La celebrazione del 150.mo dell`Indipendenza

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La celebrazione del 150.mo dell`Indipendenza
Lettera Pastorale per la Quaresima 1953
La celebrazione del 150.mo dell'Indipendenza del Cantone Ticino
Carissimi Diocesani,
quest'anno la mia Lettera Pastorale ha un tema obbligato: il 150.mo anniversario della
entrata del nostro Cantone nella Confederazione Svizzera e della sua indipendenza.
Dico tema obbligato, poiché è un gradito dovere del Vescovo unire la sua voce a quella
delle Autorità civili e del Popolo per celebrare lo storico, gioioso avvenimento che ha fatto
del nostro Ticino un paese libero nel consesso dei Cantoni confederati.
Fu infatti con l'atto di mediazione del 19 febbraio 1803 che il Ticino entrò a fare parte della
Confederazione e fu il 20 maggio 1803 che il Gran Consiglio si riunì per la prima volta a
Bellinzona, nella chiesa del Convento dei Benedettini, per dare inizio a quella faticosa opera
legislativa e organizzativa che, attraverso molte e non sempre facili vicende e neppure senza
difficoltà interne ed esterne, condusse il nostro Cantone alla situazione in cui si trova.
E perché non commemorare questa storica e felice ricorrenza anche nelle nostre chiese,
all'ombra delle quali i nostri villaggi sono nati e che rimangono sempre il nostro patrimonio
storico e artistico più pregevole e il centro della nostra vita cristiana?
Se festa ha da farsi - ed è certamente ottima l'iniziativa del nostro Consiglio di Stato - sia la
festa di tutto il Ticino nella completezza del suo linguaggio di popolo libero e di popolo
cattolico, quale lo riconosce e sanziona il primo articolo della costituzione cantonale che
recita: «La religione cattolica apostolica romana è la religione del Cantone».
Ecco perché, diocesani carissimi, il Vescovo è lieto di presentarvi, in occasione della
patriottica ricorrenza, alcune considerazioni, suggerite da uno sguardo sugli avvenimenti che
hanno contribuito a formare la nostra storia in questo periodo.
Invocazione e ringraziamento a Dio
Primo fra tutti s'innalzi un pensiero di gratitudine, di fiducia e di invocazione a Dio perché
sarà sempre vero che la sua mano provvidenziale tiene le redini dei nostri destini. Dio è, per
testimonianza della fede, della ragione e della storia di tutti i secoli, il supremo reggitore che
«suaviter ac fortiter» tiene il dominio universale di tutto il creato e di tutte le creature.
Siamo grati al Signore per avere conservato al nostro Paese la libertà e l'indipendenza, per
averci favoriti del dono della pace esterna con tutti i popoli che ci circondano ed anche
interna.
Dono prezioso questo della pace, che abbiamo meglio compreso e imparato ad apprezzare
durante il periodo bellico, quando ci giungeva l'eco del fragore che portava in altre terre il
terrore della morte; dono prezioso che dobbiamo con l'aiuto di Dio mantenere a prezzo di
qualunque sacrificio, poiché anche nelle lotte interne, che sembrano qualche volta dividere il
nostro popolo, sono sempre di gran lunga maggiori le ragioni che ci uniscono che non
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quelle che ci dividono; ed è soprattutto alle prime che la nostra attenzione e i nostri sforzi
devono essere costantemente rivolti.
Alla voce del ringraziamento si aggiunga quella della preghiera per invocare dal Signore
larghezza di perdono per le violazioni della sua legge che non sono mancate e sono anzi
troppo frequenti anche in mezzo a noi.
Quando si celebrano avvenimenti che interessano la vita di un popolo si fa generalmente a
gara a metterne in rilievo i meriti, ad esaltarne le energie, le virtù, le conquiste fatte, le mete
raggiunte. E non diremo che sia un male. E' anzi doveroso e altamente educativo per tutti,
ma specialmente per la gioventù, ricordare le lotte, i sacrifici, i meriti reali che hanno
condotto un popolo a risultati onorevoli e forse anche superiori alle previsioni.
Certamente uno sguardo retrospettivo sull'opera di progresso civile compiuto dalla gente
ticinese, dal giorno in cui, raggiunta la «libertà degli svizzeri», reclamata come sacro diritto,
venne accolta nella Repubblica Elvetica, convince il popolo ticinese e lo autorizza a essere
fiero del cammino percorso nei suoi primi 150 anni di indipendenza.
Questo legittimo sentimento di fierezza per i progressi realizzati non può e non deve
tuttavia impedirci di guardare alle nostre manchevolezze, alle nostre colpe individuali e
collettive e chiederne perdono a Dio.
Quando la saggezza scritturale ci avverte: «Iustitia elevat gentem: miseros autem facit
populos peccatum» (Provo XIV, 34): la giustizia fa grande una nazione, ma il peccato rende
infelici i popoli, c'invita precisamente all'esame di coscienza, di cui tutti abbiamo sempre un
grande bisogno; ci ricorda che più del progresso materiale ci deve stare a cuore il
miglioramento morale.
Mi piace richiamare quanto scriveva il Vescovo Mons. Vincenzo Molo, di venerata
memoria, nel 1903, in occasione della celebrazione del primo centenario della nostra
indipendenza: «Io pure, vostro Vescovo, festeggio questo felice avvenimento e però
domandiamoci: l'autonomia che acquistammo fu per noi vera sorgente di bene? Io non dirò
che in questo secolo i ticinesi abbiano fatto tutto bene, né che abbiano fatto male. Hanno
fatto del bene e del male; né è da farsene meraviglia: è ciò che più o meno avviene
dappertutto. I corpi sociali sono composti di uomini e dove sono uomini vi sono passioni:
dove sono passioni «sunt bona mixta malis». E noi ticinesi, giunti al termine di questo
primo secolo di autonomia, dobbiamo domandare perdono a Dio del male commesso,
promettendone l'emenda e rendergli grazia del bene che col suo aiuto abbiamo operato;
proponendo di nulla omettere per camminare sempre di bene in meglio.
Mi faccio eco ben volentieri di questa persuasiva esortazione, oggi opportuna quanto ieri.
A camminare di bene in meglio ci sia sprone efficace un vero amore alla nostra terra,
sostanziato dalla cognizione esatta e dalla scrupolosa osservanza dei nostri doveri religiosi e
civili sia nella vita privata che in quella pubblica.
L'amore alla patria è naturale quanto l'amore alla propria famiglia. Dalla famiglia, prima
cellula sociale, l'uomo riceve, con la vita, i primi aiuti indispensabili per il suo sviluppo e il
suo perfezionamento. Un ambiente familiare sano moralmente e religiosamente, fatto di
comprensione, di abnegazione, di reciproci sacrifici è per l'uomo la prima e più naturale
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scuola di preparazione e formazione alla vita e ognuno vi si sentirà legato da vincoli che
neppure la morte varrà a distruggere completamente.
Vicino alla piccola e primordiale società della famiglia ecco la patria che a tutti assicura:
un'incalcolabile somma di beni nel campo fisico, intellettuale e morale. Per questo legami
pure profondi ci stringono alla patria alla quale tutti dobbiamo amore e predilezione,
disposti, in caso di bisogno, a fare per essa anche il sacrificio della vita.
Il Vangelo riconosce e rafforza questo sentimento di amore verso la Patria quando ci
ricorda il Salvatore che ama la Patria sua e versa lagrime di dolore quando dovrà
preannunciare il castigo preparato per punire la sua prevaricazione (Luca XIX, 41).
Guardiamoci bene nell'affermazione e nelle manifestazioni del nostro amor patrio dal
giungere alle esagerazioni di un falso ed esagerato nazionalismo, che chiude gli animi e li
rende incapaci di comprendere e aiutare altri popoli, quando ve ne sia il bisogno. Una delle
conquiste migliori della società moderna, di cui il periodo bellico e il dopoguerra hanno
dato prove splendide, è certo quel senso di fraternità che spinge i popoli a partecipare alle
sofferenze di altri popoli e ad alleviarle.
In questo allargamento di orizzonti, che fa spingere lo sguardo sulla comunità intera, vi è
una ricchezza morale che può essere sorgente di grandi beni sia nel campo nazionale che
internazionale: una ricchezza della quale la nostra Patria ha dato prova a più riprese, nei
giorni foschi della tormenta, scatenatasi sul mondo intero; una ricchezza che ha trovato
anche recentemente una grandiosa manifestazione nella magnifica solidarietà dei popoli
liberi verso i popoli dell'Olanda, dell'Inghilterra e del Belgio duramente provati dai disastri
della natura.
L’amore della vera libertà
A rendere più efficace, più operante l'amore alla patria ecco l'amore alla libertà.
Fu indubbiamente amore di ben compresa libertà quello che il 15 febbraio 1798 condusse i
delegati del popolo ticinese a reclamare come sacro diritto «la libertà degli svizzeri», perché
dopo secoli di sudditanza si sentivano capaci di governarsi da soli.
Gran dono anche quello della libertà. E si capisce. Se Dio stesso rispetta la libertà
dell'uomo, l'uomo ragionevolmente non vuole essere oppresso in ciò che ha di più sacro,
dopo Dio: la sua libertà. Ma, - come ho già scritto in una mia Lettera Pastorale precedente
(Quaresima 1948) la libertà vuole essere concepita esattamente, perché dalla errata
cognizione della libertà possono derivare - e ne derivano infatti - danni incalcolabili
all'individuo come alla famiglia e alla società.
Troppo facilmente si scivola da una libertà male intesa e a una licenza rovinosa.
«Grandissimo è purtroppo il numero di coloro che imitando Lucifero, da cui uscì l'empio
grido: "Io non obbedirò" sotto il nome di libertà vogliono e predicano una assurda licenza».
Così il Papa Leone XIII.
Quale dunque il vero significato di questa parola: Libertà?
Eccolo: Libertà è il potere dato dal Creatore ad ogni uomo di scegliere, di decidere, di agire
da padrone in tutti i suoi atti, «Dono di natura nobilissimo - scrive ancora Leone XIII - e
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proprio unicamente degli esseri intelligenti, la libertà conferisce all'uomo la dignità di essere
in mano del suo consiglio ed avere intera padronanza delle sue azioni» (Enciclica «Libertas»).
Ne verrà allora che l'uomo, padrone di tutti i suoi atti, potrà fare tutto quello che gli
aggrada, non importa se sia bene o male? No, perché se vi è nell'uomo la libertà di agire,
sopra di lui e per lui vi è la legge, che è la regola delle sue azioni.
Un mondo senza leggi non sarebbe un mondo ordinato, ma un caos, un disordine; e come il
mondo fisico - delle cose - è governato da leggi fisiche, quello morale - il mondo degli
uomini - è pure governato dalle leggi morali.
Ed ecco la legge naturale e, accanto alla legge naturale, la legge positiva divina e, sgorganti
da quelle, le leggi umane, ecclesiastiche e civili che, entro i limiti della loro competenza e in
piena dipendenza e concordanza con quelle, obbligano l'uomo, dirigendolo nelle sue azioni,
al fine per il quale egli è stato creato.
Da questa concezione del mondo ordinato da un sommo Legislatore, nel quale l'uomo è
posto di fronte alle leggi che accetta e osserva liberamente, sorge questo principio basilare
che, nell'ordine sociale, la libertà, degna di questo nome, non consiste nel fare quello che
talenta a ognuno, ciò che produrrebbe confusione e disordine, ma nel vivere secondo le
norme della legge eterna e divina, con l'aiuto delle leggi umane.
Ne viene quindi che non vi può essere e non deve esserci libertà per il male, perché il male è disordine
morale, è ribellione all'ordine stabilito dal Creatore, è opposizione al vero benessere sociale,
è schiavitù e perdizione dell'uomo e non libertà.
Chi fa il male infatti non esercita la libertà per il fine per il quale essa gli viene data, che è il
conseguimento del bene.
E' quanto insegna il Maestro Divino dicendoci : Chi fa il peccato è schiavo del peccato.
Viviamo oggi in un clima di ebbrezza della libertà. Se ne scrive e se ne parla largamente e
soprattutto largamente se ne abusa, tramutandola in licenza, con danno immenso delle
anime. La Chiesa non può però approvare e non approva quella libertà, che porta l'uomo a
sottrarsi alla legge santa di Dio e alla legittima autorità; poiché questa sarebbe piuttosto
licenza che libertà ed è chiamata a buon diritto da S. Agostino: «libertà di perdizione»
(Epistola 105 adv. Donatistas, c. II. n. 9) e dall' Apostolo Pietro «un manto per coprire la
malizia» (Pietro I, II, 11).
La «libertà degli svizzeri», preferita dai Ticinesi del 1798 a quella offerta dalla Repubblica
Cisalpina, satellite della Francia, rivoluzionaria e giacobina, fu la salvezza del Ticino ed il
popolo ticinese ha sempre dimostrato, sia pure attraverso qualche periodo di lotte interne,
una incrollabile fedeltà non solo alla patria, ma anche alla religione cattolica.
I due poteri: lo Stato e la Chiesa
a)
Lo Stato
E' costante assillo del Vescovo, insieme a quello di mantenere viva in mezzo al suo popolo
la fede e la vita cristiana, anche quello di contribuire con tutte le sue forze a conservare,
nella libertà e nell'ordine, quella pace sociale che è tanto favorita dall'armonia e dalla mutua
collaborazione dei due poteri, il civile e il religioso.
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Lo Stato, società civile naturale e perfetta, giuridicamente costituita, ha il compito di
procurare il bene dei sudditi nella sfera temporale e terrena.
L'insegnamento della Chiesa, per quanto riguarda lo Stato, non potrebbe essere più chiaro.
Quando Gesù Cristo venne interrogato, possiamo dire in forma officiale, circa l'autorità
civile, preposta al governo della Giudea, rispose colla nota frase: Date a Cesare quello che è di
Cesare e date a Dio quello che è di Dio (Matteo, XXII, 21); con queste parole alludeva alla
distinzione tra il potere civile ed il potere religioso e sanzionava questa stessa distinzione.
L'insegnamento di Gesù Cristo venne raccolto dalla Chiesa. S. Paolo scrive: Ogni persona
sia soggetta alle autorità superiori; poiché non vi è potere se non da Dio… per cui chi si
oppone all'autorità va contro l'ordine di Dio e quelli che così resistono si attirano la
condanna (Rom. XIII, 1-2); e S. Pietro scrive: Siate soggetti per amore del Signore ad ogni
umana istituzione, tanto al re, come quegli che sta sopra tutti, come ai governatori, in
quanto mandati da lui (I Pietro II, I3).
Dal momento che lo Stato viene da Dio, anche il suo fine venne da Dio determinato. «La
sovranità civile - insegna Pio XII - è stata voluta dal Creatore perché regolasse la vita sociale
secondo le prescrizioni di un ordine immutabile nei suoi principi universali, rendesse più
agevole alla persona umana, nell'ordine temporale, il conseguimento della perfezione fisica,
intellettuale e morale e l'aiutasse a raggiungere il fine soprannaturale» (Summi Pontificatus,
1939).
E' quindi nobile prerogativa e missione dello Stato il controllare, aiutare e ordinare le attività
private e individuali e la vita nazionale, per farle convergere armonicamente al bene
comune.
b)
La Chiesa
Dallo Stato si distingue, come ho detto, la società religiosa. E' ben vero che presso popoli
antichi ed anche presso gli Ebrei la società religiosa non si distingueva dalla società civile;
ma l'insegnamento di Gesù Cristo, che insegna a dare a Cesare quello che è di Cesare ed a
Dio quello che è di Dio, stabilisce una chiara distinzione tra le due società.
La società religiosa è per noi la Chiesa cattolica, la cui fede, predicata nelle nostre regioni fin
dai primi secoli cristiani, rimase, per grazia di Dio, così viva da resistere ad ogni urto.
Che cos'è la Chiesa cattolica? E' la Redenzione che continua. Sulla Croce del Calvario Gesù
Cristo, offrendo il sacrificio di Sé, meritò per tutti gli uomini la grazia della salvezza eterna;
ma l'applicazione dei suoi meriti avviene nella Chiesa, alla quale Egli ha lasciato, insieme con
i tesori del sacrificio e dei Sacramenti, la promessa di essere con lei fino alla consumazione
dei secoli (Matteo, XX, 28).
Il primo Capo della Chiesa - rappresentato dal suo Vicario in terra, il Sommo Pontefice - è
sempre lo stesso Redentore, che attua nella Chiesa e per mezzo della Chiesa la Redenzione
per i singoli fedeli.
Bastano questi accenni a fare comprendere come debba apprezzarsi il fatto che la nostra
terra, fin dai primi secoli cristiani; abbia abbracciato la religione di Gesù Cristo e le sia
rimasta costantemente fedele. Come bastano pure queste considerazioni per dire con quale
impegno da parte nostra si debba vivere e difendere contro ogni insidia l'integrità della fede:
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di quella fede, che ha santificato le generazioni di circa quindici secoli, che si succedettero
sulla nostra terra.
Ma la Chiesa è anche una società giuridica, perfetta, indipendente dallo Stato.
Gesù Cristo disse a San Pietro: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa
(Matteo, XVI, 18). Alla Chiesa diede il potere di sciogliere e di legare (Matteo XVIII, 18); e
le ordinò di predicare: Andate ed ammaestrate tutte le genti (Matteo XXVIII, 19); e mise a
capo della Chiesa S. Pietro, cui disse: Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle (Giov. XXI,
15-17).
A differenza delle società civili, che sono circoscritte da confini, la Chiesa è destinata a tutti i
popoli, di tutte le regioni, in tutti i tempi.
Esistono dunque due società aventi un fine diverso da raggiungere, con mezzi propri: ma
l'azione e il potere di queste due società si esercitano sugli stessi individui. E' dunque
necessario che le due società trovino un modo di intesa, cioè che si stabilisca una norma
regolatrice dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato, poiché è facile comprendere quali problemi
gravi di coscienza potrebbero sorgere quando i fedeli si trovassero di fronte a disposizioni
contrastanti delle due società, dalle quali dipendono e alle quali sono tenuti a obbedire.
Questa norma è da noi in atto con la legge civile ecclesiastica del 1886 sulla libertà della
Chiesa Cattolica e sull'amministrazione dei beni ecclesiastici.
Viene talvolta ripetuta l'affermazione che la Chiesa vuole entrare nel dominio dello Stato,
usurparne i poteri; se con questo si ritiene che entri nel desiderio della Chiesa e nella sua
azione il fine di invadere il campo dello Stato l'affermazione è certamente destituita di ogni
fondamento. La Chiesa riconosce lo Stato, insegna ai cittadini a rispettare lo Stato ed ha
persino, nella sua legislazione penale, delle disposizioni che minacciano la scomunica a chi
dà il proprio nome a società che cospirano contro il legittimo potere civile (can. 2335).
E' invece comprensibile che la Chiesa, consapevole della sua missione, alla quale non può
certo rinunciare, quando è perseguitata, minacciata nella sua stessa esistenza od ostacolata
nell'esercizio della missione ricevuta dal suo Divin Fondatore, non si contenti di opporre il
silenzio, ma denunci la sua sofferenza e rivendichi i suoi diritti.
E' la storia di oggi nei paesi orientali, dove, sotto il pretesto pietoso e mendace di opporsi a
cospirazioni contro lo Stato immensamente forte, si condannano Vescovi e fedeli inermi,
che nella persecuzione di cui soffrono altro non potrebbero fare che chiedere a Dio, con la
preghiera, un miglioramento per le sofferenze dei credenti.
La Provvidenza tenga lontani anche per il futuro simili pericoli dalla nostra terra e ci
conservi la grazia della pace, di cui sono pegno sicuro i buoni rapporti fra le Autorità
religiose e civili, poiché i contrasti tra la Chiesa e lo Stato sono sempre fonte di malessere
collettivo e mai forse questo malessere è tanto accentuato, come quando è compromessa la
pace religiosa.
La nostra diocesi ha registrato periodi di lotta; se qui vi accenno, non è certo per turbare
l'armonia che ci riunisce, nella celebrazione del 150.mo anniversario della nostra indipendenza,
ma per avere l'occasione di insistere sul grande bene che è la pace religiosa, la quale certo sta a
cuore alle nostre Autorità e a tutti quanti desiderano il vero bene del nostro popolo.
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Né voglio dimenticare che tutti coloro, i quali concorrono ad assicurare la conservazione
della pace religiosa, avranno la riconoscenza del nostro popolo, cattolico nella sua quasi
totalità, e che sempre ha dato ragione a chi vuole rispettata la sua fede.
Si dirà: Ma perché questa insistenza del Vescovo nel richiamare il concetto della vera libertà; i
doveri del cittadino e del cristiano verso lo Stato e verso la Chiesa; la distinzione dei due
poteri, il religioso ed il civile; la necessità della loro vicendevole armonia e collaborazione? La
risposta sta nell'esortazione di S. Paolo: «Rationabile sit obsequium vestrum» (Rom. XII, I). Il
vostro ossequio alle autorità e alle leggi sia basato sulla conoscenza esatta dei vostri doveri e
tanto più sarà efficace e meritorio quanto più esatta e completa sarà la conoscenza e la pratica
dei compiti e delle responsabilità che ognuno ha come cristiano e come cittadino.
Preme al Vescovo soprattutto di ricordare in questa felice celebrazione patriottica che non
si può disgiungere, senza danno per il paese stesso, l'amore alla patria dal rispetto per i
valori religiosi e morali. E i fedeli comprenderanno troppo bene questa insistenza del loro
Vescovo, quando si pensi alla propaganda d'irreligione e di immoralità che non conosce
argine, e che impensierisce - già lo scrissi altre volte - non solo i ministri della religione, ma
le stesse persone costituite in autorità, i genitori, gli educatori, e non solo nel campo
cattolico; tutti insomma coloro che hanno retto senso di giustizia e di moralità. Porre un
freno all'abuso della libertà, alle licenze del male non è compito della religione soltanto, ma
anche degli stessi poteri civili, di tutti gli educatori, dei cittadini stessi. Come tutti, senza
distinzione di fede religiosa e di opinioni politiche ci si unisce per soccorrere i fratelli colpiti
dai disastri della natura, così tutti possiamo e dobbiamo trovarci uniti nel porre argine alle
licenze del male.
E' ovvio e doveroso che il Vescovo richiami ancora una volta ai fedeli l'importanza che
nella lotta contro il male hanno la preghiera e i Sacramenti. A questo proposito non sarà
mai sufficientemente sottolineata la parola della Chiesa, che pur apprezzando gli sforzi di
tutti coloro i quali, grazie all'osservanza della legge naturale, posta da Dio nel cuore di ogni
uomo, si oppongono alle licenze del male, ha sempre predicato l'imparità dei rimedi
esclusivamente umani nella terribile lotta del bene contro il male. «Togliete agli uomini il
sostegno morale che loro viene dalla fede consolatrice in colui che premia ogni bene e
punisce ogni male e il risultato finale non sarà l'adesione al dovere, ma piuttosto la
diserzione. L'osservanza coscienziosa dei comandamenti di Dio e dei precetti della Chiesa è,
per ogni individuo, una incomparabile scuola di disciplina organica, di rinvigorimento
morale e di formazione del carattere… Il lasciare quindi inutilizzate energie morali di così
potente efficacia o sbarrare coscientemente ad esse il cammino è ... spalancare le porte alle
forze dissolvitrici». Sono parole di Pio XI, alle quali fanno eco queste altre dello stesso
Pontefice: «E' un fatto che non più di nascosto, ma apertamente, messo da parte ogni senso
di pudore, a parole e con scritti, con rappresentazioni teatrali di ogni specie, con romanzi,
con proiezioni cinematografiche, con discorsi e commedie trasmessi dalla radio, con tutti i
trovati più recenti della scienza viene messa in derisione la santità del matrimonio. Si lodano
invece i divorzi, gli adulteri e i vizi più turpi, o, per lo meno, si dipingono con tali colori da
farli quasi comparire come immuni da colpa ed infamia. Né mancano i libri e le riviste che,
sotto apparente vernice scientifica, gettano sulla dottrina tradizionale cristiana del
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matrimonio il discredito e invitano all'emancipazione dalle leggi divine e umane, che
governano l'istituto familiare» (Pio XI, Casti Connubii).
L'autorevole parola del Vicario di Cristo valga, fedeli carissimi, a richiamare tutti alle proprie
responsabilità, a unire tutti i credenti, tutti gli uomini di buona volontà, nell'assicurare alla
propria coscienza la gioia del trionfo sulle passioni malvagie e alla propria famiglia la
serenità e la pace, che il Signore concede anche in mezzo alle insopprimibili tribolazioni a
coloro che osservano la sua santa legge.
La nostra Diocesi
Di questa Lettera Pastorale voglio anche approfittare per rievocare un ricordo storico,
legato a questo periodo della nostra indipendenza politica: quello della fondazione della
diocesi, che nacque colla Bolla, Pontificia di Leone XIII del 7 settembre 1888. La nostra
diocesi ha 65 anni.
Di questo fatto probabilmente si ignorano, specialmente dalle nuove generazioni, molti
aspetti.
Nel leggere la storia religiosa del Ticino, prima della fondazione della diocesi, due cose
impressionano: le disagevoli condizioni nelle quali si trovavano, religiosamente le nostre
terre e le difficoltà che si sono incontrate per giungere alla sistemazione definitiva.
Quando il Ticino ricevette la sua autonomia politica dipendeva religiosamente dai Vescovi di
Milano e di Como e fino al 1859 quei Vescovi continuarono a comunicare con le nostre
regioni, prendendo contatto direttamente con esse, come aveva fatto San Carlo nel sec. XVI.
Dalla data del 1859 il Ticino veniva a trovarsi senza il suo capo spirituale. Il disagio per la
Chiesa ticinese fu grande e si deve alle convinzioni religiose profondamente radicate nel
nostro popolo, se non ne derivarono conseguenze anche più angosciose. Non è senza
legittima soddisfazione che si leggono queste parole scritte il 18 dicembre 1884 da Sua
Santità Leone XIII, che ben conosceva le condizioni nostre, al primo Vescovo
Amministratore Apostolico del Ticino: «Voi troverete figli obbedienti ai vostri ordini, con
una pietà poco comune, troverete messi pronte a fruttificare e pie istituzioni, le quali, per
essere mantenute e fatte prosperare, hanno bisogno della illuminata e diligente sollecitudine
di un primo Pastore».
Bisognava giungere a una soluzione definitiva e questa non si intravvedeva se non nella
fondazione di una diocesi indipendente. Le pratiche furono molte e assai difficili e la prima
decisione di carattere provvisorio si ebbe solo nell'agosto del 1884, quando i delegati della
Santa Sede e del Consiglio federale, riuniti a Berna, convennero per la separazione del
territorio del Ticino da Como e Milano e la nomina del primo Amministratore Apostolico.
Con altra Convenzione del 23 settembre 1884 tra la Santa Sede ed il Governo del Cantone
del Ticino lo Stato s'impegnava al versamento di una somma annua determinata per il
fabbisogno dell'Amministrazione Apostolica. Il 23 marzo seguente Leone XIII nominava
Mons. Eugenio Lachat Amministratore Apostolico del Ticino. L'entrata solenne ebbe luogo
il 1 agosto 1885 e fu l'occasione di grandi manifestazioni di gioia del nostro popolo, che da
26 anni non conosceva più i suoi Vescovi.
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Cominciava allora un periodo nuovo per le sorti religiose del Ticino. Non si aveva però
ancora raggiunta una soluzione definitiva. Si ripresero le pratiche tra la S. Sede ed il
Governo federale e finalmente con la Convenzione 16 marzo 1888 si stabilì che la S. Sede
avrebbe eretto a Cattedrale la Chiesa di San Lorenzo, in Lugano, e quindi avrebbe fondato
la Diocesi di Lugano. Però questa sede sarebbe stata riunita canonicamente alla diocesi di
Basilea e per l'Amministrazione della Chiesa Cattedrale, di Lugano la S. Sede avrebbe
nominato un Amministratore Apostolico con carattere vescovile. In questo senso seguì la
Bolla di Fondazione della diocesi di Lugano, in data 7 settembre 1888. La soluzione non
piacque a tutti, perché si avrebbe voluto la fondazione di una diocesi senza nessun legame,
neppure giuridico con altre diocesi. Ma questo non venne ottenuto.
Gioverà ricordare in merito quanto Giuseppe Motta affermava in un discorso tenuto a
Lugano nel 1935: «Cinquant'anni or sono e più era forse possibile difendere senza danno la
tesi che il Ticino venisse assorbito in un'altra diocesi svizzera. Oggi non più. La necessità
che il Ticino sia anche ecclesiasticamente un corpo di lingua e di spirito tipicamente italiani
è cresciuta nella consapevolezza di tutti gli svizzeri e appare nell'intera sua importanza
vitale. La diocesi ticinese doveva essere autonoma» (Testimonia Temporum II vol. 101).
Non ho ritenuto inutile ricordarvi questi dati storici che hanno la loro importanza per la
nostra storia religiosa. La fondazione della diocesi fu un avvenimento provvidenziale e una
grande grazia per il Ticino, e non solo perché migliorava le condizioni antecedenti, ma
anche e soprattutto perché da quel giorno gli interessi della religione hanno potuto essere
meglio curati e la costituzione della diocesi fu un fattore decisivo della pace religiosa.
Se un rilievo particolare può essere consentito in questo 65.mo anniversario della
fondazione della diocesi, non ometterò di affermare che l'unione fra il Vescovo, ed i fedeli
per ogni realizzazione di qualche progresso religioso e per la difesa delle nostre sacre
tradizioni fu sempre viva ed ha costituito il segreto d ogni successo raggiunto.
Io non dubito che questa unione continuerà e dopo gli accenni alla fondazione della Diocesi
mi viene spontanea questa esortazione: Sacerdoti e fedeli, siate sempre uniti col vostro
Vescovo, che è il rappresentante diretto di Gesù Cristo in mezzo a voi.
Il grande Vescovo e martire S. Ignazio faceva di questa unione la «conditio sine qua non»
per una efficace vita cristiana e la esprimeva con questo nobilissimo linguaggio: «Voi dovete
avere col vostro Vescovo un solo e medesimo pensiero. Il vostro presbitero, oggi diciamo,
il parroco, è unito al Vescovo come le corde della cetra, ed è così che dal perfetto accordo
dei vostri sentimenti e della vostra carità si eleva a Gesù Cristo un concerto di lode.
Ognuno di voi entri in questo coro e allora, nell'armonia della concordia, voi con la vostra
unità prenderete il cammino di Dio e con una sola voce canterete per mezzo di Cristo le
lodi al Padre» (S. Ignazio ad Ef. I, 12).
Ed ora, fedeli carissimi, elevo al Signore il voto e la preghiera che al nostro Ticino sia
conservata la vera libertà e l'indipendenza: che tutti i ticinesi, in un clima di pace operosa e
costruttiva, siano sempre uniti nel promuovere il benessere materiale della nostra piccola
repubblica, non dimenticando però che a lato degli interessi materiali stanno anche le
superiori e insopprimibili esigenze dello spirito.
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Si continui quindi con alacre e fiduciosa operosità al migliorare le conquiste di questo primo
secolo e mezzo della nostra storia e questa volontà di vivere e di progredire non ci
impedisca di ripetere continuamente e con convinzione la preghiera: «Signore, liberaci dal
male», ossia da tutto quanto, è in opposizione alla legge di Dio.
Sì: guardiamoci, diocesani carissimi da quelle nuove forme di libertà che della libertà sono la
negazione, in quanto trascinano al sovvertimento completo di ogni valore religioso e
morale, arrivando persino all'apologia e alla più licenziosa e deleteria divulgazione del male e
nella fedeltà alla legge divina, alla Chiesa, alle nostre buone e cristiane tradizioni, diamo
volonterosamente la nostra collaborazione al progresso religioso, morale e materiale del
nostro paese, perché viva e prosperi nell'ordine e nella pace vera.
Il Signore ci benedica tutti.
+ Angelo Jelmini, Vescovo
Lugano, dalla Residenza, 2 febbraio 1953
Festa della Purificazione di Maria SS.ma.
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