fonti letterarie sui veleni

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fonti letterarie sui veleni
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Anno scolastico 2015-2016
Liceo ginnasio statale Orazio
Classe IV ginnasio sezione H
Area tematica 5 – Lo studio delle lingue classiche in relazione all’ambito giuridico-politico
Percorso su un tema di approfondimento multidisciplinare
per la quarta classe ginnasiale
L’uso dei veleni nella realtà storica
e nella letteratura
e la repressione del veneficio nella legislazione
penale antica e moderna
FONTI LETTERARIE SUI VELENI
DALL’ANTICHITÀ FINO AI NOSTRI GIORNI
(Testi raccolti da Mario Carini)
Indice delle fonti letterarie
1. I mostruosi serpenti del deserto libico (tratto da: Lucano, La guerra civile o
Farsaglia, libro IX vv. 700-949, trad. di Luca Canali, Rizzoli, Milano 1981,
pp. 579-597)
2. Lo Spettro rivela ad Amleto l’assassinio di suo padre, il re di Danimarca
(tratto da: William Shakespeare, Amleto, atto I scena V, trad. di Luigi
Squarzina, in Id., Tutto il teatro, vol. V, Newton Compton editori, Roma 1990,
pp. 74-76)
3. La morte di Barrois (tratto da: Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo,
trad. di Emilio Franceschini, Mondadori, Milano 1996, rist., pp. 652-656)
4. Il conte di Montecristo salva Valentina di Villefort da una misteriosa
avvelenatrice (tratto da: Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo, trad. di
Emilio Franceschini, Mondadori, Milano 1996, rist., pp. 796-803)
5. Amore e morte (tratto da: Edgar Allan Poe, L’appuntamento, trad. di Daniela
Paladini, in Id., Tutti i racconti, le poesie e Gordon Pym, Newton Compton
editori, Roma 1992, pp. 187-190)
6. La candela avvelenata (testo tratto da: Edgar Allan Poe, Il genio della
perversione, trad. di Daniela Palladini, in Id., Tutti i racconti, le poesie e
Gordon Pym, Newton Compton editori, Roma 1992, pp. 38-41)
7. Il suicidio di Ernani (tratto da: Victor Hugo, Ernani, atto quinto, in Id., Tutto
il teatro, vol. II Marion de Lorme – Ernani – Il re si diverte, trad. di Corrado
Pavolini, Rizzoli, Milano 1962, pp. 236-248)
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8. Il suicidio di Emma Bovary (tratto da: Gustave Flaubert, Madame Bovary,
trad. di Oreste Del Buono, Garzanti, Milano 1965, pp. 267-273)
9. Il suicidio dei coniugi Raquin (tratto da: Émile Zola, Thérèse Raquin, trad. di
Maurizio Grasso, Newton Compton editori, Roma 1995, pp. 140-142 e 164168)
10.Un caso di avvelenamento per Sherlock Holmes (tratto da: Arthur Conan
Doyle, Il segno dei quattro, trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto, in A. C. Doyle,
Tutto Sherlock Holmes, vol. I, Newton Compton editori, Roma 19932, pp. 152161)
11.La bottega di don Saverio La Monica, farmacista palermitano del
Settecento (tratto da: Luigi Natoli (William Galt), La vecchia dell’aceto, a
cura di Giuseppe Bonomo, Flaccovio Editore, Palermo 1979, pp. 78-81)
12.Le strane piante del dottor Shatterhand (tratto da: Ian Fleming, Si vive solo
due volte, trad. di Enrico Cicogna, Garzanti, Milano 1965, pp. 59-63)
13.Veleno in convento (tratto da: Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani,
Milano 19818 , pp. 263-269)
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FONTI LETTERARIE
Brano n. 1
I mostruosi serpenti del deserto libico
(tratto da: Lucano, La guerra civile o Farsaglia, libro IX vv. 700-949,
trad. di Luca Canali, Rizzoli, Milano 1981, pp. 579-597)
Il mostro che sollevò per primo il capo dalla sabbia
fu l’aspide sonnifero dal collo rigonfio.
Per formarlo, cadde una goccia di sangue più abbondante
e di denso veleno: nessun serpente ne contiene di più.
Bisognoso di calore, non emigra mai spontaneamente
nelle regioni fredde e giunge nel deserto del Nilo. Ma quando
arrossiremo della nostra brama di lucro? Di lì importiamo
i libici strumenti di morte: facciamo dell’aspide una merce.
Poi snodò le spire squamose l’enorme emorrois,
che non lascerà alle vittime una sola goccia di sangue;
e nacquero la chersidra, adatta a vivere nelle ambigue
distese delle Sirti, e i chelidri che strisciano in una scia di fumo,
e il cencro che scivola sempre diritto davanti a sé,
con il ventre screziato di macchie ancora più numerose
di quelle minuscole che punteggiano l’ofite tebano.
V’è l’ammodite indistinguibile dalle sabbie bruciate,
perché dello stesso colore, e la cerasta che vaga oscillando
il dorso, e lo scitale, l’unico a deporre le spoglie
ancora nella stagione delle brine, e la bruciante dipsade,
e la pesante anfisbena che inclina avanti e indietro
la duplice testa, e il natrice che inquina le acque, e i giaculi
alati, e il paria che si diverte a segnare con la coda il cammino,
e l’avido prestere che spalanca le fauci fumanti,
e la sepse che porta alla putrefazione, dissolvendole, le carni e le ossa,
e il basilisco che sibilando atterrisce tutti gli altri mostri
e uccide prima di avvelenare e scaccia i viventi d’attorno
a sé, per largo tratto regnando sulle sabbie deserte.
Ed anche voi, o draghi, che strisciate innocui
numi su tutta la terra, splendenti d’un aureo fulgore,
la torrida Africa vi rende letali: fendete con le ali
le alte regioni del cielo, e seguendo interi armenti
schiantate possenti tori avvolgendoli nelle spire; neanche
la mole dell’elefante è sicura: date la morte a tutti
e ai vostri destini micidiali non occorre il veleno.
Fra tanti flagelli, Catone coi duri soldati percorre
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un arido cammino, vedendo perire miseramente
molti dei suoi, e per piccole ferite prodursi insolite morti.
Una dipsade calpestata volse indietro la testa
E morse il giovane alfiere Aulo di stirpe tirrena.
Avvertì appena il dolore della puntura; non apparve
l’aspetto odioso della morte; la ferita non sembrava minacciosa.
Ma il veleno si diffonde insensibilmente, un fuoco divoratore
attacca le midolla e arde di rovente infezione le membra;
il morbo prosciuga l’umore intorno agli organi vitali,
ed essiccàti la lingua e il palato comincia a farli bruciare.
Non v’era sudore che scorresse per gli arti stremati:
neanche le lagrime potevano sgorgare dagli occhi.
Né l’onore militare, né l’autorità dell’afflitto Catone
trattennero il giovane febbricitante dal gettare senza ritegno
le insegne e, slanciandosi forsennato, dal cercare per tutti i campi
l’acqua, che il sitibondo veleno reclamava dal cuore.
Anche se si gettasse nel Tanai o nel Rodano o nel Po,
o bevesse le acque del Nilo che straripa nelle campagne,
brucerebbe d’arsura. La Libia contribuì alla morte; aiutata
dalle torride lande, la dipsade ne ebbe una gloria minore.
Cerca una vena d’acqua scavando nell’arida sabbia;
ora ritorna alle Sirti e si getta a berne le acque;
gusta l’acqua salmastra, ma ancora non ne è saziato.
Non comprende il genere di morte e la fine che il veleno gli infligge;
pensa che si tratti di sete e giunge ad aprirsi col ferro
le turgide vene e a riempirsi la bocca di sangue.
Catone ordinò di levare in fretta le insegne;
non volle che alcuno conoscesse questo potere della sete.
Ma apparve una morte più atroce: una piccola sepse
si avventò alla gamba dell’infelice Sabello e vi rimase attaccata
con il dente ricurvo: egli la strappò e la trafisse con il giavellotto sulla sabbia.
È un serpente minuscolo, ma nessuno ha un potere di morte
così sanguinosa. Infatti intorno alla puntura
la pelle si ritrae lacerata e scopre il biancore delle ossa;
poi, allargatasi la ferita, il corpo è un’ulcera viva
e le membra nuotano nel marciume, i polpacci si disfano,
le ginocchia vengono scarnite, tutti i muscoli del femore
colano liquefatti, le inguini stillano tetri umori.
La pelle che racchiude il ventre si spacca, e ne fuoriescono i visceri;
ma tutto quanto contiene il corpo non fluisce
in terra; il crudele veleno consuma subito le membra
e il tossico riduce tutto quasi a niente.
I legamenti dei nervi, il tessuto dei fianchi, la cavità del petto,
le fibre vitali più segrete, quanto forma l’uomo
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è dischiuso dal morbo; la morte profanatrice rivela
i segreti della natura. Colano gli omeri e le forti braccia,
il collo e il capo si sciolgono. Così rapidamente la neve
si disfa al calore dell’Austro e la cera si liquefa al sole.
È poco dire che il corpo stilla d’una putredine che lo consuma:
tanto può anche la fiamma; ma quale rogo
consuma le ossa? Anch’esse si disgregano insieme alle midolla disfatte
e non lasciano traccia della loro rapida fine.
Tra i mostri di Cinifo, a te la palma del nuocere:
tutti strappano la vita, soltanto tu anche il cadavere.
Ma ecco una forma di morte opposta al disfacimento.
Un prestere infuocato punse Nasidio, contadino
dei campi della Marsica. Un igneo rossore gli accende
il viso, e un gonfiore più grande dell’intero corpo
gli tende la pelle confondendo i suoi lineamenti;
gli umori corrotti per il grande potere del veleno
si riversano su tutte le membra debordanti la misura umana,
egli scompare sommerso nel fondo del corpo dilatato,
e la corazza non contiene l’aumento delle membra enfiate.
Non così la schiumante massa dell’acqua
trabocca dal rame bollente, né tanto le vele si gonfiano
al soffio del Coro. Informe globo, tronco
di mole confusa, non riesce a trattenere gli arti turgidi.
Non osando deporlo sul rogo, cadavere che non cessa di crescere,
i compagni fuggirono, lasciandolo al rostro dei rapaci,
destinato alle belve che se ne ciberanno non impunemente.
Ma i flagelli di Libia preparano spettacoli più orrendi.
Una crudele emorrois conficcò i denti su Tullo,
magnanimo giovane e grande ammiratore di Catone.
Come suole cospargersi sulle intere statue
l’essenza dello zafferano coricio, così tutte le membra
emisero, invece di sangue, un rosso veleno.
Le lagrime erano sangue; per tutti i meati del corpo
che gli umori conoscono, fuoriesce copioso sangue: ne traboccano
le fauci e le aperte narici, è sangue il sudore; le membra
colano a piene vene, il corpo è una sola ferita.
A te, sventurato Levo, il serpente del Nilo rapprese
il sangue e compresse il cuore; e senza che alcun dolore
rivelasse la puntura, ricevesti la morte in un buio improvviso,
e in sonno scendesti alle ombre dei compagni. Non provocano
la morte con tanta rapidità, versati nelle coppe, i veleni
che l’indovino di Sais ricava, nei giorni della maturazione, dallo stelo
funesto, immagine menzognera della canna sabea.
Più oltre, dal tronco d’una pianta secca, un tremendo serpente
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si stacca e si avventa (l’Africa lo chiama giavellotto),
e fugge attraverso il capo e le tempie trafitte di Paolo.
Qui il veleno non agisce: la morte lo colse con la ferita.
Si apprese quanto volassero lenti, al confronto, i proiettili
della fionda e quanto debolmente sibilassero le frecce scitiche.
Che giova all’infelice Murro l’avere trafitto con una lancia
un basilisco? Il veleno corre veloce per l’asta
e invade la mano; sùbito, snudata la spada,
le vibra un colpo che la stacca di netto dal braccio,
e ristà, salvo nel perire della mano, guardando il miserevole
esempio della propria morte. Chi crederebbe che lo scorpione
signoreggiasse il destino e le forze con un rapido eccidio?
Minaccioso per i nodi e terribile per la coda eretta,
esso ostenta, con il cielo per testimone, l’onore della vittoria su Orione.
Chi esiterebbe a calpestare, o salpuga, i tuoi nascondigli?
Anche a te le sorelle Stigie danno potere sui loro stami.
Così la luce del giorno e l’oscurità della notte non davano
tregua agli sventurati, sospettosi della terra su cui giacevano.
Non apprestavano giacigli con mucchi di fronde
Né letti di paglia, ma si rivoltavano sulla terra
con i corpi esposti alla morte: diffondendo calore,
attirano nel freddo notturno quei mostri gelati,
che ristorano tar le membra le fauci a lungo inoffensive
per il veleno intorpidito dal gelo. Non conoscevano l’estensione e il termine
della marcia, guidati soltanto dal cielo, e spesso gridavano
tra i lamenti: «Rendeteci, o dèi, le battaglie che abbiamo fuggito,
rendeteci la Tessaglia. Perché soffriamo una lenta morte,
noi, schiera che ha giurato sulla spada? Le dipsadi
combattono per Cesare, e le ceraste decidono la guerra civile.
Preferiremmo andare nella zona torrida,
sotto un cielo arroventato dai cavalli del sole; vorremmo
attribuire a cause celesti la fine, morire per il clima.
Non ci lamentiamo di te, o Africa, e neanche di te, o natura;
avevi sottratto alle genti e assegnato ai serpenti una regione
che pullula di mostri, e condannato un terreno infecondo di messi;
negandogli coltivatori, hai voluto salvare gli uomini dal veleno.
Venimmo noi tra i serpenti, paghiamone la pena,
o dio, chiunque tu sia che, sdegnando gli umani contatti,
separasti questo mondo da un lato con la torrida plaga,
dall’altra con le mobili Sirti, frapponendo la morte.
La guerra civile avanza fra i segreti dei tuoi recessi
e i soldati, iniziati ai misteri del tuo mondo, raggiungono
i confini della terra. Forse maggiori flagelli
ci attendono al varco. Gli astri si mischiano stridendo ai flutti
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e il cielo grava sulla terra. Ma al di là di questa regione
non ne esistono altre, se non i tristi regni di Giuba
noti soltanto per fama. Forse rimpiangeremo
questa terra di serpenti, il cui clima offre un conforto:
qualcosa ancora ci vive. Non chiediamo i campi della patria
o l’Europa e l’Asia, che vedono soli diversi:
sotto qual cielo e in quale terra ti ho lasciato,
o Africa? A Cirene imperversava ancora l’inverno:
con un breve tratto di strada mutammo l’ordine delle stagioni?
Andiamo nel polo opposto, giriamo intorno al mondo,
volgiamo le spalle ai soffi del Noto. E forse
Roma è ai nostri antipodi. Questo conforto
chiediamo per la nostra sventura: sopraggiungano i nemici, Cesare
ci insegua dove fuggiamo». Così la dura resistenza
si sfoga in lamenti. A tollerare tali travagli li spinge
lo strenuo valore del comandante, che dorme sdraiato
sulla nuda sabbia, e sfida continuamente la Fortuna.
Egli solo è presente a tutte le sciagure: vola
dovunque lo chiamano, e porta un immenso aiuto, maggiore
della vita, la forza di morire: chi spira davanti a lui
si vergogna di gemere. Che potere avrebbe esercitato su di lui
qualsiasi flagello? Trionfa del male nel cuore altrui,
e al cospetto dei grandi dolori insegna che non possono nulla.
Infine, stanca di tanti pericoli, la Fortuna concesse
un tardivo aiuto agli infelici. Una sola popolazione
abita quelle contrade, resistendo al crudele morso
dei serpenti: gli Psilli della Marmarica. Conoscono formule pari
alla potenza delle erbe; hanno il sangue incontaminabile, capace
di opporsi al veleno, anche senza incantesimi. La natura
dei luoghi volle che, misti ai serpenti, ne fossero immuni:
giovò loro l’essersi stanziati tra i veleni.
Vivono in pace con la morte. Tanto confidano nel sangue:
appena un loro piccolo viene al mondo,
se temono che ci sia contaminazione d’amore adulterino,
sottopongono l’incerto figlio alla prova dell’aspide;
come l’uccello di Giove, quando sgusciano i piccoli
implumi dal caldo uovo, li espone verso oriente;
quelli che riescono a sopportare i raggi e riescono a tollerare
la luce senza distogliere lo sguardo, li serbano alla vita
nel cielo; abbandonano quelli che cedono a Febo. Così
gli Psilli si garantiscono della razza, se l’infante non inorridisce al contatto
dei serpenti, e gioca con loro quando gli sono donati.
Questo popolo non s’accontenta della propria salvezza,
ma veglia sugli ospiti; lo Psillo assiste gli stranieri
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contro i mostri micidiali. Quelli che allora seguivano
le insegne romane, appena il comandante ordinò di attendarsi,
prima purificarono le sabbie, comprese nello spazio del vallo,
con formule e incanti che fugavano i serpenti, poi
accesero intorno ai bordi del campo fuochi magici
nei quali strideva il sambuco, sfrigolava l’esotico galbano,
crepitavano tra le fiamme i tamerici dalla funebre chioma,
il costo orientale, la potente panacea, la tessala centaurea,
il peucedano, il tapso di Erice; bruciavano anche rami
di larice, e l’ebrotomo dal fumo nocivo ai serpenti
e corna di cervo nato in terre lontane.
Così la notte diveniva sicura ai guerrieri. Di giorno,
se qualcuno rischiava l’infezione mortale, intervenivano i prodigi
dei maghi Psilli e una grande lotta per estrarre il veleno.
Prima, segnavano la parte morsicata bagnandola di saliva,
che concentra il veleno e delimita l’infezione nella ferita,
poi pronunciavano una serie di scongiuri con bocca schiumante
in un mormorio continuo: il decorso della ferita non lascia
riprendere respiro, e la morte che incombe non tollera
un attimo di silenzio. Spesso il morbo, penetrato nelle midolla
annerite, fuggiva per gli scongiuri; se invece il veleno tardava
a udirli, restìo alle invocazioni e ai comandi di uscire, lo Psillo
si gettava sulle livide ferite, ne succhiava il veleno,
spremeva coi denti le membra, sputava gli umori
mortali, estratti dal gelido corpo con il suo potere;
dal sapore del veleno, sapeva riconoscere facilmente
di quale specie di serpente aveva debellato il morso.
Così i guerrieri romani, alfine sollevati
da questo aiuto, si avventurarono per l’ampia distesa desolata.
Per due volte spentasi Febe, e altrettante riaccesa in cielo,
vide al sorgere e al tramontare Catone errare nel deserto.
Già la sabbia cominciava progressivamente a indurirsi
e il suolo di Libia a ispessirsi e a ridiventare terra,
già lontano si sollevavano rare fronde di piante
e sorgevano rozze capanne coperte di paglia.
Quanto si rallegrarono i miseri d’una terra migliore,
quando per la prima volta incontrarono i feroci leoni!
Leptis era vicina; in tale tranquillo soggiorno
trascorsero un inverno privo di calure e tempeste.
Alcune specie di serpenti africani
(dal testo: Serpenti e rettili, a cura di Susan Barraclough, trad. di MdF Srl – Roma,
Rusconi Libri, Sant’Arcangelo di Romagna 2015)
SPECIE
CARATTERISTICHE
DIFFUSIONE
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Vipera rostrata (Echis carinatus)
Vipera cornuta del deserto (Cerastes
cerastes
Cobra dal collo nero (Naja
nigricollis)
Aspide (Vipera aspis)
Vipera soffiante (Bitis arietans)
Vipera arboricola (genere Atheris)
LUNGHEZZA Fino a 90 cm
RIPRODUZIONE Da 4 a 16 piccoli
l’anno
ATTACCO Strofina le scaglie e poi
attacca con morsi ripetuti
VELENO Citotossine (attaccano le
cellule)
DURATA DELLA VITA Fino a 2
anni
LUNGHEZZA 60-75 cm
PREDE Piccoli mammiferi e
lucertole
ARMI Lunghe zanne velenose a
rapida azione
TATTICHE Agguato
DURATA DELLA VITA Fino a 17
anni in cattività
LUNGHEZZA Fino a 2,8 m
PREDE Piccoli mammiferi, uccelli,
uova, rane, rospi, lucertole, serpenti,
insetti
VELENO Una combinazione di
citotossine (che attaccano le cellule) e
neurotossine (che attaccano il sistema
nervoso)
ATTACCO Morso rapido per
iniettare il veleno
DIFESA Apre il cappuccio e sputa
veleno, di solito in faccia
all’assalitore
DURATA DELLA VITA 22 anni in
cattività
LUNGHEZZA 50-75 cm
PREDE Piccoli mammiferi, lucertole
e giovani uccelli
ARMI Zanne velenose
TOSSICITÀ Può risultare letale
DURATA DELLA VITA Fino a 20
anni
LUNGHEZZA 0,7-1,5 m
PESO 1,5-2 kg
PREDE Ratti, lucertole, uccelli, rane
e altri piccoli animali
VELENO Causa emorragie interne e
collasso degli organi o la morte se le
cure non sono tempestive
ATTACCO Singolo morso con le
zanne cave
DURATA DELLA VITA Fino a 15
anni; più a lungo in cattività
LUNGHEZZA Fino a 75 cm; le
femmine di solito sono più grandi dei
maschi
PREDE Anfibi, lucertole e roditori;
occasionalmente chiocciole, lumache,
uccelli e altri serpenti
ARMI Zanne velenose
DURATA DELLA VITA
Sconosciuta
Questo serpente si trova nelle zone
più secche dell’Africa settentrionale e
del Sudest asiatico, dal Sahara, in
Medio Oriente, fino al Pakistan,
all’India e alla Birmania.
La vipera cornuta del deserto vive nei
deserti del Nordafrica, dalla
Mauritania e dal Marocco, in tutto il
Sahara fino in Egitto. Si trova anche
in Giordania, Iraq, Arabia Saudita e
Kuwait.
Il cobra dal collo nero, nelle sue
diverse sottospecie, è diffuso in
buona parte del continente africano e
su diverse isole, in vari habitat: dai
boschi fitti alle radure secche, e fino
alle zone semidesertiche, evitando
solo le foreste pluviali e le regioni più
aride.
Diffuso dalla Svizzera alla Francia, in
Italia e in varie zone di Spagna e
Germania, l’aspide vive ovunque
possa trovare calore e un luogo in cui
nascondersi. Caccia nei prati e nei
campi, nelle radure dei boschi e
anche nelle discariche.
La vipera soffiante è diffusa in gran
parte dell’Africa e in alcune regioni
della penisola arabica. Vive in quasi
tutte le zone pianeggianti e fino a
2000 m di altitudine, tranne nelle
parti più secche dei deserti e al centro
delle foreste pluviali più fitte.
L’habitat tipico della vipera soffiante
è la savana.
Le vipere arboricole si trovano in
tutta l’Africa equatoriale, dalla
Guinea a ovest al Mozambico a est.
Gli habitat in cui vivono sono molto
vari: dalle foreste sempreverdi,
montane e tropicali alle paludi e alle
praterie. Delle nove specie note, solo
Atheris superciliaris e Atheris hindii
vivono anche al suolo; le altre
trascorrono la maggior parte della
loro esistenza sugli alberi.
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Vipera nasicorne (Bitis nasicornis)
LUNGHEZZA Fino a 1,8 m
(femmine)
PREDE Piccoli mammiferi, uccelli,
lucertole, rane e pesci
ARMI Lunghe zanne velenose
ABITUDINI Rettile notturno
DURATA DELLA VITA Fino a 15
anni
Boomslang (Dispholidus typus)
LUNGHEZZA Fino a 2 m
ABITUDINI Predatore arboricolo
PREDE Lucertole, piccoli
mammiferi, uccelli e rane
ARMI Lunghe zanne in fondo alla
bocca
VELENO Potente emotossina che
distrugge le cellule sanguigne
TOSSICITÀ Può essere fatale in 24
ore
DEPOSIZIONE Depone 10-25 uova
DURATA DELLA VITA
Sconosciuta
LUNGHEZZA Fino a 2,5 m
PREDE Soprattutto lucertole, uccelli
e roditori; a volte anche pipistrelli
ARMI Zanne velenose
VELENO Neurotossina, spesso letale
DURATA DELLA VITA Fino a 15
anni in cattività
Mamba verde (Dendroaspis
angusticeps e Dendroaspis viridis)
Mamba nero (Dendroaspis polylepis)
LUNGHEZZA Fino a 4,3 m
PREDE Piccoli mammiferi e uccelli
ARMI Zanne velenose
ATTACCO Insegue una vittima a
grande velocità
DURATA DELLA VITA
Sconosciuta
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La vipera nasicorne vive nelle
lussureggianti foreste pluviali
dell’Africa centrale e occidentale, dal
Sudan e dal Kenya occidentale fino al
Ciad e alla Nigeria, alla Guinea e al
Senegal. Questo serpente preferisce il
terreno umido vicino a corsi d’acqua,
fiumi, laghi e paludi, e sebbene si
sappia arrampicare, trascorre la
maggior parte del tempo al suolo.
Il boomslang vive in gran parte
dell’Africa, a sud del Sahara, dal
Senegal a ovest fino all’Eritrea a est,
e a sud fino alla provincia del Capo.
Si trova in diversi habitat, dalle
foreste alle praterie alla savana, ma
non vive nelle fitte foreste pluviali
del bacino del Congo, tra le
montagne e nelle zone più aride.
Le due specie di mamba verde
abitano nelle foreste pluviali di
alcune parti dell’Africa subsahariana.
Il mamba verde orientale (D.
angusticeps) vive in Africa orientale,
dal Kenya fino al Sudafrica, mentre il
mamba verde occidentale (D. viridis)
vive nell’Africa occidentale.
Il mamba nero vive nell’Africa
orientale e meridionale, dal nord del
Sudan al centro del Sudan e dallo
Zaire al Mozambico. Il serpente abita
savane erbose, radure, macchie e
boschi aperti. Di notte, dopo aver
mangiato a sazietà, il mamba si
rifugia in luoghi oscuri e appartati
come caverne, crepe rocciose e
termitai.
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Brano n. 2
Lo Spettro rivela ad Amleto l’assassinio di suo padre, il re di Danimarca
(tratto da: William Shakespeare, Amleto, atto I scena V,
trad. di Luigi Squarzina,
in William Shakespeare, Tutto il teatro, vol. V,
Newton Compton editori, Roma 1990, pp. 74-76)
SCENA QUINTA
Una parte remota della piattaforma.
Entrano lo Spettro e Amleto.
AMLETO: Dove vuoi condurmi? Parla: non verrò più lontano.
SPETTRO: Ascolta.
AMLETO: Ti ascolto.
SPETTRO: È quasi l’ora per me di tornare alle fiamme lancinanti dello zolfo.
AMLETO: Anima infelice!
SPETTRO: Non compiangermi. Ascolta ciò che rivelerò.
AMLETO: Parlami: sono pronto all’ascolto.
SPETTRO: Siilo così alla vendetta, quando avrai udito.
AMLETO: Che?
SPETTRO: Sono lo spirito di tuo padre, condannato per un tempo deciso a vagare la
notte, e il giorno a digiunare tra le fiamme, finché non siano arsi e purificati i delitti
che commisi nei giorni di natura. Se non fosse interdetto di svelare il segreto del mio
carcere, potrei farti un racconto la cui più innocua parola saprebbe straziare la tua
anima, agghiacciare il tuo giovane sangue, far roteare fuori dalle orbite, come stelle, i
tuoi occhi, dividere le tue ciocche pettinate e annodate, drizzare i tuoi capelli, uno a
uno, come gli aculei dell’istrice minacciato. Ma questa araldica di eternità non è fatta
per orecchie di carne e di sangue. Ascolta, ascolta, oh ascolta! Se amasti tuo padre…
AMLETO: Dio!
SPETTRO: Vendica il suo scellerato, snaturato assassinio.
AMLETO: Assassinio!
SPETTRO: Empio come sa essere il delitto, ma questo empio, pazzo, e snaturato.
AMLETO: Parla, presto, voglio buttarmi alla vendetta, con ali veloci come pensieri
d’amore o meditazioni.
SPETTRO: Ti trovo disposto. Saresti più fiacco dell’erba grassa che ha radici pigre
sui banchi del Lete, se non sussultassi a queste parole. Amleto, ascolta. Si è detto che
un serpente mi ha morso mentre dormivo in giardino. Così la Danimarca è
perfidamente ingannata da una versione artefatta della mia morte; ma sappi, nobile
giovane, il serpente che morse la vita di tuo padre, oggi ne porta la corona.
AMLETO: Mia profetica anima! Mio zio?
12
SPETTRO: Sì. Quella bestia incestuosa e adultera, con ingegno stregato, con doni
traditori – ingegno, doni maledetti che hanno tanta seduzione! – attrasse ai suoi
piaceri infami il desiderio della mia regina. Non pareva onesta? Amleto, che caduta
fu quella! Da me, dal mio amore, dignità che andava mano nella mano con i voti
nuziali, decadere a un miserabile, i cui doni naturali erano povertà, paragonati ai
miei! La virtù sta salda anche se il vizio la corteggia sotto apparenza divina; ma la
lussuria, anche unita a un angelo radioso, può stendersi su un letto celeste a pascersi
di letame. Basta. Sento l’aria del mattino, devo affrettarmi. Durante il mio consueto
riposo pomeridiano in giardino tuo zio approfittò del mio sonno con una fiala di
succo del maledetto giusquiamo, e mi versò nei padiglioni delle orecchie
quell’estratto lebbroso, la cui essenza è talmente contraria al sangue dell’uomo che
guizza come argento vivo attraverso le porte, lungo le vie naturali del corpo, e con
vigore fulmineo rapprende e caglia, aceto gocciante nel latte, il sano, sottile sangue.
Così fu di me, e una scabbia istantanea coprì di una vile crosta ripugnante, crosta di
Lazzaro, tutto il mio corpo liscio. Così nel sonno, per mano di un fratello, fui
spogliato a un tempo della vita, della corona, e della regina; falciato nel rigoglio dei
peccati, impreparato, senza i sacramenti, non assolto, fui spinto davanti al mio
giudice, tutte le mie imperfezioni ancora su me.
AMLETO: Orribile, orribile! La cosa più orribile!
SPETTRO: Se hai natura in te, non accettarlo; non permettere che il talamo reale di
Danimarca sia un’alcova di lussuria e di incesto. Ma come tu decida di agire, non si
macchi la tua mente, la tua anima non cospiri contro tua madre. Lasciala al cielo, i
rovi stanno nel suo petto a trafiggerla. Devo dirti addio! La lucciola mostra che l’alba
si avvicina, il suo fuoco senza calore comincia a impallidirne. Addio, addio, addio!
Ricordati di me.
(Esce.)
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13
Brano n. 3
La morte di Barrois1
(tratto da: Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo,
trad. di Emilio Franceschini, Mondadori, Milano 1996, rist., pp. 652-656)
Barrois cominciava a ritornare in sé; anzi essendo passata la crisi, si era sollevato
sopra un gomito, mandando profondi gemiti. D’Avrigny e Villefort lo portarono
sopra un sofà.
«Che cosa ordinate, dottore?»
«Fatemi portare dell’acqua e dell’etere, se ce n’è in casa.»
«Sì.»
«Mandate a prendere dell’olio di trementina e dell’emetico.»
«Andate!» disse Villefort.
«Ora si ritirino tutti.»
«Io pure?» domandò timidamente Valentina.2
«Sì, signorina, voi sopra tutti!» disse burberamente il dottore.
Valentina guardò il signor d’Avrigny con meraviglia, baciò in fronte il signor
Noirtier,3 e uscì. Dietro a lei il dottore chiuse la porta con aria cupa.
«Osservate, osservate, dottore, eccolo che rinviene; era un attacco di nessuna
importanza.»
Il signor d’Avrigny sorrise mestamente.
«Come vi sentite, Barrois?» domandò il dottore.
«Un po’ meglio, signore.»
«Potete bere un bicchiere di questo etere?»
«Mi proverò, ma non mi toccate.»
«Perché?»
«Perché mi sembra che se mi toccaste, foss’anche con la sola punta di un dito,
l’accesso mi ritornerebbe.»
«Bevete.»
Barrois prese il bicchiere, se l’avvicinò alle labbra violacee, e ne vuotò circa la
metà.
«Dove soffrite?» domandò il dottore.
«Dappertutto, provo spaventosissimi crampi.»
«Avete un tremito all’occhio?»
«Sì.»
1
Barrois è il domestico della famiglia di Villefort, ossia del giudice che ha fatto ingiustamente arrestare e segregare
Edmond Dantès nella prigione del castello d’If. Egli muore misteriosamente avvelenato sotto gli occhi di Villefort e del
medico, dottor d’Avrigny.
2
Valentina è la giovane e bella figlia di Villefort, che il conte di Montecristo, alias Edmond Dantès, ha posto sotto la
sua protezione.
3
Noirtier è il nonno di Valentina, molto affezionato alla nipote: è paralizzato ma riesce a farsi capire dalla ragazza
attraverso il particolare linguaggio degli occhi.
14
«Tintinnio alle orecchie?»
«Spaventoso.»
«Quando vi è cominciato?»
«Poco fa.»
«Rapidamente?»
«Come il fulmine.»
«Niente ieri? Ieri l’altro?»
«Niente.»
«Neppure sonnolenza? Peso?»
«No.»
«Che cosa avete mangiato quest’oggi?»
«Non ho mangiato niente, ho bevuto soltanto un po’ di limonata del signore, ecco
tutto.»
E Barrois fece colla testa un segno per indicare Noirtier, che immobile sulla sedia,
contemplava quella terribile scena, senza perderne motto, senza lasciarne sfuggir
parola.
«Dov’è la limonata?» domandò vivamente il dottore.
«In una bottiglia.»
«Dov’è?»
«In cucina. Volete che vada a cercarla, dottore?» domandò Villefort.
«No, restate qui, e procurate di far bere al malato il resto di quel bicchier d’acqua.»
«Ma la limonata…»
«Vado io stesso.»
D’Avrigny fece un salto, ed aperta la porta, si lanciò giù dalle scale, poco
mancando che non rovesciasse la signora Villefort, che anch’essa scendeva in cucina,
per cui mandò un grido. D’Avrigny non vi fece attenzione, assorto come era in una
sola idea: saltò i primi tre o quattro scalini, e scoperse la bottiglia per tre quarti vuota
sulla sua sottocoppa. Vi piombò sopra come aquila sulla sua preda quindi, ansante,
risalì, e rientrò nella camera. La signora Villefort risaliva lentamente la scala che
conduceva alle sue stanze.
«Era questa la bottiglia che era qui?» domandò d’Avrigny.
«Sì, signor dottore.»
«Questa limonata è la stessa che avete bevuta?»
«Lo credo.»
«Che gusto ci avete sentito?»
«Un gusto amaro.»
Il dottore versò qualche goccia di limonata nel cavo della mano, l’aspirò colle
labbra, e dopo avere sciacquata la bocca come si fa quando si vuole gustare il vino,
sputò il liquido nel caminetto.
«È la stessa» disse. «E voi, signor Noirtier, ne avete bevuto?»
Il vecchio fece segno di sì.
«Le avete trovato il medesimo gusto amaro?»
Il vecchio ripeté ancora di sì.
15
«Ah, signor dottore» gridò Barrois, «ecco che il male mi riprende! Mio Dio,
Signore, abbiate pietà di me!»
Il dottore corse al malato.
«Questo emetico, Villefort, guardate se viene.»
Villefort si slanciò gridando:
«L’emetico! L’emetico! L’hanno portato?»
Nessuno rispose. Il più profondo terrore regnava nella casa.
«Se potessi soffiargli dell’aria nei polmoni» disse d’Avrigny, guardandosi intorno
«avrei il mezzo di prevenire l’asfissia. Ma no! Niente! Niente!»
«Ah, signore» gridava Barrois, «mi lascerete morire senza soccorso? Oh, io muoio!
Mio Dio, io muoio!»
«Una penna! Una penna!» gridò il dottore.
Ne afferrò una sulla tavola, e tentò d’introdurla nella gola del alato, che si
contorceva, ma le mascelle erano talmente strette, che la penna non poté passarvi.
Barrois, in preda ad un attacco nervoso anche più intenso del primo, era scivolato giù
dal sofà, e si contorceva sul pavimento. Il dottore lo lasciò in preda a questo accesso,
al quale non poteva portare un sollievo, e ritornando a Noirtier:
«Come vi sentite voi?» gli disse, precipitosamente e sotto voce, «bene?»
“Sì”.
«Leggero di stomaco, o pesante? Leggero»
“Sì”.
«È stato Barrois che ha fatto la vostra limonata?»
“Sì”.
«L’avete sollecitato voi a berne?»
“No.”
«È stato il signor Villefort?»
“No.”
«La signora?»
“No.”
«Fu dunque Valentina, allora?»
“Sì.”
Un sospiro di Barrois, uno sbadiglio che gli faceva scricchiolare le ossa della
mascella, richiamarono l’attenzione di d’Avrigny; lasciò il signor Noirtier, e corse al
malato.
«Barrois» disse il dottore, «potete parlare?»
Barrois balbettò qualche parola inintelligibile.
«Fate uno sforzo, amico mio.»
Barrois riaprì gli occhi.
«Chi ha fatto la limonata?»
«Io.»
«L’avete portata subito al vostro padrone, dopo averla fatta?»
«No.»
«L’avete lasciata in qualche luogo allora?»
«Nella credenza; fui chiamato.»
16
«Chi la portò qui?»
«La signorina Valentina.»
D’Avrigny si batté la fronte.
«Oh, mio Dio, mio Dio!» mormorò egli.
«Dottore!» gridò Barrois, che sentiva avvicinarsi un terzo accesso.
«Ma non porteranno mai questo emetico?» gridò il dottore.
«Eccone un bicchiere già preparato» disse Villefort rientrando.
«Da chi?»
«Dal giovane della farmacia che è venuto con me.»
«Bevete.»
«Impossibile, dottore, è troppo tardi; io ho la gola che si restringe! Oh, il mio
cuore! Oh, la mia testa!... Oh, quale inferno!... E dovrò soffrire a lungo così?»
«No, no, amico mio» disse il dottore, «ben presto voi non soffrirete più.»
«Ah, vi capisco! Mio Dio, abbiate pietà di me!»
E, gettando un grido, cadde, come se fosse stato colpito da un fulmine. D’Avrigny
gli mise una mano sul cuore, e avvicinò uno specchio alle labbra.
«Ebbene?» domandò Villefort.
«Andate a dire in cucina che mi portino subito dello sciroppo di viole.
Villefort scese immediatamente.
«Non vi spaventate, signor Noirtier» disse d’Avrigny. «Trasporto il malato in
un’altra camera, per cavargli sangue; davvero questa sorta d’accessi sono un triste
spettacolo a vedersi.»
E, prendendo Barrois sotto le braccia, lo trascinò in una camera vicina, ma subito
dopo rientrò dal signor Noirtier per prendere il resto della limonata. Noirtier chiuse
l’occhio diritto.
«Valentina, è vero? Voi volete Valentina? Ordino subito che ve la mandino.»
Villefort risaliva; d’Avrigny lo incontrò nel corridoio.
«Ebbene?» domandò Villefort.
«Venite» disse d’Avrigny.
E lo condusse nella camera.
«Sempre svenuto?» domandò il regio procuratore.
«Morto!»
Villefort indietreggiò due o tre passi, si congiunse le mani al disopra della testa, e
con una commiserazione non equivoca:
«Morto così all’improvviso?» diss’egli, guardando il cadavere.
«Sì, d’improvviso, è vero?» disse d’Avrigny. «Ma ciò non deve sorprendere: il
signore e la signora di Saint-Méran sono morti essi pure così prontamente.4 Oh, si
muore alla spiccia in casa vostra, signor Villefort.»
«Che?» gridò il magistrato, con accento d’orrore e di costernazione. «Voi ritornate
alla vostra terribile idea?»
4
Il signore e la signora di Saint-Méran erano i ricchi suoceri di Villefort, misteriosamente morti qualche tempo prima.
17
«Sempre, signore, sempre» disse d’Avrigny con solennità, «perché essa non mi ha
abbandonato un istante… E perché siate ben convinto che questa volta non mi
inganno ascoltatemi bene, signor Villefort.»
Villefort tremava terribilmente.
«C’è un veleno che ammazza senza quasi lasciare traccia. Io lo conosco, io l’ho
studiato in tutti gli accidenti, in tutti i fenomeni che produce. Questo veleno, io l’ho
riconosciuto poco fa nel povero Barrois, come già prima nella signora di SaintMéran. C’è un modo di riconoscerne la presenza: ridona il colore azzurro alla carta di
tornasole arrossata con un acido, e tinge in verde lo sciroppo di violette. Non
abbiamo la carta di tornasole, ma adesso porteranno lo sciroppo di violette che ho
ordinato.»
Infatti si udivano dei passi nel corridoio: il dottore aprì alquanto la porta, prese
dalle mani della cameriera un vaso, nel fondo del quale vi erano due o tre cucchiai di
sciroppo, e richiuse la porta.
«Guardate» disse al regio procuratore, a cui il cuore batteva fortemente, «ecco in
questa tazza lo sciroppo di violette, ed in questa bottiglia il rimanente della limonata
che si sono bevuta Noirtier e Barrois. Se la limonata è pura e inoffensiva, lo sciroppo
conserverà il suo colore; se la limonata è avvelenata, lo sciroppo deve diventar verde.
Osservate!»
Il dottore versò lentamente qualche goccia di limonata nella tazza, e si vide nello
stesso istante formarsi nel fondo della tazza un cambiamento di colore da prima
azzurro, poi zaffiro, poi opale, indi smeraldo; l’esperimento non lasciava più alcun
dubbio.
«L’infelice Barrois è stato avvelenato colla falsa angostura, o con la noce di
Sant’Ignazio» disse d’Avrigny. Ora lo asserirei davanti agli uomini e davanti a Dio.»
Villefort muto alzò le braccia al cielo, aprì gli occhi stravolti, e cadde sopra una
sedia.
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18
Brano n. 4
Il conte di Montecristo salva Valentina di Villefort
da una misteriosa avvelenatrice
(tratto da: Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo,
trad. di Emilio Franceschini, Mondadori, Milano 1996, rist., pp. 796-803)
XCIX
L’apparizione
(…) Erano già dieci minuti circa che l’infermiera si era ritirata. Valentina, in preda da
un’ora a quella febbre che ritornava ogni notte, lasciava la sua testa non più soggetta
alla volontà, continuare quel lavoro attivo, monotono ed implacabile del cervello che
si affaticava a riprodurre incessantemente gli stessi pensieri o a generare le stesse
immagini. Dal lucignolo del lume notturno filtravano mille e mille raggi tutti abbelliti
di strane significazioni, quando d’un tratto, al tremulo suo riflesso, Valentina vide
aprirsi lentamente la scansia dei libri, posta di fianco al caminetto in un cavo del
muro, senza che i cardini sui quali essa sembrava ruotare producessero il minimo
rumore. In altri tempi Valentina avrebbe afferrato il campanello, o avrebbe tirato il
cordone per chiamare soccorso, ma niente la stupiva nella situazione in cui si trovava,
convinta com’era che tutte le visioni erano figlie del suo delirio, e questa convinzione
le era venuta perché la mattina non rimaneva alcuna traccia di tutti quei fantasmi
notturni. Dietro la porta comparve una figura umana. Valentina si era, per la febbre,
troppo famigliarizzata con queste apparizioni, per spaventarsi; aperse soltanto due
grandi occhi, sperando di riconoscere Morrel.5 La figura continuò ad avanzarsi verso
il letto, quindi si fermò, e parve ascoltare con profonda attenzione. In quel momento
il volto del notturno visitatore fu illuminato da un riflesso di luce.
«Non è lui!» mormorò la ragazza.
Ed aspettò, convinta di sognare, che quest’uomo, come accade nei sogni,
scomparisse o si cambiasse in qualche altra persona.
Si toccò soltanto il polso e sentendolo battere violentemente, ricordò che il miglior
mezzo per far scomparire quelle importune visioni, era di bere. La freschezza della
bevanda, composta d’altra parte allo scopo di calmare le agitazioni di cui Valentina si
era lamentata col dottore, facendole diminuire la febbre, le arrecava un rinnovamento
di sensazioni: quando aveva bevuto, per un momento si sentiva meglio.
Valentina stese dunque la mano per prendere il bicchiere dal piatto di cristallo su
cui posava, ma mentre allungava fuori dal letto il braccio tremante, l’apparizione fece
ancora due passi più rapidi degli altri e giunse così vicina alla ragazza, che questa ne
intese il respiro, e credette di sentire la pressione della mano. Stavolta l’illusione o
1
Massimiliano Morrel, il fidanzato segreto di Valentina.
19
piuttosto la realtà sorpassava tutto ciò che Valentina aveva provato fino allora;
cominciò a credere di essere realmente sveglia, sentì la sensazione, e fremette.
La pressione aveva lo scopo di fermarle il braccio. Valentina lo ritirò lentamente.
Allora questa figura, da cui non poteva staccare lo sguardo, e che d’altra parte
sembrava piuttosto protettrice che minacciosa, questa figura prese il bicchiere, si
avvicinò al lume, e guardò la bevanda, come se avesse voluto guidarne la trasparenza
e la limpidezza. Ma questa prima prova non bastò a quell’uomo o piuttosto fantasma,
poiché camminava così dolcemente che il tappeto soffocava il rumore dei passi,
quest’uomo prese dal bicchiere un cucchiaio della pozione e l’inghiottì. Valentina
guardava ciò che accadeva con profondo sentimento di stupore: credeva che quella
visione stesse per scomparire e dar posto ad un’altra, ma l’uomo invece di svanire
come ombra, si riavvicinò e stendendole il bicchiere, con voce piena di emozione:
«Ora» disse, «bevete!»
Valentina rabbrividì.
Era la prima volta che una delle sue visioni le parlava: aprì la bocca per mandare
un grido. L’uomo posò un dito sulle labbra.
«Il signor Montecristo!» mormorò lei.
Allo spavento negli occhi della ragazza, al tremito delle sue mani, al gesto rapido
che fece per nascondersi sotto le lenzuola, si poteva intuire l’intima lotta dei suoi
sentimenti. La presenza di Montecristo nella sua camera a quell’ora, la sua entrata
misteriosa, fantastica, inesplicabile, da un muro, sembravano impossibili alla
sconvolta ragione di Valentina.
«Non chiamate, state calma» disse il conte, «non abbiate, neppure in fondo al
cuore, l’ombra di un sospetto, di un’inquietudine! L’uomo che vi sta dinanzi (infatti
questa volta avete ragione, Valentina, la vostra non è un’illusione), l’uomo che vi sta
dinanzi è per voi il più tenero padre, il più rispettoso amico che possiate figurarvi.»
Valentina non trovò parole per rispondere: quella voce, rivelandole la sua presenza
reale, le faceva così paura, che temeva di parlare. Ma il suo sguardo spaventato
voleva dire “Se le vostre intenzioni sono pure, perché siete qui?”. Con la sua
meravigliosa sagacità il conte capì tutto quanto passava nel cuore della ragazza.
«Ascoltatemi» disse, «o piuttosto guardatemi: vedete i miei occhi arrossati e il mio
viso più pallido ancora del solito? È perché da quattro notti non chiudo occhio, da
quattro notti veglio su di voi, vi proteggo, vi conservo al nostro amico
Massimiliano.»
Un’onda di sangue montò rapidamente alle guance dell’ammalata, poiché il nome
pronunciato dal conte le toglieva il residuo di diffidenza, che le aveva ispirato.
«Massimiliano!...» ripeté Valentina, tanto questo nome le sembrava dolce da
pronunciare. «Massimiliano, dunque vi ha confessato tutto?»
«Tutto. Mi ha detto che la vostra vita era la sua, e gli ho promesso la vostra
sicurezza.»
«Gli avete promesso la mia vita?»
«Sì.»
«Infatti, signore, avete parlato di vigilanza e di protezione. Siete dunque medico?»
«Sì, ed il migliore che il cielo possa mandarvi in questo momento, credetemi.»
20
«Voi dite che avete vegliato?» domandò Valentina inquieta. «E dove? Io non vi ho
visto.»
Il conte stese la mano nella direzione della scansia.
«Ero nascosto dietro quella porta, la quale mette in una casa vicina che ho preso in
affitto.»
Valentina, per un momento di pudico orgoglio, voltò gli occhi, e con sdegno disse:
«Signore, ciò che voi avete fatto è una pazzia, e la protezione che mi avete
accordata, somiglia molto ad un insulto.»
«Valentina, questa lunga veglia mi serviva per sapere quali persone venivano da
voi, quali alimenti vi preparavano, quali bevande vi servivano; e quando queste
bevande mi sembravano pericolose, entravo, come ho fatto ora, vuotavo il vostro
bicchiere, e sostituivo al veleno una bevanda benefica, che invece della morte che vi
era stata preparata vi desse vita.»
«Il veleno! La morte!» gridò Valentina, credendosi nuovamente preda di qualche
febbrile allucinazione. «Di cosa mi parlate dunque, signore?»
«Zitta, figlia mia» disse Montecristo portando nuovamente il dito alle labbra. «Ho
detto il veleno, ho detto la morte, sì lo ripeto, la morte… Ma prima bevete questo…»
e il conte sfilò dalla tasca una boccettina contenente un liquore rosso, di cui versò
alcune gocce nel bicchiere: «e quando avrete bevuto, non pigliate più niente per tutta
la notte.»
Valentina allungò la mano, ma appena ebbe toccato il bicchiere, la ritrasse con
spavento. Montecristo prese il bicchiere, ne bevve la metà, e lo porse a Valentina, che
trangugiò sorridendo il resto del liquido che conteneva.
«Oh, sì» disse, «riconosco il gusto delle mie bevande notturne, è quest’acqua che
apportava un po’ di fresco al mio petto, un po’ di calma al mio cervello. Grazie,
signore, grazie.»
«Ecco in che modo avete vissuto da quattro notti, Valentina» disse il conte. «Ma
io, in che modo vivevo io? Oh, che ore crudeli ho passato per voi! Che terribili
torture, quando vedevo versare nel vostro bicchiere il veleno mortale, quando temevo
che aveste il tempo di berlo, prima che io potessi intervenire!»
«Voi dite, signore» riprese Valentina, al colmo del terrore, «che avete subito mille
torture vedendo versare nel mio bicchiere un veleno mortale? Ma, se avete veduto
versare il veleno nel mio bicchiere, avrete pur veduto la persona che lo versava…»
«Sì.»
Valentina si levò a sedere sul letto, portando sul seno più pallido della neve la
batista ricamata ancor molle del sudore freddo del delirio, al quale cominciava ad
accompagnarsi il sudore più glaciale del terrore.
«L’avete veduta?» ripeté la ragazza.
«Sì» ripeté una seconda volta il conte.
«Quanto mi dite è terribile, signore, ciò che mi volete far credere ha qualche cosa
d’infernale! Nella casa di mio padre! Nella mia camera! Sul mio letto di patimento si
continua ad assassinarmi? Andatevene, signore. Voi tentate la mia coscienza, voi
bestemmiate la divina bontà! Ciò che dite è impossibile, non può essere.»
21
«Siete voi dunque la prima colpita da questa mano, Valentina? Non avete visto
cadere intorno a voi il signor di Saint-Méran, la signora di Saint-Méran, Barrois?6
Non avreste visti cadere il signor Noirtier, se la cura che fa da tre anni non lo avesse
protetto, combattendo il veleno coll’abitudine al veleno?»
«Oh mio Dio! È dunque per questo» disse Valentina «che da circa un mese il mio
buon nonno esige che io prenda una parte della sua pozione?»
«E queste pozioni» disse Montecristo «hanno un gusto amaro, come quello della
scorza d’arancio quasi secca, non è vero?»
«Sì, mio Dio, sì.»
«Ecco tutto spiegato» disse Montecristo: «egli pure sa che qui si avvelena, e forse
chi avvelena. Egli ha premunito voi, sua figlia prediletta, contro la sostanza mortale, e
la sostanza mortale è stata sconfitta dall’assuefazione… Ecco perché siete ancor viva.
Cosa che non potevo capire, poiché eravate stata avvelenata con una sostanza che non
perdona.»
«Ma chi è dunque l’assassino, l’uccisore?»
«Prima vi domanderò: non avete mai visto entrare nessuno nella notte in questa
camera?»
«Può darsi. Spesso ho creduto di veder passare delle ombre; queste ombre si
avvicinavano, si allontanavano, sparivano…»
«Così voi non conoscete la persona che attenta alla vostra vita?»
«No, e perché vi può essere qualcuno che desideri la mia morte?»
«Voi la conoscerete presto» disse Montecristo, tendendo le orecchie.
«Ed in che modo?» disse Valentina, guardando con terrore intorno a sé.
«Perché questa sera voi non avete più né febbre, né delirio, perché questa sera siete
ben desta, perché ora suona la mezzanotte, e questa è l’ora degli assassini.»
«Mio Dio, mio Dio!» disse Valentina, asciugandosi con la mano il sudore della
fronte.
Infatti mezzanotte suonava lenta e triste. Si sarebbe detto che ciascun colpo del
martello di bronzo battesse nel cuore della ragazza.
«Valentina» continuò il conte, «richiamate tutte le forze in vostro soccorso,
comprimete il cuore nel petto, chiudete la voce nella gola, fingete di dormire, e
vedrete, vedrete…»
Valentina afferrò la mano del conte.
«Mi sembra di sentir rumore, ritiratevi.»
«Addio, o piuttosto arrivederci» rispose il conte.
Quindi con un sorriso così triste e paterno, che la ragazza gliene fu grata, raggiunse
sulla punta dei piedi la porta dietro la scansia. Ma fermandosi prima di richiuderla
dietro di sé:
«Non un gesto» disse, «non una parola… Vi devono credere addormentata, senza
di che, forse sareste uccisa prima che avessi il tempo di accorrere.»
E dopo quella tremenda ingiunzione, il conte disparve dietro la scansia, che si
richiuse dietro di lui.
6
Persone di casa Villefort, tutte morte per mano di una misteriosa avvelenatrice, che poi si scoprirà essere la
stessa moglie del procuratore Villefort.
22
C
Locusta
Valentina rimase sola. Altri due orologi a pendolo che erano in ritardo rispetto a
quello di Saint-Philippe de Roule, suonarono ancora mezzanotte a differenti
intervalli. Quindi ad eccezione di qualche carrozza lontana, tutto ricadde nel silenzio.
Allora tutta l’attenzione di Valentina si concentrò sul pendolo della sua camera, la cui
sfera marcava i secondi. Si mise a contare questi secondi, e notò che erano più lenti
delle pulsazioni del suo cuore. Eppure dubitava ancora: l’inoffensiva Valentina non si
poteva figurare che qualcuno desiderasse la sua morte: perché? Con quale scopo?
Che male aveva fatto per avere un nemico?
Non c’era timore che s’addormentasse. Una sola idea, un’idea terribile teneva il
suo spirito attento: che cioè vi potesse essere qualcuno che avesse tentato
d’avvelenarla, e che stava per tentare una seconda volta. Se questa volta quella
persona, stanca di vedere inefficace il veleno, come aveva detto Montecristo, avesse
ricorso al ferro? Se il conte non avesse avuto il tempo di accorrere? Se fosse prossima
all’ultimo suo momento? Se non avesse più potuto rivedere Morrel? A questo
pensiero, che le suscitava ad un tempo livido pallore e agghiacciato sudore, Valentina
era preparata ad afferrare il cordone del campanello, ed a chiamare soccorso. Ma le
sembrava vedere, attraverso la libreria, sfavillare l’occhio del conte, quest’occhio che
vegliava sul suo avvenire, e che, quando ci pensava, l’opprimeva di tale vergogna che
si chiedeva se mai la riconoscenza avrebbe cancellato il penoso effetto dell’indiscreta
amicizia del conte. Venti minuti, venti eterni minuti passarono in tal modo, poi altri
dieci minuti ancora: finalmente il pendolo, stridendo un minuto secondo prima, finì
col battere un colpo sotto la volta sonora. In quello stesso momento, il raschiare
impercettibile di un’unghia contro il legno della scansia avvisò Valentina che il conte
vegliava e le raccomandava di vegliare.
Infatti dalla parte opposta, vale a dire verso la camera di Edoardo, sembrò a
Valentina di sentir scricchiolare il pavimento di legno, tese l’orecchio, trattenne il
respiro; si sentì stridere la maniglia della serratura, e la porta girò sopra i cardini.
Valentina si era sollevata sul gomito, e appena ebbe tempo di lasciarsi ricadere sul
letto, coprendosi gli occhi con un braccio. Quindi tremante, agitata, col cuore stretto
da indicibile spavento, aspettò. Qualcuno si avvicinò al letto, e ne sfiorò le cortine.
Valentina raccolse tutte le forze, e lasciò sentire quel mormorio regolare della
respirazione, che annunzia un sonno tranquillo.
«Valentina!» disse una voce sommessa.
La ragazza fremette fino in fondo al cuore, ma non rispose.
«Valentina!» ripeté con lo stesso tono la stessa voce.
Il medesimo silenzio: Valentina aveva promesso di far finta di dormire. Poi tutto
rimase immobile, tranne che intese il rumore appena sensibile di un liquido che
cadeva nel bicchiere che aveva vuotato. Allora osò, al riparo del braccio steso, aprire
le palpebre, e vide una donna, in accappatoio bianco, che vuotava nel suo bicchiere
un liquido contenuto in una boccetta.
23
In quell’istante, Valentina forse trattenne il respiro, o fece senza dubbio un moto,
poiché la donna, inquieta, si fermò e si chinò sul letto per meglio vedere se dormiva
realmente: era la signora Villefort. Valentina nel riconoscere la matrigna fu presa da
un fremito che impresse un moto al letto. La signora Villefort si addossò al muro, e
là, nascosta dietro alle cortine del letto, muta e attenta spiò fino al minimo moto di
Valentina. Questa si ricordò le terribili parole di Montecristo: le era sembrato, nella
mano che non teneva la boccetta, di veder brillare una specie di coltello lungo e
affilato. Allora Valentina, richiamando tutto il potere della volontà in suo soccorso, si
sforzò di chiudere gli occhi; ma questa funzione del più timoroso dei nostri sensi,
questa funzione di solito così semplice, diveniva in quel momento quasi impossibile,
tanto l’avida curiosità faceva sforzi per conoscere la verità. Rassicurata dal silenzio,
in cui si sentiva soltanto il respiro che provava il sonno di Valentina, la signora
Villefort stese di nuovo il braccio, e, rimanendo per metà nascosta dietro le cortine
riunite al capezzale del letto, terminò di vuotare nel bicchiere di Valentina il
contenuto della boccetta. Quindi si ritirò senza che il minimo rumore avvertisse
Valentina che la matrigna era uscita.
Il raschiare di un'unghia nella scansia tolse Valentina da quello stato di torpore, nel
quale era immersa, e che rassomigliava ad una asfissia. Sollevò la testa a stento. La
scansia, sempre silenziosamente, girò una seconda volta, Montecristo ricomparve.
«Ebbene» domandò il conte, «dubitereste ancora?»
«Oh, mio Dio!» mormorò la ragazza.
«Avete visto?»
«Sì» disse Valentina, mandando un gemito, «ma non ci posso credere.»
«Voi dunque desiderate piuttosto morire, e far morire Massimiliano?...»
«Mio Dio! Mio Dio!» ripeté la giovane, quasi smarrita. «Ma non posso dunque
lasciare la casa? Fuggire?»
«Valentina, la mano che vi perseguita vi raggiungerà dappertutto, con l'oro e col
denaro sedurrà i vostri domestici e vi presenterà la morte mascherata sotto tutti gli
aspetti, nell'acqua inzuccherata che berrete, nel frutto che coglierete dall'albero...»
«Ma non mi avete detto che la precauzione presa dal nonno mi aveva premunita
contro il veleno?»
«Contro uno dei veleni, ed anche non impiegato a forte dose, ma cambierà il
veleno, o crescerà la dose.»
Il conte prese il bicchiere e vi accostò le labbra.
«E guardate, l'ha già fatto. Il veleno non è più la brucnina, ma un semplice
narcotico. Riconosco il gusto dell'alcool nel quale è stato sciolto. Se aveste bevuto ciò
che la signora Villefort ha versato in questo bicchiere, Valentina, Valentina! Voi
sareste perduta!»
«Ma, mio Dio» gridò la ragazza, «perché dunque mi perseguita in tal modo?»
«Come, siete così buona, così dolce, così incredula del male, che non avete capito,
Valentina?»
«No» disse la ragazza, «io non le ho mai fatto del male.»
«Ma voi siete ricca, Valentina, avete duecentomila lire di rendita, e queste
duecentomila lire di rendita voi le togliete a suo figlio.»
24
«In che modo? I miei beni non sono suoi, mi vengono dai miei parenti.»
«Senza dubbio, e se il signore e la signora di Saint-Méran furono uccisi, fu perché
poteste ereditare dai vostri parenti; ecco perché, dal giorno in cui anche il signor
Noirtier vi fece sua erede, fu condannato a morte; ora è la vostra volta, voi dovete
morire, Valentina, e ciò affinché vostro padre erediti da voi, e vostro fratello,
divenuto figlio unico, erediti da vostro padre.»
«Edoardo? Povero bambino! Ed è per lui che si commettono tanti delitti?»
«Ah, capite, finalmente?»
«Ah, mio dio, purché non paghi lui il prezzo di questi delitti!»
«Voi siete un angelo, Valentina.»
«Ma hanno dunque rinunciato ad uccidere mio nonno?»
«Avranno riflettuto che, morta voi, a meno il caso di un nuovo cambiamento di
testamento, i suoi beni andranno naturalmente a vostro fratello, e avranno pensato che
questo delitto, in fin dei conti, era inutile, ed anzi doppiamente pericoloso
commetterlo.»
«Ed una donna ha potuto concepire tutti questi delitti? Oh, mio Dio, mio Dio!»
«Ricordatevi Perugia, il pergolato dell'albergo della Posta, l'uomo dal mantello
scuro interrogato da vostra madre sull’acqua tofana… Da quell’epoca ha maturato
tutto questo infernale progetto.»
«Signore» gridò la ragazza, struggendosi in lacrime, «quando è così, vedo bene che
sono condannata a morire.»
«No, Valentina, no, poiché ho previsto tutte le trame; no, perché la nostra nemica è
vinta, essendo scoperta; no, voi vivrete, Valentina, vivrete per amare ed essere amata,
vivrete per essere felice e per render felice un cuore nobile… Ma, Valentina, per
vivere bisogna aver piena fiducia in me.»
«Ordinate, signore, che cosa debbo fare?»
«Bisogna che prendiate ciecamente ciò che vi darò.»
«Dio mi è testimonio» gridò Valentina, «che se fossi sola, preferirei lasciarmi
uccidere.»
«Voi non vi confiderete a nessuno, neppure a vostro padre?»
«Mio padre non entra in questa spaventosa trama, non è vero, signore?» disse
Valentina giungendo le mani.
«No. Eppure vostro padre, uomo abituato alle trame criminali, deve avere qualche
sospetto che tutte queste morti non siano naturali. Vostro padre, è lui che avrebbe
dovuto vegliare su voi, è lui che avrebbe dovuto essere a quest’ora nel posto che
occupo io, è lui che avrebbe dovuto vuotare questo bicchiere, è lui che avrebbe
dovuto rizzarsi contro l’assassino. Spettro contro spettro!» mormorò terminando la
sua frase sottovoce.
«Signore, io farò di tutto per vivere, perché vi sono due esseri al mondo che mi
amano, e che morirebbero se io morissi: mio nonno e Massimiliano.»
«Io veglierò su loro, come ho vegliato su voi.»
«Ebbene, signore, disponete di me» disse Valentina. Quindi soggiunse a bassa
voce: «Oh, mio Dio, che accadrà mai di me?»
25
«Qualunque cosa accada, Valentina, non vi spaventate… Se soffrite, se perdete la
vista, l’udito, il tatto, non temete di niente, se vi svegliate senza sapere dove siete,
non abbiate paura, doveste anche, nello svegliarvi, trovarvi in qualche caverna
sepolcrale o chiusa in una bara, richiamate subito il vostro spirito, e dite a voi stessa:
“In questo momento un amico, un padre, un uomo che vuole la mia felicità e quella di
Massimiliano, quest’uomo veglia su di me”.»
«Ahimè, che terribile situazione!»
«Valentina, preferite denunciare la vostra matrigna?»
«Preferirei morire cento volte! Oh, sì! Morire!»
«No, non morrete, e qualunque cosa vi accada, non vi lamenterete, e spererete. Me
lo promettete?»
«Penserò a Massimiliano.»
«Voi siete la mia figlia prediletta, Valentina: io solo posso salvarvi, e vi salverò.»
Valentina al colmo del terrore congiunse le mani (s’accorgeva bene ch’era giunto il
momento di domandare a Dio coraggio), e si alzò per pregare, mormorando parole
monche, dimenticando che le sue bianche spalle non avevano altro velo che la lunga
capigliatura, e che si vedeva batterle il seno sotto il fine merletto del corpetto da
notte.
Il conte appoggiò dolcemente la mano sul braccio della ragazza, ricondusse fino al
collo la trapunta di velluto, e con sorriso tutto paterno:
«Figlia mia» disse, «credete nella mia affezione, come credete nella bontà di Dio e
nell’amore di Massimiliano.»
Valentina fissò su di lui uno sguardo pieno di riconoscenza, e stette docile come un
bimbo ai suoi voleri. Allora il conte cavò dal taschino del panciotto la scatola di
smeraldo, sollevò il coperchio d’oro e versò nella mano destra di Valentina una
piccola pastiglia rotonda della grandezza di un pisello. Valentina la prese coll’altra
mano e guardò il conte attentamente: nei lineamenti di quell’intrepido protettore si
leggeva un riflesso della celeste potenza. Era evidente che Valentina lo interrogava
con lo sguardo.
«Sì» rispose questi.
Valentina si portò la pastiglia alla bocca e l’inghiottì.
«Ed ora, arrivederci, figlia mia» disse, «vado a provar di dormire, perché ora siete
salva.»
«Andate» disse Valentina, «qualunque cosa mi accada, vi prometto di non aver
paura.»
Montecristo tenne a lungo gli occhi fissi sulla ragazza, che a poco a poco si
addormentava, vinta dalla forza del narcotico datole dal conte. Allora prese il
bicchiere, e vuotandolo per tre quarti nel caminetto, perché si credesse che Valentina
ne aveva bevuto, lo rimise sul tavolino da notte; quindi, passando dietro la scansia,
scomparve, dopo aver dato un ultimo sguardo a Valentina, che si addormentava con
quella confidenza e candore con cui un angelo riposa ai piedi del Signore.
CI
Valentina
26
Il lume da notte sul caminetto di Valentina consumava le ultime gocce di olio che
galleggiavano ancora sull’acqua, già un cerchio più rossiccio colorava il globo
d’alabastro, già la fiamma più viva lasciava sentire gli ultimi crepitii che sembravano,
negli esseri inanimati, le ultime convulsioni dell’agonia, così spesso paragonate a
quelle delle povere creature umane: una luce cupa e sinistra rifletteva un colore opaco
sulle cortine bianche e sulle coperte della ragazza.
Tutti i rumori della strada erano cessati, ed il silenzio interno era profondo. Allora
si aprì la porta della camera di Edoardo, e una testa, che abbiamo già riconosciuta,
comparve sullo specchio opposto alla porta. Era la signora Villefort che tornava per
vedere l’effetto del suo beveraggio.
Si fermò sulla soglia, ascoltò il crepitio della lampada, solo rumore percettibile in
quella camera, che si sarebbe creduta deserta, quindi si avanzò dolcemente verso la
tavola da notte per vedere se il bicchiere di Valentina era stato vuotato. Non ve ne era
che un quarto, come abbiamo visto.
La signora Villefort lo prese, e lo andò a versare sulle ceneri, smovendole perché
meglio assorbissero il liquido, quindi pulì con cura il cristallo, l’asciugò col proprio
fazzoletto, e lo rimise sulla tavola da notte.
Se qualcuno avesse potuto penetrare con lo sguardo nell’interno di quella camera,
avrebbe veduto l’esitazione della signora Villefort nel fissare gli occhi su Valentina
ed accostarsi al letto. Quella lugubre luce, quel silenzio, quella terribile poesia della
notte, venivano senza fallo a cambiarsi nella spaventevole poesia della sua coscienza;
l’avvelenatrice aveva paura di guardare l’opera sua. Prese finalmente ardire,
allontanò la cortina, ed appoggiandosi al capezzale del letto, si curvò sopra Valentina.
La ragazza non respirava più; i suoi denti semichiusi, non lasciavano sfuggire un
alito di quel soffio che manifesta la vita: le sue labbra imbiancandosi avevano cessato
di fremere, i suoi occhi velati da un vapore violetto, che sembrava essersi infiltrato
sotto la pelle, formavano una sporgenza più bianca dove il globo gonfiava la
palpebra, e le sue lunghe ciglia nere rigavano una pelle già pallida come la cera.
La signora Villefort contemplò quel viso con una espressione eloquentissima nella
sua immobilità. Allora crebbe il suo ardire, e sollevando la coperta, appoggiò la mano
sul cuore della ragazza: era muto e ghiacciato; udiva i battiti delle vene delle proprie
dita, per cui subito si ritrasse piena di spavento. Il braccio di Valentina pendeva fuori
dal letto: quel braccio con tutta la sua parte superiore dalla spalla al cubito, sembrava
modellato sopra quello di una delle Grazie di Germano Pilon, ma l’avambraccio
leggermente deforme per un increspamento, e il polso della mano di forma purissima,
si appoggiavano, un poco irrigiditi e colle dita allontanate, sull’acacia del letto. La
radice delle unghie era turchina.
Per la signora Villefort non c’era più dubbio, tutto era finito; l’opera terribile,
l’ultima che volesse compiere, era consumata.
L’avvelenatrice non aveva più niente da fare in quella camera. Si ritirò con tanta
precauzione, da temere il rumore dei piedi sul tappeto, ma nel ritirarsi teneva ancora
sollevata la cortina, assorbendo quello spettacolo della morte, che porta in sé una
27
irresistibile attrazione fino a che la morte non ha prodotta la decomposizione: finché
dura il mistero, non vi è ancora il ribrezzo.
I minuti passavano, la signora Villefort sembrava non potersi staccare da quella
cortina che teneva sospesa come una sindone al disopra della testa di Valentina; pagò
il suo tributo alla meditazione. La meditazione del delitto deve essere il rimorso. In
quel momento i crepitii del lume raddoppiarono. A quel rumore la signora Villefort
fremette, e lasciò ricadere la cortina. Nello stesso istante si spense il lume, e la
camera fu immersa in una spaventosa oscurità. In mezzo a quell’oscurità si risvegliò
la pendola, e suonò le quattro e mezzo.
L’avvelenatrice spaventata da quelle successive emozioni, raggiunse a tastoni la
porta, e rientrò nella sua camera col sudore dell’angoscia sulla fronte.7
     
Il farmaco fatto bere dal conte di Montecristo a Valentina le provoca la morte apparente e la sottrae all’avvelenamento
progettato dalla signora di Villefort. Questa verrà scoperta dal marito, il procuratore Villefort, e si avvelenerà a sua
volta assieme al figlio, il piccolo innocente Edoardo. Massimiliano Morrel infine ritroverà sana e salva Valentina
sull’isola di Montecristo.
7
28
Brano n. 5
Amore e morte
(tratto da: Edgar Allan Poe, L’appuntamento, trad. di Daniela Paladini, in
Edgar Allan Poe, Tutti i racconti, le poesie e Gordon Pym,
Newton Compton editori, Roma 1992, pp. 187-190)
È stato, o dovrebbe essere notato, che dai modi del gentiluomo, risulta evidente
una differenza dal contegno dell’uomo comune, benché non si abbia la capacità
immediata e precisa di determinare in cosa consista tale differenza. Si deve
ammettere che questa osservazione non può non essere applicata con evidenza alla
condotta esteriore del mio conoscente; io la riconobbi, nel corso di quella mattinata
fatale, ancora più pienamente consona alla sua indole morale e al suo carattere. N è
posso meglio definire quale particolarità del temperamento sembrasse distinguerlo
nell’essenza da tutti gli altri esseri umani, se non chiamandola abitudine al pensiero
intenso e continuo, che traspariva anche dai gesti più banali – si imponeva persino nei
momenti di frivolezza – e andava a mescolarsi addirittura ai guizzi di allegria – come
le vipere che escono contorcendosi dagli occhi delle maschere ghignanti, sui
cornicioni che cingono i templi di Persepoli.
Comunque non potei fare a meno di notare ripetutamente, nella mescolanza di
leggerezza e solennità del tono con cui dissertava rapidamente su questioni senza
importanza, una certa aria di trepidazione – un senso di mellifluità nervosa nei gesti,
come nei discorsi – un’inquieta eccitabilità dei modi che a me apparivano
assolutamente inesplicabili, e in alcune occasioni, arrivavano persino a colmarmi di
sgomento.
Inoltre, nel bel mezzo di una frase, faceva frequentemente una pausa, in apparenza
sembrava aver perso il filo, ma si aveva l’impressione che stesse in ascolto con
grande attenzione, come se fosse in attesa da un momento all’altro di un ospite, o
inseguisse suoni che dovevano esistere soltanto nella sua mente.
Fu proprio durante una di queste sue fantasticherie, o pause di apparente
distrazione che, mentre voltavo una pagina dell’Orfeo, la bellissima tragedia del
poeta e letterato Poliziano (la prima tragedia della letteratura italiana) che si trovava
accanto a e, sull’ottomana, scoprii un passo sottolineato a matita. Era quasi alla fine
del terzo atto – un passo che suscitava un’emozione tale da commuovere il cuore – un
passo che, anche se guastato dalle impurità, nessun uomo potrebbe leggere senza il
fremito di una sensazione insolita e nessuna donna senza un sospiro.
L’intera pagina era macchiata di lacrime recenti, e sul foglio a fianco erano scritti i
seguenti versi in inglese con una calligrafia però molto diversa dagli strani caratteri di
mia conoscenza, che con qualche difficoltà riconobbi come sua.
Tu fosti tutto per me, amore,
tutto ciò per cui la mia anima si struggeva –
29
una verde isola nel mare, amore,
una fonte e un santuario,
inghirlandati di fiori e frutta insieme,
e tutti quei fiori erano miei.
Ah, sogno troppo splendente per durare!
Ah, Speranza fulgente! Che sorse
solo per venire offuscata!
Dal Futuro una voce grida,
«Avanti!» – Ma è sul Passato
(oscuro gorgo!) che la mia anima sta sospesa
Muta – immobile – atterrita!
Poiché ahimè! Ahimè! Per me
si è spenta la luce della vita.
«Non più – non più – non più»
(così parla il mare solenne
alle sabbie sulla spiaggia)
L’albero bruciato dalla folgore fiorirà ancora,
o l’aquila ferita si leverà in volo!
Ora tutte le mie ore sono rapimenti;
e tutti i miei sogni notturni
sono dove il tuo scuro occhio brilla
e dove risplende la tua orma –
in quali danze eteree,
accanto a quali ruscelli italiani.
Ahimè! Poiché in quel momento maledetto,
le onde ti portarono via,
via dall’Amore, verso l’età titolata e il delitto,
e un letto profano!
Via da me, e dal nostro clima nebbioso,
dove l’argenteo salice piange!
Il fatto che questi versi fossero scritti in inglese – lingua che non credevo l’autore
conoscesse – non fu per me di grande stupore. Ero fin troppo consapevole di quanto
fossero vaste le sue conoscenze, e del singolare piacere che traeva nel nasconderle
agli occhi del mondo, per meravigliarmi di una scoperta del genere; ma il luogo
scritto accanto alla data, lo confesso, mi causò non poco stupore. In origine vi era
stato scritto Londra, poi attentamente cancellato in seguito – comunque non in modo
così efficace da occultare la parola ad uno sguardo minuzioso… Ripeto che ciò mi
causò non poco stupore; poiché ricordo bene che, in passato, durante una
conversazione con il mio amico, gli avevo appunto domandato se avesse già
incontrato prima di allora la Marchesa di Mentoni a Londra (per alcuni anni,
precedenti il suo matrimonio, ella aveva risieduto in quella città) e la sua risposta, se
non erro, mi diede ad intendere che lui non aveva mai visitato la metropoli della Gran
Bretagna.
30
Tanto vale che ne accenni anche qui, più di una volta avevo sentito dire (senza
naturalmente dare credito a un racconto tanto improponibile), che la persona di cui
parlo, non era solo per nascita, ma anche per educazione, un inglese.
«V’è un quadro», disse, senza accorgersi che avevo scorto la tragedia, «c’è un altro
quadro che non ha visto.» E scostando una tenda, scoprì un ritratto a grandezza
naturale della Marchesa Aphrodite. L’arte umana non avrebbe potuto fare di più per
evidenziare la sua bellezza sovrumana.
La stessa figura eterea che avevo visto davanti a me la sera precedente, sui gradini
del Palazzo Ducale, mi era di fronte ancora una volta. Ma nell’espressione del volto,
che era tutto un sorriso radioso, si celava ancora (incomprensibile anomalia!) quel
velo spasmodico di malinconia che sarà sempre inseparabile dalla perfezione della
bellezza. Il braccio destro era piegato sul seno, il sinistro indicava un vaso modellato
in modo strano, verso il basso. Era visibile un solo piccolo piede di fata, che quasi
non toccava terra – inoltre scarsamente visibile nello sfondo luminoso, che sembrava
circondare e racchiudere la sua bellezza, fluttuava un paio delle ali più delicate che si
possano immaginare. Il mio sguardo si spostò dal quadro alla figura del mio amico, e
le vigorose parole del Bussy d’Ambois di Chapman8 mi salirono istintivamente sulle
labbra:
Egli è in piedi
lì come una statua romana! Rimarrà in piedi
finché la morte non l’avrà mutato in marmo!
«Venga» – disse dopo un po’, voltandosi verso un tavolo d’argento massiccio,
sontuosamente smaltato, sul quale erano poggiati alcuni calici colorati in modo
eccentrico, insieme a due grandi vasi etruschi, modellati come lo stesso straordinario
esemplare che era raffigurato nel ritratto, e colmi di quello che mi sembrò
Johannisberger. «Venga!», disse bruscamente. «Beviamo! È presto – ma beviamo. È
davvero presto», continuò pensosamente, mentre un cherubino che reggeva un
pesante martello dorato faceva risuonare il rintocco della prima ora dopo l’alba, in
tutto l’appartamento. «È davvero presto, ma che importanza ha? Beviamo! Facciamo
un’offerta al sole che nasce, queste lampade sgargianti e gli incensieri sembrano
intenti ad offuscarlo!»
E, con il bicchiere colmo, brindammo, mentre lui mandava giù, in rapida
successione, parecchi calici di quel vino.
«Sognare», continuò, riprendendo il filo della sua conversazione sconnessa, mentre
alzava uno dei magnifici vasi verso la luce dell’incensiere, «sognare è stato lo scopo
della mia vita. Per questo ho creato per me stesso, una camera di sogno. Avrei mai
potuto costruirne una migliore nel cuore di Venezia? Intorno a sé può veramente
osservare, un miscuglio di ornamenti architettonici. La castità della Ionia è offesa da
8
George Chapman, letterato e poeta inglese (1559-1634) scrisse numerose commedie e tragedie, tra cui il Bussy
d’Ambois, ispirato al personaggio storico di Louis de Clermont d’Amboise, signore di Bussy, gentiluomo della corte di
Francia e protetto del fratello del re Enrico III, il quale morì ucciso nel 1597 per mano del marito della contessa di
Montsoreau, che aveva sedotto.
31
invenzioni antidiluviane, e le sfingi egizie sono poggiate su tappeti d’oro. Eppure
l’effetto risulta incongruo, soltanto per il timido. Le convenzioni di luogo, e
specialmente di tempo, sono lo spauracchio che atterrisce l’umanità e la allontana
dalla contemplazione della bellezza. Un tempo io stesso sono stato rispettoso del
decoro: ma la sublimazione della stravaganza ha nauseato la mia anima. Adesso tutto
questo fa da scenario al mio proposito. Il mio spirito si sta contorcendo, nel fuoco,
come questi incensieri arabescati, e il delirio di questa scena mi sta guidando verso le
visioni più sfrenate di quella terra di sogni reali verso la quale sto rapidamente
andando.» Qui fece bruscamente una pausa, piegò la testa sul petto, e sembrò essere
in ascolto di un suono che io non riuscivo a udire.
Finalmente, sollevandosi, guardò in alto e declamò i versi del Vescovo di
Chichester:
Aspettami là! Non mancherò
di raggiungerti in quella valle cupa.
L’istante dopo, confessando l’effetto del vino, si gettò lungo disteso su
un’ottomana.
Si udì il suono di un passo svelto sulla scalinata, seguito rapidamente da un
energico bussare alla porta.
Mi stavo preparando al rumore di una seconda intrusione, quando un paggio di
casa Mentoni irruppe nella stanza, e pronunciò con voce rotta, con un tono soffocato
dalla commozione, delle parole sconnesse: «La mia padrona! – La mia padrona! –
Avvelenata! – Avvelenata! Oh bellissima – Oh bellissima Aphrodite!».
Disorientato, mi precipitai verso l’ottomana, e tentai di svegliare il dormiente,
facendolo tornare a uno stato di vigile coscienza. Ma le sue membra erano rigide – le
labbra erano livide – i suoi occhi che fino a poco prima ridevano, erano fissi e privi di
vita. Vacillai all’indietro verso il tavolo – la mia mano cadde su un calice annerito e
incrinato – e la consapevolezza dell’intera terribile verità, mi balenò improvvisamente nell’anima.
     
32
Brano n. 6
La candela avvelenata9
(testo tratto da: Edgar Allan Poe, Il genio della perversione,
trad. di Daniela Palladini, in
Edgar Allan Poe, Tutti i racconti, le poesie e Gordon Pym,
Newton Compton editori, Roma 1992, pp. 38-41)
Abbiamo di fronte un compito cui dobbiamo rapidamente adempiere, sappiamo
che sarebbe rovinoso ritardarlo, la più importante crisi della nostra vita ci sprona, con
squillo di tromba, a una energica, immediata azione. Bruciamo, siamo consumati
dall’impazienza di cominciare il lavoro, nella previsione di un favorevole risultato,
tutto il nostro animo è in fiamme. È necessario cominciare oggi e tuttavia
rimandiamo tutto a domani… perché? Non c’è risposta, se non quella che ci sentiamo
perversi, usando questa parola senza comprenderne il principio. Arriva l’indomani e
con esso un’ansietà ancor più impaziente di fare il nostro dovere, ma con il crescere
di questa ansietà arriva anche una esigenza di ritardare, oscura, decisamente paurosa
in quanto insondabile, una esigenza che acquista forza man mano che gli attimi
volano via. L’ultima ora per agire è vicina. Tremiamo per la violenza del conflitto
che è dentro di noi – del definito con l’indefinito – della sostanza con le ombre, ma se
la contesa è arrivata così avanti è l’ombra che prevale – invano lottiamo; scocca l’ora
ed è il rintocco funebre del nostro benessere, allo stesso tempo il canto del gallo per il
fantasma che ci ha così a lungo atterriti. Esso fugge via – sparisce – siamo liberi,
ritorna l’antica energia. Lavoreremo ora, ma, ahimè!, è troppo tardi!
Siamo ritti sull’orlo di un precipizio, guardiamo giù nell’abisso, ci sentiamo
sofferenti e storditi. Il primo impulso è quello di sfuggire al pericolo, ma
inspiegabilmente restiamo. A poco a poco il nostro malessere, lo stordimento,
l’orrore si confondono in una nube di sensazioni indefinite. Gradualmente, sempre
più impercettibilmente, questa nuvola prende forma come il vapore che usciva dalla
bottiglia e da cui prendeva forma il genio nelle Mille e una Notte. Ma la nostra
nuvola sull’orlo del precipizio, diventa una forma palpabile, molto più terribile di
qualsiasi genio o demonio dei racconti, nonostante sia solo un pensiero, anche se
spaventoso e tale da farci gelare fino al midollo delle ossa con il fascino feroce del
suo orrore. È soltanto l’idea di quello che realmente sentiremmo nella rovinosa
caduta da tanta altezza. Questo precipitare – questo travolgente annullarsi – proprio
perché suscita le più odiose e spaventose tra tutte le odiose e spaventose immagini
della morte e della sofferenza che si siano mai affacciate alla nostra immaginazione –
proprio per questo preciso motivo noi lo desideriamo più intensamente. Poiché la
ragione cerca con ogni mezzo di tenerci lontani dal precipizio, proprio per questo noi
Nella parte precedente del racconto l’autore ha dimostrato che esistono nella psiche dell’uomo impulsi della volontà
che lo spingono irresistibilmente a commettere azioni riprovevoli e perfino delittuose, anche contro se stesso. È un
impulso primordiale che deriva dall’intima perversione dell’animo umano, secondo l’autore.
9
33
inesorabilmente ci avviciniamo ad esso. Non c’è in natura una passione più
diabolicamente impaziente di quella di colui che, tremando sull’orlo di un precipizio,
medita di gettarvisi. Se indulgiamo per un istante ad un qualsiasi tentativo di pensare
siamo perduti; perché la riflessione ci spinge ad astenerci e proprio per questo, ripeto,
non lo possiamo. Se non c’è un braccio amico che ci arresti o se non siamo in grado
di tirarci indietro dall’abisso, ci lanciamo a capofitto e siamo distrutti.
Se esaminiamo queste azioni ed altre simili, troveremo, dovremo trovare che esse
derivano soltanto dallo spirito della Perversione. Le perpetriamo solo perché
sentiamo che non dovremmo. Al di là o al di qua di ciò non esiste spiegazione
plausibile; potremmo certamente pensare che questa perversità sia una diretta
istigazione dell’arcinemico, se non fosse che talvolta siamo spinti ad operare per il
bene.
Ho detto tutto questo per rispondere in qualche modo alle vostre domande, – per
spiegare perché sono qui,10 per fornirvi qualcosa che abbia la parvenza di una
motivazione del fatto che sono in catene, che occupo questa cella del condannato. Se
non fossi stato così prolisso, voi mi avreste frainteso o, come la plebaglia, considerato
matto. Così, invece potrete facilmente comprendere che sono solo una delle molte
inconsapevoli vittime del Genio della Perversione.
È impossibile che qualcuno possa avere sbagliato con maggiore determinazione.
Per settimane, per mesi, ho riflettuto sui mezzi per compiere l’assassinio. Ho scartato
mille schemi, perché la loro attuazione comportava il rischio di essere scoperto. Alla
fine, leggendo alcune memorie francesi, trovai una descrizione della malattia quasi
fatale che aveva colpito Madame Pilau, per l’azione di una candela accidentalmente
avvelenata. L’idea colpì subito la mia fantasia. Conoscevo l’abitudine della mia
vittima di leggere a letto; sapevo che la sua dimora era angusta e mal ventilata. Non
voglio tediarvi con insignificanti dettagli, non ho bisogno di descrivervi il facile
sotterfugio con cui sostituii una delle candele che illuminavano la sua camera da
letto, con una simile fatta da me. Il mattino dopo fu trovato morto nel suo letto e il
verdetto del giudice sentenziò «Morto per la punizione divina».
Avendo ereditato le sue sostanze, tutto mi andò bene per anni. L’idea che potessero
scoprirmi non mi sfiorò mai la mente. Avevo personalmente e con grande cura
distrutto i resti del fatale cero. Non avevo lasciato neanche l’ombra di un indizio che
potesse portare, non dico a condannarmi, ma neanche a sospettarmi del delitto. È
inconcepibile il senso di piena soddisfazione che mi invadeva quando riflettevo sulla
mia assoluta sicurezza. Per lunghissimo tempo mi abituai a godere di questo
sentimento che mi dava più gioia di tutti i vantaggi meramente materiali derivati dalla
mia colpa. Arrivò tuttavia il momento nel quale questa sensazione piacevole
cominciò a trasformarsi, dapprima molto lentamente, in pensiero tormentoso e
ossessionante. Mi tormentava perché mi ossessionava. Non potevo liberarmene
neppure per un istante. È piuttosto comune che ci si senta disturbati dall’echeggiare
nelle orecchie o più precisamente nella memoria del motivo di una canzonetta o di
qualche brano d’opera abbastanza banale. Non ne deriviamo un fastidio se la canzone
10
Il narratore, come si esplicita alla fine, è un detenuto in attesa della esecuzione capitale.
34
è piacevole o l’opera di buon livello. Allo stesso modo mi ritrovavo continuamente a
riflettere sulla mia immunità ed a ripetermi a bassa voce «sono al sicuro».
Un giorno, mentre andavo a zonzo per le strade, mi fermai all’improvviso
mormorando a mezza voce quelle abituali sillabe. In un accesso di sfrontatezza,
rimodellai la farse così: «Sono al sicuro… sono al sicuro… sì… a meno che non sia
tanto matto da fare una aperta confessione!»
Non appena ebbi pronunciato queste parole, sentii scendere il gelo nel mio cuore.
Avevo avuto una certa esperienza di queste crisi di perversione (della cui natura mi
era difficile dare una spiegazione) e ricordavo che in nessun caso ero riuscito a
resistere al loro attacco. Ora la mia casuale riflessione che potevo essere tanto folle
da confessare il delitto del quale mi ero macchiato, mi si affacciò, come se fosse
proprio il fantasma di colui che avevo ucciso, e sembrò spingermi verso la morte.
Dapprima feci uno sforzo per strapparmi via dall’anima quell’incubo. Camminai più
energicamente – più svelto – ancora di più – alla fine correvo. Sentivo una voglia
matta di strillare. Ogni successiva ondata di questo pensiero fisso mi sommergeva
con nuovo terrore, perché capivo bene, troppo bene, che il pensare nella mia
situazione significava essere perduto. Accelerai ancor più il passo, procedevo a balzi
come un forsennato per le strade affollate, tanto che la gente infine si allarmò e
cominciò ad inseguirmi.
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Brano n. 7
Il suicidio di Ernani 11
(tratto da: Victor Hugo, Ernani, atto quinto,
in V. Hugo, Tutto il teatro, vol. II Marion de Lorme – Ernani – Il re si diverte,
trad. di Corrado Pavolini, Rizzoli, Milano 1962, pp. 236-248)
ATTO QUINTO
SCENA TERZA
ERNANI, DOÑA SOL
DOÑA SOL Se ne van tutti, alla fine!
ERNANI (cercando di attirarla fra le braccia) Caro amore!
DOÑA SOL (arrossendo e ritraendosi) È… è tardi, mi sembra.
ERNANI Angelo! È sempre tardi per restar soli insieme.
DOÑA SOL Quel chiasso mi stancava. Non è vero, mio diletto signore, che tanta
allegria stordisce la felicità?
ERNANI
Hai ragione. La felicità, mia cara, è cosa grave. Vuol cuori di bronzo
dove lentamente s’imprime. Il piacere la spaventa anche gettandole fiori. Il suo
sorriso è meno prossimo al riso che al pianto.
DOÑA SOL
Nei tuoi occhi, quel sorriso è la luce del sole. (Ernani cerca di
condurla verso la porta. Essa arrossisce.) Subito…
ERNANI Oh, io sono il tuo schiavo! Sì, rimani, rimani! Fa’ quel che vuoi. Io non
domando nulla. Tu sai quel che fai! Quel che tu fai è ben fatto! Riderò se vuoi,
canterò… L’anima mia arde… Ah! Di’ al vulcano di soffocar la sua fiamma: il
vulcano chiuderà le sue voragini semiaperte, e non avrà più sulle proprie pendici che
fiori e verdi prati… Perché il gigante è soggiogato; il Vesuvio è schiavo! E che
importa a te se la lava gli morde il cuore? Vuoi fiori? Bene! Il vulcano divorato
dall’incendio farà del suo meglio per apparir ridente alla vista!
In questo famoso dramma di Victor Hugo (rappresentato nel 1830), l’azione si svolge nella Spagna agli inizi del
Cinquecento. Il bandito Ernani, che congiura contro il giovane re di Spagna don Carlos (il futuro imperatore Carlo V),
ama riamato la bellissima doña Sol, alla cui mano ambisce il vecchio suo zio, il duca don Ruy Gomez, che odia
anch’egli don Carlos. Don Ruy Gomez, che ha sorpreso Ernani nel suo castello in compagnia di doña Sol, gli risparmia
la vita e poi salva il bandito dalle guardie di don Carlos, venute ad arrestarlo. In cambio Ernani gli promette di
collaborare con lui per uccidere il re e, per un rigoroso senso dell’onore, giura di dargli la sua stessa vita in pegno:
quando il vecchio pretendente suonerà per tre volte il corno, Ernani si ucciderà. In seguito tutti i congiurati cadono nelle
mani del re, ma questi, alla notizia che è stato proclamato imperatore, per la felicità proclama un’amnistia e permette a
Ernani di sposare doña Sol. Il giorno del matrimonio, però, Ernani sente risuonare per tre volte il corno di don Ruy
Gomez: il vecchio duca, ancora innamorato della ragazza e in odio a colui che considera sempre il suo rivale, è venuto a
esigere la promessa fattagli da Ernani. Ernani, per non venir meno al terribile impegno infangando il suo onore, è
costretto a uccidersi. Doña Sol, che invano tenta di dissuadere lo zio dall’esigere crudelmente la promessa e lo sposo
dall’attuarla, disperata si avvelena. Infine don Ruy Gomez, allorché vede che la sua spietata intransigenza sulle leggi
dell’onore ha distrutto due giovani vite, si uccide anch’egli.
11
36
DOÑA SOL Come sei buono con me povera donna, Ernani del mio cuore!
ERNANI
Che nome è questo? Ah, non chiamarmi più con questo nome, te ne
scongiuro! Mi fai ricordare che ho tutto dimenticato! So che un tempo, in sogno,
esisteva un Ernani il cui occhio lampeggiava come una spada, una creatura della notte
e dei monti, un bandito che dovunque portava scritta su di sé la parola vendetta, uno
sciagurato che si traeva dietro l’anatema! Ma io non conosco codesto Ernani. Io, io
amo i prati, i fiori, i boschi, il canto dell’usignuolo. Io sono Juan d’Aragona, marito
di doña Sol! Io sono felice!
DOÑA SOL Io sono felice!
ERNANI
Cosa importano gli stracci che entrando ho lasciato fuori! Ecco, sono
ritornato al mio palazzo in lutto. Un angelo del Signore mi aspettava sulla soglia. Io
entro, rialzo le colonne spezzate, riaccendo il fuoco, riapro le finestre, faccio estirpare
le erbacce dal selciato del cortile; non son più che gioia, incantamento, amore. Mi si
restituiscano le mie torri, le mie segrete, i miei spalti, le insegne del mio rango, il mio
seggio nel consiglio delle Castiglie, venga la mia doña Sol soffusa di rossore e con gli
occhi bassi, ci làscino soli… e tutto il resto è passato! Non ho veduto nulla, detto
nulla, fatto nulla. Ricomincio: tutto scancello e dimentico! Sia saggezza o demenza,
ho te, ti amo, e tutto il mio bene sei tu!
DOÑA SOL
(guardando il toson d’oro) Come spicca questa collana d’oro su
questo velluto nero!
ERNANI Prima che al mio la vedesti al collo di re Carlos.
DOÑA SOL Non ci avevo fatto caso. Che m’importa di tutti gli altri! Ma poi è il
velluto, o è il raso? No, mio duca: è il tuo collo che si addice alla collana d’oro! Tu
sei nobile e fiero, monsignore. (Egli tenta di trascinarla con sé.) Subito! Un
momento! Lo vedi, è la gioia! E piango! Vieni a veder com’è bella la notte. (Va alla
balaustra.) Un momento solo, mio duca! Soltanto il tempo di respirare. Tutto si è
spento, fiaccole e musiche di festa… Soltanto la notte e noi due. Felicità perfetta!
Dimmi, non credi anche tu che, per quanto addormentata, con un occhio la natura
vegli amorosamente su di noi?... Non una nuvola in cielo. Tutto riposa, come noi…
Vieni, respira con me l’aria profumata di rose! Guarda. Non un lume, non un rumore.
Tutto tace. La luna è appena spuntata all’orizzonte; mentre parlavi, il suo tremulo
chiarore e la tua voce, tutt’e due mi andavano insieme al cuore, mi sentivo calma e
beata, amor mio, e in quell’istante avrei voluto morire!
ERNANI Oh, chi non dimenticherebbe tutto all’udir questa voce celeste! La tua
parola è un canto in cui nulla più di terreno rimane. E come un viaggiatore che,
portato da un fiume, scivola sulle acque in una bella sera d’estate vedendo sotto i suoi
occhi fuggire mille distese fiorite, così il mio pensiero da te trascinato va errando
nelle tue fantasie!
DOÑA SOL Questo silenzio è troppo cupo, questa calma troppo profonda. Di’, non
vorresti vederci in fondo una stella? O che, sollevandosi a un tratto tenera e deliziosa,
una voce delle notti cantasse?...
ERNANI (sorridendo) Capricciosa! Or è un attimo fuggivamo la luce ed i canti!
DOÑA SOL
Del ballo! Ma un uccello che cantasse nei campi! Un usignuolo
perduto nell’ombra e nella verzura, o qualche flauto remoto!... Perché la musica è
37
dolce, fa armoniosa l’anima e, come un coro divino, sveglia il petto il canto di mille
voci! Oh, sarebbe bello! (Si sente il suono lontano d’un corno nel buio.) Dio mi ha
esaudita!
ERNANI (trasalendo, a parte) Ah, disgraziata!
DOÑA SOL Un angelo ha compreso il mio pensiero: certo il tuo angelo custode,
no?
ERNANI
(amaramente) Sì, il mio angelo custode! (Il corno riprende. A parte)
Ancora!
DOÑA SOL (sorridendo) Don Juan,12 riconosco il suono del tuo corno!
ERNANI Non è vero?
DOÑA SOL Non sei per caso a mezzo, in questa serenata?
ERNANI A mezzo, l’hai detto.
DOÑA SOL Ballo malinconico! Oh, quanto più mi piace il corno dal fondo dei
boschi! E poi è il tuo corno: è come la tua voce. (Il corno riprende.)
ERNANI (a parte) La tigre è laggiù che ulula, e vuol la sua preda.
DOÑA SOL Don Juan, quest’armonia riempie il cuore di giubilo.
ERNANI
(ergendosi terribile) Chiamami Ernani! Chiamami Ernani! Non l’ho
finita con questo nome fatale!
DOÑA SOL (tremante) Che hai?
ERNANI Il vecchio!
DOÑA SOL Dio, che funebri occhiate! Che cos’hai?
ERNANI Il vecchio, che ride nelle tenebre! Non lo vedi?
DOÑA SOL Vaneggi… Di che vecchio stai parlando?
ERNANI Il vecchio!
DOÑA SOL (cadendo in ginocchio) Te ne supplico in ginocchio: oh, dimmi, quale
segreto ti dilania? Che hai?
ERNANI L’ho giurato!
DOÑA SOL Giurato? (Segue con ansietà tutti i suoi movimenti. Egli si ferma d’un
tratto e si passa una mano sulla fronte.)
ERNANI (a parte) Che stavo per dire? Risparmiamola. (Forte) Io, nulla. Di che ti
ho parlato?
DOÑA SOL Hai detto…
ERNANI No. No. Avevo la mente turbata. Sono un po’ sofferente, capisci. Non
spaventarti.
DOÑA SOL Hai bisogno di qualcosa? Ordina alla tua serva. (Il corno riprende a
suonare.)
ERNANI (a parte) Lo vuole! Lo vuole! Ha il mio giuramento! (Cerca alla cintura
sprovvista di spada e di pugnale.) Nulla! Dovrebb’esser già fatto! Ah!...
DOÑA SOL Soffri molto?
ERNANI
Una vecchia ferita, che sembrava chiusa, si riapre… (A parte)
Allontaniamola. (Forte) Doña Sol, mia diletta, ascolta. Quel cofanetto che in giorni…
meno lieti… portavo con me…
12
Il nome di Ernani era don Juan d’Aragona duca di Segorbia.
38
DOÑA SOL Ho capito quale desideri. E che vuoi farne?
ERNANI C’è dentro un flacone contenente un elisir, che potrà metter fine al mio
male. Va’!
DOÑA SOL Vado, mio signore. (Esce dalla porta della camera nuziale.)
SCENA QUARTA
ERNANI (solo) Ecco dunque ciò ch’egli viene a fare della mia felicità! Ecco il dito
fatale che splende sulla parete!13 Oh, come amaramente mi beffa il destino! (Cade in
una profonda e convulsa meditazione; poi bruscamente si volge.) Ebbene?... Ma no,
tutto tace. Non sento venire nessuno. Se mi fossi ingannato!... (In cima alla scala
appare la maschera in domino nero. Ernani si arresta pietrificato.)
SCENA QUINTA
ERNANI, LAMASCHERA.
LA MASCHERA
“Qualunque cosa possa accadere, quando tu vorrai, vecchio,
qualunque sia l’ora e il luogo, se giudichi scoccata l’ora della mia morte, vieni, suona
questo corno, e non curarti d’altro. Tutto sarà fatto.” Questo patto ebbe i morti a
testimoni. Ebbene, tutto è fatto?
ERNANI (a bassa voce) È lui!
LA MASCHERA Io vengo nella tua casa, e ti dico che è giunto il momento. È la
mia ora. Ti trovo in ritardo.
ERNANI Bene. Cosa preferisci? Che vuoi fare di me? Parla.
LA MASCHERA
Puoi scegliere tra ferro e veleno. Ho qui l’occorrente. Ce ne
andremo insieme.
ERNANI D’accordo.
LA MASCHERA Vogliamo pregare?
ERNANI Che importa!
LA MASCHERA Cosa scegli?
ERNANI Il veleno.
LA MASCHERA Bene! Dammi la tua mano. (Presenta una fiala a Ernani, che la
riceve impallidendo.) Bevi, ch’io la finisca. (Ernani si porta la fiala alle labbra, poi
arretra.)
ERNANI
Oh, per pietà, domani! Duca! Se ti rimane un cuore, o se non altro
un’anima, se non sei uno spettro sfuggito alle fiamme infernali, un morto dannato,
divenuto ormai fantasma o demonio, se Dio non ti ha scritto ancora in fronte: “Mai
più!”, se tu sai che cos’è la felicità suprema d’amare, d’aver vent’anni, di sposare
colei che si ama, se mai donna amata ha tremato nelle tue braccia, aspetta fino a
domani! Domani tornerai!
Allusione alla misteriosa mano che tracciò sulla parete le parole Menè, Tekèl, Perès, davanti all’empio re dei Caldei
Baldassàr, preannunciandogli la morte e la rovina del suo regno (Daniele 5,1-29).
13
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LA MASCHERA Facile dire: domani! Domani! Scherzi? Le tue campane stamane
suonavano per i tuoi funerali! E che farei io, stanotte? Ne morrei… E dopo, chi
verrebbe a prenderti e a portarti via? Discender solo nella tomba?... Giovinotto,
bisogna seguirmi.
ERNANI Ebbene, no! Demonio, mi libero di te! Non obbedirò.
LA MASCHERA
Ne dubitavo. Benissimo. Su che cosa dunque mi facesti quel
giuramento? Ah, su nulla! Cosa da poco, in conclusione! La testa di tuo padre! Che ci
vuole a dimenticarsene? La gioventù è spensierata.
ERNANI Mio padre! Mio padre!... Ah! Io smarrirò la ragione!
LA MASCHERA No, perché?... È appena uno spergiuro, un tradimento!
ERNANI Duca!
LA MASCHERA Dal momento che oggidì i capi delle grandi famiglie spagnole
non esitano a mancar di parola, addio! (Fa un passo per uscire.)
ERNANI Non andartene.
LA MASCHERA E allora…
ERNANI Vecchio crudele! (Prende la fiala.) Alla porta del cielo dover tornare sui
miei passi! (Rientra Doña Sol senza vedere la maschera, che sta in piedi nel fondo.)
SCENA SESTA
DOÑA SOL, e Detti.
DOÑA SOL Non son riuscita a trovarlo, quel cofanetto.
ERNANI (a parte) Dio! È lei! In qual momento!
DOÑA SOL Che accade? Io gli faccio spavento, vacilla a udir la mia voce! Che
cos’hai in mano? Tremendo sospetto! Che cos’hai in mano? Rispondi. (Il domino si è
avvicinato e si toglie la maschera. Essa getta un grido, e riconosce don Ruy.) È
veleno!
ERNANI Gran Dio!
DOÑA SOL (a Ernani) Che ti ho fatto? Quale orribile mistero! Mi ingannavi, don
Juan!
ERNANI Ah, ho dovuto tacertelo! Ho promesso di morire al duca che mi salvò.
Aragona deve pagar questo debito a Silva.
DOÑA SOL
Tu non sei suo, sei mio. Che m’importa di tutti gli altri tuoi
giuramenti! (A don Ruy Gomez) Duca, l’amore mi rende forte. Lo difenderò contro di
voi, duca, contro tutti!
DON RUY GOMEZ (immobile) Difendilo, se puoi, contro una promessa giurata.
DOÑA SOL Che promessa?
ERNANI Ho giurato.
DOÑA SOL No, no, nulla ti lega! Non è lecito! Delitto! Attentato! Follia!
DON RUY GOMEZ Andiamo, duca. (Ernani fa un gesto per obbedire. Doña Sol
cerca id trascinarlo con sé.)
ERNANI Lasciami, doña Sol. È necessario. Il duca ha la mia parola, e mio padre è
lassù!
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DOÑA SOL (a don Ruy Gomez) Meglio vi varrebbe addirittura strappare alla tigre i
suoi cuccioli che a me l’uomo che amo! Ma sapete voi che cosa è doña Sol? A lungo,
per compassione della vostra età, dei vostri sessant’anni, ho fatto la fanciulla dolce,
innocente e timida: ma vedete quest’occhio inumidito da lagrime di rabbia? (Si cava
un pugnale dal petto.) Vedete questo pugnale? Ah, vecchio insensato: quando lo
sguardo è carico di minaccia, voi non temete il ferro? State attento, don Ruy! Sono
della vostra stessa famiglia, zio mio! Ascoltatemi. Fossi anche vostra figlia, sventura
a voi se toccate il mio sposo! (Getta il pugnale e cade in ginocchio davanti al duca.)
Ah, io cado ai vostri piedi! Abbiate pietà di noi! Grazia! Ahimè, monsignore, io non
son che una debole donna che l’animo non basta a sorreggere, facilmente mi spezzo.
E cado ai vostri piedi! Ah, ve ne supplico, abbiate pietà di noi!
DON RUY GOMEZ Doña Sol!
DOÑA SOL Perdonate! Noi spagnoli il dolore ci trascina a parole un po’ aspre, voi
lo sapete. Ahimè, un tempo non eravate cattivo! Pietà! Toccandolo uccidete me, zio
mio! Pietà, l’amo tanto!
DON RUY GOMEZ (cupo) Troppo lo amate!
ERNANI Tu piangi!
DOÑA SOL No, no, non voglio, amor mio, che tu muoia! No, non lo voglio! (A
don Ruy) Fate grazia oggi! Vorrò tanto bene anche a voi!
DON RUY GOMEZ Dopo di lui! Credete con questi avanzi d’amore, d’amicizia –
o anche meno –, di placar la sete che mi divora? (Mostrando Ernani) Lui è l’unico!
Lui è tutto! Per me, bella compassione! Che me ne faccio della vostra amicizia? Oh
rabbia! Lui avrebbe il cuore, l’amore, il trono, e mi farebbe l’elemosina d’un vostro
sguardo! E se bisognasse gettare una parola alle mie speranze insensate, è lui che vi
suggerirebbe: “Digli così, basterà!” sottovoce maledicendo l’avido mendico a cui
convien gettare l’ultima goccia del bicchiere scolato! Vergogna! Beffa! No. Bisogna
finirla. Bevi.
ERNANI Gli ho dato la mia parola e devo rispettarla.
DON RUY GOMEZ Andiamo! (Ernani si avvicina la fiala alle labbra. Doña Sol si
getta sul suo braccio.)
DOÑA SOL Oh, non ancora! Ascoltatemi entrambi, ve ne scongiuro!
DON RUY GOMEZ Il sepolcro è aperto, ed io non posso aspettare.
DOÑA SOL Un istante! Monsignore! Mio don Juan! Ah, come siete crudeli, tutti e
due! Che cosa voglio da loro? Un istante! Ecco tutto quello che chiedo! Lascerete pur
dire a questa povera donna ciò che ha nel cuore!... Oh, lasciatemi parlare!
DON RUY GOMEZ (a Ernani) Ho fretta.
DOÑA SOL Miei signori, voi mi fate tremare! Che cosa vi ho fatto?
ERNANI Ah! Il suo grido mi strazia!
DOÑA SOL (trattenendogli ancora il braccio) Lo vedete che ho mille cose da dire!
DON RUY GOMEZ (a Ernani) Bisogna morire.
DOÑA SOL (sempre appesa al braccio di Ernani) Don Juan, quando avrò parlato,
farai tutto quel che vorrai. (Gli strappa la fiala.) Ora è mia! (Solleva la fiala dinanzi
agli occhi di Ernani e del vecchio interdetto.)
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DON RUY GOMEZ
Visto che ora ho da fare con due donne, don Juan, andrò
altrove in cerca di cuori virili. Tu compi splendidi giuramenti sul sangue che ti diede
la vita, e io vado tra i morti a parlarne con tuo padre! Addio! (Muove qualche passo
per uscire. Ernani lo trattiene.)
ERNANI
Fermatevi, duca! (A doña Sol) Te ne scongiuro: vuoi tu vedermi
fedifrago, ahimè, e vile e spergiuro? Vuoi tu ch’io vada in giro col tradimento scritto
in fronte? Per pietà, rendimi quel veleno! Per l’amore, per la nostra anima
immortale!...
DOÑA SOL (cupa) Lo vuoi? (Beve.) Ora tieni.
DON RUY GOMEZ (a parte) Ah, era dunque per lei?...
DOÑA SOL (rendendo a Ernani la fiala mezzo vuota) Prendi, ti ho detto.
ERNANI (a don Ruy) Hai visto, miserabile vecchio!
DOÑA SOL Non lagnarti di me, ti ho lasciato la tua parte.
ERNANI (prendendo la fiala) Dio!
DOÑA SOL
Tu non mi avresti lasciato la mia alla stessa maniera! Tu non hai
l’animo d’una sposa cristiana. Non sai amare come ama una de Silva. Ma io ho
bevuto per prima e sono tranquilla. Su, bevi se vuoi!
ERNANI Ahimè, che hai fatto, disgraziata!
DOÑA SOL Sei tu che l’hai voluto.
ERNANI È una morte spaventevole!
DOÑA SOL No. Perché?
ERNANI Questo filtro conduce al sepolcro.
DOÑA SOL Non dovevamo dormire insieme questa notte? Cosa importa in qual
letto?
ERNANI Padre mio, così ti vendichi su di me che ti dimenticavo! (Si porta la fiala
alla bocca.)
DOÑA SOL
(gettandosi su di lui) Cielo! Quali strane sofferenze!... Ah, getta
lontano da te quel filtro! La mente mi si smarrisce… Férmati! Ahimè! Mio don Juan,
quel veleno è vivo! Quel veleno fa nascere in petto un’idra dai mille denti che rode e
divora! Ah, non sapevo che si soffrisse così! Che cosa è questo? È fuoco! Non bere!
Oh, patiresti troppo!
ERNANI (a don Ruy) Anima crudele! Non potevi sceglier per lei un altro veleno?
(Beve e getta la fiala.)
DOÑA SOL Che fai?
ERNANI Cosa hai fatto?
DOÑA SOL
Vieni, mio giovane amore, tra le mie braccia. (Si seggono l’una
accanto all’altra.) Non è vero che si soffre orribilmente?
ERNANI No.
DOÑA SOL Ecco incominciata la nostra notte nuziale! Sono molto pallida, vero,
per una fidanzata?
ERNANI Ah!
DON RUY GOMEZ La fatalità si compie.
ERNANI Disperazione, tormento! Doña Sol che soffre, ed io costretto a vederla
soffrire!
42
DOÑA SOL
Càlmati. Sto meglio. Tra un istante apriremo insieme le nostre ali
verso nuovi fulgori. Con volo gemello partiamo verso un mondo migliore. Un bacio
soltanto, un bacio! (Si baciano.)
ERNANI
(con voce più debole) Ah, benedetto sia il cielo che mi ha dato
un’esistenza circondata d’abissi e perseguitata da spettri, ma che ora mi consente,
stanco di così aspro cammino, d’addormentarmi con le labbra sulla tua mano!
DON RUY GOMEZ Come sono felici!
ERNANI
(con voce sempre più fioca) Vieni, vieni… doña Sol… tutto è buio…
Soffri?
DOÑA SOL (anch’essa con voce spenta) Nulla… più nulla.
ERNANI Vedi dei fuochi nell’ombra?
DOÑA SOL Non ancora.
ERNANI (con un sospiro) Ecco… (Cade.)
DON RUY GOMEZ (sollevandogli il capo che ricade) Morto!
DOÑA SOL
(drizzandosi scarmigliata sul sedile) Morto! No! Noi dormiamo.
Dorme. Sai, è il mio sposo. Ci amiamo. Siamo distesi qua. È la nostra notte di nozze.
(Con voce morente) Non svegliatelo, signor duca di Mendoza. È stanco. (Guardando
verso Ernani) Amor mio, vòlgiti dalla mia parte… Più vicino… più vicino ancora…
(Ricade)
DON RUY GOMEZ Morta! Oh! Io sono dannato. (Si uccide.)
     
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Brano n. 8
Il suicidio di Emma Bovary
(tratto da: Gustave Flaubert, Madame Bovary,
trad. di Oreste Del Buono, Garzanti, Milano 1965, pp. 267-273)
La bambina14 arrivò in braccio alla serva, i piedini nudi le sbucavano dalla lunga
camicia da notte, era seria, ancora immersa in un sogno. Osservava con stupore la
camera tutta in disordine, e sbatteva le palpebre, accecata dai doppieri accesi sui
mobili. Le ricordavano certo quelle mattine id capodanno o di mezza quaresima,
quando, svegliata di buon’ora dalla luce delle candele, veniva accolta nel letto della
madre e vi riceveva i suoi doni. Così prese a dire:
«Dov’è il regalo, mamma?»
E, siccome nessuno le rispondeva, insisté:
«Ma non lo vedo! non lo vedo!»
Félicité la tendeva verso il letto, mentre lei continuava a guardare dalla parte del
caminetto.
«Forse l’ha preso la tata?» domandò ancora.
A quella parola che la risprofondava nel ricordo degli adulteri e delle sciagure, la
signora Bovary distolse la faccia, come se il disgusto di un altro e più forte veleno le
insorgesse alle labbra. Berthe, intanto, restava posata sul letto.
«Ma che occhi grandi hai, mamma! Come sei pallida! Quanto sudore!...»
La madre la fissava.
«Ho paura!» disse la piccola, tirandosi indietro.
Emma le prese una manina, voleva baciargliela. Quella si dibatteva, non ne voleva
sapere.
«Basta! Portatela via!» gridò Charles che singhiozzava nell’alcova.
Poi i sintomi cessarono per un momento; lei parve meno agitata; e, a ogni parola
insignificante, a ogni respiro un poco più calmo, lui riacquistava speranza. Quando
Canivet fece finalmente il suo ingresso, gli si buttò tra le braccia, piangendo.
«Ah! Siete voi! Grazie! Siete buono! Ma ora tutto va meglio. Ecco, guardatela…»
Il collega non fu, però, della stessa opinione, e, senza stare, come disse, a spaccare
il capello in quattro, ordinò un emetico per liberare completamente lo stomaco.
Lei non tardò a vomitare sangue. Le sue labbra si serrarono maggiormente. Aveva
le membra contratte, chiazze brune le coprivano il corpo, il suo polso scivolava sotto
le dita come un filo teso, come la corda di un’arpa in procinto di spezzarsi.
Poi attaccò a gridare, orribilmente. Malediceva il veleno, lo ingiuriava, lo
supplicava di fare in fretta, e respingeva con le braccia irrigidite tutto quel che
Charles, più agonizzante di lei, tentava di farle mandar giù. Lui stava in piedi, il
fazzoletto sulle labbra, rantolava, piangeva, soffocava per i singhiozzi che lo
14
La piccola Berthe è la figlia di Emma Bovary.
44
scuotevano sino ai talloni; Félicité correva di qua e di là per la stanza; Homais,
immobile, emetteva gran sospiri, e il signor Canivet, pur conservando l’apparenza
dell’imperturbabilità, cominciava a sentirsi veramente preoccupato.
«Diavolo!... Eppure… ormai è purgata, e, cessando la causa…»
«…. dovrebbe cessar l’effetto,» disse Homais «è evidente.»
«Ma salvatela!» gridava Bovary.
Così, senza prestare ascolto al farmacista che azzardava ancora l’ipotesi: «Potrebbe
trattarsi di un parossismo salutare», Canivet stava per somministrare della teriaca,
quando si udì lo schiocco d’una frusta: tutti i vetri tintinnarono e una berlina da posta,
tirata a gran forza da tre cavalli infangati sino agli orecchi, irruppe di colpo
dall’angolo del mercato. Era il dottor Larivière.
L’apparizione di un dio non avrebbe suscitato maggiore emozione. Bovary levò le
mani, Canivet s’arrestò di botto, e Homais si tolse il berretto greco ancor prima che il
dottore entrasse in casa.
Apparteneva alla grande scuola chirurgica venuta fuori dal camice di Bichat, a
quella generazione ormai scomparsa di medici filosofi che, amando la loro arte d’un
amore fanatico, la professavano con entusiasmo e sagacia! Tutto tremava nel suo
ospedale, se lui andava in collera, e i suoi allievi provavano per lui una tal
venerazione che, appena cominciavano a esercitare, si sforzavano di imitarlo il più
possibile; e, infatti, si rivedevan su di loro, nelle città e nei paesi del circondario, la
sua lunga giacca di merino e la sua larga marsina i cui paramani sbottonati coprivano
un poco le mani carnose, belle mani, sempre nude di guanti, come per esser più
pronte a sprofondare nelle miserie. Sdegnoso di croci, di titoli e di accademie,
ospitale, liberale, paterno con i poveri, virtuoso pur nell’assoluta incredulità nella
virtù, avrebbe potuto quasi passare per un santo se la sottigliezza del suo spirito non
l’avesse fatto temere come un demonio. Il suo sguardo, più tagliente del bisturi, ti
scendeva dritto nell’anima e dissezionava ogni menzogna dal groviglio dei pretesti e
dei pudori. Attraversava la vita così, pieno della bonaria maestà conferitagli dalla
consapevolezza del possesso di un grande ingegno, d’una notevole ricchezza e di
un’esperienza di quarant’anni laboriosi e irreprensibili.
Aggrottò le sopracciglia già dalla soglia, notando la faccia cadaverica di Emma,
stesa sul dorso, a bocca spalancata. Poi, pur avendo l’aria distare a sentire Canivet,
continuò a passarsi l’indice sotto il naso, e ripeteva: «Bene, bene.»
Ma si strinse lentamente nelle spalle. Bovary l’osservò: si guardarono, e
quell’uomo, che pure aveva una così lunga abitudine all’aspetto del dolore, non seppe
trattenere una lacrima, che gli rotolò sullo sparato.
Volle condurre Canivet nella stanza vicina. Charles li seguì.
«Sta molto male, vero? Se le si applicassero dei senapismi? Io non so cosa!
Trovate qualcosa voi che ne avete salvati tanti!»
Charles lo stringeva con tutt’e due le braccia, lo contemplava con occhi sgomenti,
supplicanti, era mezzo svenuto contro il suo petto.
«Via, povero ragazzo, fatevi coraggio! Non c’è più nulla da fare.»
E il dottor Larivière si girò.
«Ve ne andate?»
45
«Torno subito.»
Uscì, come per dare un ordine al cocchiere; uscì anche il signor Canivet che non
aveva nessuna voglia di vedersi morire tra le mani Emma.
Il farmacista li raggiunse sulla piazza. Per temperamento non poteva separarsi dalla
gente celebre. Scongiurò, dunque, il professor Larivière di concedergli il grande
onore di accettare il suo invito a pranzo.
Si mandò subito a prendere piccioni al Leon d’oro, costolette in macelleria, panna
da Tuvache, uova da Lestiboudois, e il farmacista aiutò lui stesso nei preparativi,
mentre la signora Homais diceva, tirando i cordoncini del grembiule:
«Mi vorrete scusare, signore, ma, in questo disgraziato paese, se non si è avvisati il
giorno prima…»
«I bicchieri a calice!!!» bisbigliò Homais.
«Se fossimo stati in città, avremmo avuto almeno la risorsa dello zampetto
ripieno.»
«Ma sta’ zitta!... A tavola, professore!»
E giudicò opportuno, dopo i primi bocconi, fornire qualche particolare sulla
catastrofe:
«Abbiamo avuto dapprima un senso d’aridità alla faringe, poi dolori intollerabili
all’epigastro, soprapurgazione, coma.»
«Ma come si è avvelenata?»
«Non lo so, professore, non so neppure come abbia potuto procurarsi quell’acido
arsenioso.»
Justin, che stava portando una pila di piatti, fu assalito da un gran tremito.
«Cos’hai?» disse il farmacista.
A quella domanda, il ragazzo lasciò cadere tutto a terra, in uno spaventoso
fracasso.
«Imbecille!» gridò Homais. «Buono a nulla! Incapace! Maledetto asino che non sei
altro!»
Ma subito riuscì a dominarsi.
«Professore, ho voluto tentare un’analisi, e, primo, ho delicatamente introdotto un
tubo…»
«Avreste fatto meglio a introdurle le vostre dita in gola,» disse il chirurgo.
Il suo collega stava zitto, avendo poco prima ricevuto in confidenza una tirata
d’orecchi a proposito del suo emetico; e così quel buon Canivet, tanto arrogante e
loquace la volta dell’amputazione del piede, appariva estremamente modesto, adesso;
e non smetteva di sorridere, in segno d’assenso.
Homais delirava nel suo orgoglio d’anfitrione, e il triste pensiero di Bovary
contribuiva indefinibilmente a quel piacere, lo spingeva, infatti, a egoistiche
riflessioni su se stesso. Poi la presenza dell’illustre dottore lo esaltava. Faceva
sfoggio della sua erudizione, sciorinava le sue citazioni alla rinfusa, cantaride, upas,
manzanillo, vipera…
«Ho letto persino che diverse persone si son trovate intossicate, professore, come
fulminate da sanguinacci troppo affumicati! Almeno così diceva un bellissimo
46
rapporto composto da uno dei nostri sommi farmacisti, uno dei nostri maestri,
l’insigne Cadet de Gassicourt!»
La signora Homais riapparve, portando una di quelle vacillanti macchine da caffè
che si scaldano a spirito. Homais teneva a prepararlo in tavola, dopo averlo
personalmente tostato, macinato e mescolato.
«Saccharum, professore,» disse, offrendo lo zucchero.
Poi fece venir giù i suoi figli, voleva avere il parere del chirurgo sulla loro
costituzione.
Infine, quando il signor Larivière stava per andarsene, la signora Homais gli chiese
un consulto sul marito. Il sangue gli s’ingrossava ogni sera appena mangiato, gli
andava al cervello, e lui si addormentava a tavola.
«Oh! Non sarà mai il cervello a dargli fastidio.»
E, sorridendo un poco di quel doppio senso passato inosservato, il dottore aprì la
porta. Ma la farmacia rigurgitava di gente, e faticò abbastanza a liberarsi del signor
Tuvache, che temeva una flussione di petto per la moglie, poiché costei aveva
l’abitudine di sputare sulla cenere; poi del signor Binet, che a volte era assalito da
improvvise voglie di cibo; della signora Caron, che soffriva di pruriti; del signor
Lheureux, che ogni tanto provava delle vertigini; del signor Lestiboudois, che
dolorava per i reumatismi, e della signora Lefrançois, che non riusciva a calmare i
suoi bruciori di stomaco. Alla fine i tre cavalli si mossero, e l’opinione comune fu che
il professore s’era mostrato scarsamente compiacente.
Ma l’attenzione pubblica fu attratta dall’apparizione del reverendo Bournisien, che
passava sotto i portici del mercato con l’olio santo.
Homais, per tener fede ai propri principi, non mancò di notare che i preti son
proprio come i corvi, li attira l’odore dei morti; la vista di un sacerdote gli era
realmente sgradita, poiché la sottana nera lo faceva pensare al sudario, e lui esecrava
l’una per paura dell’altro.
Tuttavia, non si tirò indietro, non volle sottrarsi a quella che chiamava la sua
missione, e tornò dai Bovary insieme con Canivet, che il signor Larivière, prima di
partire, aveva esortato a compiere un’ultima visita; e, se la moglie non si fosse
vivacemente opposta, si sarebbe portato dietro anche i figli, per assuefarli alle
circostanze gravi, per fornir loro una lezione, un esempio, una scena solenne,
destinata a restare per sempre nella loro testa.
Quando entrarono, la camera era lugubremente solenne. Sul tavolino da lavoro,
coperto da una tovaglia bianca, c’era un piatto d’argento con cinque o sei batuffoli di
cotone, accanto a un gran crocifisso, tra due doppieri accesi. Emma, con il mento
contro il petto, sbarrava smisuratamente gli occhi, e le sue povere mani
s’increspavano sul lenzuolo con quel movimento ripugnante e lento degli agonizzanti,
che paiono volersi già coprire con il sudario. Pallido come una statua, gli occhi rossi
come tizzoni ardenti, Charles stava davanti a lei, ai piedi del letto: non piangeva più.
Appoggiato a un ginocchio, il prete borbottava sommessamente.
Con lentezza, lei girò la faccia, e parve invasa da una gran gioia nel vedere la stola
viola: certo, ritrovava in una pace improvvisa la perduta voluttà dei suoi primi slanci
mistici e, insieme, incipienti visioni di beatitudine eterna.
47
Il prete si rialzò per prendere il crocifisso; allora lei protese il collo, come qualcuno
che ha sete, e, incollando le labbra sul corpo dell’Uomo Dio, vi depositò con tutta la
sua forza fuggente il più profondo bacio d’amore che avesse mai dato. Poi il prete
recitò il Misereatur e l’Indulgentiam, immerse il pollice destro nell’olio e cominciò
l’unzione: prima sugli occhi, che avevano tanto bramato il fasto mondano, poi sulle
narici, che erano state tanto avide di tiepide brezze e di profumi amorosi, poi sulla
bocca, che s’era tanto aperta alla menzogna, ai gemiti dell’orgoglio, alle grida della
lussuria, poi sulle mani, che avevan preso tanto diletto ai dolci contatti, e alla fine
sulla pianta dei piedi, che erano stati tanto rapidi nei giorni in cui lei correva a saziare
i propri desideri, i piedi che non avrebbero mai più camminato.
Il prete si asciugò le dita, buttò nel fuoco i batuffoli impregnati d’olio, e tornò a
sedersi accanto all’agonizzante per dirle che ormai doveva unire le proprie sofferenze
a quelle di Gesù Cristo, abbandonarsi alla misericordia divina.
A conclusione di quelle esortazioni, volle metterle in mano un cero benedetto,
simbolo delle glorie celesti di cui tra poco sarebbe stata circondata. Troppo debole,
Emma non riuscì a chiudere le dita: senza l’aiuto del reverendo Bournisien, il cero
sarebbe caduto a terra.
Adesso lei non era più tanto pallida, la sua faccia aveva una espressione serena,
come se il sacramento l’avesse guarita.
Il prete fu pronto a farlo notare, spiegò, anche a Bovary, che a volte il Signore
prolunga l’esistenza di qualcuno quando lo giudica utile per la sua salvezza; e Charles
ricordò quell’altro giorno in cui, ugualmente vicina a morire, lei aveva ricevuto la
comunione.
«Forse c’è ancora speranza,» pensò.
Infatti, lei si guardò intorno, lentamente, come se si svegliasse da un sogno, poi,
distintamente chiese lo specchio, e vi restò china per un poco, sino al momento in cui
grosse lacrime cominciarono a colarle dagli occhi. Allora arrovesciò la testa, in un
doloroso sospiro e ricadde sul cuscino.
Subito il petto le prese a palpitare in fretta e furia. Dalla bocca le uscì tutta la
lingua; roteando, i suoi occhi impallidivano al pari di due globi di lampada che si
spengano; la si sarebbe potuta credere già morta senza lo spaventoso sussultar delle
costole, scosse da un vento feroce, come se l’anima, dentro, facesse salti per
staccarsi. Félicité s’inginocchiò davanti al crocifisso, lo stesso farmacista piegò un
poco i garretti, mentre il signor Canivet lasciava errare lo sguardo sulla piazza. Don
Bournisien riprese a pregare, il volto appoggiato alla sponda del letto, la lunga sottana
nera che gli s’allungava dietro come uno strascico. Charles era in ginocchio dall’altro
lato del letto, le braccia tese verso Emma. Le aveva preso le mani, gliele stringeva,
trasalendo a ogni battito del suo cuore, come al contraccolpo d’una caduta rovinosa.
Via via che il rantolo aumentava d’intensità, il sacerdote infittiva le sue preghiere: le
preghiere si mescolavano ai singhiozzi soffocati di Bovary e ogni tanto tutto pareva
scomparire nel sordo mormorio delle sillabe latine, rintoccanti come una campana.
D’improvviso si sentirono sul marciapiede un frastuono di pesanti zoccoli, lo
strascicare d’un bastone, poi una voce, una voce roca che cantava:
«Spesso d’estate il calor
48
fa sognare alle pupe l’amor.»
Emma balzò su, come un cadavere galvanizzato, i capelli tutti sciolti, le pupille
fisse, beanti.
«Per raccogliere per bene
la messe dalla falce tagliata
la mia Nanette s’è chinata
verso il solco donde proviene.»
«Il cieco!» gridò.
E scoppiò a ridere, un riso atroce, frenetico, disperato; credeva di vedere la
ripugnante faccia del mendico drizzarsi come un incubo nelle tenebre eterne.
«Ma un vento forte soffiò
le gonne corte rubò!»
Una convulsione la rovesciò sul materasso. Tutti si avvicinarono. Non esisteva più.
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49
Brano n. 9
Il suicidio dei coniugi Raquin
(tratto da: Émile Zola, Thérèse Raquin,
trad. di Maurizio Grasso, Newton Compton editori, Roma 1995,
pp. 140-142 e 164-168)
Da due mesi Thérèse e Laurent si dibattevano nelle angosce della loro unione.15
Soffrivano l’uno a causa dell’altro. Fu così che l’odio crebbe lentamente dentro di
loro, che finirono per lanciarsi sguardi di collera, pieni di sorde minacce.
Era destino che tra di loro sopravvenisse l’odio. Si erano amati come animali, con
una passione calda, tutta sangue; poi, nel pieno della sovraeccitazione del crimine, il
loro amore si era trasformato in paura, e avevano cominciato a provare una sorta di
terrore fisico dei rispettivi baci; ora sotto la sofferenza che il matrimonio e la vita in
comune imponevano loro, si ribellavano e si facevano travolgere dall’ira.
Fu un odio atroce, fatto di crisi terribili. Sentivano perfettamente di essere
d’impaccio l’uno all’altro; si dicevano che avrebbero condotto un’esistenza
tranquilla, se solo avessero potuto evitare di trovarsi perennemente faccia a faccia.
Quando erano insieme, avevano l’impressione che un enorme peso li soffocasse;
avrebbero voluto scrollarsi quel peso di dosso, annientarlo; si mordevano le labbra,
pensieri violenti attraversavano i loro occhi chiari, erano afferrati dalla voglia di
divorarsi a vicenda.
Un solo pensiero li rodeva nell’intimo: si irritavano contro il loro crimine, si
disperavano per aver sconvolto per sempre la loro esistenza. Da questo traevano
origine tutta la loro furia e tutto il loro odio. Avvertivano che il male era incurabile,
che avrebbero sofferto fino alla morte per l’omicidio di Camille, e questa idea di
perpetua sofferenza li esasperava. Non sapevano su che cosa sfogarsi, se la
prendevano con se stessi, si maledicevano.
Non volevano riconoscere esplicitamente che il loro matrimonio era il fatale
castigo del delitto; si rifiutavano di dare ascolto alla voce interiore che gridava loro la
verità, mettendo sotto i loro occhi la storia della loro vita. Eppure, nelle crisi
impetuose che li scuotevano, ciascuno dei due leggeva chiaramente in fondo alla
propria collera, indovinava i furori del proprio essere egoista che li aveva spinti
all’assassinio pur di appagare i propri appetiti, e che nell’assassinio aveva trovato
unicamente un’esistenza desolata e intollerabile. Rammentavano il passato, sapevano
che la loro fallace speranza di lussuria e di placida felicità li conduceva
inevitabilmente al rimorso; se avessero potuto abbracciarsi in pace e vivere in gioia,
15
Thérèse Raquin è la nipote della signora Raquin, anziana merciaia trasferitasi dalla provincia a Parigi. Thérèse ne aha
sposato il figlio e cugino, il debole e malaticcio Camille. Sedotta da un amico di Camille, il pittore Laurent, è complice
dell’assassinio di suo marito da parte di Laurent. Dopo poco tempo i due amanti si sposano, ma in un clima di rimorsi e
terribili allucinazioni, i due coniugi assassini sentono crescere in ciascuno un sordo odio nei confronti dell’altro e si
rinfacciano a vicenda l’assassinio di Camille. La vecchia Raquin, colpita da paralisi, assiste muta e inerte alle tremende
liti fra Laurent e Thérèse.
50
non avrebbero compianto Camille e si sarebbero ingrassati del loro crimine. Ma il
loro corpo si era ribellato, rifiutando il matrimonio, e ora si chiedevano con orrore
dove li avrebbero portati lo spavento e il disgusto. Davanti a loro vedevano soltanto
un futuro di terrore, un epilogo sinistro e violento. Allora, come due nemici che
fossero stati attaccati insieme e che facessero vani sforzi per sottrarsi a
quell’abbraccio forzato, tendevano i muscoli e i nervi, si irrigidivano senza però
riuscire a liberarsi. Poi, comprendendo che non avrebbero mai potuto eludere quella
morsa, irritati dalle corde che segavano la loro carne, nauseati dal loro contatto,
sentendo crescere ora dopo ora il proprio malessere, dimenticando di essersi legati
loro stessi l’uno all’altro, e non riuscendo a sopportare quella catena un istante di più,
si facevano rimproveri sanguinosi, tentavano di soffrire meno, di lenire le ferite che si
procuravano, ingiuriandosi, stordendosi con le loro grida e le loro accuse.
Ogni sera scoppiava una lite. Si sarebbe detto che gli assassini cercassero ogni
pretesto per esasperarsi, per sfogare i loro nervi sfiniti. Si spiavano, si scandagliavano
con lo sguardo, frugando l’uno nelle ferite dell’altro, scovando il vivo di ogni piaga, e
provando un’aspra voluttà nel farsi gridare dal dolore. Vivevano in seno a una
continua irritazione, stanchi di se stessi, non riuscendo a sopportare una parola, un
gesto, uno sguardo senza soffrire e senza delirare. Il loro essere intero era ormai
predisposto per la violenza; la più lieve impazienza, la contrarietà più banale si
moltiplicavano stranamente nel loro organismo squilibrato, diventavano bruscamente
enormi per brutalità. Un niente sollevava una tempesta che durava fino all’indomani.
Un piatto troppo caldo, una finestra aperta, una smentita, una semplice osservazione
erano sufficienti a provocare in loro autentiche crisi di follia. E sempre, a un certo
punto della disputa, si rinfacciavano l’annegato. Di parola in parola, arrivavano a
rimproverarsi l’affogamento di Saint-Ouen;16 allora vedevano rosso, si esaltavano fin
o alla rabbia. Erano scene atroci, soffocamenti, percosse, grida ignobili, vergognose
brutalità. Di solito, Thérèse e Laurent si esasperavano in questo modo dopo aver
mangiato; si chiudevano nella sala da pranzo perché il frastuono della loro
disperazione non fosse udito da altri. Là potevano divorarsi a piacimento, rintanati in
quella stanza umida, in quella sorta di caverna che la lampada rischiarava di una luce
giallastra. Le loro voci, nel cuore del silenzio e della tranquillità dell’aria,
assumevano asprezze laceranti. E non la smettevano finché non erano morti di
stanchezza; soltanto allora potevano andare a gustare qualche ora di riposo. Le liti
divennero un specie di necessità per loro, un espediente per propiziarsi il sonno
frastornando i propri nervi.
(…)
Un simile stato di guerra non poteva più durare.
Thérèse e Laurent, ciascuno per proprio conto, arrivarono a sognare di sottrarsi con
un nuovo crimine alle conseguenze del primo crimine. Bisognava assolutamente che
uno dei due sparisse perché l’altro potesse godersi un po’ di riposo. Fecero questa
riflessione contemporaneamente; tutti e due avvertirono l’urgente necessità di una
separazione, tutti e due desiderarono una separazione eterna. L’omicidio che si
16
Camille era stato gettato nella Senna, durante una gita in barca, da Laurent, che poi aveva finto di soccorrerlo.
51
presentò nella loro mente parve loro naturale, fatale, corollario necessario
all’omicidio di Camille. Non lo discussero neppure, ne accettarono il progetto come
unico mezzo di salvezza. Laurent decise che avrebbe ucciso Thérèse, perché Thérèse
lo affliggeva, perché poteva rovinarlo con una sola parola e gli causava sofferenze
insopportabili; Thérèse decise che avrebbe ucciso Laurent per le medesime ragioni.
Una così ferma risoluzione di compiere un nuovo assassinio li calmò un po’. Si
prepararono. Tuttavia agivano febbrilmente, senza troppa prudenza; riflettevano
soltanto vagamente sulle conseguenze probabili di un omicidio, senza la sicurezza di
una fuga o dell’impunità. Sentivano invincibilmente il bisogno di uccidersi,
obbedivano a quel bisogno come animali furiosi. Non si sarebbero denunciati per il
loro primo delitto, che avevano dissimulato con tanta abilità, e ora rischiavano la
ghigliottina commettendone un secondo che neppure si curavano di nascondere.
C’era in questo comportamento una contraddizione che nemmeno loro vedevano. Si
dicevano semplicemente che, se fossero riusciti a fuggire, sarebbero andati a vivere
all’estero, dopo aver speso tutto il denaro. Thérèse, nel giro di una ventina di giorni,
aveva prelevato le poche migliaia di franchi che restavano della sua dote, e li teneva
chiusi in un cassetto che Laurent conosceva. Non si chiesero neppure per un istante
che cosa ne sarebbe stato della signora Raquin.
Laurent aveva incontrato, qualche settimana prima, un suo vecchio compagno di
collegio, allora assistente presso un celebre chimico assai esperto di tossicologia.
Quel compagno gli aveva fatto visitare il laboratorio dove lavorava, mostrandogli le
apparecchiature, dicendogli il nome delle droghe. Una sera Laurent, quando si era
ormai deciso per l’omicidio, mentre Thérèse beveva davanti a lui un bicchiere di
acqua e zucchero, si ricordò di aver visto in quel laboratorio un piccolo flacone di
terracotta contenente acido prussico. Rammentando ciò che gli aveva detto il giovane
assistente chimico sui terribili effetti di quel veleno, che fulmina e lascia pochissime
tracce, pensò fosse proprio il veleno che faceva per lui. Il giorno seguente riuscì a
scappare senza essere seguito, si recò dal suo amico e, mentre costui gli dava le
spalle, rubò il flaconcino di terracotta.
Quello stesso giorno, Thérèse approfittò dell’assenza di Laurent per far molare un
grosso coltello da cucina che serviva per rompere lo zucchero, e che era tutto
sbrecciato. Nascose il coltello in un cantuccio della credenza.
Il giovedì seguente, la serata dai Raquin – come gli invitati continuavano a
chiamarla – fu particolarmente allegra. Si prolungò fino alle undici e mezza. Grivet,17
congedandosi, dichiarò di non aver mai trascorso ore più liete.
Suzanne,18 che era incinta, parlò per tutto il tempo con Thérèse dei suoi dolori e
delle sue gioie. Thérèse sembrava ascoltarla con grande interesse; gli occhi fissi, le
labbra chiuse, di tanto in tanto chinava la testa; le palpebre, abbassandosi,
proiettavano l’ombra su tutto il viso. Laurent, da parte sua, si mostrava decisamente
attento ai racconti del vecchio Michaud19 e di Olivier.20 Quei signori erano
Frequentatore della famiglia Raquin: è un vecchio impiegato delle ferrovie statali, dirigente dell’ufficio in cui
lavorava Camille.
18
Suzanne è la nuora del commissario Michaud.
19
Un commissario di polizia, vecchio amico della signora Raquin.
17
52
inesauribili, e Grivet doveva mettercela tutta per riuscire a insinuare una o due parole
in mezzo alle frasi di padre e figlio. Del resto aveva per loro un certo rispetto; trovava
che sapessero parlare. Quella sera, dal momento che i discorsi avevano sostituito il
gioco, esclamò candidamente che la conversazione dell’ex commissario di polizia lo
divertiva quasi quanto una partita di domino.
Da quasi quattro anni i Michaud e Grivet passavano il giovedì sera in casa dei
Raquin, eppure non si erano annoiati una sola volta in quelle serate monotone che si
riproponevano con irritante regolarità. Non avevano mai sospettato, neppure per un
istante, il dramma che si recitava in quella casa, così pacifica e mite quando vi
entravano loro. Olivier di solito sosteneva, con una battuta da poliziotto, che la sala
da pranzo puzzava di onestà. Grivet, per non essere da meno, l’aveva chiamata il
Tempio della Pace. In due o tre circostanze, negli ultimi tempi, Thérèse spiegò i lividi
che le segnavano il viso dicendo agli invitati che era caduta. Nessuno di loro, d’altra
parte, avrebbe potuto riconoscervi i segni dei pugni di Laurent; erano convinti che la
vita matrimoniale dei loro ospiti fosse un modello di dolcezza e d’amore.
La paralitica non aveva più tentato di rivelare le infamie che si nascondevano
dietro la spenta tranquillità delle serate del giovedì. Testimone delle liti strazianti dei
due assassini, avendo intuito che la crisi finale un giorno o l’altro sarebbe scoppiata,
fatale conseguenza della successione degli eventi, finì per convincersi che le cose
sarebbero andate avanti da sé senza bisogno del suo aiuto. Da quel momento si mise
in disparte e lasciò agire gli sviluppi dell’assassinio di Camille, che dovevano a loro
volta uccidere i due assassini. Si limitò a pregare il cielo di concederle vita sufficiente
per assistere al violento epilogo che prevedeva; aveva un ultimo desiderio: pascere i
suoi occhi con le supreme sofferenze che avrebbero stroncato Thérèse e Laurent.
Quella sera Grivet andò a sedersi al suo fianco e chiacchierò a lungo, facendo
come al solito domande e risposte. Ma non riuscì a ottenere da lei neppure uno
sguardo. Quando suonarono le undici e mezza, gli invitati si alzarono bruscamente.
«Si sta così bene qui da voi», dichiarò Grivet, «che non si pensa mai ad
andarsene.»
«Il fatto è», annuì Michaud, «che qui non mi viene mai sonno, mentre a casa mia
alle nove sono già a letto.»
Anche Olivier credette di dover dire la sua.
«Vedete», disse mostrando i suoi denti gialli, «in questa stanza c’è odore di onestà;
per questo vi si sta così bene.»
Grivet, infastidito di essere stato preceduto, si mise a declamare, facendo un gesto
enfatico:
«Questa stanza è il Tempio della Pace».
Nel frattempo Suzanne si annodava i lacci del cappello e diceva a Thérèse:
«Verrò domani mattina alle nove».
«No», si affrettò a rispondere la giovane donna, «venite nel pomeriggio…
Probabilmente in mattinata dovrò uscire.»
20
Figlio di Michaud e marito di Suzanne.
53
Parlava con una voce strana, turbata. Accompagnò gli invitati fino al passaggio;
con lei scese anche Laurent, che portava un lume. Quando furono soli, entrambi
emisero un profondo sospiro di sollievo; una sorda impazienza doveva averli divorati
per tutta la serata. Dal giorno precedente erano più cupi, più inquieti l’uno davanti
all’altra. Evitarono di guardarsi e salirono silenziosamente. Le loro mani avevano
leggeri tremori convulsi, e Laurent fu costretto a poggiare la lampada sul tavolo per
non lasciarla cadere.
Prima di mettere a letto la signora Raquin, erano soliti rimettere in ordine la sala da
pranzo, preparare un bicchiere di acqua e zucchero per la notte, andare e venire così
attorno alla paralitica finché tutto fosse stato pronto.
Ma quella sera, dopo essere saliti, si sedettero un istante, con gli occhi assorti, le
labbra pallide. Dopo un silenzio:
«Bene! Non andiamo a letto?», chiese Laurent, che sembrava uscire di soprassalto
da un sogno.
«Sì, sì, andiamo a letto», rispose Thérèse tremando, come se avesse un gran
freddo.
Si alzò e prese la caraffa.
«Lascia stare», esclamò suo marito con una voce che si sforzava di rendere
naturale, «penserò io a preparare il bicchiere di acqua e zucchero… Occupati della
zia.»
Tolse la caraffa dalle mani di sua moglie e riempì un bicchiere. Poi, volgendo in
parte la schiena, vi vuotò il flaconcino di terracotta, aggiungendo una zolletta di
zucchero. Nel frattempo, Thérèse si era accovacciata davanti alla credenza; aveva
preso il coltello da cucina e cercava di dissimularlo in una tasca.
In quell’istante, quella sensazione strana che precede l’avvicinarsi di un pericolo
fece girare la testa ai due coniugi con un moto istintivo. Si guardarono. Thérèse vide
il flacone nelle mani di Laurent, e Laurent notò il lampo bianco della lama che
luccicava tra le pieghe della gonna di Thérèse. Si esaminarono così per qualche
secondo, muti e freddi, il marito accanto al tavolo, la moglie china davanti alla
credenza. Avevano capito. Ciascuno dei due si sentì raggelare sorprendendo il suo
stesso pensiero nel complice. Leggendo reciprocamente quella segreta intenzione sui
loro visi sconvolti, si fecero pietà e orrore.
La signora Raquin, sentendo che la fine era prossima, li guardava con occhi fissi e
penetranti.
E bruscamente Thérèse e Laurent scoppiarono in lacrime. Una crisi suprema li
spezzò, li gettò l’uno nelle braccia dell’altro, deboli come fanciulli. Ebbero come
l’impressione che qualcosa di dolce e di tenero si fosse ridestato nel loro petto.
Piansero, senza parlare, pensando alla strada fangosa che avevano percorso e che
avrebbero continuato a percorrere se fossero stati abbastanza vili da vivere ancora.
Allora, al ricordo del passato, si sentirono talmente stanchi, nauseati di se stessi, da
provare un immenso bisogno di riposo, di annientamento. Si scambiarono un ultimo
sguardo, uno sguardo di ringraziamento, davanti al coltello e al bicchiere di veleno.
Thérèse prese il bicchiere, ne bevve la metà e lo tese a Laurent che lo vuotò. Fu un
lampo. Caddero l’uno sull’altro, folgorati, trovando finalmente nella morte una
54
consolazione. La bocca della giovane donna andò a urtare, sul collo di suo marito, la
cicatrice lasciata dai denti di Camille.
I cadaveri rimasero per tutta la notte sul pavimento della sala da pranzo, contratti,
rannicchiati, rischiarati dai riflessi giallastri della lampada che il paralume proiettava
su di loro. E, per quasi dodici ore, fino a mezzogiorno dell’indomani, la signora
Raquin, rigida e muta, li contemplò ai suoi piedi, non potendo saziare i suoi occhi,
schiacciandoli con i suoi sguardi implacabili.
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55
Brano n. 10
Un caso di avvelenamento per Sherlock Holmes21
(tratto da: Arthur Conan Doyle, Il segno dei quattro,
trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto,
in A. C. Doyle, Tutto Sherlock Holmes, vol. I, Newton Compton editori, Roma
19932, pp. 152-161)
CAPITOLO QUINTO
La tragedia di Pondicherry Lodge
(…) La nostra guida22 ci aveva lasciato la lanterna. Holmes la fece oscillare
lentamente all’intorno, scrutando attentamente la casa e i cumuli di rifiuti che
costellavano il terreno. La signorina Morstan ed io rimanemmo l’uno accanto
all’altra, tenendoci per mano. L’amore è una cosa davvero straordinaria e sottile:
eravamo lì, due persone che non si erano incontrate prima di quel giorno, non si erano
scambiate né una parola né uno sguardo affettuoso; eppure, in un momento di
pericolo, le nostre mani si erano istintivamente cercate. Non ho mai smesso di
stupirmene ma, in quel momento, sembrò la cosa più naturale del mondo che io mi
volgessi a lei e, come mi ha spesso ripetuto, lei si volgesse istintivamente a me per
conforto e protezione. Rimanemmo così, tenendoci per mano come due bambini, e
malgrado l’oscurità materiale e morale che ci circondava, c’era la pace nei nostri
cuori.
«Che strano luogo!», disse guardandosi intorno.
«Sembra che tutte le talpe dell’Inghilterra si siano date da fare. Ho visto qualcosa
di simile sul fianco di una collina vicino a Ballarat, dove c’erano stati dei cercatori
d’oro.»
«Il motivo è lo stesso», disse Holmes. «Queste sono le tracce lasciate da quelli che
cercavano il tesoro. Non dimentichi che l’hanno cercato per sei anni. Non c’è da
meravigliarsi se il terreno sembra una cava di ghiaia.»
21
La trama del romanzo Il segno dei quattro ruota intorno a un tesoro rubato in India. Il maggiore Sholto e il capitano
Morstan, delle truppe inglesi, sottraggono un tesoro di perle e pietre preziose al soldato Jonathan Small che lo aveva
trovato assieme a tre suoi compagni. Poi Sholto sottrae il tesoro anche a Morstan. Durante una lite tra i due Morstan ha
un attacco di cuore e muore. In seguito Sholto, prima di morire a sua volta, incarica i suoi due figli Thaddeus e
Bartholomew di versare una parte di quel tesoro nascosto in casa alla giovane figlia di Morstan. Nel frattempo Small,
messosi sulle tracce di Sholto, assieme a un piccolo indigeno delle isole Andamane, micidiale lanciatore di frecce
avvelenate, si mette alla ricerca di Sholto e riesce a entrare in casa sua, alla ricerca del tesoro nascosto. Il piccolo
indigeno Tonga, il compagno di Small, si cala dal tetto della casa e uccide con una freccia avvelenata il figlio di Sholto,
Bartholomew, che aveva trovato il tesoro nascosto. La vicenda termina con la cattura di Jonathan Small che però, prima
di essere arrestato da Sherlock Holmes, fa in tempo a gettare il tesoro nelle acque del Tamigi. Il brano presentato inizia
con l’ingresso in casa Sholto di Sherlock Holmes, Watson e la figlia di Morstan. I tre sono guidati da Thaddeus Sholto,
allarmato perché il fratello non dà più notizia di sé. E, in casa, giace Bartholomew senza vita, colpito da una freccia
avvelenata.
22
Narra la vicenda in prima persona il dottor Watson, amico e aiutante del celebre investigatore.
56
In quell’attimo si spalancò la porta di casa e Thaddeus Sholto ne uscì correndo con
le braccia avanti e un’espressione terrorizzata.
«È successo qualcosa a Bartholomew!», gridò. «Sono spaventato! I miei nervi non
resistono!»
In effetti, quasi piagnucolava per lo spavento e il suo viso debole e agitato dalle
contrazioni che sbucava dal grande collo di astrakan aveva l’espressione impotente e
implorante di un bambino terrorizzato.
«Entriamo in casa», disse Holmes in quel suo modo secco e deciso.
«Sì, entrate, entrate!», ci scongiurò Thaddeus Sholto. «Davvero non me la sento di
dare istruzioni.»
Lo seguimmo tutti nella stanza della governante, sulla sinistra del corridoio. La
vecchia camminava avanti e indietro con aria spaventata e irrequieta, torcendosi le
dita, ma la vista della signorina Morstan sembrò tranquillizzarla un po’.
«Dio benedica quel suo dolce viso tranquillo!», esclamò con un singulto isterico.
«Mi fa bene guardarla. Oggi è stata proprio una giornata terribile!»
La ragazza le diede qualche colpetto sulla mano magra e consumata dal lavoro
mormorando poche, gentili parole di conforto femminile che riportarono un po’ di
colore sul viso esangue della donna.
«Il padrone si è chiuso dentro a chiave e non mi risponde», spiegò. «Ho aspettato
tutto il giorno che mi mandasse a chiamare, perché spesso preferisce restare solo; ma
un’ora fa, temendo che ci fosse qualcosa che non andava, sono salita e ho guardato
attraverso il buco della serratura. Deve salire, signor Thaddeus – deve salire e vedere
con i suoi occhi. Per dieci lunghi anni ho visto il signor Bartholomew Sholto, in
tristezza e in allegria, ma non l’ho mai visto con una faccia come quella che ha
adesso.»
Sherlock Holmes prese la lampada e fece strada, perché Thaddeus Sholto batteva i
denti dalla paura. Era così scosso che dovetti sorreggerlo col braccio mentre salivamo
le scale, tanto gli tremavano le gambe. Due volte, mentre andavamo su, Holmes tirò
fuori di tasca la sua lente per esaminare attentamente dei segni che a me sembravano
semplicemente macchie informi di polvere sulla stoia di cocco che serviva da guida.
Saliva lentamente, gradino dopo gradino, gettando occhiate penetranti a destra e a
sinistra. La signorina Morstan era rimasta indietro con la terrorizzata governante.
La terza rampa di scale finiva con un corridoio angusto, abbastanza lungo, con un
grande arazzo indiano sulla destra e tre porte sulla sinistra. Holmes avanzava con la
stessa andatura lenta e metodica mentre noi gli stavamo attaccati alle calcagna e le
nostre ombre scure si allungavano dietro di noi lungo il corridoio. La terza porta era
quella che cercavamo. Holmes bussò senza ricevere risposta, poi provò a girare la
maniglia per aprire. Ma era chiusa dall’interno con un grosso e robusto chiavistello
come potemmo vedere quando accostammo la lampada. La chiave, però, era girata e
quindi il buco della serratura non era completamente tappato. Sherlock Holmes si
chinò per guardare e si rialzò immediatamente ispirando bruscamente il respiro.
«C’è qualcosa di diabolico in questo, Watson», disse, più scosso di quanto lo
avessi mai visto prima. «Che ne pensa?»
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Mi chinai a guardare dal buco della serratura e indietreggiai inorridito. La stanza
era inondata dal chiarore lunare e illuminata da un chiarore vago e sfuggente.
Dirimpetto ai miei occhi, sospeso, per così dire, nell’aria perché tutto al di sotto era in
ombra, pendeva un viso – lo stesso viso del nostro compagno Thaddeus. Lo stesso
cranio allungato e lucido, la stessa corona di ispidi capelli rossi, lo stesso aspetto
esangue. Ma i lineamenti erano sconvolti in un sorriso orribile, un ghigno fisso e
innaturale che in quella stanza silenziosa, illuminata dalla luna, era più terrificante di
qualsiasi espressione minacciosa o stravolta. Un viso talmente simile a quello del
nostro piccolo amico ch emi girai a guardarlo per essere sicuro che fosse veramente lì
con noi. Poi mi venne in mente che aveva accennato al fatto che lui e il fratello erano
gemelli.
«È una cosa terribile!», dissi ad Holmes. «Cosa possiamo fare?»
«Bisogna abbattere la porta», rispose, lanciandosi contro l’uscio con tutto il suo
peso.
Scricchiolò e cigolò ma non cedette. Ci lanciammo di nuovo, insieme, questa volta,
e finalmente la porta cedette con uno schianto secco e ci trovammo nella stanza di
Bartholomew Sholto.
Sembrava fosse stata attrezzata come un laboratorio di chimica. Sulla parete di
fronte alla porta era allineata una doppia fila di bottiglie col tappo di vetro, e sul
tavolo si ammonticchiavano becchi Bunsen, provette e storte. Negli angoli c’erano
delle damigiane impagliate contenenti acidi. Sembrava che una perdesse, o fosse stata
rotta perché ne era fuoriuscito un liquido scuro e nell’aria gravava un odore
stranamente acre, simile a quello del catrame. Da un lato della stanza, in mezzo a una
quantità di detriti di stucco e di cemento, c’erano dei gradini e sopra di essi
un’apertura nel soffitto abbastanza larga da far passare un uomo. In fondo ai gradini
c’era una lunga corda buttata sul pavimento.
Accanto al tavolo, su uno scranno di legno, sedeva il padrone di casa, tutto
ripiegato, con la testa affondata sulla spalla sinistra e quello spettrale, imperscrutabile
sorriso sul volto. Era ormai rigido e freddo e evidentemente era morto da parecchie
ore. Mi sembrò che non solo i lineamenti ma tutte le membra fossero contorte e
ritorte nel modo più straordinario. Accanto alla mano, poggiata sul tavolo, c’era uno
strumento singolare – un bastone marrone, di grana fine, con l’impugnatura di pietra
a forma di martello dal quale pendeva un grossolano flagello di corda grezza. Vicino,
un foglietto di carta strappato da un taccuino sul quale erano vergate rozzamente
alcune parole. Holmes gli diede un’occhiata e poi me lo porse.
«Guardi», disse inarcando significativamente le sopracciglia.
Alla luce della lanterna lessi, con un fremito di orrore, «Il segno dei quattro».
«In nome di Dio, che significa tutto questo?», chiesi.
«Significa omicidio», rispose chinandosi sul corpo senza vita. «Ah! Me lo
aspettavo. Guardi qui!»
Indicò quella che sembrava una lunga spina nera infissa nella pelle, proprio sopra
l’orecchio.
«Sembra una spina», dissi.
«È una spina. Può estrarla. Faccia attenzione, è avvelenata.»
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Presi la spina fra il pollice e l’indice. Venne fuori con tale facilità che non lasciò
nemmeno un segno. Solo un puntolino di sangue indicava il punto dove era penetrata.
«Per me è un mistero incomprensibile», dissi. «Si fa sempre più complicato invece
di chiarirsi.»
«Al contrario», rispose, «si fa più chiaro ogni minuto. Mi mancano solo pochi
elementi per avere il caso completo.»
Dal momento in cui eravamo entrati nella stanza avevamo quasi dimenticato la
presenza del nostro compagno. Era rimasto sulla soglia, il ritratto del terrore,
torcendosi le mani e lamentandosi. D’improvviso però ebbe un grido, acuto e
querulo.
«Il tesoro è scomparso!», esclamò. «Lo hanno derubato del tesoro! Quello è il buco
attraverso il quale lo calammo nella stanza. L’ho aiutato io stesso! Sono l’ultima
persona che lo ha visto! L’ho lasciato qui ieri sera e, mentre scendevo, ho sentito che
girava la chiave nella serratura.»
«Che ora era?»
«Le dieci. E adesso è morto, e bisognerà chiamare la polizia, e sospetteranno che io
c’entri per qualche cosa. Oh sì, sono sicuro che lo sospetteranno. Ma voi non lo
pensate, vero, signori? Non penserete certo che sia stato io? Vi pare che vi avrei
portato qui se fossi stato io? Povero me! Povero me! Mi sento impazzire!»
Agitava le braccia e batteva i piedi in una sorta di frenesia convulsa.
«Non ha niente da temere, signor Sholto», disse Holmes con gentilezza
mettendogli una mano sulla spalla. «Segua il mio consiglio, prenda la carrozza e vada
al comando di polizia a riferire l’accaduto. Si offra di assisterli in qualsiasi modo. Noi
aspetteremo qui il suo ritorno.»
L’ometto obbedì, quasi come un automa, e lo sentimmo scendere le scale
inciampando nel buio.
CAPITOLO SESTO
Sherlock Holmes dà una dimostrazione
«Allora, Watson», disse Holmes fregandosi le mani, «abbiamo una mezz’ora tutta
per noi. Facciamone buon uso. Come le ho detto, il mio caso è quasi completo; ma
non dobbiamo peccare di eccessiva fiducia. Per semplice che appaia adesso, questa
faccenda potrebbe nascondere qualcosa di più profondo.»
«Semplice!», esclamai stupito.
«Certamente», ripeté con l’aria di un professore di medicina che dà spiegazioni
agli studenti. «Si sieda in quell’angolo, così le sue impronte non complicheranno le
cose. E adesso, al lavoro! In primo luogo, queste persone come sono entrate, e come
sono uscite? La porta è rimasta chiusa fin da ieri sera. E la finestra?» Vi si accostò
con la lampada mormorando ad alta voce le sue osservazioni, rivolto a sé stesso più
che a me. «La finestra è chiusa dall’interno. L’intelaiatura è solida. Non ci sono
cardini laterali. Apriamola. Non c’è nessuna tubatura vicina. Il tetto è fuori portata.
Eppure, qualcuno si è arrampicato sulla finestra. L’altra notte ha piovuto un po’. Ecco
l’impronta di una scarpa sul davanzale. E qui c’è un’impronta circolare di fango, e
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anche qui, sul pavimento; e di nuovo qui, vicino al tavolo. Guardi, Watson! ecco una
prova preziosa.»
Osservai il dischetto fangoso, dai contorni ben definiti.
«Questa non è l’impronta di un piede», dissi.
«È qualcosa di molto più utile. È l’impronta di una gamba di legno. Vede qui sul
davanzale, c’è l’impronta di uno stivale, uno stivale pesante col tacco largo, di
metallo, e accanto l’impronta del moncone di legno.»
«L’uomo con l’arto artificiale.»
«Appunto. Ma c’è stato anche qualcun altro – un complice molto abile ed
efficiente. Lei potrebbe scalare quel muro, dottore?»
Guardai fuori dalla finestra. La luna illuminava ancora quell’angolo della casa.
Eravamo a buoni sessanta piedi dal terreno e, per quanto guardassi, non vedevo il
minimo appiglio, nemmeno una fessura nel muro.
«È assolutamente impossibile», risposi.
«Senza aiuto, lo è. Ma supponiamo che nella stanza ci sia un amico che le cala giù
quella bella corda solida che vedo nell’angolo, assicurandone un capo a questo grosso
gancio nella parete. Allora, secondo me, se lei fosse un individuo atletico potrebbe
arrampicarsi, anche con la gamba di legno. Naturalmente, se ne andrebbe con lo
stesso sistema e il suo complice tirerebbe su la corda, la staccherebbe dal gancio,
chiuderebbe la finestra, rimettendo il nottolino interno, e uscirebbe dalla parte da cui
è entrato. Un altro piccolo particolare da tener presente», aggiunse maneggiando la
corda, «è che il nostro amico con la gamba di legno è un bravo arrampicatore, ma non
è un marinaio di professione. Aveva le mani troppo morbide. La mia lente mi ha
rivelato varie macchie di sangue, specialmente all’estremità della corda, dalle quali
deduco che è scivolato giù a una velocità tale da spellarsi le mani.»
«Tutto questo va benissimo», osservai; ma la faccenda è più incomprensibile che
mai. Chi è questo complice misterioso? Come è entrato nella stanza?»
«Già, il complice!», ripeté Holmes perplesso. «La faccenda del complice presenta
elementi molto interessanti che rendono questo caso tutt’altro che banale. Credo che
questo complice costituisca una novità negli annali del crimine di questo paese –
anche se casi analoghi si sono verificati in India e, se la memoria non m’inganna, in
Senegambia.»
«Come è entrato, allora?», gli feci eco. «La porta è chiusa a chiave; la finestra è
inaccessibile. Attraverso il camino?»
«La grata è assolutamente troppo piccola», rispose. «Avevo già pensato a quella
possibilità.»
«E allora, come?», insistei.
«Lei non applica il mio principio», disse scuotendo la testa. «Quante volte le ho
detto che, eliminando l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve
essere la verità? Sappiamo che non è entrato né dalla porta, né dalla finestra, né dal
camino. Sappiamo anche che non poteva essersi nascosto nella stanza perché non c’è
posto dove avrebbe potuto nascondersi. Allora, quando è venuto?»
«Attraverso il foro nel soffitto!», esclamai.
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«Certamente. È così che deve aver fatto. Se per cortesia mi regge la lampada, ora
estenderemo le nostre ricerche al locale superiore – alla stanza segreta nella quale fu
trovato il tesoro.»
Salì i gradini e, afferrandosi con le due mani alle travi, con un’oscillazione entrò
nella soffitta. Poi, sdraiandosi faccia a terra, afferrò la lampada che gli porgevo,
reggendola mentre io lo seguivo.
Ci trovammo in un locale di circa dieci piedi per sei. Il pavimento era formato
dalle travi intervallate da un sottile strato di incannucciato e stucco così che, per
camminare, bisognava passare da una trave all’altra. Il soffitto era a punta e costituiva
evidentemente lo scheletro interno del tetto della casa. Non c’erano mobili di sorta e
sul pavimento si accumulava la polvere di anni.
«Vede, ci siamo», disse Sherlock Holmes appoggiando la mano contro la parete
obliqua. «Questa è una botola che porta sul tetto. La spingo indietro ed ecco il tetto,
con una pendenza leggera. Questa, dunque, è la via attraverso la quale è entrato il
Numero Uno. Vediamo adesso se possiamo trovare altre tracce circa la sua identità.»
Abbassò la lampada verso il pavimento e, per la seconda volta quella notte, gli si
dipinse sul viso un’espressione di stupore. Seguii il suo sguardo e mi si accapponò la
pelle. Il pavimento era interamente cosparso di impronte di un piede nudo, ben
delineato, perfettamente formato ma la cui misura era meno della metà di quella di un
adulto.
«Holmes», sussurrai, «è stato un bambino a compiere questo misfatto orrendo.»
In un attimo aveva ripreso il suo autocontrollo.
«Per un momento sono rimasto sconcertato», disse, «ma è una cosa più che
naturale. Mi ha tradito la memoria, altrimenti avrei dovuto prevederlo. Qui non c’è
altro da vedere. Torniamo giù.»
«Allora, qual è la sua teoria circa quelle orme?», gli chiesi ansiosamente quando
fummo di nuovo giù nella stanza.
«Mio caro Watson, cerchi di fare una piccola analisi anche lei», mi rispose con
un’ombra d’impazienza. «Conosce i miei metodi. Li applichi, e sarà istruttivo
confrontare i due risultati.»
«Non mi viene in mente nulla che possa spiegare questi fatti», dissi.
«Fra poco le sarà tutto chiaro», commentò con aria distratta. «Credo che qui non ci
sia altro d’importante, comunque darò un’occchiata.»
Tirò fuori la lente e un metro e, in ginocchio, si aggirò in fretta per la stanza
misurando, confrontando, esaminando, con quel suo naso sottile a pochi centimetri
dal pavimento, osservando tutto con quei suoi occhi piccoli e luminosi, infossati
come quelli di un uccello. I suoi movimenti erano così rapidi, silenziosi e furtivi,
simili a quelli di un segugio che fiuta una preda, che non potei fare a meno di pensare
quale temibile criminale avrebbe potuto essere se avesse impiegato la sua energia e la
sua sagacia contro la legge, anziché servirsene per difenderla. Mentre esplorava
tutt’intorno borbottava fra sé e sé e, alla fine, lanciò un grido di gioia.
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«Siamo decisamente fortunati», disse. «Adesso non dovremmo avere problemi. Il
Numero Uno ha avuto la sfortuna di calpestare il creosoto.23 Può vedere il profilo
esterno di quel piccolo piede qui, accanto a questo sudiciume maleodorante. Vede, la
damigiana si è rotta e il liquido è colato fuori.»
«E allora?», domandai.
«E allora, lo abbiamo in pugno, ecco tutto», rispose. «Conosco un cane che
seguirebbe quell’odore fino in capo al mondo. Se una muta di segugi può seguire
un’aringa trascinata attraverso tutta una contea, pensi a dove un cane particolarmente
addestrato può seguire un odore così pungente. Sembra una somma nella regola del
tre. La risposta, dovrebbe darci… guarda, guarda! Ecco i rappresentanti ufficiali della
legge.»
Dal basso si sentivano passi pesanti e un clamore di voci e la porta d’ingresso che
si chiudeva con un tonfo.
«Prima che arrivino», disse Holmes, «poggi la mano sul braccio di questo povero
diavolo, e qui, sulla gamba. Cosa sente?»
«I muscoli sono rigidi come un pezzo di legno.»
«Appunto. Sono in uno stato di contrazione estrema, ben lontano dal normale rigor
mortis. Aggiungendo poi la distorsione die lineamenti, questo sorriso ippocratico, o
risus sardonicus come lo definiva l’antico medico, quale conclusione ne trarrebbe?»
«Morte provocata da un potente alcaloide vegetale», risposi, «qualche sostanza
simile alla stricnina che provocherebbe il tetano.»
«Questa è stata appunto la mia idea nel momento stesso in cui ho notato la tensione
dei muscoli facciali. Entrando nella stanza ho immediatamente guardato in quale
modo il veleno era entrato in circolo. Come ha visto, ho scoperto una spina, lanciata o
conficcata senza particolare forza nel cuoio capelluto. Osservi come il punto colpito
si trovi direttamente sotto il foro nel soffitto se il corpo fosse seduto normalmente. E
ora esamini questa spina.»
La presi con precauzione, portandola alla luce della lanterna. Era una spina lunga,
nera e acuminata, leggermente lucida sulla punta come per una qualche sostanza
gommosa disseccata. La parte smussata era stata tagliata e arrotondata con un
coltello.
«È una spina che si può trovare in Inghilterra?», mi chiese.
«No di certo.»
«Da tutti questi elementi, dovrebbe poter trarre delle conclusioni. Ma arrivano le
forze ufficiali, e quelle ausiliarie possono battere in ritirata.» (…)
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23
Un medicinale disinfettante.
62
Brano n. 11
La bottega di don Saverio La Monica, farmacista palermitano del Settecento24
(tratto da: Luigi Natoli (William Galt), La vecchia dell’aceto,
a cura di Giuseppe Bonomo, Flaccovio Editore, Palermo 1979, pp. 78-81)
Don Saverio La Monica, aromatario, aveva la sua bottega nella strada della
Gioiamia. Aromatario significava, in quel tempo, farmacista.
Era un uomo più che maturo, che trascorreva la vita dietro il banco a pestare,
impastare, far pillole, cartine di polveri, elettuari, sciroppi ed emulsioni. Con gli
occhiali sul naso, le maniche rimboccate, eseguiva le ricette barattando una parola
con questo, una parola con quell’altro avventore. E di avventori non ne mancavano;
perché in tutto il quartiere del Capo, nessun aromatario godeva tanta buona
reputazione quanto lui, perché aveva la bottega fornita di tutte le medicine prescritte
dall’ordinanza del pretore, il quale rivestiva la carica di proto-medico della città; ma
anche perché inventava certe misture efficacissime e sapeva dare consigli ai medici.
La bottega si riconosceva da lontano, per il gran mortaio posto sopra uno sgabello
sulla soglia un po’ sporgente in fuori; insegna questa comune a tutte le farmacie del
tempo. Ai lati lungo gli stipiti c’erano due tabelle non grandi, rettangolari, in una
delle quali un pittore da insegne aveva dipinto il bastone di Esculapio con due
serpenti attorcigliati, e una leggenda latina: Altissimus creavit de terra medicamenta
et vir prudens non abhorret ab illis;25 nell’altra tabella era dipinto Sant’Andrea
protettore degli speziali, con la leggenda: Cedite vos, qui consulitis mortalibus artes:
vis ex vestra in nostra stat, caditque manu.26
La stanza che serviva da bottega non era molto grande e aveva uno scaffale in
fondo, che occupava tutta la larghezza della parete; nel centro, in basso, c’era una
porticina donde si passava nel laboratorio. Altri due scaffali, si partivano da quello in
fondo, della stessa altezza, ma si arrestavano a metà della stanza. Nello spazio vuoto,
da un lato, v’era il torchio, indispensabile a ogni aromatario per fabbricare olio di
mandorle o di ricino; dalla parte opposta v’erano addossate alla parete alcune sedie
molto sudice e con l’impagliatura rotta in qualche punto.
Sulla cornice dello scaffale in fondo v’era un quadro che rappresentava la Vergine,
dinanzi alla quale ardeva una lampada. Sotto, nel fregio, era dipinto a grandi lettere:
Salus infirmorum, che poteva ben riferirsi alla Vergine come ai medicinali. I quali
Il brano è tratto da La vecchia dell’aceto, romanzo dello scrittore palermitano Luigi Natoli, alias William Galt (18571941). Nel romanzo, pubblicato a puntate sul quotidiano “Il giornale di Sicilia” nel 1927, Natoli narra le vicende di un
personaggio realmente esistito nel Settecento, Giovanna Bonanno, passata alla storia come famosa avvelenatrice. La
Bonanno si era impossessata di un potente e misterioso veleno creato da un farmacista, l’aceto dei pidocchi e, tramite
sue complici, lo forniva alle dame della nobiltà palermitana che, trescando con i loro amanti, desideravano sbarazzarsi
degli scomodi mariti. Grazie al veleno della Bonanno, Palermo fu teatro di una catena di letali avvelenamenti che
terminò quando la malefica donna venne processata e impiccata il 30 luglio 1789, in piazza Villena a Palermo. Nel
brano presentato il farmacista don Saverio La Monica è l’ignaro fornitore del micidiale veleno alla “vecchia dell’aceto”.
25
“Dio creò le medicine dalla terra, e l’uomo prudente non rifugge da esse.”
26
“Voi che consigliate le arti ai mortali, cedete: la vostra forza cade dalle vostre mani e sta nelle nostre.”
24
63
facevano bella mostra, non di sé, ma dei recipienti in cui erano conservati. Erano vasi
smaltati, della stessa grandezza, a vivaci colori, tutti di una forma allungata che si
restringeva dolcemente a metà dell’altezza, per riallacciarsi gradatamente alla base;
tutti presentavano uno scudo bianco incorniciato di giallo, in mezzo al quale era il
nome del medicinale. In dialetto si chiamavano «burnii». Nello scaffale laterale, di
destra, questi «burnii» avevano forma di bocce panciute con un collo breve, ed erano
smaltate in bianco e azzurro, ed il nome del medicinale in nero. Nell’altro scaffale, a
sinistra, c’erano bocce, bottiglie, boccette di vetro, e vasetti bianchi cilindrici. La
ricchezza ed il lusso di una farmacia di allora erano nei vasi smaltati, ai quali gli
antiquari hanno dato una caccia spoliatrice, approfittando della ignoranza e dello
snobismo dei farmacisti. Spesso il medicinale non c’era; ma la burnia non mancava.
Chi andava per comperare due grani di conserva di rose rosse, poteva leggere sulle
bocce e sulle «burnie» i nomi della polvere di Guttetta, per guarire la eclampsia dei
bambini, del sebeston, degli sciroppi di vitella, dicoria, rabarbaro, del discordio,
dell’elettuario di Giustiniano Imperatore, dell’alcool (sic) fluore, dell’acqua teriacale,
delle pillole di Lancellotto, e di quelle di tartaro di Bonzo, o delle universali di
Becherio; dell’estratto di Scilla acoso, della tintura angelica, del grasso di vipera,
dello specifico cefalico di Michaele, del sale sedativo Flomberg, dell’impiastro di
Simone da Pacello, o di quello de Ranis, del trocisco di Aradonis, del vitrido di
Marte, e via dicendo: medicinali nostrani e stranieri; e poi olio di mandorla, di lino, di
ruta, di scorpione; polveri di assa fetida, agarico: i sief ossia collicii; e finalmente i
veleni: arsenico, laudo liquido, cantaride, ecc. Insomma la spezieria di don Saverio
La Monica non mancava di niente. Essa era fornita di quanto occorreva per i ricchi e
per i poveri, secondo l’ordinanza.27 Sul banco c’erano le bilancette e i pesi, e la carta
tagliata a quadretti per avvolgere le polveri e turare le boccette.
Nella retrobottega poi v’erano storte, lambicchi, tubi, matracci, un grande fornello,
fornellini portatili, boccioni grandi, recipienti di varia misura di porcellana, di vetro,
di rame. Ma dappertutto v’erano le vestigia delle mosche; v’era dell’unto di olii e di
pomate e un odore nauseabondo composto di tanti odori diversi. Non se ne doleva
nessuno, perché vi si era avvezzi e poi, perché don Saverio sapeva con le sue storielle
divertire i clienti che erano costretti ad aspettare la manipolazione delle medicine.
Di tanto in tanto qualche medico di passaggio faceva fermare la mula o la
portantina dinanzi la bottega e veniva a far quattro chiacchiere con don Saverio, e chi
sa? ad acchiappare qualche cliente. Don Saverio per questo, si prestava volentieri a
procurarne: e i medici gli si mostravano grati mandando i clienti ad eseguire le ricette
da don Saverio, alla Gioiamia, che era un aromatario valentissimo, aveva fatto pratica
nella spezieria dell’ospedale, e sostenuto l’esame di abilitazione dinanzi al Nobile e
Salutifero Collegio degli Aromatari, magistrato supremo dell’aromateria; e chi
volesse vedere il diploma, munito di bollo e di licenza di tenere bottega, egli li aveva
in due quadretti, appesi di qua e di là sulle pareti.
I medici allora, secondo l’ordinanza citata nel testo, avevano l’obbligo di segnare sulla ricetta se la medicina serviva
per un ammalato povero, al quale si davano medicine meno costose di quelle per i ricchi. Si ignora se queste medicine
“meno costose” fossero altrettanto efficaci quanto quelle per i ricchi.
27
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Quella mattina di febbraio del 1788, don Saverio stava preparando delle cartine per
il giovane cavaliere Ventimiglia che, seduto nella bottega aspettava e parlava di un
omicidio clamoroso avvenuto in quei giorni, mentre in un canto stava una vecchia
aspettando l’elemosina; quando entrò una donna scarmigliata e piangente, con una
bimba fra le braccia, seguita da comari e da una folla di monelli, gridando:
– Don Saverio;… la piccola mia muore!... Ha bevuto l’aceto dei pidocchi!...
La piccola si contorceva. Don Saverio, balzò fuori dal banco, esclamando
spaventato:
– Santo diantani!... Come gliel’avete fatto bere?
Diede un’occhiata alla piccina e in fretta e furia prese da uno scaffale dell’olio, vi
mescolò dell’acqua, lo fece bere per forza alla piccina e con una penna di gallina le
solleticò la gola. La piccina cominciò a recere, lì per terra; egli continuò
quell’operazione, caricando nel tempo stesso di rimproveri e di male parole quella
povera madre.
– Ve l’ho raccomandato! ve l’ho detto che è veleno! Avete le teste di rape voialtre
donne!... Peste che vi colga!... Se vostra figlia muore, vi denunzio e verrò a vedervi
impiccare…
Quella si scusava: la caraffina con l’aceto era nella scansia. Non sapeva neppure
come la piccina l’avesse presa: era un vero demonio, che non le si poteva tener dietro.
Intanto la piccina s’era vuotata; non aveva più nulla da rigettare. Don Saverio preparò
una mistura, gliene fece bere qualche cucchiaio, raccomandò alla madre di
somministrargliene un cucchiaio ogni ora e darle a bere del latte.
– Tre tarì! – disse poi.
– Glieli porterò, don Saverio, capirà che non avevo testa di prendere denari…
Glieli porterò subito…
– Purché questo «subito» non sia il giorno del giudizio.
La donna se ne andò con in braccio la bambina afflosciata, col suo seguito di
comari e monelli: e don Saverio fischiò verso la retrobottega e alla serva accorsa
ordinò di pulire la bottega.
– Che cos’è quest’aceto dei pidocchi? – domandò don Giovanni.28
– È una medicina preparata da me, che ammazza questi brutti insetti e tiene monde
le teste di piccoli e grandi…
– Ed è un veleno?
– Eh! se è veleno?... Caspita!...
Diede l’involtino al giovane:
– Voscenza29 è servita, signor cavaliere… sono due tarì.
Il giovane pagò e se ne andò. La vecchia era ancora lì, col bastoncello fra le mani e
il sacco infilato al braccio. Ella aveva seguito con attenzione quella scena,
dimenticando perché si era fermata nella bottega. La voce dell’aromatario la riscosse:
questi prendendo dal cassetto una monetina da un grano, la diede alla vecchia
dicendo:
– Prendete, za’30 Anna.
28
29
Il nome del cavaliere Ventimiglia.
Forma dialettale di “vostra eccellenza”.
65
– Il Signore la ripaghi in bene e in salute.
La vecchia se ne andò trascinandosi sulle gambe. Il giovane cavaliere Giovanni
Ventimiglia non avrebbe riconosciuto in quella vecchia più rugosa, più lurida, più
gozzuta, quella comare Giovanna, che undici anni prima lo aveva accompagnato al
palazzo di donna Elisabetta: né Giovanna avrebbe riconosciuto il figlio di Genoveffa
Larina, nel giovane cavaliere che comperava delle polverine nell’aromateria di don
Saverio La Monica. Questi undici anni erano trascorsi cancellando ogni traccia del
passato.


     
30
Forma dialettale di “signora”.
66
Brano n. 12
Le strane piante del dottor Shatterhand31
(tratto da: Ian Fleming, Si vive solo due volte,
trad. di Enrico Cicogna, Garzanti, Milano 1965, pp. 59-63)
Tigre Tanaka fece una pausa. Versò dell’altro sakè a Bond e dell’altro Suntory per
sè. Bond approfittò dell’occasione per chiedere se la Società del Drago Nero era stata
effettivamente così potente come si diceva. Era forse equivalente ai tong cinesi?
«Molto più potente. Voi avrete forse sentito parlare dei tong Ching-Pang e HungPang che erano così temuti in Cina all’epoca del Kuomintang. Ebbene, i Draghi Neri
erano cento volte peggio. Averli alle calcagna significava morte sicura. Erano
spietatissimi, e non per particolari convinzioni politiche, ma unicamente per sete di
denaro.»
«E alle dipendenze di quel dottore svizzero hanno forse combinato qualche
misfatto?»
«Oh, no. Non sono altro che dei servitori o dei dipendenti, o, tutt’al più, delle
guardie del corpo. No, il problema è ben diverso e molto più complesso. Il fatto è che
quel Shatterhand ha creato quello che io posso descrivere soltanto come un giardino
di morte.»
Bond inarcò le sopracciglia. In realtà, le metafore di Tigre gli sembravano
ridicolmente drammatiche.
Tigre sorrise e continuò: «Bondo-san, dalla vostra espressione mi accorgo che voi
mi credete o pazzo o ubriaco. Ora ascoltatemi. Quel Shatterhand ha riempito il suo
parco solo di vegetazione tossica, i laghi e i fiumi di pesci carnivori, e ha infestato il
luogo di serpenti, scorpioni e ragni velenosi. Tanto il dottore che la sua orribile
moglie non soffrono alcun danno da tutto ciò perché quando escono dal castello il
dottore indossa un’armatura completa del diciassettesimo secolo e la donna
indumenti protettivi. I giardinieri portano stivaloni di gomma e si proteggono con dei
masko, ovvero delle maschere di garza antisettica che molti giapponesi portano per
evitare le infezioni.»
«Tutto ciò mi sembra pazzesco.»
Tigre frugò nelle pieghe del yukata che aveva indossato non appena entrato in casa
e ne trasse alcuni fogli. Li porse a Bond e disse: «Abbiate pazienza e non giudicate
ciò che non capite. Io non so nulla di queste piante velenose, e, a quanto mi sembra,
voi non ne sapete molto più di me. Eccovi una lista delle piante che si trovano in quel
Nel romanzo di Ian Fleming Si vive solo due volte, l’acerrimo nemico di 007, il supercriminale Ernst Stavro Blofeld,
capo dell’organizzazione SPECTRE, inseguito dalle polizie di tutto il mondo si è rifugiato in Giappone e ha assunto
l’identità del dottor Shatterhand, un botanico svizzero. Qui ha creato un parco popolato di micidiali piante velenose e
laghetti con pesci piranha, nel quale vanno a suicidarsi centinaia di giapponesi. Nel brano qui trascritto James Bond,
che sta dando la caccia a Blofeld, chiede informazioni sul misterioso dottor Shatterhand, alias Blofeld, al capo del
servizio segreto giapponese, Tigre Tanaka.
31
67
parco e alcuni commenti del nostro ministero dell’Agricoltura. Leggete con calma e
vedrete che deliziosa vegetazione cresce sulla superficie del globo.»
Bond prese alcuni fogli che portavano l’intestazione del ministero dell’Agricoltura.
La prima pagina comprendeva delle note generali sui veleni vegetali e nelle altre
erano elencate le varie piante. Ecco ciò che lesse Bond:
I veleni elencati comprendono sei categorie:
1. Delirante. Sintomi: illusioni spettrali, delirio; dilatazione delle pupille; sete e
sensazione di aridità; mancanza di coordinazione; poi paralisi e spasmi.
2. Inebriante. Sintomi: eccitazione delle funzioni cerebrali e della circolazione;
perdita della coordinazione e della funzione muscolare; doppia visione; poi
sonno e coma profondo.
3. Convulsivo. Sintomi: spasimi intermittenti, dalla testa in giù. Morte per
esaurimento, generalmente entro tre ore, o rapida guarigione.
4. Deprimente. Sintomi: vertigine, vomito, dolori addominali, visione confusa,
paralisi, perdita dei sensi e a volte asfissia.
5. Astenico. Sintomi: intorpidimento, ronzii, dolori addominali, vertigine,
vomitivo, purgativo, delirio, paralisi, perdita dei sensi.
6. Irritante. Sintomi: sensazione di bruciore in gola e allo stomaco, sete, nausea,
vomito. Morte per choc, convulsioni o esaurimento; o per inedia, dovuta alle
lesioni della gola e dello stomaco.
ESEMPLARI INDICATI DALLE DOGANE E DAL DIPARTIMENTO
TRIBUTI ED IMPORTATI DAL DOTTOR SHATTERHAND:
Corniolo della Giamaica, albero del veleno da pesca (Piscidia erythrina): Albero,
dieci metri. Fiori bianchi e rossi. Inebriante. Principio tossico: piscidina. Indie
Occidentali.
Noce-vomica (Strychnos nux-vomica): Albero, dodici metri. Corteccia liscia, bei
frutti dal sapore amaro. Fiori bianco-verdognoli. I semi sono la parte più velenosa.
Convulsivo. Principio tossico: stricnina e brucina. India meridionale e Giava.
Albero tossico della Guaiana (Strychnos toxifera): Il veleno curaro per le frecce è
estratto dalla corteccia. Rampicante. La morte sopravviene entro un’ora per paralisi
respiratoria. Principi tossici: curaro, stricnina, brucina. Guaiana.
Fave di S. Ignazio (Strychnos Ignatii): Albero di piccole dimensioni. I semi
producono brucina. Convulsivo. Filippine.
Falso Upas (Strychnos tieuté): Grande arbusto rampicante. Stricnina o brucina
dalle foglie, dai semi, dallo stelo o dalle radici. Giava.
Serpentaria delle Indie Orientali (Strychnos colubrina): Albero rampicante.
Produce stricnina, brucina. Convulsivo. Giava, Timor.
Ipecacuana (Psychotria ipecacuana): Pianta cespugliosa. Deprimente. Principi
tossici: emetina, dalla radice.
Strofanto (Strophantus hispidus): Rampicante legnoso, due metri. Principio
tossico: strofantina, incina. Astenico. Africa Occidentale.
68
Tanghinia velenosa (Tanghinia venenifera o cerbera tanghin): Piccolo albero
sempreverde, sei metri. Frutto violaceo con riflessi verdognoli. Principio tossico:
tanghinina, cerberina. Astenico. Madagascar.
Upas (Antiaris toxicaria): Albero della giungla. I rami spuntano a partire da trenta
metri di altezza. Legno leggero, bianco, duro, emana lattice. Principi tossici: antiarina
dal lattice. Astenico. Giava, Borneo, Sumatra, Filippine.
Tossicodendro, Edera velenosa (Rhus toxicodendron): Cespuglio rampicante. Fiori
giallo-verdastri. Lo stelo contiene un lattice irritante. Principio tossico: tossicodendro.
Stati Uniti.
Oleandro giallo, campanilla (Thevetia peruviana): Albero di piccole dimensioni.
Ogni sua parte può essere mortalmente tossica, e in particolare il frutto.
Rallentamento dei battiti del polso, vomito, choc. Hawai.
Ricino (Ricinus communis): Dai semi si estrae l’olio di ricino. Contiene un
principio tossico: il ricino. Innocuo se mangiato. Se entra nella circolazione
sanguigna attraverso ferita o abrasione è fatale in un periodo dai sette ai dieci giorni.
La centesima parte di un milligrammo può uccidere un uomo di cento chili. Perdita
dell’appetito, emesia, effetti purgativi, delirio, collasso e morte. Hawai e America
Meridionale.
Oleandro comune (Nerium indicum): Arbusto sempreverde. La corteccia, la linfa, i
fiori e le foglie sono mortalmente tossici. Agisce sul cuore. Usato in India nel
trattamento della lebbra, per provocare aborti e come mezzo di suicidio. India,
Hawai. Caso di morte provocato da carne arrostita su uno spiedo fatto di legno di
oleandro.
Grano di rosario, occhio di granchio, fagiolo Jequiritz (Abrus precatorius):
Arbusto rampicante, piccoli semi del peso medio di 0,10 gr. Usati dagli orafi indiani
come pesi. I semi macinati e impastati con un po’ di acqua fredda sono modellati in
forma di piccoli coni. Se questi coni sono introdotti sotto la pelle di un uomo o di un
animale, la morte sopravviene entro quattro ore. India, Hawai.
Malerba Jimson (Datura stramonium): Solanacea con foglia larga, grande fiore
bianco profumato, frutto con aculei. E inoltre: Ololiuqui (Datura metaloides) del
Messico, e D. tatula dell’America Centrale e Meridionale. Tutte allucinanti. I frutti
secchi sono fumati dagli arabi e sagli swahili, le foglie sono masticate dai negri
dell’Africa Orientale, i semi aggiunti all’hashish e le foglie mescolate alla canapa
dagli indiani del Bengala. La D. tatula era usata dagli indiani Zapotec nei tribunali
come droga della verità. L’uso continuato del toloachi, liquore prodotto dalla D.
tatula, causa l’imbecillità cronica.
Gloriosa superba: Bellissimo giglio rampicante. Le radici, gli steli e le foglie
contengono un narcotico dal sapore aspro, superbina, oltre a colchicina e colina. Tre
grani di colchicina hanno un effetto mortale. Hawai.
Albero scatola di sabbia (Hura crepitans): L’intero albero contiene un attivo
emetocatartico che si usa in Brasile per avvelenare i pesci. Contiene anche crepitina,
dello stesso gruppo velenoso del ricino. Innocuo se ingoiato. Se immesso nella
circolazione sanguigna provoca la morte entro dieci giorni. America Centrale e
Meridionale.
69
Orgoglio dell’India, albero della bacca cinese, albero della Cina (Melia
azedarach): Piccolo albero. Belle foglie color verde scuro e fiori color lavanda. Il
frutto contiene un narcotico tossico che colpisce il sistema nervoso. Hawai, America
Centrale e Meridionale.
Noce fisica (Jatropa curcas): Arbusto. I semi sono violentemente purgativi, spesso
mortali per il conseguente esaurimento. Caraibi.
Tubero Messicano, camotillo: Tubero selvatico che cresce dappertutto. Secondo la
tradizione indiana, deve essere raccolto in periodo di luna calante; si crede che
l’azione mortale abbia inizio tanti giorni dopo l’assorbimento quanti giorni è durato
l’immagazzinamento dopo il raccolto. Principio tossico: solanina. America Centrale e
Meridionale.
Fungo divino (Amanita mexicana): Strettamente imparentato con l’agarico
europeo. Fungo nero che si può consumare crudo o mescolato a latte caldo e alcool di
agave. Produce ipersensibilità della superficie della pelle, acutizza sensibilmente i
sensi dell’udito e della vista e poi produce delle allucinazioni per diverse ore. In
seguito, profonda depressione. Principio attivo sconosciuto. America Centrale e
Meridionale.
Bond terminò la lettura e restituì i fogli osservando: «Il giardino del dottor
Shatterhand è un vero Eden di delizie, Dio mio!»
«E voi avrete sentito certamente parlare del pesce piranha dell’America
Meridionale. Può scarnificare completamente un cavallo in meno di un’ora. Il nome
scientifico è serrasalmo. La sottospecie natteteri è la più vorace. Il nostro buon
dottore ha preferito popolare i suoi laghi con questa specie, invece di ricorrere ai
soliti pesci rossi. Capite che cosa voglio dire?»
«No,» rispose Bond, «francamente non riesco a capire. Quali sono gli scopi che si
prefigge il buon dottore?»
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70
Brano n. 13
Veleno in convento32
(tratto da: Umberto Eco, Il nome della rosa,
Bompiani, Milano 19818, pp. 263-269)
Quarto giorno
LAUDI
Dove Guglielmo e Severino esaminano il cadavere di Berengario, scoprono che ha la
lingua nera, cosa singolare per un annegato. Poi discutono di veleni dolorosissimi e
di un furto remoto.
Non mi attarderò a dire di come informammo l’Abate, di come tutta l’Abbazia si
risvegliò prima dell’ora canonica, delle grida di orrore, dello spavento e del dolore
che si vedevano sul viso di ciascuno, di come la notizia si propagò a tutto il popolo
del pianoro, coi servi che si segnavano e pronunciavano scongiuri. Non so se quella
mattina si svolse il primo ufficio secondo le regole, e chi vi prese parte. Io seguii
Guglielmo e Severino che fecero avvolgere il corpo di Berengario e ordinarono di
distenderlo su un tavolo nell’ospedale.
Allontanatisi l’Abate e gli altri monaci, l’erborista e il mio maestro osservarono a
lungo il cadavere, con la freddezza degli uomini di medicina.
“È morto annegato,” disse Severino, “non vi è dubbio. Il viso è gonfio, il ventre è
teso…”
“Ma non è stato annegato da altri,” osservò Guglielmo, “altrimenti si sarebbe
ribellato alla violenza dell’omicida, e avremmo trovato tracce d’acqua sparsa intorno
alla vasca. E invece tutto era ordinato e pulito, come se Berengario avesse scaldato
l’acqua, riempito il bagno e vi si fosse adagiato di propria volontà.”
“Questo non mi stupisce,” disse Severino. “Berengario soffriva di convulsioni, e io
stesso gli avevo detto più volte che i bagni tiepidi servono a calmare l’eccitazione del
corpo e dello spirito. Varie volte mi aveva chiesto licenza di accedere ai balnea. Così
potrebbe avere fatto questa notte…”
“L’altra notte,” osservò Guglielmo, “perché questo corpo – lo vedi – è restato
nell’acqua almeno un giorno…”
La trama del romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco si svolge in un monastero benedettino dell’Italia
settentrionale, nel Trecento. Qui avviene una serie di misteriosi delitti tra i frati: le morti risultano legate alla sparizione
di un misterioso codice, contenente il perduto secondo libro della Poetica di Aristotele. I due protagonisti del romanzo,
il frate francescano Guglielmo di Baskerville e il suo allievo Adso di Melk, si improvvisano detective e, grazie ai
numerosi indizi che trovano, riescono ad arrivare alla verità e a smascherare il colpevole e la modalità con cui gli
omicidi dei frati sono stati commessi: è stato il vecchio monaco Jorge che ha intinto l’orlo del codice della Poetica con
un potente veleno, per uccidere chiunque lo trovasse e lo leggesse. Così viene ucciso, fra gli altri, anche il bibliotecario
frate Berengario, del quale un’abile messinscena simula la morte per annegamento nelle piscine del convento, come
scopre Guglielmo di Baskerville, sorta di Sherlock Holmes ante litteram.
32
71
“È possibile che sia stato l’altra notte,” convenne Severino. Guglielmo lo mise
parzialmente al corrente degli avvenimenti della notte prima. Non gli disse che
eravamo stati furtivamente nello scriptorium ma, celandogli varie circostanze, gli
disse che avevamo inseguito una figura misteriosa che vi aveva sottratto un libro.
Severino capì che Guglielmo gli diceva solo una parte della verità, ma non fece altre
domande. Osservò che l’agitazione di Berengario, se era lui il ladro misterioso,
poteva averlo indotto a cercare la tranquillità in un bagno ristoratore. Berengario,
osservò, era di natura molto sensibile, talora una contrarietà o un’emozione gli
provocavano tremori, sudori freddi, sbarrava gli occhi e cadeva per terra sputando
una bava biancastra.
“In ogni caso,” disse Guglielmo, “prima di venire qui è stato da qualche altra parte,
perché non ho visto nei balnea il libro che ha rubato.”
“Sì,” confermai con una certa fierezza, “ho sollevato la sua veste che giaceva
accanto alla vasca, e non ho trovato tracce di alcun oggetto voluminoso.”
“Bravo,” mi sorrise Guglielmo. “Dunque è stato da qualche altra parte, poi
ammettiamo pure che per calmare la propria agitazione, e forse per sottrarsi alle
nostre ricerche, si sia infilato nei balnea e si sia immerso nell’acqua. Severino, ritieni
che il male di cui soffriva fosse sufficiente a fargli perdere i sensi e a farlo
annegare?”
“Potrebbe essere,” osservò dubbioso Severino. “D’altra parte se tutto è accaduto
due notti fa, avrebbe potuto esserci dell’acqua intorno alla vasca, che poi è asciugata.
Così non possiamo escludere che sia stato annegato a viva forza.”
“No,” disse Guglielmo, “Hai mai visto un assassinato che, prima di farsi annegare,
si toglie gli abiti?” Severino scosse la testa, come se quell’argomento non avesse più
gran valore. Da qualche istante stava esaminando le mani del cadavere: “Ecco una
cosa curiosa…” disse.
“Quale?”
“L’altro giorno ho osservato le mani di Venanzio, quando il corpo è stato ripulito
dal sangue, e ho notato un particolare a cui non avevo dato molta importanza. I
polpastrelli di due dita della mano destra di Venanzio erano scuri, come anneriti da
una sostanza bruna. Esattamente, vedi?, come ora i polpastrelli di due dita di
Berengario. Anzi, qui abbiamo anche qualche traccia sul terzo dito. Allora avevo
pensato che Venanzio avesse toccato degli inchiostri nello scriptorium…”
“Molto interessante,” osservò Guglielmo pensieroso, avvicinando gli occhi alle
dita di Berengario. L’alba stava sorgendo, la luce all’interno era ancora fioca, il mio
maestro soffriva evidentemente della mancanza delle sue lenti. “Molto interessante,”
ripeté. “L’indice e il pollice sono scuri sui polpastrelli, il medio solo sulla parte
interna, e debolmente. Ma ci sono tracce più deboli anche sulla mano sinistra, almeno
sull’indice e sul pollice.”
“Se fosse solo la mano destra, sarebbero le dita di chi afferra qualcosa di piccolo, o
di lungo e sottile…”
“Come uno stilo. O un cibo. O un insetto. O un serpente. O un ostensorio. O un
bastone. Troppe cose. Ma se ci sono segni anche sull’altra mano potrebbe essere
anche una coppa, la destra la tiene salda e la sinistra collabora con minor forza…”
72
Severino ora sfregava leggermente le dita del morto, ma il colore bruno non
scompariva. Notai che si era messo un paio di guanti, che probabilmente usava
quando maneggiava sostanze velenose, Annusava, ma senza trarne alcuna sensazione.
“Potrei citarti molte sostanze vegetali (e anche minerali) che provocano tracce di
questo tipo. Alcune letali, altre no. I miniatori hanno talora le dita sporche di polvere
d’oro…”
“Adelmo faceva il miniatore,” disse Guglielmo. “Immagino che di fronte al suo
corpo sfracellato tu non abbia pensato a esaminargli le dita. Ma costoro potrebbero
aver toccato qualcosa che era appartenuto ad Adelmo.”
“Proprio non so,” disse Severino. “Due morti, entrambi con le dita nere. Cosa ne
deduci?”
“Non ne deduco nulla: nihil sequitur geminis ex particularibus unquam. 33 Bisognerebbe ricondurre entrambi i casi a una regola. Per esempio: esiste una sostanza
che annerisce le dita di chi la tocca…”
Terminai trionfante il sillogismo:34 “… Venanzio e Berengario hanno le dita
annerite, ergo hanno toccato questa sostanza!”
“Bravo Adso,” disse Guglielmo, “peccato che il tuo sillogismo non sia valido,
perché aut semel aut iterum medium generaliter esto,35 e in questo caso il termine
medio non appare mai come generale. Segno che abbiamo scelto male la premessa
maggiore. Non dovevo dire: tutti coloro che toccano una certa sostanza hanno le dita
nere, perché potrebbero esserci anche persone con l edita nere e che non han toccato
la sostanza. Dovevo dire: tutti coloro e solo tutti coloro che han le dita nere hanno
certamente toccato una data sostanza. Venanzio e Berengario, eccetera. Col che
avremmo un Darii, un ottimo terzo sillogismo di prima figura.”36
“Allora abbiamo la risposta!” dissi tutto contento.
“Ahimè Adso, come ti fidi dei sillogismi! Abbiamo solo e di nuovo la domanda.
Cioè abbiamo fatto l’ipotesi che Venanzio e Berengario abbiano toccato la stessa
cosa, ipotesi senz’altro ragionevole. Ma una volta che abbiamo immaginato una
Trad.: “Nulla mai è conseguente da due particolari uguali.”
Il sillogismo (dal greco συλλογισμός, syllogismòs, formato da σύν, syn, "insieme", e λογισμός, logismòs, "calcolo":
quindi, "ragionamento concatenato") è un tipo di ragionamento dimostrativo che fu teorizzato per la prima volta
da Aristotele, il quale, partendo dai tre tipi di termine "maggiore" (che funge da predicato nella conclusione), "medio" e
"minore" (che nella conclusione funge da soggetto) classificati in base al rapporto contenente - contenuto, giunge ad una
conclusione collegando i suddetti termini attraverso brevi enunciati (premesse). Esempio: (premessa maggiore) ogni
animale è mortale; (premessa minore) ogni uomo è animale; (conclusione) dunque ogni uomo è mortale. La filosofia
scolastica ha formalizzato che se una singola premessa oppure entrambe le premesse sono false, la proposizione
conseguente è necessariamente falsa. Invece, se le premesse sono entrambe vere, la conclusione può essere comunque
falsa, come mostrano i cosiddetti paradossi logici che restano il principale limite di una logica formale, ovvero che
prescinde dal contenuto dei singoli soggetti e predicati inseriti al posto delle lettere. Pertanto, il sillogismo è uno
strumento necessario, ma di per sé non sufficiente per arrivare alla verità.
33
Trad.: “O una volta o due volte il termine medio sarà in senso generale.”
33
Le proposizioni del discorso apodittico si distinguono in affermative universali (A): tutti i cani sono animali;
affermative particolari (I): alcuni animali sono mammiferi; negative universali (E): tutte le piante non sono animali;
negative particolari (O): alcuni animali non sono mammiferi. Il sillogismo Darii è un particolare tipo di sillogismo in
cui la prima premessa (maggiore) è una proposizione affermativa universale, la seconda premessa (minore) è una
affermativa particolare, la conclusione è un’altra affermativa particolare. Esempio: 1) tutti i cani sono mammiferi (A);
2) alcuni quadrupedi sono cani (I); 3) alcuni quadrupedi sono mammiferi (I).
33
33
73
sostanza che, sola tra tutte, provoca questo risultato (il che è ancora da appurare) non
sappiamo quale sia e dove coloro l’abbian trovata, e perché l’abbian toccata. E bada
bene, non sappiamo neppure se è poi la sostanza che han toccato, quella che li ha
condotti a morte. Immagina che un folle volesse uccidere tutti coloro che toccano
della polvere d’oro. Diremmo che è la polvere d’oro che uccide?”
Rimasi turbato. Avevo sempre creduto che la logica fosse un’arma universale, e mi
accorgevo ora di come la sua validità dipendesse dal modo in cui la si usava. D’altra
parte, frequentando il mio maestro mi ero reso conto, e sempre più me ne resi conto
nei giorni che seguirono, che la logica poteva servire a molto a condizione di entrarci
dentro e poi di uscirne.
Severino, che certo non era un buon logico, frattanto rifletteva secondo la propria
esperienza: “L’universo dei veleni è vario come vari sono i misteri della natura,”
disse. Indicò una serie di vasi e ampolle che già una volta avevamo ammirato,
disposti in bell’ordine negli scaffali lungo i muri, insieme a molti volumi. “Come ti
ho già detto, molte di queste erbe, dovutamente composte e dosate, potrebbero dar
luogo a bevande e a unguenti mortali. Ecco laggiù, datura stramonium, belladonna,
cicuta: possono dare la sonnolenza, l’eccitazione, o entrambe; somministrate con
cautela sono ottimi medicamenti, in dosi eccessive portano alla morte. Laggiù c’è la
fava di sant’Ignazio, l’angostura pseudo ferruginea, la nux vomica, che potrebbero
togliere il respiro…”
“Ma nessuna di queste sostanze lascerebbe segni sulle dita?”
“Nessuna, credo. Poi ci sono sostanze che diventano pericolose solo se ingerite e
altre che agiscono invece sulla pelle. L’elleboro bianco può provocare vomiti in chi
l’afferra per strapparlo dalla terra. Ci sono delle begonie che quando sono in fiore
provocano ebbrezza nei giardinieri che le toccano, come se avessero bevuto del vino.
L’elleboro nero, al solo toccarlo, provoca la diarrea. Altre piante danno palpitazioni
di cuore, altre alla testa, altre ancora tolgono la voce. Invece il veleno della vipera,
applicato alla pelle senza penetrare nel sangue, produce solo una leggera irritazione…
Ma una volta mi fu mostrato un composto che, applicato alla parte interna delle cosce
di un cane, vicino ai genitali, porta l’animale a morire in breve tempo tra convulsioni
atroci, con le membra che piano piano si irrigidiscono…”
“Sai molte cose sui veleni,” osservò Guglielmo con un tono di voce che pareva
ammirato. Severino lo fissò e ne sostenne lo sguardo per qualche istante: “So quello
che un medico, un erborista, un cultore di scienze dell’umana salute deve sapere.”
Guglielmo restò a lungo sovrappensiero. Poi pregò Severino di aprire la bocca del
cadavere, e di osservarne la lingua. Severino, incuriosito, usò una spatola sottile, uno
degli strumenti della sua arte medica, ed eseguì. Ebbe un grido di stupore: “La lingua
è nera!”
“È così allora,” mormorò Guglielmo. “Ha afferrato qualcosa con le dita e lo ha
ingerito… Questo elimina i veleni che hai citato prima, che uccidono penetrando
attraverso la pelle. Ma non rende più facile le nostre induzioni. Perché ora dobbiamo
pensare, per lui e per Venanzio, a un gesto volontario, non casuale, non dovuto a
distrazione o a imprudenza, né indotto con la violenza. Hanno afferrato qualcosa, e lo
hanno introdotto in bocca, sapendo cosa facevano…”
74
“Un cibo? Una bevanda?”
“Forse. O forse… che so? uno strumento musicale come un flauto…”
“Assurdo,” disse Severino.
“Certo che è assurdo. Ma non dobbiamo trascurare nessuna ipotesi, per
straordinaria che sia. Ma ora cerchiamo di risalire alla materia venefica. Se qualcuno
che conosca i veleni quanto te si fosse introdotto qui e avesse usato alcune di queste
tue erbe, avrebbe potuto comporre un unguento mortale capace di produrre quei segni
sulle dita e sulla lingua? Capace di essere posto in un cibo, in una bevanda, su un
cucchiaio, su qualcosa che si mette in bocca?”
“Sì,” ammise Severino, “ma chi? E poi, anche ammessa questa ipotesi, come
sarebbe stato propinato il veleno ai nostri due poveri confratelli?”
Francamente anch’io non riuscivo a immaginarmi Venanzio o Berengario che si
lasciavano avvicinare da qualcuno che porgeva loro una sostanza misteriosa
convincendoli a mangiarla o a berla. Ma Guglielmo non parve turbato da questa
stranezza. “A questo penseremo dopo,” disse, “perché ora vorrei che tu cercassi di
ricordare qualche fatto che forse non ti è ancora ritornato alla mente, non so,
qualcuno che ti abbia fatto domande sulle tue erbe, qualcuno che entri con facilità
nell’ospedale…”
“Un momento,” disse Severino, “molto tempo fa, parlo di anni, conservavo in uno
di quegli scaffali una sostanza molto potente, che mi era stata data da un confratello
che aveva viaggiato in paesi lontani. Non sapeva dirmi di cosa fosse fatta, certo di
erbe, e non tutte note. Era, all’apparenza, vischiosa e giallastra, ma mi fu consigliato
di non toccarla, perché se fosse venuta anche solo in contatto con le mie labbra mi
avrebbe ucciso in breve tempo. Il confratello mi disse che, ingerita anche in dosi
minime, provocava nel volgere di mezz’ora un senso di grande spossatezza, poi una
lenta paralisi di tutte le membra, e infine la morte. Non voleva portarla con sé e me ne
fece dono. La tenni a lungo, perché mi proponevo di esaminarla in qualche modo. Poi
un giorno venne sul pianoro una grande bufera. Uno dei miei aiutanti, un novizio,
aveva lasciata aperta la porta dell’ospedale, e l’uragano aveva sconvolto tutta la
stanza in cui ora siamo. Ampolle rotte, liquidi sparsi sul pavimento, erbe e polveri
disperse. Lavorai un giorno a rimettere in ordine le mie cose, e mi feci aiutare solo
per spazzare via i cocci e le erbe ormai irrecuperabili. Alla fine mi accorsi che
mancava solo l’ampolla di cui ti parlavo. Dapprima mi preoccupai, poi mi convinsi
che si era infranta e confusa con altri detriti. Feci lavare bene il pavimento
dell’ospedale, e gli scaffali…”
“E avevi visto l’ampolla poche ore prima dell’uragano?”
“Sì… O meglio, no, ora che ci penso. Stava dietro una fila di vasi, ben nascosta, e
non la controllavo ogni giorno…”
“Quindi, per quanto ne sai, avrebbe potuto esserti sottratta anche molto tempo
prima dell’uragano, senza che tu lo sapessi?”
“Ora che mi ci fai riflettere, sì, indubbiamente.”
“E quel tuo novizio potrebbe averla sottratta e poi potrebbe aver colto il destro
dell’uragano per lasciare di proposito la porta aperta e mettere confusione tra le tue
cose.”
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Severino apparve molto eccitato: “Certo sì. Non solo, ma ricordando quanto
avvenne, mi stupii molto che l’uragano, per quanto violento, avesse rovesciato tante
cose. Potrei benissimo dire che qualcuno ha approfittato dell’uragano per sconvolgere
la stanza e produrre più danni di quanto il vento non avesse potuto fare!”
“Chi era il novizio?”
“Si chiamava Agostino. Ma è morto l’anno scorso, cadendo da una impalcatura
mentre con altri monaci e famigli ripuliva le sculture della facciata della chiesa. E
poi, a ben pensarci, lui aveva giurato e spergiurato di non aver lasciata aperta la porta
prima dell’uragano. Fui io, infuriato, che lo ritenni responsabile dell’incidente. Forse
era davvero innocente.”
“E così abbiamo una terza persona, magari ben più esperta di un novizio, che era a
conoscenza del tuo veleno. A chi ne avevi parlato?”
“Questo proprio non lo ricordo. All’Abate, certo, chiedendogli il permesso di
trattenere una sostanza così pericolosa. E a qualcun altro, forse proprio in biblioteca,
perché cercava degli erbari che mi potessero rivelare qualcosa.”
“Ma non mi hai detto che trattieni presso di te i libri più utili alla tua arte?”
“Sì, e molti,” disse indicando in un angolo della stanza alcuni scaffali carichi di
decine di volumi. “Ma allora cercavo certi libri che non potrei trattenere e che anzi
Malachia era restio a farmi vedere tanto che dovetti chiederne l’autorizzazione
all’Abate.” La sua voce si abbassò e quasi ebbe ritegno a farsi udire da me. “Sai, in
un luogo ignoto della biblioteca si conservano anche opere di negromanzia, di magia
nera, ricette di filtri diabolici. Potei consultare alcune di queste opere, per dovere di
conoscenza, e speravo di trovare una descrizione di quel veleno e delle sue funzioni.
Invano.”
“Quindi ne hai parlato a Malachia.”
“Certo, senz’altro a lui, e forse anche allo stesso Berengario che lo assisteva. Ma
non trarre conclusioni affrettate: non ricordo, forse mentre parlavo erano presenti altri
monaci, sai, talora lo scriptorium è abbastanza affollato…”
“Non sto sospettando di nessuno. Cerco solo di capire cosa può essere accaduto. In
ogni caso mi dici che il fatto avvenne qualche anno fa, ed è curioso che qualcuno
abbia sottratto con tanto anticipo un veleno che avrebbe poi usato tanto tempo dopo.
Sarebbe indizio di una volontà maligna che ha covato nell’ombra un proposito
omicida.”
Severino si segnò con una espressione di orrore sul volto.
“Dio ci perdoni tutti!” disse.
Non c’erano altri commenti da fare. Ricoprimmo il corpo di Berengario, che
avrebbe dovuto essere preparato per le esequie.
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