fonti letterarie sui veleni
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fonti letterarie sui veleni
1 Anno scolastico 2015-2016 Liceo ginnasio statale Orazio Classe IV ginnasio sezione H Area tematica 5 – Lo studio delle lingue classiche in relazione all’ambito giuridico-politico Percorso su un tema di approfondimento multidisciplinare per la quarta classe ginnasiale L’uso dei veleni nella realtà storica e nella letteratura e la repressione del veneficio nella legislazione penale antica e moderna FONTI LETTERARIE SUI VELENI DALL’ANTICHITÀ FINO AI NOSTRI GIORNI (Testi raccolti da Mario Carini) Indice delle fonti letterarie 1. I mostruosi serpenti del deserto libico (tratto da: Lucano, La guerra civile o Farsaglia, libro IX vv. 700-949, trad. di Luca Canali, Rizzoli, Milano 1981, pp. 579-597) 2. Lo Spettro rivela ad Amleto l’assassinio di suo padre, il re di Danimarca (tratto da: William Shakespeare, Amleto, atto I scena V, trad. di Luigi Squarzina, in Id., Tutto il teatro, vol. V, Newton Compton editori, Roma 1990, pp. 74-76) 3. La morte di Barrois (tratto da: Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo, trad. di Emilio Franceschini, Mondadori, Milano 1996, rist., pp. 652-656) 4. Il conte di Montecristo salva Valentina di Villefort da una misteriosa avvelenatrice (tratto da: Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo, trad. di Emilio Franceschini, Mondadori, Milano 1996, rist., pp. 796-803) 5. Amore e morte (tratto da: Edgar Allan Poe, L’appuntamento, trad. di Daniela Paladini, in Id., Tutti i racconti, le poesie e Gordon Pym, Newton Compton editori, Roma 1992, pp. 187-190) 6. La candela avvelenata (testo tratto da: Edgar Allan Poe, Il genio della perversione, trad. di Daniela Palladini, in Id., Tutti i racconti, le poesie e Gordon Pym, Newton Compton editori, Roma 1992, pp. 38-41) 7. Il suicidio di Ernani (tratto da: Victor Hugo, Ernani, atto quinto, in Id., Tutto il teatro, vol. II Marion de Lorme – Ernani – Il re si diverte, trad. di Corrado Pavolini, Rizzoli, Milano 1962, pp. 236-248) 2 8. Il suicidio di Emma Bovary (tratto da: Gustave Flaubert, Madame Bovary, trad. di Oreste Del Buono, Garzanti, Milano 1965, pp. 267-273) 9. Il suicidio dei coniugi Raquin (tratto da: Émile Zola, Thérèse Raquin, trad. di Maurizio Grasso, Newton Compton editori, Roma 1995, pp. 140-142 e 164168) 10.Un caso di avvelenamento per Sherlock Holmes (tratto da: Arthur Conan Doyle, Il segno dei quattro, trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto, in A. C. Doyle, Tutto Sherlock Holmes, vol. I, Newton Compton editori, Roma 19932, pp. 152161) 11.La bottega di don Saverio La Monica, farmacista palermitano del Settecento (tratto da: Luigi Natoli (William Galt), La vecchia dell’aceto, a cura di Giuseppe Bonomo, Flaccovio Editore, Palermo 1979, pp. 78-81) 12.Le strane piante del dottor Shatterhand (tratto da: Ian Fleming, Si vive solo due volte, trad. di Enrico Cicogna, Garzanti, Milano 1965, pp. 59-63) 13.Veleno in convento (tratto da: Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 19818 , pp. 263-269) 3 FONTI LETTERARIE Brano n. 1 I mostruosi serpenti del deserto libico (tratto da: Lucano, La guerra civile o Farsaglia, libro IX vv. 700-949, trad. di Luca Canali, Rizzoli, Milano 1981, pp. 579-597) Il mostro che sollevò per primo il capo dalla sabbia fu l’aspide sonnifero dal collo rigonfio. Per formarlo, cadde una goccia di sangue più abbondante e di denso veleno: nessun serpente ne contiene di più. Bisognoso di calore, non emigra mai spontaneamente nelle regioni fredde e giunge nel deserto del Nilo. Ma quando arrossiremo della nostra brama di lucro? Di lì importiamo i libici strumenti di morte: facciamo dell’aspide una merce. Poi snodò le spire squamose l’enorme emorrois, che non lascerà alle vittime una sola goccia di sangue; e nacquero la chersidra, adatta a vivere nelle ambigue distese delle Sirti, e i chelidri che strisciano in una scia di fumo, e il cencro che scivola sempre diritto davanti a sé, con il ventre screziato di macchie ancora più numerose di quelle minuscole che punteggiano l’ofite tebano. V’è l’ammodite indistinguibile dalle sabbie bruciate, perché dello stesso colore, e la cerasta che vaga oscillando il dorso, e lo scitale, l’unico a deporre le spoglie ancora nella stagione delle brine, e la bruciante dipsade, e la pesante anfisbena che inclina avanti e indietro la duplice testa, e il natrice che inquina le acque, e i giaculi alati, e il paria che si diverte a segnare con la coda il cammino, e l’avido prestere che spalanca le fauci fumanti, e la sepse che porta alla putrefazione, dissolvendole, le carni e le ossa, e il basilisco che sibilando atterrisce tutti gli altri mostri e uccide prima di avvelenare e scaccia i viventi d’attorno a sé, per largo tratto regnando sulle sabbie deserte. Ed anche voi, o draghi, che strisciate innocui numi su tutta la terra, splendenti d’un aureo fulgore, la torrida Africa vi rende letali: fendete con le ali le alte regioni del cielo, e seguendo interi armenti schiantate possenti tori avvolgendoli nelle spire; neanche la mole dell’elefante è sicura: date la morte a tutti e ai vostri destini micidiali non occorre il veleno. Fra tanti flagelli, Catone coi duri soldati percorre 700 705 710 715 720 725 730 4 un arido cammino, vedendo perire miseramente molti dei suoi, e per piccole ferite prodursi insolite morti. Una dipsade calpestata volse indietro la testa E morse il giovane alfiere Aulo di stirpe tirrena. Avvertì appena il dolore della puntura; non apparve l’aspetto odioso della morte; la ferita non sembrava minacciosa. Ma il veleno si diffonde insensibilmente, un fuoco divoratore attacca le midolla e arde di rovente infezione le membra; il morbo prosciuga l’umore intorno agli organi vitali, ed essiccàti la lingua e il palato comincia a farli bruciare. Non v’era sudore che scorresse per gli arti stremati: neanche le lagrime potevano sgorgare dagli occhi. Né l’onore militare, né l’autorità dell’afflitto Catone trattennero il giovane febbricitante dal gettare senza ritegno le insegne e, slanciandosi forsennato, dal cercare per tutti i campi l’acqua, che il sitibondo veleno reclamava dal cuore. Anche se si gettasse nel Tanai o nel Rodano o nel Po, o bevesse le acque del Nilo che straripa nelle campagne, brucerebbe d’arsura. La Libia contribuì alla morte; aiutata dalle torride lande, la dipsade ne ebbe una gloria minore. Cerca una vena d’acqua scavando nell’arida sabbia; ora ritorna alle Sirti e si getta a berne le acque; gusta l’acqua salmastra, ma ancora non ne è saziato. Non comprende il genere di morte e la fine che il veleno gli infligge; pensa che si tratti di sete e giunge ad aprirsi col ferro le turgide vene e a riempirsi la bocca di sangue. Catone ordinò di levare in fretta le insegne; non volle che alcuno conoscesse questo potere della sete. Ma apparve una morte più atroce: una piccola sepse si avventò alla gamba dell’infelice Sabello e vi rimase attaccata con il dente ricurvo: egli la strappò e la trafisse con il giavellotto sulla sabbia. È un serpente minuscolo, ma nessuno ha un potere di morte così sanguinosa. Infatti intorno alla puntura la pelle si ritrae lacerata e scopre il biancore delle ossa; poi, allargatasi la ferita, il corpo è un’ulcera viva e le membra nuotano nel marciume, i polpacci si disfano, le ginocchia vengono scarnite, tutti i muscoli del femore colano liquefatti, le inguini stillano tetri umori. La pelle che racchiude il ventre si spacca, e ne fuoriescono i visceri; ma tutto quanto contiene il corpo non fluisce in terra; il crudele veleno consuma subito le membra e il tossico riduce tutto quasi a niente. I legamenti dei nervi, il tessuto dei fianchi, la cavità del petto, le fibre vitali più segrete, quanto forma l’uomo 735 740 745 750 755 760 765 770 775 5 è dischiuso dal morbo; la morte profanatrice rivela i segreti della natura. Colano gli omeri e le forti braccia, il collo e il capo si sciolgono. Così rapidamente la neve si disfa al calore dell’Austro e la cera si liquefa al sole. È poco dire che il corpo stilla d’una putredine che lo consuma: tanto può anche la fiamma; ma quale rogo consuma le ossa? Anch’esse si disgregano insieme alle midolla disfatte e non lasciano traccia della loro rapida fine. Tra i mostri di Cinifo, a te la palma del nuocere: tutti strappano la vita, soltanto tu anche il cadavere. Ma ecco una forma di morte opposta al disfacimento. Un prestere infuocato punse Nasidio, contadino dei campi della Marsica. Un igneo rossore gli accende il viso, e un gonfiore più grande dell’intero corpo gli tende la pelle confondendo i suoi lineamenti; gli umori corrotti per il grande potere del veleno si riversano su tutte le membra debordanti la misura umana, egli scompare sommerso nel fondo del corpo dilatato, e la corazza non contiene l’aumento delle membra enfiate. Non così la schiumante massa dell’acqua trabocca dal rame bollente, né tanto le vele si gonfiano al soffio del Coro. Informe globo, tronco di mole confusa, non riesce a trattenere gli arti turgidi. Non osando deporlo sul rogo, cadavere che non cessa di crescere, i compagni fuggirono, lasciandolo al rostro dei rapaci, destinato alle belve che se ne ciberanno non impunemente. Ma i flagelli di Libia preparano spettacoli più orrendi. Una crudele emorrois conficcò i denti su Tullo, magnanimo giovane e grande ammiratore di Catone. Come suole cospargersi sulle intere statue l’essenza dello zafferano coricio, così tutte le membra emisero, invece di sangue, un rosso veleno. Le lagrime erano sangue; per tutti i meati del corpo che gli umori conoscono, fuoriesce copioso sangue: ne traboccano le fauci e le aperte narici, è sangue il sudore; le membra colano a piene vene, il corpo è una sola ferita. A te, sventurato Levo, il serpente del Nilo rapprese il sangue e compresse il cuore; e senza che alcun dolore rivelasse la puntura, ricevesti la morte in un buio improvviso, e in sonno scendesti alle ombre dei compagni. Non provocano la morte con tanta rapidità, versati nelle coppe, i veleni che l’indovino di Sais ricava, nei giorni della maturazione, dallo stelo funesto, immagine menzognera della canna sabea. Più oltre, dal tronco d’una pianta secca, un tremendo serpente 780 785 790 795 800 805 810 815 820 6 si stacca e si avventa (l’Africa lo chiama giavellotto), e fugge attraverso il capo e le tempie trafitte di Paolo. Qui il veleno non agisce: la morte lo colse con la ferita. Si apprese quanto volassero lenti, al confronto, i proiettili della fionda e quanto debolmente sibilassero le frecce scitiche. Che giova all’infelice Murro l’avere trafitto con una lancia un basilisco? Il veleno corre veloce per l’asta e invade la mano; sùbito, snudata la spada, le vibra un colpo che la stacca di netto dal braccio, e ristà, salvo nel perire della mano, guardando il miserevole esempio della propria morte. Chi crederebbe che lo scorpione signoreggiasse il destino e le forze con un rapido eccidio? Minaccioso per i nodi e terribile per la coda eretta, esso ostenta, con il cielo per testimone, l’onore della vittoria su Orione. Chi esiterebbe a calpestare, o salpuga, i tuoi nascondigli? Anche a te le sorelle Stigie danno potere sui loro stami. Così la luce del giorno e l’oscurità della notte non davano tregua agli sventurati, sospettosi della terra su cui giacevano. Non apprestavano giacigli con mucchi di fronde Né letti di paglia, ma si rivoltavano sulla terra con i corpi esposti alla morte: diffondendo calore, attirano nel freddo notturno quei mostri gelati, che ristorano tar le membra le fauci a lungo inoffensive per il veleno intorpidito dal gelo. Non conoscevano l’estensione e il termine della marcia, guidati soltanto dal cielo, e spesso gridavano tra i lamenti: «Rendeteci, o dèi, le battaglie che abbiamo fuggito, rendeteci la Tessaglia. Perché soffriamo una lenta morte, noi, schiera che ha giurato sulla spada? Le dipsadi combattono per Cesare, e le ceraste decidono la guerra civile. Preferiremmo andare nella zona torrida, sotto un cielo arroventato dai cavalli del sole; vorremmo attribuire a cause celesti la fine, morire per il clima. Non ci lamentiamo di te, o Africa, e neanche di te, o natura; avevi sottratto alle genti e assegnato ai serpenti una regione che pullula di mostri, e condannato un terreno infecondo di messi; negandogli coltivatori, hai voluto salvare gli uomini dal veleno. Venimmo noi tra i serpenti, paghiamone la pena, o dio, chiunque tu sia che, sdegnando gli umani contatti, separasti questo mondo da un lato con la torrida plaga, dall’altra con le mobili Sirti, frapponendo la morte. La guerra civile avanza fra i segreti dei tuoi recessi e i soldati, iniziati ai misteri del tuo mondo, raggiungono i confini della terra. Forse maggiori flagelli ci attendono al varco. Gli astri si mischiano stridendo ai flutti 825 830 835 840 845 850 855 860 865 7 e il cielo grava sulla terra. Ma al di là di questa regione non ne esistono altre, se non i tristi regni di Giuba noti soltanto per fama. Forse rimpiangeremo questa terra di serpenti, il cui clima offre un conforto: qualcosa ancora ci vive. Non chiediamo i campi della patria o l’Europa e l’Asia, che vedono soli diversi: sotto qual cielo e in quale terra ti ho lasciato, o Africa? A Cirene imperversava ancora l’inverno: con un breve tratto di strada mutammo l’ordine delle stagioni? Andiamo nel polo opposto, giriamo intorno al mondo, volgiamo le spalle ai soffi del Noto. E forse Roma è ai nostri antipodi. Questo conforto chiediamo per la nostra sventura: sopraggiungano i nemici, Cesare ci insegua dove fuggiamo». Così la dura resistenza si sfoga in lamenti. A tollerare tali travagli li spinge lo strenuo valore del comandante, che dorme sdraiato sulla nuda sabbia, e sfida continuamente la Fortuna. Egli solo è presente a tutte le sciagure: vola dovunque lo chiamano, e porta un immenso aiuto, maggiore della vita, la forza di morire: chi spira davanti a lui si vergogna di gemere. Che potere avrebbe esercitato su di lui qualsiasi flagello? Trionfa del male nel cuore altrui, e al cospetto dei grandi dolori insegna che non possono nulla. Infine, stanca di tanti pericoli, la Fortuna concesse un tardivo aiuto agli infelici. Una sola popolazione abita quelle contrade, resistendo al crudele morso dei serpenti: gli Psilli della Marmarica. Conoscono formule pari alla potenza delle erbe; hanno il sangue incontaminabile, capace di opporsi al veleno, anche senza incantesimi. La natura dei luoghi volle che, misti ai serpenti, ne fossero immuni: giovò loro l’essersi stanziati tra i veleni. Vivono in pace con la morte. Tanto confidano nel sangue: appena un loro piccolo viene al mondo, se temono che ci sia contaminazione d’amore adulterino, sottopongono l’incerto figlio alla prova dell’aspide; come l’uccello di Giove, quando sgusciano i piccoli implumi dal caldo uovo, li espone verso oriente; quelli che riescono a sopportare i raggi e riescono a tollerare la luce senza distogliere lo sguardo, li serbano alla vita nel cielo; abbandonano quelli che cedono a Febo. Così gli Psilli si garantiscono della razza, se l’infante non inorridisce al contatto dei serpenti, e gioca con loro quando gli sono donati. Questo popolo non s’accontenta della propria salvezza, ma veglia sugli ospiti; lo Psillo assiste gli stranieri 870 875 880 885 890 895 900 905 910 8 contro i mostri micidiali. Quelli che allora seguivano le insegne romane, appena il comandante ordinò di attendarsi, prima purificarono le sabbie, comprese nello spazio del vallo, con formule e incanti che fugavano i serpenti, poi accesero intorno ai bordi del campo fuochi magici nei quali strideva il sambuco, sfrigolava l’esotico galbano, crepitavano tra le fiamme i tamerici dalla funebre chioma, il costo orientale, la potente panacea, la tessala centaurea, il peucedano, il tapso di Erice; bruciavano anche rami di larice, e l’ebrotomo dal fumo nocivo ai serpenti e corna di cervo nato in terre lontane. Così la notte diveniva sicura ai guerrieri. Di giorno, se qualcuno rischiava l’infezione mortale, intervenivano i prodigi dei maghi Psilli e una grande lotta per estrarre il veleno. Prima, segnavano la parte morsicata bagnandola di saliva, che concentra il veleno e delimita l’infezione nella ferita, poi pronunciavano una serie di scongiuri con bocca schiumante in un mormorio continuo: il decorso della ferita non lascia riprendere respiro, e la morte che incombe non tollera un attimo di silenzio. Spesso il morbo, penetrato nelle midolla annerite, fuggiva per gli scongiuri; se invece il veleno tardava a udirli, restìo alle invocazioni e ai comandi di uscire, lo Psillo si gettava sulle livide ferite, ne succhiava il veleno, spremeva coi denti le membra, sputava gli umori mortali, estratti dal gelido corpo con il suo potere; dal sapore del veleno, sapeva riconoscere facilmente di quale specie di serpente aveva debellato il morso. Così i guerrieri romani, alfine sollevati da questo aiuto, si avventurarono per l’ampia distesa desolata. Per due volte spentasi Febe, e altrettante riaccesa in cielo, vide al sorgere e al tramontare Catone errare nel deserto. Già la sabbia cominciava progressivamente a indurirsi e il suolo di Libia a ispessirsi e a ridiventare terra, già lontano si sollevavano rare fronde di piante e sorgevano rozze capanne coperte di paglia. Quanto si rallegrarono i miseri d’una terra migliore, quando per la prima volta incontrarono i feroci leoni! Leptis era vicina; in tale tranquillo soggiorno trascorsero un inverno privo di calure e tempeste. Alcune specie di serpenti africani (dal testo: Serpenti e rettili, a cura di Susan Barraclough, trad. di MdF Srl – Roma, Rusconi Libri, Sant’Arcangelo di Romagna 2015) SPECIE CARATTERISTICHE DIFFUSIONE 915 920 925 930 935 940 945 9 Vipera rostrata (Echis carinatus) Vipera cornuta del deserto (Cerastes cerastes Cobra dal collo nero (Naja nigricollis) Aspide (Vipera aspis) Vipera soffiante (Bitis arietans) Vipera arboricola (genere Atheris) LUNGHEZZA Fino a 90 cm RIPRODUZIONE Da 4 a 16 piccoli l’anno ATTACCO Strofina le scaglie e poi attacca con morsi ripetuti VELENO Citotossine (attaccano le cellule) DURATA DELLA VITA Fino a 2 anni LUNGHEZZA 60-75 cm PREDE Piccoli mammiferi e lucertole ARMI Lunghe zanne velenose a rapida azione TATTICHE Agguato DURATA DELLA VITA Fino a 17 anni in cattività LUNGHEZZA Fino a 2,8 m PREDE Piccoli mammiferi, uccelli, uova, rane, rospi, lucertole, serpenti, insetti VELENO Una combinazione di citotossine (che attaccano le cellule) e neurotossine (che attaccano il sistema nervoso) ATTACCO Morso rapido per iniettare il veleno DIFESA Apre il cappuccio e sputa veleno, di solito in faccia all’assalitore DURATA DELLA VITA 22 anni in cattività LUNGHEZZA 50-75 cm PREDE Piccoli mammiferi, lucertole e giovani uccelli ARMI Zanne velenose TOSSICITÀ Può risultare letale DURATA DELLA VITA Fino a 20 anni LUNGHEZZA 0,7-1,5 m PESO 1,5-2 kg PREDE Ratti, lucertole, uccelli, rane e altri piccoli animali VELENO Causa emorragie interne e collasso degli organi o la morte se le cure non sono tempestive ATTACCO Singolo morso con le zanne cave DURATA DELLA VITA Fino a 15 anni; più a lungo in cattività LUNGHEZZA Fino a 75 cm; le femmine di solito sono più grandi dei maschi PREDE Anfibi, lucertole e roditori; occasionalmente chiocciole, lumache, uccelli e altri serpenti ARMI Zanne velenose DURATA DELLA VITA Sconosciuta Questo serpente si trova nelle zone più secche dell’Africa settentrionale e del Sudest asiatico, dal Sahara, in Medio Oriente, fino al Pakistan, all’India e alla Birmania. La vipera cornuta del deserto vive nei deserti del Nordafrica, dalla Mauritania e dal Marocco, in tutto il Sahara fino in Egitto. Si trova anche in Giordania, Iraq, Arabia Saudita e Kuwait. Il cobra dal collo nero, nelle sue diverse sottospecie, è diffuso in buona parte del continente africano e su diverse isole, in vari habitat: dai boschi fitti alle radure secche, e fino alle zone semidesertiche, evitando solo le foreste pluviali e le regioni più aride. Diffuso dalla Svizzera alla Francia, in Italia e in varie zone di Spagna e Germania, l’aspide vive ovunque possa trovare calore e un luogo in cui nascondersi. Caccia nei prati e nei campi, nelle radure dei boschi e anche nelle discariche. La vipera soffiante è diffusa in gran parte dell’Africa e in alcune regioni della penisola arabica. Vive in quasi tutte le zone pianeggianti e fino a 2000 m di altitudine, tranne nelle parti più secche dei deserti e al centro delle foreste pluviali più fitte. L’habitat tipico della vipera soffiante è la savana. Le vipere arboricole si trovano in tutta l’Africa equatoriale, dalla Guinea a ovest al Mozambico a est. Gli habitat in cui vivono sono molto vari: dalle foreste sempreverdi, montane e tropicali alle paludi e alle praterie. Delle nove specie note, solo Atheris superciliaris e Atheris hindii vivono anche al suolo; le altre trascorrono la maggior parte della loro esistenza sugli alberi. 10 Vipera nasicorne (Bitis nasicornis) LUNGHEZZA Fino a 1,8 m (femmine) PREDE Piccoli mammiferi, uccelli, lucertole, rane e pesci ARMI Lunghe zanne velenose ABITUDINI Rettile notturno DURATA DELLA VITA Fino a 15 anni Boomslang (Dispholidus typus) LUNGHEZZA Fino a 2 m ABITUDINI Predatore arboricolo PREDE Lucertole, piccoli mammiferi, uccelli e rane ARMI Lunghe zanne in fondo alla bocca VELENO Potente emotossina che distrugge le cellule sanguigne TOSSICITÀ Può essere fatale in 24 ore DEPOSIZIONE Depone 10-25 uova DURATA DELLA VITA Sconosciuta LUNGHEZZA Fino a 2,5 m PREDE Soprattutto lucertole, uccelli e roditori; a volte anche pipistrelli ARMI Zanne velenose VELENO Neurotossina, spesso letale DURATA DELLA VITA Fino a 15 anni in cattività Mamba verde (Dendroaspis angusticeps e Dendroaspis viridis) Mamba nero (Dendroaspis polylepis) LUNGHEZZA Fino a 4,3 m PREDE Piccoli mammiferi e uccelli ARMI Zanne velenose ATTACCO Insegue una vittima a grande velocità DURATA DELLA VITA Sconosciuta La vipera nasicorne vive nelle lussureggianti foreste pluviali dell’Africa centrale e occidentale, dal Sudan e dal Kenya occidentale fino al Ciad e alla Nigeria, alla Guinea e al Senegal. Questo serpente preferisce il terreno umido vicino a corsi d’acqua, fiumi, laghi e paludi, e sebbene si sappia arrampicare, trascorre la maggior parte del tempo al suolo. Il boomslang vive in gran parte dell’Africa, a sud del Sahara, dal Senegal a ovest fino all’Eritrea a est, e a sud fino alla provincia del Capo. Si trova in diversi habitat, dalle foreste alle praterie alla savana, ma non vive nelle fitte foreste pluviali del bacino del Congo, tra le montagne e nelle zone più aride. Le due specie di mamba verde abitano nelle foreste pluviali di alcune parti dell’Africa subsahariana. Il mamba verde orientale (D. angusticeps) vive in Africa orientale, dal Kenya fino al Sudafrica, mentre il mamba verde occidentale (D. viridis) vive nell’Africa occidentale. Il mamba nero vive nell’Africa orientale e meridionale, dal nord del Sudan al centro del Sudan e dallo Zaire al Mozambico. Il serpente abita savane erbose, radure, macchie e boschi aperti. Di notte, dopo aver mangiato a sazietà, il mamba si rifugia in luoghi oscuri e appartati come caverne, crepe rocciose e termitai. 11 Brano n. 2 Lo Spettro rivela ad Amleto l’assassinio di suo padre, il re di Danimarca (tratto da: William Shakespeare, Amleto, atto I scena V, trad. di Luigi Squarzina, in William Shakespeare, Tutto il teatro, vol. V, Newton Compton editori, Roma 1990, pp. 74-76) SCENA QUINTA Una parte remota della piattaforma. Entrano lo Spettro e Amleto. AMLETO: Dove vuoi condurmi? Parla: non verrò più lontano. SPETTRO: Ascolta. AMLETO: Ti ascolto. SPETTRO: È quasi l’ora per me di tornare alle fiamme lancinanti dello zolfo. AMLETO: Anima infelice! SPETTRO: Non compiangermi. Ascolta ciò che rivelerò. AMLETO: Parlami: sono pronto all’ascolto. SPETTRO: Siilo così alla vendetta, quando avrai udito. AMLETO: Che? SPETTRO: Sono lo spirito di tuo padre, condannato per un tempo deciso a vagare la notte, e il giorno a digiunare tra le fiamme, finché non siano arsi e purificati i delitti che commisi nei giorni di natura. Se non fosse interdetto di svelare il segreto del mio carcere, potrei farti un racconto la cui più innocua parola saprebbe straziare la tua anima, agghiacciare il tuo giovane sangue, far roteare fuori dalle orbite, come stelle, i tuoi occhi, dividere le tue ciocche pettinate e annodate, drizzare i tuoi capelli, uno a uno, come gli aculei dell’istrice minacciato. Ma questa araldica di eternità non è fatta per orecchie di carne e di sangue. Ascolta, ascolta, oh ascolta! Se amasti tuo padre… AMLETO: Dio! SPETTRO: Vendica il suo scellerato, snaturato assassinio. AMLETO: Assassinio! SPETTRO: Empio come sa essere il delitto, ma questo empio, pazzo, e snaturato. AMLETO: Parla, presto, voglio buttarmi alla vendetta, con ali veloci come pensieri d’amore o meditazioni. SPETTRO: Ti trovo disposto. Saresti più fiacco dell’erba grassa che ha radici pigre sui banchi del Lete, se non sussultassi a queste parole. Amleto, ascolta. Si è detto che un serpente mi ha morso mentre dormivo in giardino. Così la Danimarca è perfidamente ingannata da una versione artefatta della mia morte; ma sappi, nobile giovane, il serpente che morse la vita di tuo padre, oggi ne porta la corona. AMLETO: Mia profetica anima! Mio zio? 12 SPETTRO: Sì. Quella bestia incestuosa e adultera, con ingegno stregato, con doni traditori – ingegno, doni maledetti che hanno tanta seduzione! – attrasse ai suoi piaceri infami il desiderio della mia regina. Non pareva onesta? Amleto, che caduta fu quella! Da me, dal mio amore, dignità che andava mano nella mano con i voti nuziali, decadere a un miserabile, i cui doni naturali erano povertà, paragonati ai miei! La virtù sta salda anche se il vizio la corteggia sotto apparenza divina; ma la lussuria, anche unita a un angelo radioso, può stendersi su un letto celeste a pascersi di letame. Basta. Sento l’aria del mattino, devo affrettarmi. Durante il mio consueto riposo pomeridiano in giardino tuo zio approfittò del mio sonno con una fiala di succo del maledetto giusquiamo, e mi versò nei padiglioni delle orecchie quell’estratto lebbroso, la cui essenza è talmente contraria al sangue dell’uomo che guizza come argento vivo attraverso le porte, lungo le vie naturali del corpo, e con vigore fulmineo rapprende e caglia, aceto gocciante nel latte, il sano, sottile sangue. Così fu di me, e una scabbia istantanea coprì di una vile crosta ripugnante, crosta di Lazzaro, tutto il mio corpo liscio. Così nel sonno, per mano di un fratello, fui spogliato a un tempo della vita, della corona, e della regina; falciato nel rigoglio dei peccati, impreparato, senza i sacramenti, non assolto, fui spinto davanti al mio giudice, tutte le mie imperfezioni ancora su me. AMLETO: Orribile, orribile! La cosa più orribile! SPETTRO: Se hai natura in te, non accettarlo; non permettere che il talamo reale di Danimarca sia un’alcova di lussuria e di incesto. Ma come tu decida di agire, non si macchi la tua mente, la tua anima non cospiri contro tua madre. Lasciala al cielo, i rovi stanno nel suo petto a trafiggerla. Devo dirti addio! La lucciola mostra che l’alba si avvicina, il suo fuoco senza calore comincia a impallidirne. Addio, addio, addio! Ricordati di me. (Esce.) 13 Brano n. 3 La morte di Barrois1 (tratto da: Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo, trad. di Emilio Franceschini, Mondadori, Milano 1996, rist., pp. 652-656) Barrois cominciava a ritornare in sé; anzi essendo passata la crisi, si era sollevato sopra un gomito, mandando profondi gemiti. D’Avrigny e Villefort lo portarono sopra un sofà. «Che cosa ordinate, dottore?» «Fatemi portare dell’acqua e dell’etere, se ce n’è in casa.» «Sì.» «Mandate a prendere dell’olio di trementina e dell’emetico.» «Andate!» disse Villefort. «Ora si ritirino tutti.» «Io pure?» domandò timidamente Valentina.2 «Sì, signorina, voi sopra tutti!» disse burberamente il dottore. Valentina guardò il signor d’Avrigny con meraviglia, baciò in fronte il signor Noirtier,3 e uscì. Dietro a lei il dottore chiuse la porta con aria cupa. «Osservate, osservate, dottore, eccolo che rinviene; era un attacco di nessuna importanza.» Il signor d’Avrigny sorrise mestamente. «Come vi sentite, Barrois?» domandò il dottore. «Un po’ meglio, signore.» «Potete bere un bicchiere di questo etere?» «Mi proverò, ma non mi toccate.» «Perché?» «Perché mi sembra che se mi toccaste, foss’anche con la sola punta di un dito, l’accesso mi ritornerebbe.» «Bevete.» Barrois prese il bicchiere, se l’avvicinò alle labbra violacee, e ne vuotò circa la metà. «Dove soffrite?» domandò il dottore. «Dappertutto, provo spaventosissimi crampi.» «Avete un tremito all’occhio?» «Sì.» 1 Barrois è il domestico della famiglia di Villefort, ossia del giudice che ha fatto ingiustamente arrestare e segregare Edmond Dantès nella prigione del castello d’If. Egli muore misteriosamente avvelenato sotto gli occhi di Villefort e del medico, dottor d’Avrigny. 2 Valentina è la giovane e bella figlia di Villefort, che il conte di Montecristo, alias Edmond Dantès, ha posto sotto la sua protezione. 3 Noirtier è il nonno di Valentina, molto affezionato alla nipote: è paralizzato ma riesce a farsi capire dalla ragazza attraverso il particolare linguaggio degli occhi. 14 «Tintinnio alle orecchie?» «Spaventoso.» «Quando vi è cominciato?» «Poco fa.» «Rapidamente?» «Come il fulmine.» «Niente ieri? Ieri l’altro?» «Niente.» «Neppure sonnolenza? Peso?» «No.» «Che cosa avete mangiato quest’oggi?» «Non ho mangiato niente, ho bevuto soltanto un po’ di limonata del signore, ecco tutto.» E Barrois fece colla testa un segno per indicare Noirtier, che immobile sulla sedia, contemplava quella terribile scena, senza perderne motto, senza lasciarne sfuggir parola. «Dov’è la limonata?» domandò vivamente il dottore. «In una bottiglia.» «Dov’è?» «In cucina. Volete che vada a cercarla, dottore?» domandò Villefort. «No, restate qui, e procurate di far bere al malato il resto di quel bicchier d’acqua.» «Ma la limonata…» «Vado io stesso.» D’Avrigny fece un salto, ed aperta la porta, si lanciò giù dalle scale, poco mancando che non rovesciasse la signora Villefort, che anch’essa scendeva in cucina, per cui mandò un grido. D’Avrigny non vi fece attenzione, assorto come era in una sola idea: saltò i primi tre o quattro scalini, e scoperse la bottiglia per tre quarti vuota sulla sua sottocoppa. Vi piombò sopra come aquila sulla sua preda quindi, ansante, risalì, e rientrò nella camera. La signora Villefort risaliva lentamente la scala che conduceva alle sue stanze. «Era questa la bottiglia che era qui?» domandò d’Avrigny. «Sì, signor dottore.» «Questa limonata è la stessa che avete bevuta?» «Lo credo.» «Che gusto ci avete sentito?» «Un gusto amaro.» Il dottore versò qualche goccia di limonata nel cavo della mano, l’aspirò colle labbra, e dopo avere sciacquata la bocca come si fa quando si vuole gustare il vino, sputò il liquido nel caminetto. «È la stessa» disse. «E voi, signor Noirtier, ne avete bevuto?» Il vecchio fece segno di sì. «Le avete trovato il medesimo gusto amaro?» Il vecchio ripeté ancora di sì. 15 «Ah, signor dottore» gridò Barrois, «ecco che il male mi riprende! Mio Dio, Signore, abbiate pietà di me!» Il dottore corse al malato. «Questo emetico, Villefort, guardate se viene.» Villefort si slanciò gridando: «L’emetico! L’emetico! L’hanno portato?» Nessuno rispose. Il più profondo terrore regnava nella casa. «Se potessi soffiargli dell’aria nei polmoni» disse d’Avrigny, guardandosi intorno «avrei il mezzo di prevenire l’asfissia. Ma no! Niente! Niente!» «Ah, signore» gridava Barrois, «mi lascerete morire senza soccorso? Oh, io muoio! Mio Dio, io muoio!» «Una penna! Una penna!» gridò il dottore. Ne afferrò una sulla tavola, e tentò d’introdurla nella gola del alato, che si contorceva, ma le mascelle erano talmente strette, che la penna non poté passarvi. Barrois, in preda ad un attacco nervoso anche più intenso del primo, era scivolato giù dal sofà, e si contorceva sul pavimento. Il dottore lo lasciò in preda a questo accesso, al quale non poteva portare un sollievo, e ritornando a Noirtier: «Come vi sentite voi?» gli disse, precipitosamente e sotto voce, «bene?» “Sì”. «Leggero di stomaco, o pesante? Leggero» “Sì”. «È stato Barrois che ha fatto la vostra limonata?» “Sì”. «L’avete sollecitato voi a berne?» “No.” «È stato il signor Villefort?» “No.” «La signora?» “No.” «Fu dunque Valentina, allora?» “Sì.” Un sospiro di Barrois, uno sbadiglio che gli faceva scricchiolare le ossa della mascella, richiamarono l’attenzione di d’Avrigny; lasciò il signor Noirtier, e corse al malato. «Barrois» disse il dottore, «potete parlare?» Barrois balbettò qualche parola inintelligibile. «Fate uno sforzo, amico mio.» Barrois riaprì gli occhi. «Chi ha fatto la limonata?» «Io.» «L’avete portata subito al vostro padrone, dopo averla fatta?» «No.» «L’avete lasciata in qualche luogo allora?» «Nella credenza; fui chiamato.» 16 «Chi la portò qui?» «La signorina Valentina.» D’Avrigny si batté la fronte. «Oh, mio Dio, mio Dio!» mormorò egli. «Dottore!» gridò Barrois, che sentiva avvicinarsi un terzo accesso. «Ma non porteranno mai questo emetico?» gridò il dottore. «Eccone un bicchiere già preparato» disse Villefort rientrando. «Da chi?» «Dal giovane della farmacia che è venuto con me.» «Bevete.» «Impossibile, dottore, è troppo tardi; io ho la gola che si restringe! Oh, il mio cuore! Oh, la mia testa!... Oh, quale inferno!... E dovrò soffrire a lungo così?» «No, no, amico mio» disse il dottore, «ben presto voi non soffrirete più.» «Ah, vi capisco! Mio Dio, abbiate pietà di me!» E, gettando un grido, cadde, come se fosse stato colpito da un fulmine. D’Avrigny gli mise una mano sul cuore, e avvicinò uno specchio alle labbra. «Ebbene?» domandò Villefort. «Andate a dire in cucina che mi portino subito dello sciroppo di viole. Villefort scese immediatamente. «Non vi spaventate, signor Noirtier» disse d’Avrigny. «Trasporto il malato in un’altra camera, per cavargli sangue; davvero questa sorta d’accessi sono un triste spettacolo a vedersi.» E, prendendo Barrois sotto le braccia, lo trascinò in una camera vicina, ma subito dopo rientrò dal signor Noirtier per prendere il resto della limonata. Noirtier chiuse l’occhio diritto. «Valentina, è vero? Voi volete Valentina? Ordino subito che ve la mandino.» Villefort risaliva; d’Avrigny lo incontrò nel corridoio. «Ebbene?» domandò Villefort. «Venite» disse d’Avrigny. E lo condusse nella camera. «Sempre svenuto?» domandò il regio procuratore. «Morto!» Villefort indietreggiò due o tre passi, si congiunse le mani al disopra della testa, e con una commiserazione non equivoca: «Morto così all’improvviso?» diss’egli, guardando il cadavere. «Sì, d’improvviso, è vero?» disse d’Avrigny. «Ma ciò non deve sorprendere: il signore e la signora di Saint-Méran sono morti essi pure così prontamente.4 Oh, si muore alla spiccia in casa vostra, signor Villefort.» «Che?» gridò il magistrato, con accento d’orrore e di costernazione. «Voi ritornate alla vostra terribile idea?» 4 Il signore e la signora di Saint-Méran erano i ricchi suoceri di Villefort, misteriosamente morti qualche tempo prima. 17 «Sempre, signore, sempre» disse d’Avrigny con solennità, «perché essa non mi ha abbandonato un istante… E perché siate ben convinto che questa volta non mi inganno ascoltatemi bene, signor Villefort.» Villefort tremava terribilmente. «C’è un veleno che ammazza senza quasi lasciare traccia. Io lo conosco, io l’ho studiato in tutti gli accidenti, in tutti i fenomeni che produce. Questo veleno, io l’ho riconosciuto poco fa nel povero Barrois, come già prima nella signora di SaintMéran. C’è un modo di riconoscerne la presenza: ridona il colore azzurro alla carta di tornasole arrossata con un acido, e tinge in verde lo sciroppo di violette. Non abbiamo la carta di tornasole, ma adesso porteranno lo sciroppo di violette che ho ordinato.» Infatti si udivano dei passi nel corridoio: il dottore aprì alquanto la porta, prese dalle mani della cameriera un vaso, nel fondo del quale vi erano due o tre cucchiai di sciroppo, e richiuse la porta. «Guardate» disse al regio procuratore, a cui il cuore batteva fortemente, «ecco in questa tazza lo sciroppo di violette, ed in questa bottiglia il rimanente della limonata che si sono bevuta Noirtier e Barrois. Se la limonata è pura e inoffensiva, lo sciroppo conserverà il suo colore; se la limonata è avvelenata, lo sciroppo deve diventar verde. Osservate!» Il dottore versò lentamente qualche goccia di limonata nella tazza, e si vide nello stesso istante formarsi nel fondo della tazza un cambiamento di colore da prima azzurro, poi zaffiro, poi opale, indi smeraldo; l’esperimento non lasciava più alcun dubbio. «L’infelice Barrois è stato avvelenato colla falsa angostura, o con la noce di Sant’Ignazio» disse d’Avrigny. Ora lo asserirei davanti agli uomini e davanti a Dio.» Villefort muto alzò le braccia al cielo, aprì gli occhi stravolti, e cadde sopra una sedia. 18 Brano n. 4 Il conte di Montecristo salva Valentina di Villefort da una misteriosa avvelenatrice (tratto da: Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo, trad. di Emilio Franceschini, Mondadori, Milano 1996, rist., pp. 796-803) XCIX L’apparizione (…) Erano già dieci minuti circa che l’infermiera si era ritirata. Valentina, in preda da un’ora a quella febbre che ritornava ogni notte, lasciava la sua testa non più soggetta alla volontà, continuare quel lavoro attivo, monotono ed implacabile del cervello che si affaticava a riprodurre incessantemente gli stessi pensieri o a generare le stesse immagini. Dal lucignolo del lume notturno filtravano mille e mille raggi tutti abbelliti di strane significazioni, quando d’un tratto, al tremulo suo riflesso, Valentina vide aprirsi lentamente la scansia dei libri, posta di fianco al caminetto in un cavo del muro, senza che i cardini sui quali essa sembrava ruotare producessero il minimo rumore. In altri tempi Valentina avrebbe afferrato il campanello, o avrebbe tirato il cordone per chiamare soccorso, ma niente la stupiva nella situazione in cui si trovava, convinta com’era che tutte le visioni erano figlie del suo delirio, e questa convinzione le era venuta perché la mattina non rimaneva alcuna traccia di tutti quei fantasmi notturni. Dietro la porta comparve una figura umana. Valentina si era, per la febbre, troppo famigliarizzata con queste apparizioni, per spaventarsi; aperse soltanto due grandi occhi, sperando di riconoscere Morrel.5 La figura continuò ad avanzarsi verso il letto, quindi si fermò, e parve ascoltare con profonda attenzione. In quel momento il volto del notturno visitatore fu illuminato da un riflesso di luce. «Non è lui!» mormorò la ragazza. Ed aspettò, convinta di sognare, che quest’uomo, come accade nei sogni, scomparisse o si cambiasse in qualche altra persona. Si toccò soltanto il polso e sentendolo battere violentemente, ricordò che il miglior mezzo per far scomparire quelle importune visioni, era di bere. La freschezza della bevanda, composta d’altra parte allo scopo di calmare le agitazioni di cui Valentina si era lamentata col dottore, facendole diminuire la febbre, le arrecava un rinnovamento di sensazioni: quando aveva bevuto, per un momento si sentiva meglio. Valentina stese dunque la mano per prendere il bicchiere dal piatto di cristallo su cui posava, ma mentre allungava fuori dal letto il braccio tremante, l’apparizione fece ancora due passi più rapidi degli altri e giunse così vicina alla ragazza, che questa ne intese il respiro, e credette di sentire la pressione della mano. Stavolta l’illusione o 1 Massimiliano Morrel, il fidanzato segreto di Valentina. 19 piuttosto la realtà sorpassava tutto ciò che Valentina aveva provato fino allora; cominciò a credere di essere realmente sveglia, sentì la sensazione, e fremette. La pressione aveva lo scopo di fermarle il braccio. Valentina lo ritirò lentamente. Allora questa figura, da cui non poteva staccare lo sguardo, e che d’altra parte sembrava piuttosto protettrice che minacciosa, questa figura prese il bicchiere, si avvicinò al lume, e guardò la bevanda, come se avesse voluto guidarne la trasparenza e la limpidezza. Ma questa prima prova non bastò a quell’uomo o piuttosto fantasma, poiché camminava così dolcemente che il tappeto soffocava il rumore dei passi, quest’uomo prese dal bicchiere un cucchiaio della pozione e l’inghiottì. Valentina guardava ciò che accadeva con profondo sentimento di stupore: credeva che quella visione stesse per scomparire e dar posto ad un’altra, ma l’uomo invece di svanire come ombra, si riavvicinò e stendendole il bicchiere, con voce piena di emozione: «Ora» disse, «bevete!» Valentina rabbrividì. Era la prima volta che una delle sue visioni le parlava: aprì la bocca per mandare un grido. L’uomo posò un dito sulle labbra. «Il signor Montecristo!» mormorò lei. Allo spavento negli occhi della ragazza, al tremito delle sue mani, al gesto rapido che fece per nascondersi sotto le lenzuola, si poteva intuire l’intima lotta dei suoi sentimenti. La presenza di Montecristo nella sua camera a quell’ora, la sua entrata misteriosa, fantastica, inesplicabile, da un muro, sembravano impossibili alla sconvolta ragione di Valentina. «Non chiamate, state calma» disse il conte, «non abbiate, neppure in fondo al cuore, l’ombra di un sospetto, di un’inquietudine! L’uomo che vi sta dinanzi (infatti questa volta avete ragione, Valentina, la vostra non è un’illusione), l’uomo che vi sta dinanzi è per voi il più tenero padre, il più rispettoso amico che possiate figurarvi.» Valentina non trovò parole per rispondere: quella voce, rivelandole la sua presenza reale, le faceva così paura, che temeva di parlare. Ma il suo sguardo spaventato voleva dire “Se le vostre intenzioni sono pure, perché siete qui?”. Con la sua meravigliosa sagacità il conte capì tutto quanto passava nel cuore della ragazza. «Ascoltatemi» disse, «o piuttosto guardatemi: vedete i miei occhi arrossati e il mio viso più pallido ancora del solito? È perché da quattro notti non chiudo occhio, da quattro notti veglio su di voi, vi proteggo, vi conservo al nostro amico Massimiliano.» Un’onda di sangue montò rapidamente alle guance dell’ammalata, poiché il nome pronunciato dal conte le toglieva il residuo di diffidenza, che le aveva ispirato. «Massimiliano!...» ripeté Valentina, tanto questo nome le sembrava dolce da pronunciare. «Massimiliano, dunque vi ha confessato tutto?» «Tutto. Mi ha detto che la vostra vita era la sua, e gli ho promesso la vostra sicurezza.» «Gli avete promesso la mia vita?» «Sì.» «Infatti, signore, avete parlato di vigilanza e di protezione. Siete dunque medico?» «Sì, ed il migliore che il cielo possa mandarvi in questo momento, credetemi.» 20 «Voi dite che avete vegliato?» domandò Valentina inquieta. «E dove? Io non vi ho visto.» Il conte stese la mano nella direzione della scansia. «Ero nascosto dietro quella porta, la quale mette in una casa vicina che ho preso in affitto.» Valentina, per un momento di pudico orgoglio, voltò gli occhi, e con sdegno disse: «Signore, ciò che voi avete fatto è una pazzia, e la protezione che mi avete accordata, somiglia molto ad un insulto.» «Valentina, questa lunga veglia mi serviva per sapere quali persone venivano da voi, quali alimenti vi preparavano, quali bevande vi servivano; e quando queste bevande mi sembravano pericolose, entravo, come ho fatto ora, vuotavo il vostro bicchiere, e sostituivo al veleno una bevanda benefica, che invece della morte che vi era stata preparata vi desse vita.» «Il veleno! La morte!» gridò Valentina, credendosi nuovamente preda di qualche febbrile allucinazione. «Di cosa mi parlate dunque, signore?» «Zitta, figlia mia» disse Montecristo portando nuovamente il dito alle labbra. «Ho detto il veleno, ho detto la morte, sì lo ripeto, la morte… Ma prima bevete questo…» e il conte sfilò dalla tasca una boccettina contenente un liquore rosso, di cui versò alcune gocce nel bicchiere: «e quando avrete bevuto, non pigliate più niente per tutta la notte.» Valentina allungò la mano, ma appena ebbe toccato il bicchiere, la ritrasse con spavento. Montecristo prese il bicchiere, ne bevve la metà, e lo porse a Valentina, che trangugiò sorridendo il resto del liquido che conteneva. «Oh, sì» disse, «riconosco il gusto delle mie bevande notturne, è quest’acqua che apportava un po’ di fresco al mio petto, un po’ di calma al mio cervello. Grazie, signore, grazie.» «Ecco in che modo avete vissuto da quattro notti, Valentina» disse il conte. «Ma io, in che modo vivevo io? Oh, che ore crudeli ho passato per voi! Che terribili torture, quando vedevo versare nel vostro bicchiere il veleno mortale, quando temevo che aveste il tempo di berlo, prima che io potessi intervenire!» «Voi dite, signore» riprese Valentina, al colmo del terrore, «che avete subito mille torture vedendo versare nel mio bicchiere un veleno mortale? Ma, se avete veduto versare il veleno nel mio bicchiere, avrete pur veduto la persona che lo versava…» «Sì.» Valentina si levò a sedere sul letto, portando sul seno più pallido della neve la batista ricamata ancor molle del sudore freddo del delirio, al quale cominciava ad accompagnarsi il sudore più glaciale del terrore. «L’avete veduta?» ripeté la ragazza. «Sì» ripeté una seconda volta il conte. «Quanto mi dite è terribile, signore, ciò che mi volete far credere ha qualche cosa d’infernale! Nella casa di mio padre! Nella mia camera! Sul mio letto di patimento si continua ad assassinarmi? Andatevene, signore. Voi tentate la mia coscienza, voi bestemmiate la divina bontà! Ciò che dite è impossibile, non può essere.» 21 «Siete voi dunque la prima colpita da questa mano, Valentina? Non avete visto cadere intorno a voi il signor di Saint-Méran, la signora di Saint-Méran, Barrois?6 Non avreste visti cadere il signor Noirtier, se la cura che fa da tre anni non lo avesse protetto, combattendo il veleno coll’abitudine al veleno?» «Oh mio Dio! È dunque per questo» disse Valentina «che da circa un mese il mio buon nonno esige che io prenda una parte della sua pozione?» «E queste pozioni» disse Montecristo «hanno un gusto amaro, come quello della scorza d’arancio quasi secca, non è vero?» «Sì, mio Dio, sì.» «Ecco tutto spiegato» disse Montecristo: «egli pure sa che qui si avvelena, e forse chi avvelena. Egli ha premunito voi, sua figlia prediletta, contro la sostanza mortale, e la sostanza mortale è stata sconfitta dall’assuefazione… Ecco perché siete ancor viva. Cosa che non potevo capire, poiché eravate stata avvelenata con una sostanza che non perdona.» «Ma chi è dunque l’assassino, l’uccisore?» «Prima vi domanderò: non avete mai visto entrare nessuno nella notte in questa camera?» «Può darsi. Spesso ho creduto di veder passare delle ombre; queste ombre si avvicinavano, si allontanavano, sparivano…» «Così voi non conoscete la persona che attenta alla vostra vita?» «No, e perché vi può essere qualcuno che desideri la mia morte?» «Voi la conoscerete presto» disse Montecristo, tendendo le orecchie. «Ed in che modo?» disse Valentina, guardando con terrore intorno a sé. «Perché questa sera voi non avete più né febbre, né delirio, perché questa sera siete ben desta, perché ora suona la mezzanotte, e questa è l’ora degli assassini.» «Mio Dio, mio Dio!» disse Valentina, asciugandosi con la mano il sudore della fronte. Infatti mezzanotte suonava lenta e triste. Si sarebbe detto che ciascun colpo del martello di bronzo battesse nel cuore della ragazza. «Valentina» continuò il conte, «richiamate tutte le forze in vostro soccorso, comprimete il cuore nel petto, chiudete la voce nella gola, fingete di dormire, e vedrete, vedrete…» Valentina afferrò la mano del conte. «Mi sembra di sentir rumore, ritiratevi.» «Addio, o piuttosto arrivederci» rispose il conte. Quindi con un sorriso così triste e paterno, che la ragazza gliene fu grata, raggiunse sulla punta dei piedi la porta dietro la scansia. Ma fermandosi prima di richiuderla dietro di sé: «Non un gesto» disse, «non una parola… Vi devono credere addormentata, senza di che, forse sareste uccisa prima che avessi il tempo di accorrere.» E dopo quella tremenda ingiunzione, il conte disparve dietro la scansia, che si richiuse dietro di lui. 6 Persone di casa Villefort, tutte morte per mano di una misteriosa avvelenatrice, che poi si scoprirà essere la stessa moglie del procuratore Villefort. 22 C Locusta Valentina rimase sola. Altri due orologi a pendolo che erano in ritardo rispetto a quello di Saint-Philippe de Roule, suonarono ancora mezzanotte a differenti intervalli. Quindi ad eccezione di qualche carrozza lontana, tutto ricadde nel silenzio. Allora tutta l’attenzione di Valentina si concentrò sul pendolo della sua camera, la cui sfera marcava i secondi. Si mise a contare questi secondi, e notò che erano più lenti delle pulsazioni del suo cuore. Eppure dubitava ancora: l’inoffensiva Valentina non si poteva figurare che qualcuno desiderasse la sua morte: perché? Con quale scopo? Che male aveva fatto per avere un nemico? Non c’era timore che s’addormentasse. Una sola idea, un’idea terribile teneva il suo spirito attento: che cioè vi potesse essere qualcuno che avesse tentato d’avvelenarla, e che stava per tentare una seconda volta. Se questa volta quella persona, stanca di vedere inefficace il veleno, come aveva detto Montecristo, avesse ricorso al ferro? Se il conte non avesse avuto il tempo di accorrere? Se fosse prossima all’ultimo suo momento? Se non avesse più potuto rivedere Morrel? A questo pensiero, che le suscitava ad un tempo livido pallore e agghiacciato sudore, Valentina era preparata ad afferrare il cordone del campanello, ed a chiamare soccorso. Ma le sembrava vedere, attraverso la libreria, sfavillare l’occhio del conte, quest’occhio che vegliava sul suo avvenire, e che, quando ci pensava, l’opprimeva di tale vergogna che si chiedeva se mai la riconoscenza avrebbe cancellato il penoso effetto dell’indiscreta amicizia del conte. Venti minuti, venti eterni minuti passarono in tal modo, poi altri dieci minuti ancora: finalmente il pendolo, stridendo un minuto secondo prima, finì col battere un colpo sotto la volta sonora. In quello stesso momento, il raschiare impercettibile di un’unghia contro il legno della scansia avvisò Valentina che il conte vegliava e le raccomandava di vegliare. Infatti dalla parte opposta, vale a dire verso la camera di Edoardo, sembrò a Valentina di sentir scricchiolare il pavimento di legno, tese l’orecchio, trattenne il respiro; si sentì stridere la maniglia della serratura, e la porta girò sopra i cardini. Valentina si era sollevata sul gomito, e appena ebbe tempo di lasciarsi ricadere sul letto, coprendosi gli occhi con un braccio. Quindi tremante, agitata, col cuore stretto da indicibile spavento, aspettò. Qualcuno si avvicinò al letto, e ne sfiorò le cortine. Valentina raccolse tutte le forze, e lasciò sentire quel mormorio regolare della respirazione, che annunzia un sonno tranquillo. «Valentina!» disse una voce sommessa. La ragazza fremette fino in fondo al cuore, ma non rispose. «Valentina!» ripeté con lo stesso tono la stessa voce. Il medesimo silenzio: Valentina aveva promesso di far finta di dormire. Poi tutto rimase immobile, tranne che intese il rumore appena sensibile di un liquido che cadeva nel bicchiere che aveva vuotato. Allora osò, al riparo del braccio steso, aprire le palpebre, e vide una donna, in accappatoio bianco, che vuotava nel suo bicchiere un liquido contenuto in una boccetta. 23 In quell’istante, Valentina forse trattenne il respiro, o fece senza dubbio un moto, poiché la donna, inquieta, si fermò e si chinò sul letto per meglio vedere se dormiva realmente: era la signora Villefort. Valentina nel riconoscere la matrigna fu presa da un fremito che impresse un moto al letto. La signora Villefort si addossò al muro, e là, nascosta dietro alle cortine del letto, muta e attenta spiò fino al minimo moto di Valentina. Questa si ricordò le terribili parole di Montecristo: le era sembrato, nella mano che non teneva la boccetta, di veder brillare una specie di coltello lungo e affilato. Allora Valentina, richiamando tutto il potere della volontà in suo soccorso, si sforzò di chiudere gli occhi; ma questa funzione del più timoroso dei nostri sensi, questa funzione di solito così semplice, diveniva in quel momento quasi impossibile, tanto l’avida curiosità faceva sforzi per conoscere la verità. Rassicurata dal silenzio, in cui si sentiva soltanto il respiro che provava il sonno di Valentina, la signora Villefort stese di nuovo il braccio, e, rimanendo per metà nascosta dietro le cortine riunite al capezzale del letto, terminò di vuotare nel bicchiere di Valentina il contenuto della boccetta. Quindi si ritirò senza che il minimo rumore avvertisse Valentina che la matrigna era uscita. Il raschiare di un'unghia nella scansia tolse Valentina da quello stato di torpore, nel quale era immersa, e che rassomigliava ad una asfissia. Sollevò la testa a stento. La scansia, sempre silenziosamente, girò una seconda volta, Montecristo ricomparve. «Ebbene» domandò il conte, «dubitereste ancora?» «Oh, mio Dio!» mormorò la ragazza. «Avete visto?» «Sì» disse Valentina, mandando un gemito, «ma non ci posso credere.» «Voi dunque desiderate piuttosto morire, e far morire Massimiliano?...» «Mio Dio! Mio Dio!» ripeté la giovane, quasi smarrita. «Ma non posso dunque lasciare la casa? Fuggire?» «Valentina, la mano che vi perseguita vi raggiungerà dappertutto, con l'oro e col denaro sedurrà i vostri domestici e vi presenterà la morte mascherata sotto tutti gli aspetti, nell'acqua inzuccherata che berrete, nel frutto che coglierete dall'albero...» «Ma non mi avete detto che la precauzione presa dal nonno mi aveva premunita contro il veleno?» «Contro uno dei veleni, ed anche non impiegato a forte dose, ma cambierà il veleno, o crescerà la dose.» Il conte prese il bicchiere e vi accostò le labbra. «E guardate, l'ha già fatto. Il veleno non è più la brucnina, ma un semplice narcotico. Riconosco il gusto dell'alcool nel quale è stato sciolto. Se aveste bevuto ciò che la signora Villefort ha versato in questo bicchiere, Valentina, Valentina! Voi sareste perduta!» «Ma, mio Dio» gridò la ragazza, «perché dunque mi perseguita in tal modo?» «Come, siete così buona, così dolce, così incredula del male, che non avete capito, Valentina?» «No» disse la ragazza, «io non le ho mai fatto del male.» «Ma voi siete ricca, Valentina, avete duecentomila lire di rendita, e queste duecentomila lire di rendita voi le togliete a suo figlio.» 24 «In che modo? I miei beni non sono suoi, mi vengono dai miei parenti.» «Senza dubbio, e se il signore e la signora di Saint-Méran furono uccisi, fu perché poteste ereditare dai vostri parenti; ecco perché, dal giorno in cui anche il signor Noirtier vi fece sua erede, fu condannato a morte; ora è la vostra volta, voi dovete morire, Valentina, e ciò affinché vostro padre erediti da voi, e vostro fratello, divenuto figlio unico, erediti da vostro padre.» «Edoardo? Povero bambino! Ed è per lui che si commettono tanti delitti?» «Ah, capite, finalmente?» «Ah, mio dio, purché non paghi lui il prezzo di questi delitti!» «Voi siete un angelo, Valentina.» «Ma hanno dunque rinunciato ad uccidere mio nonno?» «Avranno riflettuto che, morta voi, a meno il caso di un nuovo cambiamento di testamento, i suoi beni andranno naturalmente a vostro fratello, e avranno pensato che questo delitto, in fin dei conti, era inutile, ed anzi doppiamente pericoloso commetterlo.» «Ed una donna ha potuto concepire tutti questi delitti? Oh, mio Dio, mio Dio!» «Ricordatevi Perugia, il pergolato dell'albergo della Posta, l'uomo dal mantello scuro interrogato da vostra madre sull’acqua tofana… Da quell’epoca ha maturato tutto questo infernale progetto.» «Signore» gridò la ragazza, struggendosi in lacrime, «quando è così, vedo bene che sono condannata a morire.» «No, Valentina, no, poiché ho previsto tutte le trame; no, perché la nostra nemica è vinta, essendo scoperta; no, voi vivrete, Valentina, vivrete per amare ed essere amata, vivrete per essere felice e per render felice un cuore nobile… Ma, Valentina, per vivere bisogna aver piena fiducia in me.» «Ordinate, signore, che cosa debbo fare?» «Bisogna che prendiate ciecamente ciò che vi darò.» «Dio mi è testimonio» gridò Valentina, «che se fossi sola, preferirei lasciarmi uccidere.» «Voi non vi confiderete a nessuno, neppure a vostro padre?» «Mio padre non entra in questa spaventosa trama, non è vero, signore?» disse Valentina giungendo le mani. «No. Eppure vostro padre, uomo abituato alle trame criminali, deve avere qualche sospetto che tutte queste morti non siano naturali. Vostro padre, è lui che avrebbe dovuto vegliare su voi, è lui che avrebbe dovuto essere a quest’ora nel posto che occupo io, è lui che avrebbe dovuto vuotare questo bicchiere, è lui che avrebbe dovuto rizzarsi contro l’assassino. Spettro contro spettro!» mormorò terminando la sua frase sottovoce. «Signore, io farò di tutto per vivere, perché vi sono due esseri al mondo che mi amano, e che morirebbero se io morissi: mio nonno e Massimiliano.» «Io veglierò su loro, come ho vegliato su voi.» «Ebbene, signore, disponete di me» disse Valentina. Quindi soggiunse a bassa voce: «Oh, mio Dio, che accadrà mai di me?» 25 «Qualunque cosa accada, Valentina, non vi spaventate… Se soffrite, se perdete la vista, l’udito, il tatto, non temete di niente, se vi svegliate senza sapere dove siete, non abbiate paura, doveste anche, nello svegliarvi, trovarvi in qualche caverna sepolcrale o chiusa in una bara, richiamate subito il vostro spirito, e dite a voi stessa: “In questo momento un amico, un padre, un uomo che vuole la mia felicità e quella di Massimiliano, quest’uomo veglia su di me”.» «Ahimè, che terribile situazione!» «Valentina, preferite denunciare la vostra matrigna?» «Preferirei morire cento volte! Oh, sì! Morire!» «No, non morrete, e qualunque cosa vi accada, non vi lamenterete, e spererete. Me lo promettete?» «Penserò a Massimiliano.» «Voi siete la mia figlia prediletta, Valentina: io solo posso salvarvi, e vi salverò.» Valentina al colmo del terrore congiunse le mani (s’accorgeva bene ch’era giunto il momento di domandare a Dio coraggio), e si alzò per pregare, mormorando parole monche, dimenticando che le sue bianche spalle non avevano altro velo che la lunga capigliatura, e che si vedeva batterle il seno sotto il fine merletto del corpetto da notte. Il conte appoggiò dolcemente la mano sul braccio della ragazza, ricondusse fino al collo la trapunta di velluto, e con sorriso tutto paterno: «Figlia mia» disse, «credete nella mia affezione, come credete nella bontà di Dio e nell’amore di Massimiliano.» Valentina fissò su di lui uno sguardo pieno di riconoscenza, e stette docile come un bimbo ai suoi voleri. Allora il conte cavò dal taschino del panciotto la scatola di smeraldo, sollevò il coperchio d’oro e versò nella mano destra di Valentina una piccola pastiglia rotonda della grandezza di un pisello. Valentina la prese coll’altra mano e guardò il conte attentamente: nei lineamenti di quell’intrepido protettore si leggeva un riflesso della celeste potenza. Era evidente che Valentina lo interrogava con lo sguardo. «Sì» rispose questi. Valentina si portò la pastiglia alla bocca e l’inghiottì. «Ed ora, arrivederci, figlia mia» disse, «vado a provar di dormire, perché ora siete salva.» «Andate» disse Valentina, «qualunque cosa mi accada, vi prometto di non aver paura.» Montecristo tenne a lungo gli occhi fissi sulla ragazza, che a poco a poco si addormentava, vinta dalla forza del narcotico datole dal conte. Allora prese il bicchiere, e vuotandolo per tre quarti nel caminetto, perché si credesse che Valentina ne aveva bevuto, lo rimise sul tavolino da notte; quindi, passando dietro la scansia, scomparve, dopo aver dato un ultimo sguardo a Valentina, che si addormentava con quella confidenza e candore con cui un angelo riposa ai piedi del Signore. CI Valentina 26 Il lume da notte sul caminetto di Valentina consumava le ultime gocce di olio che galleggiavano ancora sull’acqua, già un cerchio più rossiccio colorava il globo d’alabastro, già la fiamma più viva lasciava sentire gli ultimi crepitii che sembravano, negli esseri inanimati, le ultime convulsioni dell’agonia, così spesso paragonate a quelle delle povere creature umane: una luce cupa e sinistra rifletteva un colore opaco sulle cortine bianche e sulle coperte della ragazza. Tutti i rumori della strada erano cessati, ed il silenzio interno era profondo. Allora si aprì la porta della camera di Edoardo, e una testa, che abbiamo già riconosciuta, comparve sullo specchio opposto alla porta. Era la signora Villefort che tornava per vedere l’effetto del suo beveraggio. Si fermò sulla soglia, ascoltò il crepitio della lampada, solo rumore percettibile in quella camera, che si sarebbe creduta deserta, quindi si avanzò dolcemente verso la tavola da notte per vedere se il bicchiere di Valentina era stato vuotato. Non ve ne era che un quarto, come abbiamo visto. La signora Villefort lo prese, e lo andò a versare sulle ceneri, smovendole perché meglio assorbissero il liquido, quindi pulì con cura il cristallo, l’asciugò col proprio fazzoletto, e lo rimise sulla tavola da notte. Se qualcuno avesse potuto penetrare con lo sguardo nell’interno di quella camera, avrebbe veduto l’esitazione della signora Villefort nel fissare gli occhi su Valentina ed accostarsi al letto. Quella lugubre luce, quel silenzio, quella terribile poesia della notte, venivano senza fallo a cambiarsi nella spaventevole poesia della sua coscienza; l’avvelenatrice aveva paura di guardare l’opera sua. Prese finalmente ardire, allontanò la cortina, ed appoggiandosi al capezzale del letto, si curvò sopra Valentina. La ragazza non respirava più; i suoi denti semichiusi, non lasciavano sfuggire un alito di quel soffio che manifesta la vita: le sue labbra imbiancandosi avevano cessato di fremere, i suoi occhi velati da un vapore violetto, che sembrava essersi infiltrato sotto la pelle, formavano una sporgenza più bianca dove il globo gonfiava la palpebra, e le sue lunghe ciglia nere rigavano una pelle già pallida come la cera. La signora Villefort contemplò quel viso con una espressione eloquentissima nella sua immobilità. Allora crebbe il suo ardire, e sollevando la coperta, appoggiò la mano sul cuore della ragazza: era muto e ghiacciato; udiva i battiti delle vene delle proprie dita, per cui subito si ritrasse piena di spavento. Il braccio di Valentina pendeva fuori dal letto: quel braccio con tutta la sua parte superiore dalla spalla al cubito, sembrava modellato sopra quello di una delle Grazie di Germano Pilon, ma l’avambraccio leggermente deforme per un increspamento, e il polso della mano di forma purissima, si appoggiavano, un poco irrigiditi e colle dita allontanate, sull’acacia del letto. La radice delle unghie era turchina. Per la signora Villefort non c’era più dubbio, tutto era finito; l’opera terribile, l’ultima che volesse compiere, era consumata. L’avvelenatrice non aveva più niente da fare in quella camera. Si ritirò con tanta precauzione, da temere il rumore dei piedi sul tappeto, ma nel ritirarsi teneva ancora sollevata la cortina, assorbendo quello spettacolo della morte, che porta in sé una 27 irresistibile attrazione fino a che la morte non ha prodotta la decomposizione: finché dura il mistero, non vi è ancora il ribrezzo. I minuti passavano, la signora Villefort sembrava non potersi staccare da quella cortina che teneva sospesa come una sindone al disopra della testa di Valentina; pagò il suo tributo alla meditazione. La meditazione del delitto deve essere il rimorso. In quel momento i crepitii del lume raddoppiarono. A quel rumore la signora Villefort fremette, e lasciò ricadere la cortina. Nello stesso istante si spense il lume, e la camera fu immersa in una spaventosa oscurità. In mezzo a quell’oscurità si risvegliò la pendola, e suonò le quattro e mezzo. L’avvelenatrice spaventata da quelle successive emozioni, raggiunse a tastoni la porta, e rientrò nella sua camera col sudore dell’angoscia sulla fronte.7 Il farmaco fatto bere dal conte di Montecristo a Valentina le provoca la morte apparente e la sottrae all’avvelenamento progettato dalla signora di Villefort. Questa verrà scoperta dal marito, il procuratore Villefort, e si avvelenerà a sua volta assieme al figlio, il piccolo innocente Edoardo. Massimiliano Morrel infine ritroverà sana e salva Valentina sull’isola di Montecristo. 7 28 Brano n. 5 Amore e morte (tratto da: Edgar Allan Poe, L’appuntamento, trad. di Daniela Paladini, in Edgar Allan Poe, Tutti i racconti, le poesie e Gordon Pym, Newton Compton editori, Roma 1992, pp. 187-190) È stato, o dovrebbe essere notato, che dai modi del gentiluomo, risulta evidente una differenza dal contegno dell’uomo comune, benché non si abbia la capacità immediata e precisa di determinare in cosa consista tale differenza. Si deve ammettere che questa osservazione non può non essere applicata con evidenza alla condotta esteriore del mio conoscente; io la riconobbi, nel corso di quella mattinata fatale, ancora più pienamente consona alla sua indole morale e al suo carattere. N è posso meglio definire quale particolarità del temperamento sembrasse distinguerlo nell’essenza da tutti gli altri esseri umani, se non chiamandola abitudine al pensiero intenso e continuo, che traspariva anche dai gesti più banali – si imponeva persino nei momenti di frivolezza – e andava a mescolarsi addirittura ai guizzi di allegria – come le vipere che escono contorcendosi dagli occhi delle maschere ghignanti, sui cornicioni che cingono i templi di Persepoli. Comunque non potei fare a meno di notare ripetutamente, nella mescolanza di leggerezza e solennità del tono con cui dissertava rapidamente su questioni senza importanza, una certa aria di trepidazione – un senso di mellifluità nervosa nei gesti, come nei discorsi – un’inquieta eccitabilità dei modi che a me apparivano assolutamente inesplicabili, e in alcune occasioni, arrivavano persino a colmarmi di sgomento. Inoltre, nel bel mezzo di una frase, faceva frequentemente una pausa, in apparenza sembrava aver perso il filo, ma si aveva l’impressione che stesse in ascolto con grande attenzione, come se fosse in attesa da un momento all’altro di un ospite, o inseguisse suoni che dovevano esistere soltanto nella sua mente. Fu proprio durante una di queste sue fantasticherie, o pause di apparente distrazione che, mentre voltavo una pagina dell’Orfeo, la bellissima tragedia del poeta e letterato Poliziano (la prima tragedia della letteratura italiana) che si trovava accanto a e, sull’ottomana, scoprii un passo sottolineato a matita. Era quasi alla fine del terzo atto – un passo che suscitava un’emozione tale da commuovere il cuore – un passo che, anche se guastato dalle impurità, nessun uomo potrebbe leggere senza il fremito di una sensazione insolita e nessuna donna senza un sospiro. L’intera pagina era macchiata di lacrime recenti, e sul foglio a fianco erano scritti i seguenti versi in inglese con una calligrafia però molto diversa dagli strani caratteri di mia conoscenza, che con qualche difficoltà riconobbi come sua. Tu fosti tutto per me, amore, tutto ciò per cui la mia anima si struggeva – 29 una verde isola nel mare, amore, una fonte e un santuario, inghirlandati di fiori e frutta insieme, e tutti quei fiori erano miei. Ah, sogno troppo splendente per durare! Ah, Speranza fulgente! Che sorse solo per venire offuscata! Dal Futuro una voce grida, «Avanti!» – Ma è sul Passato (oscuro gorgo!) che la mia anima sta sospesa Muta – immobile – atterrita! Poiché ahimè! Ahimè! Per me si è spenta la luce della vita. «Non più – non più – non più» (così parla il mare solenne alle sabbie sulla spiaggia) L’albero bruciato dalla folgore fiorirà ancora, o l’aquila ferita si leverà in volo! Ora tutte le mie ore sono rapimenti; e tutti i miei sogni notturni sono dove il tuo scuro occhio brilla e dove risplende la tua orma – in quali danze eteree, accanto a quali ruscelli italiani. Ahimè! Poiché in quel momento maledetto, le onde ti portarono via, via dall’Amore, verso l’età titolata e il delitto, e un letto profano! Via da me, e dal nostro clima nebbioso, dove l’argenteo salice piange! Il fatto che questi versi fossero scritti in inglese – lingua che non credevo l’autore conoscesse – non fu per me di grande stupore. Ero fin troppo consapevole di quanto fossero vaste le sue conoscenze, e del singolare piacere che traeva nel nasconderle agli occhi del mondo, per meravigliarmi di una scoperta del genere; ma il luogo scritto accanto alla data, lo confesso, mi causò non poco stupore. In origine vi era stato scritto Londra, poi attentamente cancellato in seguito – comunque non in modo così efficace da occultare la parola ad uno sguardo minuzioso… Ripeto che ciò mi causò non poco stupore; poiché ricordo bene che, in passato, durante una conversazione con il mio amico, gli avevo appunto domandato se avesse già incontrato prima di allora la Marchesa di Mentoni a Londra (per alcuni anni, precedenti il suo matrimonio, ella aveva risieduto in quella città) e la sua risposta, se non erro, mi diede ad intendere che lui non aveva mai visitato la metropoli della Gran Bretagna. 30 Tanto vale che ne accenni anche qui, più di una volta avevo sentito dire (senza naturalmente dare credito a un racconto tanto improponibile), che la persona di cui parlo, non era solo per nascita, ma anche per educazione, un inglese. «V’è un quadro», disse, senza accorgersi che avevo scorto la tragedia, «c’è un altro quadro che non ha visto.» E scostando una tenda, scoprì un ritratto a grandezza naturale della Marchesa Aphrodite. L’arte umana non avrebbe potuto fare di più per evidenziare la sua bellezza sovrumana. La stessa figura eterea che avevo visto davanti a me la sera precedente, sui gradini del Palazzo Ducale, mi era di fronte ancora una volta. Ma nell’espressione del volto, che era tutto un sorriso radioso, si celava ancora (incomprensibile anomalia!) quel velo spasmodico di malinconia che sarà sempre inseparabile dalla perfezione della bellezza. Il braccio destro era piegato sul seno, il sinistro indicava un vaso modellato in modo strano, verso il basso. Era visibile un solo piccolo piede di fata, che quasi non toccava terra – inoltre scarsamente visibile nello sfondo luminoso, che sembrava circondare e racchiudere la sua bellezza, fluttuava un paio delle ali più delicate che si possano immaginare. Il mio sguardo si spostò dal quadro alla figura del mio amico, e le vigorose parole del Bussy d’Ambois di Chapman8 mi salirono istintivamente sulle labbra: Egli è in piedi lì come una statua romana! Rimarrà in piedi finché la morte non l’avrà mutato in marmo! «Venga» – disse dopo un po’, voltandosi verso un tavolo d’argento massiccio, sontuosamente smaltato, sul quale erano poggiati alcuni calici colorati in modo eccentrico, insieme a due grandi vasi etruschi, modellati come lo stesso straordinario esemplare che era raffigurato nel ritratto, e colmi di quello che mi sembrò Johannisberger. «Venga!», disse bruscamente. «Beviamo! È presto – ma beviamo. È davvero presto», continuò pensosamente, mentre un cherubino che reggeva un pesante martello dorato faceva risuonare il rintocco della prima ora dopo l’alba, in tutto l’appartamento. «È davvero presto, ma che importanza ha? Beviamo! Facciamo un’offerta al sole che nasce, queste lampade sgargianti e gli incensieri sembrano intenti ad offuscarlo!» E, con il bicchiere colmo, brindammo, mentre lui mandava giù, in rapida successione, parecchi calici di quel vino. «Sognare», continuò, riprendendo il filo della sua conversazione sconnessa, mentre alzava uno dei magnifici vasi verso la luce dell’incensiere, «sognare è stato lo scopo della mia vita. Per questo ho creato per me stesso, una camera di sogno. Avrei mai potuto costruirne una migliore nel cuore di Venezia? Intorno a sé può veramente osservare, un miscuglio di ornamenti architettonici. La castità della Ionia è offesa da 8 George Chapman, letterato e poeta inglese (1559-1634) scrisse numerose commedie e tragedie, tra cui il Bussy d’Ambois, ispirato al personaggio storico di Louis de Clermont d’Amboise, signore di Bussy, gentiluomo della corte di Francia e protetto del fratello del re Enrico III, il quale morì ucciso nel 1597 per mano del marito della contessa di Montsoreau, che aveva sedotto. 31 invenzioni antidiluviane, e le sfingi egizie sono poggiate su tappeti d’oro. Eppure l’effetto risulta incongruo, soltanto per il timido. Le convenzioni di luogo, e specialmente di tempo, sono lo spauracchio che atterrisce l’umanità e la allontana dalla contemplazione della bellezza. Un tempo io stesso sono stato rispettoso del decoro: ma la sublimazione della stravaganza ha nauseato la mia anima. Adesso tutto questo fa da scenario al mio proposito. Il mio spirito si sta contorcendo, nel fuoco, come questi incensieri arabescati, e il delirio di questa scena mi sta guidando verso le visioni più sfrenate di quella terra di sogni reali verso la quale sto rapidamente andando.» Qui fece bruscamente una pausa, piegò la testa sul petto, e sembrò essere in ascolto di un suono che io non riuscivo a udire. Finalmente, sollevandosi, guardò in alto e declamò i versi del Vescovo di Chichester: Aspettami là! Non mancherò di raggiungerti in quella valle cupa. L’istante dopo, confessando l’effetto del vino, si gettò lungo disteso su un’ottomana. Si udì il suono di un passo svelto sulla scalinata, seguito rapidamente da un energico bussare alla porta. Mi stavo preparando al rumore di una seconda intrusione, quando un paggio di casa Mentoni irruppe nella stanza, e pronunciò con voce rotta, con un tono soffocato dalla commozione, delle parole sconnesse: «La mia padrona! – La mia padrona! – Avvelenata! – Avvelenata! Oh bellissima – Oh bellissima Aphrodite!». Disorientato, mi precipitai verso l’ottomana, e tentai di svegliare il dormiente, facendolo tornare a uno stato di vigile coscienza. Ma le sue membra erano rigide – le labbra erano livide – i suoi occhi che fino a poco prima ridevano, erano fissi e privi di vita. Vacillai all’indietro verso il tavolo – la mia mano cadde su un calice annerito e incrinato – e la consapevolezza dell’intera terribile verità, mi balenò improvvisamente nell’anima. 32 Brano n. 6 La candela avvelenata9 (testo tratto da: Edgar Allan Poe, Il genio della perversione, trad. di Daniela Palladini, in Edgar Allan Poe, Tutti i racconti, le poesie e Gordon Pym, Newton Compton editori, Roma 1992, pp. 38-41) Abbiamo di fronte un compito cui dobbiamo rapidamente adempiere, sappiamo che sarebbe rovinoso ritardarlo, la più importante crisi della nostra vita ci sprona, con squillo di tromba, a una energica, immediata azione. Bruciamo, siamo consumati dall’impazienza di cominciare il lavoro, nella previsione di un favorevole risultato, tutto il nostro animo è in fiamme. È necessario cominciare oggi e tuttavia rimandiamo tutto a domani… perché? Non c’è risposta, se non quella che ci sentiamo perversi, usando questa parola senza comprenderne il principio. Arriva l’indomani e con esso un’ansietà ancor più impaziente di fare il nostro dovere, ma con il crescere di questa ansietà arriva anche una esigenza di ritardare, oscura, decisamente paurosa in quanto insondabile, una esigenza che acquista forza man mano che gli attimi volano via. L’ultima ora per agire è vicina. Tremiamo per la violenza del conflitto che è dentro di noi – del definito con l’indefinito – della sostanza con le ombre, ma se la contesa è arrivata così avanti è l’ombra che prevale – invano lottiamo; scocca l’ora ed è il rintocco funebre del nostro benessere, allo stesso tempo il canto del gallo per il fantasma che ci ha così a lungo atterriti. Esso fugge via – sparisce – siamo liberi, ritorna l’antica energia. Lavoreremo ora, ma, ahimè!, è troppo tardi! Siamo ritti sull’orlo di un precipizio, guardiamo giù nell’abisso, ci sentiamo sofferenti e storditi. Il primo impulso è quello di sfuggire al pericolo, ma inspiegabilmente restiamo. A poco a poco il nostro malessere, lo stordimento, l’orrore si confondono in una nube di sensazioni indefinite. Gradualmente, sempre più impercettibilmente, questa nuvola prende forma come il vapore che usciva dalla bottiglia e da cui prendeva forma il genio nelle Mille e una Notte. Ma la nostra nuvola sull’orlo del precipizio, diventa una forma palpabile, molto più terribile di qualsiasi genio o demonio dei racconti, nonostante sia solo un pensiero, anche se spaventoso e tale da farci gelare fino al midollo delle ossa con il fascino feroce del suo orrore. È soltanto l’idea di quello che realmente sentiremmo nella rovinosa caduta da tanta altezza. Questo precipitare – questo travolgente annullarsi – proprio perché suscita le più odiose e spaventose tra tutte le odiose e spaventose immagini della morte e della sofferenza che si siano mai affacciate alla nostra immaginazione – proprio per questo preciso motivo noi lo desideriamo più intensamente. Poiché la ragione cerca con ogni mezzo di tenerci lontani dal precipizio, proprio per questo noi Nella parte precedente del racconto l’autore ha dimostrato che esistono nella psiche dell’uomo impulsi della volontà che lo spingono irresistibilmente a commettere azioni riprovevoli e perfino delittuose, anche contro se stesso. È un impulso primordiale che deriva dall’intima perversione dell’animo umano, secondo l’autore. 9 33 inesorabilmente ci avviciniamo ad esso. Non c’è in natura una passione più diabolicamente impaziente di quella di colui che, tremando sull’orlo di un precipizio, medita di gettarvisi. Se indulgiamo per un istante ad un qualsiasi tentativo di pensare siamo perduti; perché la riflessione ci spinge ad astenerci e proprio per questo, ripeto, non lo possiamo. Se non c’è un braccio amico che ci arresti o se non siamo in grado di tirarci indietro dall’abisso, ci lanciamo a capofitto e siamo distrutti. Se esaminiamo queste azioni ed altre simili, troveremo, dovremo trovare che esse derivano soltanto dallo spirito della Perversione. Le perpetriamo solo perché sentiamo che non dovremmo. Al di là o al di qua di ciò non esiste spiegazione plausibile; potremmo certamente pensare che questa perversità sia una diretta istigazione dell’arcinemico, se non fosse che talvolta siamo spinti ad operare per il bene. Ho detto tutto questo per rispondere in qualche modo alle vostre domande, – per spiegare perché sono qui,10 per fornirvi qualcosa che abbia la parvenza di una motivazione del fatto che sono in catene, che occupo questa cella del condannato. Se non fossi stato così prolisso, voi mi avreste frainteso o, come la plebaglia, considerato matto. Così, invece potrete facilmente comprendere che sono solo una delle molte inconsapevoli vittime del Genio della Perversione. È impossibile che qualcuno possa avere sbagliato con maggiore determinazione. Per settimane, per mesi, ho riflettuto sui mezzi per compiere l’assassinio. Ho scartato mille schemi, perché la loro attuazione comportava il rischio di essere scoperto. Alla fine, leggendo alcune memorie francesi, trovai una descrizione della malattia quasi fatale che aveva colpito Madame Pilau, per l’azione di una candela accidentalmente avvelenata. L’idea colpì subito la mia fantasia. Conoscevo l’abitudine della mia vittima di leggere a letto; sapevo che la sua dimora era angusta e mal ventilata. Non voglio tediarvi con insignificanti dettagli, non ho bisogno di descrivervi il facile sotterfugio con cui sostituii una delle candele che illuminavano la sua camera da letto, con una simile fatta da me. Il mattino dopo fu trovato morto nel suo letto e il verdetto del giudice sentenziò «Morto per la punizione divina». Avendo ereditato le sue sostanze, tutto mi andò bene per anni. L’idea che potessero scoprirmi non mi sfiorò mai la mente. Avevo personalmente e con grande cura distrutto i resti del fatale cero. Non avevo lasciato neanche l’ombra di un indizio che potesse portare, non dico a condannarmi, ma neanche a sospettarmi del delitto. È inconcepibile il senso di piena soddisfazione che mi invadeva quando riflettevo sulla mia assoluta sicurezza. Per lunghissimo tempo mi abituai a godere di questo sentimento che mi dava più gioia di tutti i vantaggi meramente materiali derivati dalla mia colpa. Arrivò tuttavia il momento nel quale questa sensazione piacevole cominciò a trasformarsi, dapprima molto lentamente, in pensiero tormentoso e ossessionante. Mi tormentava perché mi ossessionava. Non potevo liberarmene neppure per un istante. È piuttosto comune che ci si senta disturbati dall’echeggiare nelle orecchie o più precisamente nella memoria del motivo di una canzonetta o di qualche brano d’opera abbastanza banale. Non ne deriviamo un fastidio se la canzone 10 Il narratore, come si esplicita alla fine, è un detenuto in attesa della esecuzione capitale. 34 è piacevole o l’opera di buon livello. Allo stesso modo mi ritrovavo continuamente a riflettere sulla mia immunità ed a ripetermi a bassa voce «sono al sicuro». Un giorno, mentre andavo a zonzo per le strade, mi fermai all’improvviso mormorando a mezza voce quelle abituali sillabe. In un accesso di sfrontatezza, rimodellai la farse così: «Sono al sicuro… sono al sicuro… sì… a meno che non sia tanto matto da fare una aperta confessione!» Non appena ebbi pronunciato queste parole, sentii scendere il gelo nel mio cuore. Avevo avuto una certa esperienza di queste crisi di perversione (della cui natura mi era difficile dare una spiegazione) e ricordavo che in nessun caso ero riuscito a resistere al loro attacco. Ora la mia casuale riflessione che potevo essere tanto folle da confessare il delitto del quale mi ero macchiato, mi si affacciò, come se fosse proprio il fantasma di colui che avevo ucciso, e sembrò spingermi verso la morte. Dapprima feci uno sforzo per strapparmi via dall’anima quell’incubo. Camminai più energicamente – più svelto – ancora di più – alla fine correvo. Sentivo una voglia matta di strillare. Ogni successiva ondata di questo pensiero fisso mi sommergeva con nuovo terrore, perché capivo bene, troppo bene, che il pensare nella mia situazione significava essere perduto. Accelerai ancor più il passo, procedevo a balzi come un forsennato per le strade affollate, tanto che la gente infine si allarmò e cominciò ad inseguirmi. 35 Brano n. 7 Il suicidio di Ernani 11 (tratto da: Victor Hugo, Ernani, atto quinto, in V. Hugo, Tutto il teatro, vol. II Marion de Lorme – Ernani – Il re si diverte, trad. di Corrado Pavolini, Rizzoli, Milano 1962, pp. 236-248) ATTO QUINTO SCENA TERZA ERNANI, DOÑA SOL DOÑA SOL Se ne van tutti, alla fine! ERNANI (cercando di attirarla fra le braccia) Caro amore! DOÑA SOL (arrossendo e ritraendosi) È… è tardi, mi sembra. ERNANI Angelo! È sempre tardi per restar soli insieme. DOÑA SOL Quel chiasso mi stancava. Non è vero, mio diletto signore, che tanta allegria stordisce la felicità? ERNANI Hai ragione. La felicità, mia cara, è cosa grave. Vuol cuori di bronzo dove lentamente s’imprime. Il piacere la spaventa anche gettandole fiori. Il suo sorriso è meno prossimo al riso che al pianto. DOÑA SOL Nei tuoi occhi, quel sorriso è la luce del sole. (Ernani cerca di condurla verso la porta. Essa arrossisce.) Subito… ERNANI Oh, io sono il tuo schiavo! Sì, rimani, rimani! Fa’ quel che vuoi. Io non domando nulla. Tu sai quel che fai! Quel che tu fai è ben fatto! Riderò se vuoi, canterò… L’anima mia arde… Ah! Di’ al vulcano di soffocar la sua fiamma: il vulcano chiuderà le sue voragini semiaperte, e non avrà più sulle proprie pendici che fiori e verdi prati… Perché il gigante è soggiogato; il Vesuvio è schiavo! E che importa a te se la lava gli morde il cuore? Vuoi fiori? Bene! Il vulcano divorato dall’incendio farà del suo meglio per apparir ridente alla vista! In questo famoso dramma di Victor Hugo (rappresentato nel 1830), l’azione si svolge nella Spagna agli inizi del Cinquecento. Il bandito Ernani, che congiura contro il giovane re di Spagna don Carlos (il futuro imperatore Carlo V), ama riamato la bellissima doña Sol, alla cui mano ambisce il vecchio suo zio, il duca don Ruy Gomez, che odia anch’egli don Carlos. Don Ruy Gomez, che ha sorpreso Ernani nel suo castello in compagnia di doña Sol, gli risparmia la vita e poi salva il bandito dalle guardie di don Carlos, venute ad arrestarlo. In cambio Ernani gli promette di collaborare con lui per uccidere il re e, per un rigoroso senso dell’onore, giura di dargli la sua stessa vita in pegno: quando il vecchio pretendente suonerà per tre volte il corno, Ernani si ucciderà. In seguito tutti i congiurati cadono nelle mani del re, ma questi, alla notizia che è stato proclamato imperatore, per la felicità proclama un’amnistia e permette a Ernani di sposare doña Sol. Il giorno del matrimonio, però, Ernani sente risuonare per tre volte il corno di don Ruy Gomez: il vecchio duca, ancora innamorato della ragazza e in odio a colui che considera sempre il suo rivale, è venuto a esigere la promessa fattagli da Ernani. Ernani, per non venir meno al terribile impegno infangando il suo onore, è costretto a uccidersi. Doña Sol, che invano tenta di dissuadere lo zio dall’esigere crudelmente la promessa e lo sposo dall’attuarla, disperata si avvelena. Infine don Ruy Gomez, allorché vede che la sua spietata intransigenza sulle leggi dell’onore ha distrutto due giovani vite, si uccide anch’egli. 11 36 DOÑA SOL Come sei buono con me povera donna, Ernani del mio cuore! ERNANI Che nome è questo? Ah, non chiamarmi più con questo nome, te ne scongiuro! Mi fai ricordare che ho tutto dimenticato! So che un tempo, in sogno, esisteva un Ernani il cui occhio lampeggiava come una spada, una creatura della notte e dei monti, un bandito che dovunque portava scritta su di sé la parola vendetta, uno sciagurato che si traeva dietro l’anatema! Ma io non conosco codesto Ernani. Io, io amo i prati, i fiori, i boschi, il canto dell’usignuolo. Io sono Juan d’Aragona, marito di doña Sol! Io sono felice! DOÑA SOL Io sono felice! ERNANI Cosa importano gli stracci che entrando ho lasciato fuori! Ecco, sono ritornato al mio palazzo in lutto. Un angelo del Signore mi aspettava sulla soglia. Io entro, rialzo le colonne spezzate, riaccendo il fuoco, riapro le finestre, faccio estirpare le erbacce dal selciato del cortile; non son più che gioia, incantamento, amore. Mi si restituiscano le mie torri, le mie segrete, i miei spalti, le insegne del mio rango, il mio seggio nel consiglio delle Castiglie, venga la mia doña Sol soffusa di rossore e con gli occhi bassi, ci làscino soli… e tutto il resto è passato! Non ho veduto nulla, detto nulla, fatto nulla. Ricomincio: tutto scancello e dimentico! Sia saggezza o demenza, ho te, ti amo, e tutto il mio bene sei tu! DOÑA SOL (guardando il toson d’oro) Come spicca questa collana d’oro su questo velluto nero! ERNANI Prima che al mio la vedesti al collo di re Carlos. DOÑA SOL Non ci avevo fatto caso. Che m’importa di tutti gli altri! Ma poi è il velluto, o è il raso? No, mio duca: è il tuo collo che si addice alla collana d’oro! Tu sei nobile e fiero, monsignore. (Egli tenta di trascinarla con sé.) Subito! Un momento! Lo vedi, è la gioia! E piango! Vieni a veder com’è bella la notte. (Va alla balaustra.) Un momento solo, mio duca! Soltanto il tempo di respirare. Tutto si è spento, fiaccole e musiche di festa… Soltanto la notte e noi due. Felicità perfetta! Dimmi, non credi anche tu che, per quanto addormentata, con un occhio la natura vegli amorosamente su di noi?... Non una nuvola in cielo. Tutto riposa, come noi… Vieni, respira con me l’aria profumata di rose! Guarda. Non un lume, non un rumore. Tutto tace. La luna è appena spuntata all’orizzonte; mentre parlavi, il suo tremulo chiarore e la tua voce, tutt’e due mi andavano insieme al cuore, mi sentivo calma e beata, amor mio, e in quell’istante avrei voluto morire! ERNANI Oh, chi non dimenticherebbe tutto all’udir questa voce celeste! La tua parola è un canto in cui nulla più di terreno rimane. E come un viaggiatore che, portato da un fiume, scivola sulle acque in una bella sera d’estate vedendo sotto i suoi occhi fuggire mille distese fiorite, così il mio pensiero da te trascinato va errando nelle tue fantasie! DOÑA SOL Questo silenzio è troppo cupo, questa calma troppo profonda. Di’, non vorresti vederci in fondo una stella? O che, sollevandosi a un tratto tenera e deliziosa, una voce delle notti cantasse?... ERNANI (sorridendo) Capricciosa! Or è un attimo fuggivamo la luce ed i canti! DOÑA SOL Del ballo! Ma un uccello che cantasse nei campi! Un usignuolo perduto nell’ombra e nella verzura, o qualche flauto remoto!... Perché la musica è 37 dolce, fa armoniosa l’anima e, come un coro divino, sveglia il petto il canto di mille voci! Oh, sarebbe bello! (Si sente il suono lontano d’un corno nel buio.) Dio mi ha esaudita! ERNANI (trasalendo, a parte) Ah, disgraziata! DOÑA SOL Un angelo ha compreso il mio pensiero: certo il tuo angelo custode, no? ERNANI (amaramente) Sì, il mio angelo custode! (Il corno riprende. A parte) Ancora! DOÑA SOL (sorridendo) Don Juan,12 riconosco il suono del tuo corno! ERNANI Non è vero? DOÑA SOL Non sei per caso a mezzo, in questa serenata? ERNANI A mezzo, l’hai detto. DOÑA SOL Ballo malinconico! Oh, quanto più mi piace il corno dal fondo dei boschi! E poi è il tuo corno: è come la tua voce. (Il corno riprende.) ERNANI (a parte) La tigre è laggiù che ulula, e vuol la sua preda. DOÑA SOL Don Juan, quest’armonia riempie il cuore di giubilo. ERNANI (ergendosi terribile) Chiamami Ernani! Chiamami Ernani! Non l’ho finita con questo nome fatale! DOÑA SOL (tremante) Che hai? ERNANI Il vecchio! DOÑA SOL Dio, che funebri occhiate! Che cos’hai? ERNANI Il vecchio, che ride nelle tenebre! Non lo vedi? DOÑA SOL Vaneggi… Di che vecchio stai parlando? ERNANI Il vecchio! DOÑA SOL (cadendo in ginocchio) Te ne supplico in ginocchio: oh, dimmi, quale segreto ti dilania? Che hai? ERNANI L’ho giurato! DOÑA SOL Giurato? (Segue con ansietà tutti i suoi movimenti. Egli si ferma d’un tratto e si passa una mano sulla fronte.) ERNANI (a parte) Che stavo per dire? Risparmiamola. (Forte) Io, nulla. Di che ti ho parlato? DOÑA SOL Hai detto… ERNANI No. No. Avevo la mente turbata. Sono un po’ sofferente, capisci. Non spaventarti. DOÑA SOL Hai bisogno di qualcosa? Ordina alla tua serva. (Il corno riprende a suonare.) ERNANI (a parte) Lo vuole! Lo vuole! Ha il mio giuramento! (Cerca alla cintura sprovvista di spada e di pugnale.) Nulla! Dovrebb’esser già fatto! Ah!... DOÑA SOL Soffri molto? ERNANI Una vecchia ferita, che sembrava chiusa, si riapre… (A parte) Allontaniamola. (Forte) Doña Sol, mia diletta, ascolta. Quel cofanetto che in giorni… meno lieti… portavo con me… 12 Il nome di Ernani era don Juan d’Aragona duca di Segorbia. 38 DOÑA SOL Ho capito quale desideri. E che vuoi farne? ERNANI C’è dentro un flacone contenente un elisir, che potrà metter fine al mio male. Va’! DOÑA SOL Vado, mio signore. (Esce dalla porta della camera nuziale.) SCENA QUARTA ERNANI (solo) Ecco dunque ciò ch’egli viene a fare della mia felicità! Ecco il dito fatale che splende sulla parete!13 Oh, come amaramente mi beffa il destino! (Cade in una profonda e convulsa meditazione; poi bruscamente si volge.) Ebbene?... Ma no, tutto tace. Non sento venire nessuno. Se mi fossi ingannato!... (In cima alla scala appare la maschera in domino nero. Ernani si arresta pietrificato.) SCENA QUINTA ERNANI, LAMASCHERA. LA MASCHERA “Qualunque cosa possa accadere, quando tu vorrai, vecchio, qualunque sia l’ora e il luogo, se giudichi scoccata l’ora della mia morte, vieni, suona questo corno, e non curarti d’altro. Tutto sarà fatto.” Questo patto ebbe i morti a testimoni. Ebbene, tutto è fatto? ERNANI (a bassa voce) È lui! LA MASCHERA Io vengo nella tua casa, e ti dico che è giunto il momento. È la mia ora. Ti trovo in ritardo. ERNANI Bene. Cosa preferisci? Che vuoi fare di me? Parla. LA MASCHERA Puoi scegliere tra ferro e veleno. Ho qui l’occorrente. Ce ne andremo insieme. ERNANI D’accordo. LA MASCHERA Vogliamo pregare? ERNANI Che importa! LA MASCHERA Cosa scegli? ERNANI Il veleno. LA MASCHERA Bene! Dammi la tua mano. (Presenta una fiala a Ernani, che la riceve impallidendo.) Bevi, ch’io la finisca. (Ernani si porta la fiala alle labbra, poi arretra.) ERNANI Oh, per pietà, domani! Duca! Se ti rimane un cuore, o se non altro un’anima, se non sei uno spettro sfuggito alle fiamme infernali, un morto dannato, divenuto ormai fantasma o demonio, se Dio non ti ha scritto ancora in fronte: “Mai più!”, se tu sai che cos’è la felicità suprema d’amare, d’aver vent’anni, di sposare colei che si ama, se mai donna amata ha tremato nelle tue braccia, aspetta fino a domani! Domani tornerai! Allusione alla misteriosa mano che tracciò sulla parete le parole Menè, Tekèl, Perès, davanti all’empio re dei Caldei Baldassàr, preannunciandogli la morte e la rovina del suo regno (Daniele 5,1-29). 13 39 LA MASCHERA Facile dire: domani! Domani! Scherzi? Le tue campane stamane suonavano per i tuoi funerali! E che farei io, stanotte? Ne morrei… E dopo, chi verrebbe a prenderti e a portarti via? Discender solo nella tomba?... Giovinotto, bisogna seguirmi. ERNANI Ebbene, no! Demonio, mi libero di te! Non obbedirò. LA MASCHERA Ne dubitavo. Benissimo. Su che cosa dunque mi facesti quel giuramento? Ah, su nulla! Cosa da poco, in conclusione! La testa di tuo padre! Che ci vuole a dimenticarsene? La gioventù è spensierata. ERNANI Mio padre! Mio padre!... Ah! Io smarrirò la ragione! LA MASCHERA No, perché?... È appena uno spergiuro, un tradimento! ERNANI Duca! LA MASCHERA Dal momento che oggidì i capi delle grandi famiglie spagnole non esitano a mancar di parola, addio! (Fa un passo per uscire.) ERNANI Non andartene. LA MASCHERA E allora… ERNANI Vecchio crudele! (Prende la fiala.) Alla porta del cielo dover tornare sui miei passi! (Rientra Doña Sol senza vedere la maschera, che sta in piedi nel fondo.) SCENA SESTA DOÑA SOL, e Detti. DOÑA SOL Non son riuscita a trovarlo, quel cofanetto. ERNANI (a parte) Dio! È lei! In qual momento! DOÑA SOL Che accade? Io gli faccio spavento, vacilla a udir la mia voce! Che cos’hai in mano? Tremendo sospetto! Che cos’hai in mano? Rispondi. (Il domino si è avvicinato e si toglie la maschera. Essa getta un grido, e riconosce don Ruy.) È veleno! ERNANI Gran Dio! DOÑA SOL (a Ernani) Che ti ho fatto? Quale orribile mistero! Mi ingannavi, don Juan! ERNANI Ah, ho dovuto tacertelo! Ho promesso di morire al duca che mi salvò. Aragona deve pagar questo debito a Silva. DOÑA SOL Tu non sei suo, sei mio. Che m’importa di tutti gli altri tuoi giuramenti! (A don Ruy Gomez) Duca, l’amore mi rende forte. Lo difenderò contro di voi, duca, contro tutti! DON RUY GOMEZ (immobile) Difendilo, se puoi, contro una promessa giurata. DOÑA SOL Che promessa? ERNANI Ho giurato. DOÑA SOL No, no, nulla ti lega! Non è lecito! Delitto! Attentato! Follia! DON RUY GOMEZ Andiamo, duca. (Ernani fa un gesto per obbedire. Doña Sol cerca id trascinarlo con sé.) ERNANI Lasciami, doña Sol. È necessario. Il duca ha la mia parola, e mio padre è lassù! 40 DOÑA SOL (a don Ruy Gomez) Meglio vi varrebbe addirittura strappare alla tigre i suoi cuccioli che a me l’uomo che amo! Ma sapete voi che cosa è doña Sol? A lungo, per compassione della vostra età, dei vostri sessant’anni, ho fatto la fanciulla dolce, innocente e timida: ma vedete quest’occhio inumidito da lagrime di rabbia? (Si cava un pugnale dal petto.) Vedete questo pugnale? Ah, vecchio insensato: quando lo sguardo è carico di minaccia, voi non temete il ferro? State attento, don Ruy! Sono della vostra stessa famiglia, zio mio! Ascoltatemi. Fossi anche vostra figlia, sventura a voi se toccate il mio sposo! (Getta il pugnale e cade in ginocchio davanti al duca.) Ah, io cado ai vostri piedi! Abbiate pietà di noi! Grazia! Ahimè, monsignore, io non son che una debole donna che l’animo non basta a sorreggere, facilmente mi spezzo. E cado ai vostri piedi! Ah, ve ne supplico, abbiate pietà di noi! DON RUY GOMEZ Doña Sol! DOÑA SOL Perdonate! Noi spagnoli il dolore ci trascina a parole un po’ aspre, voi lo sapete. Ahimè, un tempo non eravate cattivo! Pietà! Toccandolo uccidete me, zio mio! Pietà, l’amo tanto! DON RUY GOMEZ (cupo) Troppo lo amate! ERNANI Tu piangi! DOÑA SOL No, no, non voglio, amor mio, che tu muoia! No, non lo voglio! (A don Ruy) Fate grazia oggi! Vorrò tanto bene anche a voi! DON RUY GOMEZ Dopo di lui! Credete con questi avanzi d’amore, d’amicizia – o anche meno –, di placar la sete che mi divora? (Mostrando Ernani) Lui è l’unico! Lui è tutto! Per me, bella compassione! Che me ne faccio della vostra amicizia? Oh rabbia! Lui avrebbe il cuore, l’amore, il trono, e mi farebbe l’elemosina d’un vostro sguardo! E se bisognasse gettare una parola alle mie speranze insensate, è lui che vi suggerirebbe: “Digli così, basterà!” sottovoce maledicendo l’avido mendico a cui convien gettare l’ultima goccia del bicchiere scolato! Vergogna! Beffa! No. Bisogna finirla. Bevi. ERNANI Gli ho dato la mia parola e devo rispettarla. DON RUY GOMEZ Andiamo! (Ernani si avvicina la fiala alle labbra. Doña Sol si getta sul suo braccio.) DOÑA SOL Oh, non ancora! Ascoltatemi entrambi, ve ne scongiuro! DON RUY GOMEZ Il sepolcro è aperto, ed io non posso aspettare. DOÑA SOL Un istante! Monsignore! Mio don Juan! Ah, come siete crudeli, tutti e due! Che cosa voglio da loro? Un istante! Ecco tutto quello che chiedo! Lascerete pur dire a questa povera donna ciò che ha nel cuore!... Oh, lasciatemi parlare! DON RUY GOMEZ (a Ernani) Ho fretta. DOÑA SOL Miei signori, voi mi fate tremare! Che cosa vi ho fatto? ERNANI Ah! Il suo grido mi strazia! DOÑA SOL (trattenendogli ancora il braccio) Lo vedete che ho mille cose da dire! DON RUY GOMEZ (a Ernani) Bisogna morire. DOÑA SOL (sempre appesa al braccio di Ernani) Don Juan, quando avrò parlato, farai tutto quel che vorrai. (Gli strappa la fiala.) Ora è mia! (Solleva la fiala dinanzi agli occhi di Ernani e del vecchio interdetto.) 41 DON RUY GOMEZ Visto che ora ho da fare con due donne, don Juan, andrò altrove in cerca di cuori virili. Tu compi splendidi giuramenti sul sangue che ti diede la vita, e io vado tra i morti a parlarne con tuo padre! Addio! (Muove qualche passo per uscire. Ernani lo trattiene.) ERNANI Fermatevi, duca! (A doña Sol) Te ne scongiuro: vuoi tu vedermi fedifrago, ahimè, e vile e spergiuro? Vuoi tu ch’io vada in giro col tradimento scritto in fronte? Per pietà, rendimi quel veleno! Per l’amore, per la nostra anima immortale!... DOÑA SOL (cupa) Lo vuoi? (Beve.) Ora tieni. DON RUY GOMEZ (a parte) Ah, era dunque per lei?... DOÑA SOL (rendendo a Ernani la fiala mezzo vuota) Prendi, ti ho detto. ERNANI (a don Ruy) Hai visto, miserabile vecchio! DOÑA SOL Non lagnarti di me, ti ho lasciato la tua parte. ERNANI (prendendo la fiala) Dio! DOÑA SOL Tu non mi avresti lasciato la mia alla stessa maniera! Tu non hai l’animo d’una sposa cristiana. Non sai amare come ama una de Silva. Ma io ho bevuto per prima e sono tranquilla. Su, bevi se vuoi! ERNANI Ahimè, che hai fatto, disgraziata! DOÑA SOL Sei tu che l’hai voluto. ERNANI È una morte spaventevole! DOÑA SOL No. Perché? ERNANI Questo filtro conduce al sepolcro. DOÑA SOL Non dovevamo dormire insieme questa notte? Cosa importa in qual letto? ERNANI Padre mio, così ti vendichi su di me che ti dimenticavo! (Si porta la fiala alla bocca.) DOÑA SOL (gettandosi su di lui) Cielo! Quali strane sofferenze!... Ah, getta lontano da te quel filtro! La mente mi si smarrisce… Férmati! Ahimè! Mio don Juan, quel veleno è vivo! Quel veleno fa nascere in petto un’idra dai mille denti che rode e divora! Ah, non sapevo che si soffrisse così! Che cosa è questo? È fuoco! Non bere! Oh, patiresti troppo! ERNANI (a don Ruy) Anima crudele! Non potevi sceglier per lei un altro veleno? (Beve e getta la fiala.) DOÑA SOL Che fai? ERNANI Cosa hai fatto? DOÑA SOL Vieni, mio giovane amore, tra le mie braccia. (Si seggono l’una accanto all’altra.) Non è vero che si soffre orribilmente? ERNANI No. DOÑA SOL Ecco incominciata la nostra notte nuziale! Sono molto pallida, vero, per una fidanzata? ERNANI Ah! DON RUY GOMEZ La fatalità si compie. ERNANI Disperazione, tormento! Doña Sol che soffre, ed io costretto a vederla soffrire! 42 DOÑA SOL Càlmati. Sto meglio. Tra un istante apriremo insieme le nostre ali verso nuovi fulgori. Con volo gemello partiamo verso un mondo migliore. Un bacio soltanto, un bacio! (Si baciano.) ERNANI (con voce più debole) Ah, benedetto sia il cielo che mi ha dato un’esistenza circondata d’abissi e perseguitata da spettri, ma che ora mi consente, stanco di così aspro cammino, d’addormentarmi con le labbra sulla tua mano! DON RUY GOMEZ Come sono felici! ERNANI (con voce sempre più fioca) Vieni, vieni… doña Sol… tutto è buio… Soffri? DOÑA SOL (anch’essa con voce spenta) Nulla… più nulla. ERNANI Vedi dei fuochi nell’ombra? DOÑA SOL Non ancora. ERNANI (con un sospiro) Ecco… (Cade.) DON RUY GOMEZ (sollevandogli il capo che ricade) Morto! DOÑA SOL (drizzandosi scarmigliata sul sedile) Morto! No! Noi dormiamo. Dorme. Sai, è il mio sposo. Ci amiamo. Siamo distesi qua. È la nostra notte di nozze. (Con voce morente) Non svegliatelo, signor duca di Mendoza. È stanco. (Guardando verso Ernani) Amor mio, vòlgiti dalla mia parte… Più vicino… più vicino ancora… (Ricade) DON RUY GOMEZ Morta! Oh! Io sono dannato. (Si uccide.) 43 Brano n. 8 Il suicidio di Emma Bovary (tratto da: Gustave Flaubert, Madame Bovary, trad. di Oreste Del Buono, Garzanti, Milano 1965, pp. 267-273) La bambina14 arrivò in braccio alla serva, i piedini nudi le sbucavano dalla lunga camicia da notte, era seria, ancora immersa in un sogno. Osservava con stupore la camera tutta in disordine, e sbatteva le palpebre, accecata dai doppieri accesi sui mobili. Le ricordavano certo quelle mattine id capodanno o di mezza quaresima, quando, svegliata di buon’ora dalla luce delle candele, veniva accolta nel letto della madre e vi riceveva i suoi doni. Così prese a dire: «Dov’è il regalo, mamma?» E, siccome nessuno le rispondeva, insisté: «Ma non lo vedo! non lo vedo!» Félicité la tendeva verso il letto, mentre lei continuava a guardare dalla parte del caminetto. «Forse l’ha preso la tata?» domandò ancora. A quella parola che la risprofondava nel ricordo degli adulteri e delle sciagure, la signora Bovary distolse la faccia, come se il disgusto di un altro e più forte veleno le insorgesse alle labbra. Berthe, intanto, restava posata sul letto. «Ma che occhi grandi hai, mamma! Come sei pallida! Quanto sudore!...» La madre la fissava. «Ho paura!» disse la piccola, tirandosi indietro. Emma le prese una manina, voleva baciargliela. Quella si dibatteva, non ne voleva sapere. «Basta! Portatela via!» gridò Charles che singhiozzava nell’alcova. Poi i sintomi cessarono per un momento; lei parve meno agitata; e, a ogni parola insignificante, a ogni respiro un poco più calmo, lui riacquistava speranza. Quando Canivet fece finalmente il suo ingresso, gli si buttò tra le braccia, piangendo. «Ah! Siete voi! Grazie! Siete buono! Ma ora tutto va meglio. Ecco, guardatela…» Il collega non fu, però, della stessa opinione, e, senza stare, come disse, a spaccare il capello in quattro, ordinò un emetico per liberare completamente lo stomaco. Lei non tardò a vomitare sangue. Le sue labbra si serrarono maggiormente. Aveva le membra contratte, chiazze brune le coprivano il corpo, il suo polso scivolava sotto le dita come un filo teso, come la corda di un’arpa in procinto di spezzarsi. Poi attaccò a gridare, orribilmente. Malediceva il veleno, lo ingiuriava, lo supplicava di fare in fretta, e respingeva con le braccia irrigidite tutto quel che Charles, più agonizzante di lei, tentava di farle mandar giù. Lui stava in piedi, il fazzoletto sulle labbra, rantolava, piangeva, soffocava per i singhiozzi che lo 14 La piccola Berthe è la figlia di Emma Bovary. 44 scuotevano sino ai talloni; Félicité correva di qua e di là per la stanza; Homais, immobile, emetteva gran sospiri, e il signor Canivet, pur conservando l’apparenza dell’imperturbabilità, cominciava a sentirsi veramente preoccupato. «Diavolo!... Eppure… ormai è purgata, e, cessando la causa…» «…. dovrebbe cessar l’effetto,» disse Homais «è evidente.» «Ma salvatela!» gridava Bovary. Così, senza prestare ascolto al farmacista che azzardava ancora l’ipotesi: «Potrebbe trattarsi di un parossismo salutare», Canivet stava per somministrare della teriaca, quando si udì lo schiocco d’una frusta: tutti i vetri tintinnarono e una berlina da posta, tirata a gran forza da tre cavalli infangati sino agli orecchi, irruppe di colpo dall’angolo del mercato. Era il dottor Larivière. L’apparizione di un dio non avrebbe suscitato maggiore emozione. Bovary levò le mani, Canivet s’arrestò di botto, e Homais si tolse il berretto greco ancor prima che il dottore entrasse in casa. Apparteneva alla grande scuola chirurgica venuta fuori dal camice di Bichat, a quella generazione ormai scomparsa di medici filosofi che, amando la loro arte d’un amore fanatico, la professavano con entusiasmo e sagacia! Tutto tremava nel suo ospedale, se lui andava in collera, e i suoi allievi provavano per lui una tal venerazione che, appena cominciavano a esercitare, si sforzavano di imitarlo il più possibile; e, infatti, si rivedevan su di loro, nelle città e nei paesi del circondario, la sua lunga giacca di merino e la sua larga marsina i cui paramani sbottonati coprivano un poco le mani carnose, belle mani, sempre nude di guanti, come per esser più pronte a sprofondare nelle miserie. Sdegnoso di croci, di titoli e di accademie, ospitale, liberale, paterno con i poveri, virtuoso pur nell’assoluta incredulità nella virtù, avrebbe potuto quasi passare per un santo se la sottigliezza del suo spirito non l’avesse fatto temere come un demonio. Il suo sguardo, più tagliente del bisturi, ti scendeva dritto nell’anima e dissezionava ogni menzogna dal groviglio dei pretesti e dei pudori. Attraversava la vita così, pieno della bonaria maestà conferitagli dalla consapevolezza del possesso di un grande ingegno, d’una notevole ricchezza e di un’esperienza di quarant’anni laboriosi e irreprensibili. Aggrottò le sopracciglia già dalla soglia, notando la faccia cadaverica di Emma, stesa sul dorso, a bocca spalancata. Poi, pur avendo l’aria distare a sentire Canivet, continuò a passarsi l’indice sotto il naso, e ripeteva: «Bene, bene.» Ma si strinse lentamente nelle spalle. Bovary l’osservò: si guardarono, e quell’uomo, che pure aveva una così lunga abitudine all’aspetto del dolore, non seppe trattenere una lacrima, che gli rotolò sullo sparato. Volle condurre Canivet nella stanza vicina. Charles li seguì. «Sta molto male, vero? Se le si applicassero dei senapismi? Io non so cosa! Trovate qualcosa voi che ne avete salvati tanti!» Charles lo stringeva con tutt’e due le braccia, lo contemplava con occhi sgomenti, supplicanti, era mezzo svenuto contro il suo petto. «Via, povero ragazzo, fatevi coraggio! Non c’è più nulla da fare.» E il dottor Larivière si girò. «Ve ne andate?» 45 «Torno subito.» Uscì, come per dare un ordine al cocchiere; uscì anche il signor Canivet che non aveva nessuna voglia di vedersi morire tra le mani Emma. Il farmacista li raggiunse sulla piazza. Per temperamento non poteva separarsi dalla gente celebre. Scongiurò, dunque, il professor Larivière di concedergli il grande onore di accettare il suo invito a pranzo. Si mandò subito a prendere piccioni al Leon d’oro, costolette in macelleria, panna da Tuvache, uova da Lestiboudois, e il farmacista aiutò lui stesso nei preparativi, mentre la signora Homais diceva, tirando i cordoncini del grembiule: «Mi vorrete scusare, signore, ma, in questo disgraziato paese, se non si è avvisati il giorno prima…» «I bicchieri a calice!!!» bisbigliò Homais. «Se fossimo stati in città, avremmo avuto almeno la risorsa dello zampetto ripieno.» «Ma sta’ zitta!... A tavola, professore!» E giudicò opportuno, dopo i primi bocconi, fornire qualche particolare sulla catastrofe: «Abbiamo avuto dapprima un senso d’aridità alla faringe, poi dolori intollerabili all’epigastro, soprapurgazione, coma.» «Ma come si è avvelenata?» «Non lo so, professore, non so neppure come abbia potuto procurarsi quell’acido arsenioso.» Justin, che stava portando una pila di piatti, fu assalito da un gran tremito. «Cos’hai?» disse il farmacista. A quella domanda, il ragazzo lasciò cadere tutto a terra, in uno spaventoso fracasso. «Imbecille!» gridò Homais. «Buono a nulla! Incapace! Maledetto asino che non sei altro!» Ma subito riuscì a dominarsi. «Professore, ho voluto tentare un’analisi, e, primo, ho delicatamente introdotto un tubo…» «Avreste fatto meglio a introdurle le vostre dita in gola,» disse il chirurgo. Il suo collega stava zitto, avendo poco prima ricevuto in confidenza una tirata d’orecchi a proposito del suo emetico; e così quel buon Canivet, tanto arrogante e loquace la volta dell’amputazione del piede, appariva estremamente modesto, adesso; e non smetteva di sorridere, in segno d’assenso. Homais delirava nel suo orgoglio d’anfitrione, e il triste pensiero di Bovary contribuiva indefinibilmente a quel piacere, lo spingeva, infatti, a egoistiche riflessioni su se stesso. Poi la presenza dell’illustre dottore lo esaltava. Faceva sfoggio della sua erudizione, sciorinava le sue citazioni alla rinfusa, cantaride, upas, manzanillo, vipera… «Ho letto persino che diverse persone si son trovate intossicate, professore, come fulminate da sanguinacci troppo affumicati! Almeno così diceva un bellissimo 46 rapporto composto da uno dei nostri sommi farmacisti, uno dei nostri maestri, l’insigne Cadet de Gassicourt!» La signora Homais riapparve, portando una di quelle vacillanti macchine da caffè che si scaldano a spirito. Homais teneva a prepararlo in tavola, dopo averlo personalmente tostato, macinato e mescolato. «Saccharum, professore,» disse, offrendo lo zucchero. Poi fece venir giù i suoi figli, voleva avere il parere del chirurgo sulla loro costituzione. Infine, quando il signor Larivière stava per andarsene, la signora Homais gli chiese un consulto sul marito. Il sangue gli s’ingrossava ogni sera appena mangiato, gli andava al cervello, e lui si addormentava a tavola. «Oh! Non sarà mai il cervello a dargli fastidio.» E, sorridendo un poco di quel doppio senso passato inosservato, il dottore aprì la porta. Ma la farmacia rigurgitava di gente, e faticò abbastanza a liberarsi del signor Tuvache, che temeva una flussione di petto per la moglie, poiché costei aveva l’abitudine di sputare sulla cenere; poi del signor Binet, che a volte era assalito da improvvise voglie di cibo; della signora Caron, che soffriva di pruriti; del signor Lheureux, che ogni tanto provava delle vertigini; del signor Lestiboudois, che dolorava per i reumatismi, e della signora Lefrançois, che non riusciva a calmare i suoi bruciori di stomaco. Alla fine i tre cavalli si mossero, e l’opinione comune fu che il professore s’era mostrato scarsamente compiacente. Ma l’attenzione pubblica fu attratta dall’apparizione del reverendo Bournisien, che passava sotto i portici del mercato con l’olio santo. Homais, per tener fede ai propri principi, non mancò di notare che i preti son proprio come i corvi, li attira l’odore dei morti; la vista di un sacerdote gli era realmente sgradita, poiché la sottana nera lo faceva pensare al sudario, e lui esecrava l’una per paura dell’altro. Tuttavia, non si tirò indietro, non volle sottrarsi a quella che chiamava la sua missione, e tornò dai Bovary insieme con Canivet, che il signor Larivière, prima di partire, aveva esortato a compiere un’ultima visita; e, se la moglie non si fosse vivacemente opposta, si sarebbe portato dietro anche i figli, per assuefarli alle circostanze gravi, per fornir loro una lezione, un esempio, una scena solenne, destinata a restare per sempre nella loro testa. Quando entrarono, la camera era lugubremente solenne. Sul tavolino da lavoro, coperto da una tovaglia bianca, c’era un piatto d’argento con cinque o sei batuffoli di cotone, accanto a un gran crocifisso, tra due doppieri accesi. Emma, con il mento contro il petto, sbarrava smisuratamente gli occhi, e le sue povere mani s’increspavano sul lenzuolo con quel movimento ripugnante e lento degli agonizzanti, che paiono volersi già coprire con il sudario. Pallido come una statua, gli occhi rossi come tizzoni ardenti, Charles stava davanti a lei, ai piedi del letto: non piangeva più. Appoggiato a un ginocchio, il prete borbottava sommessamente. Con lentezza, lei girò la faccia, e parve invasa da una gran gioia nel vedere la stola viola: certo, ritrovava in una pace improvvisa la perduta voluttà dei suoi primi slanci mistici e, insieme, incipienti visioni di beatitudine eterna. 47 Il prete si rialzò per prendere il crocifisso; allora lei protese il collo, come qualcuno che ha sete, e, incollando le labbra sul corpo dell’Uomo Dio, vi depositò con tutta la sua forza fuggente il più profondo bacio d’amore che avesse mai dato. Poi il prete recitò il Misereatur e l’Indulgentiam, immerse il pollice destro nell’olio e cominciò l’unzione: prima sugli occhi, che avevano tanto bramato il fasto mondano, poi sulle narici, che erano state tanto avide di tiepide brezze e di profumi amorosi, poi sulla bocca, che s’era tanto aperta alla menzogna, ai gemiti dell’orgoglio, alle grida della lussuria, poi sulle mani, che avevan preso tanto diletto ai dolci contatti, e alla fine sulla pianta dei piedi, che erano stati tanto rapidi nei giorni in cui lei correva a saziare i propri desideri, i piedi che non avrebbero mai più camminato. Il prete si asciugò le dita, buttò nel fuoco i batuffoli impregnati d’olio, e tornò a sedersi accanto all’agonizzante per dirle che ormai doveva unire le proprie sofferenze a quelle di Gesù Cristo, abbandonarsi alla misericordia divina. A conclusione di quelle esortazioni, volle metterle in mano un cero benedetto, simbolo delle glorie celesti di cui tra poco sarebbe stata circondata. Troppo debole, Emma non riuscì a chiudere le dita: senza l’aiuto del reverendo Bournisien, il cero sarebbe caduto a terra. Adesso lei non era più tanto pallida, la sua faccia aveva una espressione serena, come se il sacramento l’avesse guarita. Il prete fu pronto a farlo notare, spiegò, anche a Bovary, che a volte il Signore prolunga l’esistenza di qualcuno quando lo giudica utile per la sua salvezza; e Charles ricordò quell’altro giorno in cui, ugualmente vicina a morire, lei aveva ricevuto la comunione. «Forse c’è ancora speranza,» pensò. Infatti, lei si guardò intorno, lentamente, come se si svegliasse da un sogno, poi, distintamente chiese lo specchio, e vi restò china per un poco, sino al momento in cui grosse lacrime cominciarono a colarle dagli occhi. Allora arrovesciò la testa, in un doloroso sospiro e ricadde sul cuscino. Subito il petto le prese a palpitare in fretta e furia. Dalla bocca le uscì tutta la lingua; roteando, i suoi occhi impallidivano al pari di due globi di lampada che si spengano; la si sarebbe potuta credere già morta senza lo spaventoso sussultar delle costole, scosse da un vento feroce, come se l’anima, dentro, facesse salti per staccarsi. Félicité s’inginocchiò davanti al crocifisso, lo stesso farmacista piegò un poco i garretti, mentre il signor Canivet lasciava errare lo sguardo sulla piazza. Don Bournisien riprese a pregare, il volto appoggiato alla sponda del letto, la lunga sottana nera che gli s’allungava dietro come uno strascico. Charles era in ginocchio dall’altro lato del letto, le braccia tese verso Emma. Le aveva preso le mani, gliele stringeva, trasalendo a ogni battito del suo cuore, come al contraccolpo d’una caduta rovinosa. Via via che il rantolo aumentava d’intensità, il sacerdote infittiva le sue preghiere: le preghiere si mescolavano ai singhiozzi soffocati di Bovary e ogni tanto tutto pareva scomparire nel sordo mormorio delle sillabe latine, rintoccanti come una campana. D’improvviso si sentirono sul marciapiede un frastuono di pesanti zoccoli, lo strascicare d’un bastone, poi una voce, una voce roca che cantava: «Spesso d’estate il calor 48 fa sognare alle pupe l’amor.» Emma balzò su, come un cadavere galvanizzato, i capelli tutti sciolti, le pupille fisse, beanti. «Per raccogliere per bene la messe dalla falce tagliata la mia Nanette s’è chinata verso il solco donde proviene.» «Il cieco!» gridò. E scoppiò a ridere, un riso atroce, frenetico, disperato; credeva di vedere la ripugnante faccia del mendico drizzarsi come un incubo nelle tenebre eterne. «Ma un vento forte soffiò le gonne corte rubò!» Una convulsione la rovesciò sul materasso. Tutti si avvicinarono. Non esisteva più. 49 Brano n. 9 Il suicidio dei coniugi Raquin (tratto da: Émile Zola, Thérèse Raquin, trad. di Maurizio Grasso, Newton Compton editori, Roma 1995, pp. 140-142 e 164-168) Da due mesi Thérèse e Laurent si dibattevano nelle angosce della loro unione.15 Soffrivano l’uno a causa dell’altro. Fu così che l’odio crebbe lentamente dentro di loro, che finirono per lanciarsi sguardi di collera, pieni di sorde minacce. Era destino che tra di loro sopravvenisse l’odio. Si erano amati come animali, con una passione calda, tutta sangue; poi, nel pieno della sovraeccitazione del crimine, il loro amore si era trasformato in paura, e avevano cominciato a provare una sorta di terrore fisico dei rispettivi baci; ora sotto la sofferenza che il matrimonio e la vita in comune imponevano loro, si ribellavano e si facevano travolgere dall’ira. Fu un odio atroce, fatto di crisi terribili. Sentivano perfettamente di essere d’impaccio l’uno all’altro; si dicevano che avrebbero condotto un’esistenza tranquilla, se solo avessero potuto evitare di trovarsi perennemente faccia a faccia. Quando erano insieme, avevano l’impressione che un enorme peso li soffocasse; avrebbero voluto scrollarsi quel peso di dosso, annientarlo; si mordevano le labbra, pensieri violenti attraversavano i loro occhi chiari, erano afferrati dalla voglia di divorarsi a vicenda. Un solo pensiero li rodeva nell’intimo: si irritavano contro il loro crimine, si disperavano per aver sconvolto per sempre la loro esistenza. Da questo traevano origine tutta la loro furia e tutto il loro odio. Avvertivano che il male era incurabile, che avrebbero sofferto fino alla morte per l’omicidio di Camille, e questa idea di perpetua sofferenza li esasperava. Non sapevano su che cosa sfogarsi, se la prendevano con se stessi, si maledicevano. Non volevano riconoscere esplicitamente che il loro matrimonio era il fatale castigo del delitto; si rifiutavano di dare ascolto alla voce interiore che gridava loro la verità, mettendo sotto i loro occhi la storia della loro vita. Eppure, nelle crisi impetuose che li scuotevano, ciascuno dei due leggeva chiaramente in fondo alla propria collera, indovinava i furori del proprio essere egoista che li aveva spinti all’assassinio pur di appagare i propri appetiti, e che nell’assassinio aveva trovato unicamente un’esistenza desolata e intollerabile. Rammentavano il passato, sapevano che la loro fallace speranza di lussuria e di placida felicità li conduceva inevitabilmente al rimorso; se avessero potuto abbracciarsi in pace e vivere in gioia, 15 Thérèse Raquin è la nipote della signora Raquin, anziana merciaia trasferitasi dalla provincia a Parigi. Thérèse ne aha sposato il figlio e cugino, il debole e malaticcio Camille. Sedotta da un amico di Camille, il pittore Laurent, è complice dell’assassinio di suo marito da parte di Laurent. Dopo poco tempo i due amanti si sposano, ma in un clima di rimorsi e terribili allucinazioni, i due coniugi assassini sentono crescere in ciascuno un sordo odio nei confronti dell’altro e si rinfacciano a vicenda l’assassinio di Camille. La vecchia Raquin, colpita da paralisi, assiste muta e inerte alle tremende liti fra Laurent e Thérèse. 50 non avrebbero compianto Camille e si sarebbero ingrassati del loro crimine. Ma il loro corpo si era ribellato, rifiutando il matrimonio, e ora si chiedevano con orrore dove li avrebbero portati lo spavento e il disgusto. Davanti a loro vedevano soltanto un futuro di terrore, un epilogo sinistro e violento. Allora, come due nemici che fossero stati attaccati insieme e che facessero vani sforzi per sottrarsi a quell’abbraccio forzato, tendevano i muscoli e i nervi, si irrigidivano senza però riuscire a liberarsi. Poi, comprendendo che non avrebbero mai potuto eludere quella morsa, irritati dalle corde che segavano la loro carne, nauseati dal loro contatto, sentendo crescere ora dopo ora il proprio malessere, dimenticando di essersi legati loro stessi l’uno all’altro, e non riuscendo a sopportare quella catena un istante di più, si facevano rimproveri sanguinosi, tentavano di soffrire meno, di lenire le ferite che si procuravano, ingiuriandosi, stordendosi con le loro grida e le loro accuse. Ogni sera scoppiava una lite. Si sarebbe detto che gli assassini cercassero ogni pretesto per esasperarsi, per sfogare i loro nervi sfiniti. Si spiavano, si scandagliavano con lo sguardo, frugando l’uno nelle ferite dell’altro, scovando il vivo di ogni piaga, e provando un’aspra voluttà nel farsi gridare dal dolore. Vivevano in seno a una continua irritazione, stanchi di se stessi, non riuscendo a sopportare una parola, un gesto, uno sguardo senza soffrire e senza delirare. Il loro essere intero era ormai predisposto per la violenza; la più lieve impazienza, la contrarietà più banale si moltiplicavano stranamente nel loro organismo squilibrato, diventavano bruscamente enormi per brutalità. Un niente sollevava una tempesta che durava fino all’indomani. Un piatto troppo caldo, una finestra aperta, una smentita, una semplice osservazione erano sufficienti a provocare in loro autentiche crisi di follia. E sempre, a un certo punto della disputa, si rinfacciavano l’annegato. Di parola in parola, arrivavano a rimproverarsi l’affogamento di Saint-Ouen;16 allora vedevano rosso, si esaltavano fin o alla rabbia. Erano scene atroci, soffocamenti, percosse, grida ignobili, vergognose brutalità. Di solito, Thérèse e Laurent si esasperavano in questo modo dopo aver mangiato; si chiudevano nella sala da pranzo perché il frastuono della loro disperazione non fosse udito da altri. Là potevano divorarsi a piacimento, rintanati in quella stanza umida, in quella sorta di caverna che la lampada rischiarava di una luce giallastra. Le loro voci, nel cuore del silenzio e della tranquillità dell’aria, assumevano asprezze laceranti. E non la smettevano finché non erano morti di stanchezza; soltanto allora potevano andare a gustare qualche ora di riposo. Le liti divennero un specie di necessità per loro, un espediente per propiziarsi il sonno frastornando i propri nervi. (…) Un simile stato di guerra non poteva più durare. Thérèse e Laurent, ciascuno per proprio conto, arrivarono a sognare di sottrarsi con un nuovo crimine alle conseguenze del primo crimine. Bisognava assolutamente che uno dei due sparisse perché l’altro potesse godersi un po’ di riposo. Fecero questa riflessione contemporaneamente; tutti e due avvertirono l’urgente necessità di una separazione, tutti e due desiderarono una separazione eterna. L’omicidio che si 16 Camille era stato gettato nella Senna, durante una gita in barca, da Laurent, che poi aveva finto di soccorrerlo. 51 presentò nella loro mente parve loro naturale, fatale, corollario necessario all’omicidio di Camille. Non lo discussero neppure, ne accettarono il progetto come unico mezzo di salvezza. Laurent decise che avrebbe ucciso Thérèse, perché Thérèse lo affliggeva, perché poteva rovinarlo con una sola parola e gli causava sofferenze insopportabili; Thérèse decise che avrebbe ucciso Laurent per le medesime ragioni. Una così ferma risoluzione di compiere un nuovo assassinio li calmò un po’. Si prepararono. Tuttavia agivano febbrilmente, senza troppa prudenza; riflettevano soltanto vagamente sulle conseguenze probabili di un omicidio, senza la sicurezza di una fuga o dell’impunità. Sentivano invincibilmente il bisogno di uccidersi, obbedivano a quel bisogno come animali furiosi. Non si sarebbero denunciati per il loro primo delitto, che avevano dissimulato con tanta abilità, e ora rischiavano la ghigliottina commettendone un secondo che neppure si curavano di nascondere. C’era in questo comportamento una contraddizione che nemmeno loro vedevano. Si dicevano semplicemente che, se fossero riusciti a fuggire, sarebbero andati a vivere all’estero, dopo aver speso tutto il denaro. Thérèse, nel giro di una ventina di giorni, aveva prelevato le poche migliaia di franchi che restavano della sua dote, e li teneva chiusi in un cassetto che Laurent conosceva. Non si chiesero neppure per un istante che cosa ne sarebbe stato della signora Raquin. Laurent aveva incontrato, qualche settimana prima, un suo vecchio compagno di collegio, allora assistente presso un celebre chimico assai esperto di tossicologia. Quel compagno gli aveva fatto visitare il laboratorio dove lavorava, mostrandogli le apparecchiature, dicendogli il nome delle droghe. Una sera Laurent, quando si era ormai deciso per l’omicidio, mentre Thérèse beveva davanti a lui un bicchiere di acqua e zucchero, si ricordò di aver visto in quel laboratorio un piccolo flacone di terracotta contenente acido prussico. Rammentando ciò che gli aveva detto il giovane assistente chimico sui terribili effetti di quel veleno, che fulmina e lascia pochissime tracce, pensò fosse proprio il veleno che faceva per lui. Il giorno seguente riuscì a scappare senza essere seguito, si recò dal suo amico e, mentre costui gli dava le spalle, rubò il flaconcino di terracotta. Quello stesso giorno, Thérèse approfittò dell’assenza di Laurent per far molare un grosso coltello da cucina che serviva per rompere lo zucchero, e che era tutto sbrecciato. Nascose il coltello in un cantuccio della credenza. Il giovedì seguente, la serata dai Raquin – come gli invitati continuavano a chiamarla – fu particolarmente allegra. Si prolungò fino alle undici e mezza. Grivet,17 congedandosi, dichiarò di non aver mai trascorso ore più liete. Suzanne,18 che era incinta, parlò per tutto il tempo con Thérèse dei suoi dolori e delle sue gioie. Thérèse sembrava ascoltarla con grande interesse; gli occhi fissi, le labbra chiuse, di tanto in tanto chinava la testa; le palpebre, abbassandosi, proiettavano l’ombra su tutto il viso. Laurent, da parte sua, si mostrava decisamente attento ai racconti del vecchio Michaud19 e di Olivier.20 Quei signori erano Frequentatore della famiglia Raquin: è un vecchio impiegato delle ferrovie statali, dirigente dell’ufficio in cui lavorava Camille. 18 Suzanne è la nuora del commissario Michaud. 19 Un commissario di polizia, vecchio amico della signora Raquin. 17 52 inesauribili, e Grivet doveva mettercela tutta per riuscire a insinuare una o due parole in mezzo alle frasi di padre e figlio. Del resto aveva per loro un certo rispetto; trovava che sapessero parlare. Quella sera, dal momento che i discorsi avevano sostituito il gioco, esclamò candidamente che la conversazione dell’ex commissario di polizia lo divertiva quasi quanto una partita di domino. Da quasi quattro anni i Michaud e Grivet passavano il giovedì sera in casa dei Raquin, eppure non si erano annoiati una sola volta in quelle serate monotone che si riproponevano con irritante regolarità. Non avevano mai sospettato, neppure per un istante, il dramma che si recitava in quella casa, così pacifica e mite quando vi entravano loro. Olivier di solito sosteneva, con una battuta da poliziotto, che la sala da pranzo puzzava di onestà. Grivet, per non essere da meno, l’aveva chiamata il Tempio della Pace. In due o tre circostanze, negli ultimi tempi, Thérèse spiegò i lividi che le segnavano il viso dicendo agli invitati che era caduta. Nessuno di loro, d’altra parte, avrebbe potuto riconoscervi i segni dei pugni di Laurent; erano convinti che la vita matrimoniale dei loro ospiti fosse un modello di dolcezza e d’amore. La paralitica non aveva più tentato di rivelare le infamie che si nascondevano dietro la spenta tranquillità delle serate del giovedì. Testimone delle liti strazianti dei due assassini, avendo intuito che la crisi finale un giorno o l’altro sarebbe scoppiata, fatale conseguenza della successione degli eventi, finì per convincersi che le cose sarebbero andate avanti da sé senza bisogno del suo aiuto. Da quel momento si mise in disparte e lasciò agire gli sviluppi dell’assassinio di Camille, che dovevano a loro volta uccidere i due assassini. Si limitò a pregare il cielo di concederle vita sufficiente per assistere al violento epilogo che prevedeva; aveva un ultimo desiderio: pascere i suoi occhi con le supreme sofferenze che avrebbero stroncato Thérèse e Laurent. Quella sera Grivet andò a sedersi al suo fianco e chiacchierò a lungo, facendo come al solito domande e risposte. Ma non riuscì a ottenere da lei neppure uno sguardo. Quando suonarono le undici e mezza, gli invitati si alzarono bruscamente. «Si sta così bene qui da voi», dichiarò Grivet, «che non si pensa mai ad andarsene.» «Il fatto è», annuì Michaud, «che qui non mi viene mai sonno, mentre a casa mia alle nove sono già a letto.» Anche Olivier credette di dover dire la sua. «Vedete», disse mostrando i suoi denti gialli, «in questa stanza c’è odore di onestà; per questo vi si sta così bene.» Grivet, infastidito di essere stato preceduto, si mise a declamare, facendo un gesto enfatico: «Questa stanza è il Tempio della Pace». Nel frattempo Suzanne si annodava i lacci del cappello e diceva a Thérèse: «Verrò domani mattina alle nove». «No», si affrettò a rispondere la giovane donna, «venite nel pomeriggio… Probabilmente in mattinata dovrò uscire.» 20 Figlio di Michaud e marito di Suzanne. 53 Parlava con una voce strana, turbata. Accompagnò gli invitati fino al passaggio; con lei scese anche Laurent, che portava un lume. Quando furono soli, entrambi emisero un profondo sospiro di sollievo; una sorda impazienza doveva averli divorati per tutta la serata. Dal giorno precedente erano più cupi, più inquieti l’uno davanti all’altra. Evitarono di guardarsi e salirono silenziosamente. Le loro mani avevano leggeri tremori convulsi, e Laurent fu costretto a poggiare la lampada sul tavolo per non lasciarla cadere. Prima di mettere a letto la signora Raquin, erano soliti rimettere in ordine la sala da pranzo, preparare un bicchiere di acqua e zucchero per la notte, andare e venire così attorno alla paralitica finché tutto fosse stato pronto. Ma quella sera, dopo essere saliti, si sedettero un istante, con gli occhi assorti, le labbra pallide. Dopo un silenzio: «Bene! Non andiamo a letto?», chiese Laurent, che sembrava uscire di soprassalto da un sogno. «Sì, sì, andiamo a letto», rispose Thérèse tremando, come se avesse un gran freddo. Si alzò e prese la caraffa. «Lascia stare», esclamò suo marito con una voce che si sforzava di rendere naturale, «penserò io a preparare il bicchiere di acqua e zucchero… Occupati della zia.» Tolse la caraffa dalle mani di sua moglie e riempì un bicchiere. Poi, volgendo in parte la schiena, vi vuotò il flaconcino di terracotta, aggiungendo una zolletta di zucchero. Nel frattempo, Thérèse si era accovacciata davanti alla credenza; aveva preso il coltello da cucina e cercava di dissimularlo in una tasca. In quell’istante, quella sensazione strana che precede l’avvicinarsi di un pericolo fece girare la testa ai due coniugi con un moto istintivo. Si guardarono. Thérèse vide il flacone nelle mani di Laurent, e Laurent notò il lampo bianco della lama che luccicava tra le pieghe della gonna di Thérèse. Si esaminarono così per qualche secondo, muti e freddi, il marito accanto al tavolo, la moglie china davanti alla credenza. Avevano capito. Ciascuno dei due si sentì raggelare sorprendendo il suo stesso pensiero nel complice. Leggendo reciprocamente quella segreta intenzione sui loro visi sconvolti, si fecero pietà e orrore. La signora Raquin, sentendo che la fine era prossima, li guardava con occhi fissi e penetranti. E bruscamente Thérèse e Laurent scoppiarono in lacrime. Una crisi suprema li spezzò, li gettò l’uno nelle braccia dell’altro, deboli come fanciulli. Ebbero come l’impressione che qualcosa di dolce e di tenero si fosse ridestato nel loro petto. Piansero, senza parlare, pensando alla strada fangosa che avevano percorso e che avrebbero continuato a percorrere se fossero stati abbastanza vili da vivere ancora. Allora, al ricordo del passato, si sentirono talmente stanchi, nauseati di se stessi, da provare un immenso bisogno di riposo, di annientamento. Si scambiarono un ultimo sguardo, uno sguardo di ringraziamento, davanti al coltello e al bicchiere di veleno. Thérèse prese il bicchiere, ne bevve la metà e lo tese a Laurent che lo vuotò. Fu un lampo. Caddero l’uno sull’altro, folgorati, trovando finalmente nella morte una 54 consolazione. La bocca della giovane donna andò a urtare, sul collo di suo marito, la cicatrice lasciata dai denti di Camille. I cadaveri rimasero per tutta la notte sul pavimento della sala da pranzo, contratti, rannicchiati, rischiarati dai riflessi giallastri della lampada che il paralume proiettava su di loro. E, per quasi dodici ore, fino a mezzogiorno dell’indomani, la signora Raquin, rigida e muta, li contemplò ai suoi piedi, non potendo saziare i suoi occhi, schiacciandoli con i suoi sguardi implacabili. 55 Brano n. 10 Un caso di avvelenamento per Sherlock Holmes21 (tratto da: Arthur Conan Doyle, Il segno dei quattro, trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto, in A. C. Doyle, Tutto Sherlock Holmes, vol. I, Newton Compton editori, Roma 19932, pp. 152-161) CAPITOLO QUINTO La tragedia di Pondicherry Lodge (…) La nostra guida22 ci aveva lasciato la lanterna. Holmes la fece oscillare lentamente all’intorno, scrutando attentamente la casa e i cumuli di rifiuti che costellavano il terreno. La signorina Morstan ed io rimanemmo l’uno accanto all’altra, tenendoci per mano. L’amore è una cosa davvero straordinaria e sottile: eravamo lì, due persone che non si erano incontrate prima di quel giorno, non si erano scambiate né una parola né uno sguardo affettuoso; eppure, in un momento di pericolo, le nostre mani si erano istintivamente cercate. Non ho mai smesso di stupirmene ma, in quel momento, sembrò la cosa più naturale del mondo che io mi volgessi a lei e, come mi ha spesso ripetuto, lei si volgesse istintivamente a me per conforto e protezione. Rimanemmo così, tenendoci per mano come due bambini, e malgrado l’oscurità materiale e morale che ci circondava, c’era la pace nei nostri cuori. «Che strano luogo!», disse guardandosi intorno. «Sembra che tutte le talpe dell’Inghilterra si siano date da fare. Ho visto qualcosa di simile sul fianco di una collina vicino a Ballarat, dove c’erano stati dei cercatori d’oro.» «Il motivo è lo stesso», disse Holmes. «Queste sono le tracce lasciate da quelli che cercavano il tesoro. Non dimentichi che l’hanno cercato per sei anni. Non c’è da meravigliarsi se il terreno sembra una cava di ghiaia.» 21 La trama del romanzo Il segno dei quattro ruota intorno a un tesoro rubato in India. Il maggiore Sholto e il capitano Morstan, delle truppe inglesi, sottraggono un tesoro di perle e pietre preziose al soldato Jonathan Small che lo aveva trovato assieme a tre suoi compagni. Poi Sholto sottrae il tesoro anche a Morstan. Durante una lite tra i due Morstan ha un attacco di cuore e muore. In seguito Sholto, prima di morire a sua volta, incarica i suoi due figli Thaddeus e Bartholomew di versare una parte di quel tesoro nascosto in casa alla giovane figlia di Morstan. Nel frattempo Small, messosi sulle tracce di Sholto, assieme a un piccolo indigeno delle isole Andamane, micidiale lanciatore di frecce avvelenate, si mette alla ricerca di Sholto e riesce a entrare in casa sua, alla ricerca del tesoro nascosto. Il piccolo indigeno Tonga, il compagno di Small, si cala dal tetto della casa e uccide con una freccia avvelenata il figlio di Sholto, Bartholomew, che aveva trovato il tesoro nascosto. La vicenda termina con la cattura di Jonathan Small che però, prima di essere arrestato da Sherlock Holmes, fa in tempo a gettare il tesoro nelle acque del Tamigi. Il brano presentato inizia con l’ingresso in casa Sholto di Sherlock Holmes, Watson e la figlia di Morstan. I tre sono guidati da Thaddeus Sholto, allarmato perché il fratello non dà più notizia di sé. E, in casa, giace Bartholomew senza vita, colpito da una freccia avvelenata. 22 Narra la vicenda in prima persona il dottor Watson, amico e aiutante del celebre investigatore. 56 In quell’attimo si spalancò la porta di casa e Thaddeus Sholto ne uscì correndo con le braccia avanti e un’espressione terrorizzata. «È successo qualcosa a Bartholomew!», gridò. «Sono spaventato! I miei nervi non resistono!» In effetti, quasi piagnucolava per lo spavento e il suo viso debole e agitato dalle contrazioni che sbucava dal grande collo di astrakan aveva l’espressione impotente e implorante di un bambino terrorizzato. «Entriamo in casa», disse Holmes in quel suo modo secco e deciso. «Sì, entrate, entrate!», ci scongiurò Thaddeus Sholto. «Davvero non me la sento di dare istruzioni.» Lo seguimmo tutti nella stanza della governante, sulla sinistra del corridoio. La vecchia camminava avanti e indietro con aria spaventata e irrequieta, torcendosi le dita, ma la vista della signorina Morstan sembrò tranquillizzarla un po’. «Dio benedica quel suo dolce viso tranquillo!», esclamò con un singulto isterico. «Mi fa bene guardarla. Oggi è stata proprio una giornata terribile!» La ragazza le diede qualche colpetto sulla mano magra e consumata dal lavoro mormorando poche, gentili parole di conforto femminile che riportarono un po’ di colore sul viso esangue della donna. «Il padrone si è chiuso dentro a chiave e non mi risponde», spiegò. «Ho aspettato tutto il giorno che mi mandasse a chiamare, perché spesso preferisce restare solo; ma un’ora fa, temendo che ci fosse qualcosa che non andava, sono salita e ho guardato attraverso il buco della serratura. Deve salire, signor Thaddeus – deve salire e vedere con i suoi occhi. Per dieci lunghi anni ho visto il signor Bartholomew Sholto, in tristezza e in allegria, ma non l’ho mai visto con una faccia come quella che ha adesso.» Sherlock Holmes prese la lampada e fece strada, perché Thaddeus Sholto batteva i denti dalla paura. Era così scosso che dovetti sorreggerlo col braccio mentre salivamo le scale, tanto gli tremavano le gambe. Due volte, mentre andavamo su, Holmes tirò fuori di tasca la sua lente per esaminare attentamente dei segni che a me sembravano semplicemente macchie informi di polvere sulla stoia di cocco che serviva da guida. Saliva lentamente, gradino dopo gradino, gettando occhiate penetranti a destra e a sinistra. La signorina Morstan era rimasta indietro con la terrorizzata governante. La terza rampa di scale finiva con un corridoio angusto, abbastanza lungo, con un grande arazzo indiano sulla destra e tre porte sulla sinistra. Holmes avanzava con la stessa andatura lenta e metodica mentre noi gli stavamo attaccati alle calcagna e le nostre ombre scure si allungavano dietro di noi lungo il corridoio. La terza porta era quella che cercavamo. Holmes bussò senza ricevere risposta, poi provò a girare la maniglia per aprire. Ma era chiusa dall’interno con un grosso e robusto chiavistello come potemmo vedere quando accostammo la lampada. La chiave, però, era girata e quindi il buco della serratura non era completamente tappato. Sherlock Holmes si chinò per guardare e si rialzò immediatamente ispirando bruscamente il respiro. «C’è qualcosa di diabolico in questo, Watson», disse, più scosso di quanto lo avessi mai visto prima. «Che ne pensa?» 57 Mi chinai a guardare dal buco della serratura e indietreggiai inorridito. La stanza era inondata dal chiarore lunare e illuminata da un chiarore vago e sfuggente. Dirimpetto ai miei occhi, sospeso, per così dire, nell’aria perché tutto al di sotto era in ombra, pendeva un viso – lo stesso viso del nostro compagno Thaddeus. Lo stesso cranio allungato e lucido, la stessa corona di ispidi capelli rossi, lo stesso aspetto esangue. Ma i lineamenti erano sconvolti in un sorriso orribile, un ghigno fisso e innaturale che in quella stanza silenziosa, illuminata dalla luna, era più terrificante di qualsiasi espressione minacciosa o stravolta. Un viso talmente simile a quello del nostro piccolo amico ch emi girai a guardarlo per essere sicuro che fosse veramente lì con noi. Poi mi venne in mente che aveva accennato al fatto che lui e il fratello erano gemelli. «È una cosa terribile!», dissi ad Holmes. «Cosa possiamo fare?» «Bisogna abbattere la porta», rispose, lanciandosi contro l’uscio con tutto il suo peso. Scricchiolò e cigolò ma non cedette. Ci lanciammo di nuovo, insieme, questa volta, e finalmente la porta cedette con uno schianto secco e ci trovammo nella stanza di Bartholomew Sholto. Sembrava fosse stata attrezzata come un laboratorio di chimica. Sulla parete di fronte alla porta era allineata una doppia fila di bottiglie col tappo di vetro, e sul tavolo si ammonticchiavano becchi Bunsen, provette e storte. Negli angoli c’erano delle damigiane impagliate contenenti acidi. Sembrava che una perdesse, o fosse stata rotta perché ne era fuoriuscito un liquido scuro e nell’aria gravava un odore stranamente acre, simile a quello del catrame. Da un lato della stanza, in mezzo a una quantità di detriti di stucco e di cemento, c’erano dei gradini e sopra di essi un’apertura nel soffitto abbastanza larga da far passare un uomo. In fondo ai gradini c’era una lunga corda buttata sul pavimento. Accanto al tavolo, su uno scranno di legno, sedeva il padrone di casa, tutto ripiegato, con la testa affondata sulla spalla sinistra e quello spettrale, imperscrutabile sorriso sul volto. Era ormai rigido e freddo e evidentemente era morto da parecchie ore. Mi sembrò che non solo i lineamenti ma tutte le membra fossero contorte e ritorte nel modo più straordinario. Accanto alla mano, poggiata sul tavolo, c’era uno strumento singolare – un bastone marrone, di grana fine, con l’impugnatura di pietra a forma di martello dal quale pendeva un grossolano flagello di corda grezza. Vicino, un foglietto di carta strappato da un taccuino sul quale erano vergate rozzamente alcune parole. Holmes gli diede un’occhiata e poi me lo porse. «Guardi», disse inarcando significativamente le sopracciglia. Alla luce della lanterna lessi, con un fremito di orrore, «Il segno dei quattro». «In nome di Dio, che significa tutto questo?», chiesi. «Significa omicidio», rispose chinandosi sul corpo senza vita. «Ah! Me lo aspettavo. Guardi qui!» Indicò quella che sembrava una lunga spina nera infissa nella pelle, proprio sopra l’orecchio. «Sembra una spina», dissi. «È una spina. Può estrarla. Faccia attenzione, è avvelenata.» 58 Presi la spina fra il pollice e l’indice. Venne fuori con tale facilità che non lasciò nemmeno un segno. Solo un puntolino di sangue indicava il punto dove era penetrata. «Per me è un mistero incomprensibile», dissi. «Si fa sempre più complicato invece di chiarirsi.» «Al contrario», rispose, «si fa più chiaro ogni minuto. Mi mancano solo pochi elementi per avere il caso completo.» Dal momento in cui eravamo entrati nella stanza avevamo quasi dimenticato la presenza del nostro compagno. Era rimasto sulla soglia, il ritratto del terrore, torcendosi le mani e lamentandosi. D’improvviso però ebbe un grido, acuto e querulo. «Il tesoro è scomparso!», esclamò. «Lo hanno derubato del tesoro! Quello è il buco attraverso il quale lo calammo nella stanza. L’ho aiutato io stesso! Sono l’ultima persona che lo ha visto! L’ho lasciato qui ieri sera e, mentre scendevo, ho sentito che girava la chiave nella serratura.» «Che ora era?» «Le dieci. E adesso è morto, e bisognerà chiamare la polizia, e sospetteranno che io c’entri per qualche cosa. Oh sì, sono sicuro che lo sospetteranno. Ma voi non lo pensate, vero, signori? Non penserete certo che sia stato io? Vi pare che vi avrei portato qui se fossi stato io? Povero me! Povero me! Mi sento impazzire!» Agitava le braccia e batteva i piedi in una sorta di frenesia convulsa. «Non ha niente da temere, signor Sholto», disse Holmes con gentilezza mettendogli una mano sulla spalla. «Segua il mio consiglio, prenda la carrozza e vada al comando di polizia a riferire l’accaduto. Si offra di assisterli in qualsiasi modo. Noi aspetteremo qui il suo ritorno.» L’ometto obbedì, quasi come un automa, e lo sentimmo scendere le scale inciampando nel buio. CAPITOLO SESTO Sherlock Holmes dà una dimostrazione «Allora, Watson», disse Holmes fregandosi le mani, «abbiamo una mezz’ora tutta per noi. Facciamone buon uso. Come le ho detto, il mio caso è quasi completo; ma non dobbiamo peccare di eccessiva fiducia. Per semplice che appaia adesso, questa faccenda potrebbe nascondere qualcosa di più profondo.» «Semplice!», esclamai stupito. «Certamente», ripeté con l’aria di un professore di medicina che dà spiegazioni agli studenti. «Si sieda in quell’angolo, così le sue impronte non complicheranno le cose. E adesso, al lavoro! In primo luogo, queste persone come sono entrate, e come sono uscite? La porta è rimasta chiusa fin da ieri sera. E la finestra?» Vi si accostò con la lampada mormorando ad alta voce le sue osservazioni, rivolto a sé stesso più che a me. «La finestra è chiusa dall’interno. L’intelaiatura è solida. Non ci sono cardini laterali. Apriamola. Non c’è nessuna tubatura vicina. Il tetto è fuori portata. Eppure, qualcuno si è arrampicato sulla finestra. L’altra notte ha piovuto un po’. Ecco l’impronta di una scarpa sul davanzale. E qui c’è un’impronta circolare di fango, e 59 anche qui, sul pavimento; e di nuovo qui, vicino al tavolo. Guardi, Watson! ecco una prova preziosa.» Osservai il dischetto fangoso, dai contorni ben definiti. «Questa non è l’impronta di un piede», dissi. «È qualcosa di molto più utile. È l’impronta di una gamba di legno. Vede qui sul davanzale, c’è l’impronta di uno stivale, uno stivale pesante col tacco largo, di metallo, e accanto l’impronta del moncone di legno.» «L’uomo con l’arto artificiale.» «Appunto. Ma c’è stato anche qualcun altro – un complice molto abile ed efficiente. Lei potrebbe scalare quel muro, dottore?» Guardai fuori dalla finestra. La luna illuminava ancora quell’angolo della casa. Eravamo a buoni sessanta piedi dal terreno e, per quanto guardassi, non vedevo il minimo appiglio, nemmeno una fessura nel muro. «È assolutamente impossibile», risposi. «Senza aiuto, lo è. Ma supponiamo che nella stanza ci sia un amico che le cala giù quella bella corda solida che vedo nell’angolo, assicurandone un capo a questo grosso gancio nella parete. Allora, secondo me, se lei fosse un individuo atletico potrebbe arrampicarsi, anche con la gamba di legno. Naturalmente, se ne andrebbe con lo stesso sistema e il suo complice tirerebbe su la corda, la staccherebbe dal gancio, chiuderebbe la finestra, rimettendo il nottolino interno, e uscirebbe dalla parte da cui è entrato. Un altro piccolo particolare da tener presente», aggiunse maneggiando la corda, «è che il nostro amico con la gamba di legno è un bravo arrampicatore, ma non è un marinaio di professione. Aveva le mani troppo morbide. La mia lente mi ha rivelato varie macchie di sangue, specialmente all’estremità della corda, dalle quali deduco che è scivolato giù a una velocità tale da spellarsi le mani.» «Tutto questo va benissimo», osservai; ma la faccenda è più incomprensibile che mai. Chi è questo complice misterioso? Come è entrato nella stanza?» «Già, il complice!», ripeté Holmes perplesso. «La faccenda del complice presenta elementi molto interessanti che rendono questo caso tutt’altro che banale. Credo che questo complice costituisca una novità negli annali del crimine di questo paese – anche se casi analoghi si sono verificati in India e, se la memoria non m’inganna, in Senegambia.» «Come è entrato, allora?», gli feci eco. «La porta è chiusa a chiave; la finestra è inaccessibile. Attraverso il camino?» «La grata è assolutamente troppo piccola», rispose. «Avevo già pensato a quella possibilità.» «E allora, come?», insistei. «Lei non applica il mio principio», disse scuotendo la testa. «Quante volte le ho detto che, eliminando l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità? Sappiamo che non è entrato né dalla porta, né dalla finestra, né dal camino. Sappiamo anche che non poteva essersi nascosto nella stanza perché non c’è posto dove avrebbe potuto nascondersi. Allora, quando è venuto?» «Attraverso il foro nel soffitto!», esclamai. 60 «Certamente. È così che deve aver fatto. Se per cortesia mi regge la lampada, ora estenderemo le nostre ricerche al locale superiore – alla stanza segreta nella quale fu trovato il tesoro.» Salì i gradini e, afferrandosi con le due mani alle travi, con un’oscillazione entrò nella soffitta. Poi, sdraiandosi faccia a terra, afferrò la lampada che gli porgevo, reggendola mentre io lo seguivo. Ci trovammo in un locale di circa dieci piedi per sei. Il pavimento era formato dalle travi intervallate da un sottile strato di incannucciato e stucco così che, per camminare, bisognava passare da una trave all’altra. Il soffitto era a punta e costituiva evidentemente lo scheletro interno del tetto della casa. Non c’erano mobili di sorta e sul pavimento si accumulava la polvere di anni. «Vede, ci siamo», disse Sherlock Holmes appoggiando la mano contro la parete obliqua. «Questa è una botola che porta sul tetto. La spingo indietro ed ecco il tetto, con una pendenza leggera. Questa, dunque, è la via attraverso la quale è entrato il Numero Uno. Vediamo adesso se possiamo trovare altre tracce circa la sua identità.» Abbassò la lampada verso il pavimento e, per la seconda volta quella notte, gli si dipinse sul viso un’espressione di stupore. Seguii il suo sguardo e mi si accapponò la pelle. Il pavimento era interamente cosparso di impronte di un piede nudo, ben delineato, perfettamente formato ma la cui misura era meno della metà di quella di un adulto. «Holmes», sussurrai, «è stato un bambino a compiere questo misfatto orrendo.» In un attimo aveva ripreso il suo autocontrollo. «Per un momento sono rimasto sconcertato», disse, «ma è una cosa più che naturale. Mi ha tradito la memoria, altrimenti avrei dovuto prevederlo. Qui non c’è altro da vedere. Torniamo giù.» «Allora, qual è la sua teoria circa quelle orme?», gli chiesi ansiosamente quando fummo di nuovo giù nella stanza. «Mio caro Watson, cerchi di fare una piccola analisi anche lei», mi rispose con un’ombra d’impazienza. «Conosce i miei metodi. Li applichi, e sarà istruttivo confrontare i due risultati.» «Non mi viene in mente nulla che possa spiegare questi fatti», dissi. «Fra poco le sarà tutto chiaro», commentò con aria distratta. «Credo che qui non ci sia altro d’importante, comunque darò un’occchiata.» Tirò fuori la lente e un metro e, in ginocchio, si aggirò in fretta per la stanza misurando, confrontando, esaminando, con quel suo naso sottile a pochi centimetri dal pavimento, osservando tutto con quei suoi occhi piccoli e luminosi, infossati come quelli di un uccello. I suoi movimenti erano così rapidi, silenziosi e furtivi, simili a quelli di un segugio che fiuta una preda, che non potei fare a meno di pensare quale temibile criminale avrebbe potuto essere se avesse impiegato la sua energia e la sua sagacia contro la legge, anziché servirsene per difenderla. Mentre esplorava tutt’intorno borbottava fra sé e sé e, alla fine, lanciò un grido di gioia. 61 «Siamo decisamente fortunati», disse. «Adesso non dovremmo avere problemi. Il Numero Uno ha avuto la sfortuna di calpestare il creosoto.23 Può vedere il profilo esterno di quel piccolo piede qui, accanto a questo sudiciume maleodorante. Vede, la damigiana si è rotta e il liquido è colato fuori.» «E allora?», domandai. «E allora, lo abbiamo in pugno, ecco tutto», rispose. «Conosco un cane che seguirebbe quell’odore fino in capo al mondo. Se una muta di segugi può seguire un’aringa trascinata attraverso tutta una contea, pensi a dove un cane particolarmente addestrato può seguire un odore così pungente. Sembra una somma nella regola del tre. La risposta, dovrebbe darci… guarda, guarda! Ecco i rappresentanti ufficiali della legge.» Dal basso si sentivano passi pesanti e un clamore di voci e la porta d’ingresso che si chiudeva con un tonfo. «Prima che arrivino», disse Holmes, «poggi la mano sul braccio di questo povero diavolo, e qui, sulla gamba. Cosa sente?» «I muscoli sono rigidi come un pezzo di legno.» «Appunto. Sono in uno stato di contrazione estrema, ben lontano dal normale rigor mortis. Aggiungendo poi la distorsione die lineamenti, questo sorriso ippocratico, o risus sardonicus come lo definiva l’antico medico, quale conclusione ne trarrebbe?» «Morte provocata da un potente alcaloide vegetale», risposi, «qualche sostanza simile alla stricnina che provocherebbe il tetano.» «Questa è stata appunto la mia idea nel momento stesso in cui ho notato la tensione dei muscoli facciali. Entrando nella stanza ho immediatamente guardato in quale modo il veleno era entrato in circolo. Come ha visto, ho scoperto una spina, lanciata o conficcata senza particolare forza nel cuoio capelluto. Osservi come il punto colpito si trovi direttamente sotto il foro nel soffitto se il corpo fosse seduto normalmente. E ora esamini questa spina.» La presi con precauzione, portandola alla luce della lanterna. Era una spina lunga, nera e acuminata, leggermente lucida sulla punta come per una qualche sostanza gommosa disseccata. La parte smussata era stata tagliata e arrotondata con un coltello. «È una spina che si può trovare in Inghilterra?», mi chiese. «No di certo.» «Da tutti questi elementi, dovrebbe poter trarre delle conclusioni. Ma arrivano le forze ufficiali, e quelle ausiliarie possono battere in ritirata.» (…) 23 Un medicinale disinfettante. 62 Brano n. 11 La bottega di don Saverio La Monica, farmacista palermitano del Settecento24 (tratto da: Luigi Natoli (William Galt), La vecchia dell’aceto, a cura di Giuseppe Bonomo, Flaccovio Editore, Palermo 1979, pp. 78-81) Don Saverio La Monica, aromatario, aveva la sua bottega nella strada della Gioiamia. Aromatario significava, in quel tempo, farmacista. Era un uomo più che maturo, che trascorreva la vita dietro il banco a pestare, impastare, far pillole, cartine di polveri, elettuari, sciroppi ed emulsioni. Con gli occhiali sul naso, le maniche rimboccate, eseguiva le ricette barattando una parola con questo, una parola con quell’altro avventore. E di avventori non ne mancavano; perché in tutto il quartiere del Capo, nessun aromatario godeva tanta buona reputazione quanto lui, perché aveva la bottega fornita di tutte le medicine prescritte dall’ordinanza del pretore, il quale rivestiva la carica di proto-medico della città; ma anche perché inventava certe misture efficacissime e sapeva dare consigli ai medici. La bottega si riconosceva da lontano, per il gran mortaio posto sopra uno sgabello sulla soglia un po’ sporgente in fuori; insegna questa comune a tutte le farmacie del tempo. Ai lati lungo gli stipiti c’erano due tabelle non grandi, rettangolari, in una delle quali un pittore da insegne aveva dipinto il bastone di Esculapio con due serpenti attorcigliati, e una leggenda latina: Altissimus creavit de terra medicamenta et vir prudens non abhorret ab illis;25 nell’altra tabella era dipinto Sant’Andrea protettore degli speziali, con la leggenda: Cedite vos, qui consulitis mortalibus artes: vis ex vestra in nostra stat, caditque manu.26 La stanza che serviva da bottega non era molto grande e aveva uno scaffale in fondo, che occupava tutta la larghezza della parete; nel centro, in basso, c’era una porticina donde si passava nel laboratorio. Altri due scaffali, si partivano da quello in fondo, della stessa altezza, ma si arrestavano a metà della stanza. Nello spazio vuoto, da un lato, v’era il torchio, indispensabile a ogni aromatario per fabbricare olio di mandorle o di ricino; dalla parte opposta v’erano addossate alla parete alcune sedie molto sudice e con l’impagliatura rotta in qualche punto. Sulla cornice dello scaffale in fondo v’era un quadro che rappresentava la Vergine, dinanzi alla quale ardeva una lampada. Sotto, nel fregio, era dipinto a grandi lettere: Salus infirmorum, che poteva ben riferirsi alla Vergine come ai medicinali. I quali Il brano è tratto da La vecchia dell’aceto, romanzo dello scrittore palermitano Luigi Natoli, alias William Galt (18571941). Nel romanzo, pubblicato a puntate sul quotidiano “Il giornale di Sicilia” nel 1927, Natoli narra le vicende di un personaggio realmente esistito nel Settecento, Giovanna Bonanno, passata alla storia come famosa avvelenatrice. La Bonanno si era impossessata di un potente e misterioso veleno creato da un farmacista, l’aceto dei pidocchi e, tramite sue complici, lo forniva alle dame della nobiltà palermitana che, trescando con i loro amanti, desideravano sbarazzarsi degli scomodi mariti. Grazie al veleno della Bonanno, Palermo fu teatro di una catena di letali avvelenamenti che terminò quando la malefica donna venne processata e impiccata il 30 luglio 1789, in piazza Villena a Palermo. Nel brano presentato il farmacista don Saverio La Monica è l’ignaro fornitore del micidiale veleno alla “vecchia dell’aceto”. 25 “Dio creò le medicine dalla terra, e l’uomo prudente non rifugge da esse.” 26 “Voi che consigliate le arti ai mortali, cedete: la vostra forza cade dalle vostre mani e sta nelle nostre.” 24 63 facevano bella mostra, non di sé, ma dei recipienti in cui erano conservati. Erano vasi smaltati, della stessa grandezza, a vivaci colori, tutti di una forma allungata che si restringeva dolcemente a metà dell’altezza, per riallacciarsi gradatamente alla base; tutti presentavano uno scudo bianco incorniciato di giallo, in mezzo al quale era il nome del medicinale. In dialetto si chiamavano «burnii». Nello scaffale laterale, di destra, questi «burnii» avevano forma di bocce panciute con un collo breve, ed erano smaltate in bianco e azzurro, ed il nome del medicinale in nero. Nell’altro scaffale, a sinistra, c’erano bocce, bottiglie, boccette di vetro, e vasetti bianchi cilindrici. La ricchezza ed il lusso di una farmacia di allora erano nei vasi smaltati, ai quali gli antiquari hanno dato una caccia spoliatrice, approfittando della ignoranza e dello snobismo dei farmacisti. Spesso il medicinale non c’era; ma la burnia non mancava. Chi andava per comperare due grani di conserva di rose rosse, poteva leggere sulle bocce e sulle «burnie» i nomi della polvere di Guttetta, per guarire la eclampsia dei bambini, del sebeston, degli sciroppi di vitella, dicoria, rabarbaro, del discordio, dell’elettuario di Giustiniano Imperatore, dell’alcool (sic) fluore, dell’acqua teriacale, delle pillole di Lancellotto, e di quelle di tartaro di Bonzo, o delle universali di Becherio; dell’estratto di Scilla acoso, della tintura angelica, del grasso di vipera, dello specifico cefalico di Michaele, del sale sedativo Flomberg, dell’impiastro di Simone da Pacello, o di quello de Ranis, del trocisco di Aradonis, del vitrido di Marte, e via dicendo: medicinali nostrani e stranieri; e poi olio di mandorla, di lino, di ruta, di scorpione; polveri di assa fetida, agarico: i sief ossia collicii; e finalmente i veleni: arsenico, laudo liquido, cantaride, ecc. Insomma la spezieria di don Saverio La Monica non mancava di niente. Essa era fornita di quanto occorreva per i ricchi e per i poveri, secondo l’ordinanza.27 Sul banco c’erano le bilancette e i pesi, e la carta tagliata a quadretti per avvolgere le polveri e turare le boccette. Nella retrobottega poi v’erano storte, lambicchi, tubi, matracci, un grande fornello, fornellini portatili, boccioni grandi, recipienti di varia misura di porcellana, di vetro, di rame. Ma dappertutto v’erano le vestigia delle mosche; v’era dell’unto di olii e di pomate e un odore nauseabondo composto di tanti odori diversi. Non se ne doleva nessuno, perché vi si era avvezzi e poi, perché don Saverio sapeva con le sue storielle divertire i clienti che erano costretti ad aspettare la manipolazione delle medicine. Di tanto in tanto qualche medico di passaggio faceva fermare la mula o la portantina dinanzi la bottega e veniva a far quattro chiacchiere con don Saverio, e chi sa? ad acchiappare qualche cliente. Don Saverio per questo, si prestava volentieri a procurarne: e i medici gli si mostravano grati mandando i clienti ad eseguire le ricette da don Saverio, alla Gioiamia, che era un aromatario valentissimo, aveva fatto pratica nella spezieria dell’ospedale, e sostenuto l’esame di abilitazione dinanzi al Nobile e Salutifero Collegio degli Aromatari, magistrato supremo dell’aromateria; e chi volesse vedere il diploma, munito di bollo e di licenza di tenere bottega, egli li aveva in due quadretti, appesi di qua e di là sulle pareti. I medici allora, secondo l’ordinanza citata nel testo, avevano l’obbligo di segnare sulla ricetta se la medicina serviva per un ammalato povero, al quale si davano medicine meno costose di quelle per i ricchi. Si ignora se queste medicine “meno costose” fossero altrettanto efficaci quanto quelle per i ricchi. 27 64 Quella mattina di febbraio del 1788, don Saverio stava preparando delle cartine per il giovane cavaliere Ventimiglia che, seduto nella bottega aspettava e parlava di un omicidio clamoroso avvenuto in quei giorni, mentre in un canto stava una vecchia aspettando l’elemosina; quando entrò una donna scarmigliata e piangente, con una bimba fra le braccia, seguita da comari e da una folla di monelli, gridando: – Don Saverio;… la piccola mia muore!... Ha bevuto l’aceto dei pidocchi!... La piccola si contorceva. Don Saverio, balzò fuori dal banco, esclamando spaventato: – Santo diantani!... Come gliel’avete fatto bere? Diede un’occhiata alla piccina e in fretta e furia prese da uno scaffale dell’olio, vi mescolò dell’acqua, lo fece bere per forza alla piccina e con una penna di gallina le solleticò la gola. La piccina cominciò a recere, lì per terra; egli continuò quell’operazione, caricando nel tempo stesso di rimproveri e di male parole quella povera madre. – Ve l’ho raccomandato! ve l’ho detto che è veleno! Avete le teste di rape voialtre donne!... Peste che vi colga!... Se vostra figlia muore, vi denunzio e verrò a vedervi impiccare… Quella si scusava: la caraffina con l’aceto era nella scansia. Non sapeva neppure come la piccina l’avesse presa: era un vero demonio, che non le si poteva tener dietro. Intanto la piccina s’era vuotata; non aveva più nulla da rigettare. Don Saverio preparò una mistura, gliene fece bere qualche cucchiaio, raccomandò alla madre di somministrargliene un cucchiaio ogni ora e darle a bere del latte. – Tre tarì! – disse poi. – Glieli porterò, don Saverio, capirà che non avevo testa di prendere denari… Glieli porterò subito… – Purché questo «subito» non sia il giorno del giudizio. La donna se ne andò con in braccio la bambina afflosciata, col suo seguito di comari e monelli: e don Saverio fischiò verso la retrobottega e alla serva accorsa ordinò di pulire la bottega. – Che cos’è quest’aceto dei pidocchi? – domandò don Giovanni.28 – È una medicina preparata da me, che ammazza questi brutti insetti e tiene monde le teste di piccoli e grandi… – Ed è un veleno? – Eh! se è veleno?... Caspita!... Diede l’involtino al giovane: – Voscenza29 è servita, signor cavaliere… sono due tarì. Il giovane pagò e se ne andò. La vecchia era ancora lì, col bastoncello fra le mani e il sacco infilato al braccio. Ella aveva seguito con attenzione quella scena, dimenticando perché si era fermata nella bottega. La voce dell’aromatario la riscosse: questi prendendo dal cassetto una monetina da un grano, la diede alla vecchia dicendo: – Prendete, za’30 Anna. 28 29 Il nome del cavaliere Ventimiglia. Forma dialettale di “vostra eccellenza”. 65 – Il Signore la ripaghi in bene e in salute. La vecchia se ne andò trascinandosi sulle gambe. Il giovane cavaliere Giovanni Ventimiglia non avrebbe riconosciuto in quella vecchia più rugosa, più lurida, più gozzuta, quella comare Giovanna, che undici anni prima lo aveva accompagnato al palazzo di donna Elisabetta: né Giovanna avrebbe riconosciuto il figlio di Genoveffa Larina, nel giovane cavaliere che comperava delle polverine nell’aromateria di don Saverio La Monica. Questi undici anni erano trascorsi cancellando ogni traccia del passato. 30 Forma dialettale di “signora”. 66 Brano n. 12 Le strane piante del dottor Shatterhand31 (tratto da: Ian Fleming, Si vive solo due volte, trad. di Enrico Cicogna, Garzanti, Milano 1965, pp. 59-63) Tigre Tanaka fece una pausa. Versò dell’altro sakè a Bond e dell’altro Suntory per sè. Bond approfittò dell’occasione per chiedere se la Società del Drago Nero era stata effettivamente così potente come si diceva. Era forse equivalente ai tong cinesi? «Molto più potente. Voi avrete forse sentito parlare dei tong Ching-Pang e HungPang che erano così temuti in Cina all’epoca del Kuomintang. Ebbene, i Draghi Neri erano cento volte peggio. Averli alle calcagna significava morte sicura. Erano spietatissimi, e non per particolari convinzioni politiche, ma unicamente per sete di denaro.» «E alle dipendenze di quel dottore svizzero hanno forse combinato qualche misfatto?» «Oh, no. Non sono altro che dei servitori o dei dipendenti, o, tutt’al più, delle guardie del corpo. No, il problema è ben diverso e molto più complesso. Il fatto è che quel Shatterhand ha creato quello che io posso descrivere soltanto come un giardino di morte.» Bond inarcò le sopracciglia. In realtà, le metafore di Tigre gli sembravano ridicolmente drammatiche. Tigre sorrise e continuò: «Bondo-san, dalla vostra espressione mi accorgo che voi mi credete o pazzo o ubriaco. Ora ascoltatemi. Quel Shatterhand ha riempito il suo parco solo di vegetazione tossica, i laghi e i fiumi di pesci carnivori, e ha infestato il luogo di serpenti, scorpioni e ragni velenosi. Tanto il dottore che la sua orribile moglie non soffrono alcun danno da tutto ciò perché quando escono dal castello il dottore indossa un’armatura completa del diciassettesimo secolo e la donna indumenti protettivi. I giardinieri portano stivaloni di gomma e si proteggono con dei masko, ovvero delle maschere di garza antisettica che molti giapponesi portano per evitare le infezioni.» «Tutto ciò mi sembra pazzesco.» Tigre frugò nelle pieghe del yukata che aveva indossato non appena entrato in casa e ne trasse alcuni fogli. Li porse a Bond e disse: «Abbiate pazienza e non giudicate ciò che non capite. Io non so nulla di queste piante velenose, e, a quanto mi sembra, voi non ne sapete molto più di me. Eccovi una lista delle piante che si trovano in quel Nel romanzo di Ian Fleming Si vive solo due volte, l’acerrimo nemico di 007, il supercriminale Ernst Stavro Blofeld, capo dell’organizzazione SPECTRE, inseguito dalle polizie di tutto il mondo si è rifugiato in Giappone e ha assunto l’identità del dottor Shatterhand, un botanico svizzero. Qui ha creato un parco popolato di micidiali piante velenose e laghetti con pesci piranha, nel quale vanno a suicidarsi centinaia di giapponesi. Nel brano qui trascritto James Bond, che sta dando la caccia a Blofeld, chiede informazioni sul misterioso dottor Shatterhand, alias Blofeld, al capo del servizio segreto giapponese, Tigre Tanaka. 31 67 parco e alcuni commenti del nostro ministero dell’Agricoltura. Leggete con calma e vedrete che deliziosa vegetazione cresce sulla superficie del globo.» Bond prese alcuni fogli che portavano l’intestazione del ministero dell’Agricoltura. La prima pagina comprendeva delle note generali sui veleni vegetali e nelle altre erano elencate le varie piante. Ecco ciò che lesse Bond: I veleni elencati comprendono sei categorie: 1. Delirante. Sintomi: illusioni spettrali, delirio; dilatazione delle pupille; sete e sensazione di aridità; mancanza di coordinazione; poi paralisi e spasmi. 2. Inebriante. Sintomi: eccitazione delle funzioni cerebrali e della circolazione; perdita della coordinazione e della funzione muscolare; doppia visione; poi sonno e coma profondo. 3. Convulsivo. Sintomi: spasimi intermittenti, dalla testa in giù. Morte per esaurimento, generalmente entro tre ore, o rapida guarigione. 4. Deprimente. Sintomi: vertigine, vomito, dolori addominali, visione confusa, paralisi, perdita dei sensi e a volte asfissia. 5. Astenico. Sintomi: intorpidimento, ronzii, dolori addominali, vertigine, vomitivo, purgativo, delirio, paralisi, perdita dei sensi. 6. Irritante. Sintomi: sensazione di bruciore in gola e allo stomaco, sete, nausea, vomito. Morte per choc, convulsioni o esaurimento; o per inedia, dovuta alle lesioni della gola e dello stomaco. ESEMPLARI INDICATI DALLE DOGANE E DAL DIPARTIMENTO TRIBUTI ED IMPORTATI DAL DOTTOR SHATTERHAND: Corniolo della Giamaica, albero del veleno da pesca (Piscidia erythrina): Albero, dieci metri. Fiori bianchi e rossi. Inebriante. Principio tossico: piscidina. Indie Occidentali. Noce-vomica (Strychnos nux-vomica): Albero, dodici metri. Corteccia liscia, bei frutti dal sapore amaro. Fiori bianco-verdognoli. I semi sono la parte più velenosa. Convulsivo. Principio tossico: stricnina e brucina. India meridionale e Giava. Albero tossico della Guaiana (Strychnos toxifera): Il veleno curaro per le frecce è estratto dalla corteccia. Rampicante. La morte sopravviene entro un’ora per paralisi respiratoria. Principi tossici: curaro, stricnina, brucina. Guaiana. Fave di S. Ignazio (Strychnos Ignatii): Albero di piccole dimensioni. I semi producono brucina. Convulsivo. Filippine. Falso Upas (Strychnos tieuté): Grande arbusto rampicante. Stricnina o brucina dalle foglie, dai semi, dallo stelo o dalle radici. Giava. Serpentaria delle Indie Orientali (Strychnos colubrina): Albero rampicante. Produce stricnina, brucina. Convulsivo. Giava, Timor. Ipecacuana (Psychotria ipecacuana): Pianta cespugliosa. Deprimente. Principi tossici: emetina, dalla radice. Strofanto (Strophantus hispidus): Rampicante legnoso, due metri. Principio tossico: strofantina, incina. Astenico. Africa Occidentale. 68 Tanghinia velenosa (Tanghinia venenifera o cerbera tanghin): Piccolo albero sempreverde, sei metri. Frutto violaceo con riflessi verdognoli. Principio tossico: tanghinina, cerberina. Astenico. Madagascar. Upas (Antiaris toxicaria): Albero della giungla. I rami spuntano a partire da trenta metri di altezza. Legno leggero, bianco, duro, emana lattice. Principi tossici: antiarina dal lattice. Astenico. Giava, Borneo, Sumatra, Filippine. Tossicodendro, Edera velenosa (Rhus toxicodendron): Cespuglio rampicante. Fiori giallo-verdastri. Lo stelo contiene un lattice irritante. Principio tossico: tossicodendro. Stati Uniti. Oleandro giallo, campanilla (Thevetia peruviana): Albero di piccole dimensioni. Ogni sua parte può essere mortalmente tossica, e in particolare il frutto. Rallentamento dei battiti del polso, vomito, choc. Hawai. Ricino (Ricinus communis): Dai semi si estrae l’olio di ricino. Contiene un principio tossico: il ricino. Innocuo se mangiato. Se entra nella circolazione sanguigna attraverso ferita o abrasione è fatale in un periodo dai sette ai dieci giorni. La centesima parte di un milligrammo può uccidere un uomo di cento chili. Perdita dell’appetito, emesia, effetti purgativi, delirio, collasso e morte. Hawai e America Meridionale. Oleandro comune (Nerium indicum): Arbusto sempreverde. La corteccia, la linfa, i fiori e le foglie sono mortalmente tossici. Agisce sul cuore. Usato in India nel trattamento della lebbra, per provocare aborti e come mezzo di suicidio. India, Hawai. Caso di morte provocato da carne arrostita su uno spiedo fatto di legno di oleandro. Grano di rosario, occhio di granchio, fagiolo Jequiritz (Abrus precatorius): Arbusto rampicante, piccoli semi del peso medio di 0,10 gr. Usati dagli orafi indiani come pesi. I semi macinati e impastati con un po’ di acqua fredda sono modellati in forma di piccoli coni. Se questi coni sono introdotti sotto la pelle di un uomo o di un animale, la morte sopravviene entro quattro ore. India, Hawai. Malerba Jimson (Datura stramonium): Solanacea con foglia larga, grande fiore bianco profumato, frutto con aculei. E inoltre: Ololiuqui (Datura metaloides) del Messico, e D. tatula dell’America Centrale e Meridionale. Tutte allucinanti. I frutti secchi sono fumati dagli arabi e sagli swahili, le foglie sono masticate dai negri dell’Africa Orientale, i semi aggiunti all’hashish e le foglie mescolate alla canapa dagli indiani del Bengala. La D. tatula era usata dagli indiani Zapotec nei tribunali come droga della verità. L’uso continuato del toloachi, liquore prodotto dalla D. tatula, causa l’imbecillità cronica. Gloriosa superba: Bellissimo giglio rampicante. Le radici, gli steli e le foglie contengono un narcotico dal sapore aspro, superbina, oltre a colchicina e colina. Tre grani di colchicina hanno un effetto mortale. Hawai. Albero scatola di sabbia (Hura crepitans): L’intero albero contiene un attivo emetocatartico che si usa in Brasile per avvelenare i pesci. Contiene anche crepitina, dello stesso gruppo velenoso del ricino. Innocuo se ingoiato. Se immesso nella circolazione sanguigna provoca la morte entro dieci giorni. America Centrale e Meridionale. 69 Orgoglio dell’India, albero della bacca cinese, albero della Cina (Melia azedarach): Piccolo albero. Belle foglie color verde scuro e fiori color lavanda. Il frutto contiene un narcotico tossico che colpisce il sistema nervoso. Hawai, America Centrale e Meridionale. Noce fisica (Jatropa curcas): Arbusto. I semi sono violentemente purgativi, spesso mortali per il conseguente esaurimento. Caraibi. Tubero Messicano, camotillo: Tubero selvatico che cresce dappertutto. Secondo la tradizione indiana, deve essere raccolto in periodo di luna calante; si crede che l’azione mortale abbia inizio tanti giorni dopo l’assorbimento quanti giorni è durato l’immagazzinamento dopo il raccolto. Principio tossico: solanina. America Centrale e Meridionale. Fungo divino (Amanita mexicana): Strettamente imparentato con l’agarico europeo. Fungo nero che si può consumare crudo o mescolato a latte caldo e alcool di agave. Produce ipersensibilità della superficie della pelle, acutizza sensibilmente i sensi dell’udito e della vista e poi produce delle allucinazioni per diverse ore. In seguito, profonda depressione. Principio attivo sconosciuto. America Centrale e Meridionale. Bond terminò la lettura e restituì i fogli osservando: «Il giardino del dottor Shatterhand è un vero Eden di delizie, Dio mio!» «E voi avrete sentito certamente parlare del pesce piranha dell’America Meridionale. Può scarnificare completamente un cavallo in meno di un’ora. Il nome scientifico è serrasalmo. La sottospecie natteteri è la più vorace. Il nostro buon dottore ha preferito popolare i suoi laghi con questa specie, invece di ricorrere ai soliti pesci rossi. Capite che cosa voglio dire?» «No,» rispose Bond, «francamente non riesco a capire. Quali sono gli scopi che si prefigge il buon dottore?» 70 Brano n. 13 Veleno in convento32 (tratto da: Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 19818, pp. 263-269) Quarto giorno LAUDI Dove Guglielmo e Severino esaminano il cadavere di Berengario, scoprono che ha la lingua nera, cosa singolare per un annegato. Poi discutono di veleni dolorosissimi e di un furto remoto. Non mi attarderò a dire di come informammo l’Abate, di come tutta l’Abbazia si risvegliò prima dell’ora canonica, delle grida di orrore, dello spavento e del dolore che si vedevano sul viso di ciascuno, di come la notizia si propagò a tutto il popolo del pianoro, coi servi che si segnavano e pronunciavano scongiuri. Non so se quella mattina si svolse il primo ufficio secondo le regole, e chi vi prese parte. Io seguii Guglielmo e Severino che fecero avvolgere il corpo di Berengario e ordinarono di distenderlo su un tavolo nell’ospedale. Allontanatisi l’Abate e gli altri monaci, l’erborista e il mio maestro osservarono a lungo il cadavere, con la freddezza degli uomini di medicina. “È morto annegato,” disse Severino, “non vi è dubbio. Il viso è gonfio, il ventre è teso…” “Ma non è stato annegato da altri,” osservò Guglielmo, “altrimenti si sarebbe ribellato alla violenza dell’omicida, e avremmo trovato tracce d’acqua sparsa intorno alla vasca. E invece tutto era ordinato e pulito, come se Berengario avesse scaldato l’acqua, riempito il bagno e vi si fosse adagiato di propria volontà.” “Questo non mi stupisce,” disse Severino. “Berengario soffriva di convulsioni, e io stesso gli avevo detto più volte che i bagni tiepidi servono a calmare l’eccitazione del corpo e dello spirito. Varie volte mi aveva chiesto licenza di accedere ai balnea. Così potrebbe avere fatto questa notte…” “L’altra notte,” osservò Guglielmo, “perché questo corpo – lo vedi – è restato nell’acqua almeno un giorno…” La trama del romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco si svolge in un monastero benedettino dell’Italia settentrionale, nel Trecento. Qui avviene una serie di misteriosi delitti tra i frati: le morti risultano legate alla sparizione di un misterioso codice, contenente il perduto secondo libro della Poetica di Aristotele. I due protagonisti del romanzo, il frate francescano Guglielmo di Baskerville e il suo allievo Adso di Melk, si improvvisano detective e, grazie ai numerosi indizi che trovano, riescono ad arrivare alla verità e a smascherare il colpevole e la modalità con cui gli omicidi dei frati sono stati commessi: è stato il vecchio monaco Jorge che ha intinto l’orlo del codice della Poetica con un potente veleno, per uccidere chiunque lo trovasse e lo leggesse. Così viene ucciso, fra gli altri, anche il bibliotecario frate Berengario, del quale un’abile messinscena simula la morte per annegamento nelle piscine del convento, come scopre Guglielmo di Baskerville, sorta di Sherlock Holmes ante litteram. 32 71 “È possibile che sia stato l’altra notte,” convenne Severino. Guglielmo lo mise parzialmente al corrente degli avvenimenti della notte prima. Non gli disse che eravamo stati furtivamente nello scriptorium ma, celandogli varie circostanze, gli disse che avevamo inseguito una figura misteriosa che vi aveva sottratto un libro. Severino capì che Guglielmo gli diceva solo una parte della verità, ma non fece altre domande. Osservò che l’agitazione di Berengario, se era lui il ladro misterioso, poteva averlo indotto a cercare la tranquillità in un bagno ristoratore. Berengario, osservò, era di natura molto sensibile, talora una contrarietà o un’emozione gli provocavano tremori, sudori freddi, sbarrava gli occhi e cadeva per terra sputando una bava biancastra. “In ogni caso,” disse Guglielmo, “prima di venire qui è stato da qualche altra parte, perché non ho visto nei balnea il libro che ha rubato.” “Sì,” confermai con una certa fierezza, “ho sollevato la sua veste che giaceva accanto alla vasca, e non ho trovato tracce di alcun oggetto voluminoso.” “Bravo,” mi sorrise Guglielmo. “Dunque è stato da qualche altra parte, poi ammettiamo pure che per calmare la propria agitazione, e forse per sottrarsi alle nostre ricerche, si sia infilato nei balnea e si sia immerso nell’acqua. Severino, ritieni che il male di cui soffriva fosse sufficiente a fargli perdere i sensi e a farlo annegare?” “Potrebbe essere,” osservò dubbioso Severino. “D’altra parte se tutto è accaduto due notti fa, avrebbe potuto esserci dell’acqua intorno alla vasca, che poi è asciugata. Così non possiamo escludere che sia stato annegato a viva forza.” “No,” disse Guglielmo, “Hai mai visto un assassinato che, prima di farsi annegare, si toglie gli abiti?” Severino scosse la testa, come se quell’argomento non avesse più gran valore. Da qualche istante stava esaminando le mani del cadavere: “Ecco una cosa curiosa…” disse. “Quale?” “L’altro giorno ho osservato le mani di Venanzio, quando il corpo è stato ripulito dal sangue, e ho notato un particolare a cui non avevo dato molta importanza. I polpastrelli di due dita della mano destra di Venanzio erano scuri, come anneriti da una sostanza bruna. Esattamente, vedi?, come ora i polpastrelli di due dita di Berengario. Anzi, qui abbiamo anche qualche traccia sul terzo dito. Allora avevo pensato che Venanzio avesse toccato degli inchiostri nello scriptorium…” “Molto interessante,” osservò Guglielmo pensieroso, avvicinando gli occhi alle dita di Berengario. L’alba stava sorgendo, la luce all’interno era ancora fioca, il mio maestro soffriva evidentemente della mancanza delle sue lenti. “Molto interessante,” ripeté. “L’indice e il pollice sono scuri sui polpastrelli, il medio solo sulla parte interna, e debolmente. Ma ci sono tracce più deboli anche sulla mano sinistra, almeno sull’indice e sul pollice.” “Se fosse solo la mano destra, sarebbero le dita di chi afferra qualcosa di piccolo, o di lungo e sottile…” “Come uno stilo. O un cibo. O un insetto. O un serpente. O un ostensorio. O un bastone. Troppe cose. Ma se ci sono segni anche sull’altra mano potrebbe essere anche una coppa, la destra la tiene salda e la sinistra collabora con minor forza…” 72 Severino ora sfregava leggermente le dita del morto, ma il colore bruno non scompariva. Notai che si era messo un paio di guanti, che probabilmente usava quando maneggiava sostanze velenose, Annusava, ma senza trarne alcuna sensazione. “Potrei citarti molte sostanze vegetali (e anche minerali) che provocano tracce di questo tipo. Alcune letali, altre no. I miniatori hanno talora le dita sporche di polvere d’oro…” “Adelmo faceva il miniatore,” disse Guglielmo. “Immagino che di fronte al suo corpo sfracellato tu non abbia pensato a esaminargli le dita. Ma costoro potrebbero aver toccato qualcosa che era appartenuto ad Adelmo.” “Proprio non so,” disse Severino. “Due morti, entrambi con le dita nere. Cosa ne deduci?” “Non ne deduco nulla: nihil sequitur geminis ex particularibus unquam. 33 Bisognerebbe ricondurre entrambi i casi a una regola. Per esempio: esiste una sostanza che annerisce le dita di chi la tocca…” Terminai trionfante il sillogismo:34 “… Venanzio e Berengario hanno le dita annerite, ergo hanno toccato questa sostanza!” “Bravo Adso,” disse Guglielmo, “peccato che il tuo sillogismo non sia valido, perché aut semel aut iterum medium generaliter esto,35 e in questo caso il termine medio non appare mai come generale. Segno che abbiamo scelto male la premessa maggiore. Non dovevo dire: tutti coloro che toccano una certa sostanza hanno le dita nere, perché potrebbero esserci anche persone con l edita nere e che non han toccato la sostanza. Dovevo dire: tutti coloro e solo tutti coloro che han le dita nere hanno certamente toccato una data sostanza. Venanzio e Berengario, eccetera. Col che avremmo un Darii, un ottimo terzo sillogismo di prima figura.”36 “Allora abbiamo la risposta!” dissi tutto contento. “Ahimè Adso, come ti fidi dei sillogismi! Abbiamo solo e di nuovo la domanda. Cioè abbiamo fatto l’ipotesi che Venanzio e Berengario abbiano toccato la stessa cosa, ipotesi senz’altro ragionevole. Ma una volta che abbiamo immaginato una Trad.: “Nulla mai è conseguente da due particolari uguali.” Il sillogismo (dal greco συλλογισμός, syllogismòs, formato da σύν, syn, "insieme", e λογισμός, logismòs, "calcolo": quindi, "ragionamento concatenato") è un tipo di ragionamento dimostrativo che fu teorizzato per la prima volta da Aristotele, il quale, partendo dai tre tipi di termine "maggiore" (che funge da predicato nella conclusione), "medio" e "minore" (che nella conclusione funge da soggetto) classificati in base al rapporto contenente - contenuto, giunge ad una conclusione collegando i suddetti termini attraverso brevi enunciati (premesse). Esempio: (premessa maggiore) ogni animale è mortale; (premessa minore) ogni uomo è animale; (conclusione) dunque ogni uomo è mortale. La filosofia scolastica ha formalizzato che se una singola premessa oppure entrambe le premesse sono false, la proposizione conseguente è necessariamente falsa. Invece, se le premesse sono entrambe vere, la conclusione può essere comunque falsa, come mostrano i cosiddetti paradossi logici che restano il principale limite di una logica formale, ovvero che prescinde dal contenuto dei singoli soggetti e predicati inseriti al posto delle lettere. Pertanto, il sillogismo è uno strumento necessario, ma di per sé non sufficiente per arrivare alla verità. 33 Trad.: “O una volta o due volte il termine medio sarà in senso generale.” 33 Le proposizioni del discorso apodittico si distinguono in affermative universali (A): tutti i cani sono animali; affermative particolari (I): alcuni animali sono mammiferi; negative universali (E): tutte le piante non sono animali; negative particolari (O): alcuni animali non sono mammiferi. Il sillogismo Darii è un particolare tipo di sillogismo in cui la prima premessa (maggiore) è una proposizione affermativa universale, la seconda premessa (minore) è una affermativa particolare, la conclusione è un’altra affermativa particolare. Esempio: 1) tutti i cani sono mammiferi (A); 2) alcuni quadrupedi sono cani (I); 3) alcuni quadrupedi sono mammiferi (I). 33 33 73 sostanza che, sola tra tutte, provoca questo risultato (il che è ancora da appurare) non sappiamo quale sia e dove coloro l’abbian trovata, e perché l’abbian toccata. E bada bene, non sappiamo neppure se è poi la sostanza che han toccato, quella che li ha condotti a morte. Immagina che un folle volesse uccidere tutti coloro che toccano della polvere d’oro. Diremmo che è la polvere d’oro che uccide?” Rimasi turbato. Avevo sempre creduto che la logica fosse un’arma universale, e mi accorgevo ora di come la sua validità dipendesse dal modo in cui la si usava. D’altra parte, frequentando il mio maestro mi ero reso conto, e sempre più me ne resi conto nei giorni che seguirono, che la logica poteva servire a molto a condizione di entrarci dentro e poi di uscirne. Severino, che certo non era un buon logico, frattanto rifletteva secondo la propria esperienza: “L’universo dei veleni è vario come vari sono i misteri della natura,” disse. Indicò una serie di vasi e ampolle che già una volta avevamo ammirato, disposti in bell’ordine negli scaffali lungo i muri, insieme a molti volumi. “Come ti ho già detto, molte di queste erbe, dovutamente composte e dosate, potrebbero dar luogo a bevande e a unguenti mortali. Ecco laggiù, datura stramonium, belladonna, cicuta: possono dare la sonnolenza, l’eccitazione, o entrambe; somministrate con cautela sono ottimi medicamenti, in dosi eccessive portano alla morte. Laggiù c’è la fava di sant’Ignazio, l’angostura pseudo ferruginea, la nux vomica, che potrebbero togliere il respiro…” “Ma nessuna di queste sostanze lascerebbe segni sulle dita?” “Nessuna, credo. Poi ci sono sostanze che diventano pericolose solo se ingerite e altre che agiscono invece sulla pelle. L’elleboro bianco può provocare vomiti in chi l’afferra per strapparlo dalla terra. Ci sono delle begonie che quando sono in fiore provocano ebbrezza nei giardinieri che le toccano, come se avessero bevuto del vino. L’elleboro nero, al solo toccarlo, provoca la diarrea. Altre piante danno palpitazioni di cuore, altre alla testa, altre ancora tolgono la voce. Invece il veleno della vipera, applicato alla pelle senza penetrare nel sangue, produce solo una leggera irritazione… Ma una volta mi fu mostrato un composto che, applicato alla parte interna delle cosce di un cane, vicino ai genitali, porta l’animale a morire in breve tempo tra convulsioni atroci, con le membra che piano piano si irrigidiscono…” “Sai molte cose sui veleni,” osservò Guglielmo con un tono di voce che pareva ammirato. Severino lo fissò e ne sostenne lo sguardo per qualche istante: “So quello che un medico, un erborista, un cultore di scienze dell’umana salute deve sapere.” Guglielmo restò a lungo sovrappensiero. Poi pregò Severino di aprire la bocca del cadavere, e di osservarne la lingua. Severino, incuriosito, usò una spatola sottile, uno degli strumenti della sua arte medica, ed eseguì. Ebbe un grido di stupore: “La lingua è nera!” “È così allora,” mormorò Guglielmo. “Ha afferrato qualcosa con le dita e lo ha ingerito… Questo elimina i veleni che hai citato prima, che uccidono penetrando attraverso la pelle. Ma non rende più facile le nostre induzioni. Perché ora dobbiamo pensare, per lui e per Venanzio, a un gesto volontario, non casuale, non dovuto a distrazione o a imprudenza, né indotto con la violenza. Hanno afferrato qualcosa, e lo hanno introdotto in bocca, sapendo cosa facevano…” 74 “Un cibo? Una bevanda?” “Forse. O forse… che so? uno strumento musicale come un flauto…” “Assurdo,” disse Severino. “Certo che è assurdo. Ma non dobbiamo trascurare nessuna ipotesi, per straordinaria che sia. Ma ora cerchiamo di risalire alla materia venefica. Se qualcuno che conosca i veleni quanto te si fosse introdotto qui e avesse usato alcune di queste tue erbe, avrebbe potuto comporre un unguento mortale capace di produrre quei segni sulle dita e sulla lingua? Capace di essere posto in un cibo, in una bevanda, su un cucchiaio, su qualcosa che si mette in bocca?” “Sì,” ammise Severino, “ma chi? E poi, anche ammessa questa ipotesi, come sarebbe stato propinato il veleno ai nostri due poveri confratelli?” Francamente anch’io non riuscivo a immaginarmi Venanzio o Berengario che si lasciavano avvicinare da qualcuno che porgeva loro una sostanza misteriosa convincendoli a mangiarla o a berla. Ma Guglielmo non parve turbato da questa stranezza. “A questo penseremo dopo,” disse, “perché ora vorrei che tu cercassi di ricordare qualche fatto che forse non ti è ancora ritornato alla mente, non so, qualcuno che ti abbia fatto domande sulle tue erbe, qualcuno che entri con facilità nell’ospedale…” “Un momento,” disse Severino, “molto tempo fa, parlo di anni, conservavo in uno di quegli scaffali una sostanza molto potente, che mi era stata data da un confratello che aveva viaggiato in paesi lontani. Non sapeva dirmi di cosa fosse fatta, certo di erbe, e non tutte note. Era, all’apparenza, vischiosa e giallastra, ma mi fu consigliato di non toccarla, perché se fosse venuta anche solo in contatto con le mie labbra mi avrebbe ucciso in breve tempo. Il confratello mi disse che, ingerita anche in dosi minime, provocava nel volgere di mezz’ora un senso di grande spossatezza, poi una lenta paralisi di tutte le membra, e infine la morte. Non voleva portarla con sé e me ne fece dono. La tenni a lungo, perché mi proponevo di esaminarla in qualche modo. Poi un giorno venne sul pianoro una grande bufera. Uno dei miei aiutanti, un novizio, aveva lasciata aperta la porta dell’ospedale, e l’uragano aveva sconvolto tutta la stanza in cui ora siamo. Ampolle rotte, liquidi sparsi sul pavimento, erbe e polveri disperse. Lavorai un giorno a rimettere in ordine le mie cose, e mi feci aiutare solo per spazzare via i cocci e le erbe ormai irrecuperabili. Alla fine mi accorsi che mancava solo l’ampolla di cui ti parlavo. Dapprima mi preoccupai, poi mi convinsi che si era infranta e confusa con altri detriti. Feci lavare bene il pavimento dell’ospedale, e gli scaffali…” “E avevi visto l’ampolla poche ore prima dell’uragano?” “Sì… O meglio, no, ora che ci penso. Stava dietro una fila di vasi, ben nascosta, e non la controllavo ogni giorno…” “Quindi, per quanto ne sai, avrebbe potuto esserti sottratta anche molto tempo prima dell’uragano, senza che tu lo sapessi?” “Ora che mi ci fai riflettere, sì, indubbiamente.” “E quel tuo novizio potrebbe averla sottratta e poi potrebbe aver colto il destro dell’uragano per lasciare di proposito la porta aperta e mettere confusione tra le tue cose.” 75 Severino apparve molto eccitato: “Certo sì. Non solo, ma ricordando quanto avvenne, mi stupii molto che l’uragano, per quanto violento, avesse rovesciato tante cose. Potrei benissimo dire che qualcuno ha approfittato dell’uragano per sconvolgere la stanza e produrre più danni di quanto il vento non avesse potuto fare!” “Chi era il novizio?” “Si chiamava Agostino. Ma è morto l’anno scorso, cadendo da una impalcatura mentre con altri monaci e famigli ripuliva le sculture della facciata della chiesa. E poi, a ben pensarci, lui aveva giurato e spergiurato di non aver lasciata aperta la porta prima dell’uragano. Fui io, infuriato, che lo ritenni responsabile dell’incidente. Forse era davvero innocente.” “E così abbiamo una terza persona, magari ben più esperta di un novizio, che era a conoscenza del tuo veleno. A chi ne avevi parlato?” “Questo proprio non lo ricordo. All’Abate, certo, chiedendogli il permesso di trattenere una sostanza così pericolosa. E a qualcun altro, forse proprio in biblioteca, perché cercava degli erbari che mi potessero rivelare qualcosa.” “Ma non mi hai detto che trattieni presso di te i libri più utili alla tua arte?” “Sì, e molti,” disse indicando in un angolo della stanza alcuni scaffali carichi di decine di volumi. “Ma allora cercavo certi libri che non potrei trattenere e che anzi Malachia era restio a farmi vedere tanto che dovetti chiederne l’autorizzazione all’Abate.” La sua voce si abbassò e quasi ebbe ritegno a farsi udire da me. “Sai, in un luogo ignoto della biblioteca si conservano anche opere di negromanzia, di magia nera, ricette di filtri diabolici. Potei consultare alcune di queste opere, per dovere di conoscenza, e speravo di trovare una descrizione di quel veleno e delle sue funzioni. Invano.” “Quindi ne hai parlato a Malachia.” “Certo, senz’altro a lui, e forse anche allo stesso Berengario che lo assisteva. Ma non trarre conclusioni affrettate: non ricordo, forse mentre parlavo erano presenti altri monaci, sai, talora lo scriptorium è abbastanza affollato…” “Non sto sospettando di nessuno. Cerco solo di capire cosa può essere accaduto. In ogni caso mi dici che il fatto avvenne qualche anno fa, ed è curioso che qualcuno abbia sottratto con tanto anticipo un veleno che avrebbe poi usato tanto tempo dopo. Sarebbe indizio di una volontà maligna che ha covato nell’ombra un proposito omicida.” Severino si segnò con una espressione di orrore sul volto. “Dio ci perdoni tutti!” disse. Non c’erano altri commenti da fare. Ricoprimmo il corpo di Berengario, che avrebbe dovuto essere preparato per le esequie.