Educazione e vocazione

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Educazione e vocazione
Marcello Ghilardi
Educazione e vocazione
Riflessioni a partire dall'esperienza di formazione per i docenti neo-assunti (A.S. 2014-15)
Ho ricevuto e accolto volentieri l'invito a presentare alcune riflessioni personali a proposito
dell'esperienza formativa legata al cosiddetto “anno di prova” di noi docenti neo-assunti nella
provincia di Milano. Cercando di mantenere l'aspetto orale del mio intervento, tento qui di declinare
in forma scritta alcune delle considerazioni che avevo esposto a voce nella riunione del 29 maggio
2015.
Faccio un paio di premesse di ordine generale. In primo luogo, le considerazioni che seguono
sono necessariamente informate dal linguaggio, dalle categorie, dalle modalità problematizzanti
tipiche della mia disciplina (la mia classe di concorso è quella di Filosofia e Storia per i licei);
queste categorie e modalità possono costituire la ricchezza ma certo anche il limite della mia
prospettiva. In secondo luogo vorrei esplicitare il fatto che i miei discorsi hanno come presupposto
una serie di esperienze pregresse – supplenze, percorsi formativi (SSIS e dottorato di ricerca) e
tirocini a scuola – che coprono l'arco di un quindicennio.
Detto questo, per quanto mi riguarda è stata molto positiva l'esperienza proposta dal percorso
formativo di un rapporto diretto e continuo con il cosiddetto “tutor”, con il quale è stato possibile
condividere il percorso e l'inserimento nelle dinamiche (anche quelle burocratiche) di quest'anno
dopo l'assunzione a tempo indeterminato. Certo l'esperienza è quanto mai soggettiva: di volta in
volta si possono creare tipi di rapporto più o meno coinvolgenti, situazioni più o meno feconde; ma
l'idea di affiancamento a un docente con diversi anni di servizio alle spalle – idea che riprende le
logiche del tirocinio in atto nella vecchia SSIS e nell'attuale TFA – mi pare un aspetto da valutare
più che positivamente. Altro punto di forza è l'impegno e la convinzione che mi è parso riscontrare
nei docenti che hanno animato e coordinato i vari laboratori: senza entrare nel merito dei singoli
contenuti, mi pare di poter dire che ci si sia trovati di fronte a formatori consapevoli della propria
posizione. Il fatto stesso che ci siano dei momenti come questi, durante i quali ci si incontra tra
docenti e si scambiano informazioni o si elaborano alcune tematiche, è un indice della
consapevolezza di dover dedicare tempo alla riflessione costante sulle questioni che animano il
mondo della scuola.
Vi sono stati alcuni punti di debolezza di ordine tecnico-organizzativo: come anche altri colleghi
e alcuni tra gli stessi formatori hanno sottolineato, gli impegni legati ai laboratori e alla costruzione
della piattaforma on-line si sono concentrati nel mese di maggio, quando per tutti gli insegnanti di
ogni ordine e grado si intensificano i lavori di chiusura dell'anno scolastico tra riunioni, verifiche,
documenti (e per i molti docenti neoassunti che hanno famiglia e figli che a loro volta vanno a
scuola le cose si complicano ulteriormente). Sarebbe opportuno poter disporre di un calendario più
diluito nel corso di tutto l'anno – se non da ottobre, almeno da gennaio. Inoltre, certe indicazioni
relative ad alcune attività (come quelle da svolgere con il tutor nella fase detta peer to peer) sono
giunte tardi: chi aveva già provveduto ad organizzare alcune attività di osservazione e di
collaborazione con il proprio tutor si è trovato costretto a rivedere alcune opzioni; chi, per vari
motivi (gravidanza, concorsi, malattia), ha dovuto interrompere l'attività scolastica prima della fine
dell'anno, pur avendo maturato il numero minimo di settimane per completare l'anno di prova, si è
trovato in ulteriori difficoltà dopo aver chiesto il distacco dalla scuola.
Un aspetto più delicato da considerare, che era stato motivato dagli stessi coordinatori dei
laboratori all'inizio del percorso formativo, è quello relativo alla trasversalità dei laboratori, che
sono stati organizzati coinvolgendo docenti di ogni grado. È senza dubbio utile e interessante la
condivisione di problematiche e questioni tra docenti di scuola primaria e di scuola secondaria,
tuttavia non sempre la declinazione di alcuni temi ha potuto – pur con tutta la buona volontà dei
formatori – coinvolgere in ugual modo il profilo professionale di tutti i docenti coinvolti. Un'ipotesi
da valutare per il futuro potrebbe essere quella di dedicare uno o alcuni laboratori, ma non tutti, alla
condivisione trasversale tra i docenti di ordini e gradi differenti, per dedicare altri laboratori a
questioni più specifiche destinate alla scuola primaria o secondaria, di primo o secondo grado. Un
ulteriore aspetto da considerare, e un fattore di potenziale difficoltà nel lavoro dei laboratori, è
l'eterogeneità della formazione pregressa dei docenti neoassunti. Per chi è passato attraverso i due
anni della SSIS o attraverso l'attuale TFA e ha alle spalle un decennio di insegnamento attivo alcuni
rilievi possono risultare quasi ridondanti o pleonastici (anche se, certo, melius abundare...); per chi
invece ha vinto un concorso senza aver mai svolto nemmeno un'ora di docenza possono ancora
risultare oscure alcune esigenze pratico-operative verso le quali è rivolta scarsa attenzione e che
restano sempre tema di consigli dati da colleghi, dirigenti scolastici, segreterie.
Se mi fosse richiesto un tipo di “restituzione” dell'esperienza fatta solo limitatamente alle
questioni organizzative dei laboratori, potrei forse terminare qui. Tuttavia ritengo questa una
opportunità importante per sollevare anche altri tipi di domande e provare a dare un contributo alla
discussione circa un'idea di educazione in base alla quale configurare il nostro ruolo di insegnanti.
Prenderei spunto dalla questione del linguaggio o, meglio, dell'ordine del discorso che
attualmente circola in modo pervasivo negli ambienti educativi e ne istanzia procedure,
atteggiamenti, mentalità. Ogni tipo di discorso dà luogo a forme di rappresentazione del sé e del
mondo, oltre che di meta-rappresentazione del modo con cui si organizza il sapere; ogni tipo di
discorso rivela e al tempo stesso occlude qualcosa dell'attività che descrive. Sappiamo tutti da
tempo come è cambiato il lessico didattico negli ultimi anni, con l'insistenza sull'impiego di
tecnicismi collaterali improntati a una dimensione economico-operativa, talvolta quasi
farmacologica (“debiti”, “crediti”, “somministrazione” di prove, ecc.); sappiamo anche le ottime
intenzioni che hanno motivato la crescita di attenzione per una prassi educativa che sottolinei
l'importanza di sviluppare competenze e abilità, per sottrarre la scuola al rischio di diventare un
luogo in cui si impartiscono solo conoscenze, riempiendo teste di nozioni. Quello che però mi pare
manchi, e che personalmente mi aspetterei da un percorso di laboratori formativi, è la messa in atto
di una consapevolezza critica nei confronti di queste stesse strutture linguistiche, che diventano
strutture operative, in modo tale da non assumerle come modelli inemendabili, cioè affinché non
diventino ideologia. Il rischio altrimenti in atto è quello di un disciplinamento complessivo, di una
“normalizzazione” dei movimenti e delle istanze educative su modelli prestazionali
dell'apprendimento. La scuola deve aiutare a maturare abilità e competenze, non soltanto a
trattenere nozioni: certo! Ma se non si dà spazio all'interrogazione sul senso delle competenze da
maturare, si può finire per formare soggetti estremamente competenti che però non sanno in quale
orizzonte di significati collocarsi. Le metafore che usiamo per descrivere le attività in cui siamo
coinvolti hanno un ruolo decisivo nel costruire quel tipo di realtà, nel far loro assumere una
particolare curvatura. Il lessico impiegato, se non è mai messo in discussione, può finire per
legittimare – con una sorta di eterogenesi dei fini – un tipo di scuola improntato solo all'adattamento
di un modello efficientista, che tiene in massima considerazione la capacità di non perdere tempo,
di rispondere al mercato o all'inserimento nel mondo del lavoro. Ma la scuola deve essere una
fucina di produttori-e-consumatori efficienti e competenti? È una domanda provocatoria e un po'
retorica, ovviamente. Si dirà: è proprio proponendo vari tipi di competenze che la scuola aiuta
anche a sviluppare un pensiero critico, che vaglia i modelli, li mette in discussione, li esamina ed
eventualmente ne propone altri. Benissimo! Mi chiedo soltanto, allora, se non sia il caso di aprire in
primo luogo tra i docenti la possibilità di mettere al vaglio gli stili di pensiero e i modelli linguistici
attualmente in voga.
Dalla questione dell'ordine del discorso si passa alla questione relativa all'idea di umanità che si
propone tramite un'idea di insegnamento. Ogni disciplina fa maturare delle competenze specifiche;
ma nell'insieme dell'educazione scolastica quale modello o concezione globale di efficienza o di
competenza sta alla base? È davvero di un tipo di efficienza o di competenza che si deve parlare?
Personalmente ho l'impressione che un'istanza come quella educativa, pur avendo anche una finalità
ulteriore, pur dovendo mantenere anche una promessa legata ad una traduzione nella prassi di vita a
cui ogni soggetto è chiamato, debba mantenere la consapevolezza di un proprio carattere autotelico.
Sforzarsi a tutti i costi di far capire a cosa serve studiare, a cosa serve imparare alcune nozioni, a
quali obiettivi permettono di giungere alcune competenze, rischia di essere un cattivo servizio nei
confronti di qualcosa che mantiene un senso in sé. Ben vengano le competenze, purché ci sia la
possibilità di iscriverle in un ordine di senso non solo operativo, non solo economico, nemmeno
solo politico o di cittadinanza – ma più ampio ancora. Avendo avuto modo non solo di insegnare
Filosofia e Storia al liceo, ma di collaborare e organizzare percorsi formativi sia nella scuola
primaria sia all'università, ho ricavato l'impressione (in realtà è ben più di un'impressione) che le
grandi preoccupazioni e le questioni che si pongono i ragazzi durante tutto il ciclo degli studi, in
forme certo differenti, riguardano temi come il significato dell'esistenza, il prevalere dell'ingiustizia,
la diffusione della povertà, le relazioni tra i sessi, la ricerca del proprio posto nel mondo, il
persistere delle guerre, la corruzione, la giustizia. Tutte le discipline concorrono all'elaborazione di
queste tematiche, nessuna però può dare risposte esaurienti. Ciò che un insegnante può fare, credo,
è mostrare con il suo esempio di vita, in relazione alla disciplina che insegna, in che modo abitare
quelle domande. Ci sono domande che prevedono risposte, e che dalle risposte vengono tacitate; ci
sono altre domande, invece, che non hanno risposte, ma inaugurano una stile di pensiero e di vita –
e questa è la loro risposta. Forse sono proprio queste le domande più importanti. Penso che un
percorso formativo, come quelli per i docenti neoassunti, debba far emergere questo tipo di tensione
problematica, sottesa a tutte le procedure e forme operativeche facilitano la crescita della
consapevolezza di un corpo insegnante.
Ho usato il verbo “facilitare”, e questo apre un altro aspetto per me importante. Non credo che
l'insegnante debba avere il ruolo di un facilitatore per i suoi studenti. Certo, non deve nemmeno
essere una sorta di sergente di ferro che, coltivando la falsa illusione di irrobustirne il carattere,
mette loro costantemente i bastoni tra le ruote. Ma, per quanto riguarda ad esempio l'uso delle
tecnologie e il costante richiamo all'importanza di avvicinarsi al modo di vivere e di apprendere
delle nuove generazioni, ritengo utile mantenere aperta la discussione circa l'equilibrio tra forme
tradizionali e forme contemporanee di educazione e di trasmissione. Se oggi è impensabile e
insensato proporre lezioni che escludono totalmente l'uso di tecnologie informatiche o di modelli
plurali di apprendimento, mi piacerebbe che nei laboratori formativi si possano valutare gli aspetti
da mantenere e non da scartare nel tradizionale “rapporto triangolare” tra docente, discente e sapere
– un rapporto che non viene del tutto stravolto dall'impiego di nuovi strumenti. Talvolta mi è parso
che, per metter in luce la bontà delle nuove tecnologie e delle forme di lezione partecipata, di forme
laboratoriali, di apprendimento peer to peer (come si ama dire oggi), si finisca quasi per
demonizzare forme considerate ormai ottuse o vetuste di lezione. Personalmente alcune delle
esperienze formative più importanti, di quelle che hanno lasciato il segno (e che hanno inciso sulla
mia scelta professionale), sono state proprio antiche, tradizionali, lunghe e faticose lezioni frontali.
Penso che la scuola possa e debba essere non solo, e non tanto, veicolo per la professionalizzazione
di giovani menti, ma anche occasione di resistenza rispetto a modelli comunicativi e
comportamentali attuali. Questo non significa affatto che essa debba svolgere una funzione di
retroguardia, anzi. L'originalità di una relazione educativa si gioca sulla sua originarietà, cioè sulla
capacità di far scattare un rapporto con un'origine. Un'origine di cosa? Io direi: del desiderio.
Ecco un altro aspetto che un percorso formativo potrebbe o dovrebbe tenere in considerazione,
certo non per esaurirne la portata ma per accennarne almeno la presenza. Che tipo di desiderio
intendiamo muovere nei nostri studenti? Che tipo di desiderio siamo in grado di muovere? E
ancora: che tipo di desiderio – nei confronti del sapere, della vita, del nostro essere umani – siamo
in grado di testimoniare? Credo che un senso profondo del rapporto, mai definitivo e mai saturo,
con il sapere (con il desiderio che il sapere muove, con e oltre la figura dell'insegnante) dipenda dal
riuscire a far passare un messaggio esistenziale, dal riuscire cioè a far capire che la passione che ha
catturato le nostra vita ha una dimensione che supera la vita stessa, perché le conferisce il suo luogo
e il suo senso, al di là di ogni utilità pratica, di ogni efficientismo, di ogni scadenza, di ogni fatica
che viene richiesta. Se attraverso la testimonianza dell'adesione a un sapere che diviene passione si
riesce a far sbocciare una passione analoga per qualcosa – e non importa che sia la matematica o la
filosofia o la letteratura o l'arte o la scienza, o altro ancora come la musica, uno sport, un lavoro
artigianale, ecc. – allora sarà difficile, credo, avere di fronte studenti svogliati o abulici, soggetti
privi di desiderio che si trasformano poi in adulti proni alle logiche del consumo. Qual è la quota di
felicità che siamo in grado di portare in classe, quando varchiamo la soglia dell'aula? Forse è questa
una delle domande più inevase dai laboratori, domanda che si intreccia con un'altra: insegnare è
solo una professione o è (in primo luogo) una vocazione?
Il grande rischio della formazione degli insegnanti – ma il discorso potrebbe essere in realtà
esteso alla formazione e all'educazione tout court – è quello di fornire una serie di indicazioni
importanti su come gestire la propria professionalità, su come operare un bilancio delle proprie
competenze, su cosa è bene che gli studenti coltivino, su come impiegare al meglio le nuove
tecnologie e inscriverle nei paradigmi formativi, su come far maturare al meglio alcune capacità
senza sfiorare nemmeno alcune questioni fondamentali, ignorando le quali si invalida il significato
complessivo dell'insegnare e dell'apprendere. Dal mio punto di vista questi non sono temi che
possano essere affrontati in un secondo momento, o a un livello di riflessione che segue una
formazione “di base” (prima ci si occupa delle questioni più operative, poi si rifletterà sui significati
profondi dell'educazione): o si pone questo genere di questioni a fondamento della pratica
educativa, oppure se ne resta irrimediabilmente al di fuori. Tutto il resto – le competenze, i bilanci,
il saper costruire unità di apprendimento, l'idea di professionalità – vengono dopo e costituiscono un
giusto completamento, una necessaria ma successiva declinazione della domanda essenziale che, in
fondo, ci si pone ogni giorno in classe, o tra colleghi, o mentre si torna a casa dopo una mattina
particolarmente difficile: è davvero questa la mia vocazione? Quale voce ho sentito, per scegliere di
impegnarmi in questo ambito? Diversamente, quella dei laboratori formativi e dell'anno di prova
(ma direi anche dei TFA attuali, o dei PAS, o dei tirocini di varia natura) finisce per essere
un'occasione mancata – come se in un seminario in cui si formano futuri sacerdoti, si discutesse con
cura e attenzione di teologia dogmatica, di teologia morale, di storia della Chiesa, e non ci fosse mai
l'opportunità di confrontarsi sull'unica cosa davvero fondamentale, cioè sulla fede e la propria
vocazione. È chiaro che né un concorso pubblico per titoli ed esami, né un percorso di formazione
possono vagliare la vocazione profonda di un insegnante; però molti attuali docenti, pur competenti
nelle loro discipline, non hanno forse maturato una vocazione profonda (o almeno tendono a celarla
molto bene) e non hanno mai avuto modo di essere consapevoli di questo. Da nessun laboratorio o
percorso formativo si pretende che accenda nell'animo un fuoco sacro – alla fine, ciascuno non può
che fare i conti con se stesso, con le proprie sicurezze e i propri limiti, con la capacità di chiarirsi a
se stesso e con le difficoltà e i dubbi che periodicamente riemergono. Ma non porsi queste
domande, non sostare in esse, significa passare a lato dell'esperienza educativa. Non chiederei mai,
dunque, che siano date risposte a questo genere di problemi; mi parrebbe però importante che fosse
data la possibilità di discuterli perché tutti possano avere l'occasione per confrontarsi con tali
questioni, invece di relegarle al fondo della propria coscienza. È così, oserei dire, che in qualità di
docenti potremo poi tentare di dare il nostro più o meno grande contributo all'educazione di
bambini, adolescenti, giovani: offrendo una testimonianza di fedeltà alla propria vocazione, a
un'urgenza senza nome, senza forma. È così, credo, che potremo coltivare in noi e negli studenti che
ci ascolteranno la consapevolezza che si possa aspirare a diventare qualcosa di diverso da un
appagato elemento del sistema economico vigente, e qualcosa di più di un grande avvocato,
ingegnere, filosofo, scienziato o letterato. Come scriveva Gregory Bateson, a patto di impegnarsi
con sincerità, si può diventare qualcosa di molto più raro: un essere umano realizzato e felice.