Tutto - AreaArte

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L’ECCELLENZA IMPRENDITORIALE
DI UN TERRITORIO CHE, ATTRAVERSO
L’ARTE E IL DESIGN, TROVA NUOVI
LINGUAGGI DI COMUNICAZIONE E
AGGREGAZIONE
Editoriale
L’arte salva l’arte
I
l crowdfounding (finanziamento collettivo, per dirla in italiano) legato all’arte può
avere un punto di partenza invertito. Anziché essere il microfinanziamento di un
gruppo di persone che mettono in comune le proprie risorse economiche a sostenere
un progetto o un’organizzazione, può essere il progetto a chiedere aiuto ad una collettività fluida e non definita per adempiere alle sue finalità.
E’ il caso dell’iniziativa, precedentemente collaudata con successo, dei benedettini del
monastero di San Giorgio Maggiore, allocato sull’omonima isola veneziana, nel bacino
di San Marco a Venezia. Una struttura monastica che ebbe origine nel X secolo ma i cui
edifici attuali risalgono al XV e XVII. La parte più famosa del complesso è la Basilica,
eseguita da Andrea Palladio nel 1576, con la facciata completata da Vincenzo Scamozzi
e con l’interno decorato da dipinti di Tintoretto, Palma il Giovane, Carpaccio. Nel 1806
il monastero fu soppresso dalle leggi napoleoniche, e molti dei beni rimasti andarono
venduti o rubati. E’ il caso della bellissima tela raffigurante Le nozze di Cana, opera di
Paolo Veronese (1563), dipinto pensato in relazione allo spazio palladiano del refettorio,
trafugato nel 1797 per volontà di Napoleone e trasferito al Louvre. Solamente pochi
monaci ottennero di restare per amministrare il complesso che visse da allora un inarrestabile declino.
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L’impulso a ristrutturare e ripopolare gli spazi del monastero di San Giorgio, che il
governo italiano gli affidò in concessione nel 1951, venne dal conte Vittorio Cini che
vi costituì la Fondazione Giorgio Cini, dedicata al figlio, con lo scopo di promuovere il
ripristino delle architetture monumentali e delle opere d’arte dell’isola di San Giorgio
Maggiore e di favorire istituzioni educative, sociali, culturali ed artistiche.
La chiesa e alcune adiacenze vennero affidate ai monaci benedettini dell’Abbazia di
Praglia (Padova) da cui, dal 2012, la Comunità di San Giorgio è dipendente. Oltre
a governarla, i monaci vi applicano in modo moderno il loro precetto “ora et labora”.
Hanno infatti dato vita ad un’organizzazione non-profit, la Benedicti Claustra onlus che
organizza mostre ed eventi per finanziare i restauri dei beni architettonici e artistici del
monastero di S Giorgio e dell’Abbazia di Praglia.
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E’ in quest’ottica che nasce il progetto “l’Arte salva l’Arte” che in occasione della
56°Esposizione Internazionale Biennale d’Arte All the World’s Future di quest’anno, ha
deciso di ospitare come imponente evento collaterale due sculture dell’artista spagnolo
Jaume Plensa. Una grande testa umana in rete d’acciaio posta nella navata centrale della
Basilica dialoga con un’altrettanto grande mano sospesa sotto la cupola, composta dalle
lettere di 8 diversi alfabeti. Le due opere instaurano tra loro un discorso spirituale e
intellettuale che coinvolge anche il prezioso codice miniato posto dietro l’altare. La fusione delle differenze è, del resto, un aspetto fondamentale del lavoro di Plensa, sottolineato anche dai disegni e dai ritratti in alabastro esposti nella Manica Lunga, a trecento
metri dall’ingresso della Basilica. In entrambi gli spazi, le forme di Plensa hanno come
obiettivo di collegare fra loro persone di fedi diversi o prive di fede.
Per ottenere questa ospitalità, due gallerie che rappresentano Plensa, una di New York
e una di Parigi, hanno elargito una donazione al monastero. E naturalmente anche il
pubblico che accede gratuitamente alla mostra e alle visite guidate all’Abbazia, può lasciare un’offerta. Il ricavato andrà al restauro di alcuni preziosi codici miniati del Quattro e Cinquecento, così come nel 2011 l’istallazione dell’indiano Anish Kapoor servì
al restauro di una tela di Tintoretto e quella del 2013, dell’inglese John Pawson, per il
restauro della statua di S. Giorgio che sta sopra la cupola della Basilica.
Giovanna Grossato
[3]
Forte di Fortezza - Panorama
50x50x50 ART SÜDTIROL 2015
L` a r t e i l l u m i n a i l F o r t e d i F o r t e z z a
L u c a M a s i e ll o
Georg Hofer
foto di
D
alla metà dell’Ottocento svetta in tutta la sua maestosità all’ingresso della Valle Isarco: un complesso imponente, spaventoso per certi versi, un gigante silenzioso
e ricco di mistero che sembra osservare con mille occhi tutta la
vallata; un luogo per moltissime generazioni inaccessibile, che
ha dato vita a leggende, timori, per quasi due secoli difeso a
vista da cannoni e uomini armati che hanno cambiato diverse
uniformi, nonostante dalle sue mura non sia mai stato esploso
neppure un colpo d’arma da fuoco. È la fortezza asburgica di
Fortezza, in tedesco “Franzensfeste”, letteralmente la "fortezza
di Francesco" in onore dell’imperatore Francesco I che la fece
costruire per per tentare di mettere in sicurezza due delle vie
di comunicazione più importanti dell’impero, la Val Pusteria e
la strada del Brennero. Dall’esercito austroungarico venne poi
impiegata da quello italiano fino all’apertura delle frontiere nei
primi anni Novanta del secolo scorso, e quando i soldati – che
la utilizzavano come polveriera – abbandonarono la struttura,
qualche anno fa i pesanti cancelli che la delimitavano si spalancarono per la popolazione civile. Che fare di questa cattedrale
[4]
Andreas Zingerle | 2013
Peter Kaser | 2013
nel deserto di 65 mila metri quadrati che sorge su un chilometro
quadrato? Semplice: temperare l’aura di guerra in arte, e vista
imponenza del forte, farlo alla grande, con un’esposizione capace di mettere in luce i talenti altoatesini denominata “50x50x50
ART SÜDTIROL”, una biennale che nell’estate di quest’anno,
dall’11 luglio al 12 settembre, celebrerà la sua terza edizione.
L’idea è venuta ad Hartwig Thaler, un artista di Bressanone,
un paese che sorge all’ombra della struttura. Thaler, dopo la
smilitarizzazione della fortezza, vide in quegli spazi una location ideale per una grande esposizione. Era il maggio del 2011
quando venne inaugurata la prima edizione di “50x50x50 ART
SÜDTIROL” e gli oltre 3 mila e 500 visitatori confermarono
l’idea vincente di sfruttare la struttura asburgica ai fini museali. “L’idea iniziale era quella di utilizzare il sito per offrire agli
artisti locali l’occasione di esporre in una cornice così maestosa,
ma soprattutto di abbattere quel muro che a volte nell’ambiente artistico crea divisioni. Questa era l’opportunità per unirci
e creare qualcosa assieme”, spiega Hartwig Thaler. Gli esordi
non sono stati facilissimi: le difficoltà burocratiche hanno segnato gran parte del lavori di organizzazione, così come la reperibilità di fondi. Poi l’artista brissinese si è incontrato con i
vertici dell’associazione culturale “OPPIDUM”, che gestisce
di fatto le attività legate al forte, principalmente le visite guidate, e in loro ha trovato il primo sostenitore privato. Anche
quest’anno, dunque, per 50 giorni, in 50 stanze, 50 artisti (un
po’ di più, a dire il vero…), espongono le loro opere. La mostra
non si presenta con un tema definito, preferendo dare spazio
principalmente alla personalità di ciascun artista e al suo modus
operandi libero da vincoli. Ognuno di loro, dunque porta il suo
Manfred Mureda | 2011
[5]
“mondo”, il suo messaggio così che la
collettiva spazia dalle forme combinate
ai progetti interattivi, in varie modalità
espressive. Si va dai linguaggi contemporanei e attualissimi alle tipologie della tradizione artistica locale, ai dipinti
in stile “classico” alle performance, alle
istallazioni video, alle fotografie, ai collage concettuali, alle sculture realizzate
in tecniche tradizionali. L'intensità, la
varietà e l'originalità delle opere esposte
permettono un'ampia visione panoramica sull'operato artistico dell'Alto Adige
ed il susseguirsi delle grandi sale della
fortezza asburgica, poi, marca in modo
significativo ed accentua i passaggi delle
varie tendenze.
Sonia Hofer | 2013
Ecco dunque i protagonisti dell’edizione 2015 di “50x50x50 ART SÜDTIROL”: Oswald Auer, Rosmarie Burger,
Peter & Kyra Chiusole, Monika Costabiei, Walter Dalfovo, Markus Damini, Erich Dapunt, Erwin Dariz, Arno Dejaco & Manuel Ferrigato, Josef h
Delleg, Stefano Favoretto, Markus Gasser, Sonya Hofer, Ursula Huber, Johannes Inderst, Erika Inger, Wil-ma Kammerer, Peter Kaser, Harald Kastlunger,
Markus Keim & Beate Hecher, Markus
Kiniger, Lars Klauser, Hans Knapp,
Arthur Kostner, Giancarlo Lamonaca,
Ivan Lardschneider, Ivo Mahlknecht,
Johanna Meßner, Markus Moling, Gilo Moroder, Werner Moser Dorfmann,
Manfred Mureda, Martin Pardatscher,
Hubert Patscheider, Leander Piazza, Marco Pietracupa, Edith Plattner,
Christiane Raich, Flavio Senoner, Sergio Sommavilla, Thomas Sterna & Pascal Lampert, Maria Stockner, Martina
Stuffer Tarhan, Sara Stuflesser, Georg
Tappeiner, Hartwig Thaler, Oskar Verant, Peter Paul Verwunderlich, Hannes Vonmetz, Maria Walcher, Ruediger
Witcher, Wolfgang Wohlfahrt e Andreas Zingerle.
Johanna Messner | 2013
Maria Walcher | 2013
Ciascuno di loro propone una particolarità e tutti insieme confermano la ricchezza dei linguaggi artistici del territorio, dando nel contempo dimostrazione
della capacità dell’arte di far convivere
armonicamente le varie voci la cui somma risulta infine più preziosa e pregnante di ognuna presa singolarmente.
50x50X50 ART SÜDTIROL
11.07.2015 - 12.09.2015
FORTE di FORTEZZA
www.artsuedtirol.it
Peter Chiusole | 2013
[6]
Un gruppo di artisti dell’edizione 2011 di “50x50x50 ART SÜDTIROL
[7]
I COLORI DELL’OSCURITA’
foto di
Alessandro Molinari
“
Visitai Federico Bonaldi nel suo laboratorio soltanto in un paio di occasioni, rimanendone sempre affascinato. Fu dopo la sua
morte, quando mi fu affidato l’incarico della documentazione fotografica, che iniziai a frequentarne regolarmente il laboratorio
e l’opera. Ogni volta che entravo in quel luogo misterioso e familiare, le sensazioni erano fortissime, ne ero turbato e mi sentivo un
intruso. Ricordavo e immaginavo come si muoveva all’interno di quegli spazi, nel silenzio assordante esaltato dal rumore del fiume che
l’aveva sempre accompagnato, e in quel silenzio percepivo il moto della sua assenza. Mi rendevo conto che non stavo fotografando un
ambiente, ma la vita di una persona che per cinquant’anni aveva lavorato in quelle stanze dalla mattina alla sera, sette giorni su sette,
trecentosessantacinque giorni l’anno.
In quel periodo leggevo Libro d’Ombra di Junichiro Tanizaki, un breve saggio che affronta il tema dell’estetica asiatica in rapporto a
quella occidentale, e mi domandavo se Federico avesse conosciuto questo scritto, poiché nelle riflessioni di Tanizaki ritrovavo Bonaldi.
Altare dello sciamano | 2007
Refrattario colorato in pasta, legno, filo di rame
[8]
Nel tessere l’elogio delle ombre, Tanizaki riflette sul fascino tutto occidentale, teso alla ricerca della chiarezza e della distinzione, per
la luce che inonda e colpisce, per l’illuminazione diretta e potente, mentre l’estetica asiatica, specialmente quella Giapponese, preferisce
la vaghezza dell’ombra, la luce filtrata, mai precisa, mai forte. Il gusto del lontano oriente predilige debolezza e frammentazione nella
luce che smorza i toni più accesi, attenua i confini, non svela mai tutto e subito, ed è in grado di evidenziare dettagli e finiture che solo
[9]
Malattia di mia madre | 1989
Refrattario, porcellana, legno, ferro
Ego | 1989
Refrattario, legno, ferro
vari gradi di oscurità, buio, penombra o la sovrapposizione delle ombre stesse possono rivelare. L’ombra esalta la patina del tempo sulle
cose, non il loro smalto o la brillantezza; è in armonia col concetto di imperfezione e fragilità che permea la vita, e la bellezza è ciò che
può trapelare, non ciò che si offre immediatamente allo sguardo.
Quest’opera ha decisamente influenzato il mio lavoro e credo di averci trovato la chiave per fotografare l’opera di Federico Bonaldi.
Le sculture parlano già da sole e, personalmente, oltre alla foto didascalica che ha valore documentario per l’archivio, credo non vi
sia alcuna necessità di farle vedere. Inoltre, non vorrei nemmeno interpretarle. La mia intenzione è, semmai, di riuscire a trasmettere
pensiero e anima di chi ha creato l’opera, di come l’ha immaginata creandola: vorrei fotografare l’opera nella mente dell’artista. Sono
principalmente un ritrattista, non un fotografo di still life, e considero queste fotografie dei ritratti di Federico.
La scelta di non svelare completamente, perché rimanga qualcosa di indefinito, è motivata anche da un senso di protezione nei confronti dell’artista che tradirei svelando del tutto il suo lavoro.
[ 10 ]
senza titolo | 1976
Refrattario
[ 11 ]
Le immagini che creo sono di non facile lettura; stimolano e
invitano non solo a vedere, ma a guardare e a scoprire. Luci e
ombre rivelano e nascondono: siamo sollecitati ad avvicinarci,
con cautela e circospezione, con curiosità e timore, per poter
cogliere ciò che può trapelare, per scoprire un dettaglio, svelare
una finitura; attraverso i colori dell’oscurità i sensi possono dilatarsi e amplificare l’immaginazione che è in noi. “Per cominciare, spegniamo le luci. Poi, si vedrà.” (Junichiro Tanizaki - Libro
d’Ombra).”
Federico Bonaldi, nato a Bassano del Grappa (VI) nel 1933,
frequentò dal 1948 al 1951 l’Istituto d’Arte per la Ceramica di
Nove con il magistero di Andrea Parini e poi l’Istituto d’Arte
di Venezia dal 1954 al 1956. Dall’anno seguente apre un suo
laboratorio e inizia a collaborare con industrie della ceramica
in Italia e all’estero, tenendo work shop e conferenze in scuole
e musei.
Con la sua attività di ceramista, insieme a Giuseppe Lucietti,
Pompeo Pianezzola, Cesare Sartori e Alessio Tasca, contribuisce al rinnovamento della tradizione ceramica veneta già a partire dall’inizio degli anni Cinquanta e nel decennio seguente
inizia a ottenere ampi riconoscimenti sia in Italia che all’estero,
con decine di mostre personali e collettive in tutto il mondo.
Alcune sue opere fanno parte di collezioni di musei in Italia,
Germania, Giappone e Svizzera.
Nel 1964 viene invitato alla Biennale d’Arte di Venezia e, nuovamente, alla 54° edizione del 2011, per il Padiglione Italia e a
Palazzo Grimani. Dagli anni Ottanta realizza opere in argilla
refrattaria, porcellana e grès con cui raggiunge effetti di sorprendente policromia e per le quali è apprezzato in Italia, Germania, Francia e, soprattutto, in Giappone. Noto anche per le
sue “ceramiche fischianti”, i famosi cucchi, Bonaldi amava infatti
definirsi un “cucaro” fin da quando, più di una trentina d’anni,
fa aveva ripreso a realizzare questa antica tradizione ceramica
che era rimasta ormai appannaggio di qualche anziano, abile a
manipolare l’argilla fino a renderla sonora. Alcune sue ceramiche sono conservate nelle collezioni del Museo della Ceramica
di Nove e nel 1996 gli era stato conferito il Premio Cultura Città
di Bassano.
Oltre ad essere presenti in numerosi musei, i suoi lavori sono
stati pubblicati nel volume Ceramica italiana del Novecento edito
da Electa e curato da Franco Bertani e Jolanda Silvestrini.
La civiltà contadina, con il suo ricco patrimonio culturale attento al mondo della natura, costituì per lui, fin da giovanissimo, un modello da cui trarre ispirazione. «Non ho mai
voluto andarmene dal mio territorio – ebbe a dire nel corso di
un’intervista - Mi veniva suggerito dal mercato seguire uno stile
“d’avanguardia”. Ma le avanguardie storiche appartengono agli
inizi del Novecento che non ero interessato a ripetere”. Bonaldi
rimase infatti legato al suo paese, alla propria personalissima
creatività, al suo studio-museo appollaiato sopra il Brenta, aperto agli amici in qualsiasi momento, nel quale si recava come per
un rituale quotidiano capace di tenerlo in contatto con il ricco
patrimonio di valori artistici e umani cui aveva sempre fatto riferimento nel lavoro e nella vita e cui ha tenuto fede fino alla
morte, avvenuta nella sua casa di Bassano nell’agosto del 2012.
13 Giugno – 18 Ottobre 2015
Museo Civico di Bassano del Grappa ( VI)
Palazzo Sturm Bassano del Grappa ( VI)
Museo della Ceramica di Nove ( VI)
www.alessandromolinari.com
[ 12 ]
Astarotte | 1989
Refrattario, ferro
[ 13 ]
Martinelli Studio | 2013
foto di Gianni Berengo Gardin
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Improvvisamente Valentina | 2008
Tecnica mista su tavola
cm 75 x 114
S
traordinario disegnatore, Andrea Martinelli (Prato 1965) nelle sue opere percorre un pellegrinaggio minuzioso nei meandri
mentali del ritratto. I suoi quadri, sebbene ad uno sguardo rapido potrebbe sembrare il contrario, sono forme di riflessione
molto complesse che rifuggono dalla pittura fotografica e da quella iperrealistica e sono da annoverare nella nuova scena artistica internazionale in cui le tecniche tradizionali sono controbilanciate da visioni contemporanee.
Andrea Martinelli
R if lessioni sulla realtà
Martina Gecchelin
[ 14 ]
I suoi lavori sono “monumenti” all’Uomo, le pennellate morfologiche, raffinate e puntuali colgono tutte le sfaccettature semantiche e
i tratti distintivi di ogni volto per superarle, andare oltre i caratteri del singolo ed aprirsi al valore ideale e universale del genere umano.
Martinelli conferisce così struttura e solidità ai visi anonimi, comuni, scava dietro la maschera che ogni individuo indossa per arrivare
alla sua essenza, usando anche il virtuosismo tecnico di una sottile esagerazione. I tratti del viso si affilano impercettibilmente, le prospettive si avvicinano, le pose appaiono sovraccaricate e le dimensioni si moltiplicano. Al contempo, il colore è ridotto a un cromatismo
caldo, a volte impregnato di luce, altre avvolto nell’ombra della notte.
L’attenta semplificazione decorativa delle composizioni lascia cadere ogni artificio ed orpello conferendo respiro ai personaggi che
conservano una convincente impressione di naturalezza nonostante appaia evidente che gli individui rappresentati dall’artista non siano
idealizzati né abbiano l’aria di essere ritratti direttamente dal vero. I personaggi di Andrea Martinelli dunque sono figure familiari che
riconosciamo come presenze della nostra cultura, fanno parte della nostra quotidianità ma nello steso tempo sono figure ancestrali,
[ 15 ]
Ecce Nonno | 2007
Tecnica mista su tela
cm 300 x 200
Volto del Grande Nonno 4 | 2005
Olio su tavola
cm 172 x 112
memorie silenziose di cui riusciamo a percepire soltanto un’eco distante. Vengono da lontano, probabilmente iniziano il loro
cammino nelle corti e nelle strade del Rinascimento fiorentino,
per approdare negli ospizi e negli atelier del nostro secolo. Sono
il frutto della formidabile ricerca di mestiere compiuta dall’artista, che risale alle fonti della tradizione pittorica italiana e tedesca del disegno senza mai perdere di vista le avanguardie contemporanee. Il suo è un percorso originale che amalgama fra di
loro continui rimandi e citazioni, muovendosi nel tempo un po’
come l’incedere di un’altalena: come quest’ultima oscilla dall’epoca di Leonardo e DÜrer sino alla Nuova Oggettività di Schad,
costeggiando Giacometti, Bacon e Lucian Freud e, compiendo
il tragitto inverso, tiene insieme l’approccio figurativo di Klimt
e Schiele spingendosi fino al lucido realismo di Lopez Garcia.
con quell’aria di supremazia di pensiero, gli sguardi fissi, ieratici, come sculture lignee duecentesche dal colore sbiadito. Come
ad esempio nel quadro Uomo col maglione (2007) in cui nulla
appare al di là della precisione lenticolare che ne rileva posa e
costumi e ne documenta tutti i segni lasciati dal tempo, eppure
si intravede il mistero del vissuto nelle increspature intorno agli
occhi, alla bocca e alla ciclica metamorfosi che tutti coinvolge.
Martinelli, abile regista, crea nei suoi quadri un’atmosfera sospesa, misteriosa, terribile ma affascinante, in cui si coglie un
senso dell’attesa di metafisica memoria. I suoi personaggi emergono da un fondo neutro ed opalescente come se uscissero dalle
tenebre per irradiarsi verso la luce. Stanno lì in piedi, silenziosi,
[ 16 ]
Attratto dai volti deformati dal tempo, a parte rare eccezioni, per logica conseguenza l’artista preferisce ritrarre soggetti
anziani, scegliendo tra loro quelli il cui viso è maggiormente
raggrinzito (non a caso il titolo della sua prima mostra del 1992
è Senescenze). Lo si nota anche in Le Gilde (2011) dove la protagonista (la Gilda appunto), è fotografata davanti al quadro da
Gianni Berengo Gardin e si trova attorniata, protetta dalle sue
trasposizioni pittoriche che si stagliano maestose in grandezza
osservando l’astante attraverso la loro filatura chiaroscurale.
Un’altra opera che contiene i caratteri tipici dell’arte di Martinelli è La bocca (2013), un autoritratto di grandi dimensioni
entrato a far parte della Collezione degli Autoritratti della Gal-
Volto-Ombra 2 | 2005
Olio su tavola
cm 67 x 49
[ 17 ]
L’uomo che aveva ombre crudeli | 2004
Olio su tavola
cm 110 x 70
Pagina seguente
Uomo con la barba | 2008
Olio su tavola
cm 120 x 60
La signora con la camicia a righe | 2007
Tecnica mista su tela
cm 180 x 120
leria degli Uffizi di Firenze, dipinto con un realismo pittorico che presenta più di un’astrazione. Qui il viso dell’artista è sovrapposto a
un più grande volto di donna, dalla cui bocca, sembra fuoriuscire. I due soggetti hanno gli occhi chiusi, imperturbabili mentre ragni
dalle zampe esili si arrampicano sulle loro guance. La gamma tonale ridotta, il colore polveroso, che si sfarina appena rischiarato da
una luce fioca, crea un’atmosfera di silenziosa, intensa solennità. Ed è proprio in questa apparente e rarefatta semplicità che si muove
l’inusuale sapienza creativa di Andrea Martinelli, capace di coniugare una pittura antica quando si occupa solo di volti, contemporanea
invece quando tratteggia figure intere con cappotti, maglioni, giacche, cravatte, scialli e abiti quadrettati.
Galleria d’arte Nino Sindoni
Viale Matteotti 44/8
36012 Asiago ( VI)
www.ninosindoni.com
Associazione Alberto Buffetti
[email protected]
[ 18 ]
[ 19 ]
H
Pollock & Pollock
alla Collezione
Peggy Guggenheim
anno preso l’avvio il 23
aprile 2015 presso la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia
due mostre che si inseriscono in un più
articolato progetto espositivo con cui
la Collezione Peggy Guggenheim vuol
rendere omaggio nel corso del 2015 ai
fratelli Jackson e Charles Pollock.
Dopo Alchimia di Jackson Pollock. Viaggio all’interno della materia (14 febbraio
– 6 aprile), le rassegne Charles Pollock.
Una retrospettiva (23 aprile – 14 settembre) e Jackson Pollock, Murale. Energia
resa visibile (23 aprile – 16 novembre)
pongono l’accento, rispettivamente, la
prima sulla figura di Charles, forse meno nota al grosso pubblico ma non meno
interessante del fratello minore Jackson
Pollock, il celebre protagonista dell’Espressionismo astratto americano; la seconda su una delle opere più spettacolari
di Jackson, dopo un importante restauro, il Murale (proveniente dall’ University of Iowa Museum of Art, Iowa City)
che l’artista realizzò per l’appartamento newyorkese di Peggy Guggenheim,
committente dell’opera, tra l’estate e
l’autunno del 1943.
La ricca retrospettiva su Charles Pollock, a cura di Philip Rylands, direttore
della Collezione Peggy Guggenheim di
Venezia, è certamente la più esaustiva
mai realizzata sull’artista ed è diretta
a documentarne la carriera attraverso
oltre 120 opere, tra dipinti, schizzi, diRoma Otto | 1962
Charles Pollock
Olio su tela
Collezione privata, Monaco © Charles Pollock Archives
segni, fotografie e testimonianze in gran parte inediti, concessi dall’Archivio Charles
Pollock di Parigi, dalla moglie dell’artista Sylvia Winter Pollock e dalla figlia Francesca Pollock. Alcune opere di Jackson Pollock, di Thomas Hart Benton, maestro sia di
Charles che di Jackson, e un raro dipinto di Sanford Pollock, fratello dei due artisti,
completano inoltre la sezione dedicata alla fase giovanile della carriera di Charles a New
York e Washington.
La mostra è l’occasione unica di poter vedere lavori provenienti da importanti istituzioni pubbliche e collezioni private mondiali mai esposti prima e attraverso lettere,
riproduzioni fotografiche e bozzetti illustra lo stretto rapporto intimo e privato che lega
i membri della famiglia Pollock prima della seconda guerra mondiale.
La storia di Charles Pollock (Denver 1902 – Parigi 1988) è estremamente interessante
e incarna a suo modo un “secolo americano”. Maggiore dei cinque figli di LeRoy e Stella
Pollock, si trasferisce a New York nel 1926, dove studia arte con Thomas Hart Benton,
e nel 1930, insieme al fratello Frank, convince il più giovane Jackson a raggiungerli.
Compie i suoi primi studi alla Art Students League, impegnato socialmente e vicino
alla corrente figurativa del Regionalismo. Negli anni ’30 realizzerà un murale per la
Works Progress Administration, la più grande agenzia del New Deal.
Nel 1935-‘36 lascia New York per trasferirsi a Washington, DC, dove lavora per la
Resettlement Administration, agenzia federale legata al New Deal, scelta questa che lo
allontana da quel gruppo emergente di artisti avanguardisti newyorkesi, che stava portando il fratello Jackson alla scoperta di un nuovo tipo di arte. Una crisi nei confronti
Senza titolo [Fuochi d’artificio] | 1950
Charles Pollock
Guazzo su carta montata su pannello
Collezione privata, Monaco © Charles Pollock Archives
Peggy Guggenheim e Jackson Pollock davanti al Murale | 1943. © Foto George Kargar
[ 20 ]
[ 21 ]
Murale | 1943
Jackson Pollock
Olio e caseina su tela
cm 242,9 x 603,9
Donazione Peggy Guggenheim, 1959. University of Iowa Museum of Art. Riproduzione concessa dalla University of Iowa
Omaggio al Messico | 1955
Charles Pollock
Collage
Collezione privata © Charles Pollock Archives
della pittura figurativa nel 1944, immediatamente successiva al
completamento del murale per l’Università del Michigan, East
Lansing, lo sposta verso un linguaggio pittorico astratto. Dopo
un periodo come insegnante di design e tipografia in Michigan,
nel 1950 realizza il suo primo grande dipinto astratto Fuochi
d’artificio.
Nel 1956 produce il primo sostanzioso corpo di opere, la serie
Chapala, ispirata a un lungo soggiorno sul lago Chapala in Messico. Tra il 1962-’63 prende un anno di aspettativa dall’insegnamento, e viaggia in Europa, primo dei fratelli a recarsi nel Vecchio Continente. Facendo base a Roma, scopre i grandi maestri
classici dell’arte italiana e conosce artisti come Piero Dorazio,
Giulio Turcato, i fratelli Pomodoro, James Brooks e Giorgio Cavallon. Realizza in questo periodo una nuova, consistente serie
di dipinti astratti, la serie Roma.
A metà degli anni ’60, si lega movimento avanguardista conosciuto poi come Color-field, caratterizzato da una pittura a
campi astratti di colore molto estesi su tela di canapa che continuerà a dipingere anche dopo il suo trasferimento a Parigi nel
1971, dove trascorrerà il resto della sua vita, fino al 1988, anno
della morte.
La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Marsilio, in
italiano e inglese, con un saggio di Terence Maloon e una raccolta di lettere della famiglia Pollock, selezionate e commentate
da Kirstin Hübner.
Jackson Pollock, Murale. Energia resa visibile, a cura di David
Anfam, è invece un’esposizione itinerante dedicata al Murale re-
[ 22 ]
alizzato per Peggy Guggenheim.
Per la prima volta in Italia dopo un importante restauro, l’opera, lunga 6 metri, è la più grande mai eseguita da Pollock e vanta
di aver introdotto nell’Espressionismo astratto americano una
nuovo concetto di scala, anticipando le astrazioni successive, rese con la tecnica dello “sgocciolamento”. Il contesto all’interno
del quale è inserito il Murale comprende l’opera Alchimia, nonché opere di artisti come Lee Krasner, moglie di Pollock, David
Smith e Robert Motherwell.
La mostra – che dopo la tappa veneziana, sarà esposto alla
Deutsche Bank Kunsthalle di Berlino e poi al Museo Picasso di
Malaga - getta anche una luce nuova e fondamentale sul rapporto tra Pollock e la fotografia d’azione praticata da un gruppo di
fotografi quali Herbert Matter, Barbara Morgan, Aaron Siskind
e Gjon Mili.
Jackson Pollock (1912-56) è forse l’artista più significativo nella storia dell’arte, non solo Americana, del XX secolo e Peggy
Guggenheim è colei che lo ha scoperto e ne ha determinato il
successo. Peggy lo conobbe tra il 1942 e il ‘43 grazie a Sebastian Matta, pittore surrealista cileno, James Johnson Sweeney,
curatore del MoMA e futuro direttore del Museo Solomon R.
Guggenheim, e Howard Putzel, amico, critico e gallerista.
Ma fu un altro amico a convincerla del genio di questo artista
allora pressoché sconosciuto: Piet Mondrian, in esilio a New
York e giurato di una collettiva organizzata nella primavera del
‘43 nella galleria di Peggy. Nel luglio del ‘43, l’artista firma un
contratto con la galleria di Peggy che gli garantisce, unico arti-
La donna luna (The Moon Woman) | 1942
Jackson Pollock
Olio su tela
cm 175,2 x 109,3
Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. © Jackson Pollock, by SIAE 2015
sta a New York, uno stipendio.
Arrivando a Venezia alla fine anni ‘40, Peggy porta con sé le
opere di Pollock con la consapevolezza di esportare un’assoluta
novità artistica. Nel 1950 la collezionista gli organizza una mostra al Museo Correr, la sua prima personale in Europa. I critici Bruno Alfieri, Oreste Ferrari e Giuseppe Marchiori aiutano
Peggy nell’organizzazione, e in tre settimane, tra luglio e agosto, la mostra accoglie oltre 10.000 visitatori. A Palazzo Venier
dei Leoni rimangono oggi undici opere di Pollock, componenti
cruciali della storia dell’arte del ‘900.
Anche questa mostra è accompagnata da un’esaustiva pubblicazione di David Anfam, edita da Thames & Hudson in italiano
e inglese.
Vagoni ferroviari | 1934 c.
Charles Pollock
Inchiostro e acquerellatura su carta
Collezione privata © Charles Pollock Archives
Collezione Peggy Guggenheim
Palazzo Venier dei Leoni
Dorsoduro 701, Venezia
www.guggenheim-venice.it
[ 23 ]
C
hi, come la Dott.ssa Dorothea van der Koelen, ha il
vantaggio di attingere da un passato ricco di avvenimenti, guarda con ottimismo al futuro. La gallerista, che 35
anni fa ha fondato una galleria d'arte a Magonza, da oltre dieci
anni gestisce con successo la sua dépendance nella città di Venezia. Rappresentando contemporaneamente una porta verso l'Oriente e un ponte verso le Alpi, questa città si è contraddistinta
negli ultimi decenni come importante centro culturale europeo.
Numerose gallerie, fondazioni e musei privati hanno aperto qui
una seconda sede, per fruire dello scambio annuale tra Biennale d'arte e di architettura. In questo emozionante contesto socio-culturale Dorothea van der Koelen si è assicurata, lavorando
strategicamente tra Magonza e Venezia, una selezione di artisti
davvero interessante. "La Galleria di Dorothea van der Koelen",
secondo Philip Rylands, direttore della Collezione Peggy Guggenheim, "è la migliore galleria internazionale di Venezia".
In occasione della Biennale d'Arte 2015, con la mostra Towards
the future La Galleria volge il suo sguardo al futuro, interrogandosi su come la creazione artistica possa mantenere una validità
sostenibile nell'era della rivoluzione digitale e quali nuove strade
possa l'arte esplorare. Con grande anticipo La Galleria ha scelto un tema coerente a quello presentato dal direttore artistico
della Biennale Okwui Enwezor, intitolato All the world’s futures,
ovvero: in che modo le diverse realtà che fanno parte di questo
mondo si aspettano, pianificano e implementano il proprio futuro?
Dorothea van der Koelen esibisce una selezione di opere scelte tra quelle presentate per la prima volta il 1° novembre 2014
nella CADORO, il suo nuovo centro culturale a Magonza. L’installazione After here & there, dell’artista concettuale americano Lawrence Weiner (*1942), posta nella parete frontale della
galleria veneziana, funge da pars pro toto per l’intera mostra.
Il costante impegno di Weiner nel ricercare nuove vie per l'arte
contemporanea è oggi più attuale che mai. L’artista ha presentato alla 55 ° Biennale nel 2013 l'evento collaterale The Grace of
a Gesture: questa scritta, riprodotta in dieci lingue diverse, dal
cinese all’arabo e all'ebraico e posizionata sui Vaporetti ha interagito con la città lagunare. Il motivo conduttore dell’opera di
Weiner, Tempo-Spazio-Esistenza, è utilizzato anche dall’artista
arabo Mohammed Kazem (*1969). Per La Biennale d'Arte 2013,
Mohammed Kazem ha allestito con Walking on Water il padiglione degli Emirati Arabi Uniti e ha portato avanti l'esperienza
Pagina precedente:
Towards the future
3 5 Ye a r s o f G a l e r i e
D o r o t h e a v a n d e r K o e l e n M a i n z | Ve n e z i a
Petra Schaefer
[ 24 ]
Zick-Zack | 2015
Lore Bert
Carta giapponese e foglia d’oro
cm 180 x 180
Golden Ornament | 2015
Lore Bert
Carta giapponese e foglia d’oro
cm 180 x 180
Lilies in Black | 2014
Lore Bert
Carta giapponese e foglia d’oro
cm 180 x 180
Cadre décadré - 12 B5 (violet) | 2006
Daniel Buren
Acciaio, plexiglass, filtri trasparenti, adesivo
cm 113,1 x 113,1
[ 25 ]
della Biennale attraverso l'opera Triangle, donata dall'artista alla Fondazione
van der Koelen per l'Arte e Scienza. Nella sua installazione a parete si intrecciano numeri bianchi di diverse grandezze,
rappresentanti coordinate geografiche
che sembrano brillare su uno sfondo blu.
L’opera sarebbe dovuta essere presente a
Venezia ma è stata sostituita dalla serie
Fixing Nothing, scoperta da Dorothea
van der Koelen nell'atelier di Kazem
durante la sua recente visita negli Emirati Arabi Uniti con gli International
Patrons del Guggenheim Museum. “Le
opere in metallo di Mohammed sono un
contributo ideale al tema del futuro” dice
la gallerista, infatti “in un mondo digitale dove niente è più tangibile, nell’arte
contemporanea prende forma un ritorno
alla materialità dell'opera d'arte."
Blanc (White) | 1993
Heinz Gappmayr
Acrilico su tela
cm 160 x 110
After here & there | 2014
Lawrence Weiner
Text installation
misure variabili
[ 26 ]
Per la sua nuova serie, Mohammed Kazem ha scelto l'alluminio, un materiale
particolare su cui fissa viti e madreviti
di colore diverso. La gallerista tedesca
ha scoperto Kazem in uno dei sui molti
viaggi negli Emirati insieme all'artista
Lore Bert (*1936), che nel 1999 fu invitata come artista emerita alla Biennale di
Sharjah. Dopo il notevole successo della
mostra Art & Knowledge di Lore Bert
come evento collaterale alla Biennale
2013 (che ha registrato nella Biblioteca
Marciana di San Marco oltre 100.000
visitatori), l'artista presenta quest'anno
due opere in carta nella mostra collettiva Personal Structures – Crossing Borders a
Palazzo Bembo. Le opere di Bert per La
Galleria sono caratterizzate da un nuovo
colore: l’artista, imbevendo la delicata
carta giapponese di un luminoso color
magenta, invia un segnale di positività nel contesto di Towards the future. Il
quadro in grande formato Golden Ornament - Ornamenti d'oro (180 x 180 cm) è
esposto sul muro frontale della Galleria,
quasi a concludere il complesso di opere
presentate per questa Biennale. L'opera,
nonostante l'elemento di fragilità rappresentato della carta, offre attraverso i
suoi colori forti un energico contrappunto al lavoro in metallo di Mohammed
Kazem presente sulla parete opposta.
Nella sala principale de La Galleria
saranno presentate inoltre opere di tre
artisti che quest'anno festeggiano un
compleanno speciale. Come omaggio
all'artista austriaco Heinz Gappmayr
(* 1925 - † 2010), noto rappresentante
della poesia visiva, Dorothea van der
Koelen ha scelto il lavoro Blanc del 1993
(160 x 110 cm), in cui lo sfondo pittorico
bianco diventa parte centrale dell'opera;
sul bordo, in modo quasi impercettibile,
Fixing Nothing (Red and Yellow) | 2015
Mohammed Kazem
Viti e madreviti in acciaio su alluminio
cm 120 x 120 x 9
sono dipinti i contorni della parola Blanc. Il colore bianco come
somma di tutte le possibilità e come simbolo del futuro è anche al centro delle stampe in rilievo dell'artista tedesco Günther
Uecker (* 1930), che quest'anno festeggia il suo 85° compleanno.
Al centro della sala principale è esposta la leggendaria opera
bibliofila Graphein (70 x 50 cm) del 2002, un libro composto da
12 stampe in rilievo di Günther Uecker, accompagnati da una
selezione di testi calligrafici particolarmente noti provenienti da
varie culture. Il chiodo, che appare come unica astrazione artistica possibile nell'arte della star del gruppo ZERO Günther
Uecker, è mostrato nell'opera Strömung - Corrente (120 x 80 cm)
del 2000. Come in ogni mostra collettiva de La Galleria, non
può mancare anche questa volta l’artista multimediale veneziano
d'adozione Fabrizio Plessi (*1940). Già nel 2011 La Galleria ha
ospitato una mostra individuale su Plessi e nell'autunno 2015,
in occasione del 75esimo compleanno dell'artista, la CADORO
di Magonza gli dedicherà un Solo-Show. Parallelamente all'esposizione di La Barca, una video-scultura di 6 metri di altezza
nel foyer d'ingresso della CADORO, uno dei suoi celebri disegni-progetto sarà in mostra anche a Venezia. Alla ricca famiglia di artisti internazionali rappresentati da Dorothea van
der Koelen, appartiene anche Daniel Buren (*1938), che nella
mostra Towards the future esporrà l'opera 12 B 5 (violet), della famosa serie Cadre décadré del 2006. La cornice quadrata in
acciaio (113,1 x 113,1 cm) è composta da quadrati in plexiglass
contenenti strisce bianche verticali che si alternano a quadrati
trasparenti in rosa scuro. L'opera è conforme alla regola tipica
di Buren secondo cui le grandezze devono essere proporzionali
a 8,7 cm. Come afferma il Prof. Wulf Herzogenrath, il lavoro di
Buren è particolarmente significativo "perché esamina parallelamente le condizioni generali dell'arte." Questo confronto creativo tra apparire - sembrare - scomparire colloca Daniel Buren nel
contesto futuristico della mostra Towards the future. Nelle stanze
de La Galleria saranno presentate altre opere tra cui oggetti in
vetro acrilico di Hellmut Bruch (* 1936), le Ergänzungen di Vera
Röhm (* 1943), opere in cera di Kisho Mwkaiyama e un Chaosbox
di Arne Quinze (* 1972). Nell'atelier veneziano dell'artista Lore
Bert, aperto in occasione dell'inaugurazione della mostra o su
richiesta per i visitatori, è esposta la scultura Pyramidenskulptur
(28 x 20 x 20 cm) creata dall'artista nel 2015 appositamente per
Venezia. Questa elegante scultura di forma rotonda e in color
magenta, che sembra galleggiare su una piramide in lacca nera,
offre all'osservatore la prospettiva di un futuro davvero roseo.
L a Galleria di Dorothea van der Koelen
San Marco 2566, 30124 Venezia
www.galerie.vanderkoelen.de
[ 27 ]
Toni Buso
Tr a c c i a n d o s o n o r i t à v i s i v e
Erik a Ferret to
T
utto il XX secolo è pervaso
da una rivoluzione artistica
che scardina le fondamenta dell’estetica:
la sfera dell’arte si distingue nettamente
da quella della natura e la creazione artistica dipende esclusivamente dagli impulsi interiori del soggetto. Kandinskij
nel saggio “Spirituale dell’arte” svincola l’arte dall’esigenza di rappresentare,
ogni forma assume un proprio intrinseco contenuto e ha la capacità di agire
come stimolo psicologico. Il segno nasce
da un impulso profondo dell’artista ed è
inseparabile dal gesto che lo traccia. Si
sviluppa così un interesse verso il grafismo infantile e il primitivismo. Da qui
si aprono un mondo di possibilità che
evolvono in varie direzioni.
I dipinti di Toni Buso sono un’ interpretazione in chiave personale di molti
di quegli input. Una luce chiara e mentale irrora le sue pitture evidenziando
una natura iconologica che attinge i
suoi soggetti direttamente dal profondo:
dalle emozioni, dai ricordi che affiorano
alla mente rendendosi visibili e tangibili attraverso l’arte. Riscoprendo la forza
espressiva del bambino - nella fase detta
dello “scarabocchio” - e dell’arte primitiva, accomunate da una libertà non
condizionata dalla necessità descrittiva
della realtà, è possibile raggiungere l’essenza delle cose, le forme infatti assumono una valenza fortemente simbolica
ed empatica.
angelo madre | 2010
Olio su tela
cm 154 x 130
Nel dipinto Il cielo in una stanza Buso riesce a tradurre in segno e colore il
senso di libertà e gioia del volo dei canarini di Pina - un’anziana amica - che
liberamente volteggiano in casa e oltre
la finestra aperta sulle mura di Treviso.
Dei piccoli e colorati uccellini l’artista
rappresenta l’emozione e il ricordo che
rimane impresso nella mente, la magia
del volo che si traduce in sottili filamenti
neri tracciati col pennino e dilatati nello
spazio tramite un vivissimo colore giallo.
Lacrime di Dimaco | 2014
Olio su tela
cm 40 x 40
[ 28 ]
Il pedagogista Marco Dallari spiega
la potenza espressiva strettamente connessa alla sfera emozionale, attraverso
l’esperienza disegnativa di un bambino
di tre anni al quale viene chiesto di “raccontare” un lungo viaggio in macchina.
Il bambino presa la matita in mano comincia a tracciare un percorso, la matita
per lui diventa estensione del suo corpo
Storia di un pescatore | 2008
Olio su tela
cm 120 x 100
[ 29 ]
tinte calde, i gialli, i rossi, si espandono.
Attraverso il colore le forme avanzano o arretrano, si sovrappongono creando un gioco di piani e profondità che ovviamente
non rispondono alle consuete regole prospettiche ma in ogni caso sviluppano uno spazio fatto di volumi.
Nel paesaggio interiore descritto da Toni tutto assume un valore simbolico ed estetico al tempo stesso. La stessa scrittura
perde il suo carattere di codice linguistico e si riduce a lettere,
che si susseguono, si capovolgono e si girano, creando una compenetrazione tra immagine ed espressione verbale. In Nuvola e
bicicletta sopra il monte le parole del titolo seguono le spirali e
riempiono le forme e in Sole, nuvole e giocattoli nel monte danno
vita a piani sovrapposti.
Ma l’aspetto verbale assume sempre più importanza nel ciclo
di opere ispirate alla Buona Novella del cantautore Fabrizio De
André. L’utilizzo delle lettere s’intensifica tanto che organizzano lo spazio, lo ricoprono. Come in Angelo madre dove occhi,
spirali, soli e pesci nuotano in uno sfondo fatto di parole o intere
frasi, ovviamente non più leggibili. Se il cantautore riusciva a
realizzare una poesia cantata intrecciando musicalità e parole,
l’artista può dar vita a un linguaggio visivo in chiave poetica,
dove è possibile rintracciare i medesimi ritmi ed equilibri della
musicalità sonora.
VOce nella colonia di Pina | 2006
Olio su tela
cm 146 x 114
Toni Buso
vive e lavora a Treviso
www.tonibuso.com
sole, nuvole e gioccatoli nel monte| 2008
Olio su tela
cm 120 x 100
e il gesto che compie è lo stesso effettuato dalla macchina con le
curve, le frenate, le accelerazioni o i rallentamenti. Quel gesto,
pertanto, è più importante della realizzazione di un disegno figurativo perché racchiude l’essenza dell’esperienza vissuta.
Nelle opere di Buso il gesto diventa segno tracciato sul fondo
bianco che amplifica e struttura lo spazio della tela, descrivendo
il genuino germinare dei pensieri. Questa prima fase eseguita
col pennino prosegue poi con dei grossi pastelli fatti di pigmenti compressi di colore, con essi Buso sottolinea alcune forme e
parti del dipinto.
[ 30 ]
Un primissimo intervento di colore puro che serve a impostare
gli equilibri e che viene fissato direttamente sulla tela con olio
e trementina, regalando al colore un effetto trasparente e luminoso. Se questa gestualità delinea l’anima dell’opera, seguendo
tempi veloci nei quali l’emotività si riversa sullo spazio, solo in
una fase successiva si dà corpo alla materia colorica, il tempo
esecutivo rallenta, si fa calibrato, valutando tutte le possibili velature.
Inoltre, è in questa fase che il colore dialoga con le forme: le
tinte fredde tendono a contrarsi e a creare profondità mentre le
il cielo in una stanza | 2003
Olio su tela
cm 150 x 250
[ 31 ]
VILLA CA’ ERIZZO LUCA
Museo Heming way
B
assano del Grappa, allo sbocco del fiume Brenta che scende dalle montagne,
fu nel 1917-1918 punto di massima resistenza contro i reiterati tentativi austro-ungarici di irrompere nella Piana veneta per travolgere lo schieramento italiano.
Poco a nord dal celebre ponte in legno del Palladio, sulla riva est del fiume, sorge Ca’
Erizzo, un’elegante struttura del ’400, oggetto in varie epoce di successivi rifacimenti e
abbellimenti.
Nel 1918 la villa fu sede della Sezione Uno delle ambulanze della Croce Rossa Americana. Tra quei volontari autisti c’era anche Ernest Hemingway, il cui racconto inedito
“MS 843” del 1919 - che racconta del pugile italoamericano Pikles McCarty che si arruola a Ca’ Erizzo con gli Arditi del Grappa, intitolato The Woppian Way o The passing
of Pickles Mc-Carty - prende le mosse da questa villa dove pure erano acquartierati gli
Arditi.
Il complesso, restaurato con intelligenza dall’attuale proprietario, Renato Luca, è ora
sede del Museo Hemingway e della Grande Guerra, e ospita inoltre una “Collezione Hemingway” con una vasta documentazione. Il Museo occupa cinque grandi locali
situati a livello strada con accesso diretto da essa. La parte espositiva è formata da 58
grandi pannelli, ricchissimi di spiegazioni storiche, di fotografie e di testimonianze. La
sua peculiarità, al di là del potere evocatore del grande tragico evento bellico e dell’esauriente illustrazione dei suoi passaggi cruciali, è quella di fornire una testimonianza,
unica in Italia, sulla partecipazione degli Stati Uniti alla prima Guerra Mondiale e in
particolare quella degli aviatori.
Nella sala d’ingresso, Hemingway accoglie il visitatore con i suoi romanzi ispirati
dalla Grande Guerra: Addio alle armi e Di là dal fiume e tra gli alberi. Sede prestigiosa di
una Fondazione culturale che nel tempo continuerà a studiare e ad approfondire tutto
ciò che di inedito e originale già custodisce per valorizzare la presenza di Hemingway
in Italia e in particolare in Veneto, Villa Ca’ Erizzo espone quanto la famiglia Luca ha
raccolto in anni di paziente ricerca e che include ora,oltre alla vasta documentazione archivistico – fotografica, numerose opere letterarie, in diverse edizioni, in lingua italiana
e straniera.
Appartengono alla collezione, allestite per offrirne la fruizione ad un pubblico vasto
in un importante spazio espositivo, anche una serie di rare e originali riviste che hanno
trattato episodi della vita e dell’attività letteraria dello scrittore americano. Ad Ernest
Hemingway fu trasmessa dal padre, proprietario di una fattoria nei boschi del Michigan una vibrante passione per tutte le attività legate all’aria aperta, come l’amore per la
natura, specialmente quella più selvaggia e incontaminata e anche per la boxe, la pesca
e la caccia.
Ernest Hemingway soldato
Pagina seguente:
Villa Cà Erizzo Luca | 1918
Ambulanze Americane Villa Cà Erizzo Luca | 1918
[ 32 ]
Nel corso degli anni lo scrittore americano ebbe modo di praticare in molti continenti
queste ultime due attività che, come la boxe, esercitavano su di lui una forte attrattiva,
come del resto tutte le emozioni forti che caratterizzano anche il suo stile letterario.
Per praticarle effettuò lunghi viaggi e permanenze in diversi stati del Nord e Sud America, in Africa, in Asia e in Europa. Per questo motivo fu ripetutamente e lungamente
presente in Italia, spesso proprio in Veneto, la cui laguna lo affascinava e dove poteva
andare a caccia, ospite del Barone Raimondo Franchetti a Torcello.
[ 33 ]
In una delle sale del museo, Hemingway
accoglie il visitatore in una suggestiva
scenografia riprodotto a grandezza
naturale in una foto scattata durante
l’ultimo dei suoi safari in Africa.
Nato a Oak Park, un sobborgo di
Chicago, nel 1899, Hemingway era
secondogenito di un medico naturista
che lo conduceva spesso con sé quando
andava a visitare i suoi pazienti nella
riserva indiana. La sua precoce passione
per la scrittura trovò spazio sui giornali
scolastici e, dopo il diploma, si indirizzò
al giornalismo nel quotidiano locale, il
“Kansas City Star”.
Villa Cà Erizzo Luca | 2015
Nel 1917 quando gli Stati Uniti
entrarono in guerra, Hemingway si
presentò come volontario per andare a
combattere in Europa, come già stavano
facendo altri giovani scrittori tra cui E.E.
Cummings, John Dos Passos, William
Faulkner e Francis Scott Fitzgerald.
Escluso dai reparti combattenti a causa
di un difetto alla vista, venne arruolato
nei servizi di autoambulanza come autista dell’ARC (American Red Cross)
destinati al fronte italiano.
Interni del Museo Hemingway
Giunto a Bordeaux e poi Parigi, proseguì in treno per Milano, dove rimase
per alcuni giorni prestando opera di soccorso (a Bollate, dove era stata bombardata una fabbrica di munizioni causando
molte le vittime), e poi venne inviato a
Vicenza, assegnato alla Sezione IV della
Croce Rossa Internazionale americana,
presso il Lanificio Cazzola di Schio (VI)
cittadina in cui tornò anche nel primo
dopoguerra e dove alternava il lavoro di
soccorso con bagni nel torrente, partite
di pallone con gli amici e la collaborazione, con articoli scritti sotto forma di
lettera, ad un giornale intitolato “Ciao”.
Inviato nelle vicinanze di Fossalta di
Piave, come assistente di trincea con il
compito di distribuire generi di conforto
ai soldati delle prime linee in bicicletta,
venne colpito dalle schegge di un’esplosione e nel tentativo di mettere in salvo
i feriti, fu colpito alla gamba destra da
proiettili di mitragliatrice che gli penetrarono nel piede e in una rotula. E questo fu l’inizio della permanenza a villa
Erizzo.
Interni del Museo Hemingway
[ 34 ]
Negli anni del dopoguerra e fino al
1954, tornò frequentemente in Veneto,
a Venezia (era un assiduo frequentatore
dell’Harry’s Bar e dell’hotel Gritti) e
nell’isola di Torcello, a Cortina e nella
laguna di Caorle, dove andava a caccia,
ospite di famiglie aristocratiche della
zona.
Esterno Villa Cà Erizzo Luca | 2015
Fu in tale periodo che scrisse il romanzo Across the River and into the Trees (Di là dal fiume e tra gli alberi) ambientato proprio nei luoghi veneti da lui frequentati. Come scrittore Hemingway raggiunse già in vita una grande popolarità divenendo un mito per le nuove
generazioni. Nel nel 1953 ricevette il Premio Pulitzer per Il vecchio e il mare, e vinse il Premio Nobel per la letteratura nel 1954.
Il suo stile essenziale e asciutto ebbe una notevole influenza sullo sviluppo del romanzo, non solo americano, del XX secolo. Morì a
Ketchum (Idaho), nel 1961.
Museo Hemingway
Villa Cà Erizzo Luca
via Cà Erizzo, 35
36061 Bassano del Grappa ( VI)
www.villacaerizzoluca.it
[ 35 ]
POKENT | 2012
Acciaio
mm 100
SYRIMM | 2013
Acciaio
mm 100
Le sue sculture in acciaio contraddicono il peso e la forza di
cui son fatte, svettando alte ed eleganti verso il cielo, sfidando
la legge di gravità e ricordano, nonostante la fredda durezza del
materiale di cui son fatte, qualcosa di vegetale.
Disegno | 2015
Lacca su lamiera
Robert schad
Come nasce una mostra
V
entitreesima rassegna di sculture a Castel Pergine, la mostra di sculture di Robert Schad Gravità Sospesa. Leichte Schwere
(Tanz_5).Sculture e disegni, si inserisce in quella che è diventata ormai una tradizione che ha visto proporre al pubblico
nello straordinario teatro naturale ed architettonico del Castello alcuni dei più prestigiosi nomi della scultura contemporanea tra cui
Fabrizio Plessi, Mauro Staccioli, Riccardo Cordero.
Sostenuta dal Comune di Pergine Valsugana e dalla Provincia Autonoma di Trento, l’allestimento vede quest’anno svettare dagli spalti
del castello medievale verso il cielo le forme di Schad, l’artista tedesco (Ravensburg 1953) che già dall’inizio degli anni Ottanta – appena uscito dall’Accademia di Karlsruhe, dove si era formato con il magistero di Albrecht von Hancke e W. Loth, - dopo aver ottenuto
la prima borsa di studio per un soggiorno a Oporto, in Portogallo, si imponeva rapidamente sulla scena europea.
Attualmente, dal 2000, Robert Schad divide vita e lavoro tra Larians, nel dipartimento dell’Haute-Saone, in Francia, dove nel 2004
ha aperto un parco della scultura, e Chamosinhos, in Portogallo, da dove realizza le sue mostre e gli allestimenti internazionali.
[ 36 ]
Tauk | 1998
Acciaio
mm 100
Scrivono nel catalogo Verena Neff e Theo Schneider: “Il fatto
che [le sculture n.d.r.] abiteranno per tutta l’estate 2015 nel Castello è un grande onore per Castel Pergine, che con Tanz_5 si
trova in celebre compagnia. La danza delle sculture esordì nel
2011 ad Altshausen in Germania, un anno dopo si trovavano nel
parco di Heidelberg, nel 2013 a Linz e l’anno scorso occupavano
lo spazio urbano della città medievale di Landshut.
Però qualcosa ci rallegra in particolar modo: alcune delle sculture sono state specificamente create per il Castello. Per esempio
l’opera Volok con le ali sulla piattaforma panoramica che vola
verso la Valsugana. Oppure le tre medie Dergel, Sirnones e Pyers
sulla collina presso il parcheggio, sotto l’Ala Clesiana e sulle
rocce sopra la torre rotonda. In futuro, nel loro cammino attraverso la vita, porteranno sempre dentro di sé una parte del
Castello.”
Di questa sorta di nido d’aquila Robert Schad scrive nel testo del catalogo che accompagna l’istallazione (e che comprende anche uno scritto critico di Stefanje Weinmayer): “Agli inizi
dell’estate 2013, lungo ripidi tornanti giunsi a Castel Pergine
situato lassù in alto, sopra la Valsugana - un luogo ricco di storia
e storie, brullo e roccioso. Mi sorsero dei dubbi circa la fattibilità
di una mostra di sculture in acciaio, prevalentemente di grandi dimensioni, che in parte desideravo realizzare appositamente
per questo luogo.
Come avrebbero potuto scalare tale montagna questi oggetti, in parte estremamente pesanti, e prendere il loro posto? Il
HADDER | 2013
Acciaio
mm 100
[ 37 ]
Castello non offre spazio alle sculture
in modo convenzionale, ma vuole essere
conquistato e scalato. Le sculture prima
devono essere portate qui per poi crearsi
il loro luogo proprio, uno spazio inconfondibile. Conobbi il padrone di casa,
Theo Schneider, e sua moglie Verena
Neff, nel 2013 in occasione della biennale della scultura a Racconigi nei pressi
di Torino. Loro mi invitarono a visitare
Castel Pergine per liberare la mente ed
esplorare le possibilità per una presentazione delle mie sculture pesantissime e
di grandi dimensioni.
Le prospettive e le vedute fantastiche
sul paesaggio montano circostante, ma
anche i luoghi in punti piuttosto nascosti come l’anello di mura e le segrete del
castello mi stimolarono, la mia fantasia
strabordava, i concetti si susseguivano
rapidamente e di nuovo venivano scartati, perché i difficili accessi agli spazi
da me scelti mettevano ogni volta in discussione la fattibilità della mostra così
come me la immaginavo. Theo, tuttavia,
fanatico di scultura, riuscì a dissipare i
miei dubbi. “Ce la faremo”, ripeté come
un mantra, e così crebbe dentro di me
la fiducia e la certezza che egli sarebbe
stato disposto a spostare delle montagne
per il nostro progetto. Con un mezzo di
trasporto pesante, una gru di 50 metri,
e con aiutanti volenterosi riuscimmo in
quello che sembrava essere un’impresa
impossibile. Pergine è un luogo speciale… la bellezza austera e la sterilità sono
la patria ideale per i miei “abitanti in acciaio a tempo determinato”. Proprio qui
è particolarmente tangibile l’apparente
leggerezza delle pesanti forme. Alcune
sculture sembrano voler spiccare il volo
per volare nel vasto paesaggio montano.
GENNES | 2002
Acciaio
mm 45 mm
Subiras | 2012
Acciaio
mm 45 mm
Sembrano essere in movimento e sostare al momento dell’osservazione per poi proseguire, nell’istante successivo, la loro
danza in questo immenso scenario. Altre appaiono come guardiani d’acciaio, sembrano attendere qualcosa in questo mondo
duro, qualcosa che non possiamo definire. Altre ancora si rintanano nel fossato e nelle segrete. Nacquero così una varietà di
esperienze visive diverse, una coreografia scultorea, un teatro
scultoreo sul palcoscenico del Castello lassù, sopra la Valsugana.
di vedere come gli abitanti in acciaio a tempo determinato cambieranno lo sguardo sul castello, se saranno in grado di creare
dei luoghi in tale paesaggio e all’ombra di quel colosso di pietra
, quale è il castello, che si imprimono, che uno porta con sé nella
mente, che tematizzano dei segreti, come non sono mai stati
creati, se saranno in grado di mettersi alla stessa altezza degli
occhi con la storia del luogo e di entrarne in dialogo. In autunno
si vedrà cosa avranno mosso i miei abitanti d’acciaio nelle teste
di coloro che li hanno incontrati. In ogni caso s’impregnano nella memoria di questo luogo meraviglioso.”
Le sculture abitano un castello a tempo determinato. Tutto
sembra essersi fermato in un mondo senza tempo, dove solo l’alternarsi del giorno e della notte e il cambio del clima sembrano
scandire il ritmo interiore di questo luogo. Il rumore della città
è lontano. A Castel Pergine si è più vicini al cielo. Sono curioso
Tauk | 1998
Acciaio
mm 100
Polent | 2012
Acciaio
mm 100
Volok | 2015
Acciaio
mm 100
[ 38 ]
Gravità sospesa, a cura di Theo Schneider e Verena Neff, con il
coordinamento di Riccardo Cordero, rimarrà allestita fino all’8
novembre 2015.
CASTEL PERGINE
Via al Castello, 10
38057 Pergine Valsugana (TN)
www.castelpergine.it
[ 39 ]
nica (immagine) e rappresentazione logica (parola). E tuttavia, a
rivederla oggi, non si può negare sia portatrice di una sua intima
bellezza, malgrado la volontà dell’artista fosse stata quella eliminare qualsiasi significato emozionale, per proporsi con lucida
e fredda razionalità.
La via aperta dal concettualismo è dunque quella di eliminare
opere materiali o durature e in cui “arte” diviene anche il parlare
dell’arte, l’azione sull’arte, la riflessione sull’arte, senza che ci sia
necessità della presenza fisica di alcuna opera d’arte.
Ma se l’evoluzione di questo pensiero ha seguito una via di
progressiva “privazione” ne ha anche aperta una che sostituisce
all’opera l’evento (happening, performance).
aliti | 2009
Specchi, foto, alluminio, acciaio, pannelli
cm 33 x 33
Pino Pin
Sculture con vocazione concettuale
I
l desiderio di incasellare i prodotti artistici di questo primo scorcio di millennio – spesso avendo come valida motivazione quella
di conoscerli con maggior chiarezza - è inversamente proporzionale alla loro capacità/disponibilità di essere catalogati. Tuttavia persiste nella mente dei galleristi, dei collezionisti e, in generale, dei fruitori a diverso titolo, la tendenza ad assimilare un evento
artistico ad un altro, sia contemporaneo sia di molto o di poco precedente. Ricerca di certezze in un mondo che ne è particolarmente
privo? Oppure dimostrazione dell’esistenza nella mente umana di una funzione gestaltica, secondo cui “Il tutto è più della somma delle
singole parti”, in antagonismo al modello strutturalista, che accetta una realtà frazionata e comportamentista?
Le opere di Pino Pin sembrano voler mettere in connessione i due mondi: cogliendo l’opportunità di aderire ad una idea di “corrente”,
in questo caso il Concettualismo; ed altrettanto felici di andarsene, ciascuna per i fatti propri, senza giustificare la propria presenza/
assenza quanto piuttosto esprimendo in termini di arcana “bellezza” la forma della materia che tuttavia si fa “pensierosa”. E anche ridevole e ironica, a volte. In barba ad ogni categoria.
Vero è che il termine “concettuale”, a partire dalla metà degli anni Sessanta in cui prese vita nella prassi artistica di Joseph Kosuth, ha
assunto significati non univoci. La forza contestatrice per cui il fine dell’opera non doveva essere il godimento estetico bensì l’attività
del pensiero, si smorza e prova a cercare un “match point” permanente, in cui bellezza e pensiero non sono antagonisti ma possiedono
invece uguali attitudini al successo.
Una delle opere più famose di Kosuth, “Una e tre sedie” (1965), in cui egli espone una sedia vera, un’immagine fotografica e la definizione scritta della parola “sedia”, avvia la riflessione sul rapporto problematico e conflittuale esistente tra realtà, rappresentazione ico[ 40 ]
In tal senso si muove il pensiero artistico di Pino Pin, i cui
“gesti creativi” rientrano tra quelle esperienze artistiche che
non producono vere e proprie opere concluse in loro stesse ma
situazioni legate al contingente, al territorio e a occasioni temporalmente limitate, la cui traccia è destinata a rimanere solo
nella testimonianza fotografica o filmica in quanto le sue sculture assumono il loro pieno senso solamente in un certo contesto, in una certa situazione. La loro forza, in sostanza, deriva
dal fatto di essere site-specific, di confrontarsi attivamente con
l’ambiente; un ambiente che, oltre alla sua dimensione ecologica
e naturale, può essere inteso anche come contesto formale, politico, storico e sociale. E’ il caso di opere quali la grande Corazza
1, del 2010, in resina e specchi tela, e di Corazza 2, dello stesso
anno, esposte nel medesimo contesto in occasione di una esposizione personale dello scultore alla Chiesa di San Rocco a Padova. Insomma, anche nei lavori site-specific di Pin, tra l’opera
e il contesto si avvia uno scambio reciproco in modo che “l’arte
crea uno spazio ambientale, nella stessa misura in cui l’ambiente
crea l’arte.” (Germano Celant), ma, essendo lo scultore uomo del
suo tempo e soprattutto radicato in uno specifico territorio, ciò
accade con una particolare sensibilità ed attenzione al mondo
contemporaneo, con mezzi più incisivi di quanto non potrebbero
i mezzi a disposizione della Land Art o dell’Arte povera, che del
Site-specific sono parenti.
corazza 2 | 2010
Resina, tela, specchi
cm 250 x 70 x 70
Come giustamente ebbe a scrivere Anna Chiara Frigo: ”Le
opere di Pino Pin si possono collocare sul versante dell’arte concettuale pur con contaminazioni diverse, dall’Arte Povera ad un
iconismo iperrealistico, rielaborate in una sintesi di alta complessità estetica.” Una complessità che è, tra l’altro, una delle più
peculiari caratteristiche dell’arte di questi tempi.
Prosegue Frigo: “L’opera d’arte di Pino Pin libera un flusso di
idee, interroga lo spettatore e si interroga sulla sua funzione partecipando della poetica dei movimenti (dall’Arte Concettuale
degli anni Sessanta alle odierne Installazioni).
Presenta forme scultoree essenziali e a volte seriali (vicine alla Minimal Art) che inglobano colori e l’ambiente circostante,
quindi procede trasversalmente fra pittura, scultura, ambiente
architettonico o naturale rinnovando il linguaggio nelle continue trasmigrazioni e contaminazioni del pensiero e delle sue
forme.
Allerta la percezione sensoriale attraverso stimolazioni tattili e
visive derivate dall’utilizzo di materiali pregnanti di significato
ed espressività intrinseca (Arte Povera); si tuffa, attraverso rimandi e allusioni, nella memoria individuale e collettiva (Jung)
esacerbando idee, ma anche sensazioni ed emozioni che non sono mai fine a se stesse, ma legate ad un circuito di azioni etiche.”
La massima valorizzazione concettuale Pin la ottiene forse
dall’uso dello specchio, superficie che non ha un preciso valore
in sé quanto solo per quel che riflette. E ciò che lo specchio
rimanda è sempre, in ordine cronologico, prima di tutto l’ar-
corazza 1 | 2010
Resina e specchi, tela
cm 250 x 70 x 70
[ 41 ]
PANORAMICA 50 | 2006
Installazione in un capannone industriale a Padova
tista (anche durante le fasi del work in
progress) e poi il pubblico, volontario o
involontario, consapevole o meno di trovarsi di fronte ad esso. Quindi il primo
valore fondativo di questi lavori è anche
la ineluttabile ed immodificabile processualità della sua creazione.
albero 2 | 2005
Carta, legno colorato e specchi
cm 130 x 130 x 130
Impossibile non vedere, infatti, come alla base del sentimento creativo di
opere come Piccolo albero, del 2006, cm
100x100x100, in legno e specchi e Aliti (2009, specchi foto alluminio acciaio
pannelli cm.33x33 sospesi a cm.150 con
cavi in acciaio), ci sia una focalizzazione sulle fasi di formazione dell’opera,
sul percorso creativo, quasi rituale; sul
processo appunto, piuttosto che sulla
mera realizzazione di un prodotto finito.
L’opera rimette dunque il suo significato anche nel procedimento di creazione.
Non solo: la superficie specchiante, inoltre, non smetterà mai di lavorare nel suo
ruolo di “rimando” e dunque non sarà
mai finita.
Nato a Piazzola sul Brenta il 12 agosto
1946, Pino Pin si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Venezia sotto
il magistero di Alberto Viani. Ha fre-
[ 42 ]
quentato i corsi di pittura all’Accademia
di Brera a Milano, in particolare quelli
di storia dell’arte di Guido Ballo. Il suo
cursus espositivo prende avvio negli anni Settanta a Vicenza dove, tra l’altro,
ha co-fondato nel 1976, il Gruppo Arti
Visive.
Attualmente suoi lavori si trovano in
diverse collezioni private e pubbliche
italiane. Dal 2013 è ideatore e curatore
della Biennale di Scultura “In acqua e
in piazza” a Piazzola sul Brenta (PD), di
cui durante quest’estate è in corso la seconda edizione che rimarrà aperta fino a
novembre 2015.
Ha insegnato progettazione all’Istituto
Statale d’Arte “Pietro Selvatico” a Padova e attualmente tiene corsi di lettura
dell’opera d’arte. Vive e lavora a Piazzola sul Brenta.
trittico | 2009
Legno, gomma, pallottole sparate e bossoli
Installazione elementi a terra in gomma con bossoli cm 45 x 40 muro in legno e cemento con colpi in piombo e rame
PINO PIN
vive e lavora a Piazzola sul Brenta (PD)
www.pinopinscultore.it
[ 43 ]
56esima Esposizione
Internazionale d’Arte di Venezia
A l l T h e Wo r l d ’s F u t u r e s
Q
Anna Livia Friel
uest’estate già sarebbero valse una gita a Venezia le
due belle mostre che si fronteggiano in Piazza San
Marco: la prima, nell’antica dimora dei Dogi a Palazzo Ducale ospita i mondi fantastici e détachée di Rousseu il Doganiere,
l’altra, al Museo Correr, nelle sale imperiali volute da Napoleone, racconta la Germania della Nuova Oggettività. Ma a questi
appuntamenti se ne aggiunge un terzo, davvero imperdibile: la
56esima Esposizione Internazionale d’Arte, dal titolo All The
World’s Futures, promette grandi rivelazioni.
Oltre ad essere anno di festeggiamenti per i 120 anni dalla
fondazione della Biennale, che nel 1885 inaugurava il primo padiglione ai Giardini, il 2015 segna i 100 anni passati dall’inizio
della prima guerra mondiale e i 75 dalla seconda, creando ancor
più l’occasione, secondo il curatore della mostra Okwui Enwezor (Nigeria 1963), per guardare in dietro al nostro passato.
Nata sotto la stella dell’Angelus Novus benjaminiano, come più
volte anticipato da Enwezor, questa mostra non pretende di portare con sé una rivoluzione, ma si pone lo scientifico obbiettivo
di passare al setaccio il mondo e i suoi recenti accadimenti attraverso vari filtri di lettura.
Se l’Angelus in questione, dipinto da Paul Klee nel 1920, appare
con occhi sgranati e ali spiegate mentre volge lo sguardo -nella
lettura di Walter Benjamin- alla disastrosa catena di eventi raccolti dal passato, quest’ultima Biennale è al contrario un “angelo
della storia” un po’ più disincantato, capace di offrire numerose
visioni future costruendo intorno al passato (prossimo) un forte
valore narrativo. Le opere esposte, in prevalenza oggetti, dipinti,
sculture, che lasciano meno spazio ad installazioni e performance e danno alla mostra un forte carattere formale, forniscono
al visitatore immagini da montare con consapevolezza registica
all’interno dei macro temi di lettura a cui ci affida Enwezor,
filtri attraverso i quali far passare All the World’s Futures (tutti i
futuri del mondo): Il giardino del disordine è il luogo dove tutto
ha inizio e dove tutto si svolge; da un lato l’immagine primigenia del giardino come paradiso, per eccellenza spazio dell’ordine
divino, dall’altra i confusi giardini della Biennale che con i loro
padiglioni sparsi e l’affollarsi di storie e Paesi rappresentano il
disordine e l’incertezza del mondo attuale. C’è poi Vitalità: Sulla Durata Epica che ci insegna il ritmo dell’esibizione e il valore teatrale dello spazio espositivo; performance ed installazioni
saranno in continuo divenire e trasformazione all’interno della
mostra, sempre complete ma mai concluse racconteranno allo
stesso tempo passato, presente e futuro.
Kutluğ Ataman
Sakıp Sabancı
Courtesy the Artist; the Sakıp Sabancı Museum
Istanbul
[ 44 ]
Ultimo ma centrale, Leggendo Il Capitale, con riferimento all’opera di Marx che verrà declamata dal vivo come una sorta di
Oratorio: per i sette mesi di apertura dell’Esposizione la lettura
sarà un appuntamento che si svolgerà senza soluzione di continuità.
Padiglione centrale Biennale Venezia
Corderie Biennale Venezia
Sala Chini Biennale Venezia
[ 45 ]
Kngwarreye painting Earth’s Creation | 1994
Emily Kame
Courtesy Dacou Gallery
The New World Climax | 2000–2014
Barthélémy Toguo
Installation with wooden stamps, tables, ink prints on paper.
Courtesy Stevenson, Cape Town and Johannesburg
Bandjoun Station Cameroun
Photo Mario Todeschini
politica alla rapacità dell’industria finanziaria. Lo sfruttamento
della natura attraverso la sua mercificazione sotto forma di risorse naturali, il crescente sistema di disparità e l’indebolimento
del contratto sociale hanno di recente imposto il bisogno di un
cambiamento.” Già nel 1997, con la Biennale di Johannesburg,
Okwui Enwezor volge il potere dell’arte (e del mercato dell’arte)
ai “più deboli” ma con questa Biennale veneziana conferma il
suo intento di far emergere le violenze del mondo, non a caso all’ingresso delle Corderie troviamo come monito Il grande
cannone di Pino Pascali. Dell’algerino Adel Abdessemed è un
campo di coltelli piantati per terra come ciuffi d’erba, circondati
dalle scritte in neon di Bruce Nauman Death, mentre il texano
Melvin Edwards ci mostra agglomerati di ferro fuso, maschere
acuminate, minacciose, assemblaggi di catene con lame e martelli con titoli come Dakar, Weapon of freedom, Because of struggle.
L’Urban Requiem di Barthélémy Toguo riempie la sala di manichini muti, corpi di legno che diventano timbri per messaggi
drammatici di clandestinità, miseria e sfruttamento.
Non manca tuttavia la possibilità, dopo aver smistato i drammi
di questo passato presente, di cercare tra i padiglioni uno dei
futuri possibili. Come sempre infatti la Biennale ci offre una
vastissimo numero di opzioni: non solo la Mostra sarà affiancata
da 89 Partecipazioni nazionali negli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia, ma si aggiungono altri 5 Paesi che partecipano per la prima volta: Grenada,
Mauritius, Mongolia, Repubblica del Mozambico, Repubblica
delle Seychelles. Altri ancora partecipano quest’anno dopo una
lunga assenza come Ecuador (1966, poi con l’IILA), Filippine
(1964), Guatemala (1954, poi con l’IILA).
Animitas | 2014
Christian Boltanski
Photo Amparo Irarrazaval
Il Capitale, performato da attori come un testo drammaturgico, sotto la regia dell’artista e regista Isaac Julien, sarà protagonista de
l’Arena, spazio polifunzionale collocato all’interno del padiglione centrale che segue la tradizione inaugurata durante la scorsa Biennale
di Architettura di organizzare eventi e spettacoli durante l’apertura della mostra. Progettata dal premiato architetto ghanese-britannico David Adjaye, l’Arena “fungerà da luogo di raccolta del parlato, dell’arte del canto, dei recital, delle proiezioni di film, e diventerà
il foro delle pubbliche discussioni” come spiega il curatore. E aggiunge, tornando all’imponente tema centrale: “Il capitale è il grande
dramma della nostra epoca. Oggi incombe più di qualsiasi altro elemento su ogni sfera dell’esistenza, dalle predazioni dell’economia
[ 46 ]
Non meno interessanti gli eventi collaterali (44), e le molte
installazioni nascoste tra campi e fondamenta tra cui a Palazzo
Benzon My East is your West, un progetto che unisce India e
Pakistan, o la provocatoria installazione che trasforma la Chiesa
di Santa Maria della Misericordia in una moschea. Futuro possibile, o passato già esplorato?
Darkwater Record (from Darkwater) | 2003 - 2008
Terry Adkins
Porcelain, cassette tap records with Socialism and the American Negro speech with W.E.B. Du Bois
cm 78,7 x 30,5 x 35,6 cm
Arrow Fine Art Storage, Elmhurst, Queens, NY
Biennale Arte Venezia
09.05.2015 – 22.11.2015
www.labiennale.org
[ 47 ]
Periferie esistenziali | 2012
Procedure ermetiche | 2012
Marcella Dalla Valle
In viaggio attraverso l ’ inconscio
F
Alessandro Benetti
otografia e poesia: il percorso creativo di Marcella Dalla Valle attinge tanto dall’universo delle immagini quanto da quello
delle parole. I “segni”, siano essi figurativi o grafici, sono riuniti in un unico vocabolario ricchissimo: qui Marcella raccoglie
le unità del suo linguaggio artistico, attribuendo a ciascuna significati nuovi e inediti. Da questo catalogo Emme Divi (come l’artista
ama farsi chiamare) seleziona di volta in volta i tasselli necessari ad animare il gioco combinatorio della risemantizzazione. Le visioni
[ 48 ]
ambigue di Marcella negano la possibilità di attribuire a ciascun elemento un senso univoco: al contrario, attraverso la loro
decontestualizzazione dal discorso originario, l’accostamento
senza mediazione e la compresenza di linguaggi diversi, ogni
composizione è in grado di ampliarne e ridefinirne la sfera del
significato.
La capacità di veicolare molteplici strati di senso, anche a partire da segni di grande semplicità e riconoscibilità universale,
avvicinano l’esperienza di Marcella a quella dell’Ermetismo.
Come i poeti ermetici, Emme Divi fa un utilizzo pervasivo
dell’analogia, conscia del potenziale critico insito nello straniamento di cui essa è portatrice. Così, la platea di un teatro è
sommersa da una marea improvvisa, le cui acque ribollenti di
schiuma arrivano fin quasi a lambire la galleria da cui il pubblico
osserva lo spettacolo (dove mai si svolgerà?). Sopra gli spettatori
increduli, immersi nella semi-oscurità, un cielo plumbeo carico
di pioggia sembra prossimo a scaricarsi sulle loro teste. La sensazione di spaesamento e sospensione è potente.
Questa e altre composizioni immaginifiche rendono evidente il
credito di Marcella nei confronti dei grandi artisti del fotomontaggio, passati e presenti. Particolare importanza riveste per lei
l’influenza di Jerry Uelsmann, tra i precursori del surrealismo
fotografico in America, da cui Emme Divi mutua non solo la
tecnica ma anche alcuni segni topici. Si pensi, ad esempio, alle
mani accostate che emergono dall’oscurità e portano alla luce
visioni e oggetti misteriosi, porgendoli all’osservatore. Già presente in molti scatti del maestro surrealista americano, il motivo è ripreso da Marcella in un’immagine emblematica, in cui i
palmi attraversano una cornice per poi divaricarsi e mostrare un
orologio, salvato dalle tenebre. L’ottica fortemente grandango-
lare, che deforma la geometria del riquadro ligneo, la rotazione
dell’asse su cui si allineano le mani e l’inquietudine con cui le
falangi delle dita si protendono verso lo spettatore imprimono
all’inquadratura una notevole spinta cinetica, come ad enfatizzare l’urgenza data dal ticchettare delle lancette nel quadrante.
Fotografia e poesia si relazionano con modalità del tutto diverse alla sfera del tempo, tema centrale nella poetica di Emme
Divi. L’immagine fotografica si realizza in un tempo rapidissimo, quello necessario a cristallizzare la fugacità dell’istante.
Inoltre, pur se sottoposta a una postproduzione certamente più
lunga e laboriosa, può essere fruita sinteticamente con un solo
sguardo. La poesia, al contrario, ha tempi di componimento e di
lettura intrinsecamente più lenti, indispensabili per produrne e
in seguito decifrarne le strutture semantiche complesse. Diverso
è anche il tempo interno di ciascuna arte, il suo ritmo: in poesia
esso deriva dal numero delle sillabe per verso e dagli accenti
ritmici; in fotografia dall’alternanza delle campiture, dei pieni e
dei vuoti, dei chiari e degli scuri sulla superficie bidimensionale
dell’immagine.
Riposa il verde di un giaciglio di rovi | 2014
Il corto circuito tra le due temporalità differenti sottrae di fatto
le composizioni di Marcella alla costruzione culturale del tempo
e ne proietta il contenuto al di là del ritmo della vita, nella sfera
dell’eterno e dell’inconscio. In questi ambiti s’inoltra la ricerca
di significato che Marcella conduce attraverso la sua arte.
“Dell’oltre il distacco di autunni malati” sono i versi scelti per
accompagnare il sogno ad occhi aperti di una fanciulla dai lunghi capelli, adagiata su di un giaciglio invisibile, colta nell’atto
di contemplare una sequenza di alberi spogli. L’orizzonte s’incurva seguendo il profilo del viso femminile e, così facendo,
rende morbida e instabile la linearità del filare. Lo stesso che
attraversa le avventure oniriche di una figura maschile fotografata di spalle, con un braccio ripiegato di fronte al viso, quasi a
proteggere gli occhi dalla potenza della visione (“riposa il verde
di un giaciglio di rovi). Negli “infiniti istanti” delle sue opere Marcella condensa e condivide l’“ansia interrogante” verso
il reale. Sembra inesauribile la curiosità vorace che la spinge a
rifiutare la facilità di qualsiasi certezza aprioristica, di ogni soluzione troppo facile all’enigma dell’esistenza. Nella sua intervista
a Emme Divi, Lucy Franco cita Mallarmé: “…nominare un oggetto è sopprimere tre quarti del godimento della poesia, che è
costituita dalla felicità di indovinare poco a poco: suggerire. Ecco il sogno!...”. Marcella sogna, si lascia guidare dall’intuizione,
è scettica, critica e autocritica, scopre nuovi livelli di realtà, gode
della possibilità di perdersi.
Senza titolo | 2012
Decadere e declinare | 2012
Tuttavia, anche in questo spazio vertiginoso, che va ben oltre
le tre dimensioni cartesiane, ci sono regole precise, appigli solidi per l’esploratore. Una su tutte, la più importante: Marcella
fotografa (e scrive) unicamente in bianco e nero. “Primavera in
do minore” è una ragazza con ombrello, di nero vestita: il tempo
di esposizione dilatato cattura i movimenti dei tessuti e registra
il loro passaggio sulla superficie candida del muro di fondo, arricchendola d’infinite sfumature di grigio. Con ”attitudine non
pittorica” Emme Divi rifiuta il colore per rifugiarsi nella rassicurante dicotomia tra la luce e la sua assenza. I due termini di
questo ossimoro visivo sono i confini auto-imposti entro cui si
svolge e si sintetizza la sua ricerca, per scongiurare il sublime
terrore della libertà assoluta.
Marcella Dalla Valle
Adultità: i possibili | 2011
[ 50 ]
vive e lavora a Zanè ( VI)
www.marcelladallavalle.com
[ 51 ]
La grande onda presso la costa di Kanagawa | 1830-1832
Katsushika Hokusai
cm 25,5 x 37,5
Obuse, Hokusai kan
Esotismi
F u g a d a l l ’o c c i d e n t e
Un angolo dello studio | 1886
Roberto Guastalla
Olio su tela
cm 105 x 78
Fanciulla di colore alla porta | 1903
Roberto Guastalla
Olio su tela
cm 58 x 38
M a r a S e v e gl i e v i c h
T
utto il XIX secolo e una buona metà del XX sono
stati felicemente attraversati da correnti esotiche,
di un esotismo ‘occidentale’ che spesso giocava a “rendere più
orientale” l’Oriente, o a vederlo attraverso la lente deformante
di uno stereotipo borghese e romantico, alimentato in origine
dall’espansione francese in Africa e dalla volontà di evasione da
una dimensione domestica.
Sul crinale di un Settecento curioso e cosmopolita, che aveva
sentito il richiamo delle chinoiseries, dei miti e dei geroglifici
egizi, si affermano prima l’esotismo romantico, declinato come
orientalismo; e poi, dopo l’apertura ai commerci del Giappone
nel 1854, il japonisme, con significative influenze sulla pittura,
sulla letteratura e sulla musica.
Due gli eventi cruciali per il filone orientalista: il viaggio maghrebino di Delacroix e l’enorme impatto emotivo sulla cultu[ 52 ]
ra europea romanticamente predisposta ad accogliere le grandi
cause nazionali della guerra greco-turca. E due le opere-manifesto, rappresentative e sontuose che faranno scuola: le Donne di
Algeri nei loro appartamenti (1834) e I massacri di Scio (1823-24)
di Eugène Delacroix.
In entrambe la curiosità per il vicino Oriente (i costumi liberi,
sensuali e spregiudicati delle donne algerine sedute per terra con
larghi calzoni e abiti leggeri a fumare da un narghilè; i baffoni e
il turbante del turco stupratore di fanciulle greche e l’abbandono
indolente della famiglia greca prigioniera) è certo d’invenzione
ma non di maniera.
Certo, contemporanee sono anche le algide curve lunghe e sinuose, neomanieriste, della Grande odalisca di Ingres (1814), o
delle spiritate e languide donne bibliche di Chassériau (La toilette di Ester in attesa di Assuero, 1841), più che adatte a suscitare
suggestioni erotiche in questi borghesi occidentali che immaginavano incongruamente un Oriente di lascivia e libertà sessuale, in cui
le donne stavano sempre nude o seminude.
Insomma, un immaginario orientale, rifugio della mente e del corpo, anticipatore delle cantanti di strada di Manet, delle vahiné di
Gauguin, delle odalische avviluppate nei loro abiti arabescati di Matisse. A volte anche con funzione documentaria: molti artisti andavano in Africa del Nord o in Turchia al seguito di spedizioni governative e si ispiravano a vere carovane nel deserto, veri capi arabi e
sultani, veri cammelli, palme, moschee, minareti e caravanserragli.
Trait-d’union fra orientalismo e giapponismo è una figura di culto del secondo ‘800 europeo, quella dello spagnolo Mariano Fortuny
y Marsal, padre del Mariano Fortuny y Madrazo che ha fatto, nel secolo scorso, l’immagine di Venezia con i suoi tessuti, le lampade, i
costumi teatrali, gli oggetti d’arredo. In una sua bellissima opera del 1872, I figli del pittore nella sala giapponese, è evidente tutta la sua
sensibilità eccitata, eccentrica e fantasque.
E Japonisme è il termine francese coniato per indicare quel fenomeno massiccio di moda, che da Parigi dilaga in tutta Europa, a partire
dal sesto decennio del secolo: i mari profondi e impenetrabili si aprono al commercio di lacche, ventagli, paraventi, sete, kimono, armature da samurai, spade e copricapi. Ma, soprattutto, xilografie ukiyo-e: immagini del mondo fluttuante dell’ultimo periodo shogunale,
quello fra Sette e Ottocento del trasferimento della capitale da Kioto a Tokio, profondamente segnato dalla sottocultura vivace e spregiudicata della nuova classe di mercanti che, nel quartiere di Edo, arricchiti, si dedicano ai piaceri delle case particolari, alla compagnia
[ 53 ]
”Okita”, serie Make-up di sette beltà allo specchio | 1792-1793
Kitagawa Utamaro
cm 36,6 x 24,2
Honolulu, Honolulu Academy of Arts
Caccia alle lucciole | 1795 ca
Eishōsai Chōki
cm 38,4 x 25,3
Londra, The British Museum
delle cortigiane, agli spettacoli del teatro popolare kabuki, alle
lotte di sumo nelle palestre.
di Giacobbe con l’angelo in La visione dopo il sermone (1888) e,
soprattutto, usa colori piatti e nettamente delimitati, e accosta
il molto grande delle donne bretoni con le loro enormi cuffie in
primo piano, al molto piccolo della lotta di Giacobbe, separati
da un ramo d’albero obliquo, nel più puro stile giapponese; e
Whistler, in Porpora e rosa, vaso lange Leizen con sei sigilli (1868)
confonde un soggetto estremoorientale (una pittrice di vasi con
figure di donne molto allungate) con un’interpretazione languida, quasi simbolista o tardopreraffaellita, affatto aggiornata sul
suo tempo, in un raffinatissimo gioco di sovrapposizioni.
Un formidabile mix di raffinatissima volgarità, ossimoro che
ben si presta a descrivere un’arte, quella di Hokusai, Hiroshige,
Utamaro, caratterizzata da un naturalismo stilizzato, profondamente originale per l’assenza totale di prospettiva, per i tagli
arditi angolati e zigzaganti, per il decentramento dei soggetti in
composizioni disassate, per la luce radente, per il procedimento
metonimico della parte per il tutto, per l’importanza attribuita
al vuoto, per l’accostamento degli opposti della tradizione buddista: l’infinitamente piccolo che in realtà è grande in contrasto
con l’infinitamente grande e minaccioso che in realtà è piccolo
(il minuscolo monte Fuji sullo sfondo di una delle sue trentasei
diverse vedute, nella Grande onda di Hokusai).
Incalcolabile è la suggestione esercitata dalle stampe giapponesi sugli artisti impressionisti e postimpressionisti che le acquistavano e copiavano. Se Monet veste in kimono rosso su uno sfondo
improbabile di ventagli la bionda moglie Camille (La Japonaise,
1876) e Manet nel Ritratto di Emile Zola (1868) “cita” il comune amore, suo e dell’amico scrittore, per il Giappone inserendo
una stampa di Utamaro sullo sfondo, un paravento e porcellane
del Sol Levante nell’arredamento dello studio, Gauguin s’ispira
a due lottatori di sumo di un manga di Hokusai per la lotta
[ 54 ]
Donna seduta che fuma | 1887
Roberto Guastalla
Olio su cartoncino
cm 23 x 25
Le favorite nel parco | 1880
Cesare Biseo
Olio su tela
cm 41 x 62
O ancora, Aubrey Beardsley illustra un testo crudo e drammatico come la Salomè in francese di Oscar Wilde (1893), con tutti
gli stereotipi giapponesi (enormi acconciature, abiti a coda di
pavone, linea elastica e nitida, tagli audaci
Tema ricorrente del periodo Edo è anche quello dell’amore più
o meno effimero o mercenario, nei bijin-ga, immagini di beltà
femminili, e negli shun-ga , immagini di primavera, soggetti direttamente erotici. Veicolo del nudo maschile e soprattutto femminile, mai soggetto autonomo in Giappone, sono le scene di
donne alla toeletta, che si lavano o si vestono, o, appunto, quelle
di amplesso, di straordinaria varietà e originalità, a volte esasperate in modo grottesco e caricaturale come nella famosissima
Pescatrice di awabi e piovra di Hokusai.
[ 55 ]
A PROPOSITO DEL CIBO, DEL VINO
E DELLE VIE E FORME IN CUI ESSI
GIUNGONO SULLE NOSTRE TAVOLE
Il Centro di Cultura e Civiltà Contadina - Biblioteca Internazionale “La Vigna” di Vicenza
N
ell’anno dell’EXPO Milano 2015 - Nutrire il
Pianeta, Energia per la Vita, nel corso del quale
l’argomento enogastronomico viene sviscerato nei suoi vasti e
numerosi aspetti, non si può non menzionare un’istituzione assai particolare e interessante, nata a Vicenza nel 1981 ma depositaria di tesori a stampa ben più antichi: il Centro di Cultura e
Civiltà Contadina - Biblioteca Internazionale “La Vigna”.
Oltre a detenere un patrimonio librario forse unico al mondo
per qualità e quantità (il fondo conta attualmente circa 50.000
volumi sul tema), al di là della sua missione primaria che è quella
di raccogliere e conservare libri ed essere luogo di documentazione specializzato nel settore degli studi sull’agricoltura e sulla
cultura e civiltà del mondo rurale, l’Istituto è divenuto nel tempo anche uno spazio di approfondimenti e dibattito che si inserisce nel tessuto vivo della città, innervando sull’argomento principale che lo caratterizza una serie di motivi afferenti e affini.
Il Centro nasce come associazione i cui enti-soci sono il Comune, la Camera di Commercio, la Provincia di Vicenza, la Regione del Veneto e l’Accademia Olimpica, è retto da un Consiglio
di Amministrazione e si avvale di un Consiglio Scientifico per
progettare e definire anno per anno le proprie attività. Esso, come si è detto, è stato fondato nel dicembre del 1981 per volontà
di un donatore, Demetrio Zaccaria, con lo scopo di promuovere
e agevolare studi, convegni e tavole rotonde su opere e argomenti
relativi al progresso dell’agricoltura, alla conoscenza e diffusione della cultura e civiltà contadina, oltre a quello di valorizzare
la collezione, migliorandone l’utilizzazione e incrementando il
patrimonio di libri esistente. Con particolare riguardo all’enologia, l’Istituto si prefigge di studiare, analizzare e approfondire
la ricerca etnografica, sociologica e storica collegata ai cicli della
vita, del lavoro e della produzione, con l’obiettivo di salvaguardare conoscenze altrimenti destinate a scomparire.
Il fondatore Demetrio Zaccaria, era un imprenditore vicentino
che negli anni ’50 incominciò ad appassionarsi alla vitivinicoltura ed enologia e a raccogliere testi che trattavano tali argomenti.
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Uomo di cultura, si dedicò con così attenta passione allo studio
del vino e della coltivazione della vite, da conseguire prestigiosi premi di ricerca a livello internazionale. Alla sua morte, nel
1993, lasciò in eredità al Comune di Vicenza e al mondo una biblioteca di inestimabile valore culturale che viene costantemente
arricchita da donazioni e con acquisti selettivi sul mercato antiquario e su quello corrente.
Attualmente vengono acquisite le opere di agricoltura edite in
lingua italiana, mentre quelle riguardanti la vite e il vino sono reperite anche nei mercati internazionali, specialmente per
pubblicazioni in lingua francese, inglese, spagnola e tedesca. Se
una notevole percentuale dei volumi posseduti concerne la coltivazione della vite e la produzione vinicola, vi sono molte altre
opere relative ad altri temi: la coltura della patata e dell’olivo, ad
esempio, o l’allevamento delle api e la produzione dell’olio e del
miele, ecc. Il patrimonio librario de “La Vigna” comprende non
solo libri di recente pubblicazione, ma anche edizioni a stampa
a partire dal XV secolo.
Di particolare pregio la ricca collezione di testi inerenti l’enologia dal XV al XVIII secolo. Sono disponibili, inoltre, le
più importanti riviste di settore, cessate e correnti, in un ampio
panorama editoriale nazionale e internazionale. Nel 1999 “La
Vigna” ha acquisito la Biblioteca di Agricoltura della famiglia
Caproni, ricca di opere concernenti le bonifiche, i cereali e la
politica agraria condotta durante il ventennio fascista.
Nelle raccolte sono inoltre conservati il “Fondo Ispettorato
Regionale per l’Agricoltura”, cioè la biblioteca ottocentesca dei
Comizi Agrari del Dipartimento di Vicenza e successivamente
delle Cattedre ambulanti della provincia vicentina, il “Fondo
Fagiani”, raccolta dei volumi dello storico Fernando Fagiani,
studioso del pensiero economico e sociale del XIX e XX secolo, il “Fondo Galla”, che contiene oltre 400 volumi riguardanti
l’attività venatoria donati da Mariano Galla, suddivisi in cinque
sezioni: ornitologia, tecnica venatoria, narrativa venatoria, balistica e cinofilia.
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Vi è infine il “Fondo Cerini di Castegnate” di recente acquisizione grazie al finanziamento triennale della Fondazione Monte di Pietà
di Vicenza. Esso si compone di circa 1400 volumi a stampa a tema eno-gastronomico e culinario dagli inizi del ‘500 al ‘900. Il visconte
Livio Cerini di Castegnate, originario di Castellanza (Varese), fu uno dei più grandi scrittori di libri di culinaria del ventesimo secolo.
Fra le molte opere da lui pubblicate meritano una speciale menzione Il grande libro del baccalà e Il cuoco gentiluomo. Fra le più importanti
e rare opere della sua raccolta vi è il Recetario di Galieno, pubblicato a Venezia nel 1512 (volume posseduto da sole 4 biblioteche in Italia);
Dell’arte del cucinare di Bartolomeo Scappi del 1610; Il perfetto maestro di casa di Francesco Liberati del 1669; L’arte di ben cucinare di
Bartolomeo Stefani del 1671, un’edizione de I Semplici del 1561 e il Ricettario Senese del 1745.
Fra le numerose e rare edizioni francesi datate tra il XVI° e il XIX° secolo, un corpus difficilmente reperibile in Italia, sono presenti
i più importanti autori di gastronomia del periodo: da Escoffier, a Menon, a Carème. Di quest’ultimo, in particolare, la rara, sebbene
incompleta dei volumi 4° e 5°, edizione del 1847, L’art de la cuisine française. Vi è poi la molto rara edizione del Banchetto dei sapienti
dell’Ateneo.
Per quanto riguarda i volumi del XX° secolo, di particolare pregio sono una Bibliografia di Vicaire e le opere di Curnonsky e di Brillat Savarin. La sede de “La Vigna” è allocata, sempre a Vicenza, nel Palazzo Brusarosco-Zaccaria, in contra’ Porta Santa Croce 3, un
interessante edificio ottocentesco in parte restaurato dall’architetto Carlo Scarpa (Casa Gallo) nei primi anni del secondo dopoguerra.
Biblioteca Internazionale “L a Vigna”
Palazzo Brusarosco Zaccaria
Contrà Porta S. Lucia, 3 Vicenza
www.lavinia.it
GRUPPO SERENISSIMA RISTORAZIONE
Sostiene la cultura del territorio
w w w.grupposerenissima.it
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La conca di Asiago vista dalla croce del Katz
In alto nel 1917, sotto nel 2012
Fotografie come strati
archeologici
Claudio Rigon
L
a panoramica che apre l’articolo è austriaca, ed è
conservata presso il Museo del Risorgimento e della
Resistenza di Vicenza. È stata scattata sul filo del tramonto dal
bordo di una trincea a pochi passi dalla croce del Katz, una sorta
di promontorio che, al centro della conca di Asiago, uscendo
dalla corona di monti che la chiude a nord, arriva ad affacciarsi
fin quasi sopra il paese. Sono otto fotografie unite a fisarmonica,
per un giro di orizzonte di centottanta gradi. Non sono grandi,
ognuna è grossomodo delle dimensioni di una cartolina, qualcuna è più corta, qualcuna più alta, sono ritagliate non sempre
ad angoli retti per far combaciare, nell’unirle l’una all’altra, le
linee del paesaggio. Sono in qualche punto deteriorate, anche
ingiallite, una è un po’ sbiadita e un’altra, l’ultima, presa quasi
controsole, così scura e impastata da essere praticamente illeggibile. Hanno un che di grezzo, insomma, eppure sta forse anche
in questo la loro forza, si sente che c’è quasi una sintonia formale
con quello che mostrano: la desolazione di una piana devastata,
con quegli ammassi di pietre bianche dello scavo in primo piano
sulla sinistra e quei reticolati con i pali piantati fitti e alla rinfusa, presenze che fanno velo e che sembrano relitti, cose morte,
abbandonate. Sono fotografie che, soprattutto per chi conosce
questo paesaggio, e lo ama, colpiscono duro, lasciano un segno.
Sul Sisemol, nel 1917, le fotografie sono state scattate dall’alto dei riporti in pietre di una trincea
Per poter ritrovare oggi la stessa identica visuale, è stato necessario costruire una piattaforma sopra quanto restava di quella trincea.
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La conca di Asiago vista dal Kaberlaba
In alto nel 1915, sotto nel 2013
Non è, questa dal monte Katz, la sola panoramica della conca
di Asiago conservata al Museo: ce ne sono altre, riprese da punti
diversi e in tempi diversi della guerra. Una seconda, questa volta
italiana, è stata fatta il 4 agosto 1915 dal Kaberlaba. Mostra un
Altipiano assolutamente intatto.
Eppure la guerra era iniziata da due mesi e mezzo e sulla cima
del monte Verena, che si vede proprio al centro, sul fondo, noi
sappiamo che il forte era già un ammasso di rovine. Ma la guerra
rimaneva ancora tutta al di là, dietro quel monte, sul confine, e
nella conca non se ne avverte assolutamente la presenza: le mucche sono al pascolo; gli orti ben tenuti; i campi coltivati a grano,
avena, orzo e la mietitura in corso; le case, le contrade, i paesi
bianchi e lindi; il paesaggio luminoso.
La conca di Asiago vista dal Sisemol (Particolare)
In alto nel 1917, sotto nel 2014
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Una terza panoramica poi, ripresa da una posizione austriaca
su monte Rasta, è del 19 maggio 1918 e mostra un paesaggio
ormai totalmente devastato. Quando, a un certo punto, ho voluto controllare su una carta topografica come erano disposti
reciprocamente i punti di ripresa di queste tre vedute, mi sono
accorto se avessi trovato una quarta panoramica scattata da est,
e cioè dal Sisemol (e l’ho infine trovata, presso gli archivi dell’esercito, una ripresa italiana), avrei avuto la piana di Asiago vista
dai quattro punti cardinali: quasi una sorta di TAC del paesaggio della conca, la registrazione della sua trasformazione via via,
in quattro anni di guerra.
Sono documenti preziosi, queste fotografie. Anche perché, in
Altipiano, le tracce di quattro anni di guerra sono venute a intersecarsi e a sovrapporsi continuamente, così che quello che è
venuto prima si confonde spesso con quello che è venuto dopo,
compresso insieme in una sorta di contemporaneità. Se si vuole
leggerle, le tracce di quei quattro anni, se si vuole restituire ad
ognuna il suo momento, cercare di immaginare per ognuna il
suo paesaggio, bisogna saper andare a ritroso, avere la capacità (e
chi va a camminare per quel territorio lo sa) di un doppio, anche
di un triplo sguardo. Tornare a separare, almeno mentalmente,
strato da strato, ogni traccia, ogni memoria, da ogni altra che
magari è lì a lato ma che può contenere una storia diversa, forse
precedente, forse successiva.
È stato certamente pensando a questo che, a un certo punto,
mi sono trovato a guardare a queste panoramiche come a degli
strati archeologici: la memoria di un luogo, di un paesaggio, di
un territorio, depositata per strati, ogni strato datato con cura
e fissato nei granuli d’argento di una fila di lastre fotografiche
prima che si depositasse la successiva.
Così, la decisione di rifarle a mia volta è venuta infine da sé, dal
bisogno di mettere a confronto, a distanza di ormai cento anni,
i paesaggi di allora con quelli di oggi. Ma anche per fissare lo
strato archeologico presente, perché rimanesse a memoria per
chi verrà dopo, fra venti, cinquanta, cento anni. Qualcosa che
potrebbe essere importante se un giorno si penserà, in Altipiano
o a Vicenza, a un museo del paesaggio.
*Claudio Rigon è autore de I fogli del capitano Michel, Einaudi, Torino 2009, e di Passato presente. Sulle orme di C.D. Bonomo, fotografo: i cimiteri di guerra dell’Altipiano, Galla 1880
libreria editrice, Vicenza 2006
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da vedere
Il Museo del Gioiello di Vicenza
V
ICENZA (VI)
Parco del Sojo
L usiana (VI)
Il primo in Italia e uno dei pochi al mondo dedicato esclusivamente al gioiello. Da dicembre
2014 nella città del Palladio è possibile visitare
il Museo del Gioiello, un progetto di Fiera di
Vicenza in partnership con il Comune di Vicenza.
Allestito negli splendidi spazi della Basilica Palladiana, patrimonio dell’Unesco, il Museo raccoglie
una collezione di oltre 400 pezzi rari provenienti
da tutto il mondo, offrendo un’originale esperienza estetica e conoscitiva su un oggetto profondamente radicato nella cultura umana.
Cuore dello spazio museale sono le nove sale
espositive situate al secondo piano, curate da
esperti internazionali, che accompagnano i visitatori in un percorso inedito, nel tempo e nelle culture: Simbolo, Magia, Funzione, Bellezza, Arte,
Moda, Design, Icone e Futuro.
Il Museo è curato e diretto da Alba Cappellieri,
Professore di Design del Gioiello al Politecnico di
Milano e principale studiosa del gioiello in Italia,
e presenta un allestimento innovativo progettato
dalla designer internazionale Patricia Urquiola.
Dedicato tanto agli addetti ai lavori quanto al
grande pubblico, il Museo del Gioiello si pone
come un luogo fruibile e dinamico, anche grazie
alla rotazione biennale delle opere e allo spazio
riservato alle esposizioni temporanee al piano
terra. Qui, sino al 1° luglio 2015, è possibile
visitare la Mostra Gioielli del Mare. Coralli,
Cammei, Perle tra Memoria e Modernità, organizzata da Assocoral in collaborazione con Fiera
di Vicenza e curata da Cristina Del Mare: oltre
100 gioielli tra parure, collane, bracciali, spille e
cammei, ricavati dai più rari e prestigiosi materiali trovati nel mare e trasformati in meravigliosi
preziosi da aziende di Torre del Greco.
Il Museo del Gioiello nasce con l’obiettivo di promuovere l’universo culturale dell’oreficeria e della
gioielleria.
Un museo d’arte contemporanea in
cui le opere dialogano con il bosco:
il Parco del Sojo di Lusiana (VI)
Compie dieci anni il Parco del Sojo Non è poco
per un’idea che ha come portato diverse complessità logistiche e tecniche e la cui progettazione
non prevede un tempo determinato ma rimane
work in progress, sempre aperto a nuove sollecitazioni e alle proposte di altri (qualificati) artisti che
condividano il desiderio di coinvolgimento nella
situazione.
Il curatore e nume tutelare è l’architetto Diego
Morlin che nel 2005 lo ha pensato come un percorso espositivo d’arte contemporanea en plain air.
Vi si trovano allocate opere che, pur accogliendo
le modificazioni imposte dallo scorrere del tempo
e prevedendo processi più o meno lenti di alterazioni, non sono destinate alla definitiva scomparsa. Esse stanno, piuttosto, a contrassegnare
in modo durevole la presenza della creatività
collaborativa tra uomo e natura e lo scorrere delle
stagioni mantenendo la memoria del luogo.
I suggerimenti per raggiungerlo già dicono del
piccolo impegno di conquista richiesto ai visitatori
per esserne accolti in modo armonioso: possibilmente a piedi, per avere l’opportunità di assaporare gradualmente lo spirito e il senso di simbiosi tra
natura e arte che scaturisce dal luogo e prepararsi
alla sorpresa che si ripropone, dopo una curva
nel sentiero o in una piccola radura, quando una
nuova scultura o istallazione si parano alla vista.
Il progetto rappresenta non solo un’esposizione
qualificata di opere d’arte, ma anche e soprattutto
un processo creativo in cui l’opera giorno dopo
giorno cresce e matura e in cui l’intervento dell’artista esprime il rapporto con la natura, traendo da
essa ispirazione e stimolo.
I Musei di Spazio Brazzà
Museo Storico Pietro di Brazzà Savorgnan,
Museo Artistico Štěpán Zavřel
Moruzzo (UD)
Il Centro Internazionale di Studi per la Cultura
dell’Infanzia ‘Štěpan Zavřel’con il Museo Artistico ‘Štěpan Zavřel’di Spazio Brazzà, sede permanente della mostra antologica dedicata a uno
dei più grandi Maestri dell'Illustrazione per
l'Infanzia, creano e promuovono progetti culturali
a livello territoriale e internazionale in collaborazione con diversi Enti e istituzioni con una particolare attenzione al Libro illustrato e alle diverse
forme d’Arte rivolte al Bambino. Il Centro di
Studi studia e documenta l'opera omnia dell'artista, grafico, animatore, illustratore, editore, gallerista che ha avuto come grandi maestri dell'animazione e della grafica, Jiri Trnka ed Emanuele
Luzzati; inoltre promuove la programmazione
delle attività museali come frutto di proposte
nate dalla ricerca sul campo, in collaborazione
con esperti di settore. In particolare tra i diversi progetti spicca la collaborazione con la casa
editrice Bohem Press Italia di Trieste, per ripubblicare o editare ex novo i capolavori editoriali del
grande Maestro illustrati per l'Infanzia, vincitori
di numerosi premi e riconoscimenti internazionali per le tematiche affrontate e la bellezza delle
immagini illustrate, accompagnandoli e supportandoli con Progetti speciali rivolti in particolare
alle scuole, con la convinzione che davvero i Bambini possono cambiare e migliorare il mondo.
Galleria Civica Bressanone
Museo Revoltella
Dolomiti Contemporanee
C
asso (PN)
Kunst ist mein Leben
(l’arte è la mia vita)
Il Museo Revoltella fu fondato nel 1872 dal
barone Pasquale Revoltella (1795-1869) che lasciò
alla città di Trieste la sua casa e tutte le opere
d’arte, gli arredi e i libri in essa contenuti, oltre al
denaro per il mantenimento e lo sviluppo dell’istituzione, la formazione dei giovani artisti e degli
artigiani. In pochi decenni il Museo si arricchì
di un cospicuo numero di opere d’arte, spesso
acquistate alle prime Esposizioni internazionali,
tra cui la Biennale di Venezia, che resero in breve
necessario l’ampliamento della sede. Al palazzo
originario, un’elegante costruzione neorinascimentale di tre piani, edificata tra il 1854 e il 1858
su progetto del berlinese Friedrich Hitzig, venne
aggiunto nel 1907 il vicino palazzo Brunner,
ristrutturato nel 1963 su progetto di Carlo Scarpa,
così che ora, con l’attiguo il palazzo Basevi, il
Museo occupa un intero isolato (circa 4000 mq
di esposizione con 350 opere di pittura e scultura
distribuite in sei piani). Contiene autori italiani
del secondo Ottocento (Fattori, Induno, Palizzi,
Morelli De Nittis, Nono, Ciardi, Trentacoste,
Canonica, Bistolfi, Carena, von Stuck, Zuloaga),
artisti del primo Novecento a Trieste e in Italia
(Marussig, Bolaffio, Timmel, Dudovich, Casorati, Sironi, Carrà, De Chirico, Martini) e del
Friuli-Venezia Giulia degli ultimi cinquant’anni
(Zigaina, Afro, Dino e Mirko Basaldella, Spacal,
Perizi). I protagonisti del secondo Novecento sono
esposti nella grande sala del sesto piano che si
apre alla vista della città e del mare. Da qui si può
uscire sulla grande terrazza, disegnata da Carlo
Scarpa, dove nelle sere estive è in funzione un
caffè aperto fino a mezzanotte.
Progettoborca
Bressanone (BZ)
Dalla fatalità di un incontro alla stimolante
scoperta di possedere idee comuni, per poi approdare con entusiastica consapevolezza alla costruzione di un percorso, insieme: questo l’antefatto
che consentirà a Monte San Savino, l’antico
borgo della Val di Chiana adagiato sulle ridenti
colline verdeggianti di cipressi ed olivi, di vivere
una nuova esperienza culturale e di aprirsi oltre i
propri confini territoriali per incontrare ed accogliere l’interiorità silente proveniente dalle montagne altoatesine. In un momento epocale di cambiamenti sociali riteniamo che solo l’Arte possa
aiutarci a capire dove stiamo andando; proponiamo un risveglio e una rinascita culturale che tramite l’Arte crei nuove relazioni feconde per scoprirsi a vicenda in un’alternanza di esperienze e di
dialogo, in un bisogno di amicizia, di conoscenza
e di accoglienza. Le strutture storiche savinesi
quali il Cassero, roccaforte estrema difensiva della
cittadella medioevale, il cortile del rinascimentale
Palazzo di Monte, edificio del potere civile, e la
Chiesa di S.Chiara, scrigno di tesori sansoviniani,
si offrono per alcuni mesi ad ospitare nuovi racconti dai linguaggi eterni ed universali, fornendo
l’occasione per un confronto nel creare, sperimentare e rigenerare. Da qui l’auspicio che Monte San
Savino si spalanchi al futuro e possa fare proprie
le parole di Alex Pergher, curatore della mostra,
“Kunst ist mein Leben”.
Margherita Gilda Scarpellini
Sindaco di Monte San Savino
Trieste
Dolomiti Contemporanee è un progetto di rigenerazione che dal 2011 opera su siti ad alto potenziale e depressi, attraverso l’arte contemporanea
e la cultura. Fabbriche, spettacolari complessi
d’archeologia industriale, edifici particolarmente significativi rispetto alla storia del territorio,
collocati nelle Dolomiti-Unesco, si trasformano da
luoghi abbandonati in cantieri innovativi, centri
di produzione artistica.
Su alcuni siti si agisce solo per alcuni mesi: le
attività svolte conducono generalmente al riavviamento delle strutture.
In altri casi, dove il valore storico o culturale dei
siti risulti eccezionalmente rilevante, i progetti
vengono calibrati sul medio-lungo periodo, così
da compiere un lavoro più accurato sulla loro
identità, passata e presente, e sul ripensamento del
loro futuro.
Così è stato per il Nuovo Spazio di Casso, lanciato
nel 2012 nell’area del Vajont, teatro nel 1963 della
terribile Tragedia. E così è oggi per l’ex Villaggio
Eni di Borca di Cadore, il cantiere più recente e dal
potenziale più elevato.
Il Villaggio, voluto da Enrico Mattei e realizzato da Edoardo Gellner, fu, dai primi anni ’50 ai
primi ’90, un centro vacanze per i dipendenti del
Gruppo Eni.
Situato in un bosco ai piedi del Monte Antelao,
esso occupa una superficie di oltre 100 ettari.
A luglio 2014, grazie al sostegno del Gruppo
Minoter-Cualbu, proprietario del sito, Dolomiti
Contemporanee ha avviato su questo sito formidabile Progettoborca, piattaforma culturale e strategica di rifunzionalizzazione delle strutture inattive.
Una Residenza artistica interazionale è attiva al suo
interno; informazioni, progetti ed attività sono
disponibili nel website dedicato.
Museo del Gioiello
Parco del Sojo
I Musei di Spazio Brazzà
Galleria Civica Bressanone
Museo Revoltella
Dolomiti Contemporanee
Basilica Palladiana
Piazza dei Signori, Vicenza
www.museodelgioiello.it
Via Covolo, 36046 Lusiana VI
e-mail: [email protected]
www.parcodelsojo.it
Via del Castello 15, 33030 Moruzzo (UD)
Cell. +39 345 39 11 907
e-mail: [email protected]
www.castellodibrazza.com
Via Portici Maggiori 5
39042 Bressanone (BZ)
www.brixen.it
Via Armando Diaz 27, Trieste
www.museorevoltella.it
Via Sant’Antoni 1, Casso (PN)
www.dolomiticontemporaneenet
www.progettoborca.net
www.twocalls.net
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Teodolinda Caorlin
V
enezia
Giacomo Modolo
V
icenza
Luciana Cornale
Rec
oaro Terme (VI)
Andrea Grotto
V
enezia
Teodolinda Caorlin con la sua tecnica minuziosa, i suoi fili sottili, incrociati a trama e ordito,
la portarono in quegli anni a realizzare figure
quasi immaginarie ed eteree, figure virtuali. Ci
era piaciuto il modo moderno e personale con cui
veniva rivisitata una tecnica classica come quella
dell'arazzo, e lo sguardo caldo, emozionato ed
emozionante che l'artista rivolgeva alle persone
che raffigurava, alle loro contraddizioni, alla loro
solitudine. E dalle virtù di allora oggi Teodolinda
si cala nella realtà e, forse a fronte dell'oggettività
presente, ci propone i sette vizi capitali, immagini
dense di realtà immerse nei loro pensieri, nelle
loro ansie, nei loro peccati...Le figure che rappresentano i vizi non sono marchiate da stigmate,
non sono brutte o laide; sono persone come tutte
le altre, sono persone come noi, e non suscitano
disprezzo o riprovazione, ma comprensione e un
senso di vicinanza. Non sono solo peccatori, ma
esseri umani, "Umani, troppo umani", parafrasando Nietzsche. Così compaiono, come definiti
da Aristotele, "gli abiti del male" appunto, abiti
tessuti su chi sa solo ripetere azioni non proprio
esemplari. E questa non poteva essere che una
scelta fatta da un'artista "tessile": riportare in
quegli abiti i desideri irrefrenabili, le tristezze
e le esagerazioni, gli abbandoni e le vendette, i
torpori e le inerzie. Tutti sapientemente intessuti
nelle trame e negli orditi, tutti nati dal semplice
intreccio infittito solo in alcuni punti. Ed infine
gli occhi, quegli occhi così grandi che ti guardano. Stupiti? o solo ansiosi di superare le debolezze
e tornare ad essere uomini e donne?
Mimmo Totaro
"Portraits from K.'s diary", ultima personale
dell'artista vicentino Giacomo Modolo, a cura di
Elisabetta Chiono: un viaggio pittorico all'interno
di due stati, due città, due vite, in un arco temporale che, partendo dalla Primavera di Praga,
giunge fino ai giorni nostri.
Ispirato dai racconti di Karin (la protagonista
e redattrice del "diario" del titolo della mostra)
Modolo tenta un racconto tutt'altro che didascalico che si snoda senza soluzione di continuità da
una tela all'altra, alternando ritratti ad ambientazioni architettoniche che convivono all'interno dello spazio liminale che separa il figurativo
dall'astratto.
Le suggestioni prendono vita da documenti
storici, fotografie d'epoca le quali, attraverso la
decontestualizzazione di oggetti, architetture ed
atmosfere, abbandonano il carattere individuale
per assumere un valore universale, condivisibile.
La figura che incarna “Diffidenza” (2015) appartiene ad un'epoca senza tempo, resa da tonalità
esaustive, nelle quali la profondità è ottenuta per
livelli secchi, per campiture piatte, rigide.
Nel ritratto della giovane donna ammantata, che
cerca protezione dietro al bavero della casacca,
non c'è spazio per la luce, che viene assorbita
totalmente nelle pennellate precise, che definiscono i contorni come una lama di coltello.
L'antinaturalismo cromatico diventa simbolico,
malinconico, straziante, mentre l’oscurità del
fondo inghiotte ogni altro significato.
Petra Cason
Diplomata all'Istituto d'Arte P. Selvatico di
Padova sez. decorazione pittorica, vive e lavora
a Recoaro Terme . Ha iniziato l'attività artistica
intorno al 1980 ed ha esposto in varie mostre di
valore nazionale. Luciana Cornale evoca morbide figure della mitologia silvana. Son folletti,
maghesse, uccelli parlatori, streghe, alberi animati, che si muovono misteriosamente nel senso della
natura: le anime nascoste della leggenda, il cuore
dell'ancestro.
L' arte è un viaggio. Ha sempre avuto diverse
direzioni: l'intrattenimento, l'impegno, l'arredamento, il denaro.... la ricerca, la sofferenza. Quello
di Luciana Cornale è un percorso dallo sguardo
libero, cioè non dettato dalla convenzione o dalla
convenienza. Tende la pupilla al di là del velo,
della tenda che copre e cela, con vantaggio apparente per chi vive di apparenze.
Essa cerca con spontanea luce la propria natura
interiore, la propria lingua con le sue storie delineate tra immagini e presenze che si incontrano
nel suo gesto creativo calmo ed appassionato. Il
suo palcoscenico creativo attira da stanze differenti, spesso lontane nel tempo, volti ed apparizioni
che si ritrovano e restano insieme in una chiara
calma che disegna la profonda identità di Luciana. La sua arte è il respiro che lei stessa cerca di
comunicare alle persone che guardano e....forse
ne ascoltano il linguaggio. La creazione dell'arte
cerca, anche se difficilmente trova una risposta al
senso dell'esistere. Luciana guarda serena le sue
"anguane" che sembrano raccontare qualcosa che
avviene altrove, oppure si ferma affranta di fronte
a chi scompare. L'attimo migliore è il pensiero che
percorre l'intero arco.
Ulderico Manani
Andrea Grotto (1989), artista vicentino, si
forma presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Nel 2013 con il collettivo How We Dwell
(make your own residence) è assegnatario di un
atelier presso la Fondazione Bevilacqua La Masa.
Andrea lavora principalmente attraverso pittura,
ma anche con scultura, installazione e performance, alla creazione di narrazioni. Rappresentando le scenografie dei propri racconti l’artista
ci fa entrare nel suo album di ricordi, e le pitture
divengono degli still silenziosi di una immaginifica cinematografia interiore, della quale l’artista è
l’unico protagonista.
Particolare attenzione viene data alla costruzione, alle piccole architetture nelle quali è possibile
cercare riparo, o sulle quali è possibile salire o
scivolare. Oppure, ancora, alla decostruzione e al
riassemblaggio (In truth nothing is lost).
L’elemento abitabile è un topos ricorrente per
Andrea, soprattutto con How We Dwell. Il contenitore che contiene e protegge, ma allo stesso
tempo può essere una struttura di fortuna, in
bilico, una tenda, una casa sull’albero, un bivacco
(come nei lavori della serie Walking I e Walking
II , Houses, o nella performance Stube).
Tra i lavori non pittorici va citata la Legrosega
Panduda, performance realizzata a Casso, presso
lo spazio di Dolomiti Contemporanee, che si rifà
alla figura mitica della Legrosega, donna-spauracchio della tradizione cassana.
Negli ultimi lavori che Andrea sta realizzando il
dialogo tra pittura e scultura si va facendo sempre
più stretto e lo schema narrativo sempre più folto.
Alcuni elementi costruiscono un dialogo tra loro,
altri interpretano un proprio monologo, a comporre una drammatizzazione corale.
Veronica Mazzucco
Livia Cuman
M
arostica (VI)
Livia Cuman, artista marosticense, nel periodo
natalizio, ha esposto 45 grandi tele nelle sale
del Castello Inferiore di Marostica. I suoi critici d’arte Donata Demattè e Mario Guderzo la
stanno accompagnando da tre anni nella sua crescita artistica. Dopo le mostre di Treviso e di Possagno lo sviluppo della sua pittura ha raggiunto
risultati molto interessanti, originali e coraggiosi.
L’uso che lei fa del colore sulle tele è bello e raggiunge immediatamente l’osservatore, nel quale
dopo la nascita di un’emozione … “in tutti e due
i protagonisti il tempo si annulla perché assorbiti
dal dipinto che non ha confini e la convergenza
è proprio la nascita di un’opera e di un pensiero.”
Mario Guderzo in “Pensare la pittura” 2014. Al di
là del colore nascono delle tele bianche con argento: “Non c’è mai vuoto nello spazio-colore della
Cuman ma possono esserci grandi silenzi: ci sono
opere interamente costruite con i bianchi … una
pausa di puro spirito che si manifesta come un
soggetto indipendente ma complementare, all’esplosione di vita … dei “grandi alberi”.” Donata
Demattè in “Indagine aperta” 2014.
Denis Riva
F ollina (TV)
"CASA. Fuochi traslochi monoliti stendardi", la
personale di Denis Riva negli spazi ampi e densi
di storia dell'ex collegio San Giuseppe a Follina, raccoglie in quattro sezioni la produzione più
recente dell’artista emiliano.
Tra i Traslochi immaginifici - una costante dell'opera di Deriva - in cui tronchi e massi prendono
il largo per mezzo di stormi di uccelli o gruppi
organizzati di animali a metà tra il reale e il
fantastico, gli Stendardi, popolati da esseri ibridi
e metamorfici, e i Monoliti (piccoli paesaggi da
viaggio), la sezione dei Fuochi è rappresentativa
degli "incendi interiori" che hanno caratterizzato
il rapporto intimo tra l'artista, la propria identità
e la Natura, entrata a far parte prepotentemente di una quotidianità intrisa di arte. Tra questi
lavori, il potente dittico “Autoritratto con faccia
che brucia” ritrae l’artista immerso in un paesaggio onirico, di leggere carte sovrapposte dalle
pieghe delle quali sorgono catene montuose dai
toni accesi. All’ombra di un cavallo imbizzarrito,
che pare sciogliersi alla luce del giorno, la serafica
figura dell’artista prende fuoco: le fiamme che ne
lambiscono il volto non spaventano lo stormo di
impavidi aironi cinerini appollaiati poco distante.
Il “lievito madre” è il medium infinito dal quale
prende vita la maggior parte della produzione
pittorica di Derica: una miscela dal sapore alchemico, che fonde i pigmenti di colore all'acqua
da cui attinge per dare vita a forme surreali che
continuano a sorprendere.
Petra Cason
Autoritratto con faccia che brucia (dittico) | 2012/15
Acrilico, lievito madre e carta su tela
Diffidenza | 2015
Acrilico su tela
Teodolinda Caorlin
Giacomo Modolo
Luciana Cornale
Andrea Grotto
Livia Cuman
Denis Riva
vive e lavora a Venezia
www.teodolindacaorlin.it
vive e lavora a Vicenza
[email protected]
vive e lavora a Recoaro Terme (VI)
www.lucianacornale.it
vive e lavora a Venezia
http://andreagrotto.tumblr.com/
vive e lavora a Marostica (VI)
www.liviacuman.it vive e lavora a Follina (TV)
www.denisriva.com
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Fabiano De Martin Topranin
olzano
B
DESIGN: compie 44 anni il divano
“Serpentone” ideato da Cini Boeri
ARCHITETTURA LIBRI: “I limiti del modernismo – una Generazione Dimenticata di
Architetti Europei” di Adam Caruso
Fabiano De Martin Topranin (1984), originario
di Padola di Cadore, si forma a Brunico e Selva di
Val Gardena, apprendendo le tecniche della tradizionale scultura lignea altoatesina e reinterpretandola poi in chiave contemporanea.
Soggetto d’elezione nella poetica di Fabiano è
la figura del giovane, spesso adolescente, la cui
irruenta interiorità va a caricare la materia lignea,
che già è essenza viva, di nuova linfa.
I giovani di Fabiano, corrucciati, concentrati,
schivi, magnetici, sprezzanti, anche ostili, dal
volto sfregiato da una cicatrice o da un’ecchimosi racchiudono una forza che in loro straborda, e
paiono doversi incendiare da un momento all’altro. Non di rado armati di felpa e berretto, questi
giovani irrequieti si aggirano in scenari boschivi
(Back to the forest) o nella giungla urbana (Urban
hero), dove si fanno spazio anche a colpi d’accetta, in un continuo confronto tra essere umano,
ambiente antropizzato e natura, che è lo svolgimento di un’azione conflittuale, il compimento di
un’impresa, un dissidio, un artificio.
Particolare, per la resa mimetica e per la velata
ironia che ne deriva, la serie delle teche -“In case
of return to the forest break glass” si legge su di
esse- dove l’artista mette a disposizione dello
spettatore, in caso di necessità, alcuni strumenti
di sopravvivenza per la ruvida vita nel bosco.
Per il suo ultimo progetto artistico Fabiano sta
lavorando non solo con la scultura, ma anche con
la luce, il suono e il video, ricreando brandelli
di crepuscolare surrealtà onirica, nella quale si
manifesteranno, condensate, rarefatte, spinose, le
suggestioni di un mondo che appartiene al sogno.
Goldene Träume è il titolo del progetto, ed anche
un augurio, “sogni d’oro”. (Veronica Mazzucco)
Serpentone nacque nel 1971. Lo disegnò Cini
Boeri a Milano; lo ingegnerizzò e produsse
Arflex a Limbiate. Era un divano, certamente,
ma diverso da tutti gli altri: senza struttura né
rivestimento, era interamente monomaterico, di
morbida schiuma poliuretanica. Poteva essere
tagliato dell’esatta misura desiderata e attorcigliato a piacere.
Un esemplare lunghissimo invase le strade attorno a San Babila a partire dallo showroom Arflex
di via Borgogna, e fece subito parlare di sé. Cini
Boeri aveva inventato la prima seduta “da utilizzare, non da possedere”, un divano che invitava
l’utente a progettare da sé il proprio spazio di vita
e a sperimentare tante modalità inedite per “stare
seduto”. Non per forza composto.
Serpentone ebbe breve fortuna: la schiuma poliuretanica si rivelò un materiale estremamente
instabile e poco resistente all’invecchiamento. Alla rapida diminuzione dell’elasticità della
schiuma corrispose un aumento esponenziale della
fragilità della seduta. I Serpentoni si sgretolarono
l’uno dopo l’altro.
Arflex conserva ancora uno degli ultimi esemplari
sopravvissuti, protetto in un ambiente a temperatura costante e al riparo dalla luce del sole, come
si trattasse di un reperto archeologico di una civiltà antichissima.
Curiosamente, le norme sanitarie attuali pongono
forti limitazioni all’utilizzo della schiuma, impedendo di fatto la produzione di nuovi Serpentoni.
Sono in corso alcuni esperimenti con materiali
alternativi, ma in nessun caso è stato possibile
raggiungere la stessa versatilità dell’originale.
Serpentone resta per ora cristallizzato in poche
fotografie d’epoca in bianco e nero: integrato
nell’arredamento di qualche salotto, all’aperto,
mentre un gruppo di bambini in grembiule ci
gioca attorno o, infine, in compagnia di un’elegante donna-architetto che fuma e riflette.
The Limits of Modernism – a Forgotten Generation of European Architects (I limiti del modernismo – una Generazione Dimenticata di Architetti Europei) è il titolo di una sequenza di pubblicazioni che l’architetto inglese Adam Caruso
dedica ad alcuni, selezionatissimi, autori del ‘900.
La serie, inaugurata dalla monografia dedicata
alla figura complessa di Fernard Pouillon (modernista francese sui generis, costruttore prolifico
travolto nel cuore della carriera da un controverso
scandalo giudiziario) prosegue con un approfondimento su i milanesi Asnago e Vender.
Poco conosciuto al di fuori del capoluogo lombardo, il duo fu tra i principali protagonisti della
costruzione della città borghese del ‘900, progettata dai così detti “professionisti” dell’architettura
(Luigi Caccia Dominioni, Ignazio Gardella e
Vico Magistretti, tra gli altri).
Le celebri facciate “astratte” che punteggiano il
centro città sono descritte attraverso le fotografie
di Hélène Binet, la cui composizione rigorosa si
sposa naturalmente con i prospetti sobriamente
impaginati degli autori.
Ad esse si affianca il ridisegno a fil di ferro (meticoloso e ai limiti del virtuosismo) del contesto
urbano dove gli edifici si inseriscono e in cui
finiscono per confondersi: Asnago e Vender, ci
racconta Caruso, non concepiscono l’architettura come produzione di oggetti tridimensionali
d’eccezione, autoriali e autoreferenziali, ma come
lettura, interpretazione e progetto di una realtà
data, con cui confrontarsi e dialogare.
In sintesi, Asnago Vender and the construction
of Modern Milan, al di là dell’interpretazione
critica in parte contradditoria del percorso degli
autori, racconta soprattutto di un momento storico fortunato del paesaggio urbano milanese, che
fu rappresentazione tridimensionale dello sviluppo culturale, sociale ed economico della città del
boom.
AreAArte Card
© Archivio Storico Arflex
Fabiano De Martin Topranin
vive e lavora tra Padola e Bolzano
http://www.fabianodemartin.com/
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Liceo Artistico “Pascoli”
Bolzano (BZ)
Liceo Artistico “Walter von der Vogelweide”
Bolzano (BZ)
Liceo Artistico Merano
Merano (BZ)
Liceo Artistico “Cademia”
Ortisei (BZ)
Istituto St. d’Arte “Giuseppe Soraperra”
Pozza di Fassa (TN)
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Trento e Rovereto (TN)
Liceo Artistico “Leonardo da Vinci”
Belluno (BL)
Ist. d’Arte St. “Polo della Val Boite”
Cortina d’Ampezzo (BL)
Ist. d’Arte St. “M. Fanoli”
Cittadella (PD)
Ist. Sup. GB. Ferrari ISA “A. Corradini”
Este (PD)
Istituto d’Arte “P. Selvatico”
Padova (PD)
Liceo Artistico “A. Modigliani”
Padova (PD)
Ist. d’Arte St. “Bruno Munari”
Castelmassa (RO)
Liceo Statale “Celio -Roccati”
Rovigo (RO)
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Liceo Artistico St. Treviso
Treviso (TV)
Lic. e Ist. d’Arte “Bruno Munari”
Vittorio Veneto (TV)
Liceo Artistico St. “M. Guggenheim”
Venezia (VE))
Liceo Artistico St. Venezia
Venezia (VE)
Liceo Artistico St. “Boccioni”
Verona (VR)
Istituto St. d’Arte “G. De Fabris”
Nove (VI)
Liceo Artistico “U. Boccioni”
Valdagno (VI)
Liceo Artistico “A. Martini”
Schio (VI)
I.I.S. “Bartolomeo Montagna”
Vicenza (VI)
Istituto St. d’Arte “E. Galvani”
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Istituto d’Arte “G. D’Annunzio”
Gorizia (GO)
AREAARTE N°22
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Direttore responsabile
Giovanna Grossato
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L`arte illumina il Forte di Fortezza
di Luca Masiello
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I COLORI DELL’OSCURITA’
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Andrea Martinelli. Riflessioni sulla realtà
Martina Gecchelin
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Pollock & Pollock alla Collezione Peggy Guggenheim
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Towards the future. 35 Years of Galerie Dorothea van der
Koelen Mainz | Venezia
Petra Schaefer
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Toni Buso. Tracciando sonorità visive
Erika Ferretto
Progetto grafico
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VILLA CA’ ERIZZO LUCA. Museo Hemingway
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Robert schad. Come nasce una mostra
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Pino Pin. Sculture con vocazione concettuale
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56esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia.
All The World’s Futures
Anna Livia Friel
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Marcella Dalla Valle. In viaggio attraverso l’inconscio
Alessandro Benetti
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Esotismi. Fuga dall’occidente
Mara Seveglievich
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A PROPOSITO DEL CIBO, DEL VINO E DELLE VIE E FORME IN CUI ESSI
GIUNGONO SULLE NOSTRE TAVOLE
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Fotografie come strati archeologici
Claudio Rigon
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Da Vedere
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HACKATAO – Sergio Scalet e Nadia Squarci
Foto: ISFAV Istituto superiore Fotografia e Arti Visive
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In copertina:
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Istituto St. d’Arte “G. Sello”
Udine (UD)
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Anno 6. Numero 22
Registrazione: Tribunale di Vicenza n. 1214 del 19 gennaio 2010
Iscrizione al ROC n. 22289 del 02/05/2012
© 2010 Martini Edizioni, Thiene (VI)
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L’arte salva l’arte
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