Adam Smith La ricchezza delle nazioni 1776

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Adam Smith La ricchezza delle nazioni 1776
Economia
Adam Smith
La ricchezza delle nazioni
1776
PERCHÉ LEGGERE QUESTO LIBRO
Nel fatidico anno 1776 vengono solennemente proclamate, tra le due sponte
dell’Atlantico, la libertà politica e la libertà economica. La ricchezza delle nazioni di Adam
Smith viene infatti pubblicata a Londra il 9 marzo 1776, solo quattro mesi prima della
Dichiarazione d’Indipendenza americana del 4 luglio 1776. Il libro di Smith incarna dunque
lo spirito dell’epoca, e ottiene un immediato successo di critica e di vendite malgrado non
sia affatto di facile lettura. È infatti un testo voluminoso, costato dodici anni di lavoro e
stampato in due volumi di oltre mille pagine, scritto in maniera affascinante ma con uno
stile talvolta prolisso e caratterizzato da lunghe divagazioni. La sua difesa della “libertà
naturale” conquista però le menti della sua generazione e cambia il corso della politica,
portando al graduale smantellamento delle misure restrittive erette dai mercantilisti e
all’affermazione delle idee favorevoli al libero scambio. La ricchezza delle nazioni è
dunque il testo che fonda il pensiero economico classico, e che accompagna la civiltà
occidentale nella nuova era della rivoluzione industriale e dei diritti dell’uomo.
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PUNTI CHIAVE

La divisione del lavoro fra gli uomini accresce enormemente la produttività

L’uomo ha un’innata propensione allo scambio

Il lavoro è la misura del valore di scambio di tutte le merci

La moneta non è un bene economico ma una “grande ruota” che fa circolare la
ricchezza

La “mano invisibile” del mercato concilia gli interessi personali con l’interesse
generale

I capitali necessari allo sviluppo economico si accumulano solo grazie alla
parsimonia

Il capitalismo è sorto nelle città libere del Medioevo

Bisogna contrastare le cospirazioni dei produttori e dei mercanti contro la libera
concorrenza

Il libero scambio con l’estero avvantaggia gli abitanti di tutte le nazioni coinvolte

I privilegi monopolistici concessi dal governo danneggiano sempre i consumatori

Le imposte devono essere proporzionate, non arbitrarie, comode e con minimi
costi di riscossione

Per realizzare l’opulenza universale è sufficiente un governo limitato che rispetti la
libertà naturale degli individui
RIASSUNTO
La divisione del lavoro
Il libro di Smith si apre con la famosa descrizione dei metodi di lavorazione in una fabbrica
di spilli, un esempio che gli serve per illustrare gli enormi vantaggi di produttività generati
dalla divisione del lavoro. Lavorando da soli, diciotto operai riuscirebbero a produrre a
malapena una ventina di spilli al giorno, ma dividendo la produzione dello spillo in diciotto
fasi distinte, ciascuna realizzata da un operaio specializzato in quella singola operazione,
se ne producono attualmente quattromilaottocento al giorno.
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Questo incredibile aumento di produttività introdotto dalla divisione del lavoro porta a
una crescita della ricchezza di tutto il paese: «È la grande moltiplicazione delle produzioni
di tutte le differenti arti, in conseguenza della divisione del lavoro, a dar luogo, in una
società ben governata, a quell’universale opulenza che si estende sino alle classi sociali
più basse» (p. 88). Ogni operaio può scambiare così la grande quantità del proprio lavoro
suddiviso con quella, altrettanto grande, degli altri operai, e in questo modo una generale
abbondanza si diffonde attraverso i differenti strati sociali.
Smith osserva che lo scambio basato sulla divisione del lavoro non nasce da una profonda
riflessione o da una decisione collettiva, ma dalla innata propensione dell’uomo allo
scambio, a “trafficare, barattare e scambiare una cosa con un’altra”. Questo
atteggiamento riguarda tutti i ceti sociali: gli imprenditori acquistano lavoro e vendono
merci; i lavoratori scambiano le proprie capacità lavorative con il salario; perfino i
mendicanti, secondo Smith, partecipano a questa rete basata sugli scambi volontari.
Il paradosso dell’acqua e dei diamanti
Perché due persone possano entrare in una relazione commerciale devono però aver la
possibilità di confrontare i prodotti o i servizi oggetto dello scambio. Smith va dunque alla
ricerca di un elemento comune che consenta questo raffronto. Una misura adeguata, a
suo avviso, è la quantità di lavoro impiegato per realizzare un prodotto: «Il lavoro - scrive
Smith - è quindi la misura reale del valore di scambio di tutte le merci» (p. 111).
In questo modo però Smith mette in ombra un elemento che il pensiero economico aveva
già acquisito da molti secoli, e cioè che il valore di un bene non dipende da qualche sua
caratteristica intrinseca (come il lavoro necessario per produrlo), ma dalla sua utilità
soggettiva nella mente dei consumatori, che a sua volta è influenzata dalla scarsità o
abbondanza del bene in questione. La teoria smithiana del valore-lavoro, che
condizionerà tutti i successivi economisti della scuola classica come Ricardo, Mill e Marx,
verrà corretta solo nel 1870 dalla teoria marginalista.
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Trascurando la scarsità e la domanda del consumatore, due concetti cruciali
dell’economia, Smith rimane invischiato nel cosiddetto “paradosso del valore”. Egli nota
infatti che «Nulla è più utile dell’acqua; ma con essa non si potrà acquistare quasi nulla e
difficilmente si potrà ottenere qualcosa in cambio di essa. Un diamante, al contrario, non
ha quasi nessun valore d’uso; ma con esso si può spesso ottenere in cambio una
grandissima quantità di altri beni» (p. 109).
Per poter dare spiegazione del paradosso per cui certi beni utilissimi costano poco mentre
altri beni poco utili costano moltissimo, e non potendo richiamarsi all’utilità soggettiva
per i consumatori o alla scarsità, Smith scinde artificiosamente in due il concetto del
valore, che può essere inteso come valore d’uso (l’utilità di un oggetto particolare) o
come valore di scambio (il potere di acquistare altri beni che il possesso di quell’oggetto
comporta).
Il pensatore scozzese però non spiega le ragioni di questa divergenza. Nella scienza
economica l’utilità e il prezzo del bene rimarranno così separati per lungo tempo. Ci vorrà
quasi un secolo perché la coppia torni a riunirsi grazie alla teoria marginalista. L’utilità
marginale è l’utilità apportata dall’ultima unità o dose consumata di un bene, la quale
diminuisce con l’aumentare del consumo. La soluzione del paradosso dell’acqua e dei
diamanti che ha tormentato Smith e gli economisti classici è che, dal punto di vista del
consumatore, una volta placata la sete e considerata l’abbondanza di acqua a
disposizione, l’utilità marginale dell’acqua è di gran lunga inferiore a quella dei diamanti.
Origine e uso della moneta
Quando la divisione del lavoro si afferma in via generale, scrive Smith, solo una
piccolissima parte dei bisogni individuali può essere soddisfatta coi prodotti del proprio
lavoro. L’uomo soddisfa la maggior parte dei suoi bisogni scambiando le eccedenze del
proprio lavoro con quelle altrui: «Così ognuno vive scambiando, cioè diventa in certa
misura mercante, e la società stessa si trasforma in quel che essenzialmente è una società
commerciale» (p. 102). All’inizio però non è facile trovare il partner adatto per lo scambio,
perché chi offre deve trovare qualcuno che voglia la sua merce e che allo stesso tempo
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offra proprio quello che lui cerca: una coincidenza che nella pratica è molto rara. Vi
sono poi delle difficoltà nel confrontare tra loro i valori dei beni da scambiare. Infine, se i
beni non sono facilmente divisibili molti scambi diventano di fatto impraticabili.
Per ovviare a tutti questi problemi del baratto gli uomini preferiscono acquistare, anche
se non ne hanno bisogno, i beni che sono più adatti come strumenti di scambio. Smith
ricorda che in passato hanno svolto questa funzione il bestiame, il sale, le conchiglie, il
merluzzo, il tabacco, lo zucchero, il cuoio e i chiodi. Un passo decisivo fu però
l’introduzione dei metalli, soprattutto il ferro, il rame, l’oro e l’argento, perché durevoli e
divisibili. All’inizio erano usati in barre non coniate, mentre in seguito vennero marcate
affinché portassero impressa la quantità e la finezza del metallo.
Un po’ alla volta, quindi, il baratto scompare perché tutti cominciano a scambiare i propri
beni con questa “terza merce” che diventa moneta, cioè lo strumento comune del
commercio. Anche l’uso delle banconote al posto delle monete d’oro risulta comodo e
conveniente, a condizione che il valore della carta moneta sia interamente coperto da
metalli preziosi. Smith però ha molta cura nel sottolineare che il denaro ha solo la
funzione di facilitare gli scambi, è una sorta di “grande ruota” che fa circolare tutto, ma
non è di per sé un bene economico in senso stretto, e quindi non va calcolato nel reddito
prodotto dalla società.
La mano invisibile
Smith riuscì nella difficile impresa di far capire agli uomini del suo tempo l’idea controintuitiva che una società in cui gli uomini possono perseguire liberamente il proprio
interesse economico anziché il “bene comune” non degenera nel caos, ma produce un
ordine superiore. La sua riflessione nasce dalla meraviglia davanti allo spettacolo
miracoloso del funzionamento del mercato, nel quale milioni di individui che neanche si
conoscono cooperano tra loro nelle complesse fasi della produzione, del trasporto e della
vendita delle merci, offrendole ogni giorno ai consumatori nella qualità e quantità
desiderata, senza che vi sia nessuno dietro a pianificare tutto questo.
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La propensione dell’uomo allo scambio, che rende possibile la specializzazione del
lavoro e quindi la ricchezza delle nazioni, non si fonda sull’altruismo, perché nessuno fa
uno scambio al solo scopo di fare contento il prossimo: «Non è dalla benevolenza del
macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla
considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro
egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità» (p. 92).
Utilizzando una metafora divenuta celebre, Smith spiega che nel mercato ogni individuo,
pur perseguendo solo il proprio tornaconto personale, è spinto come da una mano
invisibile a beneficiare l’intera società: l’imprenditore o il mercante, dirigendo la sua
industria in modo tale che il suo prodotto possa avere il massimo valore, mira soltanto al
proprio guadagno «e in questo, come in molti altri casi, egli è condotto da una mano
invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni. Né per la società è
sempre un male che questo fine non entrasse nelle sue intenzioni. Perseguendo il proprio
interesse egli spesso promuove quello della società in modo più efficace di quando
intenda realmente promuoverlo. Non ho mai visto che sia stato raggiunto molto da coloro
che pretendono di trafficare per il bene pubblico» (p. 584).
L’elogio del risparmio e della frugalità
Smith inoltre individua un fondamentale elemento della crescita economica: l’aumento
del capitale che deriva dalla rinuncia al consumo in favore di un utilizzo produttivo del
denaro. Solo l’accumulo del capitale può aumentare l’occupazione e i redditi all’interno di
un paese. Se confrontiamo la situazione di un paese in due diversi periodi, scrive Smith, e
troviamo che il prodotto annuale della sua terra e del suo lavoro è decisamente maggiore
nel secondo che nel primo, che le sue terre sono coltivate meglio, le sue manifatture più
numerose e fiorenti e il suo commercio più esteso, possiamo essere certi che durante
l’intervallo fra questi due periodi il suo capitale è aumentato e che la buona
amministrazione di alcuni ha incrementato il capitale di un ammontare maggiore di
quanto è stato sottratto dalla cattiva amministrazione di qualche privato o dalla
prodigalità del governo.
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Poiché i capitali aumentano con la parsimonia e diminuiscono con la cattiva
condotta, il risparmio è grandemente utile sia agli uomini che alla società nel suo insieme.
Il movente che spinge a spendere, osserva Smith, è la passione, talvolta violenta e
irresistibile, per il godimento presente, mentre quello che spinge al risparmio è il
desiderio di migliorare la propria condizione che, sebbene calmo e spassionato, si eredita
dal grembo materno e accompagna sino alla tomba.
Se in tutti gli uomini in certe occasioni prevale il desiderio di spendere, tuttavia nella
maggior parte di essi, facendo la media sull’intero corso della loro vita, è lo spirito di
parsimonia a prevalere. Se non fosse così, non si accumulerebbero i capitali e quindi non
ci sarebbe progresso economico. La condotta del prodigo, quindi, se non fosse
compensata dalla frugalità degli altri, tenderebbe non solo a impoverire lui stesso, ma
anche il suo paese.
Le tre classi produttive
Smith spiega che le tre classi produttive originarie, dal cui reddito deriva quello di ogni
altra classe, sono i proprietari terrieri (che vivono di rendita), i lavoratori (che vivono di
salario) e gli imprenditori e i mercanti (che vivono di profitto). Rendita, salario e profitto
rappresentano infatti il prezzo per l’uso dei tre fattori di produzione: terra, lavoro e
capitale. Per quanto riguarda la prima classe dei proprietari terrieri, Smith nota la
differenza tra la nobiltà di campagna in decadenza e i veri e propri imprenditori agricoli,
cioè quei commercianti che, anche per elevarsi da un punto di vista sociale, avevano
deciso di acquistare un podere di campagna. La mentalità conservatrice e inerte dei primi
contrasta notevolmente con la prontezza a rischiare dei secondi, i quali, grazie
all’esperienza maturata negli affari, riescono a far fruttare meglio i loro investimenti
nell’agricoltura.
Per quanto riguarda i lavoratori, Smith osserva che il loro interesse è strettamente legato
a quello della crescita dell’economia in generale, perché i loro salari sono tanto più elevati
quanto più cresce la domanda di lavoro. La richiesta di manodopera e l’ammontare del
salario dei lavoratori dipendono però dall’entità dei capitali che gli imprenditori mettono
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a disposizione per le attività produttive. La conferma si ha confrontando le
condizioni dei lavoratori europei e nordamericani con quelle, assai più miserabili, dei
contadini e degli artigiani della Cina, la cui economia è da lungo tempo stazionaria, e del
Bengala.
Da qui la fondamentale importanza della terza classe della società, coloro che vivono di
profitto: «È il capitale impiegato a scopo di profitto che mette in moto la maggior parte
del lavoro utile di ogni società. I piani e i progetti di coloro che impiegano il capitale
regolano e dirigono tutte le più importanti operazioni del lavoro, e il profitto è il fine che
essi si ripropongono da tutti questi piani e progetti» (p. 374). Insieme a questo
apprezzamento Smith esprime però numerose riserve sull’influenza politica e sul peso
degli interessi degli imprenditori e dei mercanti nella società. Egli teme soprattutto che
possano coalizzarsi per far passare normative restrittive della concorrenza, dato che «la
gente dello stesso mestiere raramente si incontra … senza che la conversazione finisca in
una cospirazione contro il pubblico o in qualche escogitazione per aumentare i prezzi» (p.
230-231). Non è possibile vietare le loro riunioni, ma almeno - scrive Smith - non
bisognerebbe facilitarle.
Le città libere e le origini del capitalismo
Ne La ricchezza delle nazioni svolge anche un’indagine di tipo storico sulle condizioni che
hanno reso possibile il passaggio dall’economia feudale di sussistenza all’economia
capitalistica, individuate nello sviluppo del movimento comunale del Medioevo. Dopo la
caduta dell’impero romano, spiega l’economista scozzese, gli abitanti delle città che
esercitavano il commercio erano soggetti a continue esazioni da parte della nobiltà. I
signori disprezzavano gli abitanti dei borghi per le loro umili origini, ma ne invidiavano le
ricchezze, che saccheggiavano di continuo. Gli abitanti delle città quindi odiavano e
temevano i signori.
I sovrani, invece, temevano i signori ma non avevano alcun motivo di odiare o di temere i
borghesi delle città, nei quali vedevano anzi dei potenziali alleati. Per questo motivo
cercarono di rafforzarli e di renderli indipendenti dai loro nemici concedendo loro
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l’esenzione dalle tasse in cambio di una rendita fissa, l’autonomia nella gestione
delle entrate, l’autogoverno, le mura difensive e una milizia per difendersi da eventuali
attacchi. Non è un caso che i privilegi più generosi ai borghi siano venuti proprio da quei
sovrani, come il re Giovanni d’Inghilterra, Filippo I di Francia e suo figlio Luigi il Grosso,
che avevano maggiori difficoltà con i propri baroni.
In questo modo nacquero i “borghi liberi”, all’interno dei quali gli abitanti, una volta
pagate le tasse al re, erano liberi di far fruttare i propri guadagni come meglio credevano.
Grazie a queste garanzie giuridiche e politiche i borghesi erano proprietari di tutto ciò che
producevano. Fu dunque la sicurezza delle città a rendere possibile lo sviluppo
dell’industria e l’accumulazione del capitale. I contadini invece non avevano alcun
interesse ad aumentare le proprie eccedenze produttive, perché sarebbero state sottratte
dal signore, contro i cui abusi non avevano difesa. L’industria, che mira a qualcosa di più
della minima sussistenza, si stabilì quindi nelle città molto prima che nelle campagne.
Il semplice sistema della libertà naturale
La chiave della ricchezza universale individuata da Smith è quindi quella che lui chiama
“l’ovvio e semplice sistema della libertà naturale”, quando «ogni uomo, purché non violi
le leggi della giustizia, viene lasciato perfettamente libero di perseguire il proprio
interesse a suo modo e di mettere la sua attività e il suo capitale in concorrenza con quelli
di ogni altro uomo o categoria di uomini» (p. 851-52). In altre parole, quando vi è libertà
economica per tutti senza interferenze statali, libera concorrenza, libero movimento delle
persone, del lavoro, dei capitali e delle merci.
In generale, scrive Smith, se un ramo commerciale è vantaggioso per il pubblico, lo sarà
tanto più quanto più libera e diffusa sarà la concorrenza. Al contrario, le compagnie
commerciali o gli individui ai quali il governo ha concesso un monopolio, mantenendo il
mercato costantemente mal rifornito e non soddisfacendo mai interamente la domanda
effettiva, vendono le loro merci molto al di sopra del prezzo naturale e aumentano molto
al di sopra del loro saggio naturale le proprie remunerazioni. Il prezzo di monopolio,
infatti, è in ogni caso il più elevato che si possa avere, mentre il prezzo naturale, o prezzo
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di libera concorrenza, è invece il più basso che possa darsi, non sempre ma per un
certo tempo. Per queste ragioni l’economista scozzese critica anche tutte le altre
ingerenze statali che ostacolano l’equilibrio fra chi offre e chi domanda, come i privilegi
delle corporazioni, le leggi sui poveri e lo statuto dell’apprendistato, che limitavano la
libertà dei lavoratori di scegliersi il proprio mestiere.
La
libera
competizione
esplica
i
suoi
benefici
effetti
perfino
nel
campo
dell’amministrazione della giustizia: Smith ipotizza che in passato la buona qualità del
sistema giudiziario inglese era dovuta alla possibilità per le parti di scegliere la corte cui
rivolgersi, e dato che i giudici si mantenevano con le spese processuali ogni corte cercava,
in emulazione con le altre, di attirare a sé il massimo numero possibile di cause
dimostrando il massimo di solerzia e imparzialità.
La critica al mercantilismo
Smith ha dimostrato che la benefica specializzazione del lavoro è tanto più estesa quanto
più si allarga il mercato grazie al commercio internazionale. Le misure protezionistiche e
restrittive volute dal mercantilismo, un sistema basato sull’alleanza tra il governo e alcuni
gruppi privilegiati di mercanti in auge fin dal XVI secolo, portano però a una regressione
della divisione del lavoro, e quindi riducono la produttività del lavoro. Ogni prudente
capofamiglia, osserva Smith, non cerca mai di fare in casa ciò che potrebbe acquistare a
minor prezzo. Il sarto non cerca di farsi le scarpe da solo ma le compra dal calzolaio, così
come quest’ultimo non cerca di farsi i vestiti, ma si serve del sarto. Ciò che è prudenza
nella condotta di ogni famiglia privata difficilmente può essere stoltezza in quella di un
grande regno. Per questo motivo, se un paese straniero ci può fornire una merce a un
prezzo minore di quanto ci costerebbe fabbricarla, è meglio acquistarla con una parte del
prodotto della nostra industria.
Il commercio che viene svolto tra due luoghi qualsiasi senza forza o costrizione, ricorda
Smith, è sempre vantaggioso a entrambi, ma nel sistema mercantile l’interesse del
consumatore è quasi sempre sacrificato a quello del produttore. La dottrina del
mercantilismo nasce quindi dallo spirito del monopolio. Lo scopo di tutti i suoi
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regolamenti, come i dazi sulle importazioni o i premi alle esportazioni, è quello di
«sviluppare le nostre manifatture non mediante il loro miglioramento ma mediante la
depressione di quelle di tutti i nostri vicini, e di metter fine, per quanto possibile, alla
scomoda concorrenza di odiosi e sgradevoli rivali» (p. 821).
Smith difende pertanto la gloriosa tradizione inglese del contrabbando, sostenendo che
l’evasione fiscale non può essere considerata un crimine secondo le leggi naturali. Il
contrabbandiere, spiega Smith, è spesso una persona incapace di violare il diritto penale,
ed è sotto ogni punto di vista un cittadino esemplare, se non fosse per il fatto che le leggi
del suo paese hanno reso criminale ciò che la natura non ha mai voluto che fosse tale.
Le tasse e i compiti dello Stato
Anche se la società di mercato si regola ampiamente da sola senza ingerenze, esistono
alcuni compiti che spettano al governo. Secondo il sistema della libertà naturale, spiega
Smith, il sovrano deve attendere soltanto a tre compiti: primo, la protezione della società
dagli attacchi provenienti dall’esterno; secondo, proteggere i diritti di ogni individuo per
mezzo di un’equa amministrazione della giustizia; e terzo, creare e mantenere certe
opere pubbliche e istituzioni pubbliche, che ai privati non conviene realizzare. La visione
di Smith è dunque quella, tipica del liberalismo classico, di uno Stato limitato che svolge
solo un numero ben preciso di compiti.
Per finanziare queste attività lo Stato deve procurarsi delle risorse attraverso le imposte.
Al riguardo Smith sviluppa quattro importanti regole finanziarie: le imposte devono
essere proporzionate al reddito del contribuente; devono essere certe e non arbitrarie;
devono essere comode da versare; i loro costi di riscossione devono essere minimi.
Quando queste regole non vengono rispettate, le imposte costano ai contribuenti molto
di più di quello che affluisce alle casse del tesoro. Una situazione del genere può
verificarsi quando la riscossione richiede un gran numero di addetti, i cui stipendi
assorbono la maggior parte del gettito. Le frequenti visite e gli odiosi esami degli esattori,
inoltre, possono esporre le persone a molti fastidi non necessari, a vessazione e
oppressione. L’azione fiscale dello Stato può far calare il gettito anche quando ostacola
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l’industria e scoraggia la gente dal dedicarsi a certe attività che potrebbero dare
sussistenza e impiego a molte persone. Le confische e le alte penalità cui incorrono gli
sfortunati individui che tentano senza successo di evadere l’imposta possono mandarli in
rovina, mettendo quindi fine al vantaggio che aveva la società dall’impiego del loro
capitale. Un’imposta sconsiderata, osserva Smith, è una grande tentazione all’evasione.
A dispetto di queste difficoltà create dai governi, la società riesce spesso a progredire
grazie all’industriosità degli individui: «Lo sforzo regolare, costante e continuo di ogni
individuo per migliorare la propria condizione, principio da cui deriva l’opulenza sia
pubblica e nazionale sia privata, è spesso abbastanza forte per mantenere il corso
naturale delle cose verso il progresso nonostante la prodigalità del governo e i più gravi
errori dell’amministrazione» (p. 465). Nell’ottimistico messaggio di Smith, ad una nazione
occorre ben poco per passare dalla barbarie “al più altro grado di opulenza”: la pace,
poche tasse e una tollerabile amministrazione della giustizia.
CITAZIONI RILEVANTI
Meglio affidarsi all’interesse altrui
«L’uomo ha bisogno quasi costante dell’aiuto dei suoi simili, ed invano se l’aspetterebbe
soltanto dalla loro benevolenza. Potrà più facilmente riuscirci se può indirizzare il loro
egoismo a suo favore, e mostrare che per loro è vantaggioso fare ciò che egli richiede.
Chiunque propone a un altro una transazione di qualsiasi specie, procede così. Un’offerta
del genere significa: dammi ciò di cui ho bisogno e avrai quello che ti occorre. In questo
modo otteniamo dagli altri la massima parte dei servizi di cui abbiamo bisogno» (p. 92).
I governanti sono i peggiori scialacquatori
«È quindi una enorme impertinenza e presunzione da parte dei re e dei ministri
pretendere di tutelare l’economia dei privati e di frenare le loro spese con leggi suntuarie
o proibendo l’importazione di beni di lusso stranieri. Essi sono sempre e senza eccezione i
più grandi scialatori della società. Se essi facessero più attenzione alle loro spese,
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potrebbero tranquillamente lasciare che i privati si occupassero delle loro. Se la
loro dissipatezza non rovina lo Stato, tanto meno potrà farlo quella dei loro sudditi» (p.
469)
La libertà economica nasce nelle città
«Allora la legge era tanto indulgente verso gli abitanti della città e tanto desiderosa di
diminuire l’autorità dei signori su quelli della campagna che chi riusciva a sfuggire alle
ricerche del suo signore per un anno era libero per sempre. Perciò qualsiasi capitale che si
fosse accumulato nelle mani degli abitanti industriosi della campagna si rifugiava
naturalmente nelle città, i soli santuari in cui questo capitale poteva essere garantito alla
persona che l’aveva accumulato» (p. 530).
I prezzi bassi sono nell’interesse generale
«In ogni paese è e deve sempre essere interesse della gran massa della gente acquistare
tutto ciò che vuole da coloro che vendono a minor prezzo. La proposizione è così
evidente, che sembra ridicolo darsi pena di provarla; ed essa non sarebbe mai stata
messa in dubbio, se la sofisticheria interessata dei commercianti e dei manifattori non
avesse confuso il buon senso della gente» (p. 627).
Progresso nonostante il governo
«Lo sforzo naturale di ogni individuo di migliorare la propria condizione, quando può
realizzarsi con libertà e sicurezza, è un principio tanto potente che può da solo e
senz’altro concorso non solo condurre la società alla ricchezza e alla prosperità, ma anche
superare centinaia di ostacoli assurdi coi quali la follia delle leggi umane troppo spesso
ostacola la sua estrinsecazione; sebbene l’effetto di questi ostacoli sia sempre più o meno
quello di violarne la libertà o di diminuirne la sicurezza» (p. 683).
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L’AUTORE
Adam Smith (1723-1790) nasce a Kircaldy, sulla costa orientale della Scozia vicino ad
Edimburgo il 5 giugno del 1723, nello stesso anno della morte del padre. Compie gli studi
nelle università di Glasgow e Oxford. Divenuto professore tiene lezioni di retorica e
letteratura a Edimburgo dal 1748 al 1751. In questo periodo instaura anche una stretta
amicizia con il filosofo David Hume, che durerà fino alla morte. Nel 1752 viene nominato
professore di filosofia morale presso l’Università di Glasgow. Raccoglie quindi le sue
lezioni di etica nella sua prima grande opera, Teoria dei sentimenti morali, pubblicata nel
1759. A seguito di un suo viaggio in Francia conosce Voltaire e molti dei principali
esponenti della scuola fisiocratica, subendo l’influenza di François Quesnay e Jacques
Turgot. Da loro trae alcuni elementi che confluiranno ne La ricchezza delle nazioni del
1776, il libro che a detta di molti segna l’inizio dell’economia come scienza autonoma. Nel
1778 accetta la nomina di commissario delle dogane scozzesi e si trasferisce ad
Edimburgo. Questa decisione di Smith getta qualche ombra sulla sua coerenza
intellettuale. Negli ultimi dodici anni della sua vita si impegna infatti con grande zelo in
quest’attività, cercando con particolare ostinazione di far osservare fino in fondo tutte le
onerose tariffe e restrizioni mercantiliste che aveva tanto criticato nella sua opera.
Nonostante il suo lavoro lo impegni assiduamente, trova il tempo per dedicarsi alla
riedizione de La Ricchezza delle nazioni ed alla revisione della Teoria dei sentimenti
morali. Muore il 17 luglio 1790, lasciando agli amici precise istruzioni per bruciare gran
parte dei suoi scritti.
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NOTA BIBLIOGRAFICA
Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, UTET, Torino, 1975, p. 1257, a cura di Anna e Tulio
Bagiotti.
Altra edizione: Newton Compton, Roma, 1995, 2006, p. 834, traduzione di Francesco
Bartoli, Cristiano Camporesi, Sergio Caruso.
Titolo originale: An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of the Nations.
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