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www.areaarte.it L’ECCELLENZA IMPRENDITORIALE DI UN TERRITORIO CHE, ATTRAVERSO L’ARTE E IL DESIGN, TROVA NUOVI LINGUAGGI DI COMUNICAZIONE E AGGREGAZIONE Editoriale L’arte salva l’arte I l crowdfounding (finanziamento collettivo, per dirla in italiano) legato all’arte può avere un punto di partenza invertito. Anziché essere il microfinanziamento di un gruppo di persone che mettono in comune le proprie risorse economiche a sostenere un progetto o un’organizzazione, può essere il progetto a chiedere aiuto ad una collettività fluida e non definita per adempiere alle sue finalità. E’ il caso dell’iniziativa, precedentemente collaudata con successo, dei benedettini del monastero di San Giorgio Maggiore, allocato sull’omonima isola veneziana, nel bacino di San Marco a Venezia. Una struttura monastica che ebbe origine nel X secolo ma i cui edifici attuali risalgono al XV e XVII. La parte più famosa del complesso è la Basilica, eseguita da Andrea Palladio nel 1576, con la facciata completata da Vincenzo Scamozzi e con l’interno decorato da dipinti di Tintoretto, Palma il Giovane, Carpaccio. Nel 1806 il monastero fu soppresso dalle leggi napoleoniche, e molti dei beni rimasti andarono venduti o rubati. E’ il caso della bellissima tela raffigurante Le nozze di Cana, opera di Paolo Veronese (1563), dipinto pensato in relazione allo spazio palladiano del refettorio, trafugato nel 1797 per volontà di Napoleone e trasferito al Louvre. Solamente pochi monaci ottennero di restare per amministrare il complesso che visse da allora un inarrestabile declino. Main Sponsor w w w.grupposerenissima.it w w w.beninca.com Patrocini PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO w w w.askoll.com w w w.graf icart.it w w w.gardacartiere.com L’impulso a ristrutturare e ripopolare gli spazi del monastero di San Giorgio, che il governo italiano gli affidò in concessione nel 1951, venne dal conte Vittorio Cini che vi costituì la Fondazione Giorgio Cini, dedicata al figlio, con lo scopo di promuovere il ripristino delle architetture monumentali e delle opere d’arte dell’isola di San Giorgio Maggiore e di favorire istituzioni educative, sociali, culturali ed artistiche. La chiesa e alcune adiacenze vennero affidate ai monaci benedettini dell’Abbazia di Praglia (Padova) da cui, dal 2012, la Comunità di San Giorgio è dipendente. Oltre a governarla, i monaci vi applicano in modo moderno il loro precetto “ora et labora”. Hanno infatti dato vita ad un’organizzazione non-profit, la Benedicti Claustra onlus che organizza mostre ed eventi per finanziare i restauri dei beni architettonici e artistici del monastero di S Giorgio e dell’Abbazia di Praglia. w w w.vg7.it E’ in quest’ottica che nasce il progetto “l’Arte salva l’Arte” che in occasione della 56°Esposizione Internazionale Biennale d’Arte All the World’s Future di quest’anno, ha deciso di ospitare come imponente evento collaterale due sculture dell’artista spagnolo Jaume Plensa. Una grande testa umana in rete d’acciaio posta nella navata centrale della Basilica dialoga con un’altrettanto grande mano sospesa sotto la cupola, composta dalle lettere di 8 diversi alfabeti. Le due opere instaurano tra loro un discorso spirituale e intellettuale che coinvolge anche il prezioso codice miniato posto dietro l’altare. La fusione delle differenze è, del resto, un aspetto fondamentale del lavoro di Plensa, sottolineato anche dai disegni e dai ritratti in alabastro esposti nella Manica Lunga, a trecento metri dall’ingresso della Basilica. In entrambi gli spazi, le forme di Plensa hanno come obiettivo di collegare fra loro persone di fedi diversi o prive di fede. Per ottenere questa ospitalità, due gallerie che rappresentano Plensa, una di New York e una di Parigi, hanno elargito una donazione al monastero. E naturalmente anche il pubblico che accede gratuitamente alla mostra e alle visite guidate all’Abbazia, può lasciare un’offerta. Il ricavato andrà al restauro di alcuni preziosi codici miniati del Quattro e Cinquecento, così come nel 2011 l’istallazione dell’indiano Anish Kapoor servì al restauro di una tela di Tintoretto e quella del 2013, dell’inglese John Pawson, per il restauro della statua di S. Giorgio che sta sopra la cupola della Basilica. Giovanna Grossato [3] Forte di Fortezza - Panorama 50x50x50 ART SÜDTIROL 2015 L` a r t e i l l u m i n a i l F o r t e d i F o r t e z z a L u c a M a s i e ll o Georg Hofer foto di D alla metà dell’Ottocento svetta in tutta la sua maestosità all’ingresso della Valle Isarco: un complesso imponente, spaventoso per certi versi, un gigante silenzioso e ricco di mistero che sembra osservare con mille occhi tutta la vallata; un luogo per moltissime generazioni inaccessibile, che ha dato vita a leggende, timori, per quasi due secoli difeso a vista da cannoni e uomini armati che hanno cambiato diverse uniformi, nonostante dalle sue mura non sia mai stato esploso neppure un colpo d’arma da fuoco. È la fortezza asburgica di Fortezza, in tedesco “Franzensfeste”, letteralmente la "fortezza di Francesco" in onore dell’imperatore Francesco I che la fece costruire per per tentare di mettere in sicurezza due delle vie di comunicazione più importanti dell’impero, la Val Pusteria e la strada del Brennero. Dall’esercito austroungarico venne poi impiegata da quello italiano fino all’apertura delle frontiere nei primi anni Novanta del secolo scorso, e quando i soldati – che la utilizzavano come polveriera – abbandonarono la struttura, qualche anno fa i pesanti cancelli che la delimitavano si spalancarono per la popolazione civile. Che fare di questa cattedrale [4] Andreas Zingerle | 2013 Peter Kaser | 2013 nel deserto di 65 mila metri quadrati che sorge su un chilometro quadrato? Semplice: temperare l’aura di guerra in arte, e vista imponenza del forte, farlo alla grande, con un’esposizione capace di mettere in luce i talenti altoatesini denominata “50x50x50 ART SÜDTIROL”, una biennale che nell’estate di quest’anno, dall’11 luglio al 12 settembre, celebrerà la sua terza edizione. L’idea è venuta ad Hartwig Thaler, un artista di Bressanone, un paese che sorge all’ombra della struttura. Thaler, dopo la smilitarizzazione della fortezza, vide in quegli spazi una location ideale per una grande esposizione. Era il maggio del 2011 quando venne inaugurata la prima edizione di “50x50x50 ART SÜDTIROL” e gli oltre 3 mila e 500 visitatori confermarono l’idea vincente di sfruttare la struttura asburgica ai fini museali. “L’idea iniziale era quella di utilizzare il sito per offrire agli artisti locali l’occasione di esporre in una cornice così maestosa, ma soprattutto di abbattere quel muro che a volte nell’ambiente artistico crea divisioni. Questa era l’opportunità per unirci e creare qualcosa assieme”, spiega Hartwig Thaler. Gli esordi non sono stati facilissimi: le difficoltà burocratiche hanno segnato gran parte del lavori di organizzazione, così come la reperibilità di fondi. Poi l’artista brissinese si è incontrato con i vertici dell’associazione culturale “OPPIDUM”, che gestisce di fatto le attività legate al forte, principalmente le visite guidate, e in loro ha trovato il primo sostenitore privato. Anche quest’anno, dunque, per 50 giorni, in 50 stanze, 50 artisti (un po’ di più, a dire il vero…), espongono le loro opere. La mostra non si presenta con un tema definito, preferendo dare spazio principalmente alla personalità di ciascun artista e al suo modus operandi libero da vincoli. Ognuno di loro, dunque porta il suo Manfred Mureda | 2011 [5] “mondo”, il suo messaggio così che la collettiva spazia dalle forme combinate ai progetti interattivi, in varie modalità espressive. Si va dai linguaggi contemporanei e attualissimi alle tipologie della tradizione artistica locale, ai dipinti in stile “classico” alle performance, alle istallazioni video, alle fotografie, ai collage concettuali, alle sculture realizzate in tecniche tradizionali. L'intensità, la varietà e l'originalità delle opere esposte permettono un'ampia visione panoramica sull'operato artistico dell'Alto Adige ed il susseguirsi delle grandi sale della fortezza asburgica, poi, marca in modo significativo ed accentua i passaggi delle varie tendenze. Sonia Hofer | 2013 Ecco dunque i protagonisti dell’edizione 2015 di “50x50x50 ART SÜDTIROL”: Oswald Auer, Rosmarie Burger, Peter & Kyra Chiusole, Monika Costabiei, Walter Dalfovo, Markus Damini, Erich Dapunt, Erwin Dariz, Arno Dejaco & Manuel Ferrigato, Josef h Delleg, Stefano Favoretto, Markus Gasser, Sonya Hofer, Ursula Huber, Johannes Inderst, Erika Inger, Wil-ma Kammerer, Peter Kaser, Harald Kastlunger, Markus Keim & Beate Hecher, Markus Kiniger, Lars Klauser, Hans Knapp, Arthur Kostner, Giancarlo Lamonaca, Ivan Lardschneider, Ivo Mahlknecht, Johanna Meßner, Markus Moling, Gilo Moroder, Werner Moser Dorfmann, Manfred Mureda, Martin Pardatscher, Hubert Patscheider, Leander Piazza, Marco Pietracupa, Edith Plattner, Christiane Raich, Flavio Senoner, Sergio Sommavilla, Thomas Sterna & Pascal Lampert, Maria Stockner, Martina Stuffer Tarhan, Sara Stuflesser, Georg Tappeiner, Hartwig Thaler, Oskar Verant, Peter Paul Verwunderlich, Hannes Vonmetz, Maria Walcher, Ruediger Witcher, Wolfgang Wohlfahrt e Andreas Zingerle. Johanna Messner | 2013 Maria Walcher | 2013 Ciascuno di loro propone una particolarità e tutti insieme confermano la ricchezza dei linguaggi artistici del territorio, dando nel contempo dimostrazione della capacità dell’arte di far convivere armonicamente le varie voci la cui somma risulta infine più preziosa e pregnante di ognuna presa singolarmente. 50x50X50 ART SÜDTIROL 11.07.2015 - 12.09.2015 FORTE di FORTEZZA www.artsuedtirol.it Peter Chiusole | 2013 [6] Un gruppo di artisti dell’edizione 2011 di “50x50x50 ART SÜDTIROL [7] I COLORI DELL’OSCURITA’ foto di Alessandro Molinari “ Visitai Federico Bonaldi nel suo laboratorio soltanto in un paio di occasioni, rimanendone sempre affascinato. Fu dopo la sua morte, quando mi fu affidato l’incarico della documentazione fotografica, che iniziai a frequentarne regolarmente il laboratorio e l’opera. Ogni volta che entravo in quel luogo misterioso e familiare, le sensazioni erano fortissime, ne ero turbato e mi sentivo un intruso. Ricordavo e immaginavo come si muoveva all’interno di quegli spazi, nel silenzio assordante esaltato dal rumore del fiume che l’aveva sempre accompagnato, e in quel silenzio percepivo il moto della sua assenza. Mi rendevo conto che non stavo fotografando un ambiente, ma la vita di una persona che per cinquant’anni aveva lavorato in quelle stanze dalla mattina alla sera, sette giorni su sette, trecentosessantacinque giorni l’anno. In quel periodo leggevo Libro d’Ombra di Junichiro Tanizaki, un breve saggio che affronta il tema dell’estetica asiatica in rapporto a quella occidentale, e mi domandavo se Federico avesse conosciuto questo scritto, poiché nelle riflessioni di Tanizaki ritrovavo Bonaldi. Altare dello sciamano | 2007 Refrattario colorato in pasta, legno, filo di rame [8] Nel tessere l’elogio delle ombre, Tanizaki riflette sul fascino tutto occidentale, teso alla ricerca della chiarezza e della distinzione, per la luce che inonda e colpisce, per l’illuminazione diretta e potente, mentre l’estetica asiatica, specialmente quella Giapponese, preferisce la vaghezza dell’ombra, la luce filtrata, mai precisa, mai forte. Il gusto del lontano oriente predilige debolezza e frammentazione nella luce che smorza i toni più accesi, attenua i confini, non svela mai tutto e subito, ed è in grado di evidenziare dettagli e finiture che solo [9] Malattia di mia madre | 1989 Refrattario, porcellana, legno, ferro Ego | 1989 Refrattario, legno, ferro vari gradi di oscurità, buio, penombra o la sovrapposizione delle ombre stesse possono rivelare. L’ombra esalta la patina del tempo sulle cose, non il loro smalto o la brillantezza; è in armonia col concetto di imperfezione e fragilità che permea la vita, e la bellezza è ciò che può trapelare, non ciò che si offre immediatamente allo sguardo. Quest’opera ha decisamente influenzato il mio lavoro e credo di averci trovato la chiave per fotografare l’opera di Federico Bonaldi. Le sculture parlano già da sole e, personalmente, oltre alla foto didascalica che ha valore documentario per l’archivio, credo non vi sia alcuna necessità di farle vedere. Inoltre, non vorrei nemmeno interpretarle. La mia intenzione è, semmai, di riuscire a trasmettere pensiero e anima di chi ha creato l’opera, di come l’ha immaginata creandola: vorrei fotografare l’opera nella mente dell’artista. Sono principalmente un ritrattista, non un fotografo di still life, e considero queste fotografie dei ritratti di Federico. La scelta di non svelare completamente, perché rimanga qualcosa di indefinito, è motivata anche da un senso di protezione nei confronti dell’artista che tradirei svelando del tutto il suo lavoro. [ 10 ] senza titolo | 1976 Refrattario [ 11 ] Le immagini che creo sono di non facile lettura; stimolano e invitano non solo a vedere, ma a guardare e a scoprire. Luci e ombre rivelano e nascondono: siamo sollecitati ad avvicinarci, con cautela e circospezione, con curiosità e timore, per poter cogliere ciò che può trapelare, per scoprire un dettaglio, svelare una finitura; attraverso i colori dell’oscurità i sensi possono dilatarsi e amplificare l’immaginazione che è in noi. “Per cominciare, spegniamo le luci. Poi, si vedrà.” (Junichiro Tanizaki - Libro d’Ombra).” Federico Bonaldi, nato a Bassano del Grappa (VI) nel 1933, frequentò dal 1948 al 1951 l’Istituto d’Arte per la Ceramica di Nove con il magistero di Andrea Parini e poi l’Istituto d’Arte di Venezia dal 1954 al 1956. Dall’anno seguente apre un suo laboratorio e inizia a collaborare con industrie della ceramica in Italia e all’estero, tenendo work shop e conferenze in scuole e musei. Con la sua attività di ceramista, insieme a Giuseppe Lucietti, Pompeo Pianezzola, Cesare Sartori e Alessio Tasca, contribuisce al rinnovamento della tradizione ceramica veneta già a partire dall’inizio degli anni Cinquanta e nel decennio seguente inizia a ottenere ampi riconoscimenti sia in Italia che all’estero, con decine di mostre personali e collettive in tutto il mondo. Alcune sue opere fanno parte di collezioni di musei in Italia, Germania, Giappone e Svizzera. Nel 1964 viene invitato alla Biennale d’Arte di Venezia e, nuovamente, alla 54° edizione del 2011, per il Padiglione Italia e a Palazzo Grimani. Dagli anni Ottanta realizza opere in argilla refrattaria, porcellana e grès con cui raggiunge effetti di sorprendente policromia e per le quali è apprezzato in Italia, Germania, Francia e, soprattutto, in Giappone. Noto anche per le sue “ceramiche fischianti”, i famosi cucchi, Bonaldi amava infatti definirsi un “cucaro” fin da quando, più di una trentina d’anni, fa aveva ripreso a realizzare questa antica tradizione ceramica che era rimasta ormai appannaggio di qualche anziano, abile a manipolare l’argilla fino a renderla sonora. Alcune sue ceramiche sono conservate nelle collezioni del Museo della Ceramica di Nove e nel 1996 gli era stato conferito il Premio Cultura Città di Bassano. Oltre ad essere presenti in numerosi musei, i suoi lavori sono stati pubblicati nel volume Ceramica italiana del Novecento edito da Electa e curato da Franco Bertani e Jolanda Silvestrini. La civiltà contadina, con il suo ricco patrimonio culturale attento al mondo della natura, costituì per lui, fin da giovanissimo, un modello da cui trarre ispirazione. «Non ho mai voluto andarmene dal mio territorio – ebbe a dire nel corso di un’intervista - Mi veniva suggerito dal mercato seguire uno stile “d’avanguardia”. Ma le avanguardie storiche appartengono agli inizi del Novecento che non ero interessato a ripetere”. Bonaldi rimase infatti legato al suo paese, alla propria personalissima creatività, al suo studio-museo appollaiato sopra il Brenta, aperto agli amici in qualsiasi momento, nel quale si recava come per un rituale quotidiano capace di tenerlo in contatto con il ricco patrimonio di valori artistici e umani cui aveva sempre fatto riferimento nel lavoro e nella vita e cui ha tenuto fede fino alla morte, avvenuta nella sua casa di Bassano nell’agosto del 2012. 13 Giugno – 18 Ottobre 2015 Museo Civico di Bassano del Grappa ( VI) Palazzo Sturm Bassano del Grappa ( VI) Museo della Ceramica di Nove ( VI) www.alessandromolinari.com [ 12 ] Astarotte | 1989 Refrattario, ferro [ 13 ] Martinelli Studio | 2013 foto di Gianni Berengo Gardin Pagina precedente Improvvisamente Valentina | 2008 Tecnica mista su tavola cm 75 x 114 S traordinario disegnatore, Andrea Martinelli (Prato 1965) nelle sue opere percorre un pellegrinaggio minuzioso nei meandri mentali del ritratto. I suoi quadri, sebbene ad uno sguardo rapido potrebbe sembrare il contrario, sono forme di riflessione molto complesse che rifuggono dalla pittura fotografica e da quella iperrealistica e sono da annoverare nella nuova scena artistica internazionale in cui le tecniche tradizionali sono controbilanciate da visioni contemporanee. Andrea Martinelli R if lessioni sulla realtà Martina Gecchelin [ 14 ] I suoi lavori sono “monumenti” all’Uomo, le pennellate morfologiche, raffinate e puntuali colgono tutte le sfaccettature semantiche e i tratti distintivi di ogni volto per superarle, andare oltre i caratteri del singolo ed aprirsi al valore ideale e universale del genere umano. Martinelli conferisce così struttura e solidità ai visi anonimi, comuni, scava dietro la maschera che ogni individuo indossa per arrivare alla sua essenza, usando anche il virtuosismo tecnico di una sottile esagerazione. I tratti del viso si affilano impercettibilmente, le prospettive si avvicinano, le pose appaiono sovraccaricate e le dimensioni si moltiplicano. Al contempo, il colore è ridotto a un cromatismo caldo, a volte impregnato di luce, altre avvolto nell’ombra della notte. L’attenta semplificazione decorativa delle composizioni lascia cadere ogni artificio ed orpello conferendo respiro ai personaggi che conservano una convincente impressione di naturalezza nonostante appaia evidente che gli individui rappresentati dall’artista non siano idealizzati né abbiano l’aria di essere ritratti direttamente dal vero. I personaggi di Andrea Martinelli dunque sono figure familiari che riconosciamo come presenze della nostra cultura, fanno parte della nostra quotidianità ma nello steso tempo sono figure ancestrali, [ 15 ] Ecce Nonno | 2007 Tecnica mista su tela cm 300 x 200 Volto del Grande Nonno 4 | 2005 Olio su tavola cm 172 x 112 memorie silenziose di cui riusciamo a percepire soltanto un’eco distante. Vengono da lontano, probabilmente iniziano il loro cammino nelle corti e nelle strade del Rinascimento fiorentino, per approdare negli ospizi e negli atelier del nostro secolo. Sono il frutto della formidabile ricerca di mestiere compiuta dall’artista, che risale alle fonti della tradizione pittorica italiana e tedesca del disegno senza mai perdere di vista le avanguardie contemporanee. Il suo è un percorso originale che amalgama fra di loro continui rimandi e citazioni, muovendosi nel tempo un po’ come l’incedere di un’altalena: come quest’ultima oscilla dall’epoca di Leonardo e DÜrer sino alla Nuova Oggettività di Schad, costeggiando Giacometti, Bacon e Lucian Freud e, compiendo il tragitto inverso, tiene insieme l’approccio figurativo di Klimt e Schiele spingendosi fino al lucido realismo di Lopez Garcia. con quell’aria di supremazia di pensiero, gli sguardi fissi, ieratici, come sculture lignee duecentesche dal colore sbiadito. Come ad esempio nel quadro Uomo col maglione (2007) in cui nulla appare al di là della precisione lenticolare che ne rileva posa e costumi e ne documenta tutti i segni lasciati dal tempo, eppure si intravede il mistero del vissuto nelle increspature intorno agli occhi, alla bocca e alla ciclica metamorfosi che tutti coinvolge. Martinelli, abile regista, crea nei suoi quadri un’atmosfera sospesa, misteriosa, terribile ma affascinante, in cui si coglie un senso dell’attesa di metafisica memoria. I suoi personaggi emergono da un fondo neutro ed opalescente come se uscissero dalle tenebre per irradiarsi verso la luce. Stanno lì in piedi, silenziosi, [ 16 ] Attratto dai volti deformati dal tempo, a parte rare eccezioni, per logica conseguenza l’artista preferisce ritrarre soggetti anziani, scegliendo tra loro quelli il cui viso è maggiormente raggrinzito (non a caso il titolo della sua prima mostra del 1992 è Senescenze). Lo si nota anche in Le Gilde (2011) dove la protagonista (la Gilda appunto), è fotografata davanti al quadro da Gianni Berengo Gardin e si trova attorniata, protetta dalle sue trasposizioni pittoriche che si stagliano maestose in grandezza osservando l’astante attraverso la loro filatura chiaroscurale. Un’altra opera che contiene i caratteri tipici dell’arte di Martinelli è La bocca (2013), un autoritratto di grandi dimensioni entrato a far parte della Collezione degli Autoritratti della Gal- Volto-Ombra 2 | 2005 Olio su tavola cm 67 x 49 [ 17 ] L’uomo che aveva ombre crudeli | 2004 Olio su tavola cm 110 x 70 Pagina seguente Uomo con la barba | 2008 Olio su tavola cm 120 x 60 La signora con la camicia a righe | 2007 Tecnica mista su tela cm 180 x 120 leria degli Uffizi di Firenze, dipinto con un realismo pittorico che presenta più di un’astrazione. Qui il viso dell’artista è sovrapposto a un più grande volto di donna, dalla cui bocca, sembra fuoriuscire. I due soggetti hanno gli occhi chiusi, imperturbabili mentre ragni dalle zampe esili si arrampicano sulle loro guance. La gamma tonale ridotta, il colore polveroso, che si sfarina appena rischiarato da una luce fioca, crea un’atmosfera di silenziosa, intensa solennità. Ed è proprio in questa apparente e rarefatta semplicità che si muove l’inusuale sapienza creativa di Andrea Martinelli, capace di coniugare una pittura antica quando si occupa solo di volti, contemporanea invece quando tratteggia figure intere con cappotti, maglioni, giacche, cravatte, scialli e abiti quadrettati. Galleria d’arte Nino Sindoni Viale Matteotti 44/8 36012 Asiago ( VI) www.ninosindoni.com Associazione Alberto Buffetti [email protected] [ 18 ] [ 19 ] H Pollock & Pollock alla Collezione Peggy Guggenheim anno preso l’avvio il 23 aprile 2015 presso la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia due mostre che si inseriscono in un più articolato progetto espositivo con cui la Collezione Peggy Guggenheim vuol rendere omaggio nel corso del 2015 ai fratelli Jackson e Charles Pollock. Dopo Alchimia di Jackson Pollock. Viaggio all’interno della materia (14 febbraio – 6 aprile), le rassegne Charles Pollock. Una retrospettiva (23 aprile – 14 settembre) e Jackson Pollock, Murale. Energia resa visibile (23 aprile – 16 novembre) pongono l’accento, rispettivamente, la prima sulla figura di Charles, forse meno nota al grosso pubblico ma non meno interessante del fratello minore Jackson Pollock, il celebre protagonista dell’Espressionismo astratto americano; la seconda su una delle opere più spettacolari di Jackson, dopo un importante restauro, il Murale (proveniente dall’ University of Iowa Museum of Art, Iowa City) che l’artista realizzò per l’appartamento newyorkese di Peggy Guggenheim, committente dell’opera, tra l’estate e l’autunno del 1943. La ricca retrospettiva su Charles Pollock, a cura di Philip Rylands, direttore della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, è certamente la più esaustiva mai realizzata sull’artista ed è diretta a documentarne la carriera attraverso oltre 120 opere, tra dipinti, schizzi, diRoma Otto | 1962 Charles Pollock Olio su tela Collezione privata, Monaco © Charles Pollock Archives segni, fotografie e testimonianze in gran parte inediti, concessi dall’Archivio Charles Pollock di Parigi, dalla moglie dell’artista Sylvia Winter Pollock e dalla figlia Francesca Pollock. Alcune opere di Jackson Pollock, di Thomas Hart Benton, maestro sia di Charles che di Jackson, e un raro dipinto di Sanford Pollock, fratello dei due artisti, completano inoltre la sezione dedicata alla fase giovanile della carriera di Charles a New York e Washington. La mostra è l’occasione unica di poter vedere lavori provenienti da importanti istituzioni pubbliche e collezioni private mondiali mai esposti prima e attraverso lettere, riproduzioni fotografiche e bozzetti illustra lo stretto rapporto intimo e privato che lega i membri della famiglia Pollock prima della seconda guerra mondiale. La storia di Charles Pollock (Denver 1902 – Parigi 1988) è estremamente interessante e incarna a suo modo un “secolo americano”. Maggiore dei cinque figli di LeRoy e Stella Pollock, si trasferisce a New York nel 1926, dove studia arte con Thomas Hart Benton, e nel 1930, insieme al fratello Frank, convince il più giovane Jackson a raggiungerli. Compie i suoi primi studi alla Art Students League, impegnato socialmente e vicino alla corrente figurativa del Regionalismo. Negli anni ’30 realizzerà un murale per la Works Progress Administration, la più grande agenzia del New Deal. Nel 1935-‘36 lascia New York per trasferirsi a Washington, DC, dove lavora per la Resettlement Administration, agenzia federale legata al New Deal, scelta questa che lo allontana da quel gruppo emergente di artisti avanguardisti newyorkesi, che stava portando il fratello Jackson alla scoperta di un nuovo tipo di arte. Una crisi nei confronti Senza titolo [Fuochi d’artificio] | 1950 Charles Pollock Guazzo su carta montata su pannello Collezione privata, Monaco © Charles Pollock Archives Peggy Guggenheim e Jackson Pollock davanti al Murale | 1943. © Foto George Kargar [ 20 ] [ 21 ] Murale | 1943 Jackson Pollock Olio e caseina su tela cm 242,9 x 603,9 Donazione Peggy Guggenheim, 1959. University of Iowa Museum of Art. Riproduzione concessa dalla University of Iowa Omaggio al Messico | 1955 Charles Pollock Collage Collezione privata © Charles Pollock Archives della pittura figurativa nel 1944, immediatamente successiva al completamento del murale per l’Università del Michigan, East Lansing, lo sposta verso un linguaggio pittorico astratto. Dopo un periodo come insegnante di design e tipografia in Michigan, nel 1950 realizza il suo primo grande dipinto astratto Fuochi d’artificio. Nel 1956 produce il primo sostanzioso corpo di opere, la serie Chapala, ispirata a un lungo soggiorno sul lago Chapala in Messico. Tra il 1962-’63 prende un anno di aspettativa dall’insegnamento, e viaggia in Europa, primo dei fratelli a recarsi nel Vecchio Continente. Facendo base a Roma, scopre i grandi maestri classici dell’arte italiana e conosce artisti come Piero Dorazio, Giulio Turcato, i fratelli Pomodoro, James Brooks e Giorgio Cavallon. Realizza in questo periodo una nuova, consistente serie di dipinti astratti, la serie Roma. A metà degli anni ’60, si lega movimento avanguardista conosciuto poi come Color-field, caratterizzato da una pittura a campi astratti di colore molto estesi su tela di canapa che continuerà a dipingere anche dopo il suo trasferimento a Parigi nel 1971, dove trascorrerà il resto della sua vita, fino al 1988, anno della morte. La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Marsilio, in italiano e inglese, con un saggio di Terence Maloon e una raccolta di lettere della famiglia Pollock, selezionate e commentate da Kirstin Hübner. Jackson Pollock, Murale. Energia resa visibile, a cura di David Anfam, è invece un’esposizione itinerante dedicata al Murale re- [ 22 ] alizzato per Peggy Guggenheim. Per la prima volta in Italia dopo un importante restauro, l’opera, lunga 6 metri, è la più grande mai eseguita da Pollock e vanta di aver introdotto nell’Espressionismo astratto americano una nuovo concetto di scala, anticipando le astrazioni successive, rese con la tecnica dello “sgocciolamento”. Il contesto all’interno del quale è inserito il Murale comprende l’opera Alchimia, nonché opere di artisti come Lee Krasner, moglie di Pollock, David Smith e Robert Motherwell. La mostra – che dopo la tappa veneziana, sarà esposto alla Deutsche Bank Kunsthalle di Berlino e poi al Museo Picasso di Malaga - getta anche una luce nuova e fondamentale sul rapporto tra Pollock e la fotografia d’azione praticata da un gruppo di fotografi quali Herbert Matter, Barbara Morgan, Aaron Siskind e Gjon Mili. Jackson Pollock (1912-56) è forse l’artista più significativo nella storia dell’arte, non solo Americana, del XX secolo e Peggy Guggenheim è colei che lo ha scoperto e ne ha determinato il successo. Peggy lo conobbe tra il 1942 e il ‘43 grazie a Sebastian Matta, pittore surrealista cileno, James Johnson Sweeney, curatore del MoMA e futuro direttore del Museo Solomon R. Guggenheim, e Howard Putzel, amico, critico e gallerista. Ma fu un altro amico a convincerla del genio di questo artista allora pressoché sconosciuto: Piet Mondrian, in esilio a New York e giurato di una collettiva organizzata nella primavera del ‘43 nella galleria di Peggy. Nel luglio del ‘43, l’artista firma un contratto con la galleria di Peggy che gli garantisce, unico arti- La donna luna (The Moon Woman) | 1942 Jackson Pollock Olio su tela cm 175,2 x 109,3 Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. © Jackson Pollock, by SIAE 2015 sta a New York, uno stipendio. Arrivando a Venezia alla fine anni ‘40, Peggy porta con sé le opere di Pollock con la consapevolezza di esportare un’assoluta novità artistica. Nel 1950 la collezionista gli organizza una mostra al Museo Correr, la sua prima personale in Europa. I critici Bruno Alfieri, Oreste Ferrari e Giuseppe Marchiori aiutano Peggy nell’organizzazione, e in tre settimane, tra luglio e agosto, la mostra accoglie oltre 10.000 visitatori. A Palazzo Venier dei Leoni rimangono oggi undici opere di Pollock, componenti cruciali della storia dell’arte del ‘900. Anche questa mostra è accompagnata da un’esaustiva pubblicazione di David Anfam, edita da Thames & Hudson in italiano e inglese. Vagoni ferroviari | 1934 c. Charles Pollock Inchiostro e acquerellatura su carta Collezione privata © Charles Pollock Archives Collezione Peggy Guggenheim Palazzo Venier dei Leoni Dorsoduro 701, Venezia www.guggenheim-venice.it [ 23 ] C hi, come la Dott.ssa Dorothea van der Koelen, ha il vantaggio di attingere da un passato ricco di avvenimenti, guarda con ottimismo al futuro. La gallerista, che 35 anni fa ha fondato una galleria d'arte a Magonza, da oltre dieci anni gestisce con successo la sua dépendance nella città di Venezia. Rappresentando contemporaneamente una porta verso l'Oriente e un ponte verso le Alpi, questa città si è contraddistinta negli ultimi decenni come importante centro culturale europeo. Numerose gallerie, fondazioni e musei privati hanno aperto qui una seconda sede, per fruire dello scambio annuale tra Biennale d'arte e di architettura. In questo emozionante contesto socio-culturale Dorothea van der Koelen si è assicurata, lavorando strategicamente tra Magonza e Venezia, una selezione di artisti davvero interessante. "La Galleria di Dorothea van der Koelen", secondo Philip Rylands, direttore della Collezione Peggy Guggenheim, "è la migliore galleria internazionale di Venezia". In occasione della Biennale d'Arte 2015, con la mostra Towards the future La Galleria volge il suo sguardo al futuro, interrogandosi su come la creazione artistica possa mantenere una validità sostenibile nell'era della rivoluzione digitale e quali nuove strade possa l'arte esplorare. Con grande anticipo La Galleria ha scelto un tema coerente a quello presentato dal direttore artistico della Biennale Okwui Enwezor, intitolato All the world’s futures, ovvero: in che modo le diverse realtà che fanno parte di questo mondo si aspettano, pianificano e implementano il proprio futuro? Dorothea van der Koelen esibisce una selezione di opere scelte tra quelle presentate per la prima volta il 1° novembre 2014 nella CADORO, il suo nuovo centro culturale a Magonza. L’installazione After here & there, dell’artista concettuale americano Lawrence Weiner (*1942), posta nella parete frontale della galleria veneziana, funge da pars pro toto per l’intera mostra. Il costante impegno di Weiner nel ricercare nuove vie per l'arte contemporanea è oggi più attuale che mai. L’artista ha presentato alla 55 ° Biennale nel 2013 l'evento collaterale The Grace of a Gesture: questa scritta, riprodotta in dieci lingue diverse, dal cinese all’arabo e all'ebraico e posizionata sui Vaporetti ha interagito con la città lagunare. Il motivo conduttore dell’opera di Weiner, Tempo-Spazio-Esistenza, è utilizzato anche dall’artista arabo Mohammed Kazem (*1969). Per La Biennale d'Arte 2013, Mohammed Kazem ha allestito con Walking on Water il padiglione degli Emirati Arabi Uniti e ha portato avanti l'esperienza Pagina precedente: Towards the future 3 5 Ye a r s o f G a l e r i e D o r o t h e a v a n d e r K o e l e n M a i n z | Ve n e z i a Petra Schaefer [ 24 ] Zick-Zack | 2015 Lore Bert Carta giapponese e foglia d’oro cm 180 x 180 Golden Ornament | 2015 Lore Bert Carta giapponese e foglia d’oro cm 180 x 180 Lilies in Black | 2014 Lore Bert Carta giapponese e foglia d’oro cm 180 x 180 Cadre décadré - 12 B5 (violet) | 2006 Daniel Buren Acciaio, plexiglass, filtri trasparenti, adesivo cm 113,1 x 113,1 [ 25 ] della Biennale attraverso l'opera Triangle, donata dall'artista alla Fondazione van der Koelen per l'Arte e Scienza. Nella sua installazione a parete si intrecciano numeri bianchi di diverse grandezze, rappresentanti coordinate geografiche che sembrano brillare su uno sfondo blu. L’opera sarebbe dovuta essere presente a Venezia ma è stata sostituita dalla serie Fixing Nothing, scoperta da Dorothea van der Koelen nell'atelier di Kazem durante la sua recente visita negli Emirati Arabi Uniti con gli International Patrons del Guggenheim Museum. “Le opere in metallo di Mohammed sono un contributo ideale al tema del futuro” dice la gallerista, infatti “in un mondo digitale dove niente è più tangibile, nell’arte contemporanea prende forma un ritorno alla materialità dell'opera d'arte." Blanc (White) | 1993 Heinz Gappmayr Acrilico su tela cm 160 x 110 After here & there | 2014 Lawrence Weiner Text installation misure variabili [ 26 ] Per la sua nuova serie, Mohammed Kazem ha scelto l'alluminio, un materiale particolare su cui fissa viti e madreviti di colore diverso. La gallerista tedesca ha scoperto Kazem in uno dei sui molti viaggi negli Emirati insieme all'artista Lore Bert (*1936), che nel 1999 fu invitata come artista emerita alla Biennale di Sharjah. Dopo il notevole successo della mostra Art & Knowledge di Lore Bert come evento collaterale alla Biennale 2013 (che ha registrato nella Biblioteca Marciana di San Marco oltre 100.000 visitatori), l'artista presenta quest'anno due opere in carta nella mostra collettiva Personal Structures – Crossing Borders a Palazzo Bembo. Le opere di Bert per La Galleria sono caratterizzate da un nuovo colore: l’artista, imbevendo la delicata carta giapponese di un luminoso color magenta, invia un segnale di positività nel contesto di Towards the future. Il quadro in grande formato Golden Ornament - Ornamenti d'oro (180 x 180 cm) è esposto sul muro frontale della Galleria, quasi a concludere il complesso di opere presentate per questa Biennale. L'opera, nonostante l'elemento di fragilità rappresentato della carta, offre attraverso i suoi colori forti un energico contrappunto al lavoro in metallo di Mohammed Kazem presente sulla parete opposta. Nella sala principale de La Galleria saranno presentate inoltre opere di tre artisti che quest'anno festeggiano un compleanno speciale. Come omaggio all'artista austriaco Heinz Gappmayr (* 1925 - † 2010), noto rappresentante della poesia visiva, Dorothea van der Koelen ha scelto il lavoro Blanc del 1993 (160 x 110 cm), in cui lo sfondo pittorico bianco diventa parte centrale dell'opera; sul bordo, in modo quasi impercettibile, Fixing Nothing (Red and Yellow) | 2015 Mohammed Kazem Viti e madreviti in acciaio su alluminio cm 120 x 120 x 9 sono dipinti i contorni della parola Blanc. Il colore bianco come somma di tutte le possibilità e come simbolo del futuro è anche al centro delle stampe in rilievo dell'artista tedesco Günther Uecker (* 1930), che quest'anno festeggia il suo 85° compleanno. Al centro della sala principale è esposta la leggendaria opera bibliofila Graphein (70 x 50 cm) del 2002, un libro composto da 12 stampe in rilievo di Günther Uecker, accompagnati da una selezione di testi calligrafici particolarmente noti provenienti da varie culture. Il chiodo, che appare come unica astrazione artistica possibile nell'arte della star del gruppo ZERO Günther Uecker, è mostrato nell'opera Strömung - Corrente (120 x 80 cm) del 2000. Come in ogni mostra collettiva de La Galleria, non può mancare anche questa volta l’artista multimediale veneziano d'adozione Fabrizio Plessi (*1940). Già nel 2011 La Galleria ha ospitato una mostra individuale su Plessi e nell'autunno 2015, in occasione del 75esimo compleanno dell'artista, la CADORO di Magonza gli dedicherà un Solo-Show. Parallelamente all'esposizione di La Barca, una video-scultura di 6 metri di altezza nel foyer d'ingresso della CADORO, uno dei suoi celebri disegni-progetto sarà in mostra anche a Venezia. Alla ricca famiglia di artisti internazionali rappresentati da Dorothea van der Koelen, appartiene anche Daniel Buren (*1938), che nella mostra Towards the future esporrà l'opera 12 B 5 (violet), della famosa serie Cadre décadré del 2006. La cornice quadrata in acciaio (113,1 x 113,1 cm) è composta da quadrati in plexiglass contenenti strisce bianche verticali che si alternano a quadrati trasparenti in rosa scuro. L'opera è conforme alla regola tipica di Buren secondo cui le grandezze devono essere proporzionali a 8,7 cm. Come afferma il Prof. Wulf Herzogenrath, il lavoro di Buren è particolarmente significativo "perché esamina parallelamente le condizioni generali dell'arte." Questo confronto creativo tra apparire - sembrare - scomparire colloca Daniel Buren nel contesto futuristico della mostra Towards the future. Nelle stanze de La Galleria saranno presentate altre opere tra cui oggetti in vetro acrilico di Hellmut Bruch (* 1936), le Ergänzungen di Vera Röhm (* 1943), opere in cera di Kisho Mwkaiyama e un Chaosbox di Arne Quinze (* 1972). Nell'atelier veneziano dell'artista Lore Bert, aperto in occasione dell'inaugurazione della mostra o su richiesta per i visitatori, è esposta la scultura Pyramidenskulptur (28 x 20 x 20 cm) creata dall'artista nel 2015 appositamente per Venezia. Questa elegante scultura di forma rotonda e in color magenta, che sembra galleggiare su una piramide in lacca nera, offre all'osservatore la prospettiva di un futuro davvero roseo. L a Galleria di Dorothea van der Koelen San Marco 2566, 30124 Venezia www.galerie.vanderkoelen.de [ 27 ] Toni Buso Tr a c c i a n d o s o n o r i t à v i s i v e Erik a Ferret to T utto il XX secolo è pervaso da una rivoluzione artistica che scardina le fondamenta dell’estetica: la sfera dell’arte si distingue nettamente da quella della natura e la creazione artistica dipende esclusivamente dagli impulsi interiori del soggetto. Kandinskij nel saggio “Spirituale dell’arte” svincola l’arte dall’esigenza di rappresentare, ogni forma assume un proprio intrinseco contenuto e ha la capacità di agire come stimolo psicologico. Il segno nasce da un impulso profondo dell’artista ed è inseparabile dal gesto che lo traccia. Si sviluppa così un interesse verso il grafismo infantile e il primitivismo. Da qui si aprono un mondo di possibilità che evolvono in varie direzioni. I dipinti di Toni Buso sono un’ interpretazione in chiave personale di molti di quegli input. Una luce chiara e mentale irrora le sue pitture evidenziando una natura iconologica che attinge i suoi soggetti direttamente dal profondo: dalle emozioni, dai ricordi che affiorano alla mente rendendosi visibili e tangibili attraverso l’arte. Riscoprendo la forza espressiva del bambino - nella fase detta dello “scarabocchio” - e dell’arte primitiva, accomunate da una libertà non condizionata dalla necessità descrittiva della realtà, è possibile raggiungere l’essenza delle cose, le forme infatti assumono una valenza fortemente simbolica ed empatica. angelo madre | 2010 Olio su tela cm 154 x 130 Nel dipinto Il cielo in una stanza Buso riesce a tradurre in segno e colore il senso di libertà e gioia del volo dei canarini di Pina - un’anziana amica - che liberamente volteggiano in casa e oltre la finestra aperta sulle mura di Treviso. Dei piccoli e colorati uccellini l’artista rappresenta l’emozione e il ricordo che rimane impresso nella mente, la magia del volo che si traduce in sottili filamenti neri tracciati col pennino e dilatati nello spazio tramite un vivissimo colore giallo. Lacrime di Dimaco | 2014 Olio su tela cm 40 x 40 [ 28 ] Il pedagogista Marco Dallari spiega la potenza espressiva strettamente connessa alla sfera emozionale, attraverso l’esperienza disegnativa di un bambino di tre anni al quale viene chiesto di “raccontare” un lungo viaggio in macchina. Il bambino presa la matita in mano comincia a tracciare un percorso, la matita per lui diventa estensione del suo corpo Storia di un pescatore | 2008 Olio su tela cm 120 x 100 [ 29 ] tinte calde, i gialli, i rossi, si espandono. Attraverso il colore le forme avanzano o arretrano, si sovrappongono creando un gioco di piani e profondità che ovviamente non rispondono alle consuete regole prospettiche ma in ogni caso sviluppano uno spazio fatto di volumi. Nel paesaggio interiore descritto da Toni tutto assume un valore simbolico ed estetico al tempo stesso. La stessa scrittura perde il suo carattere di codice linguistico e si riduce a lettere, che si susseguono, si capovolgono e si girano, creando una compenetrazione tra immagine ed espressione verbale. In Nuvola e bicicletta sopra il monte le parole del titolo seguono le spirali e riempiono le forme e in Sole, nuvole e giocattoli nel monte danno vita a piani sovrapposti. Ma l’aspetto verbale assume sempre più importanza nel ciclo di opere ispirate alla Buona Novella del cantautore Fabrizio De André. L’utilizzo delle lettere s’intensifica tanto che organizzano lo spazio, lo ricoprono. Come in Angelo madre dove occhi, spirali, soli e pesci nuotano in uno sfondo fatto di parole o intere frasi, ovviamente non più leggibili. Se il cantautore riusciva a realizzare una poesia cantata intrecciando musicalità e parole, l’artista può dar vita a un linguaggio visivo in chiave poetica, dove è possibile rintracciare i medesimi ritmi ed equilibri della musicalità sonora. VOce nella colonia di Pina | 2006 Olio su tela cm 146 x 114 Toni Buso vive e lavora a Treviso www.tonibuso.com sole, nuvole e gioccatoli nel monte| 2008 Olio su tela cm 120 x 100 e il gesto che compie è lo stesso effettuato dalla macchina con le curve, le frenate, le accelerazioni o i rallentamenti. Quel gesto, pertanto, è più importante della realizzazione di un disegno figurativo perché racchiude l’essenza dell’esperienza vissuta. Nelle opere di Buso il gesto diventa segno tracciato sul fondo bianco che amplifica e struttura lo spazio della tela, descrivendo il genuino germinare dei pensieri. Questa prima fase eseguita col pennino prosegue poi con dei grossi pastelli fatti di pigmenti compressi di colore, con essi Buso sottolinea alcune forme e parti del dipinto. [ 30 ] Un primissimo intervento di colore puro che serve a impostare gli equilibri e che viene fissato direttamente sulla tela con olio e trementina, regalando al colore un effetto trasparente e luminoso. Se questa gestualità delinea l’anima dell’opera, seguendo tempi veloci nei quali l’emotività si riversa sullo spazio, solo in una fase successiva si dà corpo alla materia colorica, il tempo esecutivo rallenta, si fa calibrato, valutando tutte le possibili velature. Inoltre, è in questa fase che il colore dialoga con le forme: le tinte fredde tendono a contrarsi e a creare profondità mentre le il cielo in una stanza | 2003 Olio su tela cm 150 x 250 [ 31 ] VILLA CA’ ERIZZO LUCA Museo Heming way B assano del Grappa, allo sbocco del fiume Brenta che scende dalle montagne, fu nel 1917-1918 punto di massima resistenza contro i reiterati tentativi austro-ungarici di irrompere nella Piana veneta per travolgere lo schieramento italiano. Poco a nord dal celebre ponte in legno del Palladio, sulla riva est del fiume, sorge Ca’ Erizzo, un’elegante struttura del ’400, oggetto in varie epoce di successivi rifacimenti e abbellimenti. Nel 1918 la villa fu sede della Sezione Uno delle ambulanze della Croce Rossa Americana. Tra quei volontari autisti c’era anche Ernest Hemingway, il cui racconto inedito “MS 843” del 1919 - che racconta del pugile italoamericano Pikles McCarty che si arruola a Ca’ Erizzo con gli Arditi del Grappa, intitolato The Woppian Way o The passing of Pickles Mc-Carty - prende le mosse da questa villa dove pure erano acquartierati gli Arditi. Il complesso, restaurato con intelligenza dall’attuale proprietario, Renato Luca, è ora sede del Museo Hemingway e della Grande Guerra, e ospita inoltre una “Collezione Hemingway” con una vasta documentazione. Il Museo occupa cinque grandi locali situati a livello strada con accesso diretto da essa. La parte espositiva è formata da 58 grandi pannelli, ricchissimi di spiegazioni storiche, di fotografie e di testimonianze. La sua peculiarità, al di là del potere evocatore del grande tragico evento bellico e dell’esauriente illustrazione dei suoi passaggi cruciali, è quella di fornire una testimonianza, unica in Italia, sulla partecipazione degli Stati Uniti alla prima Guerra Mondiale e in particolare quella degli aviatori. Nella sala d’ingresso, Hemingway accoglie il visitatore con i suoi romanzi ispirati dalla Grande Guerra: Addio alle armi e Di là dal fiume e tra gli alberi. Sede prestigiosa di una Fondazione culturale che nel tempo continuerà a studiare e ad approfondire tutto ciò che di inedito e originale già custodisce per valorizzare la presenza di Hemingway in Italia e in particolare in Veneto, Villa Ca’ Erizzo espone quanto la famiglia Luca ha raccolto in anni di paziente ricerca e che include ora,oltre alla vasta documentazione archivistico – fotografica, numerose opere letterarie, in diverse edizioni, in lingua italiana e straniera. Appartengono alla collezione, allestite per offrirne la fruizione ad un pubblico vasto in un importante spazio espositivo, anche una serie di rare e originali riviste che hanno trattato episodi della vita e dell’attività letteraria dello scrittore americano. Ad Ernest Hemingway fu trasmessa dal padre, proprietario di una fattoria nei boschi del Michigan una vibrante passione per tutte le attività legate all’aria aperta, come l’amore per la natura, specialmente quella più selvaggia e incontaminata e anche per la boxe, la pesca e la caccia. Ernest Hemingway soldato Pagina seguente: Villa Cà Erizzo Luca | 1918 Ambulanze Americane Villa Cà Erizzo Luca | 1918 [ 32 ] Nel corso degli anni lo scrittore americano ebbe modo di praticare in molti continenti queste ultime due attività che, come la boxe, esercitavano su di lui una forte attrattiva, come del resto tutte le emozioni forti che caratterizzano anche il suo stile letterario. Per praticarle effettuò lunghi viaggi e permanenze in diversi stati del Nord e Sud America, in Africa, in Asia e in Europa. Per questo motivo fu ripetutamente e lungamente presente in Italia, spesso proprio in Veneto, la cui laguna lo affascinava e dove poteva andare a caccia, ospite del Barone Raimondo Franchetti a Torcello. [ 33 ] In una delle sale del museo, Hemingway accoglie il visitatore in una suggestiva scenografia riprodotto a grandezza naturale in una foto scattata durante l’ultimo dei suoi safari in Africa. Nato a Oak Park, un sobborgo di Chicago, nel 1899, Hemingway era secondogenito di un medico naturista che lo conduceva spesso con sé quando andava a visitare i suoi pazienti nella riserva indiana. La sua precoce passione per la scrittura trovò spazio sui giornali scolastici e, dopo il diploma, si indirizzò al giornalismo nel quotidiano locale, il “Kansas City Star”. Villa Cà Erizzo Luca | 2015 Nel 1917 quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, Hemingway si presentò come volontario per andare a combattere in Europa, come già stavano facendo altri giovani scrittori tra cui E.E. Cummings, John Dos Passos, William Faulkner e Francis Scott Fitzgerald. Escluso dai reparti combattenti a causa di un difetto alla vista, venne arruolato nei servizi di autoambulanza come autista dell’ARC (American Red Cross) destinati al fronte italiano. Interni del Museo Hemingway Giunto a Bordeaux e poi Parigi, proseguì in treno per Milano, dove rimase per alcuni giorni prestando opera di soccorso (a Bollate, dove era stata bombardata una fabbrica di munizioni causando molte le vittime), e poi venne inviato a Vicenza, assegnato alla Sezione IV della Croce Rossa Internazionale americana, presso il Lanificio Cazzola di Schio (VI) cittadina in cui tornò anche nel primo dopoguerra e dove alternava il lavoro di soccorso con bagni nel torrente, partite di pallone con gli amici e la collaborazione, con articoli scritti sotto forma di lettera, ad un giornale intitolato “Ciao”. Inviato nelle vicinanze di Fossalta di Piave, come assistente di trincea con il compito di distribuire generi di conforto ai soldati delle prime linee in bicicletta, venne colpito dalle schegge di un’esplosione e nel tentativo di mettere in salvo i feriti, fu colpito alla gamba destra da proiettili di mitragliatrice che gli penetrarono nel piede e in una rotula. E questo fu l’inizio della permanenza a villa Erizzo. Interni del Museo Hemingway [ 34 ] Negli anni del dopoguerra e fino al 1954, tornò frequentemente in Veneto, a Venezia (era un assiduo frequentatore dell’Harry’s Bar e dell’hotel Gritti) e nell’isola di Torcello, a Cortina e nella laguna di Caorle, dove andava a caccia, ospite di famiglie aristocratiche della zona. Esterno Villa Cà Erizzo Luca | 2015 Fu in tale periodo che scrisse il romanzo Across the River and into the Trees (Di là dal fiume e tra gli alberi) ambientato proprio nei luoghi veneti da lui frequentati. Come scrittore Hemingway raggiunse già in vita una grande popolarità divenendo un mito per le nuove generazioni. Nel nel 1953 ricevette il Premio Pulitzer per Il vecchio e il mare, e vinse il Premio Nobel per la letteratura nel 1954. Il suo stile essenziale e asciutto ebbe una notevole influenza sullo sviluppo del romanzo, non solo americano, del XX secolo. Morì a Ketchum (Idaho), nel 1961. Museo Hemingway Villa Cà Erizzo Luca via Cà Erizzo, 35 36061 Bassano del Grappa ( VI) www.villacaerizzoluca.it [ 35 ] POKENT | 2012 Acciaio mm 100 SYRIMM | 2013 Acciaio mm 100 Le sue sculture in acciaio contraddicono il peso e la forza di cui son fatte, svettando alte ed eleganti verso il cielo, sfidando la legge di gravità e ricordano, nonostante la fredda durezza del materiale di cui son fatte, qualcosa di vegetale. Disegno | 2015 Lacca su lamiera Robert schad Come nasce una mostra V entitreesima rassegna di sculture a Castel Pergine, la mostra di sculture di Robert Schad Gravità Sospesa. Leichte Schwere (Tanz_5).Sculture e disegni, si inserisce in quella che è diventata ormai una tradizione che ha visto proporre al pubblico nello straordinario teatro naturale ed architettonico del Castello alcuni dei più prestigiosi nomi della scultura contemporanea tra cui Fabrizio Plessi, Mauro Staccioli, Riccardo Cordero. Sostenuta dal Comune di Pergine Valsugana e dalla Provincia Autonoma di Trento, l’allestimento vede quest’anno svettare dagli spalti del castello medievale verso il cielo le forme di Schad, l’artista tedesco (Ravensburg 1953) che già dall’inizio degli anni Ottanta – appena uscito dall’Accademia di Karlsruhe, dove si era formato con il magistero di Albrecht von Hancke e W. Loth, - dopo aver ottenuto la prima borsa di studio per un soggiorno a Oporto, in Portogallo, si imponeva rapidamente sulla scena europea. Attualmente, dal 2000, Robert Schad divide vita e lavoro tra Larians, nel dipartimento dell’Haute-Saone, in Francia, dove nel 2004 ha aperto un parco della scultura, e Chamosinhos, in Portogallo, da dove realizza le sue mostre e gli allestimenti internazionali. [ 36 ] Tauk | 1998 Acciaio mm 100 Scrivono nel catalogo Verena Neff e Theo Schneider: “Il fatto che [le sculture n.d.r.] abiteranno per tutta l’estate 2015 nel Castello è un grande onore per Castel Pergine, che con Tanz_5 si trova in celebre compagnia. La danza delle sculture esordì nel 2011 ad Altshausen in Germania, un anno dopo si trovavano nel parco di Heidelberg, nel 2013 a Linz e l’anno scorso occupavano lo spazio urbano della città medievale di Landshut. Però qualcosa ci rallegra in particolar modo: alcune delle sculture sono state specificamente create per il Castello. Per esempio l’opera Volok con le ali sulla piattaforma panoramica che vola verso la Valsugana. Oppure le tre medie Dergel, Sirnones e Pyers sulla collina presso il parcheggio, sotto l’Ala Clesiana e sulle rocce sopra la torre rotonda. In futuro, nel loro cammino attraverso la vita, porteranno sempre dentro di sé una parte del Castello.” Di questa sorta di nido d’aquila Robert Schad scrive nel testo del catalogo che accompagna l’istallazione (e che comprende anche uno scritto critico di Stefanje Weinmayer): “Agli inizi dell’estate 2013, lungo ripidi tornanti giunsi a Castel Pergine situato lassù in alto, sopra la Valsugana - un luogo ricco di storia e storie, brullo e roccioso. Mi sorsero dei dubbi circa la fattibilità di una mostra di sculture in acciaio, prevalentemente di grandi dimensioni, che in parte desideravo realizzare appositamente per questo luogo. Come avrebbero potuto scalare tale montagna questi oggetti, in parte estremamente pesanti, e prendere il loro posto? Il HADDER | 2013 Acciaio mm 100 [ 37 ] Castello non offre spazio alle sculture in modo convenzionale, ma vuole essere conquistato e scalato. Le sculture prima devono essere portate qui per poi crearsi il loro luogo proprio, uno spazio inconfondibile. Conobbi il padrone di casa, Theo Schneider, e sua moglie Verena Neff, nel 2013 in occasione della biennale della scultura a Racconigi nei pressi di Torino. Loro mi invitarono a visitare Castel Pergine per liberare la mente ed esplorare le possibilità per una presentazione delle mie sculture pesantissime e di grandi dimensioni. Le prospettive e le vedute fantastiche sul paesaggio montano circostante, ma anche i luoghi in punti piuttosto nascosti come l’anello di mura e le segrete del castello mi stimolarono, la mia fantasia strabordava, i concetti si susseguivano rapidamente e di nuovo venivano scartati, perché i difficili accessi agli spazi da me scelti mettevano ogni volta in discussione la fattibilità della mostra così come me la immaginavo. Theo, tuttavia, fanatico di scultura, riuscì a dissipare i miei dubbi. “Ce la faremo”, ripeté come un mantra, e così crebbe dentro di me la fiducia e la certezza che egli sarebbe stato disposto a spostare delle montagne per il nostro progetto. Con un mezzo di trasporto pesante, una gru di 50 metri, e con aiutanti volenterosi riuscimmo in quello che sembrava essere un’impresa impossibile. Pergine è un luogo speciale… la bellezza austera e la sterilità sono la patria ideale per i miei “abitanti in acciaio a tempo determinato”. Proprio qui è particolarmente tangibile l’apparente leggerezza delle pesanti forme. Alcune sculture sembrano voler spiccare il volo per volare nel vasto paesaggio montano. GENNES | 2002 Acciaio mm 45 mm Subiras | 2012 Acciaio mm 45 mm Sembrano essere in movimento e sostare al momento dell’osservazione per poi proseguire, nell’istante successivo, la loro danza in questo immenso scenario. Altre appaiono come guardiani d’acciaio, sembrano attendere qualcosa in questo mondo duro, qualcosa che non possiamo definire. Altre ancora si rintanano nel fossato e nelle segrete. Nacquero così una varietà di esperienze visive diverse, una coreografia scultorea, un teatro scultoreo sul palcoscenico del Castello lassù, sopra la Valsugana. di vedere come gli abitanti in acciaio a tempo determinato cambieranno lo sguardo sul castello, se saranno in grado di creare dei luoghi in tale paesaggio e all’ombra di quel colosso di pietra , quale è il castello, che si imprimono, che uno porta con sé nella mente, che tematizzano dei segreti, come non sono mai stati creati, se saranno in grado di mettersi alla stessa altezza degli occhi con la storia del luogo e di entrarne in dialogo. In autunno si vedrà cosa avranno mosso i miei abitanti d’acciaio nelle teste di coloro che li hanno incontrati. In ogni caso s’impregnano nella memoria di questo luogo meraviglioso.” Le sculture abitano un castello a tempo determinato. Tutto sembra essersi fermato in un mondo senza tempo, dove solo l’alternarsi del giorno e della notte e il cambio del clima sembrano scandire il ritmo interiore di questo luogo. Il rumore della città è lontano. A Castel Pergine si è più vicini al cielo. Sono curioso Tauk | 1998 Acciaio mm 100 Polent | 2012 Acciaio mm 100 Volok | 2015 Acciaio mm 100 [ 38 ] Gravità sospesa, a cura di Theo Schneider e Verena Neff, con il coordinamento di Riccardo Cordero, rimarrà allestita fino all’8 novembre 2015. CASTEL PERGINE Via al Castello, 10 38057 Pergine Valsugana (TN) www.castelpergine.it [ 39 ] nica (immagine) e rappresentazione logica (parola). E tuttavia, a rivederla oggi, non si può negare sia portatrice di una sua intima bellezza, malgrado la volontà dell’artista fosse stata quella eliminare qualsiasi significato emozionale, per proporsi con lucida e fredda razionalità. La via aperta dal concettualismo è dunque quella di eliminare opere materiali o durature e in cui “arte” diviene anche il parlare dell’arte, l’azione sull’arte, la riflessione sull’arte, senza che ci sia necessità della presenza fisica di alcuna opera d’arte. Ma se l’evoluzione di questo pensiero ha seguito una via di progressiva “privazione” ne ha anche aperta una che sostituisce all’opera l’evento (happening, performance). aliti | 2009 Specchi, foto, alluminio, acciaio, pannelli cm 33 x 33 Pino Pin Sculture con vocazione concettuale I l desiderio di incasellare i prodotti artistici di questo primo scorcio di millennio – spesso avendo come valida motivazione quella di conoscerli con maggior chiarezza - è inversamente proporzionale alla loro capacità/disponibilità di essere catalogati. Tuttavia persiste nella mente dei galleristi, dei collezionisti e, in generale, dei fruitori a diverso titolo, la tendenza ad assimilare un evento artistico ad un altro, sia contemporaneo sia di molto o di poco precedente. Ricerca di certezze in un mondo che ne è particolarmente privo? Oppure dimostrazione dell’esistenza nella mente umana di una funzione gestaltica, secondo cui “Il tutto è più della somma delle singole parti”, in antagonismo al modello strutturalista, che accetta una realtà frazionata e comportamentista? Le opere di Pino Pin sembrano voler mettere in connessione i due mondi: cogliendo l’opportunità di aderire ad una idea di “corrente”, in questo caso il Concettualismo; ed altrettanto felici di andarsene, ciascuna per i fatti propri, senza giustificare la propria presenza/ assenza quanto piuttosto esprimendo in termini di arcana “bellezza” la forma della materia che tuttavia si fa “pensierosa”. E anche ridevole e ironica, a volte. In barba ad ogni categoria. Vero è che il termine “concettuale”, a partire dalla metà degli anni Sessanta in cui prese vita nella prassi artistica di Joseph Kosuth, ha assunto significati non univoci. La forza contestatrice per cui il fine dell’opera non doveva essere il godimento estetico bensì l’attività del pensiero, si smorza e prova a cercare un “match point” permanente, in cui bellezza e pensiero non sono antagonisti ma possiedono invece uguali attitudini al successo. Una delle opere più famose di Kosuth, “Una e tre sedie” (1965), in cui egli espone una sedia vera, un’immagine fotografica e la definizione scritta della parola “sedia”, avvia la riflessione sul rapporto problematico e conflittuale esistente tra realtà, rappresentazione ico[ 40 ] In tal senso si muove il pensiero artistico di Pino Pin, i cui “gesti creativi” rientrano tra quelle esperienze artistiche che non producono vere e proprie opere concluse in loro stesse ma situazioni legate al contingente, al territorio e a occasioni temporalmente limitate, la cui traccia è destinata a rimanere solo nella testimonianza fotografica o filmica in quanto le sue sculture assumono il loro pieno senso solamente in un certo contesto, in una certa situazione. La loro forza, in sostanza, deriva dal fatto di essere site-specific, di confrontarsi attivamente con l’ambiente; un ambiente che, oltre alla sua dimensione ecologica e naturale, può essere inteso anche come contesto formale, politico, storico e sociale. E’ il caso di opere quali la grande Corazza 1, del 2010, in resina e specchi tela, e di Corazza 2, dello stesso anno, esposte nel medesimo contesto in occasione di una esposizione personale dello scultore alla Chiesa di San Rocco a Padova. Insomma, anche nei lavori site-specific di Pin, tra l’opera e il contesto si avvia uno scambio reciproco in modo che “l’arte crea uno spazio ambientale, nella stessa misura in cui l’ambiente crea l’arte.” (Germano Celant), ma, essendo lo scultore uomo del suo tempo e soprattutto radicato in uno specifico territorio, ciò accade con una particolare sensibilità ed attenzione al mondo contemporaneo, con mezzi più incisivi di quanto non potrebbero i mezzi a disposizione della Land Art o dell’Arte povera, che del Site-specific sono parenti. corazza 2 | 2010 Resina, tela, specchi cm 250 x 70 x 70 Come giustamente ebbe a scrivere Anna Chiara Frigo: ”Le opere di Pino Pin si possono collocare sul versante dell’arte concettuale pur con contaminazioni diverse, dall’Arte Povera ad un iconismo iperrealistico, rielaborate in una sintesi di alta complessità estetica.” Una complessità che è, tra l’altro, una delle più peculiari caratteristiche dell’arte di questi tempi. Prosegue Frigo: “L’opera d’arte di Pino Pin libera un flusso di idee, interroga lo spettatore e si interroga sulla sua funzione partecipando della poetica dei movimenti (dall’Arte Concettuale degli anni Sessanta alle odierne Installazioni). Presenta forme scultoree essenziali e a volte seriali (vicine alla Minimal Art) che inglobano colori e l’ambiente circostante, quindi procede trasversalmente fra pittura, scultura, ambiente architettonico o naturale rinnovando il linguaggio nelle continue trasmigrazioni e contaminazioni del pensiero e delle sue forme. Allerta la percezione sensoriale attraverso stimolazioni tattili e visive derivate dall’utilizzo di materiali pregnanti di significato ed espressività intrinseca (Arte Povera); si tuffa, attraverso rimandi e allusioni, nella memoria individuale e collettiva (Jung) esacerbando idee, ma anche sensazioni ed emozioni che non sono mai fine a se stesse, ma legate ad un circuito di azioni etiche.” La massima valorizzazione concettuale Pin la ottiene forse dall’uso dello specchio, superficie che non ha un preciso valore in sé quanto solo per quel che riflette. E ciò che lo specchio rimanda è sempre, in ordine cronologico, prima di tutto l’ar- corazza 1 | 2010 Resina e specchi, tela cm 250 x 70 x 70 [ 41 ] PANORAMICA 50 | 2006 Installazione in un capannone industriale a Padova tista (anche durante le fasi del work in progress) e poi il pubblico, volontario o involontario, consapevole o meno di trovarsi di fronte ad esso. Quindi il primo valore fondativo di questi lavori è anche la ineluttabile ed immodificabile processualità della sua creazione. albero 2 | 2005 Carta, legno colorato e specchi cm 130 x 130 x 130 Impossibile non vedere, infatti, come alla base del sentimento creativo di opere come Piccolo albero, del 2006, cm 100x100x100, in legno e specchi e Aliti (2009, specchi foto alluminio acciaio pannelli cm.33x33 sospesi a cm.150 con cavi in acciaio), ci sia una focalizzazione sulle fasi di formazione dell’opera, sul percorso creativo, quasi rituale; sul processo appunto, piuttosto che sulla mera realizzazione di un prodotto finito. L’opera rimette dunque il suo significato anche nel procedimento di creazione. Non solo: la superficie specchiante, inoltre, non smetterà mai di lavorare nel suo ruolo di “rimando” e dunque non sarà mai finita. Nato a Piazzola sul Brenta il 12 agosto 1946, Pino Pin si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Venezia sotto il magistero di Alberto Viani. Ha fre- [ 42 ] quentato i corsi di pittura all’Accademia di Brera a Milano, in particolare quelli di storia dell’arte di Guido Ballo. Il suo cursus espositivo prende avvio negli anni Settanta a Vicenza dove, tra l’altro, ha co-fondato nel 1976, il Gruppo Arti Visive. Attualmente suoi lavori si trovano in diverse collezioni private e pubbliche italiane. Dal 2013 è ideatore e curatore della Biennale di Scultura “In acqua e in piazza” a Piazzola sul Brenta (PD), di cui durante quest’estate è in corso la seconda edizione che rimarrà aperta fino a novembre 2015. Ha insegnato progettazione all’Istituto Statale d’Arte “Pietro Selvatico” a Padova e attualmente tiene corsi di lettura dell’opera d’arte. Vive e lavora a Piazzola sul Brenta. trittico | 2009 Legno, gomma, pallottole sparate e bossoli Installazione elementi a terra in gomma con bossoli cm 45 x 40 muro in legno e cemento con colpi in piombo e rame PINO PIN vive e lavora a Piazzola sul Brenta (PD) www.pinopinscultore.it [ 43 ] 56esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia A l l T h e Wo r l d ’s F u t u r e s Q Anna Livia Friel uest’estate già sarebbero valse una gita a Venezia le due belle mostre che si fronteggiano in Piazza San Marco: la prima, nell’antica dimora dei Dogi a Palazzo Ducale ospita i mondi fantastici e détachée di Rousseu il Doganiere, l’altra, al Museo Correr, nelle sale imperiali volute da Napoleone, racconta la Germania della Nuova Oggettività. Ma a questi appuntamenti se ne aggiunge un terzo, davvero imperdibile: la 56esima Esposizione Internazionale d’Arte, dal titolo All The World’s Futures, promette grandi rivelazioni. Oltre ad essere anno di festeggiamenti per i 120 anni dalla fondazione della Biennale, che nel 1885 inaugurava il primo padiglione ai Giardini, il 2015 segna i 100 anni passati dall’inizio della prima guerra mondiale e i 75 dalla seconda, creando ancor più l’occasione, secondo il curatore della mostra Okwui Enwezor (Nigeria 1963), per guardare in dietro al nostro passato. Nata sotto la stella dell’Angelus Novus benjaminiano, come più volte anticipato da Enwezor, questa mostra non pretende di portare con sé una rivoluzione, ma si pone lo scientifico obbiettivo di passare al setaccio il mondo e i suoi recenti accadimenti attraverso vari filtri di lettura. Se l’Angelus in questione, dipinto da Paul Klee nel 1920, appare con occhi sgranati e ali spiegate mentre volge lo sguardo -nella lettura di Walter Benjamin- alla disastrosa catena di eventi raccolti dal passato, quest’ultima Biennale è al contrario un “angelo della storia” un po’ più disincantato, capace di offrire numerose visioni future costruendo intorno al passato (prossimo) un forte valore narrativo. Le opere esposte, in prevalenza oggetti, dipinti, sculture, che lasciano meno spazio ad installazioni e performance e danno alla mostra un forte carattere formale, forniscono al visitatore immagini da montare con consapevolezza registica all’interno dei macro temi di lettura a cui ci affida Enwezor, filtri attraverso i quali far passare All the World’s Futures (tutti i futuri del mondo): Il giardino del disordine è il luogo dove tutto ha inizio e dove tutto si svolge; da un lato l’immagine primigenia del giardino come paradiso, per eccellenza spazio dell’ordine divino, dall’altra i confusi giardini della Biennale che con i loro padiglioni sparsi e l’affollarsi di storie e Paesi rappresentano il disordine e l’incertezza del mondo attuale. C’è poi Vitalità: Sulla Durata Epica che ci insegna il ritmo dell’esibizione e il valore teatrale dello spazio espositivo; performance ed installazioni saranno in continuo divenire e trasformazione all’interno della mostra, sempre complete ma mai concluse racconteranno allo stesso tempo passato, presente e futuro. Kutluğ Ataman Sakıp Sabancı Courtesy the Artist; the Sakıp Sabancı Museum Istanbul [ 44 ] Ultimo ma centrale, Leggendo Il Capitale, con riferimento all’opera di Marx che verrà declamata dal vivo come una sorta di Oratorio: per i sette mesi di apertura dell’Esposizione la lettura sarà un appuntamento che si svolgerà senza soluzione di continuità. Padiglione centrale Biennale Venezia Corderie Biennale Venezia Sala Chini Biennale Venezia [ 45 ] Kngwarreye painting Earth’s Creation | 1994 Emily Kame Courtesy Dacou Gallery The New World Climax | 2000–2014 Barthélémy Toguo Installation with wooden stamps, tables, ink prints on paper. Courtesy Stevenson, Cape Town and Johannesburg Bandjoun Station Cameroun Photo Mario Todeschini politica alla rapacità dell’industria finanziaria. Lo sfruttamento della natura attraverso la sua mercificazione sotto forma di risorse naturali, il crescente sistema di disparità e l’indebolimento del contratto sociale hanno di recente imposto il bisogno di un cambiamento.” Già nel 1997, con la Biennale di Johannesburg, Okwui Enwezor volge il potere dell’arte (e del mercato dell’arte) ai “più deboli” ma con questa Biennale veneziana conferma il suo intento di far emergere le violenze del mondo, non a caso all’ingresso delle Corderie troviamo come monito Il grande cannone di Pino Pascali. Dell’algerino Adel Abdessemed è un campo di coltelli piantati per terra come ciuffi d’erba, circondati dalle scritte in neon di Bruce Nauman Death, mentre il texano Melvin Edwards ci mostra agglomerati di ferro fuso, maschere acuminate, minacciose, assemblaggi di catene con lame e martelli con titoli come Dakar, Weapon of freedom, Because of struggle. L’Urban Requiem di Barthélémy Toguo riempie la sala di manichini muti, corpi di legno che diventano timbri per messaggi drammatici di clandestinità, miseria e sfruttamento. Non manca tuttavia la possibilità, dopo aver smistato i drammi di questo passato presente, di cercare tra i padiglioni uno dei futuri possibili. Come sempre infatti la Biennale ci offre una vastissimo numero di opzioni: non solo la Mostra sarà affiancata da 89 Partecipazioni nazionali negli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia, ma si aggiungono altri 5 Paesi che partecipano per la prima volta: Grenada, Mauritius, Mongolia, Repubblica del Mozambico, Repubblica delle Seychelles. Altri ancora partecipano quest’anno dopo una lunga assenza come Ecuador (1966, poi con l’IILA), Filippine (1964), Guatemala (1954, poi con l’IILA). Animitas | 2014 Christian Boltanski Photo Amparo Irarrazaval Il Capitale, performato da attori come un testo drammaturgico, sotto la regia dell’artista e regista Isaac Julien, sarà protagonista de l’Arena, spazio polifunzionale collocato all’interno del padiglione centrale che segue la tradizione inaugurata durante la scorsa Biennale di Architettura di organizzare eventi e spettacoli durante l’apertura della mostra. Progettata dal premiato architetto ghanese-britannico David Adjaye, l’Arena “fungerà da luogo di raccolta del parlato, dell’arte del canto, dei recital, delle proiezioni di film, e diventerà il foro delle pubbliche discussioni” come spiega il curatore. E aggiunge, tornando all’imponente tema centrale: “Il capitale è il grande dramma della nostra epoca. Oggi incombe più di qualsiasi altro elemento su ogni sfera dell’esistenza, dalle predazioni dell’economia [ 46 ] Non meno interessanti gli eventi collaterali (44), e le molte installazioni nascoste tra campi e fondamenta tra cui a Palazzo Benzon My East is your West, un progetto che unisce India e Pakistan, o la provocatoria installazione che trasforma la Chiesa di Santa Maria della Misericordia in una moschea. Futuro possibile, o passato già esplorato? Darkwater Record (from Darkwater) | 2003 - 2008 Terry Adkins Porcelain, cassette tap records with Socialism and the American Negro speech with W.E.B. Du Bois cm 78,7 x 30,5 x 35,6 cm Arrow Fine Art Storage, Elmhurst, Queens, NY Biennale Arte Venezia 09.05.2015 – 22.11.2015 www.labiennale.org [ 47 ] Periferie esistenziali | 2012 Procedure ermetiche | 2012 Marcella Dalla Valle In viaggio attraverso l ’ inconscio F Alessandro Benetti otografia e poesia: il percorso creativo di Marcella Dalla Valle attinge tanto dall’universo delle immagini quanto da quello delle parole. I “segni”, siano essi figurativi o grafici, sono riuniti in un unico vocabolario ricchissimo: qui Marcella raccoglie le unità del suo linguaggio artistico, attribuendo a ciascuna significati nuovi e inediti. Da questo catalogo Emme Divi (come l’artista ama farsi chiamare) seleziona di volta in volta i tasselli necessari ad animare il gioco combinatorio della risemantizzazione. Le visioni [ 48 ] ambigue di Marcella negano la possibilità di attribuire a ciascun elemento un senso univoco: al contrario, attraverso la loro decontestualizzazione dal discorso originario, l’accostamento senza mediazione e la compresenza di linguaggi diversi, ogni composizione è in grado di ampliarne e ridefinirne la sfera del significato. La capacità di veicolare molteplici strati di senso, anche a partire da segni di grande semplicità e riconoscibilità universale, avvicinano l’esperienza di Marcella a quella dell’Ermetismo. Come i poeti ermetici, Emme Divi fa un utilizzo pervasivo dell’analogia, conscia del potenziale critico insito nello straniamento di cui essa è portatrice. Così, la platea di un teatro è sommersa da una marea improvvisa, le cui acque ribollenti di schiuma arrivano fin quasi a lambire la galleria da cui il pubblico osserva lo spettacolo (dove mai si svolgerà?). Sopra gli spettatori increduli, immersi nella semi-oscurità, un cielo plumbeo carico di pioggia sembra prossimo a scaricarsi sulle loro teste. La sensazione di spaesamento e sospensione è potente. Questa e altre composizioni immaginifiche rendono evidente il credito di Marcella nei confronti dei grandi artisti del fotomontaggio, passati e presenti. Particolare importanza riveste per lei l’influenza di Jerry Uelsmann, tra i precursori del surrealismo fotografico in America, da cui Emme Divi mutua non solo la tecnica ma anche alcuni segni topici. Si pensi, ad esempio, alle mani accostate che emergono dall’oscurità e portano alla luce visioni e oggetti misteriosi, porgendoli all’osservatore. Già presente in molti scatti del maestro surrealista americano, il motivo è ripreso da Marcella in un’immagine emblematica, in cui i palmi attraversano una cornice per poi divaricarsi e mostrare un orologio, salvato dalle tenebre. L’ottica fortemente grandango- lare, che deforma la geometria del riquadro ligneo, la rotazione dell’asse su cui si allineano le mani e l’inquietudine con cui le falangi delle dita si protendono verso lo spettatore imprimono all’inquadratura una notevole spinta cinetica, come ad enfatizzare l’urgenza data dal ticchettare delle lancette nel quadrante. Fotografia e poesia si relazionano con modalità del tutto diverse alla sfera del tempo, tema centrale nella poetica di Emme Divi. L’immagine fotografica si realizza in un tempo rapidissimo, quello necessario a cristallizzare la fugacità dell’istante. Inoltre, pur se sottoposta a una postproduzione certamente più lunga e laboriosa, può essere fruita sinteticamente con un solo sguardo. La poesia, al contrario, ha tempi di componimento e di lettura intrinsecamente più lenti, indispensabili per produrne e in seguito decifrarne le strutture semantiche complesse. Diverso è anche il tempo interno di ciascuna arte, il suo ritmo: in poesia esso deriva dal numero delle sillabe per verso e dagli accenti ritmici; in fotografia dall’alternanza delle campiture, dei pieni e dei vuoti, dei chiari e degli scuri sulla superficie bidimensionale dell’immagine. Riposa il verde di un giaciglio di rovi | 2014 Il corto circuito tra le due temporalità differenti sottrae di fatto le composizioni di Marcella alla costruzione culturale del tempo e ne proietta il contenuto al di là del ritmo della vita, nella sfera dell’eterno e dell’inconscio. In questi ambiti s’inoltra la ricerca di significato che Marcella conduce attraverso la sua arte. “Dell’oltre il distacco di autunni malati” sono i versi scelti per accompagnare il sogno ad occhi aperti di una fanciulla dai lunghi capelli, adagiata su di un giaciglio invisibile, colta nell’atto di contemplare una sequenza di alberi spogli. L’orizzonte s’incurva seguendo il profilo del viso femminile e, così facendo, rende morbida e instabile la linearità del filare. Lo stesso che attraversa le avventure oniriche di una figura maschile fotografata di spalle, con un braccio ripiegato di fronte al viso, quasi a proteggere gli occhi dalla potenza della visione (“riposa il verde di un giaciglio di rovi). Negli “infiniti istanti” delle sue opere Marcella condensa e condivide l’“ansia interrogante” verso il reale. Sembra inesauribile la curiosità vorace che la spinge a rifiutare la facilità di qualsiasi certezza aprioristica, di ogni soluzione troppo facile all’enigma dell’esistenza. Nella sua intervista a Emme Divi, Lucy Franco cita Mallarmé: “…nominare un oggetto è sopprimere tre quarti del godimento della poesia, che è costituita dalla felicità di indovinare poco a poco: suggerire. Ecco il sogno!...”. Marcella sogna, si lascia guidare dall’intuizione, è scettica, critica e autocritica, scopre nuovi livelli di realtà, gode della possibilità di perdersi. Senza titolo | 2012 Decadere e declinare | 2012 Tuttavia, anche in questo spazio vertiginoso, che va ben oltre le tre dimensioni cartesiane, ci sono regole precise, appigli solidi per l’esploratore. Una su tutte, la più importante: Marcella fotografa (e scrive) unicamente in bianco e nero. “Primavera in do minore” è una ragazza con ombrello, di nero vestita: il tempo di esposizione dilatato cattura i movimenti dei tessuti e registra il loro passaggio sulla superficie candida del muro di fondo, arricchendola d’infinite sfumature di grigio. Con ”attitudine non pittorica” Emme Divi rifiuta il colore per rifugiarsi nella rassicurante dicotomia tra la luce e la sua assenza. I due termini di questo ossimoro visivo sono i confini auto-imposti entro cui si svolge e si sintetizza la sua ricerca, per scongiurare il sublime terrore della libertà assoluta. Marcella Dalla Valle Adultità: i possibili | 2011 [ 50 ] vive e lavora a Zanè ( VI) www.marcelladallavalle.com [ 51 ] La grande onda presso la costa di Kanagawa | 1830-1832 Katsushika Hokusai cm 25,5 x 37,5 Obuse, Hokusai kan Esotismi F u g a d a l l ’o c c i d e n t e Un angolo dello studio | 1886 Roberto Guastalla Olio su tela cm 105 x 78 Fanciulla di colore alla porta | 1903 Roberto Guastalla Olio su tela cm 58 x 38 M a r a S e v e gl i e v i c h T utto il XIX secolo e una buona metà del XX sono stati felicemente attraversati da correnti esotiche, di un esotismo ‘occidentale’ che spesso giocava a “rendere più orientale” l’Oriente, o a vederlo attraverso la lente deformante di uno stereotipo borghese e romantico, alimentato in origine dall’espansione francese in Africa e dalla volontà di evasione da una dimensione domestica. Sul crinale di un Settecento curioso e cosmopolita, che aveva sentito il richiamo delle chinoiseries, dei miti e dei geroglifici egizi, si affermano prima l’esotismo romantico, declinato come orientalismo; e poi, dopo l’apertura ai commerci del Giappone nel 1854, il japonisme, con significative influenze sulla pittura, sulla letteratura e sulla musica. Due gli eventi cruciali per il filone orientalista: il viaggio maghrebino di Delacroix e l’enorme impatto emotivo sulla cultu[ 52 ] ra europea romanticamente predisposta ad accogliere le grandi cause nazionali della guerra greco-turca. E due le opere-manifesto, rappresentative e sontuose che faranno scuola: le Donne di Algeri nei loro appartamenti (1834) e I massacri di Scio (1823-24) di Eugène Delacroix. In entrambe la curiosità per il vicino Oriente (i costumi liberi, sensuali e spregiudicati delle donne algerine sedute per terra con larghi calzoni e abiti leggeri a fumare da un narghilè; i baffoni e il turbante del turco stupratore di fanciulle greche e l’abbandono indolente della famiglia greca prigioniera) è certo d’invenzione ma non di maniera. Certo, contemporanee sono anche le algide curve lunghe e sinuose, neomanieriste, della Grande odalisca di Ingres (1814), o delle spiritate e languide donne bibliche di Chassériau (La toilette di Ester in attesa di Assuero, 1841), più che adatte a suscitare suggestioni erotiche in questi borghesi occidentali che immaginavano incongruamente un Oriente di lascivia e libertà sessuale, in cui le donne stavano sempre nude o seminude. Insomma, un immaginario orientale, rifugio della mente e del corpo, anticipatore delle cantanti di strada di Manet, delle vahiné di Gauguin, delle odalische avviluppate nei loro abiti arabescati di Matisse. A volte anche con funzione documentaria: molti artisti andavano in Africa del Nord o in Turchia al seguito di spedizioni governative e si ispiravano a vere carovane nel deserto, veri capi arabi e sultani, veri cammelli, palme, moschee, minareti e caravanserragli. Trait-d’union fra orientalismo e giapponismo è una figura di culto del secondo ‘800 europeo, quella dello spagnolo Mariano Fortuny y Marsal, padre del Mariano Fortuny y Madrazo che ha fatto, nel secolo scorso, l’immagine di Venezia con i suoi tessuti, le lampade, i costumi teatrali, gli oggetti d’arredo. In una sua bellissima opera del 1872, I figli del pittore nella sala giapponese, è evidente tutta la sua sensibilità eccitata, eccentrica e fantasque. E Japonisme è il termine francese coniato per indicare quel fenomeno massiccio di moda, che da Parigi dilaga in tutta Europa, a partire dal sesto decennio del secolo: i mari profondi e impenetrabili si aprono al commercio di lacche, ventagli, paraventi, sete, kimono, armature da samurai, spade e copricapi. Ma, soprattutto, xilografie ukiyo-e: immagini del mondo fluttuante dell’ultimo periodo shogunale, quello fra Sette e Ottocento del trasferimento della capitale da Kioto a Tokio, profondamente segnato dalla sottocultura vivace e spregiudicata della nuova classe di mercanti che, nel quartiere di Edo, arricchiti, si dedicano ai piaceri delle case particolari, alla compagnia [ 53 ] ”Okita”, serie Make-up di sette beltà allo specchio | 1792-1793 Kitagawa Utamaro cm 36,6 x 24,2 Honolulu, Honolulu Academy of Arts Caccia alle lucciole | 1795 ca Eishōsai Chōki cm 38,4 x 25,3 Londra, The British Museum delle cortigiane, agli spettacoli del teatro popolare kabuki, alle lotte di sumo nelle palestre. di Giacobbe con l’angelo in La visione dopo il sermone (1888) e, soprattutto, usa colori piatti e nettamente delimitati, e accosta il molto grande delle donne bretoni con le loro enormi cuffie in primo piano, al molto piccolo della lotta di Giacobbe, separati da un ramo d’albero obliquo, nel più puro stile giapponese; e Whistler, in Porpora e rosa, vaso lange Leizen con sei sigilli (1868) confonde un soggetto estremoorientale (una pittrice di vasi con figure di donne molto allungate) con un’interpretazione languida, quasi simbolista o tardopreraffaellita, affatto aggiornata sul suo tempo, in un raffinatissimo gioco di sovrapposizioni. Un formidabile mix di raffinatissima volgarità, ossimoro che ben si presta a descrivere un’arte, quella di Hokusai, Hiroshige, Utamaro, caratterizzata da un naturalismo stilizzato, profondamente originale per l’assenza totale di prospettiva, per i tagli arditi angolati e zigzaganti, per il decentramento dei soggetti in composizioni disassate, per la luce radente, per il procedimento metonimico della parte per il tutto, per l’importanza attribuita al vuoto, per l’accostamento degli opposti della tradizione buddista: l’infinitamente piccolo che in realtà è grande in contrasto con l’infinitamente grande e minaccioso che in realtà è piccolo (il minuscolo monte Fuji sullo sfondo di una delle sue trentasei diverse vedute, nella Grande onda di Hokusai). Incalcolabile è la suggestione esercitata dalle stampe giapponesi sugli artisti impressionisti e postimpressionisti che le acquistavano e copiavano. Se Monet veste in kimono rosso su uno sfondo improbabile di ventagli la bionda moglie Camille (La Japonaise, 1876) e Manet nel Ritratto di Emile Zola (1868) “cita” il comune amore, suo e dell’amico scrittore, per il Giappone inserendo una stampa di Utamaro sullo sfondo, un paravento e porcellane del Sol Levante nell’arredamento dello studio, Gauguin s’ispira a due lottatori di sumo di un manga di Hokusai per la lotta [ 54 ] Donna seduta che fuma | 1887 Roberto Guastalla Olio su cartoncino cm 23 x 25 Le favorite nel parco | 1880 Cesare Biseo Olio su tela cm 41 x 62 O ancora, Aubrey Beardsley illustra un testo crudo e drammatico come la Salomè in francese di Oscar Wilde (1893), con tutti gli stereotipi giapponesi (enormi acconciature, abiti a coda di pavone, linea elastica e nitida, tagli audaci Tema ricorrente del periodo Edo è anche quello dell’amore più o meno effimero o mercenario, nei bijin-ga, immagini di beltà femminili, e negli shun-ga , immagini di primavera, soggetti direttamente erotici. Veicolo del nudo maschile e soprattutto femminile, mai soggetto autonomo in Giappone, sono le scene di donne alla toeletta, che si lavano o si vestono, o, appunto, quelle di amplesso, di straordinaria varietà e originalità, a volte esasperate in modo grottesco e caricaturale come nella famosissima Pescatrice di awabi e piovra di Hokusai. [ 55 ] A PROPOSITO DEL CIBO, DEL VINO E DELLE VIE E FORME IN CUI ESSI GIUNGONO SULLE NOSTRE TAVOLE Il Centro di Cultura e Civiltà Contadina - Biblioteca Internazionale “La Vigna” di Vicenza N ell’anno dell’EXPO Milano 2015 - Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita, nel corso del quale l’argomento enogastronomico viene sviscerato nei suoi vasti e numerosi aspetti, non si può non menzionare un’istituzione assai particolare e interessante, nata a Vicenza nel 1981 ma depositaria di tesori a stampa ben più antichi: il Centro di Cultura e Civiltà Contadina - Biblioteca Internazionale “La Vigna”. Oltre a detenere un patrimonio librario forse unico al mondo per qualità e quantità (il fondo conta attualmente circa 50.000 volumi sul tema), al di là della sua missione primaria che è quella di raccogliere e conservare libri ed essere luogo di documentazione specializzato nel settore degli studi sull’agricoltura e sulla cultura e civiltà del mondo rurale, l’Istituto è divenuto nel tempo anche uno spazio di approfondimenti e dibattito che si inserisce nel tessuto vivo della città, innervando sull’argomento principale che lo caratterizza una serie di motivi afferenti e affini. Il Centro nasce come associazione i cui enti-soci sono il Comune, la Camera di Commercio, la Provincia di Vicenza, la Regione del Veneto e l’Accademia Olimpica, è retto da un Consiglio di Amministrazione e si avvale di un Consiglio Scientifico per progettare e definire anno per anno le proprie attività. Esso, come si è detto, è stato fondato nel dicembre del 1981 per volontà di un donatore, Demetrio Zaccaria, con lo scopo di promuovere e agevolare studi, convegni e tavole rotonde su opere e argomenti relativi al progresso dell’agricoltura, alla conoscenza e diffusione della cultura e civiltà contadina, oltre a quello di valorizzare la collezione, migliorandone l’utilizzazione e incrementando il patrimonio di libri esistente. Con particolare riguardo all’enologia, l’Istituto si prefigge di studiare, analizzare e approfondire la ricerca etnografica, sociologica e storica collegata ai cicli della vita, del lavoro e della produzione, con l’obiettivo di salvaguardare conoscenze altrimenti destinate a scomparire. Il fondatore Demetrio Zaccaria, era un imprenditore vicentino che negli anni ’50 incominciò ad appassionarsi alla vitivinicoltura ed enologia e a raccogliere testi che trattavano tali argomenti. [ 56 ] Uomo di cultura, si dedicò con così attenta passione allo studio del vino e della coltivazione della vite, da conseguire prestigiosi premi di ricerca a livello internazionale. Alla sua morte, nel 1993, lasciò in eredità al Comune di Vicenza e al mondo una biblioteca di inestimabile valore culturale che viene costantemente arricchita da donazioni e con acquisti selettivi sul mercato antiquario e su quello corrente. Attualmente vengono acquisite le opere di agricoltura edite in lingua italiana, mentre quelle riguardanti la vite e il vino sono reperite anche nei mercati internazionali, specialmente per pubblicazioni in lingua francese, inglese, spagnola e tedesca. Se una notevole percentuale dei volumi posseduti concerne la coltivazione della vite e la produzione vinicola, vi sono molte altre opere relative ad altri temi: la coltura della patata e dell’olivo, ad esempio, o l’allevamento delle api e la produzione dell’olio e del miele, ecc. Il patrimonio librario de “La Vigna” comprende non solo libri di recente pubblicazione, ma anche edizioni a stampa a partire dal XV secolo. Di particolare pregio la ricca collezione di testi inerenti l’enologia dal XV al XVIII secolo. Sono disponibili, inoltre, le più importanti riviste di settore, cessate e correnti, in un ampio panorama editoriale nazionale e internazionale. Nel 1999 “La Vigna” ha acquisito la Biblioteca di Agricoltura della famiglia Caproni, ricca di opere concernenti le bonifiche, i cereali e la politica agraria condotta durante il ventennio fascista. Nelle raccolte sono inoltre conservati il “Fondo Ispettorato Regionale per l’Agricoltura”, cioè la biblioteca ottocentesca dei Comizi Agrari del Dipartimento di Vicenza e successivamente delle Cattedre ambulanti della provincia vicentina, il “Fondo Fagiani”, raccolta dei volumi dello storico Fernando Fagiani, studioso del pensiero economico e sociale del XIX e XX secolo, il “Fondo Galla”, che contiene oltre 400 volumi riguardanti l’attività venatoria donati da Mariano Galla, suddivisi in cinque sezioni: ornitologia, tecnica venatoria, narrativa venatoria, balistica e cinofilia. [ 57 ] Vi è infine il “Fondo Cerini di Castegnate” di recente acquisizione grazie al finanziamento triennale della Fondazione Monte di Pietà di Vicenza. Esso si compone di circa 1400 volumi a stampa a tema eno-gastronomico e culinario dagli inizi del ‘500 al ‘900. Il visconte Livio Cerini di Castegnate, originario di Castellanza (Varese), fu uno dei più grandi scrittori di libri di culinaria del ventesimo secolo. Fra le molte opere da lui pubblicate meritano una speciale menzione Il grande libro del baccalà e Il cuoco gentiluomo. Fra le più importanti e rare opere della sua raccolta vi è il Recetario di Galieno, pubblicato a Venezia nel 1512 (volume posseduto da sole 4 biblioteche in Italia); Dell’arte del cucinare di Bartolomeo Scappi del 1610; Il perfetto maestro di casa di Francesco Liberati del 1669; L’arte di ben cucinare di Bartolomeo Stefani del 1671, un’edizione de I Semplici del 1561 e il Ricettario Senese del 1745. Fra le numerose e rare edizioni francesi datate tra il XVI° e il XIX° secolo, un corpus difficilmente reperibile in Italia, sono presenti i più importanti autori di gastronomia del periodo: da Escoffier, a Menon, a Carème. Di quest’ultimo, in particolare, la rara, sebbene incompleta dei volumi 4° e 5°, edizione del 1847, L’art de la cuisine française. Vi è poi la molto rara edizione del Banchetto dei sapienti dell’Ateneo. Per quanto riguarda i volumi del XX° secolo, di particolare pregio sono una Bibliografia di Vicaire e le opere di Curnonsky e di Brillat Savarin. La sede de “La Vigna” è allocata, sempre a Vicenza, nel Palazzo Brusarosco-Zaccaria, in contra’ Porta Santa Croce 3, un interessante edificio ottocentesco in parte restaurato dall’architetto Carlo Scarpa (Casa Gallo) nei primi anni del secondo dopoguerra. Biblioteca Internazionale “L a Vigna” Palazzo Brusarosco Zaccaria Contrà Porta S. Lucia, 3 Vicenza www.lavinia.it GRUPPO SERENISSIMA RISTORAZIONE Sostiene la cultura del territorio w w w.grupposerenissima.it [ 58 ] [ 59 ] La conca di Asiago vista dalla croce del Katz In alto nel 1917, sotto nel 2012 Fotografie come strati archeologici Claudio Rigon L a panoramica che apre l’articolo è austriaca, ed è conservata presso il Museo del Risorgimento e della Resistenza di Vicenza. È stata scattata sul filo del tramonto dal bordo di una trincea a pochi passi dalla croce del Katz, una sorta di promontorio che, al centro della conca di Asiago, uscendo dalla corona di monti che la chiude a nord, arriva ad affacciarsi fin quasi sopra il paese. Sono otto fotografie unite a fisarmonica, per un giro di orizzonte di centottanta gradi. Non sono grandi, ognuna è grossomodo delle dimensioni di una cartolina, qualcuna è più corta, qualcuna più alta, sono ritagliate non sempre ad angoli retti per far combaciare, nell’unirle l’una all’altra, le linee del paesaggio. Sono in qualche punto deteriorate, anche ingiallite, una è un po’ sbiadita e un’altra, l’ultima, presa quasi controsole, così scura e impastata da essere praticamente illeggibile. Hanno un che di grezzo, insomma, eppure sta forse anche in questo la loro forza, si sente che c’è quasi una sintonia formale con quello che mostrano: la desolazione di una piana devastata, con quegli ammassi di pietre bianche dello scavo in primo piano sulla sinistra e quei reticolati con i pali piantati fitti e alla rinfusa, presenze che fanno velo e che sembrano relitti, cose morte, abbandonate. Sono fotografie che, soprattutto per chi conosce questo paesaggio, e lo ama, colpiscono duro, lasciano un segno. Sul Sisemol, nel 1917, le fotografie sono state scattate dall’alto dei riporti in pietre di una trincea Per poter ritrovare oggi la stessa identica visuale, è stato necessario costruire una piattaforma sopra quanto restava di quella trincea. [ 60 ] [ 61 ] La conca di Asiago vista dal Kaberlaba In alto nel 1915, sotto nel 2013 Non è, questa dal monte Katz, la sola panoramica della conca di Asiago conservata al Museo: ce ne sono altre, riprese da punti diversi e in tempi diversi della guerra. Una seconda, questa volta italiana, è stata fatta il 4 agosto 1915 dal Kaberlaba. Mostra un Altipiano assolutamente intatto. Eppure la guerra era iniziata da due mesi e mezzo e sulla cima del monte Verena, che si vede proprio al centro, sul fondo, noi sappiamo che il forte era già un ammasso di rovine. Ma la guerra rimaneva ancora tutta al di là, dietro quel monte, sul confine, e nella conca non se ne avverte assolutamente la presenza: le mucche sono al pascolo; gli orti ben tenuti; i campi coltivati a grano, avena, orzo e la mietitura in corso; le case, le contrade, i paesi bianchi e lindi; il paesaggio luminoso. La conca di Asiago vista dal Sisemol (Particolare) In alto nel 1917, sotto nel 2014 [ 62 ] Una terza panoramica poi, ripresa da una posizione austriaca su monte Rasta, è del 19 maggio 1918 e mostra un paesaggio ormai totalmente devastato. Quando, a un certo punto, ho voluto controllare su una carta topografica come erano disposti reciprocamente i punti di ripresa di queste tre vedute, mi sono accorto se avessi trovato una quarta panoramica scattata da est, e cioè dal Sisemol (e l’ho infine trovata, presso gli archivi dell’esercito, una ripresa italiana), avrei avuto la piana di Asiago vista dai quattro punti cardinali: quasi una sorta di TAC del paesaggio della conca, la registrazione della sua trasformazione via via, in quattro anni di guerra. Sono documenti preziosi, queste fotografie. Anche perché, in Altipiano, le tracce di quattro anni di guerra sono venute a intersecarsi e a sovrapporsi continuamente, così che quello che è venuto prima si confonde spesso con quello che è venuto dopo, compresso insieme in una sorta di contemporaneità. Se si vuole leggerle, le tracce di quei quattro anni, se si vuole restituire ad ognuna il suo momento, cercare di immaginare per ognuna il suo paesaggio, bisogna saper andare a ritroso, avere la capacità (e chi va a camminare per quel territorio lo sa) di un doppio, anche di un triplo sguardo. Tornare a separare, almeno mentalmente, strato da strato, ogni traccia, ogni memoria, da ogni altra che magari è lì a lato ma che può contenere una storia diversa, forse precedente, forse successiva. È stato certamente pensando a questo che, a un certo punto, mi sono trovato a guardare a queste panoramiche come a degli strati archeologici: la memoria di un luogo, di un paesaggio, di un territorio, depositata per strati, ogni strato datato con cura e fissato nei granuli d’argento di una fila di lastre fotografiche prima che si depositasse la successiva. Così, la decisione di rifarle a mia volta è venuta infine da sé, dal bisogno di mettere a confronto, a distanza di ormai cento anni, i paesaggi di allora con quelli di oggi. Ma anche per fissare lo strato archeologico presente, perché rimanesse a memoria per chi verrà dopo, fra venti, cinquanta, cento anni. Qualcosa che potrebbe essere importante se un giorno si penserà, in Altipiano o a Vicenza, a un museo del paesaggio. *Claudio Rigon è autore de I fogli del capitano Michel, Einaudi, Torino 2009, e di Passato presente. Sulle orme di C.D. Bonomo, fotografo: i cimiteri di guerra dell’Altipiano, Galla 1880 libreria editrice, Vicenza 2006 [ 63 ] da vedere Il Museo del Gioiello di Vicenza V ICENZA (VI) Parco del Sojo L usiana (VI) Il primo in Italia e uno dei pochi al mondo dedicato esclusivamente al gioiello. Da dicembre 2014 nella città del Palladio è possibile visitare il Museo del Gioiello, un progetto di Fiera di Vicenza in partnership con il Comune di Vicenza. Allestito negli splendidi spazi della Basilica Palladiana, patrimonio dell’Unesco, il Museo raccoglie una collezione di oltre 400 pezzi rari provenienti da tutto il mondo, offrendo un’originale esperienza estetica e conoscitiva su un oggetto profondamente radicato nella cultura umana. Cuore dello spazio museale sono le nove sale espositive situate al secondo piano, curate da esperti internazionali, che accompagnano i visitatori in un percorso inedito, nel tempo e nelle culture: Simbolo, Magia, Funzione, Bellezza, Arte, Moda, Design, Icone e Futuro. Il Museo è curato e diretto da Alba Cappellieri, Professore di Design del Gioiello al Politecnico di Milano e principale studiosa del gioiello in Italia, e presenta un allestimento innovativo progettato dalla designer internazionale Patricia Urquiola. Dedicato tanto agli addetti ai lavori quanto al grande pubblico, il Museo del Gioiello si pone come un luogo fruibile e dinamico, anche grazie alla rotazione biennale delle opere e allo spazio riservato alle esposizioni temporanee al piano terra. Qui, sino al 1° luglio 2015, è possibile visitare la Mostra Gioielli del Mare. Coralli, Cammei, Perle tra Memoria e Modernità, organizzata da Assocoral in collaborazione con Fiera di Vicenza e curata da Cristina Del Mare: oltre 100 gioielli tra parure, collane, bracciali, spille e cammei, ricavati dai più rari e prestigiosi materiali trovati nel mare e trasformati in meravigliosi preziosi da aziende di Torre del Greco. Il Museo del Gioiello nasce con l’obiettivo di promuovere l’universo culturale dell’oreficeria e della gioielleria. Un museo d’arte contemporanea in cui le opere dialogano con il bosco: il Parco del Sojo di Lusiana (VI) Compie dieci anni il Parco del Sojo Non è poco per un’idea che ha come portato diverse complessità logistiche e tecniche e la cui progettazione non prevede un tempo determinato ma rimane work in progress, sempre aperto a nuove sollecitazioni e alle proposte di altri (qualificati) artisti che condividano il desiderio di coinvolgimento nella situazione. Il curatore e nume tutelare è l’architetto Diego Morlin che nel 2005 lo ha pensato come un percorso espositivo d’arte contemporanea en plain air. Vi si trovano allocate opere che, pur accogliendo le modificazioni imposte dallo scorrere del tempo e prevedendo processi più o meno lenti di alterazioni, non sono destinate alla definitiva scomparsa. Esse stanno, piuttosto, a contrassegnare in modo durevole la presenza della creatività collaborativa tra uomo e natura e lo scorrere delle stagioni mantenendo la memoria del luogo. I suggerimenti per raggiungerlo già dicono del piccolo impegno di conquista richiesto ai visitatori per esserne accolti in modo armonioso: possibilmente a piedi, per avere l’opportunità di assaporare gradualmente lo spirito e il senso di simbiosi tra natura e arte che scaturisce dal luogo e prepararsi alla sorpresa che si ripropone, dopo una curva nel sentiero o in una piccola radura, quando una nuova scultura o istallazione si parano alla vista. Il progetto rappresenta non solo un’esposizione qualificata di opere d’arte, ma anche e soprattutto un processo creativo in cui l’opera giorno dopo giorno cresce e matura e in cui l’intervento dell’artista esprime il rapporto con la natura, traendo da essa ispirazione e stimolo. I Musei di Spazio Brazzà Museo Storico Pietro di Brazzà Savorgnan, Museo Artistico Štěpán Zavřel Moruzzo (UD) Il Centro Internazionale di Studi per la Cultura dell’Infanzia ‘Štěpan Zavřel’con il Museo Artistico ‘Štěpan Zavřel’di Spazio Brazzà, sede permanente della mostra antologica dedicata a uno dei più grandi Maestri dell'Illustrazione per l'Infanzia, creano e promuovono progetti culturali a livello territoriale e internazionale in collaborazione con diversi Enti e istituzioni con una particolare attenzione al Libro illustrato e alle diverse forme d’Arte rivolte al Bambino. Il Centro di Studi studia e documenta l'opera omnia dell'artista, grafico, animatore, illustratore, editore, gallerista che ha avuto come grandi maestri dell'animazione e della grafica, Jiri Trnka ed Emanuele Luzzati; inoltre promuove la programmazione delle attività museali come frutto di proposte nate dalla ricerca sul campo, in collaborazione con esperti di settore. In particolare tra i diversi progetti spicca la collaborazione con la casa editrice Bohem Press Italia di Trieste, per ripubblicare o editare ex novo i capolavori editoriali del grande Maestro illustrati per l'Infanzia, vincitori di numerosi premi e riconoscimenti internazionali per le tematiche affrontate e la bellezza delle immagini illustrate, accompagnandoli e supportandoli con Progetti speciali rivolti in particolare alle scuole, con la convinzione che davvero i Bambini possono cambiare e migliorare il mondo. Galleria Civica Bressanone Museo Revoltella Dolomiti Contemporanee C asso (PN) Kunst ist mein Leben (l’arte è la mia vita) Il Museo Revoltella fu fondato nel 1872 dal barone Pasquale Revoltella (1795-1869) che lasciò alla città di Trieste la sua casa e tutte le opere d’arte, gli arredi e i libri in essa contenuti, oltre al denaro per il mantenimento e lo sviluppo dell’istituzione, la formazione dei giovani artisti e degli artigiani. In pochi decenni il Museo si arricchì di un cospicuo numero di opere d’arte, spesso acquistate alle prime Esposizioni internazionali, tra cui la Biennale di Venezia, che resero in breve necessario l’ampliamento della sede. Al palazzo originario, un’elegante costruzione neorinascimentale di tre piani, edificata tra il 1854 e il 1858 su progetto del berlinese Friedrich Hitzig, venne aggiunto nel 1907 il vicino palazzo Brunner, ristrutturato nel 1963 su progetto di Carlo Scarpa, così che ora, con l’attiguo il palazzo Basevi, il Museo occupa un intero isolato (circa 4000 mq di esposizione con 350 opere di pittura e scultura distribuite in sei piani). Contiene autori italiani del secondo Ottocento (Fattori, Induno, Palizzi, Morelli De Nittis, Nono, Ciardi, Trentacoste, Canonica, Bistolfi, Carena, von Stuck, Zuloaga), artisti del primo Novecento a Trieste e in Italia (Marussig, Bolaffio, Timmel, Dudovich, Casorati, Sironi, Carrà, De Chirico, Martini) e del Friuli-Venezia Giulia degli ultimi cinquant’anni (Zigaina, Afro, Dino e Mirko Basaldella, Spacal, Perizi). I protagonisti del secondo Novecento sono esposti nella grande sala del sesto piano che si apre alla vista della città e del mare. Da qui si può uscire sulla grande terrazza, disegnata da Carlo Scarpa, dove nelle sere estive è in funzione un caffè aperto fino a mezzanotte. Progettoborca Bressanone (BZ) Dalla fatalità di un incontro alla stimolante scoperta di possedere idee comuni, per poi approdare con entusiastica consapevolezza alla costruzione di un percorso, insieme: questo l’antefatto che consentirà a Monte San Savino, l’antico borgo della Val di Chiana adagiato sulle ridenti colline verdeggianti di cipressi ed olivi, di vivere una nuova esperienza culturale e di aprirsi oltre i propri confini territoriali per incontrare ed accogliere l’interiorità silente proveniente dalle montagne altoatesine. In un momento epocale di cambiamenti sociali riteniamo che solo l’Arte possa aiutarci a capire dove stiamo andando; proponiamo un risveglio e una rinascita culturale che tramite l’Arte crei nuove relazioni feconde per scoprirsi a vicenda in un’alternanza di esperienze e di dialogo, in un bisogno di amicizia, di conoscenza e di accoglienza. Le strutture storiche savinesi quali il Cassero, roccaforte estrema difensiva della cittadella medioevale, il cortile del rinascimentale Palazzo di Monte, edificio del potere civile, e la Chiesa di S.Chiara, scrigno di tesori sansoviniani, si offrono per alcuni mesi ad ospitare nuovi racconti dai linguaggi eterni ed universali, fornendo l’occasione per un confronto nel creare, sperimentare e rigenerare. Da qui l’auspicio che Monte San Savino si spalanchi al futuro e possa fare proprie le parole di Alex Pergher, curatore della mostra, “Kunst ist mein Leben”. Margherita Gilda Scarpellini Sindaco di Monte San Savino Trieste Dolomiti Contemporanee è un progetto di rigenerazione che dal 2011 opera su siti ad alto potenziale e depressi, attraverso l’arte contemporanea e la cultura. Fabbriche, spettacolari complessi d’archeologia industriale, edifici particolarmente significativi rispetto alla storia del territorio, collocati nelle Dolomiti-Unesco, si trasformano da luoghi abbandonati in cantieri innovativi, centri di produzione artistica. Su alcuni siti si agisce solo per alcuni mesi: le attività svolte conducono generalmente al riavviamento delle strutture. In altri casi, dove il valore storico o culturale dei siti risulti eccezionalmente rilevante, i progetti vengono calibrati sul medio-lungo periodo, così da compiere un lavoro più accurato sulla loro identità, passata e presente, e sul ripensamento del loro futuro. Così è stato per il Nuovo Spazio di Casso, lanciato nel 2012 nell’area del Vajont, teatro nel 1963 della terribile Tragedia. E così è oggi per l’ex Villaggio Eni di Borca di Cadore, il cantiere più recente e dal potenziale più elevato. Il Villaggio, voluto da Enrico Mattei e realizzato da Edoardo Gellner, fu, dai primi anni ’50 ai primi ’90, un centro vacanze per i dipendenti del Gruppo Eni. Situato in un bosco ai piedi del Monte Antelao, esso occupa una superficie di oltre 100 ettari. A luglio 2014, grazie al sostegno del Gruppo Minoter-Cualbu, proprietario del sito, Dolomiti Contemporanee ha avviato su questo sito formidabile Progettoborca, piattaforma culturale e strategica di rifunzionalizzazione delle strutture inattive. Una Residenza artistica interazionale è attiva al suo interno; informazioni, progetti ed attività sono disponibili nel website dedicato. Museo del Gioiello Parco del Sojo I Musei di Spazio Brazzà Galleria Civica Bressanone Museo Revoltella Dolomiti Contemporanee Basilica Palladiana Piazza dei Signori, Vicenza www.museodelgioiello.it Via Covolo, 36046 Lusiana VI e-mail: [email protected] www.parcodelsojo.it Via del Castello 15, 33030 Moruzzo (UD) Cell. +39 345 39 11 907 e-mail: [email protected] www.castellodibrazza.com Via Portici Maggiori 5 39042 Bressanone (BZ) www.brixen.it Via Armando Diaz 27, Trieste www.museorevoltella.it Via Sant’Antoni 1, Casso (PN) www.dolomiticontemporaneenet www.progettoborca.net www.twocalls.net [ 64 ] [ 65 ] Teodolinda Caorlin V enezia Giacomo Modolo V icenza Luciana Cornale Rec oaro Terme (VI) Andrea Grotto V enezia Teodolinda Caorlin con la sua tecnica minuziosa, i suoi fili sottili, incrociati a trama e ordito, la portarono in quegli anni a realizzare figure quasi immaginarie ed eteree, figure virtuali. Ci era piaciuto il modo moderno e personale con cui veniva rivisitata una tecnica classica come quella dell'arazzo, e lo sguardo caldo, emozionato ed emozionante che l'artista rivolgeva alle persone che raffigurava, alle loro contraddizioni, alla loro solitudine. E dalle virtù di allora oggi Teodolinda si cala nella realtà e, forse a fronte dell'oggettività presente, ci propone i sette vizi capitali, immagini dense di realtà immerse nei loro pensieri, nelle loro ansie, nei loro peccati...Le figure che rappresentano i vizi non sono marchiate da stigmate, non sono brutte o laide; sono persone come tutte le altre, sono persone come noi, e non suscitano disprezzo o riprovazione, ma comprensione e un senso di vicinanza. Non sono solo peccatori, ma esseri umani, "Umani, troppo umani", parafrasando Nietzsche. Così compaiono, come definiti da Aristotele, "gli abiti del male" appunto, abiti tessuti su chi sa solo ripetere azioni non proprio esemplari. E questa non poteva essere che una scelta fatta da un'artista "tessile": riportare in quegli abiti i desideri irrefrenabili, le tristezze e le esagerazioni, gli abbandoni e le vendette, i torpori e le inerzie. Tutti sapientemente intessuti nelle trame e negli orditi, tutti nati dal semplice intreccio infittito solo in alcuni punti. Ed infine gli occhi, quegli occhi così grandi che ti guardano. Stupiti? o solo ansiosi di superare le debolezze e tornare ad essere uomini e donne? Mimmo Totaro "Portraits from K.'s diary", ultima personale dell'artista vicentino Giacomo Modolo, a cura di Elisabetta Chiono: un viaggio pittorico all'interno di due stati, due città, due vite, in un arco temporale che, partendo dalla Primavera di Praga, giunge fino ai giorni nostri. Ispirato dai racconti di Karin (la protagonista e redattrice del "diario" del titolo della mostra) Modolo tenta un racconto tutt'altro che didascalico che si snoda senza soluzione di continuità da una tela all'altra, alternando ritratti ad ambientazioni architettoniche che convivono all'interno dello spazio liminale che separa il figurativo dall'astratto. Le suggestioni prendono vita da documenti storici, fotografie d'epoca le quali, attraverso la decontestualizzazione di oggetti, architetture ed atmosfere, abbandonano il carattere individuale per assumere un valore universale, condivisibile. La figura che incarna “Diffidenza” (2015) appartiene ad un'epoca senza tempo, resa da tonalità esaustive, nelle quali la profondità è ottenuta per livelli secchi, per campiture piatte, rigide. Nel ritratto della giovane donna ammantata, che cerca protezione dietro al bavero della casacca, non c'è spazio per la luce, che viene assorbita totalmente nelle pennellate precise, che definiscono i contorni come una lama di coltello. L'antinaturalismo cromatico diventa simbolico, malinconico, straziante, mentre l’oscurità del fondo inghiotte ogni altro significato. Petra Cason Diplomata all'Istituto d'Arte P. Selvatico di Padova sez. decorazione pittorica, vive e lavora a Recoaro Terme . Ha iniziato l'attività artistica intorno al 1980 ed ha esposto in varie mostre di valore nazionale. Luciana Cornale evoca morbide figure della mitologia silvana. Son folletti, maghesse, uccelli parlatori, streghe, alberi animati, che si muovono misteriosamente nel senso della natura: le anime nascoste della leggenda, il cuore dell'ancestro. L' arte è un viaggio. Ha sempre avuto diverse direzioni: l'intrattenimento, l'impegno, l'arredamento, il denaro.... la ricerca, la sofferenza. Quello di Luciana Cornale è un percorso dallo sguardo libero, cioè non dettato dalla convenzione o dalla convenienza. Tende la pupilla al di là del velo, della tenda che copre e cela, con vantaggio apparente per chi vive di apparenze. Essa cerca con spontanea luce la propria natura interiore, la propria lingua con le sue storie delineate tra immagini e presenze che si incontrano nel suo gesto creativo calmo ed appassionato. Il suo palcoscenico creativo attira da stanze differenti, spesso lontane nel tempo, volti ed apparizioni che si ritrovano e restano insieme in una chiara calma che disegna la profonda identità di Luciana. La sua arte è il respiro che lei stessa cerca di comunicare alle persone che guardano e....forse ne ascoltano il linguaggio. La creazione dell'arte cerca, anche se difficilmente trova una risposta al senso dell'esistere. Luciana guarda serena le sue "anguane" che sembrano raccontare qualcosa che avviene altrove, oppure si ferma affranta di fronte a chi scompare. L'attimo migliore è il pensiero che percorre l'intero arco. Ulderico Manani Andrea Grotto (1989), artista vicentino, si forma presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Nel 2013 con il collettivo How We Dwell (make your own residence) è assegnatario di un atelier presso la Fondazione Bevilacqua La Masa. Andrea lavora principalmente attraverso pittura, ma anche con scultura, installazione e performance, alla creazione di narrazioni. Rappresentando le scenografie dei propri racconti l’artista ci fa entrare nel suo album di ricordi, e le pitture divengono degli still silenziosi di una immaginifica cinematografia interiore, della quale l’artista è l’unico protagonista. Particolare attenzione viene data alla costruzione, alle piccole architetture nelle quali è possibile cercare riparo, o sulle quali è possibile salire o scivolare. Oppure, ancora, alla decostruzione e al riassemblaggio (In truth nothing is lost). L’elemento abitabile è un topos ricorrente per Andrea, soprattutto con How We Dwell. Il contenitore che contiene e protegge, ma allo stesso tempo può essere una struttura di fortuna, in bilico, una tenda, una casa sull’albero, un bivacco (come nei lavori della serie Walking I e Walking II , Houses, o nella performance Stube). Tra i lavori non pittorici va citata la Legrosega Panduda, performance realizzata a Casso, presso lo spazio di Dolomiti Contemporanee, che si rifà alla figura mitica della Legrosega, donna-spauracchio della tradizione cassana. Negli ultimi lavori che Andrea sta realizzando il dialogo tra pittura e scultura si va facendo sempre più stretto e lo schema narrativo sempre più folto. Alcuni elementi costruiscono un dialogo tra loro, altri interpretano un proprio monologo, a comporre una drammatizzazione corale. Veronica Mazzucco Livia Cuman M arostica (VI) Livia Cuman, artista marosticense, nel periodo natalizio, ha esposto 45 grandi tele nelle sale del Castello Inferiore di Marostica. I suoi critici d’arte Donata Demattè e Mario Guderzo la stanno accompagnando da tre anni nella sua crescita artistica. Dopo le mostre di Treviso e di Possagno lo sviluppo della sua pittura ha raggiunto risultati molto interessanti, originali e coraggiosi. L’uso che lei fa del colore sulle tele è bello e raggiunge immediatamente l’osservatore, nel quale dopo la nascita di un’emozione … “in tutti e due i protagonisti il tempo si annulla perché assorbiti dal dipinto che non ha confini e la convergenza è proprio la nascita di un’opera e di un pensiero.” Mario Guderzo in “Pensare la pittura” 2014. Al di là del colore nascono delle tele bianche con argento: “Non c’è mai vuoto nello spazio-colore della Cuman ma possono esserci grandi silenzi: ci sono opere interamente costruite con i bianchi … una pausa di puro spirito che si manifesta come un soggetto indipendente ma complementare, all’esplosione di vita … dei “grandi alberi”.” Donata Demattè in “Indagine aperta” 2014. Denis Riva F ollina (TV) "CASA. Fuochi traslochi monoliti stendardi", la personale di Denis Riva negli spazi ampi e densi di storia dell'ex collegio San Giuseppe a Follina, raccoglie in quattro sezioni la produzione più recente dell’artista emiliano. Tra i Traslochi immaginifici - una costante dell'opera di Deriva - in cui tronchi e massi prendono il largo per mezzo di stormi di uccelli o gruppi organizzati di animali a metà tra il reale e il fantastico, gli Stendardi, popolati da esseri ibridi e metamorfici, e i Monoliti (piccoli paesaggi da viaggio), la sezione dei Fuochi è rappresentativa degli "incendi interiori" che hanno caratterizzato il rapporto intimo tra l'artista, la propria identità e la Natura, entrata a far parte prepotentemente di una quotidianità intrisa di arte. Tra questi lavori, il potente dittico “Autoritratto con faccia che brucia” ritrae l’artista immerso in un paesaggio onirico, di leggere carte sovrapposte dalle pieghe delle quali sorgono catene montuose dai toni accesi. All’ombra di un cavallo imbizzarrito, che pare sciogliersi alla luce del giorno, la serafica figura dell’artista prende fuoco: le fiamme che ne lambiscono il volto non spaventano lo stormo di impavidi aironi cinerini appollaiati poco distante. Il “lievito madre” è il medium infinito dal quale prende vita la maggior parte della produzione pittorica di Derica: una miscela dal sapore alchemico, che fonde i pigmenti di colore all'acqua da cui attinge per dare vita a forme surreali che continuano a sorprendere. Petra Cason Autoritratto con faccia che brucia (dittico) | 2012/15 Acrilico, lievito madre e carta su tela Diffidenza | 2015 Acrilico su tela Teodolinda Caorlin Giacomo Modolo Luciana Cornale Andrea Grotto Livia Cuman Denis Riva vive e lavora a Venezia www.teodolindacaorlin.it vive e lavora a Vicenza [email protected] vive e lavora a Recoaro Terme (VI) www.lucianacornale.it vive e lavora a Venezia http://andreagrotto.tumblr.com/ vive e lavora a Marostica (VI) www.liviacuman.it vive e lavora a Follina (TV) www.denisriva.com [ 66 ] [ 67 ] Fabiano De Martin Topranin olzano B DESIGN: compie 44 anni il divano “Serpentone” ideato da Cini Boeri ARCHITETTURA LIBRI: “I limiti del modernismo – una Generazione Dimenticata di Architetti Europei” di Adam Caruso Fabiano De Martin Topranin (1984), originario di Padola di Cadore, si forma a Brunico e Selva di Val Gardena, apprendendo le tecniche della tradizionale scultura lignea altoatesina e reinterpretandola poi in chiave contemporanea. Soggetto d’elezione nella poetica di Fabiano è la figura del giovane, spesso adolescente, la cui irruenta interiorità va a caricare la materia lignea, che già è essenza viva, di nuova linfa. I giovani di Fabiano, corrucciati, concentrati, schivi, magnetici, sprezzanti, anche ostili, dal volto sfregiato da una cicatrice o da un’ecchimosi racchiudono una forza che in loro straborda, e paiono doversi incendiare da un momento all’altro. Non di rado armati di felpa e berretto, questi giovani irrequieti si aggirano in scenari boschivi (Back to the forest) o nella giungla urbana (Urban hero), dove si fanno spazio anche a colpi d’accetta, in un continuo confronto tra essere umano, ambiente antropizzato e natura, che è lo svolgimento di un’azione conflittuale, il compimento di un’impresa, un dissidio, un artificio. Particolare, per la resa mimetica e per la velata ironia che ne deriva, la serie delle teche -“In case of return to the forest break glass” si legge su di esse- dove l’artista mette a disposizione dello spettatore, in caso di necessità, alcuni strumenti di sopravvivenza per la ruvida vita nel bosco. Per il suo ultimo progetto artistico Fabiano sta lavorando non solo con la scultura, ma anche con la luce, il suono e il video, ricreando brandelli di crepuscolare surrealtà onirica, nella quale si manifesteranno, condensate, rarefatte, spinose, le suggestioni di un mondo che appartiene al sogno. Goldene Träume è il titolo del progetto, ed anche un augurio, “sogni d’oro”. (Veronica Mazzucco) Serpentone nacque nel 1971. Lo disegnò Cini Boeri a Milano; lo ingegnerizzò e produsse Arflex a Limbiate. Era un divano, certamente, ma diverso da tutti gli altri: senza struttura né rivestimento, era interamente monomaterico, di morbida schiuma poliuretanica. Poteva essere tagliato dell’esatta misura desiderata e attorcigliato a piacere. Un esemplare lunghissimo invase le strade attorno a San Babila a partire dallo showroom Arflex di via Borgogna, e fece subito parlare di sé. Cini Boeri aveva inventato la prima seduta “da utilizzare, non da possedere”, un divano che invitava l’utente a progettare da sé il proprio spazio di vita e a sperimentare tante modalità inedite per “stare seduto”. Non per forza composto. Serpentone ebbe breve fortuna: la schiuma poliuretanica si rivelò un materiale estremamente instabile e poco resistente all’invecchiamento. Alla rapida diminuzione dell’elasticità della schiuma corrispose un aumento esponenziale della fragilità della seduta. I Serpentoni si sgretolarono l’uno dopo l’altro. Arflex conserva ancora uno degli ultimi esemplari sopravvissuti, protetto in un ambiente a temperatura costante e al riparo dalla luce del sole, come si trattasse di un reperto archeologico di una civiltà antichissima. Curiosamente, le norme sanitarie attuali pongono forti limitazioni all’utilizzo della schiuma, impedendo di fatto la produzione di nuovi Serpentoni. Sono in corso alcuni esperimenti con materiali alternativi, ma in nessun caso è stato possibile raggiungere la stessa versatilità dell’originale. Serpentone resta per ora cristallizzato in poche fotografie d’epoca in bianco e nero: integrato nell’arredamento di qualche salotto, all’aperto, mentre un gruppo di bambini in grembiule ci gioca attorno o, infine, in compagnia di un’elegante donna-architetto che fuma e riflette. The Limits of Modernism – a Forgotten Generation of European Architects (I limiti del modernismo – una Generazione Dimenticata di Architetti Europei) è il titolo di una sequenza di pubblicazioni che l’architetto inglese Adam Caruso dedica ad alcuni, selezionatissimi, autori del ‘900. La serie, inaugurata dalla monografia dedicata alla figura complessa di Fernard Pouillon (modernista francese sui generis, costruttore prolifico travolto nel cuore della carriera da un controverso scandalo giudiziario) prosegue con un approfondimento su i milanesi Asnago e Vender. Poco conosciuto al di fuori del capoluogo lombardo, il duo fu tra i principali protagonisti della costruzione della città borghese del ‘900, progettata dai così detti “professionisti” dell’architettura (Luigi Caccia Dominioni, Ignazio Gardella e Vico Magistretti, tra gli altri). Le celebri facciate “astratte” che punteggiano il centro città sono descritte attraverso le fotografie di Hélène Binet, la cui composizione rigorosa si sposa naturalmente con i prospetti sobriamente impaginati degli autori. Ad esse si affianca il ridisegno a fil di ferro (meticoloso e ai limiti del virtuosismo) del contesto urbano dove gli edifici si inseriscono e in cui finiscono per confondersi: Asnago e Vender, ci racconta Caruso, non concepiscono l’architettura come produzione di oggetti tridimensionali d’eccezione, autoriali e autoreferenziali, ma come lettura, interpretazione e progetto di una realtà data, con cui confrontarsi e dialogare. In sintesi, Asnago Vender and the construction of Modern Milan, al di là dell’interpretazione critica in parte contradditoria del percorso degli autori, racconta soprattutto di un momento storico fortunato del paesaggio urbano milanese, che fu rappresentazione tridimensionale dello sviluppo culturale, sociale ed economico della città del boom. AreAArte Card © Archivio Storico Arflex Fabiano De Martin Topranin vive e lavora tra Padola e Bolzano http://www.fabianodemartin.com/ [ 68 ] Il “Serpentone” di Cini Boeri porta con te la tua voglia di cultura! 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Fanoli” Cittadella (PD) Ist. Sup. GB. Ferrari ISA “A. Corradini” Este (PD) Istituto d’Arte “P. Selvatico” Padova (PD) Liceo Artistico “A. Modigliani” Padova (PD) Ist. d’Arte St. “Bruno Munari” Castelmassa (RO) Liceo Statale “Celio -Roccati” Rovigo (RO) 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 Liceo Artistico St. Treviso Treviso (TV) Lic. e Ist. d’Arte “Bruno Munari” Vittorio Veneto (TV) Liceo Artistico St. “M. Guggenheim” Venezia (VE)) Liceo Artistico St. Venezia Venezia (VE) Liceo Artistico St. “Boccioni” Verona (VR) Istituto St. d’Arte “G. De Fabris” Nove (VI) Liceo Artistico “U. Boccioni” Valdagno (VI) Liceo Artistico “A. Martini” Schio (VI) I.I.S. “Bartolomeo Montagna” Vicenza (VI) Istituto St. d’Arte “E. Galvani” Cordenos (PN) Istituto d’Arte “G. D’Annunzio” Gorizia (GO) AREAARTE N°22 estate 2015 Direttore responsabile Giovanna Grossato 4 50x50x50 ART SÜDTIROL 2015. L`arte illumina il Forte di Fortezza di Luca Masiello 8 I COLORI DELL’OSCURITA’ 14 Andrea Martinelli. Riflessioni sulla realtà Martina Gecchelin 20 Pollock & Pollock alla Collezione Peggy Guggenheim 24 Towards the future. 35 Years of Galerie Dorothea van der Koelen Mainz | Venezia Petra Schaefer 28 Toni Buso. Tracciando sonorità visive Erika Ferretto Progetto grafico 32 VILLA CA’ ERIZZO LUCA. Museo Hemingway 36 Robert schad. Come nasce una mostra 40 Pino Pin. Sculture con vocazione concettuale 44 56esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia. All The World’s Futures Anna Livia Friel 48 Marcella Dalla Valle. In viaggio attraverso l’inconscio Alessandro Benetti 52 Esotismi. Fuga dall’occidente Mara Seveglievich 56 A PROPOSITO DEL CIBO, DEL VINO E DELLE VIE E FORME IN CUI ESSI GIUNGONO SULLE NOSTRE TAVOLE 60 Fotografie come strati archeologici Claudio Rigon 64 Da Vedere Andrea Gaspari Progetto grafico copertina realizzato da HACKATAO – Sergio Scalet e Nadia Squarci Foto: ISFAV Istituto superiore Fotografia e Arti Visive www.isfav.it In copertina: Marco Polo - Podmork Web designer Istituto St. d’Arte “G. Sello” Udine (UD) Stampa GRAFICART Arti Grafiche Srl GRAFICART Arti Grafiche Srl Via Boscalto, 27 - Z.I. 31023 Resana (TV) - Italy Tel +39 0423 717171 r.a.- Fax +39 0423 715326 - 715191 www.graficart.it stampato su - printed on “GardaPAt 13KIARA” Cartiere del Garda S.p.a. | Riva del Garda (TN) www.gardacartiere.it Editore Martini Via Umbria, 31 36061 Bassano del Grappa (VI) www.areaarte.it info@ areaarte.it Anno 6. Numero 22 Registrazione: Tribunale di Vicenza n. 1214 del 19 gennaio 2010 Iscrizione al ROC n. 22289 del 02/05/2012 © 2010 Martini Edizioni, Thiene (VI) [ 70 ] L’arte salva l’arte di Giovanna Grossato Testi Giovanna Grossato Luca Masiello Petra Schaefer Alessandro Benetti Anna Livia Friel Martina Gecchelin Erika Ferretto Mara Seveglievich Claudio Rigon VG7 Abbonati e potrai sostenere anche tu numerosi progetti per l’Africa 3 Redazione Giovanna Grossato Marcello Palminteri Alessandro Benetti Anna Livia Friel Silvia Neri Tazio Cirri Erika Ferretto Marco Stoppa Martina Gecchelin Istituto St. d’Arte “E. e U. Nordio” Trieste (TS) AreAArte collabora e sostiene anche Medici con l’Africa Cuamm Per informazioni scrivi a [email protected] oppure a [email protected] Sommario [ 71 ] www.areaarte.it