Land grabbing
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inchiesta Land grabbing all’italiana Il fenomeno dell’accaparramento di terra vede tra i suoi protagonisti anche diverse aziende tricolori. Con i problemi di sempre: scarso contributo alle economie locali, rottura degli equilibri basati sull’agricoltura familiare, terreni abbandonati quando i progetti falliscono. Come insegnano due storie parallele in Senegal e in India 14 Popoli agosto-settembre 2014 cammini di giustizia Testo: Marta Gatti Foto: Germana Lavagna Dakar (Senegal) I n Senegal, dal 2005 più di 80mila ettari di terra sono passati in mani italiane. Secondo il database Land Matrix, un osservatorio globale interattivo sostenuto dalla Commissione europea, tra questi ci sono molti contratti che, nel tempo, hanno avuto un esito fallimentare: investimenti che si sono fermati dopo qualche anno per mancanza di fondi o perché garantivano profitti troppo bassi. In gran parte gli investimenti italiani si sono indirizzati verso la coltivazione di prodotti agricoli da utilizzare come biocombustibili. Soprattutto nel caso italiano, ma non solo, a spingere verso la produzione a basso costo di biocarburanti sono state le politiche dell’Unione europea che hanno A Beude Dieng i n c e nt i v ato opera il Vescovini lo sviluppo Group. La di tecnoloproduzione però gie basate su non è mai decollata combustibili e i campi, ancora alternativi al occupati dalla petrolio. jatropha, non In Senegal le possono essere imprese italiautilizzati per le ne interessate colture tradizionali a questo business hanno trovato terreno fertile. Nel 2007 il governo dell’allora presidente Abdulaye Wade aveva lanciato un progetto per la coltivazione di jatropha (un arbusto i cui semi contengono olio utilizzabile come combustibile o carburante nei motori diesel) con l’obiettivo di produrre 1,19 miliardi di litri di olio, per rendere il Paese indipendente dalle importazioni di petrolio. Il programma governativo prevedeva di realizzare piantagioni da mille ettari in ogni comunità rurale del Paese. Come è possibile che le imprese straniere possano accaparrarsi una così grande quantità di terre? In Senegal agosto-settembre 2014 Popoli 15 inchiesta Il capo di uno dei 37 villaggi della riserva dello Ndiael data in concessione alla società Senhuile-Senethanol. In apertura, semi di jatropha per la produzione di biodiesel. la terra appartiene allo Stato e le concessioni devono essere date dalla comunità rurale, rappresentante del diritto consuetudinario sul territorio. La concessione segue due principi: la messa in valore e la residenza. Dopo il 2000, con la creazione di Apix, l’agenzia per favorire gli investimenti esteri nel Paese, sono cambiati anche i criteri di assegnazione. I terreni sono quindi diventati oggetto di possibile rendita per le comunità e per lo Stato che così hanno iniziato a concedere terre agli stranieri. IL CONTRATTO CHE NON C’È A pochi chilometri da Thiès (città capoluogo dell’omonima regione centrosettentrionale del Senegal) si trova il villaggio di Beude Dieng, dove 60 ettari sono coltivati a jatropha. Dire che sono coltivati è un po’ approssimativo, dato che gli arbusti sono privi di foglie perché non irrigati. Il progetto è stato avviato nel 2005, ma nessuno degli abitanti conosce il nome della società che gestisce la piantagione. «Abbiamo conosciuto solo un intermediario senegalese, che ha detto di essere originario di queste parti», spiega un contadini che ha ceduto il suo campo per il progetto. Spesso i rapporti con le comunità locali vengono gestiti da senegalesi che fanno capo a investitori italiani. In questo caso si è trattato di un ex emigrato che ha lavorato per l’azienda Società bulloneria europea, del Vescovini Group di Monfalcone (Go). A operare a Beude Dieng è stata la controllata senegalese Sbe Senegal. Alessandro Vescovini, presidente della società, ha spiegato che si è trattato di un investimento a vuoto e che l’impresa senegalese ha dichiarato fallimento nel 2012. E infatti la popolazione dichiara di non aver mai visto raccogliere i grani di jatropha negli ultimi due anni. Nella prima fase del progetto è intervenuta anche un’altra società italiana, Agroils, una società di consulenza specializzata nella promozione della jatropha e nell’accompagnamento per la prima fase della produzione. I terreni utilizzati dalla compagnia le sono stati ceduti dai singoli abitanti del villaggio tramite una cooperativa. A Beude Dieng, però, i membri della cooperativa, ovvero coloro che hanno ceduto i campi, dicono di non essersi mai riuniti. Alcuni contadini sostengono di non aver firmato un contratto, ma solo un foglio in bian- Ladri di terra L and grabbing è un termine inglese che significa letteralmente «accaparramento di terra». Con questa espressione ci si riferisce a un fenomeno complesso che riguarda l’acquisto o l’affitto su larga scala di terreni agricoli di Paesi in via di sviluppo da parte di multinazionali, governi stranieri e singoli soggetti privati. L’acquisizione viene effettuata per ragioni diverse: coltivazioni di vegetali per l’alimentazione o per la produzione di biocarburanti, silvicoltura per ottenerne legname pregiato, la creazione di industrie o di strutture turistiche, ecc. Il fenomeno si è affermato a partire dagli anni Duemila e si è accentuato dal 2007 con l’inasprirsi della crisi economica e con le speculazioni finanziarie del cibo. La crescita dei prezzi dei generi alimentari ha portato alcuni Paesi industrializzati a cercare di accaparrarsi terreni a basso costo in nazioni del Sud del mondo. Nazioni nelle quali, tra l’altro, è anche presente una manodopera sottopagata. A questo fenomeno si è aggiunto quello dei ricchi Paesi del Golfo che, privi di grandi estensioni coltivabili, si assicurano le derrate alimentari necessarie acquistando terreni all’estero. Il land grabbing è un fenomeno caratterizzato dalla scarsa trasparenza. La maggior parte dei contratti non sono registrati e si fondano su complicità tra multinazionali (o dei governi occidentali) ed élite locali che fanno leva sui diritti di proprietà poco chiari. Corollario sono contratti in larga parte segreti e pochissimi dati disponibili su di essi. 16 Popoli agosto-settembre 2014 Nonostante ciò, Land Matrix, un osservatorio globale interattivo supportato dalla Commissione europea, ha dato vita a un monitoraggio continuo del fenomeno costruendo una banca dati ricchissima. Dal 2000 a oggi, Land Matrix ha mappato 1.200 contratti che hanno interessato 36 milioni di ettari di terra (acquistati o ceduti in affitto per un periodo dai 30 ai 99 anni). Altri 14 milioni di ettari (una superficie poco più grande della Grecia) sono attualmente oggetto di stipula. Solo l’11% dei terreni acquisiti sono usati per coltivare vegetali commestibili, il 33% è coltivato per vegetali non commestibili, il 22% per vegetali «flessibili» (che possono essere utilizzati per alimentazione, produzione di energia, biocarburanti o fibre) e il 34% per usi diversi (industria, turismo, ecc.). Tra i principali acquirenti ci sono gli Stati Uniti che, grazie alla stipula di 82 contratti, si sono accaparrati 7,1 milioni di ettari. Seguono Malesia (3,4 milioni di ettari), Emirati arabi (2,8), Regno Unito (2,2) e India (2). I venditori sono prevalentemente concentrati in Asia e in Africa. Guida la classifica la Papua Nuova Guinea (3,7 milioni di ettari), seguita da Indonesia (3,5), Sud Sudan (3,4), Repubblica Democratica del Congo (2,7) e Mozambico (2,1). Le economie locali non traggono vantaggi dal land grabbing. Le ricadute occupazionali sono limitate e gran parte della produzione è destinata all’estero. A ciò si aggiunge il fatto che le società straniere impiantano monocolture che distruggono la ricchezza delle colture tradizionali e impoveriscono l’economia familiare pilastro dei sistemi sociali dei Paesi del Sud del mondo. Enrico Casale Villaggio di Beude Dieng: progetto di co-sviluppo dell’associazione italosenegalese Sunugal per mettere a coltura le terre circostanti. co. Altri che un contratto esiste, ma non ne hanno copia. Le famiglie che hanno creduto nel progetto jatropha non ne hanno tratto alcun vantaggio. La produzione non è mai decollata e i loro campi, ancora occupati dalle piantine, ora non possono essere utilizzati per le colture tradizionali. zienda bisognava cedere almeno tre ettari, io ne ho donati 20, avrei dovuto avere almeno sei posti nell’azienda, ma solo in tre hanno lavorato per loro, e solo per i primi quattro mesi», spiega un anziano capo villaggio. «In diversi casi i terreni, non ancora coltivati, sono stati riaffittati agli antichi utilizzatori», osserva Bocar, presidente del comitato di lotta che riunisce diversi villaggi. Anoc ha detto di essere pronta ad alzare i salari, fermi a 35mila franchi cfa, nel caso in cui il villaggio avesse dato il via libera alla compagnia per la coltivazione di arachidi. Il villaggio, composto da coltivatori di arachidi, ha messo il veto: «Sappiamo coltivare le arachidi, non abbiamo bisogno di uno straniero che coltivi i nostri campi con i nostri prodotti: che ci restituisca la terra piuttosto!». PROMESSE MANCATE Nella regione di Kaolak, nel pieno del bacino delle arachidi, si trova il villaggio di Ourour. Arrivando si vedono distese di campi di jatropha, almeno 500 ettari, distribuiti in diverse zone. Grazie alla mediazione di Apix, la compagnia italo-senegalese Anoc (African National Oil Corporation) ha ottenuto nel 2008 la cessione di 750 ettari nella zona di Ourour e 2.000 nella zona di Dianké Souf. Anche in questo caso ad accompagnare l’investimento è stata Agroils. Lo Stato senegalese non prevede la AGRICOLTORI DISCRIMINATI vendita dei terreni agli stranieri, ma Diverso per dimensione e impatto è i capi villaggio parlano di trattative il caso di land grabbing nella regione individuali per la vendita dei campi, di Saint Louis: a Fanaye prima e gestite da intermediari senegalesi. In nel parco naturale dello Ndiael, poi, cambio della terra, compensata con dopo proteste e morti. Il progetto, 20mila franchi cfa all’ettaro (circa infatti, ha sin da subito generato 30 euro), ogni famiglia avrebbe visto conflitti e ha spaccato la comunità un figlio assunto, per tutto l’anno, rurale, tra i favorevoli e contracon un salario di 75mila ri. Il 26 ottobre 2011 la franchi cfa al mese. A Ourour la Anoc situazione è degenerata Di fatto, però, spiegano vorrebbe coltivare in violenze che hanno i capi villaggio riuniti arachidi. Ma il provocato la morte di nella casa comunitaria, villaggio ha messo due persone. Il caso ha nulla di tutto ciò è av- il veto: «Sappiamo fatto discutere molto nel venuto. «Per avere un coltivare le Paese, tanto da spingere figlio impiegato nell’a- arachidi, non Wade a sospenderlo e a abbiamo bisogno di stranieri che coltivino i nostri prodotti!» ricollocarlo nello Ndiael. Oltre 26mila ettari di terra sono stati ceduti alla compagnia italosenegalese Senhuile, controllata al 51% dal gruppo italiano Tampieri. Il progetto, durante la presidenza Wade, era stato pensato per la zona di Fanaye, dove la compagnia Senethanol (formata da capitali senegalesi e stranieri), di cui successivamente divenne partner Senhuile, intendeva coltivare la patata dolce da usare per la produzione di biocarburante. Con l’ingresso di Senhuile la produzione si era spostata verso i semi di girasole, destinati ad essere esportati in Italia per la trasformazione. Il gruppo Tampieri, infatti, ha dichiarato di partecipare al progetto per internalizzare la materia prima necessaria all’azienda. Con il cambio di presidente, le autorità hanno prima sospeso e poi riconfermato il progetto (con un decreto presidenziale). Ancora oggi non c’è una chiarezza su cosa si coltivi nella piantagione. Gli attivisti parlano di riso e arachidi. L’ente che si occupa dello sviluppo agricolo senegalese, l’Isra, ha definito il progetto un punto di appoggio per la ricerca sulle sementi (per la ricostituzione del capitale dei semi). La popolazione è composta da comunità peul, dedite all’allevamento. Un giovane allevatore, venditore di bestiame a Dakar, spiega che i pastori devono camminare per chilometri per aggirare la piantagione e portare al pascolo le mandrie. A gennaio alcuni villaggi hanno firmato un accordo che prevede una zona franca di 500 metri intorno agli insediamenti. «Non bastano, gli animali moriranno nel tragitto», spiega Ardo Sow, il rappresentante delle comunità. Come se non bastasse gli abitanti dei villaggi dicono di essere sottoposti costantemente a intimidazioni da parte della polizia. Ong e associazioni senegalesi e italiane hanno lanciato un appello, finora inascoltato, per chiedere a Tampieri di rinunciare al progetto. agosto-settembre 2014 Popoli 17 inchiesta Potrebbe creare opportunità di lavoro, contribuire allo sviluppo di infrastrutture e aumentare la produzione di merci nel Sud del mondo. Rischia invece di aumentare la povertà, danneggiare l’ambiente e violare i diritti umani. Prende il nome di… landgrabbing { NON SI SA PRODOTTI AGRICOLI ALLEVAMENTO INDUSTRIA ENERGIE RINNOVABILI STOCCAGGIO CARBONIO SPECULAZIONE 28 19 11 10 10 ESTRAZIONI % TURISMO COLTIVAZIONI ALIMENTARI ogni secondo nel Sud del mondo viene acquistata un’area di terra pari a un intero campo di calcio PER COSA VENGONO USATI (%) LEGNO E FIBRA ETTARI dal 2000 ad oggi BIOCARBURANTI 50.000.000 Acquisto o affitto su larga scala di terreni agricoli nei Paesi in via di sviluppo da parte di multinazionali, governi stranieri o singoli soggetti privati 8 5 3 2 2 1 1 I 10 MAGGIORI PAESI ACQUIRENTI E VENDITORI (mln ettari) 2.2 Cina U.S.A. Emirati! Arabi Egitto 0.4 0.6 1.1 1.6 1.8 1.7 0.5 Ghana Nigeria Paesi acquirenti Paesi venditori 1.3 Arabia! Saudita 0.6 0.5 Sudan Congo 0.5 Corea 1.0 India Malesia 1.2 0.6 Mozambico 1.2 0.8 Singapore 1.2 Indonesia 1.3 Madagascar 0.5 Argentina InfograÞca di Ugo Guidolin 2/3 18 Popoli agosto-settembre 2014 • • degli investimenti in terreni agricoli sono in Paesi dove si soffre la fame dei raccolti frutto di quei terreni agricoli sono destinati all'esportazione Quei progetti Fiat (mai decollati) in India Daniela Bezzi I mmagina un territorio dieci volte più grande del Vaticano e fertile quanto le nostre pianure intorno al Po: dai tre ai cinque raccolti all’anno a rotazione, che danno da mangiare e da vivere a seimila famiglie, 22mila abitanti. Tra essi molti sono braccianti: da quelle terre, di cui non sono proprietari, dipendono totalmente. E in gran parte bargadars, mezzadri: protagonisti di quella riforma agraria che l’ex governo comunista del Bengala (India) varò negli anni Settanta, in risposta ai moti contadini che da Naxalbari (1967) si erano estesi ovunque, contro il sistema fondiario, i zamindars. Immagina ora tutto questo, frutto di 40 anni di paziente tessitura, fonte di lento ma sicuro progresso dopo quei lontani tumulti... raso al suolo. Immagina i bulldozer, le camionette della polizia che arrivano una mattina e vomitano 600 militari armati di bastoni e pronti anche a sparare, mentre dal megafono un ufficiale ordina di sloggiare e gruppi di scherani procedono con la recinzione (operazione che dura giorni, con la forza pubblica pronta a intervenire). L’«AUTO DEL POPOLO» Tutto questo accadeva il 2 dicembre 2006 a Singur, 40 chilometri a nord di Kolkata, Bengala occidentale. Un giorno già carico di significati per l’India moderna, anniversario del più grande disastro industriale della storia, a Bhopal. L’impressionante rievocazione di chi quella mattina si trovò ad assistere alla violenza delle requisizioni - dopo mesi di negoziati, manifestazioni di protesta, non pochi episodi drammatici (e anche qualche morto) - è contenuta in un documento firmato (tra gli altri) dalla scrittrice Mahasweta Devi, dall’attivista Medha Patkar, dall’intellettuale Dipankar Chakraborty. La posta in gioco: la Nano Car, l’utilitaria «del futuro» in quanto meravigliosamente low cost - come venne presentata anche dai nostri media, nella ignoranza (o indifferenza) circa l’impatto di tale progetto ancor prima di entrare in produzione. Perché quel ben poco glorioso insediamento (che a prima vista sembrò targato solo Tata Motors) vide in qualche modo implicata anche la Fiat, in una joint venture che tutta la stampa del mondo definì «molto promettente», in quanto appunto accordo «a tutto campo». Dall’incremento delle vendite nei rispettivi mercati, allo scambio di componenti e tecnologia (sottolineavano i prospetti diffusi in anticipo per la gioia degli investitori), quella joint venture vedeva convergere su quel particolare progetto low cost tutte le eccellenze che avevano caratterizzato la storia della nostra prima industria, dalla Topolino in poi - ma in ben più promettenti condizioni di mercato. Insomma un’autentica dream car, come amava definirla lo stesso Ratan Tata, ai vertici di un conglomerato industriale da oltre un secolo già molto forte nella produzione dell’acciaio e in una serie di prodotti tecnologici avanzati e di lusso, oltre che, dagli anni Cinquanta, anche nei motori. Tata stava ora per sviluppare un nuovo tipo di auto, the People’s Car, l’auto del popolo, per tutti: per una somma (100mila rupie) non proprio «per tutti» in India, ma in effetti minima (solo 2.500 euro), ecco una DAL MOZAMBICO ALL’ARGENTINA Tutti gli affari tricolori I due casi descritti in queste pagine non sono gli unici esempi di land grabbing italiano. Il sito di Land Matrix, ricca e dettagliata miniera di dati sul tema, informa che i Paesi in cui aziende del Belpaese hanno avviato progetti di accaparramento delle terre sono 11, tutti in Africa: oltre al Senegal, nell’elenco figurano Liberia, Ghana, Nigeria, Guinea Conakry, Congo Brazzaville, Tanzania, Etiopia, Mozambico e Madagascar. Particolarmente intensa la presenza italiana in Mozambico, una sorta di «paradiso» del land grabbing: in questo Paese, infatti, la terra non si vende, si dà in concessione. Il prezzo di concessione annuale può scendere fino a un dollaro l’ettaro e le concessioni arrivano anche a 99 anni. Land Matrix ha tracciato 117 acquisizioni di terra in Mozambico: 5 di queste sono state promosse da aziende italiane. Spicca il caso del colosso energetico Api, il cui progetto di coltivazione della jatropha si è però bloccato nel 2013. A quanto pare il problema è l’eccessiva salinità del terreno, ora però quella terra - comunque acquisita in concessione dal consorzio che fa capo ad Api - resta inutilizzata. Stessa sorte per quella che - dal punto di vista dell’estensione dei terreni - è l’operazione più rilevante di un’azienda italiana in Africa: l’acquisizione di 710mila ettari (poco meno della più estesa provincia italiana, quella di Bolzano) in Guinea Conakry da parte di Nuove iniziative industriali, azienda di Galliate (No), attiva nella produzione di energia da fonti rinnovabili. La terra è stata effettivamente acquistata, ma la produzione di jatropha non è mai partita. E pensare che sul sito dell’azienda si parla tuttora di un «rilevante risvolto sociale del progetto, che comporterà la creazione di numerosi posti di lavoro per le popolazioni coinvolte». Abbiamo scritto all’azienda per chiedere chiarimenti ma non ci è stato risposto. Fuori dall’Africa, Land Matrix non segnala nessun coinvolgimento diretto italiano nel fenomeno del land grabbing. Lo fa invece l’altrettanto interessante rapporto dell’Ong Re:Common, Gli arraffa terre, uscito nel giugno 2012: vengono citati i casi di Argentina (con la nota presenza del gruppo Benetton: 900mila ettari di terra acquistata nel 1991 per l’allevamento di pecore e la produzione di lana), Nuova Zelanda (lana), Honduras e agosto-settembre 2014 Popoli 19 Indonesia (palma da olio), Laos (jatropha). inchiesta Singur, India (2007): sorveglianza dei terreni espropriati per lo stabilimento Tata. GRANDE ALLEANZA Dalle campagne di Singur la protesta dilagò poi nel Midnapore, per 10mila acri destinati a un impianto petrolchimico della Salim, e culminò (nella primavera 2007) negli «incidenti» di Nandigram: quindici persone uccise, non si sa quanti feriti, scontri di particolare brutalità. I fatti di Singur e Nandigram coincisero con l’inizio di una nuova stagione di tensione sociale per l’India, che proprio in quell’anno celebrava i 60 anni di indipendenza dal giogo coloniale, ma non da certe pratiche autoritarie che avevano caratterizzato la sua amministrazione. Poiché oggi come all’epoca dei britannici il più indiscriminato land grabbing è autorizzato nel Paese da una legge (Land Acquisition Act) che risale al 1894, un editto coloniale. Tutto questo non passò completamente inosservato in Italia, nonostante in generale i media inneggiassero al «nuovo corso» della La Nano Car non è Fiat guidamai decollata. Una ta da Sergio serie di incidenti Marchionne. E, hanno eroso mentre i titoli l’iniziale appeal e Fiat e Tata Mola joint venture tra Fiat e Tata Motors, tors registravacome all’improvviso no apprezzamenti costanti era finita sotto i alle Borse di riflettori, è sparita Milano e di dai media Mumbai, una campagna di controinformazione riuscì a portare alla conoscenza del Parlamento italiano questo scenario di abusi nel lontano Bengala occidentale. Non meno di quattro interrogazioni parlamentari vennero stilate (raccogliendo numerosi firmatari), ma restarono lettera morta. Ma al Motor Show di Delhi nel gennaio 2008 nessuno poté ignorare il giro20 Popoli agosto-settembre 2014 AFP quattro posti a misura di famiglia indiana, che da mesi era l’oggetto della più vivace curiosità e speculazione, in primis finanziaria. tondo degli attivisti indiani intorno LE CONSEGUENZE al prototipo dell’attesa vettura, e più Che cosa resta oggi di questa impreancora le scritte sulle loro magliette, sa? Un muro, in molti punti sbrecciache denunciavano la violenza del to, che ancora difende per chilometri land grabbing di Singur. Molte testa- quel che Tata Motors insiste nel te indiane cominciarono a mettere rivendicare come lesa proprietà, con pretese di indennità e in discussione la sosteun braccio di ferro leganibilità della Nano Car: Il progetto della le pressoché insolubile non solo ambientale e Nano Car, auto con l’amministrazione sociale, ma anche sul low cost con piano tecnico. la partecipazione bengalese, che invano reclama compensazioni Il caso Singur era ormai di Fiat, fu una questione di Stato. avviato nel 2006 per gli ex contadini ormai in miseria, e qualMa di fronte alla cer- con una serie di che forma di riqualifitezza della crisi econo- espropri di terre cazione per 400 ettari mica globale nell’estate nel Bengala a di terre un tempo fertili del 2008 e a sfavorevoli danno di seimila e per sempre improdutproiezioni di crescita in famiglie tive. C’è poi lo scheletro India, anche nel settore di una promessa di sviauto, ecco l’improvvisa luppo industriale che ha decisione di Tata Motors: anche se pronti per entrare portato morte nello spirito, come nei in produzione, gli impianti nelle campi. Alla fine la Nano Car non è campagne un tempo fertili e ormai mai decollata neppure come auto a cementificate di Singur dichiara- basso costo. Una serie di incidenti rono forfait. Optarono, cioè, per (motore in fiamme in condizioni di le condizioni di massimo favore corsa, carrozzerie accartocciate al e i sussidi pubblici nello Stato del minimo urto, a fronte di costi di Gujarat che, governato da Narendra produzione irrealisticamente bassi) Modi, stava emergendo come area hanno eroso l’iniziale appeal e ri«industry-friendly». Il Bengala oc- dotto a tal punto le richieste che cidentale dovette accontentarsi dei anche gli impianti in Gujarat hanno capannoni vuoti, monumento all’in- annunciato la chiusura. dustrializzazione su cui tutti, tranne La pubblicizzata joint venture a tutto i contadini, avevano scommesso, e campo tra Fiat e Tata Motors, così cosi trovò a gestire una crisi sociale, me all’improvviso era finita sotto i rimorale e politica senza precedenti: flettori, è scomparsa dai media. Nesalle elezioni successive nello Stato suna «grande firma» che ne parlava del Bengala, il più longevo gover- bene si è più preoccupata di indagare no comunista del mondo cedette quando il socio indiano si è fatto da il timone al Partito Trinamool di parte (sebbene ancora a lungo memMamata Banerjee che era stata a bro del Consiglio di amministrazione fianco dei contadini di Singur fin della Fiat) di fronte al trasferimento degli interessi Fiat verso Detroit. dai primi moti.