Land grabbing

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Land grabbing
inchiesta
Land grabbing
all’italiana
Il fenomeno dell’accaparramento di terra vede tra
i suoi protagonisti anche diverse aziende tricolori.
Con i problemi di sempre: scarso contributo alle
economie locali, rottura degli equilibri basati
sull’agricoltura familiare, terreni abbandonati
quando i progetti falliscono. Come insegnano
due storie parallele in Senegal e in India
14 Popoli agosto-settembre 2014
cammini di giustizia
Testo: Marta Gatti
Foto: Germana Lavagna
Dakar (Senegal)
I
n Senegal, dal 2005 più di 80mila ettari di terra sono passati in
mani italiane. Secondo il database Land Matrix, un osservatorio
globale interattivo sostenuto dalla
Commissione europea, tra questi ci
sono molti contratti che, nel tempo,
hanno avuto un esito fallimentare:
investimenti che si sono fermati
dopo qualche anno per mancanza
di fondi o perché garantivano profitti troppo bassi. In gran parte gli
investimenti italiani si sono indirizzati verso la coltivazione di prodotti
agricoli da utilizzare come biocombustibili. Soprattutto nel caso italiano, ma non solo, a spingere verso la
produzione a basso costo di biocarburanti sono state le politiche dell’Unione europea
che
hanno
A Beude Dieng
i n c e nt i v ato
opera il Vescovini
lo sviluppo
Group. La
di tecnoloproduzione però
gie basate su
non è mai decollata
combustibili
e i campi, ancora
alternativi al
occupati dalla
petrolio.
jatropha, non
In Senegal le
possono essere
imprese italiautilizzati per le
ne interessate
colture tradizionali
a questo business hanno trovato terreno fertile.
Nel 2007 il governo dell’allora presidente Abdulaye Wade aveva lanciato un progetto per la coltivazione
di jatropha (un arbusto i cui semi
contengono olio utilizzabile come
combustibile o carburante nei motori
diesel) con l’obiettivo di produrre 1,19
miliardi di litri di olio, per rendere
il Paese indipendente dalle importazioni di petrolio. Il programma
governativo prevedeva di realizzare
piantagioni da mille ettari in ogni
comunità rurale del Paese.
Come è possibile che le imprese straniere possano accaparrarsi una così
grande quantità di terre? In Senegal
agosto-settembre 2014 Popoli 15
inchiesta
Il capo di uno dei 37 villaggi della riserva
dello Ndiael data in concessione alla società
Senhuile-Senethanol. In apertura, semi di
jatropha per la produzione di biodiesel.
la terra appartiene allo Stato e le
concessioni devono essere date dalla
comunità rurale, rappresentante del
diritto consuetudinario sul territorio.
La concessione segue due principi: la
messa in valore e la residenza. Dopo
il 2000, con la creazione di Apix,
l’agenzia per favorire gli investimenti
esteri nel Paese, sono cambiati anche
i criteri di assegnazione. I terreni
sono quindi diventati oggetto di possibile rendita per le comunità e per
lo Stato che così hanno iniziato a
concedere terre agli stranieri.
IL CONTRATTO CHE NON C’È
A pochi chilometri da Thiès (città
capoluogo dell’omonima regione centrosettentrionale del Senegal) si trova
il villaggio di Beude Dieng, dove 60
ettari sono coltivati a jatropha. Dire
che sono coltivati è un po’ approssimativo, dato che gli arbusti sono
privi di foglie perché non irrigati.
Il progetto è stato avviato nel 2005,
ma nessuno degli abitanti conosce
il nome della società che gestisce
la piantagione. «Abbiamo conosciuto
solo un intermediario senegalese, che
ha detto di essere originario di queste
parti», spiega un contadini che ha
ceduto il suo campo per il progetto.
Spesso i rapporti con le comunità
locali vengono gestiti da senegalesi
che fanno capo a investitori italiani.
In questo caso si è trattato di un ex
emigrato che ha lavorato per l’azienda Società bulloneria europea,
del Vescovini Group di Monfalcone
(Go). A operare a Beude Dieng è stata
la controllata senegalese Sbe Senegal. Alessandro Vescovini, presidente
della società, ha spiegato che si è
trattato di un investimento a vuoto
e che l’impresa senegalese ha dichiarato fallimento nel 2012. E infatti la
popolazione dichiara di non aver mai
visto raccogliere i grani di jatropha
negli ultimi due anni. Nella prima
fase del progetto è intervenuta anche
un’altra società italiana, Agroils, una
società di consulenza specializzata
nella promozione della jatropha e
nell’accompagnamento per la prima
fase della produzione. I terreni utilizzati dalla compagnia le sono stati ceduti dai singoli abitanti del villaggio
tramite una cooperativa.
A Beude Dieng, però, i membri della cooperativa, ovvero coloro che
hanno ceduto i campi, dicono di non
essersi mai riuniti. Alcuni contadini
sostengono di non aver firmato un
contratto, ma solo un foglio in bian-
Ladri di terra
L
and grabbing è un termine inglese che significa letteralmente
«accaparramento di terra». Con questa espressione ci si riferisce a un fenomeno complesso che riguarda l’acquisto o l’affitto
su larga scala di terreni agricoli di Paesi in via di sviluppo da parte
di multinazionali, governi stranieri e singoli soggetti privati. L’acquisizione viene effettuata per ragioni diverse: coltivazioni di vegetali
per l’alimentazione o per la produzione di biocarburanti, silvicoltura
per ottenerne legname pregiato, la creazione di industrie o di strutture turistiche, ecc.
Il fenomeno si è affermato a partire dagli anni Duemila e si è
accentuato dal 2007 con l’inasprirsi della crisi economica e con
le speculazioni finanziarie del cibo. La crescita dei prezzi dei generi alimentari ha portato alcuni Paesi industrializzati a cercare di
accaparrarsi terreni a basso costo in nazioni del Sud del mondo.
Nazioni nelle quali, tra l’altro, è anche presente una manodopera
sottopagata. A questo fenomeno si è aggiunto quello dei ricchi Paesi del Golfo che, privi di grandi estensioni coltivabili, si assicurano
le derrate alimentari necessarie acquistando terreni all’estero.
Il land grabbing è un fenomeno caratterizzato dalla scarsa trasparenza. La maggior parte dei contratti non sono registrati e si
fondano su complicità tra multinazionali (o dei governi occidentali)
ed élite locali che fanno leva sui diritti di proprietà poco chiari.
Corollario sono contratti in larga parte segreti e pochissimi dati
disponibili su di essi.
16 Popoli agosto-settembre 2014
Nonostante
ciò, Land Matrix, un osservatorio globale interattivo
supportato dalla Commissione europea, ha dato vita a un monitoraggio continuo del fenomeno costruendo una banca dati ricchissima. Dal 2000 a oggi, Land Matrix ha mappato 1.200 contratti che
hanno interessato 36 milioni di ettari di terra (acquistati o ceduti
in affitto per un periodo dai 30 ai 99 anni). Altri 14 milioni di ettari
(una superficie poco più grande della Grecia) sono attualmente
oggetto di stipula. Solo l’11% dei terreni acquisiti sono usati per
coltivare vegetali commestibili, il 33% è coltivato per vegetali non
commestibili, il 22% per vegetali «flessibili» (che possono essere
utilizzati per alimentazione, produzione di energia, biocarburanti o
fibre) e il 34% per usi diversi (industria, turismo, ecc.).
Tra i principali acquirenti ci sono gli Stati Uniti che, grazie alla
stipula di 82 contratti, si sono accaparrati 7,1 milioni di ettari.
Seguono Malesia (3,4 milioni di ettari), Emirati arabi (2,8), Regno
Unito (2,2) e India (2). I venditori sono prevalentemente concentrati in Asia e in Africa. Guida la classifica la Papua Nuova Guinea
(3,7 milioni di ettari), seguita da Indonesia (3,5), Sud Sudan (3,4),
Repubblica Democratica del Congo (2,7) e Mozambico (2,1).
Le economie locali non traggono vantaggi dal land grabbing. Le
ricadute occupazionali sono limitate e gran parte della produzione
è destinata all’estero. A ciò si aggiunge il fatto che le società straniere impiantano monocolture che distruggono la ricchezza delle
colture tradizionali e impoveriscono l’economia familiare pilastro
dei sistemi sociali dei Paesi del Sud del mondo.
Enrico Casale
Villaggio di Beude Dieng: progetto di
co-sviluppo dell’associazione italosenegalese Sunugal per mettere a coltura
le terre circostanti.
co. Altri che un contratto esiste, ma
non ne hanno copia. Le famiglie che
hanno creduto nel progetto jatropha
non ne hanno tratto alcun vantaggio.
La produzione non è mai decollata e
i loro campi, ancora occupati dalle
piantine, ora non possono essere
utilizzati per le colture tradizionali.
zienda bisognava cedere almeno tre
ettari, io ne ho donati 20, avrei
dovuto avere almeno sei posti nell’azienda, ma solo in tre hanno lavorato
per loro, e solo per i primi quattro
mesi», spiega un anziano capo villaggio. «In diversi casi i terreni, non
ancora coltivati, sono stati riaffittati
agli antichi utilizzatori», osserva Bocar, presidente del comitato di lotta
che riunisce diversi villaggi. Anoc
ha detto di essere pronta ad alzare
i salari, fermi a 35mila franchi cfa,
nel caso in cui il villaggio avesse dato il via libera alla compagnia per la
coltivazione di arachidi. Il villaggio,
composto da coltivatori di arachidi,
ha messo il veto: «Sappiamo coltivare le arachidi, non abbiamo bisogno
di uno straniero che coltivi i nostri
campi con i nostri prodotti: che ci
restituisca la terra piuttosto!».
PROMESSE MANCATE
Nella regione di Kaolak, nel pieno
del bacino delle arachidi, si trova
il villaggio di Ourour. Arrivando si
vedono distese di campi di jatropha,
almeno 500 ettari, distribuiti in diverse zone. Grazie alla mediazione di
Apix, la compagnia italo-senegalese
Anoc (African National Oil Corporation) ha ottenuto nel 2008 la cessione
di 750 ettari nella zona di Ourour
e 2.000 nella zona di Dianké Souf.
Anche in questo caso ad accompagnare l’investimento è stata Agroils.
Lo Stato senegalese non prevede la AGRICOLTORI DISCRIMINATI
vendita dei terreni agli stranieri, ma Diverso per dimensione e impatto è
i capi villaggio parlano di trattative il caso di land grabbing nella regione
individuali per la vendita dei campi, di Saint Louis: a Fanaye prima e
gestite da intermediari senegalesi. In nel parco naturale dello Ndiael, poi,
cambio della terra, compensata con dopo proteste e morti. Il progetto,
20mila franchi cfa all’ettaro (circa infatti, ha sin da subito generato
30 euro), ogni famiglia avrebbe visto conflitti e ha spaccato la comunità
un figlio assunto, per tutto l’anno, rurale, tra i favorevoli e contracon un salario di 75mila
ri. Il 26 ottobre 2011 la
franchi cfa al mese.
A Ourour la Anoc situazione è degenerata
Di fatto, però, spiegano vorrebbe coltivare in violenze che hanno
i capi villaggio riuniti arachidi. Ma il
provocato la morte di
nella casa comunitaria, villaggio ha messo due persone. Il caso ha
nulla di tutto ciò è av- il veto: «Sappiamo fatto discutere molto nel
venuto. «Per avere un coltivare le
Paese, tanto da spingere
figlio impiegato nell’a- arachidi, non
Wade a sospenderlo e a
abbiamo bisogno
di stranieri
che coltivino
i nostri prodotti!»
ricollocarlo nello Ndiael. Oltre 26mila ettari di terra sono stati ceduti alla
compagnia italosenegalese Senhuile,
controllata al 51% dal gruppo italiano Tampieri.
Il progetto, durante la presidenza
Wade, era stato pensato per la zona
di Fanaye, dove la compagnia Senethanol (formata da capitali senegalesi e stranieri), di cui successivamente
divenne partner Senhuile, intendeva
coltivare la patata dolce da usare per
la produzione di biocarburante. Con
l’ingresso di Senhuile la produzione
si era spostata verso i semi di girasole, destinati ad essere esportati in
Italia per la trasformazione. Il gruppo Tampieri, infatti, ha dichiarato di
partecipare al progetto per internalizzare la materia prima necessaria
all’azienda. Con il cambio di presidente, le autorità hanno prima sospeso e poi riconfermato il progetto
(con un decreto presidenziale). Ancora oggi non c’è una chiarezza su
cosa si coltivi nella piantagione. Gli
attivisti parlano di riso e arachidi.
L’ente che si occupa dello sviluppo
agricolo senegalese, l’Isra, ha definito il progetto un punto di appoggio
per la ricerca sulle sementi (per la
ricostituzione del capitale dei semi).
La popolazione è composta da comunità peul, dedite all’allevamento.
Un giovane allevatore, venditore di
bestiame a Dakar, spiega che i pastori devono camminare per chilometri per aggirare la piantagione
e portare al pascolo le mandrie. A
gennaio alcuni villaggi hanno firmato un accordo che prevede una
zona franca di 500 metri intorno agli
insediamenti. «Non bastano, gli animali moriranno nel tragitto», spiega
Ardo Sow, il rappresentante delle
comunità. Come se non bastasse gli
abitanti dei villaggi dicono di essere
sottoposti costantemente a intimidazioni da parte della polizia. Ong
e associazioni senegalesi e italiane
hanno lanciato un appello, finora
inascoltato, per chiedere a Tampieri
di rinunciare al progetto.
agosto-settembre 2014 Popoli 17
inchiesta
Potrebbe creare opportunità di lavoro, contribuire allo sviluppo di infrastrutture
e aumentare la produzione di merci nel Sud del mondo. Rischia invece di aumentare
la povertà, danneggiare l’ambiente e violare i diritti umani. Prende il nome di…
landgrabbing
{
NON SI SA
PRODOTTI AGRICOLI
ALLEVAMENTO
INDUSTRIA
ENERGIE RINNOVABILI
STOCCAGGIO CARBONIO
SPECULAZIONE
28 19 11 10 10
ESTRAZIONI
%
TURISMO
COLTIVAZIONI ALIMENTARI
ogni secondo
nel Sud
del mondo viene acquistata un’area di terra pari a un intero
campo di calcio
PER COSA VENGONO USATI (%)
LEGNO E FIBRA
ETTARI dal 2000 ad oggi
BIOCARBURANTI
50.000.000
Acquisto o affitto su larga scala di terreni
agricoli nei Paesi in via di sviluppo da parte
di multinazionali, governi stranieri o singoli
soggetti privati
8
5
3
2
2
1
1
I 10 MAGGIORI PAESI ACQUIRENTI E VENDITORI (mln ettari)
2.2
Cina
U.S.A.
Emirati!
Arabi
Egitto
0.4
0.6
1.1
1.6
1.8
1.7
0.5
Ghana
Nigeria
Paesi acquirenti
Paesi venditori
1.3
Arabia!
Saudita
0.6
0.5
Sudan
Congo
0.5
Corea
1.0
India
Malesia
1.2
0.6
Mozambico
1.2
0.8
Singapore
1.2
Indonesia
1.3
Madagascar
0.5
Argentina
InfograÞca di Ugo Guidolin
2/3
18 Popoli agosto-settembre 2014
•
•
degli investimenti in terreni agricoli sono in
Paesi dove si soffre la fame
dei raccolti frutto di quei terreni agricoli sono
destinati all'esportazione
Quei progetti Fiat
(mai decollati) in India
Daniela Bezzi
I
mmagina un territorio dieci volte più grande del Vaticano e
fertile quanto le nostre pianure
intorno al Po: dai tre ai cinque raccolti all’anno a rotazione, che danno
da mangiare e da vivere a seimila
famiglie, 22mila abitanti. Tra essi
molti sono braccianti: da quelle terre, di cui non sono proprietari, dipendono totalmente. E in gran parte
bargadars, mezzadri: protagonisti di
quella riforma agraria che l’ex governo comunista del Bengala (India)
varò negli anni Settanta, in risposta
ai moti contadini che da Naxalbari
(1967) si erano estesi ovunque, contro il sistema fondiario, i zamindars.
Immagina ora tutto questo, frutto di
40 anni di paziente tessitura, fonte
di lento ma sicuro progresso dopo
quei lontani tumulti... raso al suolo.
Immagina i bulldozer, le camionette
della polizia che arrivano una mattina e vomitano 600 militari armati
di bastoni e pronti anche a sparare,
mentre dal megafono un ufficiale
ordina di sloggiare e gruppi di scherani procedono con la recinzione
(operazione che dura giorni, con la
forza pubblica pronta a intervenire).
L’«AUTO DEL POPOLO»
Tutto questo accadeva il 2 dicembre
2006 a Singur, 40 chilometri a nord
di Kolkata, Bengala occidentale. Un
giorno già carico di significati per
l’India moderna, anniversario del
più grande disastro industriale della
storia, a Bhopal. L’impressionante
rievocazione di chi quella mattina
si trovò ad assistere alla violenza
delle requisizioni - dopo mesi di
negoziati, manifestazioni di protesta, non pochi episodi drammatici (e
anche qualche morto) - è contenuta
in un documento firmato (tra gli altri) dalla scrittrice Mahasweta Devi,
dall’attivista Medha Patkar, dall’intellettuale Dipankar Chakraborty.
La posta in gioco: la Nano Car, l’utilitaria «del futuro» in quanto meravigliosamente low cost - come venne
presentata anche dai nostri media,
nella ignoranza (o indifferenza) circa l’impatto di tale progetto ancor
prima di entrare in produzione. Perché quel ben poco glorioso insediamento (che a prima vista sembrò
targato solo Tata Motors) vide in
qualche modo implicata anche la
Fiat, in una joint venture che tutta la
stampa del mondo definì «molto promettente», in quanto appunto accordo «a tutto campo». Dall’incremento
delle vendite nei rispettivi mercati,
allo scambio di componenti e tecnologia (sottolineavano i prospetti
diffusi in anticipo per la gioia degli
investitori), quella joint venture vedeva convergere su quel particolare
progetto low cost tutte le eccellenze
che avevano caratterizzato la storia
della nostra prima industria, dalla
Topolino in poi - ma in ben più promettenti condizioni di mercato.
Insomma un’autentica dream car,
come amava definirla lo stesso Ratan Tata, ai vertici di un conglomerato industriale da oltre un secolo
già molto forte nella produzione
dell’acciaio e in una serie di prodotti
tecnologici avanzati e di lusso, oltre
che, dagli anni Cinquanta, anche nei
motori. Tata stava ora per sviluppare
un nuovo tipo di auto, the People’s
Car, l’auto del popolo, per tutti: per
una somma (100mila rupie) non proprio «per tutti» in India, ma in effetti
minima (solo 2.500 euro), ecco una
DAL MOZAMBICO ALL’ARGENTINA
Tutti gli affari tricolori
I
due casi descritti in queste pagine non sono gli unici esempi di land grabbing italiano.
Il sito di Land Matrix, ricca e dettagliata miniera di dati sul tema, informa che i Paesi
in cui aziende del Belpaese hanno avviato progetti di accaparramento delle terre sono
11, tutti in Africa: oltre al Senegal, nell’elenco figurano Liberia, Ghana, Nigeria, Guinea
Conakry, Congo Brazzaville, Tanzania, Etiopia, Mozambico e Madagascar.
Particolarmente intensa la presenza italiana in Mozambico, una sorta di «paradiso» del
land grabbing: in questo Paese, infatti, la terra non si vende, si dà in concessione. Il
prezzo di concessione annuale può scendere fino a un dollaro l’ettaro e le concessioni
arrivano anche a 99 anni. Land Matrix ha tracciato 117 acquisizioni di terra in Mozambico: 5 di queste sono state promosse da aziende italiane. Spicca il caso del colosso
energetico Api, il cui progetto di coltivazione della jatropha si è però bloccato nel 2013.
A quanto pare il problema è l’eccessiva salinità del terreno, ora però quella terra - comunque acquisita in concessione dal consorzio che fa capo ad Api - resta inutilizzata.
Stessa sorte per quella che - dal punto di vista dell’estensione dei terreni - è l’operazione più rilevante di un’azienda italiana in Africa: l’acquisizione di 710mila ettari
(poco meno della più estesa provincia italiana, quella di Bolzano) in Guinea Conakry da
parte di Nuove iniziative industriali, azienda di Galliate (No), attiva nella produzione di
energia da fonti rinnovabili. La terra è stata effettivamente acquistata, ma la produzione
di jatropha non è mai partita. E pensare che sul sito dell’azienda si parla tuttora di un
«rilevante risvolto sociale del progetto, che comporterà la creazione di numerosi posti di
lavoro per le popolazioni coinvolte». Abbiamo scritto all’azienda per chiedere chiarimenti
ma non ci è stato risposto.
Fuori dall’Africa, Land Matrix non segnala nessun coinvolgimento diretto italiano nel
fenomeno del land grabbing. Lo fa invece l’altrettanto interessante rapporto dell’Ong
Re:Common, Gli arraffa terre, uscito nel giugno 2012: vengono citati i casi di Argentina
(con la nota presenza del gruppo Benetton: 900mila ettari di terra acquistata nel 1991
per l’allevamento di pecore e la produzione di lana), Nuova Zelanda (lana), Honduras e
agosto-settembre 2014 Popoli 19
Indonesia (palma da olio), Laos (jatropha).
inchiesta
Singur, India (2007): sorveglianza dei
terreni espropriati per lo stabilimento Tata.
GRANDE ALLEANZA
Dalle campagne di Singur la protesta dilagò poi nel Midnapore, per
10mila acri destinati a un impianto
petrolchimico della Salim, e culminò
(nella primavera 2007) negli «incidenti» di Nandigram: quindici persone uccise, non si sa quanti feriti,
scontri di particolare brutalità. I fatti
di Singur e Nandigram coincisero
con l’inizio di una nuova stagione
di tensione sociale per l’India, che
proprio in quell’anno celebrava i
60 anni di indipendenza dal giogo
coloniale, ma non da certe pratiche
autoritarie che avevano caratterizzato la sua amministrazione. Poiché
oggi come all’epoca dei britannici il
più indiscriminato land grabbing è
autorizzato nel Paese da una legge
(Land Acquisition Act) che risale al
1894, un editto coloniale.
Tutto questo non passò completamente inosservato in Italia, nonostante in generale i media inneggiassero al «nuovo
corso» della
La Nano Car non è
Fiat
guidamai decollata. Una
ta da Sergio
serie di incidenti
Marchionne. E,
hanno eroso
mentre i titoli
l’iniziale appeal e
Fiat e Tata Mola joint venture tra
Fiat e Tata Motors, tors registravacome all’improvviso no apprezzamenti costanti
era finita sotto i
alle Borse di
riflettori, è sparita
Milano e di
dai media
Mumbai, una
campagna di controinformazione riuscì a portare alla conoscenza del
Parlamento italiano questo scenario
di abusi nel lontano Bengala occidentale. Non meno di quattro interrogazioni parlamentari vennero stilate (raccogliendo numerosi firmatari), ma restarono lettera morta. Ma
al Motor Show di Delhi nel gennaio
2008 nessuno poté ignorare il giro20 Popoli agosto-settembre 2014
AFP
quattro posti a misura di famiglia
indiana, che da mesi era l’oggetto
della più vivace curiosità e speculazione, in primis finanziaria.
tondo degli attivisti indiani intorno LE CONSEGUENZE
al prototipo dell’attesa vettura, e più Che cosa resta oggi di questa impreancora le scritte sulle loro magliette, sa? Un muro, in molti punti sbrecciache denunciavano la violenza del to, che ancora difende per chilometri
land grabbing di Singur. Molte testa- quel che Tata Motors insiste nel
te indiane cominciarono a mettere rivendicare come lesa proprietà, con
pretese di indennità e
in discussione la sosteun braccio di ferro leganibilità della Nano Car: Il progetto della
le pressoché insolubile
non solo ambientale e Nano Car, auto
con l’amministrazione
sociale, ma anche sul low cost con
piano tecnico.
la partecipazione bengalese, che invano
reclama compensazioni
Il caso Singur era ormai di Fiat, fu
una questione di Stato. avviato nel 2006 per gli ex contadini ormai in miseria, e qualMa di fronte alla cer- con una serie di
che forma di riqualifitezza della crisi econo- espropri di terre
cazione per 400 ettari
mica globale nell’estate nel Bengala a
di terre un tempo fertili
del 2008 e a sfavorevoli danno di seimila
e per sempre improdutproiezioni di crescita in famiglie
tive. C’è poi lo scheletro
India, anche nel settore
di una promessa di sviauto, ecco l’improvvisa
luppo industriale che ha
decisione di Tata Motors: anche se pronti per entrare portato morte nello spirito, come nei
in produzione, gli impianti nelle campi. Alla fine la Nano Car non è
campagne un tempo fertili e ormai mai decollata neppure come auto a
cementificate di Singur dichiara- basso costo. Una serie di incidenti
rono forfait. Optarono, cioè, per (motore in fiamme in condizioni di
le condizioni di massimo favore corsa, carrozzerie accartocciate al
e i sussidi pubblici nello Stato del minimo urto, a fronte di costi di
Gujarat che, governato da Narendra produzione irrealisticamente bassi)
Modi, stava emergendo come area hanno eroso l’iniziale appeal e ri«industry-friendly». Il Bengala oc- dotto a tal punto le richieste che
cidentale dovette accontentarsi dei anche gli impianti in Gujarat hanno
capannoni vuoti, monumento all’in- annunciato la chiusura.
dustrializzazione su cui tutti, tranne La pubblicizzata joint venture a tutto
i contadini, avevano scommesso, e campo tra Fiat e Tata Motors, così cosi trovò a gestire una crisi sociale, me all’improvviso era finita sotto i rimorale e politica senza precedenti: flettori, è scomparsa dai media. Nesalle elezioni successive nello Stato suna «grande firma» che ne parlava
del Bengala, il più longevo gover- bene si è più preoccupata di indagare
no comunista del mondo cedette quando il socio indiano si è fatto da
il timone al Partito Trinamool di parte (sebbene ancora a lungo memMamata Banerjee che era stata a bro del Consiglio di amministrazione
fianco dei contadini di Singur fin della Fiat) di fronte al trasferimento
degli interessi Fiat verso Detroit.
dai primi moti.