῶντα γάρ νιν, ὦ γύναι, κακῶς
εἴληφα τοὐμὸν σῶμα σὺν τέχνῃ κακῇ.
ΚΡ. Μὴ νῦν ὀναίμην, ἀλλ᾿ ἀραῖος, εἴ σέ τι
δέδρακ᾿, ὀλοίμην, ὧν ἐπαιτιᾷ με δρᾶν.
645
ΙΟ. Ὦ πρὸς θεῶν πίστευσον, Οἰδίπους, τάδε,
μάλιστα μὲν τόνδ᾿ ὅρκον αἰδεσθεὶς θεῶν,
ἔπειτα κἀμὲ τούσδε θ᾿ οἳ πάρεισί σοι.
ΧΟ. Πιθοῦ θελήσας φρονήσας τ᾿, ἄναξ, λίσσομαι.
ΟΙ.
650
Τί σοι θέλεις δῆτ᾿ εἰκάθω;
ΧΟ. Τὸν οὔτε πρὶν νήπιον
νῦν τ᾿ ἐν ὅρκῳ μέγαν καταίδεσαι.
ΟΙ.
Οἶσθ᾿ οὖν ἃ χρῄζεις;
ΧΟ.
ΟΙ.
Οἶδα.
Φράζε δὴ τί φῄς.
655
ΧΟ. Τὸν ἐναγῆ φίλον μήποτ᾿ ἐν αἰτίᾳ
σὺν ἀφανεῖ λόγῳ σ᾿ ἄτιμον βαλεῖν.
ΟΙ. Εὖ νυν ἐπίστω, ταῦθ᾿ ὅταν ζητῇς, ἐμοὶ
ζητῶν ὄλεθρον ἢ φυγὴν ἐκ τῆσδε γῆς.
ΧΟ. Οὐ τὸν πάντων θεῶν θεὸν πρόμον
Ἅλιον· ἐπεὶ ἄθεος ἄφιλος ὅ τι πύματον
ὀλοίμαν, φρόνησιν εἰ τάνδ᾿ ἔχω.
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Secondo episodio, vv. 642-664
Edipo re
Edipo
Donna, è così: l’ho colto che attentava
contro la mia persona, con l’inganno74.
Creonte
Che io non abbia più pace, che io muoia maledetto,
se ti ho mai fatto ciò di cui mi accusi.
Giocasta
In nome degli dèi, Edipo, credigli:
rispetta il suo divino giuramento, prima di ogni altra cosa,
e me, e tutti costoro che ti guardano.
Coro
Mio re, acconsenti, e pensaci, ti prego.
Edipo
Cosa vuoi che io conceda?
Coro
Non è mai stato sciocco: e adesso è grande
per questo giuramento; tu rispettalo.
Edipo
Lo sai cosa mi chiedi?
Coro
Lo so.
Edipo
Dimmelo, allora.
Coro
Questo tuo amico, che ora è consacrato, non lo disonorare,
non accusarlo senza prove chiare.
Edipo
Se chiedi questo, sappilo, tu chiedi
la mia morte o il mio esilio dal paese.
Coro
No, per il dio che è primo fra gli dèi,
per il Sole; che io muoia senza dèi, senza amici, la morte
peggiore, se ora è questo il mio pensiero.
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Sofocle
Ἀλλά μοι δυσμόρῳ γᾶ φθίνουσα τρύχει †ψυχὰν καὶ† τὰ δ᾿ εἰ κακοῖς κακὰ
προσάψει τοῖς πάλαι τὰ πρὸς σφῷν.
ΟΙ. Ὁ δ᾿ οὖν ἴτω, κεἰ χρή με παντελῶς θανεῖν
ἢ γῆς ἄτιμον τῆσδ᾿ ἀπωσθῆναι βίᾳ.
Τὸ γὰρ σόν, οὐ τὸ τοῦδ᾿, ἐποικτίρω στόμα
ἐλεινόν· οὗτος δ᾿ ἔνθ᾿ ἂν ᾖ στυγήσεται.
ΚΡ. Στυγνὸς μὲν εἴκων δῆλος εἶ, βαρὺς δ᾿ ὅταν
θυμοῦ περάσῃς· αἱ δὲ τοιαῦται φύσεις
αὑταῖς δικαίως εἰσὶν ἄλγισται φέρειν.
ΟΙ.
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675
Οὔκουν μ᾿ ἐάσεις κἀκτὸς εἶ;
ΚΡ.
Πορεύσομαι,
σοῦ μὲν τυχὼν ἀγνῶτος, ἐν δὲ τοῖσδ᾿ ἴσος.
ΧΟ. Γύναι, τί μέλλεις κομίζειν δόμων τόνδ᾿ ἔσω;
ΙΟ.
Μαθοῦσά γ᾿ ἥτις ἡ τύχη.
ΧΟ.
Δόκησις ἀγνὼς λόγων
ἦλθε, δάπτει δὲ καὶ τὸ μὴ ᾿νδικον.
ΙΟ.
Ἀμφοῖν ἀπ᾿ αὐτοῖν;
ΧΟ.
ΙΟ.
680
Ναίχι.
Καὶ τίς ἦν λόγος;
ΧΟ. Ἅλις ἔμοιγ᾿ ἅλις, γᾶς προπονουμένας,
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Secondo episodio, vv. 665-685
Edipo re
Ma soffro, e l’agonia di questa terra
strazia il mio cuore75: e, insieme, questi mali
che ora voi suscitate, e che si aggiungono agli antichi mali.
Edipo
Bene, allora: può andare. E se io devo morire, sterminato,
o trovarmi cacciato dal paese, privo d’ogni diritto,
non importa. A commuovermi è la tua
bocca pietosa, non la sua, di certo. Perché lui avrà il mio odio,
ovunque sia.
Creonte
E pieno d’odio tu ti pieghi, vedo; tu sei altrettanto odioso
quando varchi i confini della rabbia76. Chi è fatto a questo modo
dà a se stesso i dolori più penosi. Come è giusto che accada.
Edipo
Te ne vuoi andare o no, e lasciarmi in pace?
Creonte
Vado. Di me non hai capito nulla. Ma per loro io non sono mai
cambiato77. (Creonte esce)
Coro
Donna, perché non lo accompagni dentro?
Giocasta
Prima voglio sapere l’accaduto.
Coro
Un confuso sospetto, frasi a caso…
Ma anche ciò che è insensato fa soffrire.
Giocasta
Ma sono stati entrambi?
Coro
Entrambi, sì.
Giocasta
E cosa si dicevano?
Coro
Basta, ti prego, basta: è già stremata,
61
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Sofocle
φαίνεται, ἔνθ᾿ ἔληξεν, αὐτοῦ μένειν.
ΟΙ. Ὁρᾷς ἵν᾿ ἥκεις, ἀγαθὸς ὢν γνώμην ἀνήρ,
τοὐμὸν παριεὶς καὶ καταμβλύνων κέαρ;
ΧΟ. Ὦναξ, εἶπον μὲν οὐχ ἅπαξ μόνον,
ἴσθι δὲ παραφρόνιμον ἄπορον ἐπὶ φρόνιμα
πεφάνθαι μ᾿ ἄν, εἴ σε νοσφίζομαι,
ὅς γ᾿ ἐμὰν γᾶν φίλαν ἐν πόνοις
ἀλύουσαν κατ᾿ ὀρθὸν οὔρισας ̣
Tανῦν δ᾿ εὔπομπος †εἰ δύναιο γενοῦ†.
690
695
ΙΟ. Πρὸς θεῶν δίδαξον κἄμ᾿, ἄναξ, ὅτου ποτὲ
μῆνιν τοσήνδε πράγματος στήσας ἔχεις.
ΟΙ. Ἐρῶ - σὲ γὰρ τῶνδ᾿ ἐς πλέον, γύναι, σέβω Κρέοντος, οἷά μοι βεβουλευκὼς ἔχει.
ΙΟ.
Λέγ᾿, εἰ σαφῶς τὸ νεῖκος ἐγκαλῶν ἐρεῖς.
ΟΙ.
Φονέα μέ φησι Λαΐου καθεστάναι.
ΙΟ.
Αὐτὸς ξυνειδὼς ἢ μαθὼν ἄλλου πάρα;
ΟΙ. Μάντιν μὲν οὖν κακοῦργον εἰσπέμψας, ἐπεὶ
τό γ᾿ εἰς ἑαυτὸν πᾶν ἐλευθεροῖ στόμα.
700
705
ΙΟ. Σύ νυν ἀφεὶς σεαυτὸν ὧν λέγεις πέρι
ἐμοῦ ᾿πάκουσον καὶ μάθ᾿ οὕνεκ᾿ ἐστί σοι
βρότειον οὐδὲν μαντικῆς ἔχον τέχνης·
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Secondo episodio, vv. 686-709
Edipo re
la città, e quel discorso adesso è chiuso. Non parliamone più.
Edipo
Ecco, lo vedi come sei ridotto, tu che pure sei un uomo tanto
saggio,
a forza d’ignorare, di smussare il mio cuore?
Coro
Mio signore, l’ho detto molte volte:
sappi che sarei pazzo, sarei chiuso
a ogni via di saggezza, se dovessi
separarmi da te, che la mia terra
smarrita fra i dolori hai vòlto a un vento
di fortuna. E anche adesso puoi riuscirci: puoi essere la nostra
buona guida78.
Giocasta
Dillo anche a me, signore, per gli dèi,
come mai tanta rabbia? Cos’è stato?
Edipo
Sì, te lo voglio dire. Perché io ti rispetto più di loro.
È stato per Creonte, e per ciò che ai miei danni lui ha tramato.
Giocasta
Spiegami chiaramente, se riesci, perché l’accusi della vostra lite79.
Edipo
Io ho assassinato Laio: ecco che cosa dice.
Giocasta
Dice così perché ne è testimone? O ha saputo da altri?
Edipo
Ha messo avanti un lurido indovino.
Quanto a lui, la sua bocca è immacolata.
Giocasta
Ma assolviti da tutto ciò che dici:
ascolta me e comprenderai, davvero,
che non esiste uomo, a questo mondo, che conosca il mestiere
d’indovino80.
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Sofocle
Φανῶ δέ σοι σημεῖα τῶνδε σύντομα·
χρησμὸς γὰρ ἦλθε Λαΐῳ ποτ᾿, οὐκ ἐρῶ
Φοίβου γ᾿ ἀπ᾿ αὐτοῦ, τῶν δ᾿ ὑπηρετῶν ἄπο,
ὡς αὐτὸν ἥξοι μοῖρα πρὸς παιδὸς θανεῖν,
ὅστις γένοιτ᾿ ἐμοῦ τε κἀκείνου πάρα.
Καὶ τὸν μέν, ὥσπερ γ᾿ ἡ φάτις, ξένοι ποτὲ
λῃσταὶ φονεύουσ᾿ ἐν τριπλαῖς ἁμαξιτοῖς·
παιδὸς δὲ βλάστας οὐ διέσχον ἡμέραι
τρεῖς, καί νιν ἄρθρα κεῖνος ἐνζεύξας ποδοῖν
ἔρριψεν ἄλλων χερσὶν εἰς ἄβατον ὄρος.
Κἀνταῦθ᾿ Ἀπόλλων οὔτ᾿ ἐκεῖνον ἤνυσεν
φονέα γενέσθαι πατρός, οὔτε Λάϊον
τὸ δεινὸν οὑφοβεῖτο πρὸς παιδὸς παθεῖν.
Τοιαῦτα φῆμαι μαντικαὶ διώρισαν,
ὧν ἐντρέπου σὺ μηδέν· ὧν γὰρ ἂν θεὸς
χρείαν ἐρευνᾷ ῥᾳδίως αὐτὸς φανεῖ.
710
715
720
725
ΟΙ. Οἷόν μ᾿ ἀκούσαντ᾿ ἀρτίως ἔχει, γύναι,
ψυχῆς πλάνημα κἀνακίνησις φρενῶν.
ΙΟ.
Ποίας μερίμνης τοῦθ᾿ ὑποστραφεὶς λέγεις;
ΟΙ. Ἔδοξ᾿ ἀκοῦσαι σοῦ τόδ᾿, ὡς ὁ Λάϊος
κατασφαγείη πρὸς τριπλαῖς ἁμαξιτοῖς.
ΙΟ.
Ηὐδᾶτο γὰρ ταῦτ᾿ οὐδέ πω λήξαντ᾿ ἔχει.
ΟΙ.
Καὶ ποῦ ᾿σθ᾿ ὁ χῶρος οὗτος, οὗ τόδ᾿ ἦν πάθος;
730
ΙΟ. Φωκὶς μὲν ἡ γῆ κλῄζεται, σχιστὴ δ᾿ ὁδὸς
ἐς ταὐτὸ Δελφῶν κἀπὸ Δαυλίας ἄγει.
ΟΙ.
Καὶ τίς χρόνος τοῖσδ᾿ ἐστὶν οὑξεληλυθώς;
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Secondo episodio, vv. 710-735
Edipo re
Ora in poche parole te lo provo.
C’era un antico oracolo – non voglio
dire di Febo, no, ma dei suoi servi81 –
che prediceva a Laio il suo destino: morire, un giorno, ucciso
dal figlio; nostro figlio: mio e di Laio.
Ma lui, come si dice, l’hanno ucciso
predoni forestieri, a un crocevia
di tre strade. E non erano trascorsi, dal parto di suo figlio,
tre giorni, che suo padre gli ha legato
catene alle caviglie; e l’ha affidato ad altri, per gettarlo
su un monte inaccessibile82. E Apollo non ha mai avverato niente:
né il figlio ha ucciso il padre, né per mano
del figlio Laio ha mai subito il male
che tanto lo angosciava. Ma questo stabilivano le voci
degli oracoli: e dunque, non curartene. Se a un dio serve qualcosa,
se vuole che si compia, la avvererà da solo, senza sforzi.
Edipo
Che confusione, donna, che pensieri
dentro di me, mentre ora ti ascoltavo!83
Giocasta
Perché parli così? Quale preoccupazione ti tormenta?
Edipo
Hai detto, se ho capito, hai detto questo: che Laio è stato ucciso
a un crocevia di strade: di tre strade.
Giocasta
È così che si è detto; così si dice ancora.
Edipo
E dov’è questo posto? Dove è avvenuto il fatto?
Giocasta
Il paese è la Focide. Si incrociano due vie, in un solo punto,
una da Delfi e l’altra dalla Daulide84.
Edipo
Quanto tempo è passato da quei fatti?
65
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Sofocle
ΙΟ. Σχεδόν τι πρόσθεν ἢ σὺ τῆσδ᾿ ἔχων χθονὸς
ἀρχὴν ἐφαίνου τοῦτ᾿ ἐκηρύχθη πόλει.
ΟΙ.
Ὦ Ζεῦ, τί μου δρᾶσαι βεβούλευσαι πέρι;
ΙΟ.
Τί δ᾿ ἐστί σοι τοῦτ᾿, Οἰδίπους, ἐνθύμιον;
ΟΙ. Μήπω μ᾿ ἐρώτα· τὸν δὲ Λάϊον, φύσιν
τίν᾿ εἶχε, φράζε, τίνα δ᾿ ἀκμὴν ἥβης ἔχων.
740
ΙΟ. Μέγας, χνοάζων ἄρτι λευκανθὲς κάρα,
μορφῆς δὲ τῆς σῆς οὐκ ἀπεστάτει πολύ.
ΟΙ. Οἴμοι τάλας· ἔοικ᾿ ἐμαυτὸν εἰς ἀρὰς
δεινὰς προβάλλων ἀρτίως οὐκ εἰδέναι.
ΙΟ.
745
Πῶς φῄς; Ὀκνῶ τοι πρὸς σ᾿ ἀποσκοποῦσ᾿, ἄναξ.
ΟΙ. Δεινῶς ἀθυμῶ μὴ βλέπων ὁ μάντις ᾖ.
Δείξεις δὲ μᾶλλον, ἢν ἓν ἐξείπῃς ἔτι.
ΙΟ.
Καὶ μὴν ὀκνῶ μέν, ἃ δ᾿ ἂν ἔρῃ μαθοῦσ᾿ ἐρῶ.
ΟΙ. Πότερον ἐχώρει βαιός, ἢ πολλοὺς ἔχων
ἄνδρας λοχίτας, οἷ᾿ ἀνὴρ ἀρχηγέτης;
750
ΙΟ. Πέντ᾿ ἦσαν οἱ ξύμπαντες, ἐν δ᾿ αὐτοῖσιν ἦν
κῆρυξ· ἀπήνη δ᾿ ἦγε Λάϊον μία.
ΟΙ. Αἰαῖ, τάδ᾿ ἤδη διαφανῆ. Τίς ἦν ποτε
ὁ τούσδε λέξας τοὺς λόγους ὑμῖν, γύναι;
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Secondo episodio, vv. 736-755
Edipo re
Giocasta
Accadde poco prima che il paese
riconoscesse te per suo sovrano: allora fu portata la notizia.
Edipo
Cosa vuoi farmi, Zeus? Cos’hai deciso?
Giocasta
Edipo, dimmi: a cosa stai pensando?
Edipo
Non chiedermelo ancora. Parla: Laio
com’era fatto? Un uomo di che età?85
Giocasta
Era alto di statura. I capelli iniziavano a imbiancare.
Non si scostava molto dal tuo aspetto.
Edipo
Disgraziato che sono: credo d’aver lanciato su me stesso
imprecazioni orrende. E lo ignoravo.
Giocasta
Cosa dici? A guardarti mi spaventi, mio sovrano.
Edipo
Temo terribilmente che il profeta
non sia cieco. Ma tu puoi dimostrarmelo: dimmi una cosa ancora.
Giocasta
Mi spaventi, ma chiedi, e io risponderò alla tua domanda.
Edipo
Com’è partito? Aveva poco séguito? O erano numerosi
gli uomini della scorta, come si addice a un re?
Giocasta
Erano cinque in tutto, compreso il banditore.
Un solo carro conduceva Laio.
Edipo
Ecco, ora è chiaro! Ma chi è stato, allora,
donna, a portare qui queste notizie?
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Sofocle
ΙΟ.
Οἰκεύς τις, ὅσπερ ἵκετ᾿ ἐκσωθεὶς μόνος.
ΟΙ.
Ἦ κἀν δόμοισι τυγχάνει τανῦν παρών;
ΙΟ. Οὐ δῆτ᾿· ἀφ᾿ οὗ γὰρ κεῖθεν ἦλθε καὶ κράτη
σέ τ᾿ εἶδ᾿ ἔχοντα Λάϊόν τ᾿ ὀλωλότα,
ἐξικέτευσε τῆς ἐμῆς χειρὸς θιγὼν
ἀγρούς σφε πέμψαι κἀπὶ ποιμνίων νομάς,
ὡς πλεῖστον εἴη τοῦδ᾿ ἄποπτος ἄστεως.
Κἄπεμψ᾿ ἐγώ νιν· ἄξιος γὰρ, οἷ᾿ ἀνὴρ
δοῦλος, φέρειν ἦν τῆσδε καὶ μείζω χάριν.
ΟΙ.
Πῶς ἂν μόλοι δῆθ᾿ ἡμὶν ἐν τάχει πάλιν;
ΙΟ.
Πάρεστιν. Ἀλλὰ πρὸς τί τοῦτ᾿ ἐφίεσαι;
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765
ΟΙ. Δέδοικ᾿ ἐμαυτόν, ὦ γύναι, μὴ πόλλ᾿ ἄγαν
εἰρημέν᾿ ᾖ μοι, δι᾿ ἅ νιν εἰσιδεῖν θέλω.
ΙΟ. Ἀλλ᾿ ἵξεται μέν· ἀξία δέ που μαθεῖν
κἀγὼ τά γ᾿ ἐν σοὶ δυσφόρως ἔχοντ᾿, ἄναξ.
ΟΙ. Κοὐ μὴ στερηθῇς γ᾿ ἐς τοσοῦτον ἐλπίδων
ἐμοῦ βεβῶτος· τῷ γὰρ ἂν καὶ μείζονι
λέξαιμ᾿ ἂν ἢ σοὶ διὰ τύχης τοιᾶσδ᾿ ἰών;
Ἐμοὶ πατὴρ μὲν Πόλυβος ἦν Κορίνθιος,
μήτηρ δὲ Μερόπη Δωρίς. Ἠγόμην δ᾿ ἀνὴρ
ἀστῶν μέγιστος τῶν ἐκεῖ, πρίν μοι τύχη
τοιάδ᾿ ἐπέστη, θαυμάσαι μὲν ἀξία,
σπουδῆς γε μέντοι τῆς ἐμῆς οὐκ ἀξία·
ἀνὴρ γὰρ ἐν δείπνοις μ᾿ ὑπερπλησθεὶς μέθῃ
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Secondo episodio, vv. 756-779
Edipo re
Giocasta
Un servo, che fu l’unico superstite.
Edipo
E vive qui a palazzo, ora, per caso?
Giocasta
No, nient’affatto. Quando venne e vide
che il potere era tuo e Laio era morto86,
mi prese per le mani e scongiurò
che lo mandassi via, nei campi, ai pascoli
dei nostri armenti: andare via, voleva,
lontano il più possibile di qui. Io ho lasciato che andasse:
era uno schiavo, sì, ma meritevole, di questo e d’altro ancora.
Edipo
Si può chiamarlo qui, e farlo al più presto?
Giocasta
Si può. Ma a quale scopo dai quest’ordine?
Edipo
Donna, è per me che temo: temo proprio
d’aver parlato troppo87. Perciò voglio vederlo.
Giocasta
E allora verrà qui. Ma ciò che adesso ti fa stare tanto
male, mio re, devo saperlo anch’io.
Edipo
Non te lo nego, no, visto che ho tanti
presentimenti. A chi potrei parlare
se non a te, ridotto come sono?
Polibo di Corinto era mio padre.
E mia madre era Merope, una dorica88.
Ero l’uomo più in vista del paese, prima che capitasse
un fatto: un fatto strano, certamente,
ma che, da parte mia, non meritava
tanta pena. È successo in un simposio. Un uomo, ormai ubriaco,
fra una bevuta e l’altra dice che io
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Sofocle
καλεῖ παρ᾿ οἴνῳ πλαστὸς ὡς εἴην πατρί.
Κἀγὼ βαρυνθεὶς τὴν μὲν οὖσαν ἡμέραν
μόλις κατέσχον, θἀτέρᾳ δ᾿ ἰὼν πέλας
μητρὸς πατρός τ᾿ ἤλεγχον· οἱ δὲ δυσφόρως
τοὔνειδος ἦγον τῷ μεθέντι τὸν λόγον.
Κἀγὼ τὰ μὲν κείνοιν ἐτερπόμην, ὅμως
δ᾿ ἔκνιζέ μ᾿ αἰεὶ τοῦθ᾿· ὑφεῖρπε γὰρ πολύ.
Λάθρᾳ δὲ μητρὸς καὶ πατρὸς πορεύομαι
Πυθώδε, καί μ᾿ ὁ Φοῖβος ὧν μὲν ἱκόμην
ἄτιμον ἐξέπεμψεν, ἄλλα δ᾿ ἀθλίῳ
καὶ δεινὰ καὶ δύστηνα προυφάνη λέγων,
ὡς μητρὶ μὲν χρείη με μειχθῆναι, γένος
δ᾿ ἄτλητον ἀνθρώποισι δηλώσοιμ᾿ ὁρᾶν,
φονεὺς δ᾿ ἐσοίμην τοῦ φυτεύσαντος πατρός.
Κἀγὼ ᾿πακούσας ταῦτα τὴν Κορινθίαν
ἄστροις τὸ λοιπὸν ἐκμετρούμενος χθόνα
ἔφευγον ἔνθα μήποτ᾿ ὀψοίμην κακῶν
χρησμῶν ὀνείδη τῶν ἐμῶν τελούμενα.
Στείχων δ᾿ ἱκνοῦμαι τούσδε τοὺς χώρους ἐν οἷς
σὺ τὸν τύραννον τοῦτον ὄλλυσθαι λέγεις.
Καί σοι, γύναι, τἀληθὲς ἐξερῶ· τριπλῆς
ὅτ᾿ ἦ κελεύθου τῆσδ᾿ ὁδοιπορῶν πέλας,
ἐνταῦθά μοι κῆρύξ τε κἀπὶ πωλικῆς
ἀνὴρ ἀπήνης ἐμβεβώς, οἷον σὺ φῄς,
ξυνηντίαζον, κἀξ ὁδοῦ μ᾿ ὅ θ᾿ ἡγεμὼν
αὐτός θ᾿ ὁ πρέσβυς πρὸς βίαν ἠλαυνέτην.
Κἀγὼ τὸν ἐκτρέποντα, τὸν τροχηλάτην,
παίω δι᾿ ὀργῆς· καί μ᾿ ὁ πρέσβυς, ὡς ὁρᾷ,
ὄχους παραστείχοντα τηρήσας, μέσον
κάρα διπλοῖς κέντροισί μου καθίκετο.
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Secondo episodio, vv. 780-809
Edipo re
non sarei il vero figlio di mio padre. Io mi infurio, ma aspetto,
e per quel giorno
mi trattengo. Ma il giorno successivo
mi presento dai miei, chiedo ragioni. E loro, a quell’insulto,
si riempiono di scandalo per l’uomo
che mi ha offeso. A vederli in questo modo, certo, provo sollievo,
ma quella frase mi bruciava sempre. Mi rimordeva dentro89.
E senza dirlo ai miei, parto per Delfi. Quanto alle mie domande,
Apollo non mi degna di risposta, e mi rimanda indietro.
Però, per mia disgrazia, altre parole volle rivelarmi:
cose penose, orrende: che io dovevo accoppiarmi con mia madre,
mostrare al mondo figli che nessuno
sopporta di vedere; e finire assassino di mio padre: di chi mi ha
generato.
Questo mi sento dire. E da quel giorno
metto, fra me e la terra di Corinto, distanze così lunghe
che a misurarle servono le stelle90 : me ne vado in esilio e cerco
un luogo
dove mi sia evitato di vedere
compiuta la vergogna dei miei oracoli
tremendi. E camminando giungo al punto
dove, tu dici, è morto il vostro re.
A te, donna, dirò la verità. Quando, nel mio cammino,
mi trovai là dove la strada è triplice,
ecco che un banditore, e un uomo solo
sopra un carro trainato da puledri, proprio come tu dici,
mi si fecero incontro. E il guidatore
e il vecchio stesso tentano di spingermi
via dalla strada, a forza91: e io, pieno di rabbia, sferro un colpo
a chi vuole scacciarmi: all’auriga del carro. E il vecchio vede,
io sono accanto al carro, e ne approfitta:
mi coglie in pieno capo una frustata
del suo staffile a doppia punta. Certo, lui l’ha pagata cara92:
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Sofocle
Οὐ μὴν ἴσην γ᾿ ἔτεισεν, ἀλλὰ συντόμως
σκήπτρῳ τυπεὶς ἐκ τῆσδε χειρὸς ὕπτιος
μέσης ἀπήνης εὐθὺς ἐκκυλίνδεται·
κτείνω δὲ τοὺς ξύμπαντας. Εἰ δὲ τῷ ξένῳ
τούτῳ προσήκει Λαΐῳ τι συγγενές,
τίς τοῦδέ γ᾿ ἀνδρὸς νῦν ἔτ᾿ ἀθλιώτερος;
Τίς ἐχθροδαίμων μᾶλλον ἂν γένοιτ᾿ ἀνήρ,
ᾧ μὴ ξένων ἔξεστι μηδ᾿ ἀστῶν τινα
δόμοις δέχεσθαι, μηδὲ προσφωνεῖν τινα,
ὠθεῖν δ᾿ ἀπ᾿ οἴκων; Καὶ τάδ᾿ οὔτις ἄλλος ἦν
ἢ ᾿γὼ ᾿π᾿ ἐμαυτῷ τάσδ᾿ ἀρὰς ὁ προστιθείς.
Λέχη δὲ τοῦ θανόντος ἐν χεροῖν ἐμαῖν
χραίνω, δι᾿ αἷνπερ ὤλετ᾿. Ἆρ᾿ ἔφυν κακός;
Ἆρ᾿ οὐχὶ πᾶς ἄναγνος; Εἴ με χρὴ φυγεῖν
καί μοι φυγόντι μἤστι τοὺς ἐμοὺς ἰδεῖν
μήδ᾿ ἐμβατεύειν πατρίδος, ἢ γάμοις με δεῖ
μητρὸς ζυγῆναι καὶ πατέρα κατακτανεῖν,
Πόλυβον, ὃς ἐξέθρεψε κἀξέφυσέ με.
Ἆρ᾿ οὐκ ἀπ᾿ ὠμοῦ ταῦτα δαίμονός τις ἂν
κρίνων ἐπ᾿ ἀνδρὶ τῷδ᾿ ἂν ὀρθοίη λόγον;
Μὴ δῆτα, μὴ δῆτ᾿, ὦ θεῶν ἁγνὸν σέβας,
ἴδοιμι ταύτην ἡμέραν, ἀλλ᾿ ἐκ βροτῶν
βαίην ἄφαντος πρόσθεν ἢ τοιάνδ᾿ ἰδεῖν
κηλῖδ᾿ ἐμαυτῷ συμφορᾶς ἀφιγμένην.
ΧΟ. Ἡμῖν μέν, ὦναξ, ταῦτ᾿ ὀκνήρ᾿· ἕως δ᾿ ἂν οὖν
πρὸς τοῦ παρόντος ἐκμάθῃς, ἔχ᾿ ἐλπίδα.
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ΟΙ. Καὶ μὴν τοσοῦτόν γ᾿ ἐστί μοι τῆς ἐλπίδος,
τὸν ἄνδρα, τὸν βοτῆρα, προσμεῖναι μόνον.
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Secondo episodio, vv. 810-837
Edipo re
in un momento
io lo colpisco con il mio bastone, e cade, a capofitto,
dal suo seggio sul carro.
E li ho ammazzati, tutti quanti93. E adesso,
se qualcosa apparenta Laio a questo
straniero94, non c’è uomo più infelice
di me. Chi più di me dovrà conoscere
l’odio divino? Nessuno potrà aprirmi la sua porta,
né cittadino né straniero, mai: non devono parlarmi,
ma cacciarmi di casa. E sono io, proprio io e nessun altro,
che su di me ho invocato tutte queste
maledizioni. E io insudicio il letto
di chi è morto: con queste stesse mani, le mani che lo uccisero95.
Sono o no una vergogna?
Non sono fuori da ogni sacra norma? E se vado in esilio,
io non potrò più rivedere i miei,
non potrò più toccare la mia terra: altrimenti è destino
che io sposi mia madre e uccida mio
padre Polibo, lui che mi ha cresciuto, che mi ha dato la vita.
Se qualcuno mi guarda, e dice: tutto
ciò che si abbatte su quest’uomo è l’opera
di un dio selvaggio, forse dice male? Ma no, ma no, sacra maestà
divina,
che io non debba vedere mai quel giorno: ma prima, cancellato,
possa lasciare gli uomini: io non voglio vedere su di me
la macchia di un disastro così grande.
Coro
A sentirti, signore, anch’io ho paura.
Ma finché non ascolti il testimone, conserva la speranza.
Edipo
È la sola speranza che mi resta:
attendere quell’uomo, quel pastore.
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Sofocle
ΙΟ.
Πεφασμένου δὲ τίς ποθ᾿ ἡ προθυμία;
ΟΙ. Ἐγὼ διδάξω σ᾿· ἢν γὰρ εὑρεθῇ λέγων
σοὶ ταὔτ᾿, ἔγωγ᾿ ἂν ἐκπεφευγοίην πάθος.
ΙΟ.
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Ποῖον δέ μου περισσὸν ἤκουσας λόγον;
ΟΙ. Λῃστὰς ἔφασκες αὐτὸν ἄνδρας ἐννέπειν
ὥς νιν κατακτείνειαν· εἰ μὲν οὖν ἔτι
λέξει τὸν αὐτὸν ἀριθμόν, οὐκ ἐγὼ ᾿κτανον·
οὐ γὰρ γένοιτ᾿ ἂν εἷς γε τοῖς πολλοῖς ἴσος·
εἰ δ᾿ ἄνδρ᾿ ἕν᾿ οἰόζωνον αὐδήσει σαφῶς,
τοῦτ᾿ ἐστὶν ἤδη τοὖργον εἰς ἐμὲ ῥέπον.
ΙΟ. Ἀλλ᾿ ὡς φανέν γε τοὖπος ὧδ᾿ ἐπίστασο,
κοὐκ ἔστιν αὐτῷ τοῦτό γ᾿ ἐκβαλεῖν πάλιν·
πόλις γὰρ ἤκουσ᾿, οὐκ ἐγὼ μόνη, τάδε.
Εἰ δ᾿ οὖν τι κἀκτρέποιτο τοῦ πρόσθεν λόγου,
οὔτοι ποτ᾿, ὦναξ, τόν γε Λαΐου φόνον
φανεῖ δικαίως ὀρθόν, ὅν γε Λοξίας
διεῖπε χρῆναι παιδὸς ἐξ ἐμοῦ θανεῖν.
Καίτοι νιν οὐ κεῖνός γ᾿ ὁ δύστηνός ποτε
κατέκταν᾿, ἀλλ᾿ αὐτὸς πάροιθεν ὤλετο·
ὥστ᾿ οὐχὶ μαντείας γ᾿ ἂν οὔτε τῇδ᾿ ἐγὼ
βλέψαιμ᾿ ἂν οὕνεκ᾿ οὔτε τῇδ᾿ ἂν ὕστερον.
ΟΙ. Καλῶς νομίζεις· ἀλλ᾿ ὅμως τὸν ἐργάτην
πέμψον τινὰ στελοῦντα, μηδὲ τοῦτ᾿ ἀφῇς.
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ΙΟ. Πέμψω ταχύνασ᾿· ἀλλ᾿ ἴωμεν ἐς δόμους·
οὐδὲν γὰρ ἂν πράξαιμ᾿ ἂν ὧν οὔ σοι φίλον.
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Secondo episodio, vv. 838-862
Edipo re
Giocasta
E quando sarà qui, che cosa vuoi?
Edipo
Te lo spiego. Se qui, messo alla prova, confermerà le tue
parole, io eviterò questa disgrazia.
Giocasta
Che cosa ho detto di così importante?
Edipo
Egli allora ha parlato di banditi
che l’avrebbero ucciso: questo hai detto. Se egli confermerà
ch’erano in molti, allora io non l’ho ucciso:
un uomo e molti uomini è diverso.
Ma se parlerà chiaro96 e dirà “un uomo”,
un semplice viandante solitario, la colpa ormai ricade su di me.
Giocasta
Ma quella fu la sua testimonianza, stanne sicuro:
e non può rimangiarsi la parola,
ora. La città intera l’ha sentito: non l’ho sentito io sola.
Ma se anche si volesse discostare
da quella sua versione, mio signore, non potrà dimostrare che
il delitto
di Laio si è avverato come Apollo
vaticinava: lo doveva uccidere
mio figlio! E certo non è stato lui, povero figlio, a ucciderlo:
lui è morto molto prima.
E perciò, d’ora in poi, quanto alle voci
degli indovini, io sono indifferente.
Edipo
Tu hai ragione. Comunque, manda un servo,
fa’ convocare qui quel lavorante. E non dimenticartene.
Giocasta
Lo mando subito. Ma adesso andiamo, rientriamo in casa nostra:
non farò nulla se non ciò che chiedi.
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Sofocle
ΧΟ. Εἴ μοι ξυνείη φέροντι μοῖρα τὰν
εὔσεπτον ἁγνείαν λόγων
ἔργων τε πάντων, ὧν νόμοι πρόκεινται
ὑψίποδες, †οὐρανίαν
δι᾿ αἰθέρα† τεκνωθέντες, ὧν Ὄλυμπος
πατὴρ μόνος, οὐδέ νιν
θνατὰ φύσις ἀνέρων
ἔτικτεν, οὐδὲ μήποτε λάθα κατακοιμάσῃ․
Mέγας ἐν τούτοις θεός, οὐδὲ γηράσκει.
Ὕβρις φυτεύει τύραννον· ὕβρις, εἰ
πολλῶν ὑπερπλησθῇ μάταν
ἃ μὴ ᾿πίκαιρα μηδὲ συμφέροντα,
ἀκρότατα γεῖσ᾿ ἀναβᾶσ᾿
ἀπότομον ὤρουσεν εἰς ἀνάγκαν,
ἔνθ᾿ οὐ ποδὶ χρησίμῳ
χρῆται. Τὸ καλῶς δ᾿ ἔχον
πόλει πάλαισμα μήποτε λῦσαι θεὸν αἰτοῦμαι.
Θεὸν οὐ λήξω ποτὲ προστάταν ἴσχων.
Εἰ δέ τις ὑπέροπτα χερσὶν
ἢ λόγῳ πορεύεται,
Δίκας ἀφόβητος οὐδὲ
δαιμόνων ἕδη σέβων,
κακά νιν ἕλοιτο μοῖρα,
δυσπότμου χάριν χλιδᾶς,
εἰ μὴ τὸ κέρδος κερδανεῖ δικαίως
καὶ τῶν ἀσέπτων ἔρξεται,
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Edipo re
Secondo stasimo, vv. 863-890
SECONDO STASIMO
Coro
Prego che questa sorte
sia sempre accanto a me: sacra purezza
d’opere e di parole, come impongono
le leggi, le alte leggi che risaltano
salde, nel cielo terso
generate97. L’Olimpo è il loro solo
padre. Non sono sorte
dalla mortale origine
degli uomini. Non dormiranno mai
nella dimenticanza.
È grande il dio che è in loro, e non invecchia.
La prepotenza genera il tiranno98:
la prepotenza, se di molti, sciocchi,
vani beni si gonfia vanamente
e sale fino agli ultimi
fastigi per cadere a precipizio
la sua sorte scoscesa,
dove non sa più reggersi il suo passo.
Ma la lotta che giova alla città
prego dio che non voglia mai dissolvere99.
E il dio voglio per guida, adesso e sempre.
E chi in parole o in opere
va sicuro e non teme
la Giustizia né venera
le sedi degli dèi,
lo colga la disgrazia
per tutta la sua misera superbia,
se non guadagnerà guadagni onesti,
se non si tratterrà dai sacrilegi,
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Sofocle
ἢ τῶν ἀθίκτων θίξεται ματᾴζων.
Τίς ἔτι ποτ᾿ ἐν τοῖσδ᾿ ἀνὴρ †θυμῷ† βέλη
†ἔρξεται† ψυχᾶς ἀμύνειν;
Εἰ γὰρ αἱ τοιαίδε πράξεις τίμιαι,
τί δεῖ με χορεύειν;
Οὐκέτι τὸν ἄθικτον εἶμι
γᾶς ἐπ᾿ ὀμφαλὸν σέβων,
οὐδ᾿ ἐς τὸν Ἀβαῖσι ναόν,
οὐδὲ τὰν Ὀλυμπίαν,
εἰ μὴ τάδε χειρόδεικτα
πᾶσιν ἁρμόσει βροτοῖς.
Ἀλλ᾿, ὦ κρατύνων, εἴπερ ὄρθ᾿ ἀκούεις,
Ζεῦ, πάντ᾿ ἀνάσσων, μὴ λάθοι
σὲ τάν τε σὰν ἀθάνατον αἰὲν ἀρχάν.
Φθίνοντα γὰρ Λαΐου παλαίφατα
θέσφατ᾿ ἐξαιροῦσιν ἤδη,
κοὐδαμοῦ τιμαῖς Ἀπόλλων ἐμφανής·
ἔρρει δὲ τὰ θεῖα.
ΙΟ. Χώρας ἄνακτες, δόξα μοι παρεστάθη
ναοὺς ἱκέσθαι δαιμόνων, τάδ᾿ ἐν χεροῖν
στέφη λαβούσῃ κἀπιθυμιάματα.
Ὑψοῦ γὰρ αἴρει θυμὸν Οἰδίπους ἄγαν
λύπαισι παντοίαισιν, οὐδ᾿ ὁποῖ᾿ ἀνὴρ
ἔννους τὰ καινὰ τοῖς πάλαι τεκμαίρεται,
ἀλλ᾿ ἔστι τοῦ λέγοντος, ἢν φόβους λέγῃ.
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Secondo stasimo, vv. 891-910; Terzo episodio, vv. 911-917
Edipo re
se toccherà ciò che non va toccato,
perché è un pazzo. E chi potrà più, a difesa
della vita […]?100
E se ora è tutto questo che si stima
perché dovrei danzare?101
E non andrò mai più in pellegrinaggio
fino al sacro Ombelico della Terra,
fino al tempio di Abe,
fino ad Olimpia102,
se contro queste infamie tutti gli uomini
non leveranno il dito.
Ma tu, sovrano, se il tuo nome è questo,
Zeus che tutto governi, veglia sempre,
tu e il tuo potere eterno.
Vedi che ormai dileguano, ignorati,
i vaticini resi un giorno a Laio103,
Apollo non ha più luce d’onori
e muoiono gli dèi.
TERZO EPISODIO
Giocasta
Signori del paese, ecco l’idea
che ho avuto: andare ai templi degli dèi
e portare con me queste corone, queste offerte d’aromi.
Edipo è troppo teso, cede a tutte
le ansie, non si comporta come un uomo
di buon senso, che sa cos’è accaduto
e a partire di qui valuta tutte
le novità104. No, è preda di chi parla, se parla di qualcosa che
lo inquieti.
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Sofocle
Ὅτ᾿ οὖν παραινοῦσ᾿ οὐδὲν ἐς πλέον ποιῶ,
πρὸς σ᾿, ὦ Λύκει᾿ Ἄπολλον, ἄγχιστος γὰρ εἶ,
ἱκέτις ἀφῖγμαι τοῖσδε σὺν κατεύγμασιν,
ὅπως λύσιν τιν᾿ ἡμὶν εὐαγῆ πόρῃς·
ὡς νῦν ὀκνοῦμεν πάντες ἐκπεπληγμένον
κεῖνον βλέποντες ὡς κυβερνήτην νεώς.
ΑΓΓΕΛΟΣ
Ἆρ᾿ ἂν παρ᾿ ὑμῶν, ὦ ξένοι, μάθοιμ᾿ ὅπου
τὰ τοῦ τυράννου δώματ᾿ ἐστὶν Οἰδίπου;
Μάλιστα δ᾿ αὐτὸν εἴπατ᾿, εἰ κάτισθ᾿ ὅπου.
920
925
ΧΟ. Στέγαι μὲν αἵδε, καὐτὸς ἔνδον, ὦ ξένε·
γυνὴ δὲ μήτηρ θ᾿ ἥδε τῶν κείνου τέκνων.
ΑΓ. Ἀλλ᾿ ὀλβία τε καὶ ξὺν ὀλβίοις ἀεὶ
γένοιτ᾿ ἐκείνου γ᾿ οὖσα παντελὴς δάμαρ.
930
ΙΟ. Αὔτως δὲ καὶ σύ γ᾿, ὦ ξέν᾿· ἄξιος γὰρ εἶ
τῆς εὐεπείας οὕνεκ᾿. Ἀλλὰ φράζ᾿ ὅτου
χρῄζων ἀφῖξαι χὤτι σημῆναι θέλων.
ΑΓ.
Ἀγαθὰ δόμοις τε καὶ πόσει τῷ σῷ, γύναι.
ΙΟ.
Τὰ ποῖα ταῦτα; Πρὸς τίνος δ᾿ ἀφιγμένος;
935
ΑΓ. Ἐκ τῆς Κορίνθου. Τὸ δ᾿ ἔπος οὑξερῶ τάχα,
ἥδοιο μέν, πῶς δ᾿ οὐκ ἄν; Ἀσχάλλοις δ᾿ ἴσως.
ΙΟ.
Τί δ᾿ ἔστι; Ποίαν δύναμιν ὧδ᾿ ἔχει διπλῆν;
ΑΓ. Τύραννον αὐτὸν οὑπιχώριοι χθονὸς
τῆς Ἰσθμίας στήσουσιν, ὡς ηὐδᾶτ᾿ ἐκεῖ.
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Terzo episodio, vv. 918-940
Edipo re
Io provo a consigliarlo e non riesco:
perciò, Apollo dei Lupi, il più vicino,
degli dèi105, vengo a te per supplicarti, e ho con me queste offerte,
perché tu ci conceda in qualche modo
sacra salvezza. Siamo tutti in ansia,
ora, a vedere lui così sconvolto: è lui al timone della nostra nave.
(Entra il Messaggero)
Messaggero
Stranieri, siete in grado d’indicarmi
le case del sovrano,
di Edipo? Anzi, meglio: lui dov’è? Me lo sapete dire?106
Coro
Il suo palazzo è questo. E lui, straniero, è dentro. E questa donna
è la sposa; è la madre, questa donna, dei suoi figli107.
Messaggero
Felicità per lei e per tutti i suoi,
sempre, se è lei la sua perfetta sposa108.
Giocasta
E così anche per te, straniero: grazie
per questo buon augurio. Ma ora spiegami
che cosa cerchi e che notizie porti.
Messaggero
Cose che gioveranno alle tue case, signora, e a tuo marito.
Giocasta
Cosa vuoi dire? E chi ti manda qui?
Messaggero
Io vengo da Corinto. E ciò che sto per dirti
non mancherà di darti gioia, certo; ma ti darà anche pena.
Giocasta
Di che cosa si tratta? Perché mi darà gioia e insieme pena?
Messaggero
Stanno per farlo re, laggiù, sull’Istmo,
la gente del paese. Correva questa voce.
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Sofocle
ΙΟ.
Τί δ᾿; Οὐχ ὁ πρέσβυς Πόλυβος ἐγκρατὴς ἔτι;
ΑΓ.
Οὐ δῆτ᾿, ἐπεί νιν θάνατος ἐν τάφοις ἔχει.
ΙΟ.
Πῶς εἶπας; ῏Ἠ τέθνηκε Πόλυβος, ὦ γέρον;
ΑΓ.
Εἰ μὴ λέγω τἀληθές, ἀξιῶ θανεῖν.
ΙΟ. Ὦ πρόσπολ᾿, οὐχὶ δεσπότῃ τάδ᾿ ὡς τάχος
μολοῦσα λέξεις; Ὦ θεῶν μαντεύματα,
ἵν᾿ ἐστέ· τοῦτον Οἰδίπους πάλαι τρέμων
τὸν ἄνδρ᾿ ἔφευγε μὴ κτάνοι, καὶ νῦν ὅδε
πρὸς τῆς τύχης ὄλωλεν, οὐδὲ τοῦδ᾿ ὕπο.
945
ΟΙ. Ὦ φίλτατον γυναικὸς Ἰοκάστης κάρα,
τί μ᾿ ἐξεπέμψω δεῦρο τῶνδε δωμάτων;
950
ΙΟ. Ἄκουε τἀνδρὸς τοῦδε, καὶ σκόπει κλύων
τὰ σέμν᾿ ἵν᾿ ἥκει τοῦ θεοῦ μαντεύματα.
ΟΙ.
Οὗτος δὲ τίς ποτ᾿ ἐστί, καὶ τί μοι λέγει;
ΙΟ. Ἐκ τῆς Κορίνθου, πατέρα τὸν σὸν ἀγγελῶν
ὡς οὐκέτ᾿ ὄντα Πόλυβον, ἀλλ᾿ ὀλωλότα.
ΟΙ.
955
Τί φῄς, ξέν᾿; Αὐτός μοι σὺ σημήνας γενοῦ.
ΑΓ. Εἰ τοῦτο πρῶτον δεῖ μ᾿ ἀπαγγεῖλαι σαφῶς,
εὖ ἴσθ᾿ ἐκεῖνον θανάσιμον βεβηκότα.
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Terzo episodio, vv. 941-959
Edipo re
Giocasta
Come? Ha perso il potere, il vecchio Polibo?
Messaggero
L’ha perso, sì. La morte ormai lo chiude in una tomba.
Giocasta
Che cosa hai detto, vecchio? Davvero è morto Polibo?109
Messaggero
Se dico il falso, merito la morte.
Giocasta (a una serva)
Serva, che cosa aspetti? Corri, annuncia
subito la notizia al tuo padrone. Oracoli divini,
ecco come finite! Edipo se n’è andato via in esilio,
perché da sempre vive nel terrore
d’uccidere quest’uomo. E ora quest’uomo
è morto per volere della sorte, non perché lui l’ha ucciso.
(Entra Edipo)
Edipo
Giocasta, sposa cara,
perché mi chiami qui, fuori di casa?
Giocasta
Sta’ a sentire quest’uomo, ascolta e pensa
che ne è dei grandi oracoli divini.
Edipo
E chi è quest’uomo? E cosa deve dirmi?
Giocasta
Arriva da Corinto, ad annunciarti
che Polibo, tuo padre, non è più110. Ad annunciarti che tuo padre
è morto.
Edipo
Cosa dici, straniero? Voglio che sia tu stesso a raccontarmi.
Messaggero
Se innanzitutto devo dirti questo, e dirlo chiaramente,
sappi che Polibo se n’è ormai andato: è morto.
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Sofocle
ΟΙ.
Πότερα δόλοισιν, ἢ νόσου ξυναλλαγῇ;
ΑΓ.
Σμικρὰ παλαιὰ σώματ᾿ εὐνάζει ῥοπή.
ΟΙ.
Νόσοις ὁ τλήμων, ὡς ἔοικεν, ἔφθιτο.
ΑΓ.
Καὶ τῷ μακρῷ γε συμμετρούμενος χρόνῳ.
ΟΙ. Φεῦ φεῦ· τί δῆτ᾿ ἄν, ὦ γύναι, σκοποῖτό τις
τὴν Πυθόμαντιν ἑστίαν, ἢ τοὺς ἄνω
κλάζοντας ὄρνις, ὧν ὑφ᾿ ἡγητῶν ἐγὼ
κτενεῖν ἔμελλον πατέρα τὸν ἐμόν; Ὁ δὲ θανὼν
κεύθει κάτω δὴ γῆς, ἐγὼ δ᾿ ὅδ᾿ ἐνθάδε
ἄψαυστος ἔγχους - εἴ τι μὴ τὠμῷ πόθῳ
κατέφθιθ᾿· οὕτω δ᾿ ἂν θανὼν εἴη ᾿ξ ἐμοῦ.
Τὰ δ᾿ οὖν παρόντα συλλαβὼν θεσπίσματα
κεῖται παρ᾿ Ἅιδῃ Πόλυβος ἄξι᾿ οὐδενός.
ΙΟ.
Οὔκουν ἐγώ σοι ταῦτα πρου´ λεγον πάλαι;
ΟΙ.
Ηὔδας· ἐγὼ δὲ τῷ φόβῳ παρηγόμην.
ΙΟ.
Μὴ νῦν ἔτ᾿ αὐτῶν μηδὲν ἐς θυμὸν βάλῃς.
ΟΙ.
Καὶ πῶς τὸ μητρὸς λέκτρον οὐκ ὀκνεῖν με δεῖ;
ΙΟ. Τί δ᾿ ἂν φοβοῖτ᾿ ἄνθρωπος, ᾧ τὰ τῆς τύχης
κρατεῖ, πρόνοια δ᾿ ἐστὶν οὐδενὸς σαφής;
Eἰκῇ κράτιστον ζῆν, ὅπως δύναιτό τις.
Σὺ δ᾿ εἰς τὰ μητρὸς μὴ φοβοῦ νυμφεύματα·
πολλοὶ γὰρ ἤδη κἀν ὀνείρασιν βροτῶν
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Terzo episodio, vv. 960-981
Edipo re
Edipo
È morto per congiura? O l’ha colpito qualche malattia?
Messaggero
Basta un colpo, lievissimo, per mettere a giacere un uomo anziano.
Edipo
Morto per malattia, a quanto capisco.
Messaggero
E perché era il suo tempo; lungo tempo.
Edipo
Ah, donna, e chi dovrebbe più guardare
a Delfi, al focolare degli oracoli, o agli uccelli che stridono
su in cielo? Perché stando ai loro segni
io avrei dovuto uccidere mio padre: ora egli è morto, e giace
sotto terra. Ecco, invece, io sono qui;
mai toccata la spada. O forse è morto
perché io gli mancavo? Così, sarebbe morto a causa mia111.
Comunque, Polibo è nell’Ade, adesso:
e ha portato con sé tutti i miei oracoli, privi d’ogni valore!
Giocasta
Da quanto tempo te lo sto dicendo?
Edipo
È vero. Ma il terrore mi fuorviava.
Giocasta
E dunque, d’ora in poi, non stare più a pensarci.
Edipo
E il letto di mia madre? Io non dovrei temerlo?
Giocasta
E che cos’è che un uomo non dovrebbe
temere, se comanda la fortuna, se nulla si prevede con chiarezza?
Vivere come viene, come puoi: questa è la via migliore.
Non temere le nozze con tua madre:
è già accaduto a tanti altri uomini,
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Sofocle
μητρὶ ξυνηυνάσθησαν· ἀλλὰ ταῦθ᾿ ὅτῳ
παρ᾿ οὐδέν ἐστι, ῥᾷστα τὸν βίον φέρει.
ΟΙ. Καλῶς ἅπαντα ταῦτ᾿ ἂν ἐξείρητό σοι,
εἰ μὴ ᾿κύρει ζῶσ᾿ ἡ τεκοῦσα· νῦν δ᾿, ἐπεὶ
ζῇ, πᾶσ᾿ ἀνάγκη, κεἰ καλῶς λέγεις, ὀκνεῖν.
ΙΟ.
Καὶ μὴν μέγας γ᾿ ὀφθαλμὸς οἱ πατρὸς τάφοι.
ΟΙ.
Μέγας, ξυνίημ᾿· ἀλλὰ τῆς ζώσης φόβος.
ΑΓ.
Ποίας δὲ καὶ γυναικὸς ἐκφοβεῖσθ᾿ ὕπερ;
ΟΙ.
Μερόπης, γεραιέ, Πόλυβος ἧς ᾤκει μέτα.
ΑΓ.
Τί δ᾿ ἔστ᾿ ἐκείνης ὑμὶν ἐς φόβον φέρον;
ΟΙ.
Θεήλατον μάντευμα δεινόν, ὦ ξένε.
ΑΓ.
Ἦ ῥητόν, ἢ οὐ θεμιστὸν ἄλλον εἰδέναι;
ΟΙ. Μάλιστά γ᾿· εἶπε γάρ με Λοξίας ποτὲ
χρῆναι μιγῆναι μητρὶ τἠμαυτοῦ, τό τε
πατρῷον αἷμα χερσὶ ταῖς ἐμαῖς ἑλεῖν.
Ὧν οὕνεχ᾿ ἡ Κόρινθος ἐξ ἐμοῦ πάλαι
μακρὰν ἀπῳκεῖτ᾿· εὐτυχῶς μέν, ἀλλ᾿ ὅμως
τὰ τῶν τεκόντων ὄμμαθ᾿ ἥδιστον βλέπειν.
ΑΓ.
Ἦ γὰρ τάδ᾿ ὀκνῶν κεῖθεν ἦσθ᾿ ἀπόπτολις;
ΟΙ.
Πατρός γε χρῄζων μὴ φονεὺς εἶναι, γέρον.
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Terzo episodio, vv. 982-1001
Edipo re
di unirsi, anche nei sogni, con la madre; ma chi non dà alcun peso
a cose come queste, vive meglio.
Edipo
Giusto, quello che hai detto, tutto giusto,
se ora non fosse che mia madre è viva. E se mia madre è viva,
io ho paura: è una cosa inevitabile, anche se tu hai ragione.
Giocasta
Eppure è come un occhio spalancato, la tomba di tuo padre112.
Edipo
Spalancato, d’accordo. Ma è di mia madre viva che ho paura.
Messaggero
Di che donna si tratta? Chi è che vi fa paura?
Edipo
Merope, vecchio. La compagna di Polibo.
Messaggero
Cos’è, di lei, che vi spaventa tanto?
Edipo
Un responso del dio, straniero, orrendo.
Messaggero
E si può riferire? O è vietato che altri lo conoscano?
Edipo
Ma certo. Apollo ha dichiarato, un giorno,
che io dovevo congiungermi con mia
madre, e versare il sangue di mio padre
con le mie stesse mani. Ecco perché, da tanto tempo, tanto
spazio mi ha separato da Corinto. Certo, ho fatto fortuna. Eppure
è dolce
vedere gli occhi dei tuoi genitori.
Messaggero
Hai lasciato la tua città per questo? Perché temevi questo,
veramente?
Edipo
Per non uccidere mio padre, vecchio.
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Sofocle
ΑΓ. Τί δῆτ᾿ ἐγὼ οὐχὶ τοῦδε τοῦ φόβου σ᾿, ἄναξ,
ἐπείπερ εὔνους ἦλθον, ἐξελυσάμην;
ΟΙ.
Καὶ μὴν χάριν γ᾿ ἂν ἀξίαν λάβοις ἐμοῦ.
ΑΓ. Καὶ μὴν μάλιστα τοῦτ᾿ ἀφικόμην, ὅπως
σοῦ πρὸς δόμους ἐλθόντος εὖ πράξαιμί τι.
ΟΙ.
Ἀλλ᾿ οὔποτ᾿ εἶμι τοῖς φυτεύσασίν γ᾿ ὁμοῦ.
ΑΓ.
Ὦ παῖ, καλῶς εἶ δῆλος οὐκ εἰδὼς τί δρᾷς.
ΟΙ.
Πῶς, ὦ γεραιέ; Πρὸς θεῶν, δίδασκέ με.
ΑΓ.
Εἰ τῶνδε φεύγεις οὕνεκ᾿ εἰς οἴκους μολεῖν.
ΟΙ.
Ταρβῶν γε μή μοι Φοῖβος ἐξέλθῃ σαφής.
ΑΓ.
Ἦ μὴ μίασμα τῶν φυτευσάντων λάβῃς;
ΟΙ.
Τοῦτ᾿ αὐτό, πρέσβυ, τοῦτό μ᾿ εἰσαεὶ φοβεῖ.
ΑΓ.
Ἆρ᾿ οἶσθα δῆτα πρὸς δίκης οὐδὲν τρέμων;
ΟΙ.
Πῶς δ᾿ οὐχί, παῖς γ᾿ εἰ τῶνδε γεννητῶν ἔφυν;
ΑΓ.
Ὁθούνεκ᾿ ἦν σοι Πόλυβος οὐδὲν ἐν γένει.
ΟΙ.
Πῶς εἶπας; Ὀὐ γὰρ Πόλυβος ἐξέφυσέ με;
ΑΓ.
Οὐ μᾶλλον οὐδὲν τοῦδε τἀνδρός, ἀλλ᾿ ἴσον.
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Terzo episodio, vv. 1002-1018
Edipo re
Messaggero
Ma perché non ti ho ancora liberato,
mio signore, da tutta questa angoscia? Io sono qui solo per farti un
bene.
Edipo
Ne avresti in cambio tutto ciò che meriti.
Messaggero
Proprio per questo sono giunto qui, per godere qualcosa
del tuo favore, se tu torni in patria.
Edipo
Non tornerò da chi mi ha generato.
Messaggero
Si vede che non sai quello che fai, ragazzo mio113.
Edipo
Vecchio, cosa vuoi dire? Spiegami, per gli dèi.
Messaggero
Se è per questo che vivi qui in esilio, che non ritorni in patria…
Edipo
Perché temo che Apollo avveri tutto.
Messaggero
Temi i tuoi, che ti possano macchiare?
Edipo
Sì, vecchio, temo questo. Questo non mi dà pace.
Messaggero
Ma sai che non hai niente, davvero proprio niente da temere?
Edipo
E perché mai, se sono loro figlio?
Messaggero
Ecco perché: nessuna parentela fra te e Polibo!
Edipo
Che cosa? Non è Polibo, mio padre?
Messaggero
Non più di quanto ti sia padre anch’io; padre allo stesso modo.
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Sofocle
ΟΙ.
Καὶ πῶς ὁ φύσας ἐξ ἴσου τῷ μηδενί;
ΑΓ.
Ἀλλ᾿ οὔ σ᾿ ἐγείνατ᾿ οὔτ᾿ ἐκεῖνος οὔτ᾿ ἐγώ.
ΟΙ.
Ἀλλ᾿ ἀντὶ τοῦ δὴ παῖδά μ᾿ ὠνομάζετο;
ΑΓ.
Δῶρόν ποτ᾿, ἴσθι, τῶν ἐμῶν χειρῶν λαβών.
ΟΙ.
Κᾆθ᾿ ὧδ᾿ ἀπ᾿ ἄλλης χειρὸς ἔστερξεν μέγα;
ΑΓ.
Ἡ γὰρ πρὶν αὐτὸν ἐξέπεισ᾿ ἀπαιδία.
ΟΙ.
Σὺ δ᾿ ἐμπολήσας ἢ τεκών μ᾿ αὐτῷ δίδως;
ΑΓ.
Εὑρὼν ναπαίαις ἐν Κιθαιρῶνος πτυχαῖς.
ΟΙ.
Ὡδοιπόρεις δὲ πρὸς τί τούσδε τοὺς τόπους;
ΑΓ.
Ἐνταῦθ᾿ ὀρείοις ποιμνίοις ἐπεστάτουν.
ΟΙ.
Ποιμὴν γὰρ ἦσθα κἀπὶ θητείᾳ πλάνης;
ΑΓ.
Σοῦ δ᾿, ὦ τέκνον, σωτήρ γε τῷ τότ᾿ ἐν χρόνῳ.
ΟΙ.
Τί δ᾿ ἄλγος ἴσχοντ᾿ ἐν χεροῖν με λαμβάνεις;
ΑΓ.
Ποδῶν ἂν ἄρθρα μαρτυρήσειεν τὰ σά.
ΟΙ.
Οἴμοι, τί τοῦτ᾿ ἀρχαῖον ἐννέπεις κακόν;
ΑΓ.
Λύω σ᾿ ἔχοντα διατόρους ποδοῖν ἀκμάς.
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Terzo episodio, vv. 1019-1034
Edipo re
Edipo
Come, allo stesso modo? Tu sei un estraneo e lui mi ha generato.
Messaggero
Ma chi ti ha generato non è lui; né lui né io.
Edipo
E perché allora mi chiamava figlio?
Messaggero
Ti ha avuto in dono, sappilo. Dalle mie mani, tanto tempo fa.
Edipo
Dalle mani di un altro? E poi mi ha amato tanto?
Messaggero
Prima era senza figli. E questo l’ha convinto.
Edipo
Perché mi hai dato a lui? Mi hai comperato? O sono figlio tuo?114
Messaggero
Negli anfratti di un bosco ti ho trovato, sul Citerone.
Edipo
E come mai battevi quelle strade?
Messaggero
Custodivo, lassù, le greggi di montagna.
Edipo
E dunque eri un pastore? Lavoravi a giornata e andavi in giro?
Messaggero
Ma ti ho salvato, allora, figlio mio.
Edipo
Di che male soffrivo, quando tu mi hai raccolto?
Messaggero
Le tue caviglie possono risponderti.
Edipo
Povero me, perché ricordi questa antica piaga?
Messaggero
Tu avevi le caviglie perforate, quando io ti ho liberato115.
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Sofocle
ΟΙ.
Δεινόν γ᾿ ὄνειδος σπαργάνων ἀνειλόμην.
ΑΓ.
Ὥστ᾿ ὠνομάσθης ἐκ τύχης ταύτης ὃς εἶ.
ΟΙ.
Ὦ πρὸς θεῶν, πρὸς μητρὸς ἢ πατρός; Φράσον.
ΑΓ.
Οὐκ οἶδ᾿· ὁ δοὺς δὲ ταῦτ᾿ ἐμοῦ λῷον φρονεῖ.
ΟΙ.
Ἦ γὰρ παρ᾿ ἄλλου μ᾿ ἔλαβες οὐδ᾿ αὐτὸς τυχών;
ΑΓ.
Οὔκ, ἀλλὰ ποιμὴν ἄλλος ἐκδίδωσί μοι.
ΟΙ.
Τίς οὗτος; Ἦ κάτοισθα δηλῶσαι λόγῳ;
ΑΓ.
Τῶν Λαΐου δήπου τις ὠνομάζετο.
ΟΙ.
Ἦ τοῦ τυράννου τῆσδε γῆς πάλαι ποτέ;
ΑΓ.
Μάλιστα· τούτου τἀνδρὸς οὗτος ἦν βοτήρ.
ΟΙ.
Ἦ κἄστ᾿ ἔτι ζῶν οὗτος, ὥστ᾿ ἰδεῖν ἐμέ;
ΑΓ.
Ὑμεῖς γ᾿ ἄριστ᾿ εἰδεῖτ᾿ ἂν οὑπιχώριοι.
ΟΙ. Ἔστιν τις ὑμῶν τῶν παρεστώτων πέλας,
ὅστις κάτοιδε τὸν βοτῆρ᾿ ὃν ἐννέπει,
εἴτ᾿ οὖν ἐπ᾿ ἀγρῶν εἴτε κἀνθάδ᾿ εἰσιδών;
Σημήναθ᾿, ὡς ὁ καιρὸς ηὑρῆσθαι τάδε.
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ΧΟ. Οἶμαι μὲν οὐδέν᾿ ἄλλον ἢ τὸν ἐξ ἀγρῶν
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Terzo episodio, vv. 1035-1051
Edipo re
Edipo
Questa è un’onta tremenda: la devo alle mie fasce di neonato.
Messaggero
Di qui, da questo evento, deriva il nome che ancor oggi porti.
Edipo
Ma per gli dèi, chi è stato? Fu mio padre o mia madre?116 Devi
dirmelo.
Messaggero
Io non lo so. Ma chi ti ha dato a me lo saprà meglio.
Edipo
Dunque è da qualcun altro che mi hai avuto? Non mi hai trovato
tu?
Messaggero
No, fu un altro pastore a darti a me.
Edipo
E chi era quest’uomo? Sei in grado di indicarlo con chiarezza?
Messaggero
Lavorava per Laio: questo se ne sapeva.
Edipo
Quel Laio che era re di questa terra?
Messaggero
Sì, certo. Quell’uomo era un pastore al suo servizio.
Edipo
Quest’uomo è ancora vivo? E riuscirò a vederlo?
Messaggero
Voi che siete di qui, saprete meglio.
Edipo (al Coro)
C’è qualcuno fra voi, fra voi presenti,
che conosca il pastore di cui parla?
Qualcuno l’ha mai visto, qui, o in campagna?
Parlate. È tempo di scoprire tutto.
Coro
Credo che non intenda nessun altro
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Sofocle
ὃν κἀμάτευες πρόσθεν εἰσιδεῖν· ἀτὰρ
ἥδ᾿ ἂν τάδ᾿ οὐχ ἥκιστ᾿ ἂν Ἰοκάστη λέγοι.
ΟΙ. Γύναι, νοεῖς ἐκεῖνον ὅντιν᾿ ἀρτίως
μολεῖν ἐφιέμεσθα τόν θ᾿ οὗτος λέγει...
1055
ΙΟ. Τί δ᾿ ὅντιν᾿ εἶπε; Μηδὲν ἐντραπῇς· τὰ δὲ
ῥηθέντα βούλου μηδὲ μεμνῆσθαι μάτην.
ΟΙ. Οὐκ ἂν γένοιτο τοῦθ᾿, ὅπως ἐγὼ λαβὼν
σημεῖα τοιαῦτ᾿ οὐ φανῶ τοὐμὸν γένος.
ΙΟ. Μή, πρὸς θεῶν, εἴπερ τι τοῦ σαυτοῦ βίου
κήδῃ, ματεύσῃς τοῦθ᾿· ἅλις νοσοῦσ᾿ ἐγώ.
1060
ΟΙ. Θάρσει· σὺ μὲν γὰρ οὐδ᾿ ἐὰν τρίτης ἐγὼ
μητρὸς φανῶ τρίδουλος ἐκφανῇ κακή.
ΙΟ.
Ὅμως πιθοῦ μοι, λίσσομαι, μὴ δρᾶν τάδε.
ΟΙ.
Οὐκ ἂν πιθοίμην μὴ οὐ τάδ᾿ ἐκμαθεῖν σαφῶς.
ΙΟ.
Καὶ μὴν φρονοῦσά γ᾿ εὖ τὰ λῷστά σοι λέγω.
ΟΙ.
Τὰ λῷστα τοίνυν ταῦτά μ᾿ ἀλγύνει πάλαι.
ΙΟ.
Ὦ δύσποτμ᾿, εἴθε μήποτε γνοίης ὃς εἶ.
ΟΙ. Ἄξει τις ἐλθὼν δεῦρο τὸν βοτῆρά μοι;
Ταύτην δ᾿ ἐᾶτε πλουσίῳ χαίρειν γένει.
ΙΟ.
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1070
Ἰοὺ ἰού, δύστηνε· τοῦτο γάρ σ᾿ ἔχω
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Terzo episodio, vv. 1052-1071
Edipo re
se non l’uomo dei campi che anche prima
tu volevi vedere. Ma Giocasta, che è qui, può dirlo meglio.
Edipo
Donna, quell’uomo che un momento fa
volevamo chiamare, e l’uomo di cui parla, pensi che…
Giocasta
Ma che uomo? Che cosa? Lascia stare.
Non fare caso a tutte queste chiacchiere. È tutto tempo perso.
Edipo
Impossibile, questo. Ora che ho tanti indizi
io farò luce sulla mia famiglia.
Giocasta
No, in nome degli dèi, se la vita che vivi ti sta a cuore,
non indagare. Il mio dolore basta.
Edipo
Non ti perdere d’animo. Risultassi anche l’ultimo dei servi,
da tre generazioni, nessuno dirà mai che non sei nobile.
Giocasta
Ascoltami lo stesso, ti scongiuro: non farlo.
Edipo
No, non posso ascoltarti: non posso che sapere fino in fondo.
Giocasta
Ma io ti voglio bene: parlo per il tuo bene.
Edipo
Ma tutto questo bene mi ha seccato.
Giocasta
Spero che tu non sappia mai chi sei, tu, uomo disgraziato.
Edipo (ai servi)
Qualcuno vuole muoversi,
portarmi quel pastore? E quanto a lei, si goda pure la sua ricca
stirpe.
Giocasta
Infelice, infelice: non ho altro
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Sofocle
μόνον προσειπεῖν, ἄλλο δ᾿ οὔποθ᾿ ὕστερον.
ΧΟ. Τί ποτε βέβηκεν, Οἰδίπους, ὑπ᾿ ἀγρίας
ᾄξασα λύπης ἡ γυνή; Δέδοιχ᾿ ὅπως
μὴ ᾿κ τῆς σιωπῆς τῆσδ᾿ ἀναρρήξει κακά.
ΟΙ. Ὁποῖα χρῄζει ῥηγνύτω· τοὐμὸν δ᾿ ἐγώ,
κεἰ σμικρόν ἐστι, σπέρμ᾿ ἰδεῖν βουλήσομαι.
Αὕτη δ᾿ ἴσως, φρονεῖ γὰρ ὡς γυνὴ μέγα,
τὴν δυσγένειαν τὴν ἐμὴν αἰσχύνεται.
Ἐγὼ δ᾿ ἐμαυτὸν παῖδα τῆς Τύχης νέμων
τῆς εὖ διδούσης, οὐκ ἀτιμασθήσομαι.
Τῆς γὰρ πέφυκα μητρός· οἱ δὲ συγγενεῖς
μῆνές με μικρὸν καὶ μέγαν διώρισαν.
Τοιόσδε δ᾿ ἐκφὺς οὐκ ἂν ἐξέλθοιμ᾿ ἔτι
ποτ᾿ ἄλλος, ὥστε μὴ ᾿κμαθεῖν τοὐμὸν γένος.
ΧΟ. Εἴπερ ἐγὼ μάντις εἰμὶ καὶ κατὰ γνώμαν ἴδρις,
οὐ τὸν Ὄλυμπον ἀπείρων, ὦ Κιθαιρών, οὐκ ἔσῃ τὰν αὔριον
πανσέληνον μὴ οὐ σέ γε καὶ πατριώταν Οἰδίπου
καὶ τροφὸν καὶ ματέρ᾿ αὔξειν,
καὶ χορεύεσθαι πρὸς ἡμῶν ὡς ἐπίηρα φέροντα τοῖς ἐμοῖς τυράννοις.
Ἰήϊε Φοῖβε, σοὶ δὲ ταῦτ᾿ ἀρέστ᾿ εἴη.
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Terzo episodio, vv. 1072-1085; Terzo stasimo, vv. 1086-1096
Edipo re
da dirti. Altro, da me, non sentirai. (Giocasta esce)
Coro
Ma perché è andata via, Edipo, presa
da tanta disperata agitazione? Temo che il suo silenzio
sia destinato a esplodere in disgrazie.
Edipo
Esploda ciò che vuole! Ma il mio seme,
per infimo che sia, voglio conoscerlo.
Lei, si sa, pensa in grande, perché è donna:
che io sia nato plebeo la scandalizza.
Ma io mi sento figlio della Sorte,
della Sorte felice: di questo non potrò mai vergognarmi117.
La Sorte fu mia madre: e i miei fratelli,
i mesi che ho vissuto, hanno deciso
che io fossi umile e grande. È questa la mia nascita.
Non posso essere un altro. E perciò scoprirò di dove vengo.
TERZO STASIMO
Coro
Se io sono indovino, e se la mia
capacità d’intendere mi ispira,
in nome dell’Olimpo, tu, domani,
Citerone, saprai che il plenilunio
si leva a celebrarti
conterraneo di Edipo,
e sua balia, e sua madre118:
e sentirai per te le nostre danze,
per te, benefattore
di chi è nostro sovrano.
Apollo che dai pace, tu esaudiscici.
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Sofocle
Τίς σε, τέκνον, τίς σ᾿ ἔτικτε τᾶν μακραιώνων ἄρα,
Πανὸς ὀρεσσιβάτα
πατρὸς πελασθεῖσ᾿, ἢ σέ γ᾿ εὐνάτειρά τις
Λοξίου; Tῷ γὰρ πλάκες ἀγρόνομοι πᾶσαι φίλαι·
εἴθ᾿ ὁ Κυλλάνας ἀνάσσων,
εἴθ᾿ ὁ Βακχεῖος θεὸς
ναίων ἐπ᾿ ἄκρων ὀρέων
εὕρημα δέξατ᾿ ἔκ του
Νυμφᾶν ἑλικωπίδων, αἷς πλεῖστα συμπαίζει.
ΟΙ. Εἰ χρή τι κἀμὲ μὴ συναλλάξαντά πω,
πρέσβυ, σταθμᾶσθαι, τὸν βοτῆρ᾿ ὁρᾶν δοκῶ,
ὅνπερ πάλαι ζητοῦμεν· ἔν τε γὰρ μακρῷ
γήρᾳ ξυνᾴδει τῷδε τἀνδρὶ σύμμετρος,
ἄλλως τε τοὺς ἄγοντας ὥσπερ οἰκέτας
ἔγνωκ᾿ ἐμαυτοῦ· τῇ δ᾿ ἐπιστήμῃ σύ μου
προύχοις τάχ᾿ ἄν που, τὸν βοτῆρ᾿ ἰδὼν πάρος.
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1115
ΧΟ. Ἔγνωκα γάρ, σάφ᾿ ἴσθι· Λαΐου γὰρ ἦν
εἴπερ τις ἄλλος πιστὸς ὡς νομεὺς ἀνήρ.
ΟΙ. Σὲ πρῶτ᾿ ἐρωτῶ, τὸν Κορίνθιον ξένον·
ἦ τόνδε φράζεις;
ΑΓ.
Τοῦτον, ὅνπερ εἰσορᾷς.
1120
ΟΙ. Οὗτος σύ, πρέσβυ, δεῦρό μοι φώνει βλέπων
ὅσ᾿ ἄν σ᾿ ἐρωτῶ. Λαΐου ποτ᾿ ἦσθα σύ;
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Terzo stasimo, vv. 1097-1108; Quarto episodio, vv. 1110-1122
Edipo re
Chi, figlio, chi ti ha dato
la vita fra le ninfe sempre giovani
che vagano sui monti, unita al padre Pan?
O è stata una compagna dell’Ambiguo?119
Cari gli sono sempre i piani agresti.
O fu forse il signore di Cillene?120
O fu forse il dio bacchico
che abita in cima ai monti e che ti accolse
da una delle Ninfe occhi lucenti,
sue compagne di gioia?121
QUARTO EPISODIO
Edipo
Vecchio, se devo giudicare anch’io, che non l’ho mai incontrato,
è lui, credo, il pastore che da tanto
tempo stiamo cercando: è molto anziano
e la sua età si accorda esattamente
con l’età di quest’uomo. E riconosco i servi che lo guidano:
sì, sono servi miei. Ma tu puoi dirlo
meglio di me: hai già visto quel pastore.
Coro
E l’ho riconosciuto, stanne certo. Fra i pastori di Laio
quest’uomo era il suo servo più fedele. (Entra il Pastore)
Edipo
Lo chiedo a te per primo, straniero di Corinto:
era lui che intendevi?
Messaggero
Era lui: l’hai di fronte.
Edipo
E tu, vecchio, ora guardami, e rispondimi,
segui le mie domande122. Eri un uomo di Laio?
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Sofocle
ΘΕΡΑΠΩΝ
Ἦ, δοῦλος οὐκ ὠνητός, ἀλλ᾿ οἴκοι τραφείς.
ΟΙ.
Ἔργον μεριμνῶν ποῖον, ἢ βίον τίνα;
ΘΕ.
Ποίμναις τὰ πλεῖστα τοῦ βίου συνειπόμην.
ΟΙ.
Χώροις μάλιστα πρὸς τίσιν ξύναυλος ὤν;
ΘΕ.
Ἦν μὲν Κιθαιρών, ἦν δὲ πρόσχωρος τόπος.
ΟΙ.
Τὸν ἄνδρα τόνδ᾿ οὖν οἶσθα τῇδέ που μαθών;
ΘΕ.
Τί χρῆμα δρῶντα; Ποῖον ἄνδρα καὶ λέγεις;
ΟΙ.
Τόνδ᾿ ὃς πάρεστιν. Ἦ ξυνήλλάξας τί πω;
ΘΕ.
Οὐχ ὥστε γ᾿ εἰπεῖν ἐν τάχει μνήμης ὕπο.
ΑΓ. Κοὐδέν γε θαῦμα, δέσποτ᾿· ἀλλ᾿ ἐγὼ σαφῶς
ἀγνῶτ᾿ ἀναμνήσω νιν. Εὖ γὰρ οἶδ᾿ ὅτι
κάτοιδεν ἦμος τὸν Κιθαιρῶνος τόπον
ὁ μὲν διπλοῖσι ποιμνίοις, ἐγὼ δ᾿ ἑνὶ
ἐπλησίαζον τῷδε τἀνδρὶ τρεῖς ὅλους
ἐξ ἦρος εἰς ἀρκτοῦρον ἑκμήνους χρόνους·
χειμῶνα δ᾿ ἤδη τἀμά τ᾿ εἰς ἔπαυλ᾿ ἐγὼ
ἤλαυνον, οὗτός τ᾿ εἰς τὰ Λαΐου σταθμά.
Λέγω τι τούτων ἢ οὐ λέγω πεπραγμένον;
ΘΕ.
1125
1130
1135
1140
Λέγεις ἀληθῆ, καίπερ ἐκ μακροῦ χρόνου.
ΑΓ. Φέρ᾿ εἰπέ νυν, τότ᾿ οἶσθα παῖδά μοί τινα
δούς, ὡς ἐμαυτῷ θρέμμα θρεψαίμην ἐγώ;
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Quarto episodio, vv. 1123-1143
Edipo re
Servo
Ero suo servo, sì: cresciuto in casa sua, non comperato.
Edipo
E di quali faccende ti occupavi? Qual era la tua vita?
Servo
Gran parte della vita, io ho badato alle greggi.
Edipo
E dove, soprattutto? Dove stavi?
Servo
Ero sul Citerone, o nei paraggi.
Edipo
Quest’uomo lo conosci? Lo hai mai visto, lassù, da quelle parti?
Servo
Visto a far cosa? Di che uomo parli?
Edipo
Quest’uomo che hai di fronte. L’hai mai incontrato prima?
Servo
Forse, ma non so dire, su due piedi: non so se mi ricordo.
Messaggero
Normale, mio signore. Lui non mi riconosce,
ma io voglio aiutarlo a ricordare. Lo sa, ne sono certo:
fu là sul Citerone, lui portava
due greggi, io una soltanto,
e tre semestri interi abbiamo fatto, noi due, da primavera
fino all’autunno, quando sorge Arturo.
Per l’inverno io tornavo, con le greggi, alle mie stalle;
lui, ai recinti di Laio.
È vero quel che dico, o non è vero?
Servo
È vero. Ma è passato tanto tempo.
Messaggero
Di’, allora, ti ricordi che una volta
tu mi hai dato un bambino da allevare, come se fosse mio?
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Sofocle
ΘΕ.
Τί δ᾿ ἔστι; Πρὸς τί τοῦτο τοὖπος ἱστορεῖς;
ΑΓ.
Ὅδ᾿ ἐστίν, ὦ τᾶν, κεῖνος ὃς τότ᾿ ἦν νέος.
ΘΕ.
Οὐκ εἰς ὄλεθρον; Οὐ σιωπήσας ἔσῃ;
1145
ΟΙ. Ἆ, μὴ κόλαζε, πρέσβυ, τόνδ᾿, ἐπεὶ τὰ σὰ
δεῖται κολαστοῦ μᾶλλον ἢ τὰ τοῦδ᾿ ἔπη.
ΘΕ.
Τί δ᾿, ὦ φέριστε δεσποτῶν, ἁμαρτάνω;
ΟΙ.
Οὐκ ἐννέπων τὸν παῖδ᾿ ὃν οὗτος ἱστορεῖ.
ΘΕ.
Λέγει γὰρ εἰδὼς οὐδέν, ἀλλ᾿ ἄλλως πονεῖ.
ΟΙ.
Σὺ πρὸς χάριν μὲν οὐκ ἐρεῖς, κλαίων δ᾿ ἐρεῖς.
ΘΕ.
Μὴ δῆτα, πρὸς θεῶν, τὸν γέροντά μ᾿ αἰκίσῃ.
ΟΙ.
Οὐχ ὡς τάχος τις τοῦδ᾿ ἀποστρέψει χέρας;
ΘΕ.
Δύστηνος, ἀντὶ τοῦ; Τί προσχρῄζων μαθεῖν;
ΟΙ.
Τὸν παῖδ᾿ ἔδωκας τῷδ᾿ ὃν οὗτος ἱστορεῖ;
ΘΕ.
Ἔδωκ᾿, ὀλέσθαι δ᾿ ὤφελον τῇδ᾿ ἡμέρᾳ.
ΟΙ.
Ἀλλ᾿ εἰς τόδ᾿ ἥξεις μὴ λέγων γε τοὔνδικον.
ΘΕ.
Πολλῷ γε μᾶλλον, ἢν φράσω, διόλλυμαι.
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Quarto episodio, vv. 1144-1159
Edipo re
Servo
Cosa? E perché lo chiedi?
Messaggero
Eccolo, amico mio: quest’uomo è lui, che allora era un bambino.
Servo
Ma muori! Vuoi tacere?
Edipo
Vecchio, tu non offendere: sono le tue parole, non le sue, che
meritano offese.
Servo
Mio ottimo padrone, cos’ho fatto?
Edipo
Ti chiede di un bambino: e tu non parli.
Servo
Lui parla, e non sa nulla: tutta fatica vana.
Edipo
Visto che tu non parli con le buone, parlerai fra le lacrime.
Servo
Sono vecchio, perdio: non farmi male!
Edipo (ai servi)
Dunque, vogliamo muoverci? Gliele torciamo,
queste braccia, o no?
Servo
Povero me, perché? Cos’è che vuoi sapere?
Edipo
Il bambino che dice, gliel’hai dato?
Servo
Io gliel’ho dato, sì. E quel giorno dovevo essere morto.
Edipo
Morirai oggi, se non dici tutto.
Servo
Morirò molto peggio, se lo dico.
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Sofocle
ΟΙ.
Ἀνὴρ ὅδ᾿, ὡς ἔοικεν, εἰς τριβὰς ἐλᾷ.
ΘΕ.
Οὐ δῆτ᾿ ἔγωγ᾿, ἀλλ᾿ εἶπον ὡς δοίην πάλαι.
ΟΙ.
Πόθεν λαβών; Οἰκεῖον ἢ ᾿ξ ἄλλου τινός;
ΘΕ.
Ἐμὸν μὲν οὐκ ἔγωγ᾿. ἐδεξάμην δέ του.
ΟΙ.
Τίνος πολιτῶν τῶνδε κἀκ ποίας στέγης;
ΘΕ.
Μὴ πρὸς θεῶν, μή, δέσποθ᾿, ἱστόρει πλέον.
ΟΙ.
Ὄλωλας, εἴ σε ταῦτ᾿ ἐρήσομαι πάλιν.
ΘΕ.
Τῶν Λαΐου τοίνυν τις ἦν γεννημάτων.
ΟΙ.
Ἦ δοῦλος, ἢ κείνου τις ἐγγενὴς γεγώς;
ΘΕ.
Οἴμοι, πρὸς αὐτῷ γ᾿ εἰμὶ τῷ δεινῷ λέγειν.
ΟΙ.
Κἄγωγ᾿ ἀκούειν· ἀλλ᾿ ὅμως ἀκουστέον.
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1170
ΘΕ. Κείνου γέ τοι δὴ παῖς ἐκλῄζεθ᾿· ἡ δ᾿ ἔσω
κάλλιστ᾿ ἂν εἴποι σὴ γυνὴ τάδ᾿ ὡς ἔχει.
ΟΙ.
Ἦ γὰρ δίδωσιν ἥδε σοι;
ΘΕ.
ΟΙ.
Μάλιστ᾿, ἄναξ.
Ὡς πρὸς τί χρείας;
ΘΕ.
Ὡς ἀναλώσαιμί νιν.
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Quarto episodio, vv. 1160-1174
Edipo re
Edipo
Ha l’aria di volerla fare lunga, quest’uomo.
Servo
Ma no, te l’ho già detto: io gli ho dato il bambino.
Edipo
E dov’è che l’hai preso? Era di casa tua o di qualcun altro?
Servo
Mio no. Me l’hanno dato. Qualcun altro.
Edipo
Di chi era, fra questi cittadini? Da che casa veniva?
Servo
Signore, per gli dèi, férmati qui: non chiedere di più.
Edipo
Se mi tocca ripeterlo, sei morto.
Servo
Era un bambino nato in casa a Laio.
Edipo
Uno schiavo? O era nato dal suo sangue?
Servo
Povero me, ci sono: è questo ch’è terribile da dire.
Edipo
E per me da sentire. Ma io devo sentire.
Servo
Si diceva che fosse figlio suo. Ma la tua sposa è dentro:
e lei può dirlo meglio, come stanno le cose.
Edipo
È lei che te l’ha dato?
Servo
È lei, signore.
Edipo
E perché te l’ha dato?
Servo
Perché glielo ammazzassi.
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Sofocle
ΟΙ.
Τεκοῦσα τλήμων;
ΘΕ.
ΟΙ.
Θεσφάτων γ᾿ ὄκνῳ κακῶν.
Ποίων;
ΘΕ.
ΟΙ.
1175
Κτενεῖν νιν τοὺς τεκόντας ἦν λόγος.
Πῶς δῆτ᾿ ἀφῆκας τῷ γέροντι τῷδε σύ;
ΘΕ. Κατοικτίσας, ὦ δέσποθ᾿, ὡς ἄλλην χθόνα
δοκῶν ἀποίσειν, αὐτὸς ἔνθεν ἦν· ὁ δὲ
κάκ᾿ εἰς μέγιστ᾿ ἔσωσεν· εἰ γὰρ αὑτὸς εἶ
ὅν φησιν οὗτος, ἴσθι δύσποτμος γεγώς.
ΟΙ. Ἰοὺ ἰού· τὰ πάντ᾿ ἂν ἐξήκοι σαφῆ.
Ὦ φῶς, τελευταῖόν σε προσβλέψαιμι νῦν,
ὅστις πέφασμαι φύς τ᾿ ἀφ᾿ ὧν οὐ χρῆν, ξὺν οἷς
τ᾿ οὐ χρῆν ὁμιλῶν, οὕς τέ μ᾿ οὐκ ἔδει κτανών.
ΧΟ. Ἰὼ γενεαὶ βροτῶν,
ὡς ὑμᾶς ἴσα καὶ τὸ μηδὲν ζώσας ἐναριθμῶ.
Τίς γάρ, τίς ἀνὴρ πλέον
τᾶς εὐδαιμονίας φέρει
ἢ τοσοῦτον ὅσον δοκεῖν
καὶ δόξαντ᾿ ἀποκλῖναι;
Τὸν σόν τοι παράδειγμ᾿ ἔχων,
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Quarto episodio, vv. 1175-1185; Quarto stasimo, vv. 1186-1193
Edipo re
Edipo
Sua madre? E con che cuore?
Servo
Per paura di oracoli tremendi.
Edipo
Quali erano gli oracoli?
Servo
Si diceva che avrebbe ucciso i suoi.
Edipo
E perché tu l’hai dato a questo vecchio?
Servo
Ma per pietà, signore. Mi sono detto: lui
se lo porterà via, nel suo paese. Ma lui lo ha messo in salvo
perché soffrisse i mali più tremendi. E se tu sei davvero
l’uomo che dice lui, sappi che tu sei nato per soffrire.
Edipo
Tutto si avvera, è chiaro. Luce di questo giorno,
tu devi essere l’ultima mia luce. Ecco chi sono: nato
da chi non mi doveva generare. Vissuto accanto a chi non mi
doveva
vivere accanto. Chi non dovevo uccidere, io l’ho ucciso.
QUARTO STASIMO
Coro
Vite degli uomini una dopo l’altra
vi conto e siete pari
al nulla di una vita mai vissuta123.
Perché, dimmi, chi è l’uomo che è mai stato
felice più che un attimo,
un attimo per credersi felice
e cadere? Ora ho te davanti agli occhi,
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Sofocle
τὸν σὸν δαίμονα, τὸν σόν, ὦ
τλᾶμον Οἰδιπόδα, βροτῶν
οὐδὲν μακαρίζω·
ὅστις καθ᾿ ὑπερβολὰν
τοξεύσας ἐκράτησας τοῦ
πάντ᾿ εὐδαίμονος ὄλβου,
ὦ Ζεῦ, κατὰ μὲν φθίσας
τὰν γαμψώνυχα παρθένον
χρησμῳδόν, θανάτων δ᾿ ἐμᾷ
χώρᾳ πύργος ἀνέστας·
Ἐξ οὗ καὶ βασιλεὺς καλῇ
ἐμὸς καὶ τὰ μέγιστ᾿ ἐτιμάθης ταῖς μεγάλαισιν ἐν
Θήβαισιν ἀνάσσων.
Τανῦν δ᾿ ἀκούειν τίς ἀθλιώτερος;
†Tίς ἐν πόνοις, τίς ἄταις ἀγρίαις†
ξύνοικος ἀλλαγᾷ βίου;
Ἰὼ κλεινὸν Οἰδίπου κάρα,
ᾦ μέγας λιμὴν
αὑτὸς ἤρκεσεν
παιδὶ καὶ πατρὶ
θαλαμηπόλῳ πεσεῖν.
Πῶς ποτε πῶς ποθ᾿ αἱ πατρῷαί σ᾿ ἄλοκες φέρειν, τάλας,
σῖγ᾿ ἐδυνάθησαν ἐς τοσόνδε;
Ἐφηῦρέ σ᾿ ἄκονθ᾿ ὁ πάνθ᾿ ὁρῶν χρόνος·
δικάζει τὸν ἄγαμον γάμον πάλαι
τεκνοῦντα καὶ τεκνούμενον.
Ἰώ Λαΐειον ὦ τέκνον,
εἴθε σ᾿ εἴθε σε
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Quarto stasimo, vv. 1194-1217
Edipo re
ho il tuo destino, il tuo, davanti agli occhi,
Edipo disgraziato: e non so dire
felice nessun uomo.
Tu che eri il più potente, che hai mirato
e colpito, e tenuto fra le mani
la sorte più felice,
dio mio, tu che hai distrutto
la vergine dei canti,
la vergine dalle unghie d’avvoltoio, e ti sei alzato, tu,
torre contro la morte, per la mia
patria; e perciò ti chiamavamo nostro
sovrano e hai conosciuto onori senza
pari e hai regnato sulla grande Tebe.
E adesso chi può dirsi più infelice?
Chi in dolori selvaggi, chi vive in tanta pena,
rovesciata la vita […]124.
Oh caro, famosissimo
Edipo: un solo, immenso
porto, una sola stanza ha accolto il figlio
e il padre. Ma come hanno tollerato
tanto a lungo il silenzio questi solchi
giù aperti da tuo padre?
E il tempo ti ha trovato. Non volevi,
ma il tempo vede tutto125. E adesso giudica
queste tue nozze che non sono nozze,
dove da tanti anni il padre è il figlio,
il figlio è il padre126. E tu, figlio di Laio,
se non ti avessi mai
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Sofocle
μήποτ᾿ εἰδόμαν·
ὥς σ᾿ ὀδύρομαι
περίαλλ᾿ ἰὰν χέων
ἐκ στομάτων. Τὸ δ᾿ ὀρθὸν εἰπεῖν, ἀνέπνευσά τ᾿ ἐκ σέθεν
καὶ κατεκοίμησα τοὐμὸν ὄμμα.
ΕΞΑΓΓΕΛΟΣ
Ὦ γῆς μέγιστα τῆσδ᾿ ἀεὶ τιμώμενοι,
οἷ᾿ ἔργ᾿ ἀκούσεσθ᾿, οἷα δ᾿ εἰσόψεσθ᾿, ὅσον
δ᾿ ἀρεῖσθε πένθος, εἴπερ ἐγγενῶς ἔτι
τῶν Λαβδακείων ἐντρέπεσθε δωμάτων.
Οἶμαι γὰρ οὔτ᾿ ἂν Ἴστρον οὔτε Φᾶσιν ἂν
νίψαι καθαρμῷ τήνδε τὴν στέγην, ὅσα
κεύθει, τὰ δ᾿ αὐτίκ᾿ εἰς τὸ φῶς φανεῖ κακά,
ἑκόντα κοὐκ ἄκοντα· τῶν δὲ πημονῶν
μάλιστα λυποῦσ᾿ αἳ φανῶσ᾿ αὐθαίρετοι.
1220
1225
1230
ΧΟ. Λείπει μὲν οὐδ᾿ ἃ πρόσθεν ᾔδεμεν τὸ μὴ οὐ
βαρύστον᾿ εἶναι· πρὸς δ᾿ ἐκείνοισιν τί φῄς;
ΕΞ. Ὁ μὲν τάχιστος τῶν λόγων εἰπεῖν τε καὶ
μαθεῖν, τέθνηκε θεῖον Ἰοκάστης κάρα.
1235
ΧΟ. Ὢ δυστάλαινα, πρὸς τίνος ποτ᾿ αἰτίας;
ΕΞ. Αὐτὴ πρὸς αὑτῆς. Τῶν δὲ πραχθέντων τὰ μὲν
ἄλγιστ᾿ ἄπεστιν· ἡ γὰρ ὄψις οὐ πάρα.
Ὅμως δ᾿, ὅσον γε κἀν ἐμοὶ μνήμης ἔνι,
πεύσῃ τὰ κείνης ἀθλίας παθήματα.
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Quarto stasimo, vv. 1217-1222; Esodo, vv. 1223-1240
Edipo re
visto! Come ti piango,
come grida la mia
bocca127. Ma veramente
tu mi hai dato respiro
e tu mi hai chiuso gli occhi128.
ESODO
Messaggero
Voi, la gente più in vista del paese,
che cosa sentirete, ora, che cosa
vedrete, e quanto lutto avrete addosso, se ancora, per il sangue
che vi lega,
vi sta a cuore la casa dei Labdacidi.
Non basterebbe tutto un Istro, o un Fasi129,
credo, a lavare dall’impurità
questa casa, che tanto male ha dentro: e tanto male mostrerà
alla luce.
Mali voluti, non involontari: di tutte le disgrazie
dà più dolore ciò che si è voluto.
Coro
Non manca nulla a ciò che già sappiamo
per piangere, per sciogliere lamenti. Che cosa aggiungi ancora?
Messaggero
A dirlo basta un attimo, e a sentirlo:
la nostra splendida Giocasta è morta.
Coro
Giocasta, disgraziata! Com’è morta?
Messaggero
Da sola, per sua mano. Ma di ciò che è avvenuto
ti si risparmia il lato più penoso: tu non la puoi vedere130.
Ma per quanto mi è impresso nella mente
saprai cosa ha sofferto, l’infelice.
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Sofocle
Ὅπως γὰρ ὀργῇ χρωμένη παρῆλθ᾿ ἔσω
θυρῶνος, ἵετ᾿ εὐθὺ πρὸς τὰ νυμφικὰ
λέχη, κόμην σπῶσ᾿ ἀμφιδεξίοις ἀκμαῖς.
Πύλας δ᾿ ὅπως εἰσῆλθ᾿ ἐπιρράξασ᾿ ἔσω,
καλεῖ τὸν ἤδη Λάϊον πάλαι νεκρόν,
μνήμην παλαιῶν σπερμάτων ἔχουσ᾿, ὑφ᾿ ὧν
θάνοι μὲν αὐτός, τὴν δὲ τίκτουσαν λίποι
τοῖς οἷσιν αὐτοῦ δύστεκνον παιδουργίαν·
Γοᾶτο δ᾿ εὐνάς, ἔνθα δύστηνος διπλοῦς
ἐξ ἀνδρὸς ἄνδρα καὶ τέκν᾿ ἐκ τέκνων τέκοι.
Χὤπως μὲν ἐκ τῶνδ᾿ οὐκέτ᾿ οἶδ᾿ ἀπόλλυται·
Bοῶν γὰρ εἰσέπαισεν Οἰδίπους, ὑφ᾿ οὗ
οὐκ ἦν τὸ κείνης ἐκθεάσασθαι κακόν,
ἀλλ᾿ εἰς ἐκεῖνον περιπολοῦντ᾿ ἐλεύσσομεν·
Φοιτᾷ γὰρ ἡμᾶς ἔγχος ἐξαιτῶν πορεῖν,
γυναῖκά τ᾿ οὐ γυναῖκα, μητρῴαν δ᾿ ὅπου
κίχοι διπλῆν ἄρουραν οὗ τε καὶ τέκνων.
Λυσσῶντι δ᾿ αὐτῷ δαιμόνων δείκνυσί τις·
οὐδεὶς γὰρ ἀνδρῶν, οἳ παρῆμεν ἐγγύθεν.
Δεινὸν δ᾿ ἀΰσας, ὡς ὑφ’ἡγητοῦ τινος
πύλαις διπλαῖς ἐνήλατ᾿, ἐκ δὲ πυθμένων
ἔκλινε κοῖλα κλῇθρα, κἀμπίπτει στέγῃ·
οὗ δὴ κρεμαστὴν τὴν γυναῖκ᾿ ἐσείδομεν,
πλεκταῖς ἐώραις ἐμπεπλεγμένην· ὁ δέ,
ὅπως ὁρᾷ νιν, δεινὰ βρυχηθεὶς τάλας,
χαλᾷ κρεμαστὴν ἀρτάνην· ἐπεὶ δὲ γῇ
ἔκειτο τλήμων, δεινά γ᾿ἦν τἀνθένδ᾿ ὁρᾶν.
Ἀποσπάσας γὰρ εἱμάτων χρυσηλάτους
περόνας ἀπ᾿ αὐτῆς, αἷσιν ἐξεστέλλετο,
ἄρας ἔπαισεν ἄρθρα τῶν αὑτοῦ κύκλων,
αὐδῶν τοιαῦθ᾿, ὁθούνεκ᾿ οὐκ ὄψοιντό νιν
οὔθ᾿ οἷ᾿ ἔπασχεν οὔθ᾿ ὁποῖ᾿ ἔδρα κακά,
ἀλλ᾿ ἐν σκότῳ τὸ λοιπὸν οὓς μὲν οὐκ ἔδει
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Esodo, vv. 1241-1273
Edipo re
Era fuori di sé: varcata appena
la soglia si è gettata sul suo letto
di sposa; e si strappava via i capelli, con entrambe le mani;
entrata nella stanza, le porte chiuse a chiave,
chiama chi è morto ormai da tanto tempo,
Laio, e ricorda i loro antichi amori:
quelli che l’hanno ucciso e hanno lasciato
lei qui per generare ai propri figli
una prole degenere; piangeva il letto dove lei, infelice,
ha avuto dal suo sposo un altro sposo, dai suoi figli altri figli.
E dopo, come è morta, io non lo so:
Edipo è entrato urlando, era impossibile
stare a guardare lei, come soffriva;
guardammo tutti a lui, che andava intorno;
supplica che qualcuno gli dia un’arma131, chiede dov’è la sua
sposa, che non è sposa, ma terra che ha portato un doppio seme:
il suo e quello dei figli.
E lui è come impazzito: ed è un dio che gli ispira dove andare,
nessuno, di noi lì, gli ha detto nulla.
È come se qualcuno lo guidasse: terribilmente grida,
si getta sui battenti e strappa via
dai cardini i serrami e si precipita
dentro la stanza: e allora la vediamo, la regina impiccata,
prigioniera fra i nodi delle corde132; e come lui la vede,
disgraziato, dà un grido d’animale,
terribile; e poi scioglie quella corda
sospesa; e quando è a terra, l’infelice, ci attende uno spettacolo
tremendo: lui le strappa dalle vesti
le fibbie d’oro di cui si era ornata;
le alza; e si trafigge in fondo agli occhi
e grida: «non dovranno più vedere
tutto il male che ho fatto e che ho patito;
solo nel buio d’ora in poi vedranno
113
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Sofocle
ὀψοίαθ᾿, οὓς δ᾿ ἔχρῃζεν οὐ γνωσοίατο.
Τοιαῦτ᾿ ἐφυμνῶν πολλάκις τε κοὐχ ἅπαξ
ἤρασσ᾿ ἐπαίρων βλέφαρα, φοίνιαι δ᾿ ὁμοῦ
γλῆναι γένει᾿ ἔτεγγον, οὐδ᾿ ἀνίεσαν
φόνου μυδώσας σταγόνας, ἀλλ᾿ ὁμοῦ μέλας
ὄμβρος χαλαζῆς αἵματός †ἐτέγγετο†.
Τάδ᾿ ἐκ δυοῖν ἔρρωγεν οὐ μονούμενα,
ἀλλ᾿ ἀνδρὶ καὶ γυναικὶ συμμιγῆ κακά.
Ὁ πρὶν παλαιὸς δ᾿ ὄλβος ἦν πάροιθε μὲν
ὄλβος δικαίως· νῦν δὲ τῇδε θἠμέρᾳ
στεναγμός, ἄτη, θάνατος, αἰσχύνη, κακῶν
ὅσ᾿ ἐστὶ πάντων ὀνόματ᾿, οὐδέν ἐστ᾿ ἀπόν.
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1280
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ΧΟ. Νῦν δ᾿ ἔσθ᾿ ὁ τλήμων ἔν τινι σχολῇ κακοῦ;
ΕΞ. Βοᾷ διοίγειν κλῇθρα καὶ δηλοῦν τινα
τοῖς πᾶσι Καδμείοισι τὸν πατροκτόνον,
τὸν μητρὸς - αὐδῶν ἀνόσι᾿ οὐδὲ ῥητά μοι,
ὡς ἐκ χθονὸς ῥίψων ἑαυτόν, οὐδ᾿ ἔτι
μενῶν δόμοις ἀραῖος ὡς ἠράσατο.
Ῥώμης γε μέντοι καὶ προηγητοῦ τινος
δεῖται· τὸ γὰρ νόσημα μεῖζον ἢ φέρειν.
Δείξει δὲ καὶ σοί· κλῇθρα γὰρ πυλῶν τάδε
διοίγεται· θέαμα δ᾿ εἰσόψει τάχα
τοιοῦτον οἷον καὶ στυγοῦντ᾿ ἐποικτίσαι.
ΧΟ. Ὦ δεινὸν ἰδεῖν πάθος ἀνθρώποις,
ὦ δεινότατον πάντων ὅσ᾿ ἐγὼ
προσέκυρσ᾿ ἤδη· τίς σ᾿, ὦ τλῆμον,
προσέβη μανία; Τίς ὁ πηδήσας
μείζονα δαίμων τῶν μακίστων
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Esodo, vv. 1274-1301
Edipo re
coloro che vedere non dovevo; non riconosceranno
coloro che volevo riconoscere!».
Così imprecava: e molte, molte volte
trapassava le palpebre levate, e intanto le sue orbite grondavano
sangue lungo le guance: e no, non era
sangue stillato a gocce, ma una scura
pioggia di sangue, a grandine, scorreva133.
E doppia è la disgrazia che ora esplode, non tocca uno soltanto134:
tocca marito e moglie, in pari tempo.
Ancora ieri era fortuna vera
quell’antica fortuna: ma oggi è pianto,
rovina, morte, infamia; e di tutti i dolori che hanno un nome
nessuno manca.
Coro
E adesso, il disgraziato, ha qualche pace?
Messaggero
Grida che si spalanchino le porte, che si faccia vedere a tutto
il popolo
di Cadmo chi ha ammazzato il proprio padre,
chi sua madre ha… ma dice cose orrende, che non posso ripetere135.
Vuole cacciarsi via da questa terra, non rimanere qui,
maledizione per le proprie case, poiché si è maledetto;
ma gli serve qualcuno che lo aiuti, qualcuno che lo guidi:
il male è troppo forte per poterlo
sopportare. Ma lo vedrai tu stesso: le porte della casa
si aprono. Ciò che vedrai fra un attimo
farebbe impietosire anche chi l’odia. (Edipo entra)
Coro
Sofferenza tremenda da vedere
per un uomo: nessuna più tremenda
fra quante io ne ho incontrate. Che pazzia
ti ha preso, disgraziato? Che dio ha sferrato un colpo
più forte d’ogni colpo
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Sofocle
πρὸς σῇ δυσδαίμονι μοίρᾳ;
Φεῦ φεῦ, δύστην᾿· ἀλλ᾿ οὐδ᾿ ἐσιδεῖν
δύναμαί σε, θέλων πόλλ᾿ ἀνερέσθαι,
πολλὰ πυθέσθαι, πολλὰ δ᾿ ἀθρῆσαι·
τοίαν φρίκην παρέχεις μοι.
ΟΙ. Αἰαῖ, αἰαῖ, δύστανος ἐγώ,
ποῖ γᾶς φέρομαι τλάμων; Πᾳ῀ μοι
φθογγὰ διαπωτᾶται φοράδαν;
Ἰὼ δαῖμον, ἵν᾿ ἐξήλου.
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ΧΟ. Ἐς δεινὸν, οὐκ ἀκουστὸν οὐδ᾿ ἐπόψιμον.
ΟΙ. Ἰὼ σκότου
νέφος ἐμὸν ἀπότροπον, ἐπιπλόμενον ἄφατον,
ἀδάματόν τε καὶ δυσούριστον <–>.
Οἴμοι,
οἴμοι μάλ᾿ αὖθις· οἷον εἰσέδυ μ᾿ ἅμα
κέντρων τε τῶνδ᾿ οἴστρημα καὶ μνήμη κακῶν.
ΧΟ. Καὶ θαῦμά γ᾿ οὐδὲν ἐν τοσοῖσδε πήμασιν
διπλᾶ σε πενθεῖν καὶ διπλᾶ φρονεῖν κακά.
ΟΙ. Ἰὼ φίλος,
σὺ μὲν ἐμὸς ἐπίπολος ἔτι μόνιμος· ἔτι γὰρ
ὑπομένεις με τὸν τυφλὸν κηδεύων.
Φεῦ φεῦ·
οὐ γάρ με λήθεις, ἀλλὰ γιγνώσκω σαφῶς,
καίπερ σκοτεινός, τήν γε σὴν αὐδὴν ὅμως.
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ΧΟ. Ὦ δεινὰ δράσας, πῶς ἔτλης τοιαῦτα σὰς
ὄψεις μαρᾶναι; Τίς σ᾿ ἐπῆρε δαιμόνων;
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Esodo, vv. 1302-1328
Edipo re
contro questa tua vita d’infelice?
Uomo pietoso, no, non so nemmeno
guardarti: e vorrei chiederti, vorrei
sapere, vorrei tanto interrogarti –
ma mi fai troppo orrore.
Edipo
Io, misero che sono,
dove mi trovo, disgraziato? Dove
si perde la mia voce in questo vuoto?
Vita, fino a che punto mi hai portato!
Coro
Fino a un punto tremendo. Non ti posso guardare, né ascoltare.
Edipo
Nube di buio orrenda,
da distogliere gli occhi: qui vicina,
indicibile, troppo
forte, nube di vento che ora infuria:
infelice, infelice, quanto a fondo
penetra in me il dolore
di tutte queste spine, e il ricordo del male che ho commesso.
Coro
Nessuna meraviglia, di fronte a tante pene,
se soffri un doppio male, se pensi a un doppio male.
Edipo
Amico mio, tu resti
fedele accanto a me:
tu resti e questo cieco ti sta a cuore.
Io me ne accorgo, sì,
io riconosco, chiara
– nel buio dove vivo – almeno la tua voce.
Coro
Che cos’hai fatto, come hai potuto spegnere i tuoi occhi?
Che dio ti ha spinto a questo?
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Sofocle
ΟΙ. Ἀπόλλων τάδ᾿ ἦν, Ἀπόλλων, φίλοι,
ὁ κακὰ κακὰ τελῶν ἐμὰ τάδ᾿ ἐμὰ πάθεα.
Ἔπαισε δ᾿ αὐτόχειρ νιν οὔτις ἀλλ᾿ ἐγὼ τλάμων.
Τί γὰρ ἔδει μ᾿ ὁρᾶν,
ὅτῳ γ᾿ ὁρῶντι μηδὲν ἦν ἰδεῖν γλυκύ;
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ΧΟ. Ἦν ταῦθ᾿ ὅπωσπερ καὶ σὺ φῄς.
ΟΙ. Τί δῆτ᾿ ἐμοὶ βλεπτὸν ἦν
στερκτόν, ἢ προσήγορον
ἔτ᾿ ἔστ᾿ ἀκούειν ἡδονᾷ, φίλοι;
Ἀπάγετ᾿ ἐκτόπιον ὅτι τάχιστά με,
ἀπάγετ᾿, ὦ φίλοι, τὸν μέγ᾿ ὀλέθριον,
τὸν καταρατότατον, ἔτι δὲ καὶ θεοῖς
ἐχθρότατον βροτῶν.
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ΧΟ. Δείλαιε τοῦ νοῦ τῆς τε συμφορᾶς ἴσον,
ὥς σ᾿ ἠθέλησα μηδαμὰ γνῶναί ποτ᾿ ἄν.
ΟΙ. Ὄλοιθ᾿ ὅστις ἦν ὃς ἀγρίας πέδας
νομὰς ἐπιποδίας ἔλαβέ μ᾿ ἀπό τε φόνου
ἔρυτο κἀνέσωσεν, οὐδὲν εἰς χάριν πράσσων.
Τότε γὰρ ἂν θανὼν
οὐκ ἦ φίλοισιν οὐδ᾿ ἐμοὶ τοσόνδ᾿ ἄχος.
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ΧΟ. Θέλοντι κἀμοὶ τοῦτ᾿ ἂν ἦν.
ΟΙ. Οὔκουν πατρός γ᾿ ἂν φονεὺς
ἦλθον, οὐδὲ νυμφίος
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Esodo, vv. 1329-1358
Edipo re
Edipo
Apollo, è stato Apollo, amici miei,
che ha compiuto il mio male, il mio dolore!
Ma nessuno ha colpito: io sono stato,
io, infelice136. Perché vedere ancora
se tutto ciò che vedo mi fa male?
Coro
È stato come dici.
Edipo
Cosa potevo ancora
guardare con amore? E quale voce
potevo intendere con gioia, amici?
Ma portatemi via, fatelo in fretta,
via di qui, amici miei: io non sono che morte,
morte e maledizione,
nessuno più di me è odioso agli dèi.
Coro
Mi fai pena per tutto ciò che sai, come per tutto ciò che ti è
successo:
e vorrei non averti conosciuto.
Edipo
E muoia, chiunque sia, quel vagabondo
pastore che mi ha tolto dalle dure
catene strette ai piedi, e mi ha salvato, mi ha sottratto alla morte137,
senza farmi alcun bene:
se fossi morto allora
non avrei fatto tanto male ai miei, tanto male a me stesso.
Coro
Fosse andata così: lo vorrei anch’io.
Edipo
Io non avrei finito per uccidere
mio padre, e non direbbero di me
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Sofocle
βροτοῖς ἐκλήθην ὧν ἔφυν ἄπο.
Νῦν δ᾿ ἄθεος μέν εἰμ᾿, ἀνοσίων δὲ παῖς,
ὁμογενὴς δ᾿ ἀφ᾿ ὧν αὐτὸς ἔφυν τάλας.
Εἰ δέ τι πρεσβύτερον ἔτι κακοῦ κακόν,
τοῦτ᾿ ἔλαχ᾿ Οἰδίπους.
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ΧΟ. Οὐκ οἶδ᾿ ὅπως σε φῶ βεβουλεῦσθαι καλῶς.
Κρείσσων γὰρ ἦσθα μηκέτ᾿ ὢν ἢ ζῶν τυφλός.
ΟΙ. Ὡς μὲν τάδ᾿ οὐχ ὧδ᾿ ἔστ᾿ ἄριστ᾿ εἰργασμένα,
μή μ᾿ ἐκδίδασκε, μηδὲ συμβούλευ᾿ ἔτι.
Ἐγὼ γὰρ οὐκ οἶδ᾿ ὄμμασιν ποίοις βλέπων
πατέρα ποτ᾿ ἂν προσεῖδον εἰς Ἅιδου μολών,
οὐδ᾿ αὖ τάλαιναν μητέρ᾿, οἷν ἐμοὶ δυοῖν
ἔργ᾿ ἐστὶ κρείσσον᾿ ἀγχόνης εἰργασμένα.
Ἀλλ᾿ ἡ τέκνων δῆτ᾿ ὄψις ἦν ἐφίμερος,
βλαστοῦσ᾿ ὅπως ἔβλαστε, προσλεύσσειν ἐμοί;
Οὐ δῆτα τοῖς γ᾿ ἐμοῖσιν ὀφθαλμοῖς ποτε·
οὐδ᾿ ἄστυ γ᾿, οὐδὲ πύργος, οὐδὲ δαιμόνων
ἀγάλμαθ᾿ ἱερά, τῶν ὁ παντλήμων ἐγὼ
κάλλιστ᾿ ἀνὴρ εἷς ἔν γε ταῖς Θήβαις τραφεὶς
ἀπεστέρησ᾿ ἐμαυτόν, αὐτὸς ἐννέπων
ὠθεῖν ἅπαντας τὸν ἀσεβῆ, τὸν ἐκ θεῶν
φανέντ᾿ ἄναγνον καὶ γένους τοῦ Λαΐου.
Τοιάνδ᾿ ἐγὼ κηλῖδα μηνύσας ἐμὴν
ὀρθοῖς ἔμελλον ὄμμασιν τούτους ὁρᾶν;
Ἥκιστά γ᾿· ἀλλ᾿ εἰ τῆς ἀκουούσης ἔτ᾿ ἦν
πηγῆς δι᾿ ὤτων φαργμός, οὐκ ἂν ἐσχόμην
τὸ μὴ ἀποκλῇσαι τοὐμὸν ἄθλιον δέμας,
ἵν᾿ ἦ τυφλός τε καὶ κλύων μηδέν· τὸ γὰρ
τὴν φροντίδ᾿ ἔξω τῶν κακῶν οἰκεῖν γλυκύ.
Ἰὼ Κιθαιρών, τί μ᾿ ἐδέχου; Τί μ᾿ οὐ λαβὼν
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Esodo, vv. 1359-1391
Edipo re
che io ho sposato mia madre.
Ora non ho più dèi, ora sono figlio
di genitori impuri, seme confuso al seme di mio padre138.
Se c’è un male più antico, un male oltre ogni male,
Edipo l’ha provato.
Coro
Io non posso assentire a ciò che hai fatto:
era meglio che tu non fossi più; meglio che essere cieco.
Edipo
Non ho fatto ciò che era meglio fare?
Non darmi altri consigli, niente prediche.
Io non so con che occhi avrei potuto
sostenere la vista di mio padre, la vista di mia madre,
disgraziata, se fossi sceso all’Ade. A entrambi ho dato tanto
dolore che impiccarsi è troppo poco.
O dovevo aver voglia di vedere, di fronte a me, i miei figli,
quei figli nati come sono nati?
No, mai una vista simile, ai miei occhi.
E non questa città, non queste mura, non queste sacre immagini
divine: tutto questo ora mi è tolto,
io stesso l’ho deciso: io che ora sono l’uomo più infelice,
io ch’ero nato a Tebe e, fra i Tebani, ero l’uomo più grande.
L’ho detto io: cacciate via il colpevole; l’uomo che ora gli dèi
mostrano a tutti impuro; uomo nato da Laio.
Se così ho denunciato la mia infamia,
potevo mai guardare a testa alta
questa gente? Ma no. E se avessi mai
potuto soffocare anche la fonte
d’ogni suono, qui, in fondo alle mie orecchie,
io l’avrei fatto: per murare il mio corpo disgraziato,
cieco e sordo a ogni cosa. Perché è dolce
segregarsi e sottrarsi a ogni dolore.
Citerone, perché mi hai dato casa? Perché non mi hai ammazzato
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Sofocle
ἔκτεινας εὐθύς, ὡς ἔδειξα μήποτε
ἐμαυτὸν ἀνθρώποισιν ἔνθεν ἦ γεγώς;
Ὦ Πόλυβε καὶ Κόρινθε καὶ τὰ πάτρια
λόγῳ παλαιὰ δώμαθ᾿, οἷον ἆρά με
κάλλος κακῶν ὕπουλον ἐξεθρέψατε·
νῦν γὰρ κακός τ᾿ ὢν κἀκ κακῶν εὑρίσκομαι.
Ὦ τρεῖς κέλευθοι καὶ κεκρυμμένη νάπη,
δρυμός τε καὶ στενωπὸς ἐν τριπλαῖς ὁδοῖς,
αἳ τοὐμὸν αἷμα τῶν ἐμῶν χειρῶν ἄπο
ἐπίετε πατρός, ἆρά μου μέμνησθ᾿ ἔτι,
οἷ᾿ ἔργα δράσας ὑμίν, εἶτα δεῦρ᾿ ἰὼν
ὁποῖ᾿ ἔπρασσον αὖθις; Ὦ γάμοι, γάμοι,
ἐφύσαθ᾿ ἡμᾶς, καὶ φυτεύσαντες πάλιν
ἀνεῖτε ταὐτὸν σπέρμα, κἀπεδείξατε
πατέρας, ἀδελφούς, παῖδας, αἷμ᾿ ἐμφύλιον,
νύμφας γυναῖκας μητέρας τε, χὠπόσα
αἴσχιστ᾿ ἐν ἀνθρώποισιν ἔργα γίγνεται.
Ἀλλ᾿, οὐ γὰρ αὐδᾶν ἔσθ᾿ ἃ μηδὲ δρᾶν καλόν,
ὅπως τάχιστα, πρὸς θεῶν, ἔξω μέ που
[καλύψατ᾿, ἢ φονεύσατ᾿, ἢ θαλάσσιον]
ἐκρίψατ᾿, ἔνθα μήποτ᾿ εἰσόψεσθ᾿ ἔτι.
Ἴτ᾿, ἀξιώσατ᾿ ἀνδρὸς ἀθλίου θιγεῖν·
πίθεσθε, μὴ δείσητε· τἀμὰ γὰρ κακὰ
οὐδεὶς οἷός τε πλὴν ἐμοῦ φέρειν βροτῶν.
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ΧΟ. Ἀλλ᾿ ὧν ἐπαιτεῖς ἐς δέον πάρεσθ᾿ ὅδε
Κρέων τὸ πράσσειν καὶ τὸ βουλεύειν, ἐπεὶ
χώρας λέλειπται μοῦνος ἀντὶ σοῦ φύλαξ.
ΟΙ. Οἴμοι, τί δῆτα λέξομεν πρὸς τόνδ᾿ ἔπος;
Τίς μοι φανεῖται πίστις ἔνδικος; Τὰ γὰρ
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Esodo, vv. 1392-1420
Edipo re
subito, appena accolto? Non avrei
mai rivelato agli uomini la mia
vera origine. Polibo, Corinto, case d’un tempo, case
che immaginavo mie, quanta bellezza, quanto segreto orrore
voi nutrivate in me! Tutti ora vedono la mia miseria,
la miseria di chi mi ha generato.
Incrocio di tre strade, valle oscura,
querceto, crocevia di tre cammini,
voi che avete bevuto dalle mie
mani il mio sangue, il sangue di mio padre, dite: vi ricordate
che cosa ho fatto lì, di fronte a voi, che cosa ho fatto qui
quando sono arrivato? Nozze, nozze,
siete voi che mi avete generato: mi avete generato, e un’altra volta
mi avete dato frutto dallo stesso
seme: e mostrato al mondo padri, figli, fratelli, sangue identico139,
ragazze
che erano madri e mogli, e tutto ciò
che fa più orrore agli uomini.
Ma dare un nome a ciò che è male compiere,
questo è vietato; in nome degli dèi, presto, trovate un luogo
[dove io possa nascondermi; o ammazzatemi, o gettatemi a mare140],
dove non mi possiate più vedere.
Venite qui: toccate questo corpo
d’uomo che soffre, avanti, non temete141; nessuno, a questo
mondo,
può sopportare tutti i miei dolori; nessuno, tranne me.
Coro
Ecco chi serve per le tue preghiere: Creonte sta arrivando;
è il solo che può fare, può decidere: lui che è rimasto il solo
custode del paese, al posto tuo. (Entra Creonte)
Edipo
Povero me, che cosa posso dirgli?
Come posso sperare che si fidi? Quanto a ciò che è accaduto
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Sofocle
πάρος πρὸς αὐτὸν πάντ᾿ ἐφηύρημαι κακός.
ΚΡ. Οὐχ ὡς γελαστής, Οἰδίπους, ἐλήλυθα,
οὐδ᾿ ὡς ὀνειδιῶν τι τῶν πάρος κακῶν.
Ἀλλ᾿ εἰ τὰ θνητῶν μὴ καταισχύνεσθ᾿ ἔτι
γένεθλα, τὴν γοῦν πάντα βόσκουσαν φλόγα
αἰδεῖσθ᾿ ἄνακτος Ἡλίου, τοιόνδ᾿ ἄγος
ἀκάλυπτον οὕτω δεικνύναι, τὸ μήτε γῆ
μήτ᾿ ὄμβρος ἱερὸς μήτε φῶς προσδέξεται.
Ἀλλ᾿ ὡς τάχιστ᾿ ἐς οἶκον ἐσκομίζετε·
τοῖς ἐν γένει γὰρ τἀγγενῆ μάλισθ᾿ ὁρᾶν
μόνοις τ᾿ ἀκούειν εὐσεβῶς ἔχει κακά.
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ΟΙ. Πρὸς θεῶν, ἐπείπερ ἐλπίδος μ᾿ ἀπέσπασας,
ἄριστος ἐλθὼν πρὸς κάκιστον ἄνδρ᾿ ἐμέ,
πιθοῦ τί μοι· πρὸς σοῦ γάρ, οὐδ᾿ ἐμοῦ, φράσω.
ΚΡ.
Καὶ τοῦ με χρείας ὧδε λιπαρεῖς τυχεῖν;
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ΟΙ. Ῥῖψόν με γῆς ἐκ τῆσδ᾿ ὅσον τάχισθ᾿, ὅπου
θνητῶν φανοῦμαι μηδενὸς προσήγορος.
ΚΡ. Ἔδρασ᾿ ἄν, εὖ τοῦτ᾿ ἴσθ᾿ ἄν, εἰ μὴ τοῦ θεοῦ
πρώτιστ᾿ ἔχρῃζον ἐκμαθεῖν τί πρακτέον.
ΟΙ. Ἀλλ᾿ ἥ γ᾿ ἐκείνου πᾶσ᾿ ἐδηλώθη φάτις,
τὸν πατροφόντην, τὸν ἀσεβῆ μ᾿ ἀπολλύναι.
1440
ΚΡ. Οὕτως ἐλέχθη ταῦθ᾿· ὅμως δ᾿, ἵν᾿ ἕσταμεν
χρείας, ἄμεινον ἐκμαθεῖν τί δραστέον.
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Esodo, vv. 1421-1443
Edipo re
fra noi due,
è chiaro: ho avuto torto, solo torto.
Creonte
Non sono qui per ridere di te, Edipo, né ti voglio
rimproverare le passate offese142.
Ma voi, se non avete alcun rispetto
per gli uomini, temete almeno il fuoco
che a tutto dà la vita; temete il sacro Sole, se lasciate
qui in vista, chiaro a tutti, questo mostro
che nessuno sopporta: né la terra,
né la pioggia, né il giorno. Ma portatelo dentro, fate presto:
solo ai parenti è lecito vedere
e sentire i dolori di un parente.
Edipo
Ora tu mi sollevi dall’angoscia
e sei qui, tu, il migliore degli uomini, di fronte a me, il peggiore;
perciò ascoltami, in nome degli dèi; parlo nel tuo interesse, non
nel mio.
Creonte
Cosa mi stai chiedendo? Qual è il tuo desiderio?
Edipo
Gettami fuori dal paese, subito,
dove nessuno mi potrà parlare.
Creonte
L’avrei già fatto, sappilo; ma prima
ho preferito consultare il dio, chiedergli cosa fare.
Edipo
Ma il suo oracolo è chiaro, fino in fondo:
uccidere l’impuro, il parricida; ed è questo che io sono.
Creonte
È vero, è ciò che ha detto. Ma in queste circostanze,
meglio sapere come comportarsi.
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Sofocle
ΟΙ.
Οὕτως ἄρ᾿ ἀνδρὸς ἀθλίου πεύσεσθ᾿ ὕπερ;
ΚΡ.
Καὶ γὰρ σὺ νῦν τἂν τῷ θεῷ πίστιν φέροις.
ΟΙ. Καὶ σοί γ᾿ ἐπισκήπτω τε καὶ προστρέψομαι·
τῆς μὲν κατ᾿ οἴκους αὐτὸς ὃν θέλεις τάφον
θοῦ· καὶ γὰρ ὀρθῶς τῶν γε σῶν τελεῖς ὕπερ·
ἐμοῦ δὲ μήποτ᾿ ἀξιωθήτω τόδε
πατρῷον ἄστυ ζῶντος οἰκητοῦ τυχεῖν,
ἀλλ᾿ ἔα με ναίειν ὄρεσιν, ἔνθα κλῄζεται
οὑμὸς Κιθαιρὼν οὗτος, ὃν μήτηρ τέ μοι
πατήρ τ᾿ ἐθέσθην ζῶντε κύριον τάφον,
ἵν᾿ ἐξ ἐκείνων, οἵ μ᾿ ἀπωλλύτην, θάνω.
Καίτοι τοσοῦτόν γ᾿ οἶδα, μήτε μ᾿ ἂν νόσον
μήτ᾿ ἄλλο πέρσαι μηδέν· οὐ γὰρ ἄν ποτε
θνῄσκων ἐσώθην, μὴ ᾿πί τῳ δεινῷ κακῷ.
Ἀλλ᾿ ἡ μὲν ἡμῶν μοῖρ᾿ ὅπῃπερ εἶσ᾿ ἴτω·
παίδων δὲ τῶν μὲν ἀρσένων μή μοι, Κρέον,
προσθῇ μέριμναν· ἄνδρες εἰσίν, ὥστε μὴ
σπάνιν ποτὲ σχεῖν, ἔνθ᾿ ἂν ὦσι, τοῦ βίου·
τοῖν δ᾿ ἀθλίαιν οἰκτραῖν τε παρθένοιν ἐμαῖν,
οἷν οὔποθ᾿ ἡμὴ χωρὶς ἐστάθη βορᾶς
τράπεζ᾿ ἄνευ τοῦδ᾿ ἀνδρός, ἀλλ᾿ ὅσων ἐγὼ
ψαύοιμι, πάντων τῶνδ᾿ ἀεὶ μετειχέτην·
τοῖν μοι μέλεσθαι· καὶ μάλιστα μὲν χεροῖν
ψαῦσαί μ᾿ ἔασον κἀποκλαύσασθαι κακά.
Ἴθ᾿, ὦναξ,
ἴθ᾿, ὦ γονῇ γενναῖε· χερσί τἂν θιγὼν
δοκοῖμ᾿ ἔχειν σφᾶς, ὥσπερ ἡνίκ᾿ ἔβλεπον.
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Esodo, vv. 1444-1470
Edipo re
Edipo
Per questo pover’uomo chiedi al dio?
Creonte
Certo. Adesso anche tu gli crederai.
Edipo
Certo. Ma questo ti ordino, di questo
voglio pregarti143: a quella donna, in casa, da’ tu una tomba,
la tomba che tu vuoi. È giusto, è del tuo sangue: sei tu che devi farlo.
Quanto a me, finché vivo, che non debba
considerarmi mai suo cittadino, questa città che è stata dei miei
padri144;
lascia che io viva là, sulle montagne; sul Citerone che si dice mio,
che mia madre e mio padre, ancora vivi,
mi scelsero per tomba: ed era giusto.
Così potrò morire come loro
volevano. Nessuna malattia,
niente mi può distruggere, lo so; altrimenti non mi sarei salvato
mentre stavo morendo: ma dovevo
restare in vita, destinato a qualche
male orribile. Questa è la mia sorte. E vada come deve.
Fra i miei figli, dei maschi non curarti,
Creonte: sono uomini, sapranno
come fare per vivere, dovunque
si trovino. Ma queste due ragazze,
queste due disgraziate – fanno pena: loro che alla mia tavola
sedevano
sempre accanto al mio posto, in mia presenza; loro che dividevano
sempre con me il mio cibo – abbine cura:
e soprattutto lascia che io le tocchi,
che io pianga i miei dolori insieme a loro.
Ti prego, mio signore,
ti prego, nobilissimo: mi basta
toccarle e sarà come averle ancora, sarà come vederle.
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Sofocle
Τί φημί;
Οὐ δὴ κλύω που, πρὸς θεῶν, τοῖν μοι φίλοιν
δακρυρροούντοιν, καί μ᾿ ἐποικτίρας Κρέων
ἔπεμψέ μοι τὰ φίλτατ᾿ ἐκγόνοιν ἐμοῖν;
Λέγω τι;
ΚΡ. Λέγεις· ἐγὼ γάρ εἰμ᾿ ὁ πορσύνας τάδε,
γνοὺς τὴν παροῦσαν τέρψιν ἥ σ᾿ εἶχεν πάλαι.
ΟΙ. Ἀλλ᾿ εὐτυχοίης, καί σε τῆσδε τῆς ὁδοῦ
δαίμων ἄμεινον ἢ ᾿μὲ φρουρήσας τύχοι.
Ὦ τέκνα, ποῦ ποτ᾿ ἐστέ; Δεῦρ᾿ ἴτ᾿, ἔλθετε
ὡς τὰς ἀδελφὰς τάσδε τὰς ἐμὰς χέρας,
αἳ τοῦ φυτουργοῦ πατρὸς ὑμὶν ὧδ᾿ ὁρᾶν
τὰ πρόσθε λαμπρὰ προυξένησαν ὄμματα,
ὃς ὑμίν, ὦ τέκν᾿, οὔθ᾿ ὁρῶν οὔθ᾿ ἱστορῶν,
πατὴρ ἐφάνθην ἔνθεν αὐτὸς ἠρόθην.
Καὶ σφὼ δακρύω, προσβλέπειν γὰρ οὐ σθένω,
νοούμενος τὰ λοιπὰ τοῦ πικροῦ βίου,
οἷον βιῶναι σφὼ πρὸς ἀνθρώπων χρεών.
Ποίας γὰρ ἀστῶν ἥξετ᾿ εἰς ὁμιλίας,
ποίας δ᾿ ἑορτάς, ἔνθεν οὐ κεκλαυμέναι
πρὸς οἶκον ἵξεσθ᾿ ἀντὶ τῆς θεωρίας;
Ἀλλ᾿ ἡνίκ᾿ ἂν δὴ πρὸς γάμων ἥκητ᾿ ἀκμάς,
τίς οὗτος ἔσται, τίς παραρρίψει, τέκνα,
τοιαῦτ᾿ ὀνείδη λαμβάνων ἃ τοῖς †ἐμοῖς†
γονεῦσιν ἔσται σφῷν θ᾿ ὁμοῦ δηλήματα;
Τί γὰρ κακῶν ἄπεστι; Τὸν πατέρα πατὴρ
ὑμῶν ἔπεφνε· τὴν τεκοῦσαν ἤροσεν,
ὅθεν περ αὐτὸς ἐσπάρη, κἀκ τῶν ἴσων
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Esodo, vv. 1471-1498
Edipo re
(Entrano Antigone e Ismene)
Ma come? Sono proprio
loro che sento, sono loro, in lacrime,
che sento, per gli dèi? Si è impietosito
Creonte, e mi ha mandato chi più amo, le figlie che più amo?
È davvero così?
Creonte
È così. Sono io che le ho chiamate.
So la gioia che sempre ti hanno dato, la gioia che ora provi.
Edipo
Che tu sia benedetto. Le hai chiamate:
e che dio ti protegga più di quanto
ha mai protetto me. Ma figlie mie, dove siete? Venite,
toccate queste mani di fratello,
queste mani che adesso vi costringono
a vedere così gli occhi di vostro
padre: e un tempo brillavano. Sì, vostro
padre, ma non vedevo, non sapevo: e quella terra ho arato che
era mia,
figlie. Piango per voi. Non posso più
vedervi, ma ora penso quanto è amara
la vita che vi aspetta, la vita che voi due dovrete vivere
fra gli uomini; perché non c’è più luogo
pubblico, non c’è festa dove andrete
senza tornare in lacrime, senza vedere nulla.
E da grandi, in età da matrimonio,
chi sarà mai, chi rischierà di prendere
sulle sue spalle simili vergogne,
figlie mie? Qui è la fine
della mia discendenza, e della vostra145. Nessun dolore manca.
Vostro padre
ha ammazzato suo padre; ha coltivato il ventre
che chiudeva il suo seme; ha avuto voi
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Sofocle
ἐκτήσαθ᾿ ὑμᾶς, ὧνπερ αὐτὸς ἐξέφυ.
Τοιαῦτ᾿ ὀνειδιεῖσθε. Κᾆτα τίς γαμεῖ;
Οὐκ ἔστιν οὐδείς, ὦ τέκν᾿, ἀλλὰ δηλαδὴ
χέρσους φθαρῆναι κἀγάμους ὑμᾶς χρεών.
Ὦ παῖ Μενοικέως, ἀλλ᾿ ἐπεὶ μόνος πατὴρ
τούτοιν λέλειψαι, νὼ γάρ, ὣ ᾿φυτεύσαμεν,
ὀλώλαμεν δύ᾿ ὄντε, μή σφε περιίδῃς
πτωχὰς ἀνάνδρους †ἐγγενεῖς† ἀλωμένας,
μηδ᾿ ἐξισώσῃς τάσδε τοῖς ἐμοῖς κακοῖς,
ἀλλ᾿ οἴκτισόν σφας, ὧδε τηλικάσδ᾿ ὁρῶν
πάντων ἐρήμους, πλὴν ὅσον τὸ σὸν μέρος.
Ξύννευσον, ὦ γενναῖε, σῇ ψαύσας χερί.
Σφῷν δ᾿, ὦ τέκν᾿, εἰ μὲν εἰχέτην ἤδη φρένας,
πόλλ᾿ ἂν παρῄνουν· νῦν δὲ τοῦτ᾿ εὔχεσθέ μοι,
οὗ καιρὸς ἐᾷ ζῆν, τοῦ βίου δὲ λῴονος
ὑμᾶς κυρῆσαι τοῦ φυτεύσαντος πατρός.
ΚΡ.
Ἅλις ἵν᾿ ἐξήκεις δακρύων. Ἀλλ᾿ ἴθι στέγης ἔσω.
ΟΙ.
Πειστέον, κεἰ μηδὲν ἡδύ.
ΚΡ.
ΟΙ.
1510
1515
Οἶσθ᾿ ἐφ᾿ οἷς οὖν εἶμι;
Λέξεις, καὶ τότ᾿ εἴσομαι κλύων.
Γῆς μ᾿ ὅπως πέμψεις ἄποικον.
ΚΡ.
ΟΙ.
1505
Πάντα γὰρ καιρῷ καλά.
ΚΡ.
ΟΙ.
1500
Τοῦ θεοῦ μ᾿ αἰτεῖς δόσιν.
Ἀλλὰ θεοῖς γ᾿ ἔχθιστος ἥκω.
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Esodo, vv. 1499-1519
Edipo re
dalla madre da cui lui stesso è nato.
E sentirete sempre questi insulti. Chi vi potrà sposare?
Nessuno, figlie mie. Voi morirete
sterili, senza nozze: non c’è scelta.
Tu, figlio di Menèceo, sei tu l’unico
padre che resti a loro. Perché noi,
padre e madre, noi siamo morti entrambi. Non lasciare che vivano
mendicando la vita, senza un uomo: loro sono il tuo sangue146.
Fa’ che non soffrano i miei stessi mali,
abbi pietà di loro, così piccole – le vedi – e così sole:
non hanno più nessuno; tu soltanto
rimani. Nobilissimo, acconsenti: tocca con la tua mano147.
Se poteste capirmi, figlie mie,
potrei raccomandarvi mille cose; ma pregate, con me, questa
preghiera:
vivere ovunque il caso vi conceda; ma vivere una vita più felice
di quella che è toccata a vostro padre.
Creonte
Basta piangere, adesso: è sufficiente. Forza: ritorna in casa.
Edipo
Devo obbedirti, anche se pesa tanto.
Creonte
Ogni cosa sta bene a tempo giusto.
Edipo
Lo sai a che condizione me ne andrò?
Creonte
Parla: ti ascolto. Quale condizione?
Edipo
Lasciami andare via da questa terra.
Creonte
Solo un dio può concederlo.
Edipo
Mi odiano, gli dèi, più di ogni altro.
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Sofocle
ΚΡ.
ΟΙ.
Τοιγαροῦν τεύξῃ τάχα.
Φῂς τάδ᾿ οὖν;
ΚΡ.
ΟΙ.
Ἃ μὴ φρονῶ γὰρ οὐ φιλῶ λέγειν μάτην.
Ἄπαγέ νύν μ᾿ ἐντεῦθεν ἤδη.
ΚΡ.
ΟΙ.
1520
Στεῖχέ νυν, τέκνων δ᾿ ἀφοῦ.
Μηδαμῶς ταύτας γ᾿ ἕλῃ μου.
ΚΡ.
Πάντα μὴ βούλου κρατεῖν·
καὶ γὰρ ἁκράτησας οὔ σοι τῷ βίῳ ξυνέσπετο.
ΧΟ. Ὦ πάτρας Θήβης ἔνοικοι, λεύσσετ᾿, Οἰδίπους ὅδε,
ὃς τὰ κλείν᾿ αἰνίγματ᾿ ᾔδει καὶ κράτιστος ἦν ἀνήρ,
οὗ τίς οὐ ζήλῳ πολιτῶν ταῖς τύχαις ἐπέβλεπεν,
εἰς ὅσον κλύδωνα δεινῆς συμφορᾶς ἐλήλυθεν.
Ὥστε θνητὸν ὄντ᾿ ἐκείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν
ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾿ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν
τέρμα τοῦ βίου περάσῃ μηδὲν ἀλγεινὸν παθών.
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Esodo, vv. 1519-1530
Edipo re
Creonte
E allora sarai presto accontentato.
Edipo
Lo credi veramente?
Creonte
Non amo dire cose in cui non credo.
Edipo
È tempo, ormai: portami via di qui.
Creonte
Va’, allora: senza figlie148.
Edipo
Ti prego, non strapparmele.
Creonte
Non puoi vincere in tutto: non pretenderlo.
Sì, una volta vincevi. Ma le antiche vittorie non ti seguono.
Coro
Cittadini di Tebe, guardate: questo è Edipo,
Edipo che risolse il grande enigma, ch’era l’uomo più forte,
che ebbe tanta fortuna che nessuno
di noi l’ha mai guardato senza invidia149: vedete in quale gorgo
di dolore
terribile è caduto. E d’ora in poi, se tu giudichi un uomo,
bada all’ultimo giorno che egli vive150; se non ha già varcato quel
confine
senza nessun dolore, non dire mai che è un uomo fortunato151.
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Note
1
Cadmo, capostipite della stirpe tebana, figlio di Agenore e
di Telefassa (cf. vv. 267s.), fratello della rapita Europa, sulle cui
tracce egli lasciò Tiro e giunse in Beozia; qui fondò Tebe, dopo
aver debellato il serpente protettore del luogo e aver popolato
la nuova terra grazie agli Sparti (cf. infra, n. 15). Per una sintesi
antica cf. Apollodoro III 1,1-5,4; fonti e discussione in R.B. Edwards, Kadmos the Phoenician. A Study in Greek Legends and
the Mycenaean, Amsterdam 1979. La mitologia tebana è parte
essenziale dell’immaginario tragico ateniese, dove la città fondata da Cadmo funziona spesso da paradossale ‘doppio’ (e antimodello) di Atene: cf. F. Zeitlin in Gentili-Pretagostini, 343378, e ora AA.VV., Presenza e funzione della città di Tebe nella
cultura greca, a c. di P. Angeli Bernardini, Pisa-Roma 2000. Lo
studiato accostamento di un termine puramente affettivo («figli
miei») alla menzione di Cadmo e della sua discendenza genetica non può che risultare tragicamente ironico, per un cadmeo
autentico – quale è Edipo – che ignora le proprie origini: cf.
supra, Introduzione, LXXXIIIs.
2
Il cerimoniale della supplica prevede – oltre a una precisa
postura, riconosciuta da Edipo al v. 2 – l’esibizione di ramoscelli
d’alloro o d’olivo (tratti da un olivo sacro, precisa Plutarco, Vita
di Teseo 18) ornati da bende di lana. Si intende qui la concettosa
espressione originale («incoronati di rami») come un’ipallage,
che sottintende in realtà la canonica guarnizione dei rami con
le citate bende di lana: cf. fra i molti altri Jebb, ad l., Citti, 39 e
ora Longo 2007, ad l.; che qui siano gli stessi supplici a portare
corone, secondo la lettera del testo, è ipotizzato da Dawe 2006,
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ad l., da Bollack, ad l. ed era già opinione di Delcourt, Les
suppliants. Ma l’enfasi con cui la corona d’alloro di Creonte è
rimarcata, quale indizio di successo, ai vv. 82s., orienta, già sul
piano dei realia scenici, in altra direzione. Per l’istituto della
supplica e per il suo uso in tragedia si veda P. Cassella, La supplica all’altare nella tragedia greca, Napoli 1999.
3
L’autopresentazione di Edipo è sostenuta e solenne; essa è
facilmente interpretabile come tratto d’orgoglio individualistico
(cf. per es. Campbell, ad l.). Il verso, spesso tacciato d’interpolazione (cf. da ultimo M.D. Reeve, «Greek, Roman and Byzantine Studies» XI, 1970, 286-288, e contra Lloyd-Jones–Wilson,
Sophoclea, 79 e Sophocles, 48), ricorda l’autopresentazione di
Odisseo in Od. IX 19s. (ma qui – ha notato Paduano, ad l.
– manca il patronimico). E tuttavia, la posizione di καλούμενος,
che determina ὁ πᾶσι κλεινός non meno di Οἰδίπους e che sembra irriducibilmente pleonastico (cf. Jebb, ad l.), può suggerire
anche una modesta attenuazione dell’autoelogio, attribuito in
questo modo all’opinione comune: «Edipo, il famosissimo, si
dice» («the famous Oedipus, so called», Whitman, 125); cf. anche Schnerdewin-Nauck-Bruhn, ad l.; Sheppard, ad l.; Maddalena, 285 e 331s. n. 6; Knox, The Heroic Temper, 39; Hester, 36;
Citti, 40 n. 17. In ogni caso, tale dichiarazione d’identità – con
i tratti di indiscussa autorevolezza che segnano il protagonista
– prepara la rovinosa caduta; l’ultimo canto del Coro, al v. 1207,
sembra rinviare proprio al v. 8.
4
L’esatta ricostruzione della scena è problematica. Esclusa
una scena di massa, quale l’hanno immaginata molti moderni
(si veda in Italia, uno per tutti, Valgimigli, Edipo re di Sofocle,
115), resta da capire quanti e quali rappresentanti compongano
la delegazione dei supplici: due classi d’età (vecchi e ragazzi) o
tre (vecchi, adulti e ragazzi)? Molti sacerdoti – fra cui quello di
Zeus spiccherebbe per autorità – o un sacerdote soltanto? Molti
vecchi, oppure – a rappresentanza della categoria – il solo sacer136
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Note
dote di Zeus? La scelta oggi maggioritaria è per una delegazione
composta da alcuni ragazzi molti giovani, guidati da un solo
sacerdote anziano. La presente traduzione inclina per una scelta
diversa (cf. anche Nota al testo). Sulla questione si vedano – oltre
ai commenti di Jebb, Roussel, Kamerbeek, Dawe – le argomentazioni dello stesso Roussel, «Revue des Études Grecques»
XXXVIII (1925) 167-170, di A.S. Henry, «Classical Quarterly»
XVII (1967) 48-51, di W.M. Calder III, «Phoenix» XIII (1959)
121-129, e da ultimo di A. Martina, Studia classica Johanni Tarditi
oblata, a c. di L. Belloni et al., Milano 1995, 871-882.
5
Le «piazze» possono essere le due agorai tebane menzionate
da Senofonte, Elleniche V 2,29, se non si tratta di plurale poetico e iperbolico (Campbell, ad l.; Bollack, ad l.; Citti, 42). Non
è chiaro a quali templi di Atena si riferisca il testo, e gli scolii
al passo registrano quattro epiclesi diverse; celebre era però il
tempio di Atena detta Onka, a ovest dell’acropoli (cf. Pausania
IX 12,2, e già Eschilo, Sette contro Tebe 487). Presso il fiume
Ismeno sorgeva invece il tempio di Apollo Ismenio (Pausania
IX 10,2), caratterizzato – ci informa Filocoro, citato dallo scolio al v. 21 – dalla pratica dell’empiromanzia: di qui la «cenere
profetica» (altri hanno pensato, più semplicemente, alla cenere
residuata da sacrifici; caso in cui «profetico» andrà riferito per
ipallage a «Ismeno»: cf. Citti, 43).
6
Si inaugura quel sistema di metafore marine che evolverà,
nel séguito, secondo la particolare peripeteia della tragedia:
dall’ovvio traslato politico (la nave della Città, sommersa dalle
onde) si passerà così al traslato genetico-parentale (il ‘porto’ di
Giocasta) nelle parole di Tiresia (vv. 420-423) e di Edipo stesso
(v. 1209); cf. D.A. Campbell in AA.VV., Greek Tragedy and Its
Legacy. Essays Presented to D.J. Conacher, ed. by M. Cropp et al.,
Calgary 1986, 115-120; A. Moreau in Machin-Pernée, 217s. Su
questa linea già Knox, Oedipus, 115s.
7
Anche per le metafore agricole vale quanto si è osservato
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per le metafore marine (supra, n. 6): all’assenza di ogni pratica
generativa che affligge Tebe (vv. 25-27) si opporrà l’eccesso
fecondativo indicato dai crudi traslati sessuali dei vv. 1211s.
(«quei solchi / già aperti da tuo padre»), 1485 («e quella terra
ho arato che era mia») e 1497s. («ha coltivato il ventre / che
chiudeva il suo seme»); cf. supra, Introduzione, CXXIV n. 310 e
più diffusamente Hulton, 118s. Il parallelo fra terra e donna è
canonico, in Grecia come altrove: cf. in sintesi M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, trad. it. Torino 19722, 264-269; sulla
simbologia greca – con particolare attenzione all’Edipo re – si
sofferma S. Campese, «Lexis» IX-X (1992) 229-241.
8
Per la ricorrenza di metafore ignee nella descrizione della
peste – qui personificata in un πυρφόρος θεός, un dio incendiario
– cf. supra, Introduzione, CXIII n. 280; tali immagini diverranno ossessive nella parodo (vv. 166, 176, 191), che conseguentemente chiamerà a rimedio il fuoco benigno degli dèi più cari a
Tebe (i fulmini di Zeus, le torce di Artemide e di Dioniso). Il
«fuoco» sarà qui, allusivamente, anche il calore della febbre: cf.
Jebb e Kamerbeek, ad l. Per le possibili allusioni alla peste di
Atene – che non andranno tradotte in alcuna ipotesi di scontata
concomitanza cronologica – cf. supra, Introduzione, CXIIs. Se
l’Edipo re, come pare probabile, è posteriore all’epocale epidemia ateniese – trasfigurata da Sofocle in senso fortemente
letterario – e se tali allusioni non avranno mancato di colpire
l’uditorio anche a distanza dai fatti storici, è probabile che fosse ugualmente percettibile un allusivo riferimento alla stirpe
maledetta e contaminata degli Alcmeonidi (fra i quali Pericle),
come tale accusata dagli Spartani alla vigilia della guerra peloponnesiaca (Tucidide I 126s.): cf. Knox, Oedipus, 63 e 75; G.
Serra in Curi-Treu, 111s.
9
E cioè Tebe tutta, identificata come ‘casa’ di Cadmo e dei
Cadmei (cf. supra, n. 1). Per i continui passaggi da una visione
genealogica a una visione propriamente politica della città, infi138
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Note
ne risolta in affaire personale e affatto singolare, cf. Budelmann,
208-214; si veda anche supra, Introduzione, CXV-CXXVIII.
10
Notevole l’ambiguità di questa espressione, che situa Edipo,
«primo degli uomini», in una privilegiata ma ambigua relazione
con il divino. Le συναλλαγαί saranno qui, allo stesso tempo, «relazioni» con gli dèi e «interventi», rovinosi, degli dèi (si veda il
valore di συναλλαγή al v. 960 e il commento di Jebb, ad l.). «Matters in which the gods have a hand», ben parafrasava Bowra, 188;
cf. anche Cameron, 83; Segal, Tragedy, 233; più recentemente
sull’ambiguità dell’espressione è tornata R. Lauriola, «Atene &
Roma» n.s. XLIV/3-4 (1999) 147-157. Cf. supra, Introduzione,
XCIVs. L’ambiguo privilegio di Edipo sarà sancito, ma per catastrofica inversione, dallo sviluppo della vicenda: ed Edipo stesso
si definirà «l’uomo più odiato dagli dèi» (v. 1345).
11
La Sfinge, designata come tale solo al v. 130. Le premesse
propriamente folcloriche della tragedia sono intenzionalmente
confinate, da Sofocle, in un antefatto nebuloso, che rimane oggetto di semplici allusioni: cf. supra, Introduzione, XXXVs.
12
Passo estremamente dubbio: cf. Nota al testo. Si adotta qui
l’esegesi di Jebb, ad l. (che coincide in gran parte con quella
degli scolii antichi). Una raccolta delle interpretazioni in W.
Kohl, «Rheinisches Museum» CXXVII (1984) 193-222, cui si
aggiungano almeno Lloyd-Jones–Wilson, Sophoclea, 80 (con la
resa di Lloyd-Jones, 329: «la sintesi dei consigli riesce meglio a
chi ha esperienza»; valore assai difficile per συμφοράς).
13
Frase singolarmente simile a quella pronunciata dallo stratega
Nicia di fronte ai suoi uomini, nell’imminenza dell’ultima battaglia
al Porto Grande di Siracusa (estate del 413), secondo il resoconto
che ne dà Tucidide VII 77,7: cf. supra, Introduzione, CXIs.
14
La νόσος, «malattia» o «sofferenza», di Edipo, ha evidentemente qui – in contesto epidemico e pestilenziale – carattere
psicologico e meramente metaforico: ma il traslato sconfina nell’ironia tragica, per il pubblico che sa come a Edipo rimandino
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le cause remote della comune malattia.
15
Creonte, figlio di Meneceo, a sua volta discendente da
Echione (uno degli Spartoí, i «Seminati» sorti dal suolo di Tebe
dopo che Cadmo vi sparse i denti del Drago: cf. n. 1). Fratello
di Giocasta, in tre momenti della saga tebana regge le sorti della città: dopo la morte di Laio, dopo la rovina di Edipo e dopo
la reciproca uccisione di Eteocle e Polinice. In quest’ultima
circostanza lo eterna, quale protagonista, l’Antigone: ma altre
celebri apparizioni sono nell’Edipo a Colono e nelle Fenicie
euripidee, dove il figlio Meneceo si sacrifica per la salvezza di
Tebe. Creonte è altrimenti connesso alla saga di Eracle (che ne
sposerà, e quindi ne ucciderà, la figlia Megara).
16
Un esempio della «splendida fretta» (Paduano, Lunga
storia, 118) che caratterizza l’agire di Edipo in tutta la tragedia. Analoga reazione di fronte al ritardo di Tiresia (v. 289).
Cf. anche Knox, Oedipus, 15-18 e quanto si è osservato supra,
Introduzione, LXXXV.
17
Espressione molto discussa, per la densità della brachilogia
impiegata da Sofocle; qui si intende secondo l’esegesi più piana
e diffusa: cf. per es. quanto osserva Roussel, ad l. Per altre interpretazioni si vedano A. Allen, «Hermes» CX (1982) 247s.; H.
Lloyd-Jones in The Further Academic Papers of Sir Hugh LloydJones, Oxford 2005, 113s.
18
Ben tre battute scandiscono il tempo d’ingresso necessario
al tritagonista – che qui impersona Creonte – per raggiungere la
scena. È il tipico modulo dell’«ingresso annunciato», per cui si
vedano R. Hamilton, «Harvard Studies in Classical Philology»
LXXXII (1978) 63-82 e J. Park Poe, ibid. XCIV (1992) 121-156.
La lunghezza dell’ingresso – che ha insospettito Dawe 2006, ad
l. – è evidentemente funzionale a un effetto di suspence: di qui
in poi, ogni nuovo ingresso segnerà un progresso parziale, e
talvolta illusorio, dell’indagine, secondo una scansione temporale e drammatica che risponde perfettamente al modello della
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Note
«analisi tragica» (cf. supra, Introduzione, XXXIX-XLIV).
19
Qui, e altrove, lo stile di Creonte si connota per una marcata sentenziosità: «Creonte, di recente, ha passato fin troppo
tempo fra gli oracoli, e parla anche lui alla maniera delfica» (D.
Page in Dawe, Studies, I, 211). Per il personaggio e per le sue
caratteristiche anti-eroiche si veda supra, Introduzione, LXXXII
n. 194.
20
Il miasma («macchia», «contagio», «impurità») cui Creonte e Apollo si riferiscono ha carattere generico e a fortiori ambiguo: sufficientemente giustificato dal regicidio o dal semplice
omicidio, esso si preciserà via via come esito di crimini ben più
gravosi, quali parricidio e incesto: su ciò si veda Dawe 2006,
ad l. Per le credenze connesse ai temi del dell’‘impurità’ e del
‘contagio’ si può consultare R. Parker, Miasma. Pollution and
Purification in Early Greek Religion, Oxford 1983.
21
Per la completa ignoranza del recente passato tebano, che
Edipo qui e in séguito esibisce e che molti lettori moderni hanno rimproverato a Sofocle, cf. supra, Introduzione, XLV.
22
I vv. 106s., che riportano l’ingiunzione divina, sono mirabilmente ambigui. L’oracolo ricorre a un plurale, rinfrancando
con ciò la menzogna originaria del testimone (cf. supra, Introduzione, XLVI-XLVIII), su cui Edipo sprecherà a lungo i suoi
sforzi logici; capzioso appare anche il termine αὐτοέντας, su cui si
veda R.M. Newton, «Classical World» LXXII (1978-1979) 231234, che ipotizza un impiego di αὐτοέντης/αὐθέντης intonato alla
sua originaria ambiguità semantica («assassino» non è che una
specializzazione, peraltro incerta nelle sue linee evolutive: cf.
DELG, s.v.): Apollo parla dunque, genericamente, di «responsabili» o «autori», con un plurale che può coinvolgere Edipo e
tutti i comprimari, a partire da Giocasta. Hölderlin, 195 tentava
di scagionare Apollo da ogni accusa di menzogna, imputando
a Edipo e a Creonte l’erronea circoscrizione del detto oracolare
al problema del regicidio: cf. Hester, 37. Di un «vaticinio chiaro
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e oscuro ad un tempo» parla Maddalena, 297. Sul tema, si veda
ora Battezzato, 1-11. È significativo – e sommamente ironico
– che dell’oracolo delfico sia predicata la chiarezza (σαφῶς, sempre al v. 106: cf. Pucci, 22-24). Lo stesso avverbio impiegherà
Edipo al v. 846, quando disperatamente invocherà chiarezza,
dal testimone, circa il numero degli assalitori (giusta dunque la
scelta degli ultimi editori, che al v. 846 pongono virgola dopo
l’avverbio, e non prima, come per es. Jebb o Dain-Mazon; cf. in
proposito anche Dawe, Studies, I, 244s.).
23
Di qui in poi, Edipo darà avvio a un’inchiesta – fondata
sul modello del processo attico – che da più parti si è voluta
interpretare come una vera e propria detective story. Il paragone
è suggestivo e fortunato, ma per molti aspetti fuorviante: cf.
supra, Introduzione, LVIIIs. n. 145.
24
Il passaggio dal plurale al singolare (Creonte ha parlato di
«predoni») è brusco e ironicamente rilevato; l’espressione può
forse difendersi come singolare generalizzante (così Moorhouse,
145), ma l’allusione al solo e ben noto colpevole – Edipo stesso
– appare certa. Un’allarmante persistenza del singolare si rileva
ai versi successivi (vv. 225s., 231, 246s., 276s., 295, 362, etc.). Per
i problemi connessi alla confusa aritmetica dell’omicidio, e alla
fondamentale menzogna del testimone, cf. supra, Introduzione,
XLVI-XLVIII. Più in generale, si vedano almeno Greene; Segal, Tragedy, 214-216; Ahl, 62-66. Qualche sovrinterpretazione
filosofica del problema numerico in M.W. Champlin, «Classical
Journal» LXIV (1969) 337-345 (che immagina presupposta la
gnoseologia eleatica; così in parte già Reinhardt, 137, e ora
Longo 2007, IX-XII). Che ricorrendo al singolare Edipo dia la
prima, sottintesa stoccata a Creonte – come ritengono gli scolii
al passo – è improbabile; ma certo si profila già qui la teoria del
complotto politico che Edipo svilupperà nell’episodio seguente:
cf. Wilamowitz, Excurse, 61 n. 1; Greene, 77-79; Maddalena,
339 n. 38; Knox, Oedipus, 26; Paduano, Lunga storia, 85. Non
142
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Note
sarà un caso che con la stessa, ingiuriosa qualifica di λῃστής,
«ladro del regno», sia indicato Creonte al v. 534.
25
Letteralmente – con espressione cristallizzata – «a guardare ciò che era davanti ai nostri piedi»: un modo d’esprimersi
affatto usuale, in cui si è talora voluta cogliere un’allusione
all’etimologia del nome «Edipo» (così già lo scolio al v. 130, e
più recentemente Bollack, ad l.); giustamente scettici Paduano,
Lunga storia, 7 n. 13 e Calame, 33 n. 10. Per altri problemi
di ‘podologia’ edipica cf. supra, Introduzione, XXXIV n. 76 e
XXXVIII n. 88.
26
Un altro dei numerosi doppi sensi involontari che Sofocle
attribuisce a Edipo, e che il pubblico decifra senza esitazioni:
per questo e altri canonici esempi della cosiddetta ‘ironia tragica’ si veda supra, Introduzione, XLIII n. 104.
27
Verso che annuncia l’ingresso imminente del Coro, costituito da vecchi Tebani a rappresentanza di tutto il popolo: cf.
T. v. Wilamowitz, 72; W.M. Calder III, «Phoenix» XIII (1959)
124; Burton, 141.
28
Apollo in due delle sue epiclesi fondamentali: egli è per
eccellenza il dio di Delo (località natale e sede cultuale più
importante accanto a quella di Delfi) e altrettanto antonomasticamente il dio Guaritore o Soccorritre (Παιάν, Peane: nome
esteso all’inno propiziatorio, il «peana», menzionato ai vv. 5 e
186).
29
Al centro di Tebe, nell’agorà, aveva sede il culto di Artemide detta Eukleia, che Pausania (IX 17,1) colloca però a nord-est
dell’acropoli. Per tale epiteto di Artemide si veda anche Plutarco, Vita di Aristide 20.
30
Il richiamo al favore precedentemente mostrato da un dio è
modulo usuale della preghiera antica, a partire almeno da Saffo
(fr. 1,5 V.); e con la tradizione innografica la parodo ha molti
debiti: cf. Ax, e brevemente Kamerbeek, ad l.; allo stesso modulo eucologico – il favore passato come vincolo per l’intervento
143
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presente – è ricorsa la delegazione dei supplici nei confronti di
Edipo (cf. vv. 52s.). La «rovina» passata che qui si nomina può
essere la Sfinge o altra, più generica sciagura di pubblica portata. Nell’idea di un male reiterato si è voluta cogliere un’ulteriore
allusione alla peste ateniese, soggetta a continue recrudescenze:
cf. supra, Introduzione, CXIII n. 280.
31
Concettosa descrizione delle morti – fitte e rapidissime
– causate dalla pestilenza. Il dio del tramonto è naturalmente
Ade, collocato in un metaforico Ovest sin da Odissea XII 81
(dove si tratta dell’Erebo). Il paragone dei morti con uccelli è
tradizionale da Odissea XXIV 6-9 a Virgilio, Eneide VI 311s.
Per l’immagine del fuoco cf. supra, v. 27 e n. 8.
32
La pestilenza, di qui al termine della strofe, si concretizza
nell’immagine di un Ares disarmato, ma non perciò meno letale. Nella sorprendente associazione di guerra (Ares) e malattia
si è riconosciuta, prevedibilmente, un’allusione all’epidemia
ateniese del 430-428: cf. da ultimo Dawe 2006, ad l., e supra, Introduzione, CXIII n. 280. Ares sarà più oltre definito «il dio più
disprezzato dagli dèi» (v. 215): tale egli è a partire da Iliade V
890. E in questa sede si può spiegare anche come divinità coinvolta – sin dalle origini – con la storia di Tebe: cf. per es. E.W.
Scharffenberger, «Text and Presentation» XVI (1995) 90-95.
33
Anfitrite – figlia di Nereo e di Doride, nonché sposa di
Poseidone secondo Esiodo (Teogonia 930) – è divinità marina
che sin da Omero (Odissea III 91, V 422, etc.) designa genericamente il mare. La qualifica di «immenso» fa qui pensare
all’Atlantico (il mare «grande» per eccellenza: cf. Jebb, ad l.),
estremo marino occidentale rispetto all’estremo orientale (il
mare prospiciente la Tracia) nominato subito dopo.
34
È noto che il Ponto Eusino (Πόντος Εὔξεινος, «mare ospitale»), e cioè il Mar Nero, è così definito dai Greci per eufemistica antifrasi: esso è il mare ostile e «inospitale» per eccellenza
(Ἄξενος è la definizione che troviamo in Strabone VII 298, co144
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Note
me qui ἀπόξενος). L’augurio di un naufragio sulle coste del Mar
Nero è tradizionale: si veda già il primo ‘epodo di Strasburgo’
(Ipponatte, fr. *115 W.2 = °194 Dg.2). Il riferimento geografico
– che fa pendant con l’evocazione dell’estremo occidentale,
probabilmente sottinteso ai versi precedenti: cf. n. 33 – è qui
giustificato anche dal particolare legame che Ares intrattiene,
tradizionalmente, con la Tracia.
35
Passo tormentato (la più ampia trattazione in Bollack, ad
l.): della lezione tràdita giustamente si dubita, e la pertinenza
del distico sfugge. Si è tradotto tenendo presente l’emendamento di Hermann (τελεῖν per τέλει), secondo un valore che può
essere forse estorto, ma con fatica, anche al testo tràdito (cf.
Moorhouse, 88, e già Campbell, ad l. e Prolegomena, 89s.). Il
senso generale potrebbe essere: «Tebe non ha pace, né di notte
né di giorno» (così già gli scolii al passo). Ma in questo contesto
ci si attenderebbe una massima di carattere generale, più che
un ritorno al tema dell’epidemia; il sospetto di una corruzione
estesa è dunque fondato.
36
L’epiteto Lykeios per Apollo era variamente spiegato dagli
antichi – se ne accoglie qui la spiegazione più diffusa, in connessione con λύκος, «lupo», come in Sofocle, Elettra 6s. – e un
enigma rimane anche per i moderni (fra gli altri etimi proposti,
la connessione con la Licia, nominata subito dopo, e con la
radice di lux, «luce», metaforicamente adatta al contesto). L’invocazione ad Apollo Lykeios ritorna al v. 919.
37
L’intera parodo è una lotta di fuochi: cf. supra, n. 8, nonché
Musurillo, 88s.; Burton, 147s. Per un esame complessivo delle
immagini qui utilizzate – che riprendono e spesso cavolgono le
immagini impiegate nel prologo – cf. A.S. McDevitt, «Wiener
Studien» n.F. IV (1970) 28-38. Una particolare connessione di
Artemide cacciatrice con la Licia – regione dell’Asia Minore
– non appare giustificata dalle fonti in nostro possesso. Che
vi sia qui un ricercato – e puramente fonico – parallelismo
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con l’Apollo Lykeios del v. 204 è possibile: cf. Jebb, ad l., che
ricorda l’Artemide Lykeia menzionata da Pausania II 31,4. Ma
la concomitanza può essere del tutto casuale (così pensa Dawe
2006, ad l.), e il riferimento alla Licia può spiegarsi con il
diffuso esotismo barbarico-liminale connesso ad Artemide in
quanto «dea del “fuori”» (W. Burkert, La religione greca, trad.
it. Milano 20032, 301).
38
Nota è l’origine tebana di Dioniso – nato da Zeus e da Semele, figlia di Cadmo e Armonia – premessa delle Baccanti euripidee. Il dio è qui invocato come patrono per eccellenza della città
(cf. P. Lauter, «Classical Journal» LVII, 1962, 317): così andrà
inteso il generico ἐπώνυμον («il dio che ha dato nome») del v. 210:
«Bacco è un Tebano e Tebe è bacchica» (Kamerbeek, ad l.). Il
riferimento alla «mitra d’oro» evoca un diffuso attributo cultuale
del dio e dei suoi adepti, la benda che fascia fronte e tempie, e
rimarca, quale ornamento tipicamente asiatico, la frequente connotazione orientale di Dioniso. L’attributo «viso di vino» – che
menziona la più celebre prerogativa di Dioniso – è assai comune
(cf. Euripide, Baccanti 438), mentre Euios (v. 211, «benedetto»)
deriva dal grido rituale euoi, «evoè», tipico del culto dionisiaco.
Le Menadi – e cioè «le forsennate», «le deliranti» – fanno tutt’uno con le Bacchai, le invasate seguaci del dio.
39
La preghiera della parodo ha implorato una soluzione
divina ai mali di Tebe, in parte rovesciando l’approccio marcatamente antropocentrico del prologo; Edipo riporta il Coro,
per così dire, in terra, richiamandolo a un doveroso impegno
che sarà presto esplicitato in termini di obbligazione legale; cf.
supra, Introduzione, LXXXVII.
40
L’interpretazione dei vv. 220s. è difficile e disputata. C’è
chi intende lo strano preambolo come affermazione d’orgoglio
intellettuale («non avrei impiegato molto tempo, io, a trovare
qualche indizio, se non fossi stato estraneo a tutta la vicenda:
così da ultimo Dawe 2006, ad l., dopo Wunder, Blaydes e altri).
146
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Note
Ma questa interpretazione forza il valore di ἔχων (cf. Jebb, ad
l.; Paduano, 127). Più probabile che Edipo invochi aiuto nella
ricerca di fondamentali «indizi» (σύμβολα, per il cui valore cf.
supra, Introduzione, LXIII-LXV). Una terza interpretazione
– improbabile – è stata proposta da R. Mathewson, «Mnemosyne» XXI (1968) 1-4.
41
La pomposa – o burocratica – menzione del patronimico
è evidentemente funzionale al tono del bando, che ha carattere
di legge. Più oltre, ai vv. 267s., essa verrà espansa sino alle più
remote generazioni tebane, con un tentativo di affiliazione puramente simbolica – da parte di Edipo – alla dinastia regnante:
cf. supra, Introduzione, CXVIIs.
42
Luogo lacunoso (così ritiene Dawe) o corrotto, a meno
che non si voglia ipotizzare una difficoltosa ellissi («e anche se
teme, gli ordino di rivelarmi ogni cosa, rimuovendo l’accusa da
sé, per se stesso»). Con le più economiche correzioni proposte
per il finale del v. 227 (ὑπεξέλοι o ὑπεξελεῖν) il senso non cambierebbe di molto: Edipo intende provocare l’autodenuncia
dell’assassino, promettendogli sostanziale impunità. Sul passo
si vedano Jebb, ad l.; Longo 2007, ad l.
43
L’esatto contenuto del pronunciamento è stato spesso
oggetto di discussione e sospetti (significativa la drastica trasposizione dei vv. 244-251 proposta da Dawe: cf. Nota al testo);
in esso si mescolano una vera e propria intimazione legale
(πρόρρησις), un invito alla delazione (o all’autodenuncia) non
privo di accurati sotterfugi psicologici e una decisa, perentoria
maledizione; cf. Greiffenhagen, 155-159 e Dyson. Più recentemente, si veda A. Martina, «Paideia» LIX (2004) 271-298, per il
riconoscimento dei modelli giuridici (contemporanei e arcaici)
utilizzati da Sofocle. Per un’esauriente discussione dei problemi
testuali ed esegetici, con ampia rassegna delle soluzioni proposte, cf. Dawe, Studies, I, 221-226. Lo stesso Dawe adotta, al v.
230, la lezione tràdita ἐξ ἄλλης, che si è qui seguita con qualche
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perplessità; tentante l’ἢ ᾽ξ ἄλλης di Vauvilliers, che farebbe dire
a Edipo: «un altro (scil. tebano), o un uomo d’altra terra».
44
Una morte violenta ha colpito Laio, già «sfortunato con i figli»: e cioè senza prole, intende Edipo; il pubblico intende in altro
modo, e sa bene che tale ‘sfortuna’ non è estranea alla morte violenta. «Figli fratelli», «figli d’entrambi» sono espressioni che designano l’ipotetica fratellanza – per parte di madre – che avrebbe
unito i figli di Edipo ai figli del predecessore. L’espressione greca,
altrettanto e ancor più tortuosa, suggerisce l’orrenda comunanza
che lega in realtà Edipo – padre e fratello insieme – ai propri figli:
per il lessico dell’incesto cf. supra, Introduzione, CXVII-CXXVI.
Il séguito, con l’iperbolico riferimento a Laio quale «padre», è
ormai autoaccusa manifesta; non senza un riferimento al ruolo dei
parenti prossimi nel processo attico per omicidio (δίκη φόνου): cf.
Knox, Oedipus, 82 e Greiffenhagen, 152-154.
45
L’albero genealogico dei Labdacidi è congruente con la
tonalità formale del bando, e suggerisce la volontà – da parte di
Edipo – di occupare un posto legittimo entro la dinastia tebana,
pur senza legami di sangue; per questa fondazione tutta politica
del proprio statuto di re cf. supra, Introduzione, CXVIII.
46
Dal contagio o miasma, cioè, che deriva dall’omicidio
invendicato: cf. supra, n. 20. Il testo greco ha un equivoco intraducibile nella triplice anafora di ῥῦσαι, «difendi» ma anche
«respingi» o «scaccia»: un valore tragicamente congruente con
la sorte di Edipo, futuro esule; cf. Maddalena, 278; Paduano,
Lunga storia, 92.
47
Il valore del passo è discusso, e c’è chi riferisce il ταῦτα del
v. 317 alla verità di cui Tiresia è depositario – e di cui dichiarerebbe di essersi quasi volontariamente «dimenticato» – piuttosto che alla massima con cui l’indovino inizia il suo discorso:
cf. in proposito A. Gianquinto, «Orpheus» XV (1994) 430-443;
Serra, Edipo, 40 n. 53; Id. in Curi-Treu, 113. Ci si attiene qui
all’interpretazione tradizionale. Certo è che la massima sembra
148
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Note
alludere, oltre che alla condizione di Tiresia, a quella di Edipo:
condizione presente (per l’assenza di sapere, φρονεῖν: cf. v. 328)
e soprattutto futura (per l’assenza di vantaggi che segnerà l’acquisito sapere); cf. Lattimore, Oedipus, 106.
48
Edipo ha appena sancito l’obbligo della testimonianza (vv.
230-235), sicché la condotta di Tiresia configura un atto d’illegalità, prima ancora che una prova di scarsa dedizione alla
causa comune: cf. supra, Introduzione, LXXIX n. 187.
49
Da questo momento – non a caso rimarcato dal testo
– l’«ira» (ὀργή) detterà ogni battuta tanto a Edipo quanto a
Tiresia. Che l’incontro con l’indovino ricalchi i moduli del
canonico incontro iliadico fra Agamennone e Calcante (così da
ultimo J.F. Davidson, «Eranos» XCV, 1997, 5-61, ma cf. già lo
scolio al v. 368) è senz’altro vero: ma nel dominio di situazioni
astratte molto generali, se non superficiali, che il testo sofocleo
elabora e complica. Perciò, anche nel confronto con Tiresia, il
carattere di Edipo non può patire riduzioni moralistiche: cf.
supra, Introduzione, LXXVIIIs.
50
Di qui in poi, l’apparente enormità delle accuse lanciate da
Tiresia renderà del tutto impossibile che Edipo recepisca le rivelazioni del vate. Le diagnosi di Voltaire sull’inverosimiglianza della scena appaiono, per quanto acute, sottilmente capziose:
cf. supra, Introduzione, L.
51
Il passo è quasi certamente corrotto (si rassegnano alle
croci anche Lloyd-Jones–Wilson) e la traduzione si limita al
comprensibile (cf. Schneidewin-Nauck-Bruhn, ad l.). Per il
tràdito λέγειν, Dawe 1982 = 2006 accoglie il λέγων di Heath
(un pleonasmo di cui non si vede bene il vantaggio: cf. LloydJones–Wilson, Sophoclea, 87); per una difesa (poco convicente)
del testo, con il valore «mi provochi perché io parli», cf. Kamerbeek, ad l.
52
Si traduce qui secondo il testo corretto da Brunck e adottato da pressoché tutti gli editori dell’Edipo (con l’eccezione
149
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rilevante di Dain-Mazon): il testo tràdito configura un quadro
a parti invertite («non è per mano tua che io dovrò / cadere»);
esso potrebbe conciliarsi con quanto precede (intendendo
«me» e «nessun altro» come soggetti della consecutiva: «né io
né nessun altro […] potrà mai farti male»), ma non si coglie
perché Tiresia dovrebbe aggiungere che – per la sua stessa rovina – «basta Apollo». Si veda comunque l’appassionata difesa
del testo tràdito in Knox, Oedipus, 7s. (e quindi in Hester, 48 n.
22), che pure eccede nello scorgere in tale correzione un grave
cedimento all’esegesi ‘fatalistica’ dell’Edipo: cf. supra, Introduzione, LXXs. e XCIV-XCVI.
53
Questa celebre tirata, che riconosce nella sovranità assoluta
(τυραννίς) il più ambito dei beni, e nell’ambizione per denaro e
ricchezza la più lesiva delle tentazioni, è parsa a taluni l’apice del
comportamento tirannico di Edipo: cf. per es. Lanza, Il tiranno,
144s., con quanto si è osservato supra, Introduzione, LXIX-XCI. Un
monologo contro il denaro in genere è in Sofocle, fr. 88 R.2, dagli
Aleadi, una tragedia che con l’Edipo re ha più di un contatto: cf.
A. Kiso, Sophocles, Aleadae. A reconstruction, «Greek, Roman and
Byzantine Studies» XVII (1976) 5-21. Al verso seguente, l’«arte che
non ha pari fra le arti» è con ogni probabilità l’«arte» del governo,
la techne politiké. All’arte del solutore d’enigmi hanno pensato altri
(Longo 1989, ad l.; ma cf. Longo 2007, ad l.).
54
Ancora una volta la Sfinge, già menzionata in perifrasi al
v. 36. La qualifica di «cagna» alluderà alla sua spietata durezza
(così Jebb, ad l.), benché non si possa escludere qualche preciso
referente di carattere iconografico (forse con riferimento alla
genealogia che ne fa una figlia del cane Ortro: cf. Guidorizzi,
175); il termine è comunque generico per mostri d’ogni sorta,
specie se caratterizzati da topici tratti persecutorii, dalla stessa
Sfinge in Eschilo, fr. 236 R., alle Erinni dell’Orestea (Eschilo,
Coefore 924, 1054) sino all’Idra di Lerna in Euripide, Eracle
419; il titolo di rhapsodós – come al v. 36 il titolo di «cantatrice»
150
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Note
– si riferisce senz’altro al carattere poetico comune a enigmi,
oracoli e poesia epica (così per es. Longo 2007, ad l.), ma non
senza un rincaro d’ironia e disprezzo.
55
Probabilmente ricercato il bisticcio fra il nome «Edipo»
(Οἰδίπους) e il participio εἰδώς, «che sa»: per altre etimologie
implicite cf. supra, Introduzione, XXXIV.
56
Tiresia ricorre alla terminologia giuridica dell’Atene contemporanea, dove a ogni straniero residente (meteco) correva
l’obbligo di avere un tutore legale (προστάτης) fra i cittadini a
pieno titolo.
57
Espressione discussa, per cui cf. Nota al testo. Un riferimento allusivo al Citerone – qui sineddoche per «monte» in
genere – è tuttavia pertinente; al Citerone da cui è stato salvato
Edipo sognerà di tornare, per morirvi: cf. vv. 1451-1453.
58
È questo l’unico momento – è stato osservato da numerosi
interpreti – in cui la sicurezza di Edipo viene meno, perché l’allusione ai genitori – anzi: ai veri genitori, perché la pleonastica
espressione usata da Tiresia non è priva di sottintesi – risveglia
in lui mai sopite ansie. La fiera e ferrea razionalità del protagonista convive, qui come altrove, con una sottile dimensione
d’angoscia che costituisce una sorta di basso continuo per l’intero dramma: cf. supra, Introduzione, Cs.
59
«L’unico giorno della sua vita, del quale anche noi siamo
stati testimoni», scrive G. Serra in Gentili-Pretagostini, 276. La
notazione fornita dal verso 489 ha un marcato carattere metateatrale, poiché «questo giorno» è altresì il giorno cui assistono,
‘in diretta’, gli spettatori della scena attica. Per questa coincidenza fra tempo della narrazione e tempo della messinscena – o
dell’enunciato e dell’enunciazione – cf. Paduano, Lunga storia,
115 n. 141; Di Benedetto-Medda, 305. «Vent’anni di felicità che
davanti allo sguardo di Dio sono come un giorno», ironizzerà
l’Edipo di Gide; ma il v. 489 aveva già suggestionato Corneille
e Voltaire: cf. Halter, 101s.
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60
Il lungo e aspro discorso di Tiresia si terrà, ai vv. 447-462,
nonostante questo annuncio d’uscita: ciò che ne incrementava
senza dubbio l’intensità drammatica, benché ci sia preclusa
la ricostruzione del corrispondente movimento scenico; cf. in
proposito Di Benedetto-Medda, 196. Per l’ipotesi di una repentina uscita di scena da parte di Edipo cf. supra, Introduzione,
XLIXs.
61
Compendiosa immagine che indica la terrazza rocciosa
su cui sorgono Delfi e il relativo tempio, posti in una sorta di
naturale anfiteatro (cf. Strabone IX 418); una rupe che incombe sulla piana di Crisa, sovrastata dal Parnaso: così descrive il
sito di Delfi, all’atto della sua mitica fondazione, il terzo inno
omerico (Inno ad Apollo 282-285).
62
Il «dio nato da Zeus» è Apollo, qui dotato degli attributi
spettanti di norma al padre («fuoco e folgori»); le Chere, tradizionali divinità della vendetta, non di rado assimilate alle
Erinni (cf. Eschilo, Sette contro Tebe 1055, «Chere Erinni, che
avete distrutto la stirpe di Edipo»), con le quali condividono la
genealogia sin da Esiodo, Teogonia 217-222, sono qui definite
infallibili per la sicura efficacia della loro persecuzione: un’idea
del tutto ovvia e di tenore prettamente arcaico.
63
La descrizione del colpevole in fuga, braccato dagli oracoli di Delfi («il cuore della Terra»), rinvia alla fuga di Ares
auspicata nella parodo (vv. 190-202); ma qui il colpevole è
umanizzato e individualizzato, a parziale ricezione delle accuse
lanciate da Tiresia, che pure il Coro respinge nel loro possibile
riferimento a Edipo (si vedano i giusti rilievi di Kamerbeek,
ad l.). Il colpevole è insistentemente descritto come un animale
braccato, o meglio come un uomo costretto ad assumere identità animale in una progressiva resa alla natura selvaggia, che si
fa piena identificazione nell’immagine del «toro» quale «bestia
di rupe»: è il percorso di Edipo, dal Citerone a Tebe, ma a rovescio. Si veda anche Burton, 149-151.
152
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Note
64
Naturalmente la Sfinge, che la tradizione vuole vergine: cf.
supra, Introduzione, XXVIIIs. n. 60.
65
Frase splendidamente ambigua, che la traduzione si sforza di rendere e che sembra attribuire a Edipo una rancorosa
ammissione dell’omicidio: cf. l’acuto commento di Jebb, ad l. e
supra, Introduzione, LI e n. 125.
66
Questa ideale triarchia – motivata, come dimostra la battuta seguente, da ragioni affettive più che istituzionali – è un altro
tratto che impedisce ogni caratterizzazione tirannica di Edipo;
cf. Knox, Oedipus, 59 e supra, Introduzione, LXXXI.
67
Il sentenzioso verso è espunto da Wolff, seguito dai più
recenti editori. Per una difesa del testo, e per un quadro delle
sue esegesi, cf. Kamerbeek e Longo 2007, ad l.
68
Il passo – non sospettato da Dawe – è dubbio: cf. H.
Lloyd-Jones, «Classical Review» XXVIII (1978) 220. Si traduce
secondo l’accezione comunemente accolta, per cui si vedano
per es. Kamerbeek o Dawe 2006, ad l.
69
La lunga tirata di Creonte, carica di argomenti ragionevoli
e di pomposa sapienza, equivale a una compiuta descrizione del
carattere, nel quale si è visto a torto un «ideale» etico di Sofocle
(cf. supra, Introduzione, LXXXII n. 194). Di tanto «verbiage» si
lagnava già Voltaire, Lettre III, cit., 25.
70
I vv. 623-625 nascondono un più che probabile turbamento
testuale, al quale si è tentato di portare rimedio in molti modi;
Dawe – di cui qui si adotta la pur estremistica soluzione – prevede la caduta di almeno due battute (Zielinski, Campbell) e
uno scambio d’interlocuzione (Haase) fra i vv. 624 e 625. Altri
hanno adottato soluzioni più economiche, che richiedono però
qualche ritocco al testo (cf. per es. Jebb, ad l.; Paduano, 130s.).
Chi accetta interlocuzioni e lezioni tràdite (per es. Dain-Mazon)
è spesso costretto a più di una concessione sul piano del senso
(οἷόν ἐστι del v. 624 inteso come «perché» o simili; πιστεύειν del
v. 625 inteso come «obbedire»; una difesa più argomentata del
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testo offre però Longo 2007, ad l.). Altre soluzioni – ammessa la
caduta di più versi – sono ovviamente possibili, per quanto concerne la distribuzione delle battute: cf. e.g. Lloyd-Jones–Wilson
e Lloyd-Jones, che assegnano il v. 624 a Creonte e il successivo
a Edipo, benché sia difficile immaginare perché proprio Edipo
si lamenterebbe di non essere ‘creduto’ (cf. vv. 646 e 673, dove
‘credere’ e ‘cedere’ sono gli atti richiesti, come ci si attende, al
protagonista).
71
Si adotta qui la soluzione più diffusa per l’ambigua espressione utilizzata da Edipo (cf. supra, Introduzione, LXXXIII):
«bisogna comunque obbedire». Così sembra imporre il contesto polemico e aggressivo del presente dialogo, con la seguente risposta di Creonte. Ma «bisogna comandare», «I must
rule» (Knox, Oedipus, 32 e 99; cf. Id, Heroic Temper, 167 n.
23 e Word, 98; Knox-Fagles, 195) è resa ugualmente legittima
(πειστέον, «bisogna obbedire», dirà specularmente l’Edipo accecato del v. 1516). Contro l’esegesi più diffusa dell’espressione
ἀρκτέον si vedano le argomentazioni di Jebb, ad l. (i paralleli
citati da Kamerbeek, ad l., non sono risolutivi per il passo in
discussione). E in ogni caso, occorrerà ammettere che Sofocle
ha scelto un’espressione non univoca, e più immediatamente
comprensibile secondo l’obbligo del comando, non dell’obbedienza. Ammetteva entrambi i valori Campbell, Prolegomena,
100; «none the less, I have to rule!» rende ora Lloyd-Jones.
72
All’apostrofe di Edipo («città, città») sono stati attribuiti i
più vari significati: scandalo e sdegno (per es. Reinhardt, 130 e
274 n. 15), pietà per sé o per il paese, richiesta d’aiuto contro il
traditore (Bruhn, ad l., Campbell, ad l.); cf. anche Budelmann,
212s. La genuina partecipazione di Edipo alle sorti della polis
non è però in dubbio: cf. Schneidewin-Nauck-Bruhn, ad l. ed
Ehrenberg, 97, che vede nella risposta di Creonte un «fraintendimento»; meglio, tale risposta esprime un’impropria riduzione
dell’apostrofe al dissidio contingente: così anche Kamerbeek,
154
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Note
ad l., e ora Dawe 2006, ad l. (trovava «coerente» la risposta
Longo 1982, ad l.: ma cf. ora Longo 2007, ad l.). Del resto, a ben
vedere, qui Creonte non esprime interessamento o sollecita cura per il bene comune, ma solo mera partecipazione (μέτεστιν)
alla cosa pubblica: e cioè a quel potere della cui ‘parità’ è già
stato teorico ai vv. 585-600; cf. Wilamowitz, Excurse, 62s. Cf.
anche supra, Introduzione, LXXXIs.
73
È questa, a rigore, l’ultima menzione della peste dopo
l’ampia trattazione offerta dal prologo (ma cf. vv. 1449s. e infra,
173 n. 144); il piano della sciagura pubblica, di qui in poi, sarà
progressivamente abbandonato e sostituito da un’inchiesta ben
più personale, che pure mantiene con il contesto epidemico
d’esordio legami forti: cf. supra, Introduzione, XL, XLVIII e
LXVs.
74
Per il possibile riferimento a un preciso capo d’accusa – la
corruzione di testimoni, con allusione a Tiresia – cf. supra, Introduzione, LI n. 124.
75
Passo verosimilmente corrotto, per la mancata rispondenza
con il v. 695 (dove altri preferisce ipotizzare una lacuna); la
traduzione, anche per il séguito, si attiene al senso presumibile.
Un’ottima discussione del problema in Dawe 2006, ad l.
76
Espressione di non immediata intelligenza; lo θυμός, «la
rabbia, l’impetuosità», sembra qui metafora spaziale: un sorta
di ‘campo’ emotivo da attraversare per giungere al cedimento
(cf. Dawe 2006, ad l.).
77
Altri intendono: «io sono giusto» (cf. per es. Dawe 2006,
ad l.). «Loro» si riferisce – con deissi al Coro presente sulla
scena – ai vecchi Tebani.
78
Passo corrotto. Si traduce tenendo presente la correzione
εὔπομπος ἂν (o αὖ: in questa versione accolta da Lloyd-Jones–
Wilson) γένοιο di Blaydes, ad l.
79
Espressione estremamente concettosa. Altri intendono:
«dimmi, se nella tua accusa puoi descrivermi con chiarezza la
155
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lite» (Lloyd-Jones; ma cf. Dawe 2006, ad l.) o addirittura, con
somma semplificazione, «parla, se puoi chiarirmi la disputa»
(Paduano). Si segue qui l’esegesi di Jebb, ad l.
80
Espressione discussa (cf. Nota al testo). Alcuni, accogliendo
la lezione tràdita, intendono: «nulla, a questo mondo, dipende
dall’arte degli indovini» (cf. Bollack, ad l.; si veda anche Dawe
2006, ad l., che pure rinuncia a conciliare tale valenza con il
testo trasmesso dai codici).
81
Cioè degli indovini che parlano in nome di Febo. La polemica anti-oracolare di Giocasta sembra obbedire a una ben
precisa climax: cf. supra, Introduzione, XXXVIIIs.
82
La versione fornita da Giocasta differisce, in alcuni dettagli significativi, da quella che sarà fornita dal Pastore ai vv.
1171-1177. Solo in séguito, infatti, si apprenderà che le caviglie
del bambino sono state ben più crudelmente scempiate; che
il sicario era uno solo; che a consegnargli il neonato è stata la
madre stessa. Per tali differenze non serve pensare a sviste di
Sofocle, né parlare esplicitamente di «menzogne» di Giocasta
(per le due possibilità cf. per es. Lattimore, 96 n. 33). Le due
testimonianze appaiono, in verità, perfettamente conciliabili,
se l’ordine emana da Laio – con ἔρριψεν, «gettò» (v. 719), meramente causativo – e se alla consegna del neonato da parte della
madre non si attribuiscono particolari risonanze di volontarietà
o di crudeltà personale, che il testo non comprova. Più che di
menzogne, si tratta dunque di omissioni o attenuazioni; cf. supra, Introduzione, XXXVIII n. 90 e LII.
83
Edipo, còlto dalla confusione durante il discorso di Giocasta, si limita ad appuntarsi sul dettaglio del trivio: cf. supra, Introduzione, LII. L’espressione del v. 726 è spesso genericamente
intesa e talora accostata ai φροντίδος πλάνοι del v. 67 (cf. per es.
Kamerbeek, ad l.; per un riesame delle interpretazioni proposte
cf. Bollack, ad l.); ma là l’«errare» della mente è produttivo e
siglato da una compiuta decisione; qui il turbamento è totale e
156
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Note
senza esiti: cf. Di Benedetto, 108.
84
Il trivio, scena del delitto, ha suscitato negli ultimi anni un
notevole interesse critico. Le tre strade coinvolte provengono
da Delfi (est), Daulide (nord) e Tebe (ovest). Dal punto di vista
‘tebano’ di Giocasta il trivio può dunque essere descritto come
bivio o biforcazione sulla principale direttiva ovest-est (TebeDelfi; cf. Roussel, Le récit, 365-367; già J.E. Powell, «Classical
Philology» XXX, 1935, 70); e di una σκιστῆς κελεύθου τρίοδος
(«trivio di strada divisa») parlava infatti Eschilo (fr. 387a R.: cf.
supra, Introduzione, XXVIII e infra, Appendice, 179), che però
collocava il famigerato sito nei pressi di Potnie, sobborgo a sud
di Tebe. Pausania (X 5,2) testimonia di un monumento funebre
dedicato a Laio e al suo servo in prossimità del trivio. Per la
fortuna critica (e turistica) del sito è utile J. Rusten, «Classical
Philology» XCI (1996) 97-112. Per le frequenti sovrainterpretazioni simboliche del ‘trivio’ (presunto emblema del rapporto
fra caso e libera decisione), è istruttiva la discussione fra G.
Steiner, J. Irigoin e J. De Romilly in De Romilly, 181s. Che a un
trivio possano inoltre essere connesse precise valenze religiose
– ermetiche o ctonie – non è dubbio, ma Sofocle non enfatizza
alcuno di tali significati (cf. invece, fra i più recenti, S. Halliwell, «Journal of Hellenic Studies» CVI, 1986, 187-190).
85
La lezione del v. 741 – che Dawe lascia intatta: ma cf.
Dawe 2006, ad l. – è sospetta. Fanno difficoltà la ripetizione
verbale (εἶχε, ἔχων) e l’espressione ἀκμὴν ἥβης, che sembra dare
per scontata la giovane età di Laio. La traduzione qui proposta
è generica e si attiene al senso atteso, ma per una discussione
del problema si vedano Kamerbeek, ad l. e ora H.-C. Günther,
Exercitationes Sophocleae, Göttingen 1996, 115.
86
Dal v. 759 si desume chiaramente che il Pastore – unico
scampato alla strage – apprende solo al suo ritorno della morte
di Laio. Il dettaglio è spesso dimenticato nelle ricostruzioni degli antefatti, ma cf. Griffith, 37 e in generale L. Bodin, «Revue
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des Études Grecques» XLIX, 1936, 77-86. Che l’espressione
del v. 759 contenga un hysteron proteron (la morte di Laio precede senz’altro il regno di Edipo) è astrattamente vero, ma ciò
non deve indurre a minimizzare la seconda parte dell’espressione quale pura appendice o pleonasmo (o mera ‘espressione
polare’, secondo Deubner, 42s.): il verso esprimerà, del tutto
naturalmente, l’ordine ‘deduttivo’ in cui le constatazioni hanno
luogo; del resto, Creonte ha precisato che il testimone «si è dato alla fuga, in preda al panico» (v. 118), senza determinazioni
temporali. Si veda ora quanto osserva L. Battezzato in Avezzù,
Il dramma sofocleo, 46 (= Battezzato, 46), anche contro le presunte incongruenze fra il v. 759 e i vv. 123 e 737, dai quali non
si può desumere che la notizia della morte sia stata portata a
Tebe dallo stesso Pastore (cf. invece Schneidewin-Nauck-Bruhn
e Jebb, ad l.; più recentemente E.P. Arthur, «Antichthon» XIV,
1980, 9-17); anzi, al v. 737 Giocasta si limita a dire che la morte
di Laio «fu annunciata alla città»; cf. in proposito anche G.
Vollgraff, «Mnemosyne» LI (1923) 370.
87
Edipo si riferisce alle prolisse maledizioni scagliate contro
l’assassino di Laio, e ora incombenti sul suo stesso capo. Altri
intendono: «credo di aver detto fin troppe volte perché voglio
vederlo», con riferimento alle molte esclamazioni di terrore sin
qui sfuggite a Edipo (vv. 738, 744s., 747, 754; cf. da ultimo Longo 2007, ad l.); ma si veda la critica di Kamerbeek, ad l.
88
Questa tardiva confessione di Edipo – che sembrerebbe
aver taciuto a lungo le proprie origini alla sposa – si colloca fra
quei «tratti irrazionali» (ἄλογα) che Aristotele riconosceva nell’Edipo re, benché limitati agli antefatti: cf. supra, Introduzione,
LVs. Sulla presunta incongruenza si sono soffermati in molti:
cf. per es. Jebb, XXVs.; Waldock, 165s.; Kamerbeek, ad v. 774;
spietato J.S. Morgan, «Classical World» LXX (1976) 249-255.
Non si è mancato di speculare su presunti problemi coniugali
fra Edipo e Giocasta (così E. Coughanowr, «Antiquité Clas158
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Note
sique» LXVI, 1997, 66), che costituiscono però un indubbio
modello di ὁμοφροσύνη (Bowra, 191). Le correzioni degli epigoni teatrali sono frequenti, e iniziano con il redit memoria di
Seneca, Edipo 768 (pur limitato all’episodio del trivio): cf. G.
Paduano in Gentili-Pretagostini, 104; Halter, 33.
89
Espressione di valore discusso, per la quale non è da
escludere – ma appare linguisticamente meno probabile – l’interpretazione accolta per es. da Campbell e Jebb, ad l. («la voce
si diffondeva»); cf. più recentemente Griffith, 91s. Per l’esegesi
qui adottata si vedano invece, per es., Kamerbeek, ad l. e Dawe
2006, ad l.
90
Espressione pressoché proverbiale, spiegano gli scolii antichi; una distanza misurabile soltanto per via astronomica – come accade per mare – è ovviamente una distanza esponenziale
e iperbolica; cf. Jebb e Longo 2007, ad l.
91
Laio e il suo corteo – e in particolare il suo auriga e/o il suo
araldo – si limitano evidentemente a procedere con irruenza
lungo la carraia percorsa da Edipo: il che equivale a un tentativo di scacciare il passante, costringendolo a cedere il passo;
inutile chiedersi – come troppo spesso si è fatto – se «il guidatore» fosse sul cocchio insieme a Laio, se sia sceso dal carro per
la bisogna, se Laio stesso (dal cocchio o da terra) abbia partecipato all’inelegante rissa (uno specimen di simili speculazioni
si troverà in Roussel, Le récit e in Salmon). Si veda piuttosto
Bollack, La naissance, 148; per gli ovvi valori di status legati alla
cessione del passo cf. Gregory, 144s., con utili paralleli. Per i
diversi personaggi coinvolti cf. infra, n. 93.
92
Nessuna confessione di colpa, da parte di Edipo, ma solo
l’orgoglio di una reazione eroica dinanzi all’affronto subito: cf.
supra, Introduzione, LXXIX. In questo resoconto non si è mancato di vedere una conferma dell’irosità che condannerebbe il
protagonista alla catastrofe, o addirittura una prova di inconsci
impulsi aggressivi o parricidi. Esemplare M. Torre in Uglione,
159
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109, secondo cui Edipo parla come «un blouson noir» e mostra
le contraddizioni di «un uomo che fugge l’omicidio del padre
ed uccide il primo vecchio che incontra». Proprio in àmbito
post-freudiano l’argomento ha goduto di qualche credito: a ragione Paduano, Sofocle, Seneca, 302s. n. 2 parla di «argomento
microrazionalistico»; esso va oltre il testo e ignora un dettaglio
fondamentale: Edipo resta certo che i suoi genitori siano Polibo
e Merope, come il suo immediato allontanamento da Corinto
dimostra (vv. 794-797) e come in séguito evidenzia il dialogo
con il Messaggero (vv. 1016-1019). Lo stesso pronunciamento di
Apollo, che pure glissa sulla fondamentale questione posta da
Edipo (vv. 788s.), ottiene il paradossale risultato di confermare
il presunto legame con Polibo e Merope (cf. Waldock, 146s.;
Manuwald, 16s.).
93
Il solo superstite – di cui Edipo si mostra all’oscuro – ha
evidentemente abbandonato la scena del delitto all’inizio dello
scontro: ciò che collima con quanto dichiara Creonte al v. 118
(«si è dato alla fuga, in preda al panico») e soprattutto con
quanto lascia intendere Giocasta al v. 759 (solo al suo ritorno in
Tebe il superstite ha potuto constatare la morte di Laio); lungi
dall’essere meramente presupposti, anche i dettagli extra-narrativi sembrano – per quanto ne trapela – abilmente studiati:
cf. supra, Introduzione, XLVII. Circa l’esatta composizione del
drappello sterminato da Edipo le opinioni sono varie: Laio
con il «banditore», il «guidatore» e l’«auriga» sembrano dare
la somma di quattro persone; con il superstite, si giunge al numero di «cinque» dichiarato da Giocasta (v. 752); ma è parso
poco chiaro il rapporto fra le tre diverse qualifiche impiegate,
che difficilmente indicheranno però una sola persona (così
per es. Roussel, Le récit, 367-372; Dain-Mazon, ad l.); cf. anche
Jebb, ad l., Campbell, Prolegomena, 104 e Kamerbeek, ad l. per
altri computi. Utile per un censimento delle opinioni in materia
– più che per la soluzione proposta – Salmon, 145-157. Contro
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Note
gli eccessi interpretativi cui la scena ha dato luogo si veda Bollack, ad l., nonché Id., La naissance, 145-150.
94
Capolavoro d’ambiguità tragica. «Se c’è qualcosa di comune fra Laio e lo straniero che io ucciso», intende Edipo; ma le
sue parole dicono di più: «se c’è qualche parentela (τι συγγενές)
fra Laio e questo (τούτῳ, che può intendersi riferito a realtà presente, benché di norma non al parlante: cf. Moorhouse, 156s.)
straniero (ξένος, come Edipo si è definito a partire dal v. 219).
95
Il tipo di contaminazione qui prospettata – quando l’omicidio paventato è semplice regicidio, non ancora parricidio – dipende dal possesso della vedova, e dunque dal protratto oltraggio verso l’ucciso; una forma di incesto ‘indiretto’, che annuncia
l’incesto reale: cf. Knox, Oedipus, 58; O. Longo in Uglione, 78.
96
Il parlar «chiaro» invocato dal testimone (σαφῶς) ricorda
l’illusoria chiarezza attribuita, con gli stessi termini, all’oracolo
delfico: cf. v. 106 e supra, n. 22; in entrambi i casi l’ambiguità è
nei numeri: cf. supra, Introduzione, XLVI-XLVIII.
97
Passo verosimilmente corrotto: si veda da ultimo Dawe
2006, ad l. La traduzione si attiene al senso generale.
98
Per questa gnome e per i complessi rinvii allusivi che si sono
voluti riconoscere nella strofe cf. supra, Introduzione, CII-CVI.
99
In questa «lotta» o «gara» – la metafora originaria è apertamente sportiva – si sono volute scorgere allusioni politiche
assai precise: cf. supra, Introduzione, CV n. 258. Certo è che
Sofocle sembra distinguere – come Esiodo (Opere, 11-26) – fra
una buona e una cattiva Eris, fra una sana e un’insana «Contesa»: cf. Untersteiner, I, 187. La vaghezza del riferimento è
comunque – qui come in tutta l’ode – evidente.
100
Passo seriamente corrotto. È possibile che il Coro si
riferisca ai «dardi» degli dèi (con θεῶν di Hermann o θεοῦ
di Blaydes), come manifestazione d’ira o come difesa per gli
uomini (cf. vv. 203-206); si veda l’attraente restaturo testuale
proposto da F. Ferrari, «Prometheus» XXVI (2000) 201-204.
161
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101
Battuta dal probabile valore metateatrale, che ha condizionato l’interpretazione parabatica dello stasimo (cf. supra,
Introduzione, CV n. 258): le danze cui il Coro si riferisce si
spiegano, entro la finzione drammatica, quali generici atti di
culto resi alle divinità (cf. v. 1093); ma esse possono indicare
altresì, con rinvio autoreferenziale, le danze che il Coro compie
nell’orchestra. Diano, 161 parafrasa addirittura con un «a che
scrivere più tragedie?» (e Schadewaldt, 282: «wozu noch tragische Chöre?»). Per la valenza metateatrale del verso cf. Perrotta, 239; Lesky, 337s.; Segal, Tragedy, 235; Pucci, 29; Dawe 2006,
ad l.; A. Henrichs, «Arion» III/1 (1994-1995) 56-111; Burkert,
Edipo, 102; contra, però, Di Benedetto, 137s.
102
Tre fra le più famose sedi oracolari della Grecia continentale; l’Ombelico della Terra è naturalmente Delfi; per il tempio
di Apollo ad Abe, in Focide, si veda Erodoto I 46,2, VIII 27,4 e
33, nonché la descrizione fornita da Pausania X 35. Ad Olimpia
era attiva e fiorente la sede oracolare intitolata a Zeus e gestita
dal clan sacerdotale degli Iamidi; la sua fondazione è ricordata
da Pindaro, Olimpica 6,70
103
Dawe adotta – con Jebb e altri – la splendida congettura
παλαίφατα di Hermann, che qui si traduce; cf. anche Studies, I,
245-247. Il testo rimane dubbio, e Lloyd-Jones–Wilson preferiscono mantenere la lacuna.
104
Giocasta enuncia, in apparenza, principi di rigorosa tecnica inferenziale, ai quali Edipo verrebbe meno; ma per la
regina tali principi dovrebbero indurre ad accantonare i presenti oracoli sulla base dei fallimentari oracoli già resi a Laio.
Solo Edipo saprà portare fino alle estreme conseguenze gli
indizi che via via emergono nel corso dell’indagine: cf. supra,
Introduzione, LXIIIs.
105
«Vicino» andrà inteso in senso spaziale, con precisa deissi
scenica all’altare che doveva trovarsi accanto all’ingresso del
palazzo. L’Apollo cui si allude è l’Agyieus, il «protettore delle
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Note
strade», la cui simbolica colonna (cf. Sofocle, fr. 370 R.2) o altare
si trovava spesso accanto alle porte d’uscita. L’attributo Lykeios
(cf. supra, n. 36) è dunque generico. Non si può escludere, nella
‘vicinanza’ di Apollo, un sovrasenso affettivo (Campbell, ad l.),
che qui suona naturalmente atroce, e ben poco a proposito.
106
L’improvviso arrivo del Messaggero è parso a molti – in
passato e oggi – una troppo facile trovata, da allineare ai presunti errori di plot su cui cf. supra, Introduzione, XLV-LVI.
L’autorevole giudizio risale a P. Corneille, Discours du poème
dramatique, in Oeuvres, I, Paris 1862, 42s., secondo cui il Messaggero «cade improvvisamente dal cielo» quando i personaggi
non avrebbero saputo cosa fare «se egli fosse arrivato un’ora
più tardi»; un’ora più tardi – si sarebbe tentati di rispondere
– il Messaggero avrebbe trovato il teatro vuoto. Meno superficialmente, nell’arrivo del Messaggero si è voluto vedere un
mezzo per comunicare la costante azione della divinità sulla
vita di Edipo (così, fra i molti possibili, Cameron, 73-78); che
attraverso tale soluzione si comunichi alcunché di crudelmente
e irrimediabilmente casuale – la tyche di cui Edipo si crede
a torto beniamino – è senz’altro vero: ma vedervi all’opera la
mano di dio è un modo alquanto tendenzioso di colmare gli
obiettivi silenzi del testo: cf. supra, Introduzione, XCIVs.
107
Un raggelante esordio, con una vera e propria misdirection
sintattica, che equivale alla messinscena di un lapsus: Giocasta è
sposa di Edipo, e madre – rivela il Coro, salvo aggiungere: dei
suoi figli. La traduzione si sforza di rendere l’ambiguità. Della
congiunzione θ᾿, nota a parte della tradizione indiretta – e accolta da Dawe – si può dubitare: ma con o senza congiunzione
l’atroce gioco verbale permane.
108
«Perfetta» (παντελής) in quanto sposa legittima e madre
di figli legittimi. Circa la reale ‘perfezione’ della coppia, il
pubblico sa, e tragicamente intende. Il Messaggero si esprime
qui alla terza persona «con un’ulteriore espressione di garbata
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deferenza; egli non vuole rivolgersi alla regina direttamente»
(Dawe 2006, ad l.); ma la facile correzione γένοι᾿ di Wecklein
– che riporterebbe tutto alla seconda persona – è tentante.
109
Il v. 943 è corrotto o lacunoso, e il γέρων di parte della
tradizione può essere antica integrazione desunta dal v. 941.
Dawe adotta il lieve intervento di Bothe (Πόλυβος, ὦ γέρον;), che
qui si traduce. Ugualmente tentante il τέθνηκε<ν Οἰδίπου πατήρ>,
«è morto il padre di Edipo?», di Nauck (recepito, fra gli altri,
da Lloyd-Jones–Wilson), che suppone una glossa intrusa (cf. la
discussione del passo in Lloyd-Jones–Wilson, Sophoclea, 101s.).
Ogni soluzione rimane ovviamente incerta: cf. Kamerbeek, ad l.
110
Frase che può suonare, in greco, tragicamente ambigua
(«che Polibo non è più tuo padre»), con riferimento alla rivelazione cui il dialogo con il Messaggero porterà di qui a poco. Di
tale ambiguità si è dubitato (cf. per es. Gigante, 86; Paduano,
Lunga storia, 75s. n. 12), ma forse a torto; comunque impossibile
che il séguito della frase significhi «[tuo padre] è un morto»
(così Vernant, Ambiguità, 93 n. 12; e ancora Buxton, 44).
111
Edipo – di cui si rimprovera a torto il razionalismo, prossimo all’empietà – tenta qui un sofistico salvataggio dell’oracolo,
a partire dalla sua mera enunciazione letterale: forse una morte
per nostalgia del figlio – immagina il sovrano – può essere intesa come una morte causata dal figlio; e l’oracolo può trovare
così una sua (metaforica) realizzazione. Simili scambi fra lettera
e senso sono tipici dei pronunciamenti oracolari e dei tragici
equivoci cui essi danno luogo: l’interpretazione di Edipo è dunque culturalmente sensata e fondata. Cf. anche Battezzato, 9s.
112
«Una metafora che dev’essere conservata», avvisa Gigante, 68: e così si fa qui. Ma la metafora oculare resta difficile
da comprendere: l’«occhio» è inteso ora quale sineddoche
per «segno, indizio», ora quale metafora per «luce» e dunque
«sollievo». Diano, 153 vi individuava un «calco» – si dovrebbe
dire: quasi una caricatura – del motto anassagoreo ὄψις τῶν
164
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Note
ἀδήλων τὰ φαινόμενα (fr. 21a D.-K.), «aspetto visibile di ciò che è
inapparente sono le apparenze». Un ampio quadro delle esegesi
proposte è in Bollack, ad l. Notevole, e a dir poco sinistra, la
ripresa dell’immagine da parte di Edipo, al v. 999 («è dolce /
vedere gli occhi dei tuoi genitori»: cf. Harsh, 252; Kamerbeek,
ad l.).
113
Il brusco passaggio al tono informale, con un’apostrofe
che è al contempo confidenziale e tragicamente ironica, pone
Edipo in una improvvisa posizione filiale e ribalta il τέκνα su
cui si apre la tragedia: cf. supra, Introduzione, LV n. 136.
114
Per questa battuta estremamente dubbia – il Messaggero
ha già annunciato di non avere alcun legame parentale con
Edipo – si veda la Nota al testo. Occorre osservare che al v. 1020
l’informazione essenziale trasmessa dal Messaggero – e l’unica
cui Edipo replichi – è: «Polibo non è il tuo vero padre»; sicché
non pare impossibile un dubbio reiterato, da parte dell’ansioso
inquirente.
115
Giocasta, al v. 718, si era espressa con ben altra delicatezza, parlando di una mera ‘legatura’ dei piedi. È difficile consentire con Maxwell-Stuart, 41-43, che nega a διατόρους il valore
di «perforati» (così anche Edmunds, The Cults, 233 n. 47). Il
termine, pur raro, indica senza dubbio una mutilazione di ben
più grave entità rispetto a quella evocata da Giocasta. Cf. anche
supra, n. 82 e supra, Introduzione, XXXVIII n. 90 e LII.
116
Domanda talora fraintesa: essa non può certo riferirsi all’imposizione del nomen loquens «Edipo» (v. 1036: così per es.
Ahl, 184), che è e non può che essere successivo all’abbandono
e alla mutilazione. Difende con tenacia questa interpretazione
Bollack, ad l. e La naissance, 156-160, che specula sulla sostanziale coincidenza di esposizione, mutilazione e ‘onomatotesi’,
interpretate come un unico e solidale gesto simbolico. Peccato
che in questo modo si attribuisca a Giocasta una sbadataggine
non trascurabile: alla regina, certo coinvolta nella simbolica
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‘onomatotesi’, sarebbe sfuggita l’omonimia tra l’antico figlio e il
nuovo marito. Per la (secondaria) funzione esercitata dai segni
corporali di Edipo cf. supra, Introduzione, XXXV.
117
La più approfondita esegesi del passo resta quella di Diano,
119-135. Un «figlio della Sorte» è un trovatello; e la sorte – precisa Edipo – è innanzitutto «buona Sorte». Ma è difficile non
pensare al «figlio fatale» (μόριμος υἱός) di Pindaro, Olimpica 2,38:
cf. infra, Appendice, 181. Del resto la τύχη perderà Edipo, come
ha annunciato Tiresia (v. 442), e la τύχη ha già ucciso Laio (v.
102), come ripeterà Giocasta opponendo illusoriamente il «caso»
all’uccisione per mano del figlio annunciata da Apollo (v. 949).
È una τύχη quella che ha costretto Edipo a lasciare Corinto (vv.
776s.), come quella che gli ha dato nome (v. 1036). Alla τύχη si
appella Giocasta in funzione consolatoria (vv. 977s.), di fronte a
un marito che di tanti «casi» inizia a dubitare. Il termine, consacrato dal v. 1080, è al centro di un sistema polisemico o enantiosemico di cui Sofocle sfrutta tutte le possibilità: dal «caso»
alla «coincidenza» alla «disgrazia» alla «buona sorte»; cf. per es.
Segal, Tragedy, 211-214; Pucci, 30-37; e già Bowra, 207s.
118
Il prossimo plenilunio – qui indicato come generica occasione festiva – riconoscerà nel Citerone l’origine ultima e autentica di
Edipo, in un completo annullamento di ogni altro legame parentale umano. Il Coro – che in quest’ultima fiammata d’entusiasmo
si eleva provocatoriamente a «indovino», ma in virtù della sua sola
intelligenza (cf. vv. 499-501 e supra, Introduzione, LXXXVII n.
210) – dà così séguito all’orgoglioso pronunciamento dello stesso
Edipo. Per le incertezze del passo cf. Nota al testo. Per questa
ispirata ma precaria illusione del Coro, che è tipico antefatto di
catastrofe, cf. per es. Webster, 104s.; Burton, 170s.; Di BenedettoMedda, 276-278; si veda, per il terzo stasimo in generale e per la
feroce ironia con cui sono rappresentate le illusioni del Coro, D.
Sansone, «Classical Philology» LXX (1975) 110-117.
119
L’«Ambiguo», «Oscuro» od «Obliquo» (Loxias) è per
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Note
antonomasia Apollo (così definito anche ai vv. 410, 853, 994),
in virtù dei ben noti trabocchetti verbali che caratterizzano i
suoi oracoli.
120
Cillene – montagna dell’Arcadia – è località tradizionalmente cara a Hermes, che con il titolo di Cillenio è spesso designato (fin dall’Inno omerico a Hermes 2). Il culto del dio sulla
cima del monte è testimoniato ancora da Pausania VIII 17,1s.
121
Per Dioniso (il «dio bacchico», cioè il dio del furore bacchico e dei baccanali) cf. supra, n. 38. Per le Ninfe dagli «occhi
lucenti» (o «scuri»), che non di rado accompagnano gli dèi montani come Dioniso, cf. Dawe 2006, ad l.
122
L’esordio – compreso l’invito a guardare in volto l’interrogante – e tutto il séguito ricalcano dappresso la pratica dell’erotesis, l’interrogatorio processuale attico: cf. Knox, Oedipus, 95;
supra, Introduzione, LVIII n. 144.
123
«Una riflessione allo stesso tempo matematica e poetica»,
ha scritto Jouanna, 493; una riflessione che sembra fornire il
risultato finale – un tragico zero – dei numerosi conteggi che
costellano l’Edipo re. Si veda in proposito Knox, Oedipus, 147158 (e Id, Word, 99-105), con ampio censimento dei passi intonati al vocabolario matematico; cf. anche supra, Introduzione,
XXXVI n. 83.
124
Passo corrotto, di cui la traduzione si limita a rendere
quanto è comprensibile. Per le diverse ipotesi di restauro testuale cf. Bollack, ad l. e Dawe 2006, ad l.
125
Per questa affermazione di ‘involontarietà’ – che riguarda
gli esiti dell’indagine, più che l’indagine in se stessa – cf. supra, Introduzione, XCVII. Un’ampia discussione del passo, con
censimento delle ipotesi proposte, si può leggere in Bollack, ad
l. e La naissance, 185-188. Lo studioso intende ἄκονθ(α), «involontario», al v. 1213, come globale affermazione di innocenza:
«et l’acte pourtant n’était pas volontaire». Ciò presupporrebbe
una valenza di ἄκων che va oltre il lessico (esso dovrebbe equi167
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valere tout court a «innocente») e oltre il contesto immediato
(cf. invece v. 1214 δικάζει, «giudica», dove ci attenderemmo almeno un’avversativa). È indubbio, però, che la presupposizione
di ‘involontarietà’ che qui si attribuisce all’esito dell’indagine
riverbera i suoi effetti sull’involontarietà dei delitti compiuti,
nella misura in cui ne sottolinea l’assoluta inconsapevolezza.
126
L’espressione dei vv. 1214s. rende, con significativa densità, il carattere paradossale e la contraddizione intima dell’incesto: cf. supra, Introduzione, CXXIs.
127
Passo tormentato, per cui si segue la stratificata sistemazione testuale offerta da Dawe (cf. lo stesso Dawe 2006, ad l.,
nonché Kamerbeek, ad l.; J. Diggle, «Classical Review» n.s.
XIX, 1969, 151; Lloyd-Jones–Wilson, Sophoclea, 108s.).
128
Espressione da intendersi in senso negativo («mi hai ucciso») o positivo («mi hai dato riposo»)? L’esordio del Coro – «ma
veramente» – sembra stabilire un complessivo contrasto fra la
presente catastrofe e la pace precedentemente garantita da Edipo: cf. Campbell, Paralipomena, 115 e ora Dawe 2006 e Longo
2007, ad l. Ma il caso resta dubbio: l’espressione introduttiva può
riferirsi al tragico contrasto che il Coro sta per esprimere (cf.
Jebb, ad l.), e una conclusione senza riferimenti al dolore attuale
può risultare monca; il contrasto fra felicità passata e caduta successiva era già nelle parole del Sacerdote (v. 50).
129
Nomi antichi del Danubio (nel suo tratto trace) e del Rion
(o, talvolta, del Tanais), qui pomposamente evocati quali fiumi
di straordinaria portata.
130
L’Edipo re evita l’esibizione del cadavere sulla scena, a
maggior risalto del successivo ingresso del protagonista, accecato e sofferente: cf. Di Benedetto-Medda, 295.
131
Nella concitazione del momento, Edipo chiede una spada
(v. 1255): perché? Per uccidere Giocasta, si è supposto per lo
più: cf. per es. Lattimore, 90; Gellie, 38; Dawe 2006, ad l.; Longo 2007, ad l. Ma nulla impedisce di credere che il proposito sia
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Note
qui il suicidio, sulla cui eventualità Edipo tornerà a discutere
– costretto dal Coro – ai vv. 1366-1370.
132
L’impiccagione è metodo di suicidio tipicamente femminile: cf. N. Loraux, Come uccidere tragicamente una donna, trad.
it. Bari 1988. Per uno dei paralleli più diretti, si veda il suicidio
della protagonista in Sofocle, Antigone 1221s.
133
Passo corrotto, crocifisso da Dawe limitatamente alla clausola del v. 1279, ma non esente da altri sospetti; la traduzione
è a senso. Per i numerosi problemi del passo si vedano Kamerbeek, ad l. (che tende però alla conservazione del testo tràdito)
e Lloyd-Jones–Wilson, Sophoclea, 109s. Per una decrizione dei
gesti compiuti da Edipo, con difesa del testo tràdito al v. 1276,
cf. Ferrari, Ricerche, 35s.; un più ampio tentativo di ricostruzione – che va ben oltre il testo sofocleo – è nel truculento contributo di W. Mulder, «Museum Helveticum» XI (1954) 122-125,
che tenta peraltro di spiegare le ragioni di un così copioso versamento di sangue; la corposa ma ellittica descrizione fornita
da Sofocle esime dall’indagare troppo i dettagli.
134
Il testo è incerto. Dawe accoglie l’economico μονούμενα
di Wilamowitz per il tràdito μόνου κακά (ripetitivo rispetto alla
clausola del v. 1281); ma il guasto può essere più ampio. La
traduzione rispetta il senso generale.
135
Il parricidio è menzionato, l’incesto è oggetto di una drastica aposiopesi: si verifica anche su questa base l’infondatezza
delle interpretazioni che subordinano l’incesto al parricidio,
tramutando quest’ultimo in una trascurabile variazione sul tema del regicidio; cf. supra, Introduzione, CXVIs. È significativo,
inoltre, che l’incesto sia così spesso nominato tramite perifrasi
e metafore: cf. G.O. Hutchinson in Griffin, 66. In generale per
le aposiopesi tragiche si veda D. Clay, «American Journal of
Philology» CIII (1982) 277-298.
136
Ancora una volta il testo affianca una professione d’involontarietà – con attribuzione della causalità ultima ad Apollo
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– e una ferma assunzione di responsabilità per il gesto dell’autoaccecamento. Si veda supra, Introduzione, XCVIs.
137
Passo estremamente dubbio, per la cui costituzione (ampiamente congetturale) si veda la Nota al testo.
138
Attraverso il pleonastico e apparentemente incongruo
ὁμογενής («consanguineo») il testo esprime l’iperbolica e innaturale consanguineità cui Edipo è costretto; della lezione tràdita si è sospettato (cf. Nota al testo), ma analoghi pleonasmi sono
impiegati da Sofocle per descrivere lo scandalo dell’incesto: cf.
supra, Introduzione, CXVII-CXXIV.
139
Per questo ‘pleonasmo parentale’ cf. supra, Introduzione,
CXXIII. Per la pregnanza dell’espressione si veda O. Longo in
Uglione, 80: il «sangue identico» (letteralmente «sangue consanguineo» o «parentale») è il sangue della genesi incestuosa,
ma anche, allusivamente, il sangue paterno versato da Edipo
e or ora menzionato (cf. v. 1400); così già Campbell, ad l. e
Prolegomena, 120. Si può cercare di razionalizzare l’elenco di
orrori fornito, in tragico accumulo, da Edipo («padri che erano
anche fratelli, figli che erano sangue della stessa stirpe, ragazze
che erano madri e mogli»), ma tutto sembra qui confuso nella
mistione del «sangue identico».
140
Luogo sospetto: il v. 1411, in apparenza gratuito e non privo
di goffaggine fra il v. 1410 e il v. 1412, è espunto da Dawe su ipotesi di Meineke; cf. anche supra, Introduzione, XXXIX n. 91.
141
L’insistenza sulla dimensione tattile, che contraddistingue
il rientro in scena di Edipo ormai cieco, è un tratto decisamente
contrario alla sua caratterizzazione di pharmakós, ‘capro espiatorio’ o uomo irrimediabilmente contaminato: cf. Di Benedetto,
127-130; Calame, 24s. È anche attraverso tale dimensione che
Edipo recupera un rapporto familiare atto a ridefinire il suo
statuto di padre/figlio incestuoso, formalmente escluso – per
eccesso d’inclusione – dal reticolo delle parentele; cf. supra,
Introduzione, CXXVs.
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Note
142
Una drastica espunzione delle ultime scene, a partire dal
v. 1424, è proposta ora da Dawe 2006, 192s., secondo le linee
delle argomentazioni svolte in Id., «Rheinisches Museum» n.F.
CXLIV (2001) 1-21; Dawe sospetta un’estesa interpolazione intesa a correlare – per una postuma messinscena congiunta – le
trame dell’Edipo re e dell’Edipo a Colono, secondo un’ipotesi
che risale almeno a P.L.W. Graffunder, «Neue Jahrbücher für
Philologie und Pädagogik» CXXXII (1885) 389-408 e che ha
riscosso il plauso di Hester, 46 (più diffusamente Id., «Antichton» XVIII, 1984, 13-23) e di March, 148-154. Una convincente difesa del testo tràdito è invece offerta da Davies, The
End e The End … Revisited (cui ha nuovamente replicato D.A.
Hester, «Prometheus» XVIII, 1992, 97-101, senza sostanziali
novità). I presupposti drammatici dell’espunzione sono demoliti da G. Serra in Avezzù, Il dramma, 321-339 e dallo stesso
Davies, The End … Revisited, 7-17; e occorre riconoscere che,
al di là della presunta incongruenza fra la profezia di Tiresia
(vv. 454-456) e il mancato esilio di Edipo, nessun altro solido
argomento è stato sin qui avanzato. Per le importanti funzioni
drammatiche e ideologiche riconoscibili al finale cf. supra, Introduzione, Cs. e CXXIV-CXXVIII.
143
Nelle parole di Edipo l’ingiunzione si unisce alla supplica: e
anche nel séguito (vv. 1522s.) Creonte dovrà rintuzzare un Edipo
tutt’altro che remissivo. Su questo aspetto del personaggio cf.
Knox, Heroic Temper, 26 e Oedipus, 191-196, nonché supra, Introduzione, XCVII n. 233. Nell’Edipo supplice del finale si è vista,
giustamente, un’inversione della scena iniziale: cf. Gellie, 40s.
144
In questi versi rimane forse la sola, opaca memoria della
comune sofferenza da cui la tragedia ha preso inizio, e che è
stata ormai accantonata: cf. Foley, 529s. e supra, n. 73 e Introduzione, XL, XLIII e LXVs.
145
Passo corrotto, cui pure non è mancato qualche difensore
(cf. e.g. Campbell, ad l. e Pearson: ma un riferimento ai genitori
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di Edipo appare impossibile a causa del futuro ἔσται); le cruces
di Dawe, che circoscrivono ipoteticamente il problema al v.
1494, andranno forse estese al γονεῦσιν del verso successivo.
Qui si traduce secondo l’emendamento ταῖς ἐμαῖς / γοναῖσιν di
Kennedy (accolto da Jebb), che resta però altamente incerto; cf.
anche Lloyd-Jones–Wilson, Sophoclea, 113.
146
Il testo dei vv. 1505s. è afflitto da due probabili corruzioni; il περιίδῃς del v. 1505 è fortunata congettura di Dawes per
il tràdito παρίδης: ma i dubbi rimangono (cf. Dawe 2006, ad l.);
del crocifisso ἐγγενεῖς al v. 1506 si salva qui il senso – tenendo
presente il γ᾿ integrato da Meineke – ma è possibile che vi si
nasconda un terzo aggettivo atto a definire lo stato di abiezione
cui saranno costrette Antigone e Ismene. Nessuna delle ingegnose congetture proposte appare risolutiva (ἐκγενεῖς Dindorf,
ἐκστεγεῖς Schneidewin, valutato con qualche favore da Dawe
2006, ad l.); improbabile che il termine vada inteso come ‘pleonasmo parentale’ (cf. supra, Introduzione, CXXIIIs.), secondo la
valenza iperbolica ed esasperata che esso sembra avere, almeno
sul piano connotativo, già al v. 442 («intrappolate nel ghenos
di origine» intendeva O. Longo in Uglione, 82; ma non così
Longo 1982 e 2007, ad l.). Altri hanno difeso il testo tràdito
– secondo lo stesso valore qui presupposto – sottintendendo
οὔσας (Campbell, 38 e ad l.; Jebb, ad l.; Kamerbeek, ad l.; LloydJones–Wilson, Sophoclea, 113; Longo 2007, ad l.).
147
Il contatto fisico qui evocato è segno dell’assenso e pegno
della promessa. Il gesto è verosimilmente indirizzato a Edipo
– più che alle figlie – e doveva avere effetivamente luogo, in scena, prima della successiva allocuzione ad Antigone e Ismene.
148
Cosa concede, Creonte? Il suo «va’» (στεῖχε, v. 1521) può
riferirsi all’esilio, che Creonte ha giudicato probabile (v. 1519);
a ciò può orientare anche il riferimento alle figlie, oggetto di un
addio che non parrebbe, a tutta prima, soltanto temporaneo:
così ora Longo 2007, ad l.; e cf. già W.M. Calder III, «Classical
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Note
Philology» LVII (1962) 223-225. Tuttavia non si può ignorare
che tutto il dialogo precedente esclude l’esilio come prospettiva
immediata e ne vincola la concessione al pronunciamento divino (vv. 1438s., 1518): cf. Taplin, 45s.; Id. in de Romilly, 169-172;
Davies, The End; Id., The End … Revisited, 10s., ha giustamente
osservato che l’addio alle figlie può essere prefigurazione di un
addio più definitivo, semplicemente adombrato dal testo (non
diversamente da quanto accade nel topico addio anticipato di
Ettore e Andromaca in Il. VI). Per l’ambigua conclusione si
veda anche Paduano, Lunga storia, 120; Foley, 532-534; R. Kitzinger, in R.M. Rosen-J. Farrell (ed. by), Nomodeiktes. Greek
Studies in Honor of Martin Ostwald, Ann Arbor, MI 1993, 539556; cf. anche supra, Introduzione, CXXVIIs.
149
Il v. 1526 è gravemente corrotto: cf. supra, Nota al testo.
150
Anche il finale del v. 1528 (ἰδεῖν) è sospetto e non di rado
emendato in ἔδει (Stanley, seguito da Lloyd-Jones–Wilson); ma
tutto il costrutto del verso ha suscitato consistenti dubbi. La
traduzione si attiene alle difese del testo tràdito offerte – pur
con diverse opinioni sui particolari – da Jebb e Kamerbeek, ad
l.; le perplessità tuttavia rimangono.
151
Il sentenzioso finale è di sospetta autenticità (cf. anche
supra, Nota al testo). Espunto da F. Ritter («Philologus» XVII,
1861, 422-436), che incontra l’approvazione di SchneidewinNauck-Bruhn, Pearson, Dawe (1982 e 2006), Davies, The End,
269 n. 4, Longo (1982 e 2007), esso è stato difeso da D. Olson,
«Phoenix» XLIII (1989) 189-195 (almeno per i vv. 1524s.) e
prima da Dodds, 48 e W.M. Calder III, «Classical Philology»
LVII (1962) 219-229, con giudizio condiviso da Di Benedetto,
133 n. 45 (assai esile, invece, B. Arkins, «Classical Quarterly» XXXVIII, 1988, 555-558). I più poderosi argomenti per
l’espunzione sono in Dawe, Studies, I, 266-273, che trova in
Euripide, Andromaca 100-102 e soprattutto in Fenicie 16871689, 1758-1763 il modello dell’interpolatore; ma non mancano
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ottime ragioni per credere che la chiusa gnomica delle Fenicie
sia desunta dall’Edipo re, piuttosto che viceversa: cf. supra,
Introduzione, CXI n. 275; indecisi Lloyd-Jones–Wilson, Sophoclea, 113s. Fra chi accetta i versi come fra chi li rifiuta, rimane
il dubbio se essi vadano attributi al Coro (con i codici: così da
ultimo Dawe 2006; cf. anche Kamerbeek, ad l.; Lesky, 339; W.
Pötscher, «Emerita» XXXVIII, 1970, 157-161; Di Benedetto,
133 n. 45; Lloyd-Jones–Wilson; Burton, 183-185) o a Edipo (come sembra suggerire lo scolio al v. 1523: così per es. Pohlenz,
I, 254, ma già Wilamowitz, Excurse, 66-68; cf. anche la ferma
presa di posizione di E. Fraenkel, Aeschylus. Agamemnon,
Oxford 1950, III, 804 n. 1: «I cannot make any compromise on
this much-disputed point»).
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Appendice
Laio, Edipo, la Sfinge: frammenti d’altre storie
1. I FUNERALI DI EDIPO (Iliade XXIII 677-680)
Eurialo solo gli si levò contro1, uomo pari agli dèi,
il figlio di Mecisteo, del re nato da Talao,
che un tempo giunse a Tebe2, al funerale
di Edipo caduto3; e sconfisse, laggiù, tutti i Cadmei.
2. EPICASTA NELL’ADE (Odissea XI 271-280)
E vidi la madre di Edipo, Epicasta bella4,
che un fatto immane compì con animo ignaro,
andando sposa a suo figlio; e dopo che uccise5 suo padre
lui la sposò: ma presto6 gli dèi svelarono tutto agli uomini.
E lui nell’amabile Tebe, soffrendo i suoi mali7,
regnò sui Cadmei, per gli atroci voleri dei Numi.
Lei invece andò all’Ade, al duro guardiano di porte8,
appeso un ripido cappio all’alto soffitto,
vinta dalla sua angoscia; e a lui lasciò pene da vivere,
innumerevoli, quante ne possono dare le Erinni materne.
3. EDIPO IN ESIODO
Opere, vv. 161-165
E questi9 la guerra crudele e l’orrenda battaglia
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alle sette porte di Tebe, in terra Cadmea,
tutti li uccise, furiosi intorno alle greggi di Edipo10,
o sopra le navi, al di là dell’immenso abisso marino,
spingendoli a Troia in nome di Elena dai bei capelli.
Fr. 192 M.-W. = 135 Most11
[Omero] dice che [Edipo] morì a Tebe, diversamente dai poeti
più recenti. Ed Esiodo, da parte sua, dice che Argia figlia di
Adrasto12, dopo la morte di Edipo a Tebe, arrivò insieme ad
altri per i suoi funerali.
Fr. 193,1-8 M.-W. = 90,1-8 H. = 136,1-8 Most13
] Alcmeone14 pastore di popoli
] … Cadmee dai lunghi pepli
] a vederselo innanzi15
funerali] di Edipo dolente16
] … lotta per la ricchezza
nobili] Danai, servi di Ares
] facendo cosa grata a Polinice
] infrangendo gli oracoli di Zeus17
4. LA REGINA E I SUOI FIGLI (Stesicoro PMGF 222b,201-234)18
…
«non aggiungere ai mali aspri tormenti,
per il tempo che viene
non annunciarmi gravi previsioni19,
perché non sempre nello stesso modo
gli dèi immortali sulla sacra terra
diedero agli uomini perenne lotta,
e nemmeno amicizia […] la mente dei mortali 20
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Appendice
dispongono gli dèi.
Che le tue profezie non voglia compiere
Apollo, il sire arciere, fino in fondo21.
Ma vedere i miei figli che si uccidono:
se questo è il mio destino, se così me lo filano le Moire,
che venga su di me, immediatamente, la morte odiosa,
prima che io veda questo
lutto, questo dolore, per le pene […]
i miei figli ammazzati
qui nelle case, o presa la città.
Figli, voi date ascolto a ciò che dico […]
così vi mostro un termine:
uno di voi tenga per sé le case, e abiti […]22
l’altro prenda le mandrie
e l’oro di suo padre, tutto quanto, e se ne vada via,
come vuole il sorteggio, chi per primo
estrarrà, per volere della Moira23.
Credo che in questo modo
potrete liberarvi dal destino
maligno, come avverte il sacro vate,
se adesso Zeus la stirpe e la città […]
di Cadmo re,
rinviando la rovina che da tempo […]
decisa per la stirpe».
Così disse la nobile signora, parlando con mitezza,
dalla lotta domestica […] i figli,
e il profeta Tiresia, insieme a lei. E loro le obbedirono.
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5. FRAMMENTI DELL’EDIPODIA24
Fr. 1 Dav. = 1 Bern. = 3 W.25
Chi ha scritto l’Edipodia […]26 a proposito della Sfinge:
ma anche lui che fra gli altri era il più bello, il più desiderabile,
il figlio di Creonte senza macchie, Emone luminoso27
Fr. 2 Dav. = 2 Bern. = 1 W.28
[Edipo] li ha avuti invece [scil. i suoi quattro figli] da Eurigania,
la figlia di Iperfante29. Lo mostra anche l’autore di quel poema
che chiamano Edipodia.
6. FRAMMENTI DELLA TEBAIDE30
Fr. 2 Dav. = 2 Bern. = 2 W.31
Fu a causa delle coppe che Edipo maledisse i suoi figli – come
dice l’autore della Tebaide ciclica – perché essi gli posero
davanti una coppa che lui aveva vietato. Questi sono i versi:
Ma l’eroe nobilissimo, il biondo Polinice,
prima pose per Edipo una mensa, bella, d’argento,
che fu del sacro Cadmo. E poi una coppa
bella, d’oro, colmò di dolce vino.
Ma quando egli s’accorse che giacevano, di fronte a lui,
i pregiati tesori di suo padre32, gli cadde in cuore un male
grande: e subito
su entrambi i propri figli lanciò dure
maledizioni; e la divina Erinni se ne avvide:
l’eredità paterna […]33
dividersi fra loro, e per entrambi sempre guerre e lotte
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Appendice
Fr. 3 Dav. = 3 Bern. = 3 W.34
Eteocle e Polinice avevano l’abitudine di inviare a loro padre
Edipo, quale porzione da ogni sacrificio, una spalla; ma un giorno
omisero di farlo, o per negligenza o per qualsiasi altro motivo, e
gli mandarono un femore. E lui allora, con meschineria e con
ben poca nobiltà, li maledisse, perché si riteneva disprezzato.
Così narra l’autore della Tebaide, in questi versi:
non appena del femore si accorse, a terra lo gettò e parlò così:
«povero me, mi insultano, i miei figli, e mi mandano […]»35
…
e pregò Zeus sovrano, e tutti gli altri dèi,
che scendessero all’Ade, l’uno ucciso dall’altro36
7. GLI EREDI DI EDIPO (PINDARO, OLIMPICA 2,35-42)37
E la Moira governa la benevola
sorte che è lascito dei loro padri38: e mescola alla sacra
prosperità disgrazie, che altro tempo
verrà per rovesciare. Così è stato
dal giorno che si fece incontro a Laio
il suo figlio fatale, e che l’uccise, avverando l’antico
oracolo che gli fu reso a Delfi39.
Vide, l’Erinni acuta: e sterminò, per reciproca strage,
la sua stirpe guerriera40.
8. IL TRIVIO DI POTNIA (ESCHILO, FR. 387A R.)41
E venimmo, in cammino, fino al trivio
della Strada Divisa, solcata dai carreggi: e qui, passammo
dove giungono insieme, per unirsi, le tre strade di Potnia42.
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9. UN RIASSUNTO DELLA SAGA (ESCHILO, SETTE CONTRO TEBE, 720-791)
Mi mette i brividi la dea che abbatte
le case, quella dea che non è dea,
indovina di mali, sempre esatta,
l’Erinni che ha invocato la preghiera
d’un padre: compirà i furiosi voti
di Edipo demente? Ora la guerra
incalza: e sarà strage per i figli.
Già lo straniero estrae le sorti, l’esule
di Scizia, Calibo, l’amaro arbitro
che d’ogni bene fa le parti, il ferro
spietato43; e questo è l’esito: abitare
tanto di terra quanto basta ai morti;
di così larghe piane
non avranno mai parte.
Se muoiono in reciproco omicidio,
in reciproca strage,
se la polvere, al suolo, inghiottirà
nero di sangue secco e d’assassinio,
chi troverà riti lustrali? Chi
li potrà mai lavare? Ecco, disgrazie
nuove che in queste case
vengono per congiungersi alle antiche!
Antica trasgressione – a questo penso –
e rapida la pena: eppure giunge
fino alla terza stirpe.
Fu quando Laio insorse contro Apollo:
per tre volte il dio disse nei suoi oracoli
delfici, dove è il centro della terra,
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Appendice
«morire senza figli,
salvezza per la patria»44.
Ma ebbe la meglio una pazzia d’amore:
e Laio generò la propria morte,
Edipo parricida,
che nella sacra terra di sua madre
osò gettare il seme, nella stessa
terra che lo nutrì: e fu la radice
del sangue. Fu un delirio
che congiunse i due sposi in folle unione45.
Come un mare di mali ora sommuove
l’onda: e a un’onda che cade, ne alza un’altra,
di tre creste, che schiuma sulla poppa
delle città. Barriera troppo breve,
spazio di torre, in mezzo:
nient’altro ci protegge46.
Ho paura che insieme ai suoi sovrani
cada questa città.
Si avverano – baratto doloroso –
i voti maledetti di quel tempo.
La distruzione passa, e ignora i miseri47;
ma costringe a gettare via la merce
giù dal muro di poppa la ricchezza
troppo gonfia di gente che guadagna.
Chi ha conosciuto tanta ammirazione
dagli dèi che hanno parte
del focolare urbano, dalla stirpe
degli uomini che nutre mille vite,
quanta ne seppe Edipo, onorato
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perché aveva strappato dal paese
quel demone di morte, rapitore?48
Ma quando, disgraziato, egli si accorse
delle sue dolorose
nozze, non seppe tollerare il colpo:
lo prese la pazzia
e due mali gemelli portò a termine49:
con le sue stesse mani parricide
si esiliò dai suoi occhi […]50.
E pieno di rancore per la loro
cura […]51 lanciò sui figli
maledizioni amare:
dovessero spartirsi tutti i suoi
beni con mano armata
di ferro52. E ora ho paura: forse il piede
agile dell’Erinni avvera tutto.
10. EDIPO NELL’ANTIGONE53
Vv. 49-5754
Ah, sorella, ma pensa nostro padre,
l’odio e l’onta in cui è morto
per le sue colpe – e a lui toccò scoprirle – entrambi
gli occhi feriti dalle proprie mani,
e poi la madre, moglie – entrambe: madre e moglie –
che stringe un nodo e getta la sua vita,
e poi i fratelli, due, in un solo giorno,
che si danno la morte, l’uno all’altro,
loro due, disperati: due colpi, e un solo fato che si compie.
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Appendice
Vv. 582-60355
Felice chi può vivere il suo tempo
senza sapere il gusto del dolore. Ma a chi la casa è scossa – un dio
lo vuole –
più nessuna sfortuna è risparmiata: e si estende alla folla della
stirpe.
Ed essa è come l’onda
marina quando al battito dei venti
di Tracia fruga il fondo
salmastro: dall’abisso
smuove un nero di sabbia, e sulle rive
scosse dal vento echeggia ai colpi un rombo.
Vedo, delle dimore dei Labdacidi,
pene antiche piombare sulle pene
dei morti: né una stirpe salva l’altra,
ma un dio l’abbatte e non dà pace, mai.
Ora su queste ultime
radici si spandeva qualche luce, nelle case di Edipo:
ma ecco che la sciabola cruenta
degli dèi sotterranei torna a mietere:
follia della parola, Erinni dei pensieri.
11. DALL’EDIPO DI EURIPIDE56
Fr. 539a K.57
Febo glielo vietava, ma lui seminò un figlio
Fr. 540 K.58
] … chioma di boccoli;
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e sotto le sue zampe di leone ritraeva la coda
sedendo … ] …
…
…
… ] esponeva alla luce le sue ali;
volte al carro del Sole], come oro risplendevano le piume
sul dorso della belva]; se invece le volgeva verso l’ombra,
cupa la loro luce scintillava], come un arcobaleno
Fr. 540a K.59
…
] … lasciammo[
…
] sibilando … [
] enigma, quella [vergine] omicida
] ripeteva i suoi versi …
«c’è un essere dotato di parola], un essere pensante [
che ha quattro e] due e tre piedi [
Fr. 541 K.60
e noi, il figlio di Polibo, noi lo blocchiamo a terra
e lo accechiamo, gli straziamo gli occhi
12. R ICORDI DI GIOCASTA (EURIPIDE, FENICIE, VV. 1-80) 61
GIOCASTA62. Tu che percorri la tua via celeste, attraverso le stelle,
sopra il tuo cocchio tutto ornato d’oro63,
Sole che sulle rapide puledre
volgi intorno il tuo fuoco, che raggio sfortunato sopra Tebe
versasti il giorno che arrivò qui Cadmo
dalla terra marina di Fenicia.
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Appendice
Armonia fu sua sposa, la figlia di Afrodite,
e ne ebbe Polidoro, da cui nacque
Labdaco – si racconta – e poi da Labdaco
Laio64. Io sono la figlia di Meneceo.
[Creonte è mio fratello. Noi siamo nati dalla stessa madre.]
Il mio nome è Giocasta. Fu mio padre
che mi chiamò così. Laio mi prese
in moglie. Già da tempo era padrone
del mio letto e vivevo in casa sua. Ma non aveva figli.
E allora andò, per domandare a Febo, e supplicare
di avere, accanto a noi, prole di maschi, figli per la casa.
Ma Febo così disse: «re di Tebe nutrice di destrieri,
non seminare il solco delle nascite, contro la volontà
degli dèi. Se avrai un figlio, chi ti è nato
ti ucciderà. E si accrescerà fra il sangue
tutta la tua casata». Ma Laio, in preda al vino,
cede al piacere e semina in me un figlio65. E dopo che ebbe
seminato il figlio,
riconosce il suo errore, e la voce fatidica del dio,
e dà il figlio ai pastori, perché glielo abbandonino
lungo il prato di Era, in vetta al Citerone;
prima, però, gli fora le caviglie
con pungoli metallici; perciò la Grecia gli dà il nome d’Edipo.
Ma i servi che attendevano ai cavalli
di Polibo lo prendono, lo portano a palazzo e lo consegnano
alla regina. E lei si accosta al seno
il frutto del mio parto, e a suo marito
fa credere che fosse nato a lei. Quando mio figlio ormai si fece
uomo,
con un fulvo di barba sulle guance, forse capì da solo, forse seppe
da altri: e se ne andò al tempio di Febo,
per conoscere i veri genitori. E insieme vi andò Laio, mio marito,
per sapere se il figlio abbandonato
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vivesse ancora. E i loro due cammini
giunsero insieme nello stesso punto: alla Strada Divisa della
Focide66.
E l’auriga di Laio gli dà un ordine:
«straniero, via di mezzo, passa un re».
Ma lui, orgoglioso, tace e tira dritto. E i cavalli al galoppo
gli insanguinano i tendini dei piedi67.
E allora – ma perché devo narrare
disgrazie che non c’entrano? – il figlio uccide il padre, prende
il carro
e ne fa dono a Polibo, colui che l’ha cresciuto. Ma la Sfinge
allora tormentava la città, con i suoi rapimenti, e io ero vedova;
e perciò mise in palio le mie nozze, Creonte, mio fratello:
per chiunque trovasse una risposta
all’enigma di quell’astuta vergine
c’era il mio letto, in premio. E il caso vuole
che sia mio figlio Edipo a spiegare
il canto della Sfinge. E diviene il signore del paese
e lo scettro di Tebe ottiene in premio:
e all’oscuro di tutto, disgraziato, sposa sua madre. E lei
non s’accorge che dorme accanto al figlio.
Così a mio figlio io genero due figli
maschi, Eteocle e la forza gloriosa
di Polinice. E due bambine: Ismene
– questo nome per lei scelse suo padre – e Antigone, la prima,
come io l’ho chiamata. Ma quando Edipo seppe che il mio letto
era letto d’incesto, lui che tutte
le pene ha sopportato, volle infliggere
una strage tremenda ai propri occhi; e insanguinò le sue pupille
a colpi
68
di fermagli dorati . E quando, infine, le guance dei miei figli
si scurirono,
chiusero sotto chiave loro padre, perché fosse annullato ogni
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ricordo
d’una sventura che chiedeva troppi
sofismi. Egli ora è vivo: è dentro casa. La sua sorte lo abbatte,
e impreca le più immonde imprecazioni
contro i suoi stessi figli: che col ferro affilato essi si debbano
spartire questa casa. E loro, nel terrore che gli dèi
giungano ad avverare questi voti, se vivono qui insieme,
hanno deciso di comune accordo: che per primo il più giovane,
Polinice, lasciasse questa terra, esule per sua stessa volontà,
e che Eteocle restasse, e fosse il re,
l’un l’altro avvicendandosi ogni anno. Ma seduto sul ponte del
potere,
Eteocle non vuol cedere il suo trono
e scaccia dal paese Polinice.
E lui va ad Argo, stringe parentela
con Adrasto: e raccoglie un grande esercito
d’Argivi, e qui lo guida. Giunge alle sette porte delle nostre
mura, e chiede lo scettro di suo padre, e parte della terra.
13. EDIPO IN ARISTOFANE (R ANE, 1180-1194) 69
DIONISO. E parla, su. Sentiamoli, i tuoi prologhi,
quanto sono corretti i loro versi70.
EURIPIDE. «Fu un uomo fortunato, Edipo, un tempo».
ESCHILO. Ma per dio, ma neanche per idea. Fu proprio sfortunato
di natura,
se prima ancora che venisse al mondo, Apollo ha dichiarato
che lui doveva uccidere suo padre. Anzi, prima che fosse
concepito71.
Si può dire «fu fortunato, un tempo»?
EURIPIDE. «… e poi fu il più infelice dei mortali».
ESCHILO. Ma no, per dio, ma no: non ha mai smesso di essere
infelice.
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Insomma: appena nato, in pieno inverno
l’abbandonano, chiuso in una giara72,
perché non diventasse un parricida, una volta cresciuto.
E poi si è trascinato fin da Polibo, lui, coi suoi piedi gonfi73,
e poi, giovane appena, si è sposato una vecchia –
che era anche sua madre, per di più.
E per finire, si è cavato gli occhi.
14. LO «SCOLIO DI PISANDRO» (SCOLIO
= FGRHIST 16 F 10)74
A
EURIPIDE, FENICIE, 1760
Pisandro racconta che la Sfinge fu inviata ai Tebani per l’ira
di Era, dalle più remote regioni dell’Etiopia, perché essi
non avevano punito Laio, macchiatosi di illecito amore per
Crisippo75, che egli rapì da Pisa. La Sfinge era come la si ritrae
di solito, ma aveva la coda di serpente76. Essa rapiva piccoli e
grandi e li divorava: fra essi anche Emone, il figlio di Creonte,
e Ippio, il figlio di Eurinomo, quello che combatté con i
Centauri. Eurinomo ed Eioneo erano figli dell’eolide Magnete
e di Filodice. Ippio, mentre era ospite, fu ucciso dalla Sfinge,
mentre Eioneo fu ucciso da Enomao, allo stesso modo di tutti
gli altri pretendenti77.
Laio fu il primo a praticare questa illecita forma d’amore.
Crisippo, per la vergogna, si uccise con la spada. Allora Tiresia
– che in quanto indovino sapeva che Laio era inviso agli dèi
– cercò di distoglierlo dalla strada che conduceva da Apollo78,
e di persuaderlo a fare piuttosto sacrifici per Era protettrice
del matrimonio. Ma Laio non degnò Tiresia d’attenzione.
E dunque, una volta partito, fu ucciso da Edipo alla Strada
Divisa, e con lui il suo auriga, perché colpì Edipo con la frusta.
Dopo averli uccisi, [Edipo] li seppellì immediatamente con i
loro abiti, dopo aver strappato la cintura e la spada di Laio, che
indossò. Quanto al carro, tornò indietro e lo diede a Polibo79.
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Appendice
Quindi sciolse l’enigma e sposò sua madre. In séguito, dopo
aver compiuto alcuni sacrifici sul Citerone, stava tornando
indietro e aveva accanto a sé, sul carro, anche Giocasta. E
quando si trovarono in quella località, la Strada Divisa, Edipo
si ricordò dell’accaduto, indicò il luogo a Giocasta, le raccontò il
fatto e le mostrò la cintura80. Lei ne fu molto colpita, e tuttavia
tacque: ignorava infatti che fosse suo figlio81. E in séguito arrivò
un vecchio mandriano da Sicione, che gli raccontò tutto: come
l’aveva trovato, raccolto e dato a Merope, e gli mostrò insieme
le fasce e i pungoli82, chiedendogli in cambio la ricompensa. E
in questo modo tutto venne alla luce.
E dicono che dopo la morte di Giocasta e il suo accecamento
sposò la vergine Eurigania, e da lei gli nacquero i suoi quattro
figli83.
Questo dice Pisandro.
15. UNA TESTIMONIANZA DI FERECIDE (FGRHIST 3 F 95 = EGM 95)84
Così racconta Ferecide circa i figli di Edipo e le donne da
lui sposate: «Creonte – dice – consegna a Edipo la sovranità
e la moglie di Laio, Giocasta, sua madre; da lei gli nascono
Frastore e Laonito, che muoiono uccisi dai Minii e da Ergino85.
Trascorso un anno, Edipo sposa Eurigania figlia di Perifante86,
dalla quale gli nascono Antigone e Ismene; quest’ultima la
uccide Tideo presso la fonte che da lei ha preso il nome di
Ismene87. Dalla stessa donna gli nascono i figli Eteocle e
Polinice. Dopo la morte di Eurigania, Edipo sposa Astimedusa,
figlia di Stenelo88». Alcuni dicono che Eurigania fosse sorella di
Giocasta, la madre di Edipo.
16. LA SFINGE RIDOTTA A RAGIONE (PALEFATO, 4) 89
Della Sfinge Tebana si dice che fosse una belva con corpo di
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cane, capo e volto di ragazza, ali d’uccello e voce umana. Sedeva
sul monte Fichio e cantava un enigma a ciascuno dei cittadini.
Chi risultava incapace di risolverlo, l’ammazzava. Quando
Edipo risolse l’enigma, si uccise gettandosi nel vuoto90.
La storia è incredibile e impossibile. Non può esistere, una
creatura come questa; e una trovata da bambini è pensare
che venisse divorato dalla Sfinge chi non riusciva a risolvere
l’enigma. Che i Tebani, poi, non ammazzassero il mostro a suon
di frecce, ma lasciassero divorare i cittadini come nemici, è cosa
insensata.
La verità è questa. Cadmo arrivò a Tebe con una sposa amazzone
di nome Sfinge. Uccise Dragone, si prese le sue ricchezze e il
suo regno; poi si prese anche la sorella di Dragone, che si
chiamava Armonia91. Quando vide che Cadmo sposava un’altra
donna, Sfinge convinse un gran numero di cittadini a seguirla,
dopo aver sottratto quasi tutte le ricchezze e anche il cane dai
piedi rapidi che Cadmo portò con sé al suo arrivo92. Con tutto
ciò se ne andò sul monte Fichio93, e di lì faceva guerra a Cadmo.
Tendeva agguati al momento opportuno, uccideva chi riusciva a
catturare e poi si ritirava.
I Tebani chiamano “enigma” l’agguato. E i cittadini
mormoravano così: «quella Sfinge crudele sta in agguato con il
suo “enigma” e fa preda di noi, standosene sul monte. Nessuno
riesce a indovinare il suo “enigma” e affrontarla in campo
aperto è impossibile. Non corrono, no, né il cane né la donna,
ma volano, tanto sono veloci». Cadmo annuncia pubblicamente
che verserà molte ricchezze all’uccisore di quella Sfinge. E
allora arriva Edipo, un uomo di Corinto esperto di guerra, con
un cavallo rapidissimo, e riunisce i Tebani in bande; esce di
notte e la attende al varco: dopo aver scoperto il suo “enigma”,
[cioè il suo agguato,] uccide quella Sfinge.
Questo è quanto accadde; il resto è favola.
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17. L’ENIGMA E LA SUA SOLUZIONE
Asclepiade di Tragilo, Storie tragiche (FGrHist 12 F 7a)94
C’è sulla terra un essere a due piedi, e a quattro piedi, e a tre
piedi. Sempre la stessa è la sua voce. Solo fra tutti gli esseri che
al suolo
si muovono, o nel cielo, o in fondo al mare, esso muta natura.
Ma quando, nel cammino, sono maggiori i piedi su cui posa,
proprio allora è più fievole la forza delle sue membra.
Scolio a Euripide, Fenicie, 50 (I 257 Schw.)
Musa dei morti, ali mostruose, ascoltami, anche se non lo vuoi:
parlerò e darò fine al tuo raggiro.
È l’uomo, ciò che dici: l’uomo, quando cammina sulla terra,
dapprima ha quattro piedi, alla sua nascita;
quando è vecchio si appoggia al suo bastone – e questo è il terzo
piede –
sotto il peso degli anni, a collo curvo.
18. L’ORACOLO DI LAIO95
Laio, figlio di Labdaco, tu chiedi una felice discendenza.
E io ti darò un figlio. Ma è destino che tu lasci la luce
per mano di tuo figlio. Così ha accordato Zeus nato da Crono,
che ha accolto le tremende imprecazioni
di Pelope, a cui tu hai rapito il figlio96. È lui che ti ha augurato
tutto questo.
19. EDIPO IN SINTESI (DIODORO SICULO IV 64)97
Laio, re di Tebe, sposò Giocasta sorella di Creonte, e poiché
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dopo qualche tempo era ancora senza prole, interrogò l’oracolo
circa la nascita dei suoi figli. La Pizia gli diede il responso:
avere figli non gli conveniva, perché il bambino da lui generato
sarebbe diventato parricida e avrebbe riempito l’intera casata
di disgrazie. Ma Laio dimenticò l’oracolo e generò un figlio,
quindi abbandonò il neonato dopo avergli forato le caviglie con
due fibbie di ferro. Per questo in séguito fu chiamato Edipo.
Ma i suoi servi presero il bambino e non vollero abbandonarlo:
lo donarono invece alla moglie di Polibo, che non poteva
avere figli. In séguito, quando il bambino si fece uomo, Laio
decise di interrogare l’oracolo a proposito del neonato che
aveva abbandonato; Edipo, intanto, aveva saputo da qualcuno
di essere un trovatello, e si dispose a interrogare la Pizia
sull’identità dei suoi veri genitori. All’altezza della Focide i
due si trovarono l’uno di fronte all’altro: Laio, altezzosamente,
ordinò di cedergli il passo, ma Edipo, preso dalla rabbia, lo
uccise, ignorando che fosse suo padre.
Proprio in quel periodo – si racconta – la Sfinge, un mostro
dalla natura ibrida, era arrivata a Tebe per porre il suo enigma
a chi era in grado di risolverlo, e molti – che non ci riuscivano
– erano stati da lei uccisi. Per chi avesse risolto l’enigma era
stato messo in palio un premio generoso – sposare Giocasta e
regnare su Tebe – ma nessuno riuscì a comprendere l’enigma
proposto tranne Edipo. L’enigma della Sfinge era questo: «qual
è quella creatura che ha insieme due, tre e quattro piedi?».
Benché gli altri fossero incapaci di rispondere, Edipo rivelò che
la risposta era «l’uomo»: da piccolo ha quattro piedi, quando
cresce ne ha due e quando invecchia ne ha tre, perché, data
la sua debolezza, usa il bastone. A questa risposta la Sfinge
– secondo l’oracolo di cui si racconta – si gettò in un precipizio,
mentre Edipo sposò sua madre ignorandone l’identità, ed ebbe
da lei due figli, Eteocle e Polinice, e due figlie, Antigone e
Ismene.
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20. L’UCCISIONE DI LAIO: UN’ALTRA VERSIONE (NICOLA DAMASCENO,
FGRHIST 90 F 8)98
Laio era re e marito di Giocasta, ma non riusciva ad avere figli.
Perciò andò a Delfi per interrogare l’oracolo. Il dio gli vaticinò
che avrebbe avuto un figlio che, ucciso lui, avrebbe preso in
moglie sua madre. Dopo il responso, a Laio nacque un figlio,
che lui abbandonò sul Citerone appena nato, perché morisse. Ma
lo raccolsero i pastori di Polibo – si dice che Polibo fosse figlio
di Hermes – e dopo il ritrovamento lo portarono al padrone.
Lui lo prese, lo allevò come figlio suo e gli diede il nome di
Edipo, perché aveva i piedi gonfi per effetto delle fasce99. Col
passare del tempo si fece adulto, e andò a Orcomeno, in Beozia,
alla ricerca di cavalli100 ; e in qualche modo Laio, che andava in
pellegrinaggio a Delfi insieme alla moglie Epicasta, gli si trovò
di fronte. L’araldo che era con loro avanzò e ingiunse a Edipo
di cedere il passo al re. Edipo, per orgoglio, lo colpì con la
spada, e uccise Laio che era accorso in suo aiuto; ma non toccò
la donna. Fatto questo, fuggì sul monte e scomparve nel bosco.
Epicasta – i suoi servi arrivarono poco dopo – cercò l’assassino
di Laio. Non riuscì a trovarlo, e allora seppellì Laio e l’araldo lì
dov’erano morti, a Lafistio; quindi fece ritorno a Tebe. Edipo
andò da Orcomeno a Corinto, da Polibo, e le mule di Laio
– portava con sé anche queste – le donò a Polibo. E […]101 come
prima lo considerò suo padre.
21. DA TEBE A COLONO (APOLLODORO III 5,7-9)102
Dopo la morte di Anfione Laio ereditò il regno. Sposò la figlia
di Meneceo, che alcuni chiamano Giocasta, altri Epicasta;
l’oracolo del dio gli profetizzò di non avere figli – il figlio da
lui nato doveva diventare un parricida – ma lui, ubriaco, si unì
con la moglie. Allora dà il figlio da lui generato a un pastore,
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perché lo abbandoni, dopo avergli perforato con delle fibbie
le caviglie. Ma il pastore lo abbandonò sul Citerone, e alcuni
mandriani di Polibo, re di Corinto, trovarono il neonato e
lo diedero alla moglie del re, Peribea103. Lei lo prende, lo fa
passare per suo, gli medica le caviglie e lo chiama Edipo,
imponendogli questo nome per via dei suoi piedi gonfi. Fattosi
grande, il ragazzo superava in forza i suoi coetanei, e costoro,
per invidia, gli diedero del figlio bastardo. Egli interrogò
Peribea, ma non poté saperne nulla. Se ne andò allora a Delfi,
per chiedere informazioni sui propri genitori. Il dio gli disse
di non andare nella sua terra natale: altrimenti avrebbe ucciso
suo padre e fatto l’amore con sua madre104. A queste parole,
convinto d’essere figlio di coloro che si passavano per suoi
genitori, lasciò Corinto; mentre attraversa in carro la Focide si
imbatte, a una certa strettoia, in Laio, che viaggiava su un carro.
E Polifonte (costui era l’araldo di Laio) gli ordina di cedere il
passo: e visto che Edipo tardava a obbedire, gli ammazzò uno
dei suoi cavalli; Edipo, preso dalla rabbia, uccise sia Polifonte
che Laio, e arrivò a Tebe. Damasistrato, re di Platea, dà
sepoltura a Laio105, mentre Creonte, figlio di Meneceo, eredita
il potere. Durante il suo regno, una disgrazia notevole si abbatté
su Tebe: Era mandò la Sfinge, che era figlia di Echidna e di
Tifone e aveva il volto di una donna, ma il corpo, le zampe e la
coda di un leone, e le ali di un uccello. Essa aveva appreso dalle
Muse un enigma, e standosene sul monte Fichio lo proponeva
ai Tebani106. Questo era l’enigma: «qual è la creatura che ha
una sola voce, ma assume quattro e due e tre piedi?». C’era
un oracolo secondo il quale i Tebani si sarebbero liberati
della Sfinge solo risolvendo l’enigma, e spesso si riunivano e
cercavano di capire a cosa si riferisse la Sfinge; ma visto che non
trovavano la soluzione, la Sfinge ne afferrava uno e lo divorava.
In molti morirono, e alla fine anche Emone, il figlio di Creonte.
Allora Creonte annuncia che avrebbe dato in premio il regno
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Appendice
e la sposa di Laio a chi avesse risolto l’enigma. Edipo lo seppe
e risolse l’enigma: disse che la risposta all’enigma della Sfinge
era «l’uomo», perché quando è un bambino assume quattro
piedi perché procede sui quattro arti, quando cresce assume
due piedi, quando è vecchio prende un terzo piede di sostegno,
il bastone. La Sfinge, allora, si gettò a precipizio dall’acropoli,
mentre Edipo assunse il regno e sposò, ignaro, sua madre,
ed ebbe da lei i figli Polinice ed Eteocle e le figlie Ismene e
Antigone. Ma c’è chi dice che i figli gli nacquero da Eurigania,
la figlia di Iperfante107. Quando, più tardi, tutto venne alla luce,
Giocasta si impiccò, Edipo si accecò e fu cacciato da Tebe, dopo
aver lanciato maledizioni sui propri figli, che non intervennero
per difenderlo quando lo videro cacciato dalla città. Insieme ad
Antigone giunse in Attica, a Colono; qui si trova il sacro recinto
delle Eumenidi: egli vi si siede supplice; fu accolto da Teseo, e
poco dopo morì108.
22. EDIPO ED EURIGANIA (PAUSANIA IX 5,10-12)
A Laio – che era re e aveva per moglie Giocasta – venne
da Delfi un oracolo secondo cui sarebbe morto per mano
del figlio, se Giocasta ne avesse generato uno. Perciò egli
abbandonò Edipo. Egli era destinato a uccidere suo padre, una
volta divenuto adulto, e sposò sua madre, ma che ne abbia avuto
dei figli non credo; e mi fondo sulla testimonianza di Omero,
che nell’Odissea [XI 271-274] scrisse: «e vidi la madre di Edipo,
Epicasta bella, / che un fatto immane compì con animo ignaro,
/ andando sposa a suo figlio; e dopo che uccise suo padre / lui
la sposò: ma presto gli dèi svelarono tutto agli uomini». Come
avrebbero fatto, insomma, a «svelarlo presto»109, se Edipo
avesse davvero avuto quattro figli da Epicasta? Li ha avuti
invece da Eurigania, la figlia di Iperfante110. Lo mostra anche
l’autore di quel poema che chiamano Edipodia. E Onasia, a
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Platea, ha ritratto Eurigania abbattuta per lo scontro fra i suoi
figli111. Polinice se ne andò da Tebe quando Edipo era ancora
vivo e regnante, per paura che dovessero compiersi su di loro
le maledizioni del padre112. Andò ad Argo e sposò una figlia di
Adrasto, poi ritornò a Tebe, su richiamo di Eteocle, dopo la
morte di Edipo113.
23. LAIO ED EDIPO IN IGINO114
Favole, 66. Laio
Apollo aveva profetizzato a Laio, figlio di Labdaco, di guardarsi
dalla morte per mano di suo figlio. Così quando sua moglie
Giocasta, figlia di Meneceo, ebbe un figlio, egli lo fece
abbandonare. Peribea, moglie del re Polibo, lo trovò mentre
lavava una veste sulla riva del mare, e lo raccolse115. D’accordo
con Polibo – visto che erano privi di figli – lo educarono come
figlio loro, e poiché aveva i piedi perforati lo chiamarono
Edipo.
Favole, 67. Edipo
Quando Edipo, figlio di Laio e Giocasta, fu giunto alla giovinezza,
era il più coraggioso dei suoi coetanei, ed essi per invidia lo
insultavano dicendo che era un falso figlio di Polibo, perché
Polibo era mite, mentre lui era un temerario116. Edipo si rese
conto che l’insulto non era infondato. Dunque si recò a Delfi
per sapere dei suoi genitori. Nel frattempo, a Laio veniva rivelato
per mezzo di prodigi che era prossima la sua morte ad opera del
figlio. Anche lui stava andando a Delfi, ed Edipo lo incontrò; la
scorta di Laio gli ingiunse di cedere il passo al re, e lui la ignorò.
Il re spronò i cavalli e con una ruota schiacciò il piede di Edipo.
Egli, preso dalla rabbia, ignaro trasse suo padre già dal carro e
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Appendice
lo uccise. Dopo l’assassinio di Laio, Creonte, figlio di Meneceo,
prese il potere. Intanto la Sfinge, nata da Tifone117, fu inviata in
Beozia, e saccheggiava i campi dei Tebani. Essa lanciò a Creonte
la sua sfida: se qualcuno avesse compreso l’enigma che essa
poneva, se ne sarebbe andata di lì; ma chiunque fosse incapace
di risolvere l’enigma proposto, lei l’avrebbe annientato, e in
nessuno altro modo avrebbe lasciato il paese. Creonte diffuse la
notizia per la Grecia; promise che avrebbe concesso il regno e la
mano di sua sorella Giocasta a chiunque avesse risolto l’enigma.
Arrivarono in molti, per brama del regno, e furono annientati
dalla Sfinge; allora arrivò Edipo figlio di Laio e sciolse l’enigma.
La Sfinge si gettò nel vuoto. Edipo, senza sapere nulla, prese il
regno e sposò la madre; da essa ebbe Eteocle e Polinice, Antigone
e Ismene. Intanto si abbatterono su Tebe la carestia del grano e la
miseria, per i crimini di Edipo. Tiresia, cui venne chiesto perché
Tebe soffrisse a tal punto, rispose che se qualcuno era rimasto
della stirpe del Serpente, morendo per la patria l’avrebbe liberata
dalla pestilenza. Allora Meneceo [, padre di Giocasta,] si gettò
dalle mura118. Così andavano le cose a Tebe, e intanto, a Corinto,
Polibo morì: a questa notizia Edipo provò dolore, pensando
che fosse morto suo padre; allora Peribea gli rivelò che lui non
era il loro vero figlio; e intanto il vecchio Menete119, che l’aveva
abbandonato, riconobbe dalle cicatrici sui suoi piedi che lui era
il figlio di Laio. Quando Edipo l’ebbe saputo, e quando si rese
conto di aver compiuto crimini tanto orrendi, strappò le fibbie
dalla veste di sua madre120 e si tolse gli occhi. Affidò il regno ai
figli, perché lo tenessero ad anni alterni, e se ne andò esule da
Tebe, guidato dalla figlia Antigone.
24. ALTRE STORIE, ALTRE VARIANTI (SCOLIO A EURIPIDE, FENICIE, 26
[I 251S. SCHW.])
Con selvaggia ferocia, si dice, e da sciocco, [Laio] non volle
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uccidere il neonato, ma gli inferse una così dura mutilazione. Va
detto che reputava empio ammazzarlo. Invece, perforandogli con
pungoli i piedi, avrebbe evitato il pericolo che incombeva su di lui,
se nessuno avesse raccolto il bambino mutilato121. Altri sostengono
che i piedi gli si sarebbero gonfiati del tutto spontaneamente a
causa delle fasce. Altri ancora raccontano che sarebbe stato gettato
a mare chiuso in un baule: approdato a Sicione, sarebbe stato
cresciuto da Polibo. Alcuni dicono che fosse figlio del Sole122.
Altri ancora raccontano che […] Ippodamia figlia di Enomao,
che l’avrebbe passato per figlio suo […]123; in séguito, quando
Laio ebbe rapito Crisippo, [Edipo] sarebbe accorso in suo aiuto e
avrebbe ucciso Laio; si sarebbe quindi unito con Giocasta, che era
arrivata per le cerimonie funebri, e avrebbe generato i figli: quindi,
dopo aver risolto l’enigma, sarebbe stato riconosciuto. Altri dicono
che sarebbe stato Polibo ad accecarlo, dopo aver sentito gli oracoli
relativi al parricidio. Altri ancora dicono che egli abbia ucciso
anche sua madre. E che abbia ucciso non solo la Sfinge, ma anche
la volpe di Teumesso, come dice Corinna124. Alcuni dicono che la
Sfinge fosse la moglie di Macareo, e la figlia di Ucalegonte, uno
degli indigeni125. Alla sua morte avrebbe occupato il monte Fichio,
e quindi sarebbe stata uccisa da un certo Edipo che era andato con
lei126. Alcuni tramandano invece che la Sfinge fosse figlia di Laio,
come fa Lisimaco127.
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Note all’Appendice
1
Siamo nel mezzo dei giochi funebri per Patroclo. Nella specialità del pugilato spicca Epeo, figlio di Panopeo (vv. 664-675):
è contro di lui che si leva Eurialo, che sarà però rapidamente
sconfitto (vv. 689-699).
2
Ad onta di alcuni dubbi sull’antecedente del relativo, chi
giunse a Tebe fu senz’altro Mecisteo. Insieme a Polinice egli
partecipò alla guerra dei Sette contro Tebe; suo figlio Eurialo è
qui coerentemente rappresentato come contemporaneo di quegli eroi troiani – Diomede, figlio di Tideo, o Stenelo, figlio di
Capaneo – che parteciparano alla successiva, vittoriosa impresa
degli Epigoni: le cronologie ‘generazionali’ del mito, dunque,
collimano (cf. March, 123s.).
3
Il verbo δουπέω – letteralmente ed etimolgicamente «rimbombare» – può riferirsi a morte in battaglia, perché di norma
impiegato da Omero a indicare il fragore (δοῦπος) dell’eroe che
crolla a terra abbattutto; il suo uso isolato non ha però altri paralleli arcaici, e nasce evidenentemente da un’estensione abusiva
della formula «rimbombò cadendo» (e.g. Iliade IV 504). Dedurne la morte di Edipo in contesto bellico è possibile: così intendeva già Aristarco, e intendono molti moderni (cf. da ultimo
Markantonatos, 44). Ma la deduzione resta incerta: cf. Burkert,
Seven, 33; N. Richardson, The Iliad. A Commentary, VI. Books
21-24, Cambridge 1993, 243. Discutono con ampiezza il problema A. Masaracchia in Gentili-Pretagostini, 529-536 e Cingano,
The Death, 1-7. Da questo passo – e dalla stessa partecipazione
di Mecisteo al funerale – si è dedotto che la morte di Edipo
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dovesse comunque precedere, per Omero, l’impresa dei Sette e
la stessa lite fra i figli Eteocle e Polinice: cf. March, 123. Se ciò
è vero, si deve rilevare la diversa organizzazione dei fatti nella
Tebaide: cf. infra, testi al punto 6.
4
Per questa variazione onomastica cf. supra, Introduzione,
XXX. A parlare è Odisseo, che durante l’ultima tappa del suo
viaggio narra al re Alcinoo, nell’isola di Scheria, la discesa all’Ade affrontata su consiglio di Circe per interrogare Tiresia.
Epicasta è soltanto una delle eroine censite in questo catalogo
di stampo ‘esiodeo’, che fornisce il destro per una sorta di panoramica metaletteraria sui miti paralleli al ciclo troiano e posttroiano. Di una certa rilevanza è il commento antico al passo
omerico (scolio a Odissea XI 271), che attinge almeno in parte allo storico Androzione (FGrHist 324 F 62) e conserva non
trascurabili notizie antiquarie sul culto di Edipo a Colono: cf.
Edmunds, The Cults, 222s.
5
Il verbo ἐξεναρίζω, qui reso con «uccidere», può implicare
– ma non obbligatoriamente – una vittoria in battaglia, con conseguente spoliazione rituale dell’ucciso: per le varianti intonate
a un confronto militare fra Edipo e Laio cf. supra, Introduzione,
XXVII e XXX. L’eventuale spoliazione può essere stata finalizzata al tragico riconoscimento dell’omicida (cf. per es. Höfer, 700;
Delcourt, Oedipe, 69s.), ma nulla si può affermare per certo.
6
«Presto» (ἄφαρ), o «all’improvviso», come ancora vuole
qualcuno (così gli scolii al passo e da ultimo A. Heubeck in
Omero. Odissea, III, Milano 20032, 282), è espressione generica che non consente di decidere se Omero attribuisse al matrimonio incestuoso con Epicasta la nascita dei quattro figli più
famosi (Eteocle e Polinice sono già menzionati in Iliade IV 377
e 386), o se distinguesse fermamente incesto e filiazione, come
l’Edipodia (cf. testi al punto 5). Chi intende «all’improvviso»
mira a conciliare il passo con il quadruplice parto di Giocasta;
ma il valore più consueto dell’avverbio resta «subito», «presto»,
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Note all’Appendice
e tale esegesi era già in Pausania IX 5,11 (cf. testo al punto 22);
«presto», tuttavia, è indicazione vaga che non permette conclusioni. Se Omero conoscesse o no i figli incestuosi avuti da
Epicasta rimane dunque dubbio: cf. le diverse valutazioni di
Robert, I, 108; Höfer, 701; Deubner, 34-37; Wehrli, 112; Daly,
775s.; Baldry, 25; De Kock, 12; March, 121; cf. anche supra, Introduzione, XXX.
7
Questi «mali» (ἄλγεα) implicano già l’autoaccecamento? Lo
si è ipotizzato, ma senza solidi argomenti: cf. in sintesi Höfer,
701s.; Daly, 778; De Kock, 12; A. Masaracchia in Gentili-Pretagostini, 536-539; March, 122. Mastronarde, 24 è incline ad ammettere che sia qui presupposta la lotta fratricida di Eteocle e
Polinice: ad essa Edipo avrebbe dunque assistito, a differenza
di quanto pare potersi desumere dalla variante attestata nell’Iliade (cf. testo al punto 1), e come avviene invece nelle Fenicie
di Euripide; cf. anche Valgiglio, 19-22. Che una simile versione preceda il tragico ateniese non può essere escluso (cf. infra,
note 10 e 23), ma rimane incerto. Quanto all’autoaccecamento,
i commentatori antichi erano concordi nel ritenere il mitema
estraneo a Omero (cf. scolio a Odissea XI 275, Eustazio, Commento all’Odissea 1684 St.). Possibile invece che il motivo fosse
presente nella Tebaide (cf. testi al punto 6).
8
Epiteto di Ade anche in Iliade VIII 367 e XIII 415.
9
Si tratta degli eroi «semidivini» appartenenti alla quarta
delle cinque stirpi umane censite da Esiodo (vv. 106-201). Sono
verosimilmente gli eroi delle guerre condotte contro Tebe (l’impresa dei Sette), oltre che contro Troia (la spedizione guidata
da Agamennone); con la loro morte essi sanciranno la fine della
quarta età e l’ingresso nel mondo storico del presente. Che Esiodo non si riferisse alla clamorosa spedizione dei Sette, bensì alla
guerra locale fra Tebani e Minii di Orcomeno (cf. testo al punto
15), era ipotizzato da Robert, I, 113, ripreso fra gli altri da Deubner, 31s.; Wehrli, 111; De Kock, 9s. L’ipotesi è ben poco pro201
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babile: cf. Valgiglio, 23s.; Burkert, Seven, 32s.; Cingano, Death,
7-9; Casadio, Il genos.
10
S’intende: dei beni ereditari di Edipo, cioè di Tebe e dei
suoi possessi (cf. M.L. West, Hesiod. Works and Days, Oxford
1978, 192). Circa l’eventuale presenza di Edipo alla guerra fra
Eteocle e Polinice – attestata nelle Fenicie di Euripide – nulla si
può ricavare dal contesto. I frammenti successivi mostrano però
che Edipo, nella tradizione ‘esiodea’, sopravviveva alla scoperta
dei propri delitti (cf. anche infra, nota 23).
11
La scarna sintesi è trasmessa da uno scolio al passo succitato dell’Iliade (XXIII 679b, cf. testo al punto 1). Allo stesso
contesto narrativo sembra riferirsi il frammento che segue.
12
Argia, figlia dell’argivo Adrasto, è la sposa di Polinice. Dedurre da tale frammento che, secondo la versione esiodea, Edipo dovesse morire dopo la guerra dei Sette – così Kamerbeek,
4 – è avventato. Impossibile dire se Argia prendesse parte alla
cerimonia funebre in quanto nuora del defunto, o se proprio
durante i funerali si innamorasse di Polinice (cf. Robert, I, 117).
Le diverse possibilità ricostruttive sono censite da March, 135:
1) Argia si reca a Tebe prima del matrimonio; 2) Argia si reca a
Tebe dopo il matrimonio e insieme a Polinice; 3) Argia si reca
a Tebe dopo la guerra dei Sette e dopo la morte dello stesso
Polinice. Quest’ultima possibilità – pur astrattemente legittima
– appare la meno probabile.
13
Il frammento – ancora a testimone unico nella raccolta di
Merkelbach-West – è ora arricchito da un ulteriore contributo
papiraceo, per cui cf. G.B. D’Alessio, «Zeitschrift für Papyrologie
und Epigraphik» CX (1996) 100. Per la traduzione ci si attiene
per lo più alle scelte testuali, molto prudenti, di M. Hirschberger,
Gynaikon Katalogos und Megalai Ehoiai. Ein Kommentar zu den
Fragmenten zweier hesiodeischer Epen, München-Leipzig 2004.
Un tentativo di ricostruzione complessiva in March, 136-138.
14
Alcmeone, figlio dell’indovino Anfiarao, partecipò alla
202
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Note all’Appendice
seconda spedizione argiva contro Tebe (condotta dai cosiddetti Epigoni, figli dei Sette). La sua menzione al principio di un
frammento che nomina Edipo – normalmente situato due generazioni prima – resta misteriosa, e il malconcio contesto non
consente ricostruzioni precise.
15
I vv. 2s. sembrano riferirsi all’ammirazione delle donne tebane per il figlio di Anfiarao, Alcmeone. Il contesto della scena
possono essere le prove atletiche organizzate in onore del morto
Edipo (cf. testo al punto 1): ma cf. n. 14.
16
Il riferimento ai funerali di Edipo è incerto, dipendendo dalla
lettura ταφάς di M. Norsa. Si tratterà probabilmente delle stesse cerimonie a cui partecipò Argia, figlia di Adrasto, ricordata dal frammento precedente, e a cui si riferisce l’Iliade (testo al punto 1).
17
I vv. 5-8 si riferiscono forse alla spedizione dei Sette contro
Tebe: la stessa menzionata, probabilmente, in Esiodo, Opere,
162s. (supra, primo testo al punto 3). I Danai (v. 6) sarebbero
dunque gli Argivi guidati da Adrasto, alleati di Polinice (v. 7).
Gli «oracoli di Zeus» infranti (v. 8) possono riferirsi alla guerra
di Polinice contro la propria patria, oppure ai vaticinii di Anfiarao, che profetizzò la sconfitta degli Argivi (cf. Hirschberger,
Gynaikon, cit., 359).
18
È questa la parte meglio leggibile del cosiddetto ‘Stesicoro di Lille’, così nominato perché desunto da tre frammenti di
papiro conservati presso l’Università del capoluogo francese (P.
Lille 73, 76, 111c), editi per la prima volta nel 1977 e pressoché concordemente attribuiti al citarodo tardo-arcaico (VI sec.
a.C.). A parlare è forse Epicasta/Giocasta, che tenta di scongiurare la lotta fratricida di Eteocle e Polinice, proponendo un
patto di spartizione che sarà tuttavia infranto. Che a parlare sia
Eurigania (la seconda moglie di Edipo, per cui cf. testi ai punti
5, 15, 22) è stato sostenuto con vigore da March, 127-131, che ritiene compatta – in età arcaica – la versione che dissocia incesto
e filiazione; il che è possibile ma tutt’altro che certo (cf. anche
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Mastronarde, 25s.). Per le novità apportate dal nuovo Stesicoro
alla conoscenza dei precedenti sofoclei cf. supra, Introduzione,
XXXII, nonché le diverse ricostruzioni offerte da A. Gostoli, «Greek, Roman and Byzantine Studies» XIX (1978) 29-57;
Burnett; G. Bona in Uglione, 99s.; D.A. Maingon, «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» LX (1989) 31-56; G. Ugolini,
«Lexis» V-VI (1990) 57-75. La traduzione si attiene alle scelte
testuali molto caute di M. Davies (Poetarum melicorum Graecorum fragmenta, Oxford 1991, 214s.); per un esame del testo e
dei suoi numerosi problemi si vedano P.J. Parsons, «Zeitschrift
für Papyrologie und Epigraphik» XXVI (1977) 7-36; R. Tosi,
«Musaeum Criticum» XIII/XIV (1978/1979) 125-142; G.O.
Hutchinson, Greek Lyric Poetry, Oxford 2001, 120-139; da ultimo C. Neri, «Eikasmós» XIX (2008) 11-44.
19
È probabile che l’interlocutore della regina sia l’indovino
Tiresia. Che nella parte perduta del componimento fosse contenuto un sogno profetico di Giocasta/Epicasta (o di Eurigania?)
è ipotesi argomentata da G. Massimilla, «Parola del Passato»
XLV (1990) 191-199.
20
Testo lacunoso, qui e in séguito. La traduzione si limita
a quanto è più probabilmente desumibile dai lacerti papiracei;
per il v. 207 è tentante la lettura proposta da P.J. Parsons (e
variamente riadattata dai commentatori successivi), per cui la
locutrice affermerebbe qualcosa come: «mutevole di giorno in
giorno la mente dei mortali / dispongono gli dèi». Un’affermazione che sembra anticipare, per qualche aspetto, le convinzioni
della Giocasta sofoclea: cf. supra, Introduzione, LXXXIX.
21
L’espressione può intendersi anche: «non compiere fino
in fondo le tue profezie, Apollo, sire arciere»; in questo caso
avremmo un riferimento a oracoli emananti da Apollo, magari
per il tramite di Tiresia, e forse già con rinvio alla sede oracolare di Delfi. Le profezie riguarderebbero, in ogni caso, i figli di
Edipo più che Edipo stesso.
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Note all’Appendice
22
«Presso la fonte di Dirce» (Barrett) o «presso la patria
Tebe» (Diggle): in ogni caso, nella città che fu di Edipo. Evidentemente Giocasta sta proponendo un accomodamento fra i
due figli; l’eredità di Edipo sarà divisa in modo tale da ripartire
potere politico (Eteocle) e beni mobili (Polinice).
23
È la ben nota spartizione dell’eredità derivata da Edipo,
che Eteocle e Polinice tenteranno, con scarsi risultati, prima
del fatidico contrasto che porterà alla reciproca uccisione; la
vicenda diverrà canonica con i tragici attici, ed è forse già presupposta dal riferimento alle «greggi di Edipo» in Esiodo (cf.
supra, testi al punto 3). Impossibile dire se Edipo, nella versione
seguita da Stesicoro, fosse vivo o morto all’atto della spartizione
e della successiva guerra; un Edipo vivo e spettatore del fratricidio – come nelle Fenicie di Euripide – è stato ipotizzato da A.
Gostoli, «AION(archeol)» V (1983) 65-76, sulla base del rilievo
sul frontone etrusco di Telamone e sulla riemersione del motivo
nella Tebaide di Stazio; contra, decisamente, March, 131 n. 70;
cf. anche supra, note 3, 7 e 10.
24
Del poema intitolato a Edipo, e tradizionalmente incluso
nel Ciclo tebano, ignoriamo tutto. La cosiddetta Tabula Borgiana, iscrizione di primissima età imperiale conservata presso il
Museo Nazionale di Napoli (inv. 2408 = IG XIV 1292 ii 11),
ne attribuisce la paternità a Cinetone, poeta vissuto – secondo
le cronologie antiche, sempre alquanto dubbie – nell’VIII sec.
a.C. Le menzioni perifrastiche cui ricorrono i testimoni antichi
mostrano quanto l’attribuzione fosse incerta: e di essa si può
legittimamente dubitare (cf. W. McLeod, «Transactions of the
American Philological Association» CXV, 1985, 162s.); per la
possibile origine locale tebana o beotica del poema cf. Cingano,
Tradizioni, 148s. Impossibile, sulla base dei frammenti superstiti, precisarne il contenuto, che doveva costituire una sorta di
antefatto alla ben più celebre Tebaide (cf. infra, testi al punto 6)
e comprendere almeno la lotta di Edipo con Laio, il suo con205
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fronto con la Sfinge e i suoi plurimi matrimoni.
25
Il distico è trasmesso dagli scolii al v. 1760 delle Fenicie
euripidee (I 414s. Schw.), a immediato séguito dello «scolio di
Pisandro», per cui si veda infra, testo al punto 14.
26
Il testo dello scolio euripideo è, in questo punto, corrotto o interpolato: se ne conserva qui solo il riferimento al tema
della Sfinge (così West), che può però appartenere anch’esso a
un’interpolazione successiva (così Schwartz).
27
Il frammento si riferisce alla morte di Emone, figlio di
Creonte, per opera del mostro: un episodio con cui contrasta
la versione scelta da Sofocle nell’Antigone, dove Emone, sopravvissuto ai fatti di Edipo, è il promesso sposo della protagonista.
La morte di Emone è nota anche ad Apollodoro: cf. testo al
punto 21.
28
Il riferimento all’Edipodia – un frammento sine verbis – è
fornito da Pausania IX 5,10s.; il passo nella sua interezza è riportato infra, testo al punto 22.
29
Per la tradizione relativa ai due (o tre?) matrimoni di Edipo
cf. anche testi ai punti 14, 15, 21 e 22.
30
La Tebaide era indubbiamente uno dei più celebri poemi
del Ciclo, e non mancavano attribuzioni a Omero (così forse
ancora Erodoto V 67,1 = T 1 Dav.). La sua datazione è del tutto
incerta, e i moderni oscillano fra l’VIII e il VI sec. a.C. (così
da ultimo West). Per un quadro d’insieme si vedano Huxley,
39-50; Burkert, Seven. È comunque con la Tebaide che compaiono i motivi che trionferanno nel teatro attico, ed è forse in tale
poema che Eteocle e Polinice sono rappresentati per la prima
volta come figli dell’incesto: cf. in sintesi De Kock, 18-20. Che
la Tebaide dedicata al mito edipico (la Tebaide ‘ciclica’) fosse
diversa dalla più celebre Tebaide di età alto-arcaica era opinione
di Wehrli, 113, contro cui si vedano per es. Huxley, 41-46; Burkert, Seven, 29s.; Mastronarde, 17s. n. 2.
31
Il frammento è tràdito da Ateneo XIV 465e (III 14 Kaib.),
206
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Note all’Appendice
di cui si riporta qui parte del contesto.
32
Beni appartenenti al tesoro di Laio – in particolare le «coppe» da cui muove il testimone Ateneo – ed evidentemente interdetti ai figli sino alla morte di Edipo. Il prematuro usufrutto
dell’eredità equivale a un affronto per il sovrano, che sembra
vivere in uno stato di minorità nel palazzo di Tebe (da questa
variante pare dipendere l’Euripide delle Fenicie: cf. Mastronarde, 23). Tutto l’episodio sembra reggersi sul presupposto di un
Edipo accecato (diversamente che in Omero, a quanto sembra:
cf. supra, testo al punto 2) e perciò ingannato dai figli: cf. Robert, I, 170s.; De Kock, 18-20; Mastronarde, 22; scettici Kamerbeek, 5 e Guidorizzi, 74; nettamente contraria March, 126.
33
Testo corrotto; si può recuperare congetturalmente – con
Ribbeck e altri – un senso quale: «non potessero dividersi l’eredità paterna in affettuosa concordia».
34
Il frammento è tràdito da uno scolio al v. 1375 dell’Edipo a
Colono sofocleo (pp. 453s. Pap.).
35
Testo corrotto; possibile – con le correzioni di Schneidewin
e Buttmann – il testo seguente: «i miei figli mi mandano questo:
grande segno di spregio».
36
Questa seconda maledizione – a quanto pare – si assomma
alla precedente e ne rincara il contenuto; ma la relazione fra i
due voti pronunciati da Edipo resta dubbia: cf. De Kock, 19;
Valgiglio, 34-36; Markantonatos, 47-49. Anche per la Tebaide è
impossibile dire se Edipo sopravvivesse agli esordi della guerra
fratricida tra Eteocle e Polinice: cf. supra, note 7, 10, 23.
37
La seconda Olimpica di Pindaro celebra la vittoria che Terone, tiranno di Agrigento, ottenne nella corsa con i carri alle
gare di Olimpia, nel 476 a.C. L’ode si colloca fra tale data e la
morte di Terone nel 472 a.C.
38
Pindaro si riferisce agli Emmenidi, casata del tiranno Terone. Gli Emmenidi facevano risalire la loro stirpe a Tersandro,
figlio di Polinice e di Argia, figlia a sua volta del re Adrasto di
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Argo: cf. supra, n. 12. Tersandro avrebbe partecipato alla seconda, vittoriosa spedizione degli Argivi contro Tebe (la saga
dei cosiddetti Epigoni), trionfando e divenendo re della città. È
probabile che almeno per alcune fonti ‘cicliche’ Tersandro fosse
coinvolto nella guerra di Troia, alla guida di un contingente tebano che Omero ignora. Per il personaggio – e per le problematiche relazioni con l’epos – si veda Cingano, Tradizioni, 132-136,
con fonti e bibliografia; cf. ibid. 151s. per la verosimile ipotesi
secondo cui Pindaro – e con lui i suoi committenti – adotterebbe, a scanso d’incesto, la variante genealogica attestata nell’Edipodia (cf. testi al punto 5), e non solo: Polinice sarebbe dunque
figlio di Edipo ed Eurigania, non già di Edipo e Giocasta. Per
la genealogia degli Emmenidi si veda la chiara ricostruzione di
L. Lehnus in Pindaro. Olimpiche, Milano 20043, 39s.
39
È questa la prima, sicura menzione di un oracolo delfico gravante sul destino dei Labdacidi: cf. supra, Introduzione, XXVI.
L’oracolo reso a Laio era ricordato da Pindaro anche nel fr. 68 M.
In generale per le rievocazioni dei Labdacidi in Pindaro si veda
Cingano, Tradizioni, 150-157; per l’anticipazione pindarica (ed
eschilea) di alcuni motivi sofoclei cf. anche Lesky, 325.
40
E cioè Eteocle e Polinice, stirpe «marziale» (ἀρήιον) perché destinata a distruggersi nella guerra fratricida che seguì alla
morte di Edipo. La menzione dell’Erinni sembra accantonare il
ruolo svolto dalla maledizione dello stesso Edipo, centrale nella
Tebaide (cf. testi al punto 6): cf. Cingano, Tradizioni, 151.
41
È questo pressoché l’unico frammento superstite della trilogia
eschilea che comprendeva i Sette contro Tebe, andata in scena nel
467 a.C.; è dubbio se esso appartenesse al Laio o all’Edipo (per
una raccolta delle opinioni, cf. Radt in TrGF III, 434). Impossibile
precisare il locutore della battuta (forse un testimone sopravvissuto allo scontro, piuttosto che lo stesso Edipo: cf. Robert, I, 273;
Reinhardt, 135). Il brano successivo offre una sintesi della vicenda
secondo il trattamento eschileo: cf. anche supra, Introduzione, VII.
208
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Note all’Appendice
42
Eschilo collocava la «Strada divisa» nei pressi di Potnie,
dunque a sud di Tebe, in direzione di Platea e non di Delfi; cf.
anche supra, Introduzione, XXVIII, nonché 158s. n. 84.
43
Concettosa sequenza di metafore e prosopopee: il «ferro»
delle spade è personificato in un barbaro dei Calibi, popolazione di area scitica celebre per l’attività siderurgica; sarà la spada a
fare le parti – in un sanguinoso sorteggio – dell’eredità paterna.
Il sorteggio era consigliato da Giocasta in Stesicoro: cf. supra,
testo al punto 4.
44
Per la continuità genetica presupposta da Eschilo e per l’oracolo reso a Laio da Apollo, cf. supra, Introduzione, CXXVIs.
45
Chi sono i due sposi? Laio e Giocasta, all’atto dell’unione che
Apollo aveva vietato, si intende per lo più: cf. per es. P. Mazon,
Eschyle, I, Paris 1921, 136 n. 3; Daly, 773; Edmunds, Oedipus. The
Ancient Legend, 13. L’espressione, a séguito di versi interamente
dedicati a Edipo, è certo ambigua: ma anche se si trattasse di Edipo e Giocasta (così per es. G.O. Hutchinson, Aeschylus. Septem
contra Thebas, Oxford 1985, ad l.), la metafora della «pazzia» non
obbliga a immaginare un incesto consapevolmente commesso; la
παράνοια, predicata come tale, può prescindere totalmente dalla coscienza dei due individui coinvolti, ed essere metaforica o
iperbolica non meno del precedente «osare» (v. 756), che guarda
al nefas oggettivo più che alla colpa soggettiva; cf. anche supra,
Introduzione, XXX.
46
Testo fortemente incerto: si veda il commento di Hutchinson, Aeschylus. Septem, cit., ad l.
47
Il testo è dubbio; si adotta, per la traduzione, il πενομένους
di Bücheler; ma molte altre ricostruzioni sono possibili: cf. Hutchinson, Aeschylus. Septem, cit., ad l. (con γενόμεν᾿ οὐ, lì preferito, si avrebbe il senso: «la rovina, pur avvenuta, non passa»).
48
Ovvero la Sfinge, per il cui carattere di rapitrice cf. supra,
Introduzione, XXIX.
49
I due «mali gemelli» possono essere l’autoaccecamento e
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la maledizione scagliata su Eteocle e Polinice (in quanto frutto
dell’incesto): cf. per es. March, 143; M.L. West, Studies in Aeschylus, Stuttgart 1990, 116-118.
50
Il testo – che senza dubbio si riferisce all’autoaccecamento
– è fortemente incerto. Si traduce qui, almeno per l’inizio del v.
784, la lezione tràdita, che propone l’immagine soprendente di
un Edipo che quasi ‘si sottrae ai propri occhi’. Ma la lezione è
incerta e sottoposta a numerosi rimaneggiamenti: cf. Hutchinson, Aeschylus. Septem, cit., ad l. Per il motivo della cecità – forse
attestato già nella Tebaide arcaica – cf. supra, testi al punto 6.
51
Ancora una volta il testo è incerto e pressoché intraducibile; il v. 786, con il termine τροφᾶς, può riferirsi alla nascita o
crescita stessa dei figli – il cui abominio può essere motivo sufficiente per una maledizione – ovvero alle mancate attenzioni
di cui essi si sarebbero resi responsabili nei confronti del padre
(così la Tebaide, per cui cf. testi al punto 6); cf. Baldry, 31 e
March, 143.
52
Forse Eschilo condensa in una le due malezioni che sembrerebbero note alla Tebaide: cf. supra, testi al punto 6.
53
L’Antigone sofoclea è datata, con un notevole margine di
certezza, al 442 a.C. Impossibile precisare quanti anni la separino dall’Edipo re, senza dubbio successivo; venticinque anni
sono trascorsi invece dalla trilogia eschilea (cf. testi ai punti 8
e 9) di cui Sofocle riplasma il contenuto leggendario e l’impostazione ideologica.
54
A parlare è Ismene, che cerca inutilmente di dissuadere la
sorella Antigone dal proposito di seppellire Polinice, contro il
decreto emanato da Creonte. Il ricordo delle precedenti sciagure – in cui è assente ogni rinvio alle vicende di Laio – è inteso a
sottolineare la solitudine delle due sorelle; ma già annuncia lo
schema di colpa genetica che impronta il corale successivo.
55
Il Coro ha appena assistito al confronto fra Antigone, Ismene e Creonte, che si è concluso con la sentenza capitale per An210
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Note all’Appendice
tigone. Il rinvio alla sciagura ereditaria dei Labdacidi sembra
riprendere un’impostazione eschilea del tutto assente nell’Edipo
re: cf. supra, Introduzione, XXXIX. È da osservare, tuttavia, che
lo schema genetico non è qui né rigido né privo di precise allusioni al ruolo individuale dei soggetti coinvolti: non a caso, le
Erinni eschilee diventano, al v. 603, «Erinni dei pensieri».
56
Nell’edizione di Kannicht l’Edipo di Euripide assomma a
ventiquattro frammenti (frr. 539a-557 K.), di cui due d’insicura
attribuzione. Si traducono qui – per quanto le lacune lo consentono – solo i quattro lacerti più facilmente contestualizzabili, rinunciando agli altri, di tradizione indiretta e per lo più di
carattere gnomico. Per le possibili ricostruzioni della tragedia
si vedano Di Gregorio, Vaio e Hose; cf. anche Kannicht, TrGF
V/1, 570 per ulteriore bibliografia. L’Edipo euripideo è per lo
più collocato in un periodo successivo al 420 a.C., e in genere
ritenuto posteriore all’Edipo re sofocleo (su quest’ultimo punto
si vedano però i dubbi di Avezzù, Il mito, 214).
57
Era questo l’incipit della tragedia, come ci testimonia un
argomento di tradizione papiracea (P. Oxy. 2455). Ignoto è il
locutore, che si riferisce evidentemente – secondo il modello di
Eschilo: cf. testo al punto 9 – all’infrazione commessa da Laio
nei confronti dell’oracolo apollineo che gli vietava ogni generazione. Ugualmente incerto è se il locutore dell’incipit coincida
con il personaggio che pronuncia le battute dei due frammenti
che seguono.
58
Elaborata descrizione della Sfinge, che riceveva ampio spazio in Euripide, a differenza che in Sofocle: cf. supra, Introduzione, XXXV. I caratteri teriomorfi della creatura collimano con
le descrizioni fornite da numerose fonti posteriori (cf. per es.
testi ai punti 16 e 21). Nel testo che segue – per complessivi 16
versi – si rinuncia alla traduzione dei luoghi irrimediabilmente
lacunosi. Difficile dire se tale discorso potesse trovare posto in
un prologo con flashback, o in un resoconto di fatti appartenenti
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alla trama stessa della tragedia. Le diverse possibilità sono censite e valutate con equilibrio da Vaio, 47-50.
59
Era qui menzionato – in esametri – l’indovinello della Sfinge, in una versione che non doveva risultare troppo diversa da
quella fornita da Asclepiade di Tragilo (cf. testo al punto 17). Anche in questo caso, la traduzione si limita ai versi meglio leggibili
(accogliendo, al v. 7, l’integrazione di Lloyd-Jones ἔστι τι φωνῆ]εν).
Il «noi» del v. 2 coinciderà con il locutore del precendete frammento, che resta però imprecisabile: generici Tebani? Servi di
Laio? Sicuramente testimoni di uno scontro con la Sfinge; verosimilmente lo scontro che ha per protagonista Edipo.
60
A parlare è un servo di Laio, che narra dell’accecamento inferto a Edipo dai seguaci dell’antico re. Nella trama euripidea,
evidentemente, la scoperta del regicidio è anteriore alla scoperta
del parricidio e da essa ben distinta, e l’accecamento non è opera dello stesso protagonista. Allo stesso soggetto sembra riferirsi
una celebre urna volterrana del II sec. a.C.: se ne veda lo sviluppo
grafico in Guidorizzi, 80. Probabile, dunque, che due agnizioni successive – causate dalla madre putativa di Edipo, Peribea
– segnassero la progressiva rovina del sovrano, prima denunciato
come assassino di Laio, poi come figlio parricida e incestuoso; cf.
Robert, I, 305-331, quindi Di Gregorio, Vaio, Hose.
61
Per la posizione delle Fenicie euripidee – databili fra il 411
e il 408 a.C. – entro l’albero genealogico dei testi edipici, si veda
Mastronarde, 17-30. Per la cronologia, si veda ibid. 11-14, nonché Medda, 77-81; cf. anche supra, Introduzione, CXI n. 275.
62
La regina – in Euripide come già in Stesicoro – sopravvive alla
scoperta dell’incesto; ma vivo è anche Edipo (cf. v. 66), che comparirà, spettrale, al v. 1539 della tragedia, dominandone il finale.
63
Più di una testimonianza antica suggerisce che i primi due
versi siano spurii, e che l’originaria tragedia euripidea iniziasse
con il v. 3: cf. Mastronarde, ad l. e ora Medda, 313.
64
Una sintetica ma completa genealogia dei regnanti tebani;
212
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Note all’Appendice
si vedano, a confronto, i vv. 267s. dell’Edipo re, su cui cf. supra,
Introduzione, CXVIII.
65
Per l’infausto concepimento imputato agli effetti del vino
cf. anche il resconto fornito da Eschilo (testo al punto 9).
66
Per sincronia e simmetria dei due viaggi – ma anche dei
due oracoli – cf. supra, Introduzione, XLIs. Per la collocazione
della Strada Divisa cf. 157 n. 84.
67
Il piede pestato dalle cavalle di Laio è virtuosistica variazione euripidea sul motivo dei ‘piedi gonfi’: cf. M. Bettini-A.
Borghini in Gentili-Pretagostini, 218; Mastronarde, ad l.
68
Viva Giocasta, il dettaglio delle spille auree appare alquanto
gratuito: concessione di Euripide a un motivo tradizionale, canonizzato dall’Edipo sofocleo, o più tarda interpolazione? Quest’ultima ipotesi era fatta propria, fra gli altri, da E. Fraenkel;
contra Mastronarde, ad l. e ora Medda, 122 n. 15.
69
Le Rane datano al 405 a.C., circa un anno dopo la morte di
Euripide, e pochi mesi dopo la morte di Sofocle. La trama è ben
nota: sulla scena – infera – Euripide ed Eschilo gareggiano per
la palma dell’eccellenza tragica; arbitro, Dioniso.
70
Il confronto fra i due tragici è iniziato da un reciproco esame dei prologhi (vv. 1119-1121). Tocca ora a Euripide sottoporre
a Eschilo e a Dioniso gli incipit delle sue tragedie: egli propone
i primi versi della sua Antigone (frr. 157 e 158 K.), che Eschilo
smonta in nome della mancata ὀρθότης («correttezza», «proprietà») delle espressioni impiegate.
71
Pur nella distorsione burlesca, l’argomento opposto a Euripide rivela la precisa concezione che della sciagura edipica ebbe
Eschilo: un episodio della ininterrotta tragedia che da Laio conduce sino a Eteocle, Polinice e Antigone; cf. supra, Introduzione,
XXXIX. Contemporaneamente, gli argomenti qui impiegati da
Eschilo risentono di Euripide, Fenicie 1595-1614 (cf. Mastronarde, ad l.): Aristofane fa dunque reagire, paradossalmente,
Euripide contro Euripide.
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72
Per questo dettaglio e per le probabili connessioni con
l’Edipo eschileo cf. supra, Introduzione, XXVI.
73
È la vulgata etimologia del nome «Edipo», ripresa – ma con
significativa marginalizzazione del motivo – dallo stesso Sofocle: cf. supra, Introduzione, XXXIVs. Aristofane fa sì che Eschilo
prenda alla lettera il tema: immaginando un Edipo (neonato!)
che si trascina sui suoi piedoni fino a Corinto.
74
Nulla di certo si può dire circa il Pisandro cui lo scolio
euripideo attribuisce le notizie che seguono. Un epico arcaico
di nome Pisandro, proveniente da Camiro rodia e autore di un
poema su Eracle, era ben noto agli eruditi antichi, e fu celebrato
da Teocrito (Epigramma 22 G. = Pisandro T 2 Dav.); il lessico
bizantino Suda (π 1465 A.) lo data a età pre-esiodea, o alternativamente alla metà del VII sec. a.C. Lo stesso lessico conosce
un poeta Pisandro vissuto nel III sec. a.C. e autore di Teogamie
eroiche. Probabile però che il Pisandro menzionato dallo scolio
sia un altrimenti ignoto erudito di età ellenistica, che rielabora
qui materiale derivante dall’epica arcaica e da altre, imprecisate
fonti. Deubner, 19-26 pensava che nello scolio si celasse un riassunto del Crisippo euripideo (rifuso con la trama dell’Edipo);
tale ipotesi è oggi per lo più rifiutata, a favore di fonti più varie
e più antiche: cf. Delcourt, Oedipe, XXXIX-XLVI; De Kock,
15-22; Di Gregorio, 54s.; e soprattutto Lloyd-Jones, Curses, passim. Che si tratti in gran parte di un’«epitome dell’Edipodia»
(cf. supra, testi al punto 5) crede P. Bernabé, Poetarum epicorum Graecorum testimonia et fragmenta, I, Stuttgart 1987, 17.
Un riesame dello scolio e una valutazione della sua utilità per
la ricostruzione di opere euripidee perdute è invece offerto da
Mastronarde, 31-38.
75
Per la vicenda di Crisippo, figlio di Pelope, e per il crimine
sessuale di Laio, cf. il séguito del testo. La vicenda era narrata
nel perduto Crisippo di Euripide, e resta dubbio se essa trovasse
posto anche nel Laio di Eschilo: cf. da ultimo Mastronarde, 32214
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Note all’Appendice
37, con bibliografia.
76
Testo fortemente dubbio. Si seguono le suggestioni di Robert, I, 152s.; cf. anche Edmunds, Oedipus. The Ancient Legend,
53 e Lloyd-Jones, Curses, 5.
77
Una digressione sui figli di Eurinomo, che evoca fra l’altro
le vicende di Enomao e dei pretendenti di Ippodamia. La notizia dell’uccisione di Emone da parte della Sfinge è confermata
da un frammento dell’Edipodia arcaica: cf. testo al punto 5.
78
Si tratta forse di un primo viaggio a Delfi, confuso dallo
scoliaste con l’ultimo – in tutti i sensi – pellegrinaggio di Laio?
Tutto il contesto, a partire dalla menzione di Era, fa pensare
che questo viaggio abbia come presupposto la sterilità di Laio,
sulla quale Apollo rese al re tebano oracoli di cui siamo ben
informati da Eschilo (testo al punto 9) e da Euripide (testo al
punto 12): cf. Lloyd-Jones, Curses, 6s. Il séguito del brano fa
però coincidere tale viaggio con la fatale missione delfica narrata nell’Edipo re. Sull’incongruenza di tutto il passaggio cf. Robert, I, 155-157.
79
La versione è condivisa da Euripide, Fenicie 44s. (testo al
punto 12) e, pur con altri presupposti, da Nicola Damasceno
(testo al punto 20); anche il séguito può essere influenzato dal
prologo della tragedia euripidea (cf. Robert, I, 160). Un dono
di cavalli a Polibo, da parte di Edipo, era menzionato da Antimaco, fr. 84 Matth. = fr. 3 Gent.-Pr.2. Che il motivo potesse
trovarsi anche nell’Edipo dello stesso Euripide rimane dubbio:
cf. Hose, 11s.
80
La sequenza dei fatti è alquanto incongrua e complessivamente inverosimile; non è da escludere che tale versione dipenda
dalla difettosa sintesi dello scoliaste, se non (più a monte) dalla
mal riuscita conflazione di fonti diverse: cf. Robert, I, 160s.
81
L’agnizione avviene dunque in due tempi; a questo livello
della vicenda, Giocasta si limita a riconoscere in Edipo il regicida.
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82
Evidentemente le fasce in cui il neonato era avvolto e i pungoli serviti per la mutilazione dei suoi piedi; cf. supra, Introduzione, XXXI.
83
Per queste seconde nozze di Edipo cf. anche i testi ai punti
5, 15, 21 e 22.
84
Ferecide di Atene, storico e mitografo vissuto nella prima
metà del V sec. a.C. La sua precisa identità – e i suoi rapporti
con il più celebre Ferecide di Siro, vissuto probabilmente intorno alla metà del VI sec. a.C. – sono stati a lungo discussi. Sulla
fisionomia e sulla collocazione storica del Ferecide ateniese si è
oggi stabilito un sostanziale consenso: si vedano in sintesi R.L.
Fowler, «Mnemosyne» LII (1999) 1-15; P. Dolcetti, Ferecide di
Atene. Testimonianze e frammenti, Alessandria 2004, 1-45. Il
frammento è tramandato dagli scolii alle Fenicie di Euripide (v.
53, I 257 Schw.), che introducono la citazione ferecidea e aggiungono, nel finale, un’ulteriore variante.
85
Di questa prima generazione post-edipica (Frastore e Laonito o Laolito, secondo una correzione di Bechtel accolta da
Fowler) si ignora tutto. La leggendaria contesa fra Tebe e Orcomeno – l’altro maggiore centro urbano della Beozia in età
micenea – è legata al mito di Eracle, che di Ergino sarebbe stato
l’uccisore secondo numerose fonti antiche (cf. per es. Apollodoro II 4,11). Ferecide, e la tradizione cui egli attinge, presuppongono evidentemente una diversa cronologia degli eventi, per cui
Ergino diviene un contemporaneo di Edipo e dei suoi figli; si è
ipotizzato che fonte ultima della notizia potesse essere un poema locale sulla guerra minia: cf. Cingano, The Death, 9s.; Id.,
Tradizioni, 161.
86
Per questa seconda moglie di Edipo si vedano anche i testi
ai punti 5, 14, 21 e 22.
87
La precoce uccisione di Ismene (per mano di Tideo, il più
focoso dei Sette) è ovviamente inconciliabile con la più nota vicenda, canonizzata da Sofocle, che vede la ragazza accanto alla
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Note all’Appendice
sorella nei fatti seguiti all’uccisione di Polinice (Antigone) e poi
accanto al vecchio padre durante il suo finale esilio ad Atene
(Edipo a Colono). Il dettaglio è però condiviso da Mimnermo
(fr. 21 W.2 = 19 Gent.-Pr.2), il che fa pensare che Ferecide attinga comunque a una tradizione antica: cf. Cingano, The Death,
9. Per la fonte Ismene e il fiume Ismeno cf. il v. 21 dello stesso
Edipo re e supra, 139 n. 5.
88
Astimedusa è nota come moglie di Edipo anche allo scolio
D a Iliade IV 376 (ma si tratterebbe della seconda, non della
terza moglie). Cf. inoltre De Kock, 17s.; March, 122 n. 7; Guidorizzi, 65. Il motivo della terza moglie era retrodatato da Deubner, 30s. addirittura all’Edipodia. Il padre Stenelo è uno degli
Epigoni, noto alla tradizione troiana come auriga di Diomede
(cf. supra, n. 2): come ciò si conciliasse con il matrimonio qui
testimoniato non è possibile sapere; cf. anche Cingano, Tradizioni, 149.
89
Di Palefato – autore di un Περὶ ἀπιστῶν (Sulle storie incredibili) che ebbe grande fortuna nell’antichità – si ignora quasi
tutto, e già l’erudizione antica tende a confondere e a moltiplicare la sua figura. Oggi si inclina a riconoscere l’autore in un Peripatetico vissuto fra IV e III a.C.: per un quadro criticamente
aggiornato si può vedere A. Santoni, Palefato. Storie incredibili,
Pisa 2000, 9-43.
90
Per le diverse tradizioni relative alla morte della Sfinge
cf. Höfer, 715-717; Robert, I, 54-56; Lesky, Sphinx, 1722s.;
Edmunds, The Sphinx, passim; si veda anche supra, Introduzione,
XXIXs.
91
Con questa trovata Palefato riesce a razionalizzare anche
la storia di Cadmo, del serpente o drago di Ares da lui ucciso
(qui trasformato in un ignoto individuo di nome Dragone) e del
matrimonio con Armonia: cf. supra, 137 n. 1.
92
Il dettaglio relativo al cane, altrimenti ignoto ed evidentemente ideato ad hoc, serve a ricomporre razionalisticamente la
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triplice figura della Sfinge: donna, cane e – con pur esile riferimento alla rapidità del cane – uccello.
93
Il nome Phikion è derivato dalla variante onomastica Φίξ
per Σφίγξ. Quest’ultima forma – originariamente, forse, Σφίξ – è
influenzata dalla pseudoetimologia che connette il nome al verbo σφίγγω, «strangolo»; si veda Esiodo, Teogonia 326 con lo scolio al passo e con il commento di M.L. West, Hesiod. Theogony,
Oxford 1966, 256; inoltre Robert, I, 48-53; Delcourt, Oedipe,
104-140; Lesky, Sphinx, 1703s.; Daly, 770-772.
94
Asclepiade di Tragilo fu allievo di Isocrate e compose, intorno alla metà del IV sec. a.C., una raccolta di Τραγῳδούμενα
(Storie o Soggetti tragici): con ogni verosimiglianza, un censimento delle leggende trattate dai tragediografi ormai canonizzati, con varianti e materiali di corredo. Il frammento di
Asclepiade è tràdito da Ateneo X, 456b; ma in forme pressoché
identiche (pur fra varie oscillazioni testuali) l’enigma è noto da
numerose altre tesimonianze, fra cui l’Antologia Palatina (XIV
64), gli argumenta antichi dei Sette contro Tebe eschilei e dello
stesso Edipo re; lo scolio al v. 50 delle Fenicie. West ritiene che
il testo risalga addirittura all’Edipodia arcaica (fr. *2 W.); altri
hanno pensato che esso provenisse dall’Edipo di Eschilo (cf. H.
Lloyd-Jones in AA.VV., Dionysiaca, Cambridge 1978, 60). Per
una raccolta delle versioni attestate per l’enigma – convergenti
nella sostanza – cf. per es. Jebb, 5s. e Lesky, Sphinx, 1716-1722.
Sembra fare eccezione, quanto al contenuto del griphos, Teodette (frr. 4 e 18 Sn.-K.); ma nulla assicura che i due indovinelli
– di cui solo il primo è attribuito all’Edipo – fossero pronunciati dalla Sfinge: cf. da ultimo S. Monda, «Seminari Romani di
Cultura Greca» III/1 (2000) 29-45, in part. 29-39. Una rilettura
filosofico-morale dell’indovinello è stata attribuita a Diogene di
Sinope: cf. J.L. López Cruces–J. Campos Daroca, «Itaca» XIVXV (1998-1999) 43-65.
95
Il testo dell’oracolo è tramandato da due codici sofoclei,
218
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Note all’Appendice
dai codici delle Fenicie di Euripide e in parte (vv. 1-3) dall’Antologia Palatina (XIV 67). Esso tenta una sintesi fra il motivo del
vaticinio e il motivo della maledizione scagliata contro Laio da
Pelope (cf. supra, Introduzione, XXVI).
96
Crisippo, il figlio di Pelope di cui Laio si innamorò; da lui
rapito e violentato, si uccise per la vergogna: per questi antefatti
cf. i testi ai punti 14 e 24.
97
Diodoro Siculo, nativo di Agira in Sicilia e vissuto nel I sec.
a.C. (la sua morte è da porre intorno al 30 o al 20), menziona il
mito edipico nel contesto di un excursus su Tebe. Il suo resoconto – che ha notevoli punti in comune con quello di Apollodoro
(testo al punto 21) – appare come un’aderente parafrasi del prologo delle Fenicie euripidee: cf. in sintesi Robert, I, 512.
98
Nicola di Damasco, storico, biografo, filosofo di ascendenza peripatetica, visse nella seconda metà del I sec. a.C. e fu attivo alla corte di Erode il Grande fino alla morte di quest’ultimo,
nel 4 a.C. Il frammento deriva dalle perdute Storie in 144 libri,
che partivano dai più remoti antefatti mitici per giungere sino
al regno di Erode.
99
Interessante tentativo di giustificare razionalisticamente il
nesso fra mutilazione del neonato e gonfiore dei piedi: due motivi che non appaiono, a rigore, logicamente congruenti (cf. supra, Introduzione, XXVII). Un tentativo di spiegazione analoga
si registra nello scolio a Euripide, Fenicie 26 (testo al punto 24).
La trovata è probabilmente suggerita dal v. 1035 dell’Edipo re,
dove le «fasce» sono però mera sineddoche per «infanzia».
100
Che si tratti di una scorreria è probabile; ma forse è eccessivo parlare di un Edipo «ladrone che tende agguati ai viandanti» (Guidorizzi, 101; cf. ibid. 138s.); cf. già Robert, I, 81;
Delcourt, Oedipe, 92.
101
Passo corrotto; anche il séguito è dubbio, e la traduzione si
limita a quanto è comprensibile.
102
Ignoto è l’autore del più fortunato compendio di mitolo219
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gia antica, la Biblioteca attribuita dal patriarca Fozio (IX sec.) ad
«Apollodoro il Grammatico», cioè al dotto Apollodoro di Atene
(II sec. a.C.). Si tratta verosimilmente di una compilazione sorta
nel I o nel II sec. d.C., con l’intento di comprendere l’intera ‘storia sacra’ della cultura pagana. Una ricca edizione italiana ne ha
data P. Scarpi, Apollodoro. I miti greci (Biblioteca), trad. di M.G.
Ciani, Milano 1996; ibid. 557-562 un ampio commento al passo.
103
Per le varianti del nome (Merope, in Sofocle), cf. supra,
Introduzione, XXVII e Bremmer, 45.
104
Il dettaglio – se antico – è importante, perché introduce
un ulteriore elemento di inganno (la menzione della «terra natale») nell’oracolo reso da Apollo a Edipo. Tale oracolo è però
attestato per la prima volta in Sofocle: cf. supra, Introduzione,
XLI n. 97.
105
Il nome dell’araldo e la sepoltura di Laio sono dettagli
estranei al trattamento sofocleo del mito; ma Polifonte compare
nello scolio a Euripide, Fenicie 39 (I 254 Schw.) con il nome Polifete (se non si tratta di un errore); con il nome di Polipete egli
era noto a Ferecide (FGrHist 3 F 94 = EGM 94), per il quale cf.
testo al punto 15 e n. 84.
106
Nell’attribuire a Era l’invio della Sfinge, la versione di
‘Apollodoro’ collima con la sintesi fornita da ‘Pisandro’ (cf. testo al punto 14); entrambi concordano con l’arcaica Edipodia nel
narrare la morte di Emone (cf. testo al punto 5). Per la Sfinge e
le diverse varianti del suo mito cf. supra, Introduzione, XXVIIIXXX.
107
Per queste seconde nozze di Edipo cf. anche i testi ai punti
5, 14, 15, 22.
108
È ovviamente la versione sofoclea fornita dall’Edipo a Colono, dove il «bosco» o «recinto» delle Eumenidi (vv. 127 e 136)
è il luogo in cui Edipo – ormai estraneo agli uomini – conclude la sua vicenda. Per l’ultimo capolavoro sofocleo – che qui si
esclude, data la sua notorietà, dalla raccolta dei testi – si può
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Note all’Appendice
ricorrere all’ottima traduzione annotata di A. Rodighiero, Sofocle. Edipo a Colono, introd. di G. Serra, Venezia 1998 e ora
all’edizione commentata a c. di G. Avezzù e G. Guidorizzi, Sofocle. Edipo a Colono, trad. di G. Cerri, Milano 2008.
109
Pausania intende l’avverbio ἄφαρ, in Odissea XI 274, secondo un’accezione temporale assoluta («immediatamente, subito»)
che non lascia spazio alla prolifica Giocasta di tradizione sofoclea; ma la ricostruzione – adottata da molti moderni – resta
dubbia: cf. supra, testo al punto 2 e n. 6.
110
Per la tradizione relativa ai plurimi matrimoni di Edipo cf.
anche testi ai punti 5, 14, 15, 21.
111
Il pittore Onasia (prima metà del V sec. a.C.) è menzionato
come autore di opere sulla saga tebana anche in Pausania IX
4,2. Per il suo ciclo pittorico nel tempo di Atena Areia a Platea
e per altre fonti iconografiche di argomento analogo si veda I.
Krauskopf in P. Angeli Bernardini (a c. di), Presenza e funzione
della città di Tebe nella cultura greca, Pisa 2000, 291-315. Tanto Onasia quanto l’Edipodia sembrano riviare a versioni locali
tebane, ben diverse da quelle canonizzate dal teatro attico: cf.
Cingano, Tradizioni, 149.
112
Per le maledizioni lanciate da Edipo su Eteocle e Polinice
cf. testi ai punti 6, 9 e 12. Per la notizia di un Edipo ancora vivo
e regnante dopo la scoperta di parricidio e incesto cf. testi ai
punti 1, 2, 3, 6, 12 e note relative.
113
A questo punto interviene la lite con Eteocle e il secondo
esilio di Polinice, spiega nel séguito Pausania. Per la figlia di
Adrasto e per la sua partecipazione ai funerali di Edipo cf. testo
al punto 3.
114
Sotto il nome di un non meglio precisato Igino è giunta sino a noi una raccolta di 277 sintesi mitiche in prosa, note
come Genealogie o semplicemente – a partire dall’editio princeps
cinquecentesca – come Favole. L’origine dell’opera – fortunatissima nel Medioevo – risale verosimilmente all’inizio del II sec.
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d.C. Per un inquadramento cf. Igino. Miti, a c. di G. Guidorizzi,
Milano 2000.
115
Qui, come nello scolio a Euripide, Fenicie 26 (testo al punto 24), l’abbandono è intonato alla variante marina, per la cui
tipicità cf. supra, Introduzione, XVIII e XXVI. Tali varianti, rare
in letteratura, sono però corroborate dalle testimonianze iconografiche: cf. Robert, I, 326; Delcourt, Oedipe, 23; Edmunds,
Oedipus. The Ancient Legend, 9 n. 32.
116
Per la topica rivalità fra il trovatello regale e i coetanei si
veda la versione di Apollodoro (testo al punto 21) e supra, Introduzione, XX.
117
Tifone (o Tifeo) è il mostruoso figlio di Gaia e di Tartaro
che, secondo la Teogonia esiodea (vv. 820-868), tentò l’ultimo,
fallimentare assalto al regno di Zeus. Tale origine, per la Sfinge,
è altrove ignota. Il legame di Tifone con Era (cf. Inno omerico ad
Apollo 305-374) può tuttavia costituire un fondato nesso per la
genealogia qui proposta: non di rado, infatti, Era è la mandante
divina del flagello (cf. testo al punto 14).
118
La pertinenza dell’episodio al contesto è nulla: l’apposizione Iocastae pater è senz’altro una postilla erronea da espungere
e il Meneceo qui nominato sarà il figlio di Creonte il cui sacrificio Tiresia richiede – ma per liberare la città dall’assalto dei
Sette – in Euripide, Fenicie 911-914; è lui l’ultimo discendente
dalla stirpe degli Sparti, nati dai denti del Serpente seminati da
Cadmo: il personaggio, che ripete il nome del nonno, è quasi
certamente un’invenzione euripidea (cf. Mastronarde, 28s.; ora
Medda, 47-53). Tutto il brano di Igino sembra nascere da un’indebita confusione fra diversi episodi della saga tebana.
119
È questo l’unico caso in cui il Pastore tebano – scisso da
Sofocle nelle due figure del Messaggero corinzio e del Pastore
– riceve esplicitamente un nome.
120
La morte di Giocasta non è menzionata, e il dettaglio delle
fibbie è gratuitamente espresso: qualcosa di analogo accade nel222
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Note all’Appendice
le Fenicie di Euripide (cf. testo al punto 12 e n. 68).
121
I commentatori antichi si interrogano, non senza ragioni,
sui motivi che avrebbero spinto Laio a mutilare il figlio, piuttosto che a ucciderlo: un motivo che manifesta un’indubbia sovradeterminazione e che mal si concilia con uno sviluppo lineare
della vicenda (cf. supra, Introduzione, XXVII n. 55). La spiegazione qui affacciata è un’evidente razionalizzazione a posteriori,
che in tempi più recenti è stata curiosamente riproposta (cf. per
es. Sheppard, ad v. 718 e C. Calame in Gentili-Pretagostini, 399
n. 7).
122
Per la razionalistica spiegazione relativa alle fasce – desunta dall’Edipo re, v. 1035 – cf. anche il resoconto di Nicola
Damasceno (testo al punto 20) e supra, Introduzione, XXVII n.
56. Per le varianti marine dell’abbandono, comuni a tante altre
vicende leggendarie, e per la sostituzione di Sicione a Corinto,
cf. supra, Introduzione, XXVIs. Di un Edipo figlio del Sole non
si ha traccia altrove, né si può desumere la fonte di questa preziosa variante mitica; essa ha goduto di fortuna in età moderna,
soprattutto grazie alle esegesi razionalistiche di M. Bréal, contro le quali si veda Comparetti.
123
Passo corrotto in almeno due punti. Il senso generale si
intuisce: a raccogliere il neonato sarebbe stata Ippodamia, figlia
di Enomao, il re di Pisa (in Elide) noto per la gara equestre cui
sfidava i pretendenti della figlia (cf. supra, Introduzione, XXI).
Questa variante garantisce uno stretto e precoce nesso con la
vicenda di Crisippo, perché sarà Pelope a vincere e uccidere
Enomao, a sposare Ippodamia e dunque a crescere – come si
desume dal séguito – il piccolo Edipo, che di Crisippo sarebbe
dunque una sorta di fratellastro.
124
Di questa ulteriore impresa non abbiamo altre notizie; essa
era narrata dalla poetessa beotica Corinna (PMG 672), vissuta
verosimilmente fra VI e V sec. a.C. Il mito sembra di origine
locale (in Beozia si collocano la città di Teumesso e l’omoni223
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mo monte) e sottolinea quella caratteristica eroica di Edipo – la
topica uccisione di mostri – che nella versione più nota è limitata alla vicenda della Sfinge. Cf. Kamerbeek, 4, De Kock, 11,
Huxley, 46 e più diffusamente Cingano, Tradizioni, 157-159. La
volpe è ricordata anche da Apollodoro II 4,6s., ma senza riferimenti a Edipo.
125
Altra variante del tutto ignota, che forse si connette alle
interpretazioni razionalistiche del mito di cui dà vistosa testimonianza Palefato (testo al punto 16).
126
Il testo è ambiguo, ma sembra potersi dedurre una variante leggendaria – l’unica antica, prima di tante invenzioni erotiche contemporanee – in cui Edipo e la Sfinge intrattengono
rapporti sessuali; si veda il commento – forse troppo fiducioso
– di C. Brillante in Gentili-Pretagostini, 83s.; su questa linea già
Robert, I, 496 e Lesky, Sphinx, 1712; cf. ora Guidorizzi, 175s. e
supra, Introduzione, XXX. Nella notizia riportata dallo scolio
– come in Pausania IX 26,3 – la Sfinge è razionalisticamente
umanizzata nella figura di una ragazza tebana o addirittura di
una figlia di Laio: cf. in proposito Vernant, Il tiranno zoppo, 39.
127
Lisimaco di Alessandria, grammatico, mitografo, paradossografo vissuto con ogni probabilità fra III e II sec. a.C. La testimonianza è tratta verosimilmente dai Paradossi tebani (FGrHist
382 F 4), raccolta di mirabilia relativi alla storia leggendaria di
Tebe. Per la variante mitica qui conservata cf. Robert, I, 496.
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Indice
III
V
CXLVII
CLXV
1
135
175
199
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Prefazione
Introduzione
Bibliografia
Nota al testo e alla traduzione
Edipo re
Note
Appendice
Note all’Appendice
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