il petrolio linfa vitale dell`economia mondiale

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il petrolio linfa vitale dell`economia mondiale
IL PETROLIO LINFA VITALE DELL’ECONOMIA MONDIALE
Sommario: 1. Considerazioni introduttive – 2. La situazione attuale – 3. La geopolitica del petrolio.
Indipendenza e sicurezza energetica – 4. Il “mito” della fine del petrolio e la realtà di un forte divario
fra offerta e domanda – 5. Effetti del prezzo del petrolio – 6. Considerazioni conclusive.
1. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
Il XX secolo è stato il “secolo del petrolio” abbondante e a basso prezzo; quindi, della
motorizzazione di massa e della guerra meccanizzata. Nonostante i due shocks petroliferi del 1973 e del
1979, il petrolio è divenuto la principale fonte di energia (circa il 43 per cento del totale mondiale),
nonché la base dell’enorme sviluppo che ha conosciuto il petrolchimico. Per gli usi industriali e
soprattutto per i trasporti il petrolio sarà insostituibile anche nei prossimi decenni. Se la trasformazione
delle economie industriali in post-industriali ha ridotto l’“intensità energetica”1, la globalizzazione ha
aumentato le esigenze di trasporto, quindi i consumi di petrolio. Essendo anti-inflazionistica, essa ha
diminuito gli effetti del recente aumento del prezzo del petrolio, da 22 dollari al barile nel 2003 a 55 nel
2005.
Il petrolio rappresenta un fattore cruciale per l’economia mondiale. Attualmente, l’aumento del
suo prezzo ha stimolato un serrato dibattito sul futuro dell’energia. Esso si è concentrato, in particolare,
su questi punti: i) sulla presunta prossima fine delle riserve di petrolio; ii) sulla possibilità di improvvise
diminuzioni dell’offerta, ad esempio per effetto di attacchi terroristici alle infrastrutture della vulnerabile
catena logistica petrolifera (estrazione, raffinazione, trasporto); iii) sugli effetti macro-economici
dell’alto prezzo del petrolio e di suoi possibili ulteriori aumenti; iv) sulla competizione geopolitica per il
controllo delle fonti petrolifere, al fine di realizzare per taluni l’indipendenza, per altri la sicurezza
energetica nazionale e per altri ancora strumenti di pressione su altri stati; v) sulla possibilità di sostituire
il petrolio con altre fonti di energia; vi) sugli effetti ecologici globali dell’alto consumo di combustibili
fossili (effetto serra).
Le opinioni degli esperti sono divise fra petro-ottimisti e petro-pessimisti, a cui si aggiunge un
buon numero di petro-catastrofisti. I dati che vengono forniti – ad esempio sulla reale entità delle
riserve o sugli impatti dell’effetto serra – sono non solo diversi, ma spesso opposti fra di loro. Ciascuno
poi fornisce quelli che corrispondono ai suoi interessi o preconcetti. Ciò dipende anche dalle diversità di
interessi fra i paesi produttori e consumatori e dall’impatto di preferenze ideologiche, ad esempio fra i
“pro” e i “contro” l’elettro-nucleare.
Gli ottimisti sono portati ad ignorare le realtà che sfidino le loro convinzioni. Essi sostengono
che “come l’età della pietra non è finita per la mancanza di pietre, così l’età del petrolio non finirà per la
scarsità del petrolio, ma per invenzione di fonti di energia più convenienti economicamente,
ecologicamente e politicamente”. E’ uno slogan spesso ripetuto, ma che mi sembra “stiracchiato”. Le
pietre sono infatti riutilizzabili. La continuazione dell’era del petrolio andrebbe valutata in modo
complessivo: economico, ecologico e politico.
Nell’epoca d’oro – dal 1948 al 1973 – il mercato era trainato dalla domanda, che cresceva
rapidamente (in Europa Occidentale si verificò un incremento annuo dell’11 per cento). Oggi, il
mercato è condizionato invece dall’offerta, insufficiente o alimentata da risorse utilizzate con
un’intensità eccessiva, in tutte le componenti della catena logistica del petrolio. Ad esempio, negli Stati
Uniti le capacità di raffinazione sono sfruttate al 92-95 per cento, non consentendo un’adeguata
manutenzione degli impianti. Se l’offerta è rigida, la domanda non è flessibile a seconda dei livelli di
prezzo. Lo può essere solo in tempi molto lunghi. Per gli ottimisti, neppure l’aumento dei prezzi del
petrolio sarebbe un problema insuperabile. Aumento di prezzi e diminuzione dell’offerta dell’“oro
nero” avranno effetti che dipendono dalla rapidità con cui si verificheranno, cioè dal tempo che avrà
Quantità di energia, generalmente espressa in “tep” - tonnellate equivalenti di petrolio, necessaria per produrre un miliardo
di dollari di PIL. Negli ultimi venti anni tale intensità si è dimezzata per i paesi OCSE.
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l’economia globale ad adattarvisi. Se i mutamenti avverranno in modo progressivo, non si
verificheranno bruschi scossoni. Rilevanti e improvvisi aumenti di prezzo e ampie diminuzioni di
disponibilità sul mercato produrrebbero invece shocks economici. Beninteso, essi sarebbero riassorbiti,
come in passato. Disastrosa sarebbe solo una forte, improvvisa e lunga diminuzione dell’offerta, dovuta
ad eventi esterni, quali attacchi terroristici, soprattutto in Arabia Saudita o, meno probabile, per la
presenza della US Navy nello Stretto di Hormuz. La geopolitica – e, come vedremo, l’ecologia – hanno
più importanza della geologia.
Secondo i pessimisti, non solo il prezzo del petrolio sarebbe destinato inesorabilmente a salire,
ma si starebbe anche determinando uno squilibrio incolmabile fra l’offerta decrescente e la domanda
mondiale di petrolio che continua ad aumentare. Esso deriverebbe dalla sete di petrolio della Cina e
dell’India e dal declino della produzione statunitense, unita all’incapacità degli Stati Uniti di diminuire i
loro consumi: con il 5 per cento della popolazione consumano il 25 per cento del petrolio mondiale. Il
petrolio sarebbe il “tallone d’Achille” della globalizzazione.
Secondo taluni catastrofisti l’economia mondiale sarebbe sul punto di essere travolta da uno
“tsunami energetico”. Esso amplificherebbe quelli provocati dal twin deficit americano2 e (forse) dallo
scoppio della “bolla immobiliare”. Quest’ultima avrebbe effetti simili a quella della new economy. I dati
forniti dall’Arabia Saudita circa l’entità delle riserve e le sue possibilità di aumento produttivo sarebbero
falsi3. Il primo esportatore e proprietario delle più grandi riserve mondiali di petrolio non solo non
sarebbe in condizioni di rispettare le promesse fatte recentemente agli Stati Uniti di raddoppiare la
propria produzione nei prossimi vent’anni. Non potrebbe neppure mantenerla ai livelli attuali. Sette dei
nove grandi giacimenti del Regno avrebbero già superato o starebbero per superare il cosiddetto “picco
di Hubbert”4. Inoltre, lungi dallo stabilizzarsi, l’area del Golfo (un terzo della produzione e due terzi
delle riserve mondiali) starebbe per conoscere nuove crisi geopolitiche con i tentativi iraniani di dotarsi
di un armamento nucleare. Potrebbe scoppiare una nuova guerra nel Golfo, che comporterebbe una
minaccia costante al traffico nello Stretto di Hormuz, da cui transitano ben 13 milioni di barili al giorno
(mbg), cioè quasi un quarto delle esportazioni mondiali di petrolio5.
Insomma, i dati che vengono forniti sembrano quasi fatti per confondere le idee. Vengono –
come detto in precedenza - manipolati da chi li fornisce a seconda dei suoi interessi o dei suoi
preconcetti o preferenze ideologiche. Taluni sono persuasi che il petrolio si compri, non si acquisti.
Altri lo ritengono il fattore centrale della geopolitica globale degli Stati Uniti, non solo nel Medio
Oriente, ma in Asia Centrale e in Africa.
Questo studio non ha evidentemente la pretesa di diminuire l’opacità esistente nel mercato del
petrolio. Tende solo a sottolinearne i problemi e le interpretazioni che vi vengono date.
Dopo aver esaminato la situazione attuale verranno approfonditi in successione i seguenti
argomenti:
a) la geopolitica del petrolio e le discussioni sull’indipendenza e sulla sicurezza energetica;
b) il dibattito sulla fine del petrolio e gli effetti sull’economia mondiale di un improvviso forte
divario fra offerta e domanda di petrolio;
c) gli effetti macro-economici del prezzo del petrolio.
Lo scritto si concluderà con talune considerazioni relative alla futura geopolitica del petrolio,
che, per le ragioni prima dette, ha sempre effetti globali, anche quando sembra regionale.
J. Rifkin, A Perfect Storm About To Hit, in The Guardian, 25 March 2004, p. 7.
M. Simmons, Twilight in Desert, Wiley, New York, 2005.
4 Il “picco di Hubbert” è raggiunto quando da un giacimento è stato estratto il 50 per cento delle riserve utilizzabili.
Superato il “picco di Hubbert” la produzione del giacimento diminuisce inesorabilmente. Secondi i suoi critici, tale teoria –
che non negano peraltro il fatto che i minerali fossili siano destinati prima o poi ad esaurirsi - avrebbe valore per i singoli
giacimenti, non a scala mondiale. Inoltre, non tiene conto dello sviluppo tecnologico nell’estrazione e nella raffinazione,
nonché delle capacità di adattamento dell’economia. In proposito vedasi gli articoli pubblicati nell’eccellente numero 27 di
Astenia - gennaio 2005, La seconda era nucleare di D. Goodstein, Il ritorno di Hubbert: come vivere senza combustibili fossili, pp. 199208; e di F. Bernabé, Il fattore tempo: risposta a Goodstein, pp. 209-12.
5 M. T. Klare, Blood and Oil: The Dangers and Consequences of America’s Growing Dependency on Imported Oil, Metropolitan Books,
New York, 2005; idem Oil, Geopolitics and the Coming War with Iran, Peninsula Peace and Justice Centre, 4 novembre
2005.
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2. LA SITUAZIONE ATTUALE
Attualmente il petrolio è la principale fonte di energia del mondo e tale rimarrà anche nel 2030.
Lo prevede l’International Energy Agency (IEA) – Allegato 1 - nonostante il forte incremento che si
verificherà nel consumo di gas naturale.
L’Allegato 2 riporta la variazione della domanda dal 1995 al 2004. L’IEA prevede che il
consumo di petrolio dovrebbe tendenzialmente aumentare di almeno il 50 per cento nei prossimi 25
anni. Dovrebbe cioè passare da 82 milioni di barili/giorno (mbg) nel 2004 a circa 125 mbg nel 2030.
I motivi di tale preminenza del petrolio sulle altre fonti energetiche sono la versatilità della sua
utilizzazione, il basso costo, la facilità di trasporto e l’ampia disponibilità sul mercato mondiale.
L’equilibrio del mercato è stato garantito dalla cooperazione fra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita sulla
base degli accordi fra il Presidente americano Roosevelt e il sovrano saudita Ab al-Azis Ibn Saud del
febbraio 19456. Tale accordo, preso a bordo dell’incrociatore pesante Quincy – a bordo del quale si
trovava Roosevelt al suo ritorno da Yalta - avvenne nel Grande Lago Amaro, a metà del Canale di Suez.
Le clausole dell’accordo rimangono segrete, forse anche perché Washington concordò con i Sauditi una
diminuzione dell’influenza della Gran Bretagna – fedele alleato degli Stati Uniti – nell’intero Medio
Oriente. Sicuramente con tale accordo gli Stati Uniti si impegnavano a difendere la famiglia reale
saudita. In cambio, veniva garantito un accesso preferenziale delle compagnie petrolifere americane al
petrolio saudita e rifornimenti di petrolio a basso prezzo necessari per la ripresa economica mondiale,
soprattutto per la ricostruzione dell’Europa. Gli Stati Uniti, infatti, pur essendo allora esportatori di
petrolio, prevedevano che i loro consumi sarebbero aumentati, mentre la loro produzione sarebbe stata
invece stagnante, con costi di estrazione crescenti. L’alleanza con i Sauditi avrebbe permesso di
soddisfare un’offerta crescente e sempre più globalizzata. In tal modo, si sarebbe potuto fronteggiare
l’enorme aumento della domanda e stimolare la crescita economica e l’espansione della democrazia,
base della crescente influenza e della leadership americana nel “mondo libero”. In un certo senso
l’accordo americano-saudita fu parallelo, oltre che al Piano Marshall, agli accordi di “Bretton Woods” e,
in particolare, al Gold Standard. Anche dopo il primo shock petrolifero degli anni settanta, le successive
nazionalizzazioni delle compagnie petrolifere e la costituzione dell’OPEC, l’Oil Standard ha avuto una
funzione analoga a quella del Gold Standard7, anche perchè il primo ha maggiore liquidità e perchè il
valore delle riserve petrolifere è superiore di ventisei volte a quello delle riserve aurifere. Una crisi del
petrolio amplificherebbe la crisi del dollaro, che, a sua volta, aumenterebbe la prima, con conseguenze
disastrose sul commercio mondiale e sull’economia globalizzata.
Con gli accordi del Quincy si determinò una “strana” alleanza, nonostante la nazionalizzazione
del petrolio (oltre l’80 per cento della produzione e delle riserve mondiali sono possedute da compagnie
nazionalizzate), gli shocks petroliferi degli anni ’70 e le accuse volte dagli Stati Uniti all’Arabia Saudita,
dopo gli attentati dell’11 settembre, di essere il centro del finanziamento e del reclutamento del
terrorismo islamista.
Tale “alleanza” dura tuttora dopo sessant’anni. Riad non solo svolge un’azione di moderazione
nell’ambito del cartello OPEC, ma riveste un ruolo essenziale per accordare l’offerta con la domanda.
Gioca, in altre parole, il ruolo di “banca mondiale del petrolio” ovvero di “fornitore di last resort”.
Finora è stata capace di far fronte ad improvvise diminuzioni dell’offerta dovute ad eventi naturali
(tornado nei Carabi, che ha bloccato per oltre due mesi la produzione delle piattaforme petrolifere offshore) o a disordini interni (scioperi in Venezuela) o ad eventi geopolitici (guerra Iraq-Iran, invasione del
Kuwait, guerra civile in Nigeria, ecc.).
Aumentando le sue esportazioni, Riad ha avuto anche un ruolo moderatore dei prezzi. L’Arabia
Saudita ha potuto svolgere tali funzioni con il mantenimento di una capacità estrattiva, di raffinazione e
di trasporto non utilizzata ma mantenuta in riserva e attivabile con immediatezza. Essa viene di volta in
volta utilizzata per far sì che l’offerta si adegui alla domanda e per contenere il prezzo del petrolio.
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Roosevelt e i Sauditi sul Quincy: la vera storia dell’altra Yalta – Spartizione fra potere e petrolio, in Il Foglio del 12 maggio 2005, p. 3.
G. Croft, The End of Oil Standard, su Energybulletin.net, 8 febbraio 2005.
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Svolge una funzione molto più importante per la flessibilità del mercato di quella svolta dalle “riserve
strategiche”.
Secondo l’OCSE, tutti i paesi membri del “club dei ricchi” dovrebbero mantenere riserve pari a
novanta giorni di consumo. Di fatto, solo gli US si avvicinano a tale entità. A livello mondiale, l’entità
delle riserve strategiche di petrolio è invece diminuita.
Il principale fatto che ha determinato l’attuale preoccupazione circa i rifornimenti e prezzi
petroliferi – oltre all’instabilità geopolitica del Golfo - è rappresentato dalla diminuzione del “volano di
riserva” dell’Arabia Saudita. L’Allegato 3 riporta l’evoluzione di quest’ultimo. Anche tali dati sollevano
interrogativi e dubbi. Comunque, il volano saudita ha finora evitato varie crisi petrolifere mondiali e
consentito agli USA di esercitare un certo controllo sull’OPEC, per il tramite di Riad.
Tali meccanismi sono tuttora validi. Lo dimostrano il recente incontro fra il principe saudita
Abdullah - che di fatto governa il paese - e il Presidente Bush8, nonché le pressioni di quest’ultimo
perché il prezzo del petrolio venga diminuito a 25 dollari al barile, per garantire una dinamica crescita
economica mondiale.
A parte la cooperazione politica (sostegno al ritiro siriano dal Libano e nella lotta al terrorismo e
concessione di aiuti economici al nuovo leader palestinese Abu Mazen), l’incontro è stato incentrato
proprio sul petrolio. Il suo alto prezzo riduce la crescita, soprattutto nei paesi in via di sviluppo,
contrastando con gli obiettivi della geopolitica americana: consolidare la globalizzazione con
l’espansione della libertà, della democrazia e del capitalismo liberale. Solo i sauditi possono aumentare
gli approvvigionamenti del mercato. Attualmente Riad estrae 11 mbg (di cui 9,5 esportati), ma ha
promesso di aumentare la propria produzione entro il 2009 a 15 mbg e, entro il 2025, a 23 mbg. Anche
se per tale cospicuo aumento, ha rifiutato di concedere licenze di esplorazione e estrazione alle grandi
compagnie petrolifere, Riad ha chiesto e ottenuto il sostegno tecnologico degli Stati Uniti, che
dispongono di grandi multinazionali specializzate nel settore. Esse esercitano nei confronti delle
compagnie nazionalizzate dei paesi produttori un’influenza indiretta, analoga a quella del controllo
diretto esercitato fino al 1973-74 dalle “sette sorelle”.
Una delle caratteristiche principali del mercato del petrolio consiste nel fatto che produttori e
consumatori sono diversi e che le principali produzioni e soprattutto riserve mondiali sono concentrate
nell’area del Golfo, dove il 70 per cento del petrolio estratto viene esportato. Con l’aumento dei
consumi, aumenterà anche la dipendenza energetica dei paesi europei, nonché dei tre “giganti asiatici”
(Cina, Giappone ed India) dal Golfo. L’instabilità geopolitica dell’area ha fatto sì che Washington
cercasse di diminuire l’importanza della regione per l’economia mondiale. Visto che non era possibile
farlo, ha deciso di stabilizzare il Golfo. La sfida della proliferazione nucleare iraniana rende la situazione
imprevedibile.
In Allegato 4 sono riportati i principali produttori e consumatori del mondo, l’entità delle
esportazioni, nonché le riserve dichiarate. Da tali dati risulta evidente la preminenza della regione del
Golfo. Nonostante i tentativi americani di diversificazione geopolitica verso la Russia, il Caspio, l’Africa
Occidentale, ecc.9, il Golfo resta centrale per gli approvvigionamenti petroliferi e quindi per l’economia
globalizzata. La sua centralità è destinata nei prossimi anni ad aumentare ancora, dato che la regione
possiede la maggiore quantità di riserve accertate e i più bassi costi di estrazione al mondo. Ciò
determina una particolare attenzione specie a Washington per i problemi della stabilità del Golfo. I più
gravi pericoli che derivano per quella che abbiamo chiamato “linfa vitale dell’economia mondiale” non
sono tanto geologici, cioè relativi alla disponibilità di petrolio, ma geopolitici per possibili, improvvise e
consistenti diminuzioni dei rifornimenti del mercato mondiale. Essi potrebbero determinare non solo
recessioni economiche, ma anche nuovi conflitti e guerre commerciali che segnerebbero la fine della
globalizzazione e dell’ordine della pax americana.
Le preoccupazioni di Bush e Cheney per il Golfo non sono nuove. Nel 1980, nel suo ultimo
discorso sullo “Stato dell’Unione”, il Presidente Jimmy Carter aveva affermato che “qualsiasi tentativo
M. Valsania, Bush fa pressioni su Riad, in Il Sole 24-Ore del 26 aprile 2005, p. 7.
Report on National Energy Development Task Force (presieduta da Dick Cheney) Affordable and Environmentally Sound Energy for
America’s Future, US Government Printing Office, Washington DC, May 2001; per un acuto commento e contestualizzazione
nella politica americana, vds. Oil Geopolitics Central To Cheney Task Force, Executive Intelligence Review, 11 June 2004.
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di controllare il Golfo Persico sarà considerato un attacco agli interessi vitali degli Stati Uniti e
provocherà, se necessario, un intervento armato americano”10. Ne seguì la decisione di creare un
poderoso corpo di spedizione oltremare, la Rapid Deployment Joint Task Force e il US Central Command
(USCENTCOM), che diresse nel 1990-91 e nel 2003 gli interventi militari contro l’Iraq. La dottrina
Carter – strutturalmente offensiva - rimase centrale per 20 anni nella pianificazione strategica
americana. Sin dall’inizio è stata affiancata da una componente difensiva, teorizzata dall’ex-Segretario
dell’Energia, Spencer Abraham, consistente nell’aumentare la sicurezza degli approvvigionamenti
americani realizzata con la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e la riduzione massiccia
delle importazioni statunitensi dal Golfo.
I consumi mondiali di petrolio stanno aumentando rapidamente sia per la “sete di petrolio”
della Cina e dell’India, sia per l’aumento della domanda e per la stagnazione della produzione degli Stati
Uniti. Da esportatori di petrolio (e da un ruolo di equilibratori dell’offerta a livello mondiale,
unitamente all’Arabia Saudita), gli Stati Uniti sono divenuti i maggiori importatori del mondo. Già
importano il 50 per cento dei loro fabbisogni. Tale percentuale è destinata ad aumentare. La politica
petrolifera americana ha riflessi determinanti sul mercato mondiale del petrolio. La dipendenza – e
quindi le esigenze di garantire la sicurezza energetica (fatto diverso da un’irrealizzabile “indipendenza”)
– rappresenta un elemento importante della politica americana nei riguardi del mercato mondiale del
petrolio. La logica americana è economica, non geopolitica. Le grandi compagnie competono per
rifornire un mercato unitario dell’offerta. Beninteso, tale mercato è protetto con la ricerca della stabilità
geopolitica dell’area del Golfo e con la diversificazione dei luoghi di produzione. Inoltre, oggi, in misura
crescente, esso è reso più flessibile dall’uso o dalla ricerca di nuove fonti di energia complementari ma
non sostitutive del petrolio (dal gas naturale liquefatto, al nucleare, all’etanolo, all’idrogeno, e così via).
Tale geopolitica economica energetica deriva dall’esigenza degli Stati Uniti di mantenere un
elevato livello di crescita economica mondiale. Solo essa, infatti, può, da un lato, legittimare la loro
leadership e contribuire al conseguimento degli obiettivi essenziali della politica estera americana
(espansione della libertà, della democrazia e del capitalismo liberale; quindi della globalizzazione,
sempre più intesa come americanizzazione del mondo) e, dall’altro lato, consentire agli Stati Uniti –
“superpotenza a credito”11 - di esternalizzare il loro twin deficit, attirando capitali dal resto del mondo e
mantenendo la preminenza del dollaro specie sull’euro. Ciò consente agli US un elevato livello di
benessere e di consumi uniti ad un basso indice di risparmio e ad una forte crescita. Gli investimenti
necessari per essa vengono finanziati appunto con l’attrazione che gli Stati Uniti esercitano sui capitali
del resto del mondo. Tale politica è perfettamente coerente con l’internazionalismo americano, che è
sempre stato nazionale – legato all’eccezionalismo e al manifest destiny degli Stati Uniti. Esso è ben
diverso quindi da quello dell’Unione Europea, fondato invece su paradigmi sovranazionali.
Determinante al riguardo è la legittimazione della politica di Washington. Essa dipende, in definitiva,
dal fatto che gli Stati Uniti forniscano agli altri paesi – ovvero a quella che è politicamente corretto
denominare “comunità internazionale”, anche se nessuno sa bene cosa sia - taluni beni pubblici, quali la
sicurezza12 e, per quanto riguarda il tema del presente studio, anche la garanzia dei rifornimenti di
energia a prezzi compatibili con la crescita dell’economia globalizzata. Con questo, gli US si
propongono – direttamente e per il tramite dell’Arabia Saudita - di garantire il soddisfacimento della
domanda globale di petrolio e di evitare una crisi economica mondiale, del tipo chiamato da Kissinger
“the big bang”, amplificato dalle interdipendenze e interconnessioni proprie della globalizzazione13 e dai
legami esistenti fra il petrolio e il dollaro, per i quali, come si è ricordato, il Gold Standard è stato
soppiantato dal 1971-73 dall’Oil Standard.
Tale politica è fondata sull’assunto che le risorse siano in grado di soddisfare la crescente
domanda di petrolio. Mi sembra opportuno fare qui una precisazione, anticipando quanto verrà detto a
S. Kretzman, Oil, Security, War – The Geopolitics of US Energy Planning, Third World Planning, January-February 2003.
C. Jean, The United States, Europe and Asia. Geopolitics and Grand Strategy in the Second Bush Administration - The Strategic Vision of
the United States, Centro Studi Americani, Rome, May 10 2005 (mimeo).
12 C. S. Gray, The Sheriff – America’s Defense of the New World Order, The University of Kentucky Press, Lexington, KY, 2004.
13 H. A. Kissinger, Does America Need a Foreign Policy? Toward a Diplomacy for the 21st Century, Simon&Schuster, New York,
2001.
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riguardo del dibattito sulla “fine del petrolio”. Vi è una differenza fondamentale fra riserve e risorse. Le
prime sono quelle accertate e utilizzabili con le tecnologie disponibili. Le risorse sono quelle esistenti
complessivamente, indipendentemente dalla loro possibilità almeno attuale di utilizzazione, sotto il
profilo economico e tecnologico. Le risorse sono evidentemente molto più consistenti delle riserve. Le
sabbie del Canada contengono più petrolio di quanto ne abbia l’intero Golfo. Lo stesso dicasi dei
bitumi dell’Orenoco. Esistono già le tecnologie per utilizzare tali “petroli non convenzionali e oli
pesanti”. Oggi sono però troppo costose per poter essere impiegate. Il progresso tecnologico del
settore è comunque molto dinamico. Generalmente è ignorato – così come lo sono le capacità di
adattamento dell’economia – dai “petro-catastrofisti”. Prima o poi tecnologie economiche saranno
disponibili. Il mercato sarà quindi rifornito nel futuro prevedibile (pur con tutte le cautela dovute al
fatto che il futuro non è prevedibile!).
La tecnologia ha un ruolo determinante. Negli ultimi decenni, si sono molto perfezionate le
tecnologie per migliorare l’utilizzazione dei campi petroliferi esistenti. La loro percentuale di
sfruttamento delle risorse di ciascuno è salita dal 22 per cento degli anni sessanta al 33-35 per cento
attuale. Potrà essere ulteriormente aumentata con effetti molto rilevanti sull’offerta. L’1 per cento di
aumento della capacità di utilizzazione dei pozzi in servizio, significa l’aumento di oltre un anno della
possibilità dell’offerta di soddisfare la domanda ai livelli attuali.
Inoltre, sono migliorate le tecniche di raffinazione. La domanda, specie negli USA, riguarda per
il 70 per cento prodotti leggeri, presenti solo per il 30 per cento nell’offerta. Le tecnologie di
“crackeraggio” dei prodotti pesanti stanno conoscendo un notevole progresso. Anche i costi dei
trasporti potranno diminuire con una nuova rete di oleodotti, di mega-terminali petroliferi e di gasdotti.
Il progresso riguarderà soprattutto il gas naturale; basti pensare che oggi Gazprom consuma per il
pompaggio nei gasdotti un terzo - un quarto del gas che esporta in Europa.
Nel 2004 la crisi che si è tradotta in un aumento di prezzi è stata dovuta a maggiori consumi per
oltre 2,7 mbg14, di cui 0,8 per la Cina; 0,5 per gli USA; 0,5 per il resto dell’Asia, di cui 0,15 per l’India;
0,3 nel resto dei paesi OCSE e 0,35 negli stessi paesi produttori. Ciò ha portato agli 11 paesi del cartello
OPEC un introito di 290 mld di dollari, rispetto ai 108 del 2002. Vi è poi da notare che sui prezzi al
consumo dei prodotti petroliferi grava nei paesi dell’OCSE una tassazione particolarmente pesante,
soprattutto in Europa e in Giappone. Essa ha portato nel 2003 alle finanze pubbliche quasi 300 mld di
dollari e rappresenta un elemento essenziale degli equilibri dei bilanci pubblici dell’Occidente. Una
politica di risparmio di emissioni di CO 2 e di risanamento del bilancio potrebbe comportare tasse
maggiori anche negli USA. Forse li indurrebbe a diminuire i consumi. Inoltre, potrebbe rappresentare
un elemento importante per diminuire il disavanzo federale.
A livello mondiale, la maggiore rendita petrolifera ha consentito alla Federazione Russa di
svincolarsi dai condizionamenti del debito estero e le ha reso possibile una politica più “assertiva”. Il
Cremlino, riprendendo con metodi alquanto spregiudicati il controllo della Yukos, ha dimostrato la sua
chiara volontà di utilizzare le esportazioni di petrolio e di gas, come strumento (o arma) di politica
estera. La “guerra degli oleodotti e dei gasdotti” ne è già stata una dimostrazione.
Nel contempo, i prezzi del petrolio sono notevolmente aumentati, con effetti di rallentamento
dell’economia mondiale (minore però di quanto ci si sarebbe aspettato), ma anche di stimolo al
risparmio energetico e alla ricerca di energie alternative. L’andamento dei prezzi del petrolio è riportato
in Allegato 5.
Un effetto collaterale dell’aumento del prezzo del barile è stata la riattivazione di numerosi
piccoli campi petroliferi, soprattutto negli US (per un totale di 0,5 mbg), la cui utilizzazione era stata
resa impraticabile sotto il profilo economico, per i bassi prezzi dell’“oro nero” sul mercato mondiale
rifornito dal Golfo. Un secondo è stato il dibattito sul ritorno anche in USA ed in Europa alla
produzione di energia elettronucleare. A parer mio, la ripresa in grande del nucleare sarà imposta dalle
necessità ecologiche, data la manifesta impossibilità di raggiungere in modo diverso gli obiettivi del
protocollo di Kyoto. Essa provocherà anche lo sviluppo dell’utilizzazione dell’idrogeno come vettore di
energia - specie per le fuel cells per l’autotrazione -, dell’etanolo prodotto da biomasse come additivo del
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O. Appert, The International Oil and Gas Scene-A Look at the Events of 2004 and the Outlook for the Future, Panorama IFP, 2005.
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petrolio, di motori ibridi, ecc. La ricerca della diversificazione si è estesa dai paesi produttori di petrolio
ai tipi di energia da utilizzare.
Le attuali preoccupazioni circa l’impossibilità che l’offerta riesca a soddisfare la domanda
mondiale derivano soprattutto dall’insufficienza degli investimenti effettuati nel settore petrolifero negli
ultimi venticinque anni. Essa ha riguardato tutti gli elementi della “catena logistica” del petrolio:
dall’estrazione alla raffinazione, al trasporto. Il motivo è stato duplice: da un lato lo scoppio della “bolla
petrolifera” degli anni ottanta (vds. citato Allegato 5), che ha provocato una rilevante caduta del prezzo
del petrolio, anche a causa del contenimento dei consumi con misure di maggiore efficienza energetica,
dopo gli shocks petroliferi del 1973 e 1979. Poi, come precedentemente ricordato, la progressiva
trasformazione delle economie industriali – molto “energivore” – a post-industriali, basate sulla
tecnologia delle informazioni e sui servizi, ha contenuto la crescita della domanda. Inoltre, il
progressivo assorbimento del “volano” di riserva che aveva raggiunto i 15 mbg (pari ad una volta e
mezzo la produzione annuale saudita) (vds. citato Allegato 3). Essa ha scoraggiato non solo nuove
esplorazioni, ma anche investimenti negli altri elementi della catena logistica petrolifera. Infine, la
nazionalizzazione delle compagnie petrolifere negli anni settanta ha contribuito a limitare gli
investimenti. Le compagnie private, più dinamiche, coprono oggi complessivamente il 20 per cento
della produzione e posseggono altrettante riserve, ma hanno effettuato ben l’80 per cento delle scoperte
di nuovi giacimenti negli ultimi venticinque anni. Le compagnie nazionalizzate, sia per inefficienza
burocratica sia per la voracità dei governi dei paesi produttori, hanno invece ridotto gli investimenti:
con l’80 per cento della produzione e riserve, hanno effettuato solo il 20 per cento delle scoperte dopo
il 1980.
Sull’aumento dei prezzi ha influito anche il cosiddetto quality gap. Esso colpisce soprattutto gli
Stati Uniti, dove quasi tutte le autovetture impiegano benzina anziché gasolio - come invece avviene in
Europa - e dove non si costruisce una raffineria dalla fine degli anni settanta, soprattutto per
l’opposizione dei movimenti ambientalisti. Invece, i prodotti pesanti sono più largamente disponibili a
prezzi inferiori, ma la loro utilizzazione non è completa e soprattutto non è stata incentivata dal basso
prezzo del petrolio.
Sono in corso o si annunciano in tutti i settori energetici importanti progressi tecnologici. Negli
Stati Uniti, in particolare, sono state costituite grandi compagnie di servizi, come la Halliburton e la
Bechtel, che hanno messo a punto tecnologie estremamente avanzate, soprattutto in campo estrattivo e
in quello della raffinazione. Il petrolio off-shore potrà essere estratto da profondità superiori ai 5000
metri. Le compagnie nazionalizzate dai paesi OPEC e di quelli non-OPEC come la Russia dovranno
farvi ampio ricorso. Attraverso il progresso scientifico e tecnologico e i servizi è probabile che
l’Occidente ripristini nei paesi produttori parte dell’influenza che aveva perso con le nazionalizzazioni
degli anni settanta. Non è escluso che l’era del petrolio globale e a basso prezzo debba essere proprio
finita. Pur con alti e bassi successivi, essa sembra essere destinata a continuare ancora per decenni. Si
eviteranno gravi crisi. Esse possono derivare solo dall’instabilità geopolitica del Golfo, in particolare
dalla chiusura dello Stretto di Hormuz (e subordinatamente di quelli di Suez o della Malacca) o da un
attacco terroristico con armi di distruzione di massa ad effetti persistenti contro i grandi campi
petroliferi sauditi e l’improvvisa diminuzione dei rifornimenti del mercato per diversi mbg.
3. LA GEOPOLITICA DEL PETROLIO . INDIPENDENZA E SICUREZZA ENERGETICA
L’importanza geopolitica del petrolio è comparabile solo a quella dell’acqua. Gli effetti
dell’“idrogeopolitica” sono regionali. Quelli del petrolio sono invece globali per quanto riguarda sia
l’offerta che la domanda.
L’importanza geopolitica del petrolio deriva da diversi motivi. Primo: produzione e riserve sono
concentrate per due terzi nell’area del Golfo, molto instabile e conflittuale. Secondo: i paesi
consumatori sono diversi da quelli produttori. Terzo: il mercato è unificato ed è dominato da un lato,
dall’OPEC, dall’altro, dagli Stati Uniti.15 Quarto: il petrolio costituisce potenzialmente un potente
15
P. Noël, Les Etats-Unis et la sécurité pétrolière mondiale, Ramses 2005, pp. 141-56, IFRI, Paris 2004.
7
strumento di pressione, di sanzioni e di embargo per condizionare la politica degli altri stati, anche per
ridurne lo sviluppo economico e quindi l’entità delle risorse che possono destinare alle spese militari.
Basti ricordare al riguardo che uno, se non il principale, motivo dell’attacco giapponese a Pearl
Harbour è stato l’embargo petrolifero che gli Stati Uniti avevano imposto al Giappone per la sua
politica aggressiva in Cina.
Esiste quindi una competizione per garantirsi il controllo delle riserve necessarie per futuri
approvvigionamenti. Essa riguarda non solo il Medio Oriente. Si è estesa al Caspio, all’Asia Centrale e
più recentemente anche all’Africa Occidentale, alla Libia, al Ciad, al Sudan e all’America Latina. Taluni
grandi importatori – come la Cina – tendono a garantirsi diritti di proprietà sui campi petroliferi, specie
con l’acquisto di concessioni. Per la prima volta nella sua storia, la Cina ha inviato un consistente
contingente di truppe al di fuori del suo territorio per proteggere i campi petroliferi del Sudan, che in
misura crescente concorrono a soddisfare i suoi consumi. L’India, talvolta parallelamente alla Cina,
cerca anch’essa di garantire il soddisfacimento dei suoi futuri fabbisogni. Come si è ricordato, la Russia
di Putin, per essere una superpotenza non solo regionale, ma globale, cerca di utilizzare le sue enormi
capacità produttive di petrolio e di gas naturale, non solo nei riguardi dell’Europa, ma anche del
Giappone e della Cina.
La geopolitica del petrolio non riguarda solo le capacità estrattive, ma anche quelle di trasporto.
L’oleodotto transcaucasico attraverso la Georgia, la volontà di Mosca di mantenere il controllo delle vie
di transito del petrolio e del gas naturale del Caspio e dell’Asia Centrale, lo sbocco verso il Giappone
dell’enorme oleodotto transiberiano, che la Cina avrebbe voluto terminasse nel suo territorio,
dimostrano la vivacità e il dinamismo della politica degli oleodotti. Il progetto di gasdotto dall’Iran
all’India tramite il Pakistan avrà un impatto importante sulla geopolitica della regione e sulle relazioni
fra New Delhi e Islamabad.
Gli Stati Uniti svolgono un ruolo determinante. Esso non consiste solo nel garantire la sicurezza
energetica americana, ma anche nell’assicurare un equilibrio nel mercato mondiale. Per la loro leadership
il petrolio rappresenta un “bene pubblico mondiale”, indispensabile per mantenere una crescita
dinamica dell’economia. La garanzia dei rifornimenti contro embarghi o ricatti di cessare le forniture, a
cui talvolta indulgono taluni paesi produttori, legittima la supremazia americana, oltre che ad essere
indispensabile per il livello di benessere degli Stati Uniti16.
La politica americana in campo petrolifero, come risulta dal rapporto Cheney del 200117,
concepisce il mercato mondiale come un “unico bacino”18, alimentato da grandi compagnie private e
nazionalizzate in concorrenza fra di loro, non da un intervento statale centralizzato. Insomma, la
politica americana del petrolio continua a seguire una logica economica, non una geopolitica nel senso
tradizionale del termine. Il petrolio – come il dollaro - non viene considerato uno strumento per
esercitare pressioni su altri stati. Almeno tendenzialmente non viene utilizzato come tale. Beninteso,
non è detto che tale logica debba rimanere immutata in un mondo complesso ed imprevedibile quale è
quello dell’inizio del XXI secolo.
Ricorrenti negli Stati Uniti sono gli appelli alla ricerca di un’indipendenza energetica. Un
tentativo in proposito fu quello fatto con esiti disastrosi da Ronald Reagan. Da allora gli USA hanno
piuttosto teso alla sicurezza dei rifornimenti energetici, attraverso la differenziazione dei paesi di
provenienza del petrolio19 e, più recentemente, anche attraverso la diversificazione dei tipi di carburanti
impiegati. In particolare, gli USA hanno cercato di ridurre la dipendenza dell’economia mondiale del
A. Larson, Geopolitics of Oil and Natural Gas, Economic Perspectives, May 2004.
Report on National Energy Policy (Report Cheney), Reliable, Affordable and Environmentally Sound Energy for
America’s Future, cit..
18 P. Noël, www.cfe-ifri-org.
19 Gli USA hanno una forte diversificazione delle loro importazioni e dipendono dal Golfo meno dell’Asia Orientale e
dell’Europa. Nelle importazioni americane Messico e Canada hanno quote simili a quelle dell’Arabia Saudita (1,5 mbg),
seguiti da Venezuela (950.000 mbg), Nigeria (700.000 mbg), Regno Unito (570.000 mbg), e Norvegia (500.000 mbg). Con gli
accordi di Houston fra petrolieri americani e russi, gli US hanno cercato di sviluppare la produzione russa di petrolio,
costruendo tra l’altro un megaterminale petrolifero a Murmansk. Molto dinamica è la presenza delle loro compagnie
petrolifere in Africa Occidentale, soprattutto in Angola e Nigeria, mentre è segnalato un aumento del loro interesse per il
petrolio del Ciad, del Sudan, nonché per quello libico.
16
17
8
Golfo. Dato l’aumento dei consumi, l’obiettivo si è rivelato irraggiungibile. Allora hanno quindi deciso
che l’unica soluzione possibile fosse quella di stabilizzare il Golfo. A tale fine hanno “lanciato”, dopo
l’occupazione dell’Iraq, un grande programma: quello del Broader Middle East. Esso si prefigge di
stabilizzare il Grande Medio Oriente da Kabul e Islamabad a Gibilterra.
Misure complementari furono proposte dal rapporto Cheney del 2001, prima ricordato. Esso
individua nella Russia e nell’Africa Occidentale le due regioni di cui sviluppare al massimo le
potenzialità produttive. La crisi della Yukos ha raffreddato molto gli entusiasmi sulla possibilità che la
Russia svolga un ruolo sostitutivo a quello dell’Arabia Saudita. A parte ogni altra considerazione, le sue
riserve sono inferiori a quelle del Golfo. Dopo la crisi della Yukos, molti investimenti delle grandi
compagnie americane, previsti per la Siberia sono stati dirottati sull’Africa Occidentale. E’ stato valutato
che l’Africa possa soddisfare entro vent’anni il 25 per cento circa delle importazioni statunitensi di
petrolio. Inoltre, l’aumento del prezzo del petrolio ha riattivato l’interesse per lo sfruttamento dei
piccoli giacimenti petroliferi esistenti sul territorio statunitense e fatto lanciare un mega-progetto per
l’utilizzazione dei campi petroliferi esistenti in Alaska.
Comprendere il funzionamento del mercato petrolifero è essenziale, anche per evitare di dire le
“sciocchezze” del tipo che l’occupazione dell’Iraq sia stata effettuata dagli Stati Uniti allo scopo
principale – se non esclusivo - di prendere il controllo delle sue risorse petrolifere, che sono, dopo
quelle saudite, le seconde del mondo. Parimenti, un attacco all’Iran non sarà motivato dalla volontà
statunitense di impossessarsi delle risorse petrolifere e di gas naturale di tale paese. Beninteso, le
motivazioni petrolifere contano in qualsiasi decisione politico-strategica20.
Anche la definizione del prezzo del petrolio avviene con criteri economici, cioè per azione delle
forze agenti sul mercato. Non ha quindi motivazioni o significati geopolitici, almeno nel senso
tradizionale del termine.
La geopolitica americana dopo la Guerra Fredda – anche se con modalità e toni
nell’Amministrazione Clinton diversi da quella Bush – è incentrata sulla logica del capitalismo liberale di
Adam Smith. E’ diversa dalla geopolitica dello “Stato potenza” propria della politica europea di fine
XIX secolo. Basti pensare che nella National Security Strategy del settembre 2002, nonché nel discorso di
Inaugurazione e in quello sullo Stato dell’Unione del gennaio 2005, il Presidente Bush ha ripreso talune
frasi usate da Francis Fukuyama nel suo volume “La fine della storia” (beninteso nel senso hegeliano
del termine), anche se, “prudentemente”, non ha affermato che la storia sia finita, ma che è
ricominciata, e che gli Stati Uniti avrebbero impiegato quando necessario la forza per completare la
globalizzazione, esportando democrazia e libertà, proprio per “far finire la storia” nel senso attribuito a
tale espressione da Fukuyama.
Tale impostazione non è nuova. Obbedisce sostanzialmente alla logica che aveva indotto il
Presidente Truman – in parallelo con il Piano Marshall – ad approvare la NSC Resolution 138/1 del
1948. Secondo essa gli USA assumevano il ruolo di “fornitori di ultimo ricorso” di petrolio per la
ricostruzione economica dell’Europa. Vi è anche da ricordare l’orientamento di far ricorso alle riserve
strategiche degli Stati Uniti per fronteggiare una contingente carenza degli approvvigionamenti di
petrolio, soprattutto se essa derivasse da iniziative politico-militari di Washington. Per un periodo
limitato di tempo gli USA potrebbero attingere alle loro riserve per rifornire anche gli alleati –
beninteso, in caso di una interruzione dei rifornimenti di breve durata. Della “dottrina Carter” si è già
parlato. Esiste cioè una continuità nella geopolitica statunitense del petrolio, dimostrata anche dalle
minacce di Kissinger di intervenire nel Golfo durante la crisi del 1973-74. Terrorismo e petrolio hanno
trasferito il baricentro della politica di sicurezza americana dall’Europa al Gran Medio Oriente.
Altri paesi sembrano adottare logiche diverse, volte semplicemente a garantirsi gli
approvvigionamenti necessari. Lo fa in particolar modo la Cina e, con modalità diverse, anche l’India.
La Cina è particolarmente attiva sia in Africa21 sia nel Golfo del Bengala, oltre che in Iran e nella
Federazione Russa. Ha concesso al Cremlino un grosso credito per consentirgli di acquisire la Yukos.
La sua politica petrolifera non è solo effettuata in concorrenza, ma spesso anche in cooperazione con
M. Klare, Oil, Geopolitics and the Coming War with Iran, cit.
China’s Scramble for Africa-Growing Strategic Engagement, International Institute for Strategic Studies, Strategic Comments, vol.
II, n. 12, March 2005.
20
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9
quella dell’India22, forse anche per rendere più difficili e complesse le reazioni degli Stati Uniti, contro la
politica di entrambe troppo amichevoli nei riguardi dell’Iran.
4. IL “MITO”
DELLA FINE DEL PETROLIO E LA REALTÀ DI UN FORTE DIVARIO FRA
OFFERTA E DOMANDA
Secondo il responsabile della pianificazione strategica dell’ENI23 quello dell’esaurimento delle
riserve petrolifere mondiali e della necessità di procedere quanto prima a trasformazioni profonde delle
società e delle economie sono semplici miti. Il petrolio potrebbe conoscere una nuova vita, con un
impulso molto forte degli investimenti, anche nel settore dei petroli “convenzionali”24. Insomma, i
“catastrofisti” della prossima fine del petrolio sottovaluterebbero l’impatto della tecnologia e i
meccanismi adattivi dell’economia.
La teoria della fine del petrolio è stata resa popolare dai fautori più radicali della teoria del
“picco di Hubbert”25. Secondo tale teoria, raggiunta un’estrazione complessiva pari a metà delle riserve
di un giacimento di qualsiasi minerale, la sua produzione è destinata a diminuire in tempi più o meno
brevi. Leonardo Maugeri afferma che tale teoria è tutta da dimostrare. Infatti, una cosa è riferirsi al
singolo giacimento; tutt’altra è estendere la teoria su scala mondiale. Gli esempi portati a sostegno
dell’estendibilità del “picco di Hubbert” - come la diminuzione delle produzioni nel Mare del Nord e
negli Stati Uniti – non sarebbero significative. Lo sviluppo tecnologico, soprattutto nel settore
dell’estrazione, aumenterà notevolmente l’efficienza dello sfruttamento delle riserve esistenti. Come si è
detto, esso ha già consentito dal 1960 ad oggi un aumento dal 22 al 35 per cento dell’efficienza dello
sfruttamento dei campi esistenti. Ogni punto di aumento significa un anno in più di autosufficienza
mondiale. Ha influito poi l’aumento del prezzo del petrolio, che ha reso economicamente possibile
aumentare la quantità delle risorse petrolifere globali da considerarsi riserve accertate, di possibile
utilizzazione.
In realtà, la previsione delle riserve esistenti e del periodo di autosufficienza mondiale nonostante la riduzione delle scoperte di nuovi giacimenti petroliferi dal 1980 in poi - non è diminuita.
Essa è oggi di 43 anni, rispetto ai 35 valutati nel 1972 e ai 20 del 1948, senza tener conto dei petroli non
convenzionali (sabbie del Canada, ad esempio).
L’età del petrolio insomma non finirà per la scarsità di petrolio – che comunque sarà molto
graduale - ma per la scoperta di qualche nuova fonte di energia più conveniente. Si tratterà
verosimilmente dell’energia nucleare e dell’idrogeno. A più breve termine, l’etanolo contribuirà a ridurre
la richiesta di petrolio. L’idrogeno26 è suscettibile di essere impiegato proprio nel settore in cui domina
oggi incontrastato li petrolio: quello dei trasporti. L’etanolo è miscelabile con il gasolio fino ad un
rapporto del 50 per cento27.
Negli altri settori – in particolare in quello della produzione di energia elettrica – il petrolio
occupa un ruolo crescentemente marginale (eccetto in Italia). Già oggi viene sempre più sostituito dal
gas, dal carbone e dal nucleare, nonché da energie alternative come quelle eolica, solare o prodotta da
biomasse. Le energie alternative sono molto propagandate, ma le loro potenzialità sono molto ridotte. Il
principale effetto in Italia è stato quello di spendere 92.000 miliardi delle vecchie lire (sic!) dal 1980 con
il bel risultato di produrre meno dell’1 per cento dell’energia elettrica nazionale28. E’ una somma pari a
M. Cochi, Il petrolio, ultimo sigillo dell’amore fra Cina e India, in L’Indipendente del 28 aprile 2005, p. 7.
L. Maugeri, Not in Oil’s Name in Foreign Affairs, July-August 2003, pp. 165-74. Per la parte storica, una trattazione più
completa è contenuta nel saggio del medesimo Autore in Petrolio, Sperling&Kupfer, Milano, 2003.
24 R. J. Samuelson, The Down of a New Oil Era?, in News Week del 4 aprile 2005, p. 13.
25 D. Goodstein, Il ritorno di Hubbert: come vivere senza combustibili fossili, op. cit .; e F. Bernabè, Il fattore tempo: risposta a Goodstein,
op. cit..
26 T. Coffey et alia, Hydrogen as a Fuel for DoD, Defense Horizons n. 36, National Defense University, Fort McNair,
Washington DC, November 2003.
27 R. E. Amstrong, From Petro to Agro:Seeds of a New Economy, NDU, Defense Horizons n. 20, October 2002.
28 A. R. Ricci, Il costo di una scelta sbagliata, in Aspenia n. 27, cit. pp. 227-34.
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quella sperperata con l’allucinante decisione di uscire dal nucleare (per poi approvvigionarsi dell’energia
elettronucleare prodotta nei paesi confinanti con l’Italia.
Beninteso, nessuno sostiene che, come tutte le risorse fossili, anche il petrolio non sia prima o
poi destinato ad esaurirsi. Si tratta però di un’eventualità da considerare solamente nel lunghissimo
periodo e in modo molto progressivo.
Più che l’esaurimento delle risorse naturali, la diminuzione del consumo di fonti energetiche
fossili, quindi anche del petrolio, sarà imposto da vincoli ecologici, in particolare dalla necessità di
limitare in qualche modo l’“effetto serra”, oltre che l’inquinamento delle città. Kyoto non rappresenta
una soluzione definitiva, dato che, nel medio periodo, un aumento massiccio delle emissioni proverrà
dai paesi del Terzo Mondo29 e perché la non adesione degli Stati Uniti e della Cina all’accordo ne
diminuisce ancora la già ridotta validità. Non vi partecipano neppure i paesi in via di sviluppo, in cui si
verificherà il più consistente aumento di consumi di energia.
L’aumento del prezzo del petrolio e la sua diminuita disponibilità – che potrebbe essere
contingente come è avvenuto dopo gli shocks petroliferi degli anni Settanta – potrebbero avere un
effetto complessivamente benefico. Aumenteranno infatti l’efficienza e il risparmio energetici.
Peseranno però grandemente sullo sviluppo dei paesi più poveri, mentre la competizione dei paesi più
avanzati – che potranno neutralizzare l’aumento del prezzo del petrolio con una crescita della
produttività - per accaparrarsi le risorse esistenti potrebbe trasferirsi dal campo geoeconomico a quello
geopolitico, soprattutto qualora gli Stati Uniti non esercitassero più le funzioni di “gendarme” del
mondo e di difensori della globalizzazione.
Per inciso, Maugeri “smonta” poi la tesi ricorrente della manipolazione politica del prezzo e
dell’entità del petrolio rifornito al mercato. Taluni sostengono che essa derivi dall’alleanza delle grandi
compagnie petrolifere con i governi produttori contro quelli consumatori. Non sembra che i rapporti
siano diversi da quelli esercitati dagli altri gruppi di interesse. In particolare, viene negata validità al
sospetto che il primo grande shock petrolifero – quello del 1973 – sia derivato da un accordo segreto fra
le grandi compagnie petrolifere americane e gli Stati che entrarono poi a far parte dell’OPEC. Per
coloro che sostengono tale tesi si sarebbe trattato di un vero e proprio complotto motivato dal comune
interesse dei petrolieri e degli stati del Golfo di aumentare il prezzo del petrolio. Con ciò le grandi
compagnie, oltre a rivalutare le loro riserve, avrebbero inteso opporsi al contingentamento imposto alle
importazioni di petrolio negli USA dall’Amministrazione Eisenhower. Dato il basso costo di
produzione nel Golfo, le piccole e medie compagnie petrolifere americane venivano protette da tali
contingentamenti, dannosi invece per gli interessi delle “sette sorelle”.
L’articolo di Maugeri sostiene una tesi che sta sempre più diffondendosi: la necessità di un
coordinamento o di un patto fra i consumatori e i produttori per regolare gli investimenti e quindi le
future disponibilità di petrolio sul mercato e i suoi prezzi. La domanda di petrolio è destinata ad
aumentare, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo. I loro popoli vorranno l’automobile. E’ illusorio
ipotizzare che gli stati in via di sviluppo possano contenere l’espansione del trasporto privato con lo
sviluppo di quello pubblico. E’ anche improbabile che vengano sviluppati per tempo motori ibridi o a
fuel cells, alimentate ad idrogeno, prima che la globalizzazione provochi lo sviluppo del benessere del
Terzo Mondo e quindi un massiccio aumento della motorizzazione privata. Aumentando il livello di
benessere, i popoli non si rassegneranno ad andare in bicicletta, come vorrebbero taluni degli ecologisti
più radicali. Valutazioni attendibili prevedono che la domanda di petroli crescerà di un terzo (da 84 a
125 mbg) dal 2004 al 2025. L’offerta sarà in grado di soddisfare, anche se con qualche difficoltà, tale
aumento della domanda. Secondo Marcello Colitti30, la produzione OPEC crescerà da 32,6 a 63,5 mbg e
quella dei paesi non-OPEC da 14,7 a 30,5 mbg. In particolare, la Russia aumenterà la sua produzione di
quasi il 15 per cento e la regione del Caspio del 650 per cento.
L’unico grave pericolo che grava sulle possibilità di soddisfacimento della domanda è
rappresentato da mega-attentati terroristici sugli impianti di estrazione e trasporto dell’Arabia Saudita,
nonché dalla distruzione di un numero rilevante di raffinerie. Queste ultime, nel loro complesso,
C. Clini, Perché Kyoto non basta, in Aspenia n. 27, pp. 235-42 e P. Scaroni, Kyoto e l’industria, pp. 343-52, in Aspenia 27, cit..
Staffetta Quotidiana del 14 maggio 2005, Seminario AIEE sulle attualità e prospettive del mercato energetico internazionale, Centro
di Studi Americani, Roma, 5 maggio 2005.
29
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lavorano oggi al limite delle loro capacità, con periodi di arresto per manutenzione già troppo limitati.
Le tecnologie moderne forniscono a piccoli gruppi o a terroristi singoli una capacità distruttiva che una
volta possedevano solo i governi. Un attacco sistematico, strategicamente organizzato, ai nodi
dell’infrastruttura petrolifera mondiale potrebbe quindi provocare una grave carenza quantitativa
dell’offerta di petrolio. Se essa dovesse superare come durata l’elasticità consentita dalle riserve
strategiche e dal “volano” produttivo mantenuto in riserva dai paesi produttori, si potrebbero
determinare conseguenze disastrose. Si produrrebbe non solo un aumento a picco dei prezzi (la
Goldman Sachs ha ipotizzato un aumento fino a 105 dollari al barile), ma anche una riduzione delle
disponibilità.31 Essa dovrebbe indurre i governi dell’Occidente a predisporre piani di emergenza32, con
un drastico taglio dei consumi, soprattutto nel settore dei trasporti, e con l’arresto delle industrie
“energivore”, come le acciaierie e le industrie di lavorazione dell’alluminio. Per attenuare lo shock
economico e sociale che ne risulterebbe, dovrebbero essere adottate misure preventive consistenti
soprattutto nella ricostituzione di un adeguato volano di capacità non utilizzate e delle riserve
strategiche dei paesi OCSE. Tale operazione dovrebbe essere realizzata con risparmi energetici. In caso
contrario, si finirebbe per “infiammare” il mercato del petrolio, che nel primo trimestre del 2005
presenta invece sintomi di stabilizzazione. Ciò è dovuto a vari fattori, in particolare alla diminuzione
considerevole, rispetto all’anno precedente, degli aumenti dei consumi cinesi, scesi nel primo trimestre
2005 rispetto all’analogo periodo del 2004, da quasi il 20 per cento a meno del 5 per cento33.
Invece, il pericolo del maxi-terrorismo transnazionale va considerato seriamente. Va comunque
ricordato che, nella sanguinosa guerra civile algerina, i campi petroliferi, gli oleodotti e i gasdotti non
sono mai stati attaccati. Lo scoppio di un’arma nucleare sul sito di Ras Tanura in Arabia Saudita
sottrarrebbe al mercato mondiale 5 mbg per quasi un anno. Se venisse fatta scoppiare su tale complesso
petrolifero, che è il più grande del mondo, una “bomba sporca”, cioè radiologica, la produzione si
interromperebbe per qualche mese. Il pericolo è quindi tanto serio, che anche con una bassa probabilità
di verificarsi, rappresenta un rischio troppo elevato per poter essere accettato.
La misura più efficace, data l’impossibilità di realizzare l’indipendenza energetica sia in USA che
in Europa, è quella di ricercare la sicurezza nella diversificazione sia delle regioni di origine degli
approvvigionamenti energetici sia dei tipi di carburante utilizzato. L’eccessiva indipendenza (70 per
cento) dell’Italia dagli idrocarboni (ancora oltre il 40 per cento dell’energia elettrica è prodotta con oli
combustibili!), rappresenta un’anomalia italiana rispetto alla situazione esistente in Europa, in cui il 70
per cento dell’energia elettrica è prodotta dal nucleare o dal carbone. Ciò contrasta non solo con criteri
di economicità, ma anche con la sicurezza degli approvvigionamenti. E’ una follia lasciare il futuro del
paese dipendente da una fonte tanto volatile come il petrolio. E’ una responsabilità che peserà
grandemente su coloro che si oppongono all’attuazione di una politica energetica nazionale adeguata ai
tempi.
5. EFFETTI DEL PREZZO DEL PETROLIO
Il prezzo del petrolio varia notevolmente dal caso di accordi a lungo termine – del tipo di quelli
recentemente conclusi dall’India e dalla Cina con l’Iran – a quelli a breve termine o ad acquisti sul
mercato “spot”. Differisce poi notevolmente a seconda del tipo di petrolio trattato. I prodotti leggeri
sono più richiesti dal mercato di quelli pesanti (70 per cento per i leggeri contro il 30 per cento per i
pesanti), che costituiscono la maggior parte di quelli offerti sul mercato. Beninteso, sono disponibili
tecnologie capaci di trasformare in leggeri gli oli pesanti. Tali tecnologie sono però molto costose. Non
è coperto l’attuale divario di prezzo fra i prodotti pesanti e quelli leggeri. Inoltre, le capacità di
raffinazione installate sono molto ridotte (negli Stati Uniti non si costruisce una raffineria dal 1976!). Il
fenomeno di frammentazione del potere decisionale fra i vari livelli di governo e gli effetti politici delle
R. Capezzoli, Il petrolio torna ai massimi - Goldman Sachs: possibili quotazioni fino a 105 $, in Il Sole 24 Ore del 1 aprile 2005.
J. Blas e K. Morrison, IAE Wants Emergency Oil Plan, in Financial Times, April 1, 2005, p. 1.
33 Rpar. Le scorte USA, l’OPEC e la Cina raffreddano i prezzi del petrolio, in Il Giornale, 15 maggio 2005, p. 20.
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nuove tecnologie dei media rendono difficile ogni decisione al riguardo (come quelle per il ritorno al
nucleare o, in Italia, anche per il trattamento dei rifiuti solidi urbani!).
Comunque, il quality gap fra la domanda e l’offerta del mercato è un fattore che influisce sia su
disponibilità che su prezzo dei prodotti petroliferi.34 Esso è influenzato dalle normative sulla tutela
dell’ambiente. Un loro coordinamento a livello internazionale potrebbe essere utile per ottimizzarle ed
accordarle con criteri generali anche di economicità.
Sia il WTI (West Texas Intermediate) trattato alla Borsa di New York che il Brent di quella di
Londra comprendono un mix di tipi di petroli pesanti e leggeri. I contratti a lungo termine,
generalmente concordati fra i governi dei paesi consumatori e quelli dei paesi produttori, assorbono una
percentuale notevole del mercato. Quello che resta viene trattato dai mercati finanziari (i fondi pensioni
stanno investendo massicciamente nei titoli delle compagnie petrolifere) ed è caratterizzato da
un’estrema volatilità, in un periodo, come l’attuale, in cui la geopolitica è particolarmente dinamica e,
quindi, la possibilità di speculazione e l’“economia della paura” hanno impatti molto elevati. Il vecchio
ordine mondiale è scomparso, mentre il nuovo deve ancora emergere, anche in campo petrolifero.
Il prezzo del petrolio è determinato dalle aspettative sull’andamento futuro del prezzo del
greggio. Non è determinato né dalle grandi compagnie, né dall’OPEC. E’ quindi manipolabile, forse più
del prezzo di qualsiasi altro prodotto, data l’importanza che assumono la geopolitica e l’“economia delle
aspettative”. Su di esso influisce fortemente il prezzo della paura, valutato a 10-15 dollari al barile.
Le variazioni del prezzo del petrolio hanno importanti ricadute sulla crescita e sull’inflazione.35
Come ha affermato Alan Greenspan le tre grandi crisi finanziarie del dopoguerra sono state innescate
da un aumento dei prezzi petroliferi, a cui si sono collegati quelli degli altri carburanti fossili, in
particolare quello del gas.
Il peso dell’energia sull’economia è diminuito dal 10-12 per cento al 5-7 per cento. Questo ha
fatto sì che, con grande sorpresa di tutti gli esperti, i recenti forti aumenti del prezzo del barile abbiano
avuto sull’economia mondiale effetti molto inferiori a quelli che ci si sarebbe dovuto attendere.
Era stato infatti valutato36 che 15 dollari di aumento del prezzo del barile provochino nell’UE
una diminuzione dello 0,20 per cento del PIL e un aumento dello 0,35 per cento dell’inflazione. Negli
USA l’impatto è maggiore, soprattutto per il fatto che il regime di tassazione del petrolio è nettamente
inferiore a quello europeo. In Europa, l’impatto dei prezzi all’origine è inferiore, dato che i prezzi dei
prodotti petroliferi al consumo sono maggiori. La tassazione agisce come un ammortizzatore sia degli
aumenti che delle diminuzioni del prezzo del petrolio.
Si valuta che sempre ogni aumento di 15 dollari al barile comporti negli USA una diminuzione
della crescita dello 0,40 per cento e un aumento dell’inflazione dello 0,50 per cento. Di fatto, nel
triennio 2002-2004, tali effetti non si sono verificati nella misura prevista. Nonostante l’impatto
teoricamente maggiore sugli Stati Uniti dell’aumento del prezzo del petrolio e il deprezzamento del
dollaro rispetto all’euro, con assorbimento automatico in Europa di parte degli aumenti di prezzo, il
PIL americano ha conosciuto un incremento quasi doppio di quello europeo, mentre l’inflazione è stata
molto bassa in entrambe le macro aree economiche. Le correlazioni fra prezzo del petrolio, PIL e
inflazione sono molto più complesse oggi di quanto fosse negli anni settanta. Gli effetti sulle economie
in via di sviluppo – anche qui ad un’analisi teorica - sarebbero superiori che nel mondo industrializzato.
Un aumento di 15 dollari al barile provocherebbe una diminuzione della crescita in Asia dello 0,8 per
cento, in America Latina dell’1,6 per cento e nell’Africa sub-sahariana del 3 per cento. Sono dati che
andrebbero verificati e che sembrano non corrispondenti alla realtà.
Come si è accennato, Eurolandia, ma in generale tutte le economie, sono state parzialmente
protette dall’aumento del prezzo internazionale del barile che è in dollari, dal deprezzamento della
moneta americana e dall’effetto anti-inflazionistico della globalizzazione. Comunque, come già si era
verificato in passato, la domanda è stata particolarmente rigida rispetto alle variazioni del prezzo. Non è
cioè diminuita con il suo aumento. Qualora il prezzo del petrolio dovesse raggiungere i 105 dollari al
B. Bahree and T. Herrick, Oil-Refining Squeeze to Keep Fuel Costs High.
F. Bergsten, The Risks Ahead for the World Economy , in The Economist, September 11, 2004, pp. 69-71.
36 L. Paganetto, Comunicazione alla Conferenza CEIS-Q8, Megatrends – Economia, Regole, Energia, Roma, 16 marzo 2005.
34
35
13
barile, recentemente ipotizzato da Goldman Sachs37, si determinerebbe verosimilmente una recessione
mondiale. Particolarmente colpiti sarebbero i paesi in via di sviluppo non produttori di petrolio. Una
loro recessione economica avrebbe effetti geopolitici molto destabilizzanti, con l’aumento della
conflittualità sia interna che fra gli stati. L’Occidente - Stati Uniti inclusi - non vedrebbe però diminuite
le capacità di proiezione di potenza a fini di stabilizzazione e di sviluppo. Sarebbe però obbligato ad
impiegare la forza più frequentemente.
Una diminuzione molto rapida dell’offerta avrebbe un impatto disastroso, in quanto non
permetterebbe di adeguare né le strutture economiche mondiali, né di ricorrere ad altre fonti di energia.
Non è però prevedibile che oggi si produca uno shock petrolifero analogo a quelli verificatisi negli anni
settanta, anche se, per la prima volta nella storia, il mercato non è trainato dalla domanda, ma limitato
dalle carenze quantitative e qualitative (il citato quality gap) della catena logistica del petrolio. Tali carenze
non derivano da motivi geologici, cioè da carenze nelle risorse di petrolio. Derivano invece
dall’insufficienza degli investimenti non solo nell’estrazione, ma anche nelle capacità di trasporto e di
raffinazione. Derivano infine dalla geopolitica e dall’ecologia.
Le compagnie private colpite duramente dallo scoppio della “bolla petrolifera” verificatasi
all’inizio degli anni ottanta, hanno grandemente ridotto i loro investimenti negli ultimi 25 anni.
Le compagnie nazionali dei paesi produttori (l’80 per cento della produzione totale) sono dal
canto sottocapitalizzate, perché i loro introiti sono assorbiti dai governi sempre più voraci, anche per
l’enorme aumento demografico che si è verificato nelle loro popolazioni e per la crescente instabilità
politico-sociale, provocata non solo dall’esistenza di un Islam radicale, ma in primo luogo
dall’autoritarismo, corruzione e inefficienza delle classi dirigenti. Si parla al riguardo di “maledizione del
petrolio”, nel senso che i paesi produttori hanno élites estremamente ricche e popoli al limite della
povertà. Nessuno è riuscito a diversificare la sua economia. Per evitare rivolte, i governi sono allora
portati a finanziare le organizzazioni religiose, nelle quali predominano gli elementi radicali. Di
conseguenza, si determina spesso un ciclo perverso nel quale, per evitare proteste a breve termine, si
destrutturano le società.
Questi fenomeni si manifestano con più virulenza proprio nell’area più sensibile per i
rifornimenti mondiali di petrolio: quella del Golfo.
I tentativi di svincolare l’economia mondiale dalla sua instabilità si sono rivelati illusori. Né la
Russia, né il Caspio, né l’Africa Occidentale potranno sostituire il Golfo. Anzi. L’importanza di
quest’ultimo è destinata ad aumentare nei prossimi venticinque anni. La competizione geopolitica in
corso (quella che Zbigniew Brezinski chiama il “nuovo grande gioco” - dal Caspio all’Asia Centrale e
alla Siberia, ma che di fatto è in Medio Oriente) può sia peggiorare i rapporti fra l’Asia, in particolare la
Cina, e gli Stati Uniti, sia costituire la base di una più intensa collaborazione per rifornire il mercato. In
questo secondo caso, esso andrebbe considerato un “bene pubblico mondiale”, dove il petrolio si
compra, ma non si conquista.
Uno shock petrolifero potrebbe verificarsi solo in caso di maxi-attentato o di collasso della
stabilità in Medio Oriente. Dipenderebbe da motivi politici, non geologici. Sulla sua possibilità
influiscono il fatto che i jiahadisti considerano il petrolio un’arma di guerra, la diminuzione del volano
di riserva, che in passato permetteva all’Arabia Saudita di fronteggiare improvvise diminuzioni
dell’offerta, la riduzione delle riserve strategiche nei paesi OCSE, e la vulnerabilità della catena logistica
del petrolio.
Il maxi-attentato a Ras Tanura - di cui si è prima parlato – potrebbe provocare una recessione
mondiale.
Anche nel medio-lungo periodo e in assenza di eventi traumatici è prevedibile che l’offerta sarà
in grado di soddisfare la domanda. Ciò avviene anche perché l’aumento del prezzo del petrolio
rappresenta uno stimolo per l’utilizzazione di altre fonti di energia e per l’esplorazione di nuovi
giacimenti petroliferi o per l’impiego di nuove tecnologie per un migliore sfruttamento di quelli già
utilizzati o per fonti sussidiarie di energia. Si conferma così quanto si è già affermato: mentre la risorsa
R. Capezzuoli, Il petrolio torna ai massimi – Golden Sachs: possibili quotazioni fino a 105 $, cit. v. anche J. Blas e K. Morrison,
IAE Wants Emergency Oil Plan, cit..
37
14
ha natura geologica; la riserva è invece condizionata da fattori economici, in particolare dalla possibilità
di sfruttamento ad un determinato livello di prezzo. Lo specchio che segue riporta la sostitutività
relativa delle varie fonti di energia38.
Petrolio
Gas Naturale
Elettricità
Prezzo
25-30 $ barile
35-40 $ barile
> 40 $ barile
2,5-3 $ m³
3,5-4$ m³
> 4 $ m³
50 $ al MWh
33$ al MWh
41$ al MWh
420$ al MWh
Tipo tecnologia che diviene economicamente utilizzabile
Petrolio estratto da pozzi off-shore di 500 m
Carbone liquefatto e alcool
Estrazione da sabbie e bitumi (Venezuela e Canada)
Gas liquefatto
Nuove produzioni su coste caraibiche
Produzioni in Canada Occidentale
Costo medio delle nuove centrali a ciclo combinato in US
Nuove centrali nucleari
Energia eolica (con i progressi tecnologici stimati per 2010)
Energia solare (fotovoltaico)
Le prospettive non sono quindi disastrose, anche se le compagnie non hanno ancora ripreso gli
investimenti perché temono una nuova “bolla” petrolifera.
Sembra che gli Stati Uniti da una concezione essenzialmente commerciale del mercato del
petrolio ne stiano gradualmente adottando dopo l’11 settembre una più geopolitica. Tale trasformazione
è una delle conseguenze della proliferazione in corso in molti stati, soprattutto in Iran. Uno stato
nucleare è uno stato in cui il governo non può essere ridotto alla disperazione. L’impiego della forza
militare da parte degli Stati Uniti potrà subire in futuro notevoli limitazioni e il mantenimento della
stabilità del Golfo essere più problematica.
Sarà interessante valutare se il rischieramento delle forze americane nel mondo, allo studio da
parte del Pentagono, verrà attuato tenendo conto di tali nuove priorità strategiche, che sono in realtà byproduct della guerra al terrorismo 39. Non è escluso che lo sia, dato che tutte le fasi di transizione sono
caratterizzate da fenomeni di instabilità e, potenzialmente, anche di conflittualità. Nel campo delle
risorse naturali essi si traducono in un “nazionalismo delle risorse”, in cui la politica di potenza tende ad
avere la meglio sull’economia. Quello che è sicuro è che la globalizzazione comporta un interesse
congiunto degli stati a considerare l’energia – e il petrolio in particolare – un bene pubblico mondiale.
Lo stesso dovrebbe avvenire nell’Unione Europea40. Tale fenomeno è accentuato dalla crisi attuale, che
riguarda sia prezzo che disponibilità di petrolio. Beninteso, essa è interdipendente con molti altri fattori.
Vale la pena di ricordarne taluni: l’aumento della globalizzazione; il deprezzamento del dollaro; la
crescita della Cina; la minore dipendenza del PIL e dell’inflazione dal prezzo del petrolio; le prospettive
di nuovi tipi di energia (non tanto l’eolico e il solare, che costituiscono soprattutto “mulini a vento” e
“specchietti per le allodole”, quanto l’etanolo, il petrolio “non convenzionale”, i motori “ibridi”,
l’idrogeno41; il ritorno al nucleare che rappresenta l’unico modo per rispettare gli obiettivi di Kyoto, e
così via); la comparsa di nuovi grandi produttori; ecc. ecc. Solo in tale contesto globale sarà possibile
dare una risposta ragionevole a quesiti come la politica da seguire nei riguardi dell’OPEC, della Russia,
dell’Iran; gli sforzi da dedicare allo sviluppo di nuove fonti di energia; la geopolitica degli oleodotti; ecc.
Sarà possibile anche fare previsioni più attendibili sull’impatto delle variazioni del prezzo del petrolio
sull’economia mondiale.
J. Carey, Energizing Energy – The US Urgently Need to Tap New Sources and Conserve Old Ones in Business Week, 28 marzo 2005,
pp. 48-51, che riporta i dati forniti dal “Centre for Energy and Climate Solutions”, Cambridge, Energy Research Associates.
39 S. Peterson, Terror War and Oil Expand US Sphere of Influence, in The Christian Science Monitor, 19 March 2002.
40 R. Brunetta, Italia e Costituzione economica europea, in CSGE-Aspen Institute Italia, a cura di M. Dassù e C. Jean, L’Italia nel
sistema globale - Interessi nazionali e priorità europee, vol. 1, Roma, 2003.
41 L’idrogeno non è un carburante ma un mezzo di trasporto dell’energia. Non è quindi un’alternativa alle altre fonti di
energia, in quanto con esse deve essere prodotto, da G. Luciani Geopolitics of Energy. The Asian Shift, Backgroung Paper
distribuito alla 2ª Conferenza Aspen sull’Energia, Firenze, 8-9 luglio 2003.
38
15
6. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
La strategia che verrà seguita per il petrolio influirà sugli equilibri geopolitici mondiali.
Attualmente – a differenza di quanto è avvenuto nel passato, per quanto riguarda il mercato del petrolio
- le scelte politiche prevalgono su quelle economiche. Oltre che l’entità del petrolio disponibile e il suo
prezzo, giocano al riguardo i problemi della sicurezza degli approvvigionamenti di un mercato mondiale
sostanzialmente unitario. La centralità di tale mercato nell’economia mondiale fa sì che esso possa
costituire fattore sia di cooperazione che di conflitto. Il primo caso si verificherà qualora la
globalizzazione riesca a consolidarsi; il secondo qualora se ne verifichi il collasso, con le reazioni dei
“vinti” e dei “perdenti” della globalizzazione che riescono a travolgere quelle che sono le sue difese,
centrate soprattutto sul ruolo di “sceriffo” che gli Stati Uniti esercitano nel mondo42. Allora al
protezionismo economico si affiancherà un “nazionalismo energetico” che amplificherà grandemente il
primo.
Nell’avvenire prevedibile non si verificherà la “fine del petrolio” per esaurimento delle risorse,
come è stato ipotizzato dai “petro-catastrofisti”. Potranno però verificarsi disastrose diminuzioni dei
flussi di alimentazione del mercato mondiale, sia per la grande instabilità della regione del Golfo43, che
possiede 2/3 delle riserve mondiali di “oro nero”. Potrà anche rendersi necessaria la limitazione delle
emissioni di CO 2, qualora si accerti che l’“effetto serra” produca risultati veramente disastrosi per
l’ecologia planetaria, in tempi politicamente rilevanti.
A breve termine, il problema non può essere affrontato che con un ritorno massiccio all’energia
nucleare anche in Occidente, delle stesse dimensioni di quello che è previsto in Cina, India e Giappone.
A più lungo termine, saranno disponibili altre fonti di energia meno inquinanti, il cui sviluppo e
soprattutto la cui produzione economicamente serializzata richiederà tempi e costi, che non andrebbero
sottovalutati, come fanno gli ecologisti più radicali. D’altro canto, non ha alcun senso sperare che i
governi possano convincere i loro cittadini a spegnere i condizionatori o a lasciare la macchina in garage
e andare in bicicletta.
Il petrolio, quindi, rimarrà ancora centrale per i prossimi decenni, soprattutto per il trasporto e
per molte utilizzazioni industriali. E’ inevitabile che continuerà a giocare un ruolo essenziale sia nella
cooperazione che nella competizione geopolitica e geoeconomia mondiale.
Carlo Jean
Docente di Studi Strategici presso la LUISS-Guido Carli
Presidente del Centro Studi di Geopolitica Economica – CSGE
42
43
C. S. Gray, The Sheriff – America’s Defense of the New World Order, cit..
R. R. Cooke, Oil, Jihad and Destiny: Will Declining Oil Production Plunge Our Planet into a Depth?, Energy Bulletin, 2 May 2005.
16
ALLEGATO 1
DOMANDA PRIMARIA MONDIALE DI ENERGIA
6000
Oil
5000
Natural gas
4000
3000
Coal
2000
Other renewables
and Nuclear
1000
Hydro power
0
1970
1980
1990
2000
2010
2020
2030
I combustibili fossili contribuiscono per circa il 90% all’aumento della domanda energetica nel
periodo fino al 2030
Fatin Birol dell’International Energy Agency – World Energy Outlook (dati forniti nel corso del
Convegno CEIS (Tor Vergata)-Q8, Megatrends: Europa, politica energetica e sviluppo), Roma, 16 marzo 2005.
ALLEGATO 2
Increase in Primary Oil Demand,
2002-2030
22
17
mb/d
12
7
2
-3
OECD
Power generation
Non-OECD
Industry
Transport
Other
Most of the increase in oil demand comes from the transport
sector – especially in OECD countries
17
ALLEGATO 3
L’ EROSIONE DELLA CAPACITÀ PRODUTTIVA DELL’O PEC DAL 1979 *
La capacità di produzione e di riserva dell’opec, 1979-2009 (in mbg)
PAESI MEMBRI
1979
1983
1990
1997
1998
2000
2001
2003
Saudi Arabia
10,84
11,30
8,00
9,65
9,80
9,90
9,90
10,15
Iran
7,00
3,00
3,10
3,70
3,70
3,75
3,80
3,80
Iraq
4,00
1,50
3,60
2,30
2,80
2,90
3,05
2,20
Kuwait
3,34
2,80
2,40
2,40
2,40
2,40
2,40
2,50
UAE
2,50
2,90
2,20
2,40
2,40
2,40
2,45
2,50
Qatar
0,65
0,65
0,40
0,71
0,72
0,73
0,75
0,75
2,60
3,45
3,30
2,98
3,10
2,75
2,40
1,80
2,00
2,05
2,10
2,30
1,25
1,40
1,35
1,35
1,30
1,15
Venezuela 2,40
Nigeria
Indonesia
2,50
2,50
1,80
1,60
2,30
Libya
2,50
2,00
1,50
1,45
1,45
1,45
1,45
1,45
Algeria
1,23
1,10
0,75
0,88
0,88
0,88
0,88
1,15
Total
38,76
31,75
27,60
30,34
30,85
30,84
31,38
30,70
Call on Opec
34,01
16,65
22,20
27,59
25,85
30,04
28,23
29,20
Capacità di
Riserva
4,75
15,10
NEL 1990 OPEC IN GRADO DI
SOSTITUIRE
TUTTO
IL
PETROLIO DI IRAQ/KUWAIT
5,40
2,75
5,00
IL BOOM ECONOMICO ERODE
LA CAPACITÀ
0,80
3,15
1,50
DOMANDA CRESCE,
CAPACITÀ
DECRESCE
Da E. L. Morse, Energy Prices and Global Economy, intervento all’Aspen Institute Italia – International Conference The Global
Economy at a New Cycle: How to Live with Imbalances, Firenze, 9-10 luglio 2004.
*
18
19
ALLEGATO 5
PREZZO GREGGIO, DOLLARI /BARILE : 1972-2005
* Prezzo del petrolio, West Texas Intermediate, dollaro per barile
100
Real, 2005 pricest
90
80
70
60
50
40
30
20
10
Nominal
0
1972
1977
1982
1987
1992
1997
2002
* 1972-1975 Arabian Light; 1976-1984 Forties Adjusted by US CPI
Fonte: Thomson DATASTREAM
D. Salvatore, Convegno CEIS-Q8, Megatrends: L’economia internazionale, l’Europa e l’energia,
Roma, 16 marzo 2005.
20