L`interesse nazionale: cos`è e come difenderlo

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L`interesse nazionale: cos`è e come difenderlo
L’interesse nazionale: cos’è e come difenderlo
Aspen Seminars for Leaders
L’interesse nazionale: cos’è e come difenderlo
Venezia, 13 -15 ottobre 2006
Come si definisce oggi l’interesse nazionale?
Le difficoltà. Definirlo in modo univoco è sempre stato difficile, da Guicciardini per il
quale l’interesse dello Stato era la trasfigurazione dell’interesse del principe, a Marx, che
negava l’interesse della collettività in nome di quello più concreto della classe. Ma è
diventato impossibile, da quando ci si domanda se il consolidarsi della democrazia
rispetto agli stati nazionali abbia rafforzato o abbia indebolito l’interesse nazionale.
Oltre l’accezione minima della sicurezza, l’interesse nazionale riguarda la difesa del
benessere di persone che vivono entro un dato territorio. Anche in questo senso, però, le
cose si complicano. La globalizzazione, infatti, ha creato una superclasse di cittadini
cosmopoliti che perdono il legame col territorio, mentre la sovranità multilaterale accresce
la distanza del cittadino e l’identità nazionale, d’altra parte, non basta a definire un
interesse in assenza di un progetto, un’idea di futuro. E però, il fatto di “stressare il
concetto di interesse nazionale con quello di identità nazionale” fa rabbrividire chi pensa
che per definire l’interesse nazionale sarebbe sufficiente ricostruire i pezzi di un’identità
spaccata. Oltre a generare problemi non banali in chi è a capo di società quotate in borsa, i
cui azionisti vivono per la maggioranza fuori dal territorio nazionale e i cui lavoratori sono
in minoranza italiani.
Nell’interesse nazionale, per esempio, andrebbero difesi i lavoratori e i proprietari, o
privilegiati i consumatori? È evidente, infatti, che tutelare i volumi di investimento è un
compito fondamentale per ottenere una qualità di servizi rilevante e una riduzione dei
prezzi, ma è un compito incompatibile con la difesa dell’italianità delle imprese, che spesso
coltivano le proprie debolezze per farne una moneta di scambio con la politica.
Le risorse umane. Demografia e educazione sono gli altri due elementi essenziali per
definire l’interesse nazionale. Se è vero che lo stato nazione non è più forte come un tempo,
la domanda della popolazione resta sempre importante, anche se disattesa. Lo dimostra
l’ingresso nell’euro, che le nostre élite hanno perseguito in nome dell’interesse nazionale,
senza però spiegare che la condivisione della sovranità sulla moneta unica avrebbe
comportato una maggiore competizione. D’altra parte, è difficile concepire l’interesse
nazionale come la somma olistica degli interessi dei gruppi sociali. Ma al di là
dell’ontologia, la questione posta dal seminario è molto semplice: ha senso difendere oggi
l’Italia, al di là del calcio e della moda?
A giudicare dall’indice di ascolto della fiction trasmessa dalla Rai su Giovanni Falcone –
una media nazionale del 30 per cento, con picchi sopra il 40 per cento al sud, e sotto il 20 in
Lombardia - l’interesse nazionale condiviso oggi lascia perplessi. La saldatura con l’Europa
è parsa ostacolare la tentazione separatista delle regioni del nord Italia, ma a medio - lungo
termine la comune appartenenza all’Europa può anche allontanare dal senso di
appartenenza alla nazione.
La storia. Eppure, l’esistenza dell’Europa non esclude affatto l’interesse nazionale. Tant’è
vero che gli stati membri che mostrano maggiore capacità di leadership nelle procedure
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europee sono le grandi nazioni a tradizione imperiale, come il Regno Unito, la Spagna,
l’Olanda, la Francia, che a differenza dell’Italia hanno una chiara percezione dell’identità
nazionale e difendono l’interesse nazionale sia quando lo esaltano, come una componente
concorrente rispetto alle istituzioni comunitarie, senza prendere per oro colato tutto ciò che
viene da Bruxelles, sia quando lo attenuano in vista di un risultato comune. Non per
niente, a differenza della costituzione di Filadelphia che inizia in nome del popolo degli
Stati Uniti d’America, il trattato per la costituzione europea inizia col richiamo al re del
Belgio.
Il fatto è che l’interesse nazionale nasce dalla storia: da una guerra, da una rivoluzione, da
un’epopea risorgimentale. E quando lo stato diventa uno dei tanti soggetti della storia, un
soggetto egoico, perde coscienza, non ce la fa, non riesce a incarnare l’interesse nazionale,
anche se oggi lo stato non è più quello di cinquant’anni fa, ma è molto più debole, con 2
milioni e 200 mila leggi, 5 miliardi di regolamenti, una dissennata concorrenza da parte
delle regioni e la convinzione diffusa che l’interesse nazionale non debba più servire a un
paese più forte, ma a un paese più giusto.
La leadership. La vera discriminante, però, non è la tradizione imperiale, ma la capacità di
difendere la somma di interessi individuali. E in questo gli inglesi sono più efficaci, perché
riescono a trovare soluzioni e a sostenerle nelle istanze decisionali comuni. L’interesse
nazionale, infatti, è l’incontro tra gli interessi individuali e la capacità istituzionale di
risolvere problemi in modo sistematico, con una strategia chiara e durevole, non dettata da
vincoli esterni, è riuscire a imporre la soluzione agli altri. Il Regno Unito però non ha
adottato la moneta unica. Viceversa, in molti paesi d’Europa, l’aver sottratto il governo
dell’economia allo stato nazionale genera confusione, dà la sensazione che le istituzioni
europee non siano più in grado di soddisfare i bisogni e gli interessi della popolazione.
L’interesse nazionale significa partecipazione, reddito, regole, comunità. Passando però
dalla teoria alla pratica, l’Italia zoppica di fronte al mercato mondiale, quando invece
l’interesse nazionale dovrebbe consistere nell’affrontare problemi reali, premiare chi si
impegna di più, capire le esigenze del mercato e trasferirle al mondo produttivo,
investendo in cultura e formazione. E se per alcuni ha “un integrale storico di leadership
culturale straordinario”, l’Italia arriva regolarmente ultima nel proporre, sul piano
internazionale, investimenti ad alto contenuto tecnologico anche nel campo strategico della
salute, della ricerca medica, delle nanotecnologie.
Per tutte queste ragioni, dunque, si potrebbe definire l’interesse nazionale come qualcosa
che forse ci sarà, ma per ora non c’è, e che ci sarebbe stato di più con meno élite e più
popolo. Il che riconduce al processo di formazione della nazione, tradizionale
appannaggio delle élite e non del popolo, anche se nel caso italiano le élite si tennero fuori
da quel processo, con la conseguenza di una forte spaccatura tra laici e cattolici, tra nord e
sud e, più tardi, con le successive distorsioni del senso di interesse nazionale legate alla
prevalenza del partito cattolico e di un partito antisistema, come il PCI. S’aggiunga a
questo l’esaurirsi del progetto del Risorgimento, che pensava di fabbricare gli italiani con
la guerra e con la scuola, in seguito all’abolizione della leva obbligatoria, alla scomparsa
dell’ora di educazione civica, mentre un palazzo pontificio continua ancora ad ospitare la
presidenza della Repubblica.
Inoltre, non va trascurata la riserva ideologica che ha lungamente gravato sull’idea di
patria, discreditata dal fascismo. Il che aiuta, del resto, a spiegare la confusione avvenuta
tra l’interesse nazionale e lo sforzo compiuto per aderire all’Europa, come se si trattasse di
una società di mutuo soccorso, e non di uno spazio aperto alla concorrenza e alla
competitività, quasi che il risanamento dei conti pubblici fosse dovuto perché imposto
dall’Europa e non perché frutto di convinzione. È questo uno degli esempi più citati
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rispetto alla mancanza di una sintesi politica in grado di dare rappresentanza a quelle
istanze locali, come i distretti industriali altamente competitivi sul piano globale. E la
mancanza di sintesi rinvia, a sua volta, alla mancanza di leadership, come capacità di
identificare possibilità di crescita come uno dei fattori chiave per spiegare il PIL pro capite
declinante, e la crescita economica inferiore a quella degli altri paesi.
L’interesse nazionale: trovare una comune identità tra i molteplici interessi in atto
(locali, federali, economici, di lobby, di movimenti).
Come fare? È possibile coagulare la molteplicità di soggetti caratteristica, oggi, della società
italiana? Un milione di imprenditori, uno ogni 50 abitanti, cinque milioni di imprese
registrate, una ogni 5 abitanti, due milioni e mezzo di professionisti. Elite e stato non
riescono a farne una sintesi politica. Dal proscenio la parola passa alla platea. Ma non è
sufficiente a dotarla di coscienza di sé. Secondo alcuni, dunque, per aggregare le molecole
in un tutto, più che ricorrere alla “verticalizzazione del potere”, sarebbe necessario
rafforzare i corpi intermedi, partiti, sindacati, associazioni; lanciare strategie comuni sul
territorio; puntare sui così detti “big players”, grandi manager e uomini di impresa in grado
di indicare una direzione comune.
Secondo altri, invece, per creare aree di interesse nazionale occorrerebbe creare aree di
disinteresse personale - dislocandolo magari sui comuni attraverso incentivi di
convenienza per la realizzazione di opere pubbliche -, innalzare la soglia del conflitto
d’interesse, arginare la frammentazione istituzionale - innestando la devolution su un
rafforzamento del potere centrale - e quella politica, correggendo il proporzionale che
moltiplica i partiti indebolendoli.
I comuni, però, lungi dal garantire un localismo virtuoso sono centri di clientelismo. Negli
ultimi sei anni, quelli del Mezzogiorno hanno speso per la realizzazione di marciapiedi,
rotonde, passeggiate al mare il 60% delle risorse di quello che la Cassa del Mezzogiorno ha
speso in quarant’anni. Quanto alla Chiesa, non può più fungere da coagulo, perché la
dimensione ecclesiale territoriale oggi è in crisi, perde vigore con la secolarizzazione e
l’invecchiamento del clero e non riesce più a offrire certezze, mentre vive con apprensione
lo slittamento del confine etico dal suo magistero allo stato, e dallo stato alla famiglia e al
singolo.
Quale Stato, quale diritto? Nel passaggio dalla società di diritto alla società degli interessi,
c’è da domandarsi se esista ancora il diritto. Esiste ancora una regola generale astratta e
universale per regolamentare la nostra società? Quando si parla di soggetti regolatori di
aree di interesse, ci si dimentica che nella società di diritto l’aspetto più importante è il
dovere, non l’interesse corporativo con le sue pretese. Inoltre, insistere sulle oligarchie
prodotte dalla società è pericoloso, perché aumenta il divario tra governanti e governati,
senza assicurare il governo del paese.
È ormai lontana l’epoca di Napoleone, quando la costruzione dello stato nazionale
avveniva secondo un unico principio unificante, con un codice, una moneta, una corte di
giustizia. In Europa non esistono più i vecchi poteri nazionali sul territorio, e a livello di
stato nazionale non è ancora nata una struttura alternativa. Emerge così quello che gli
italiani sono sempre stati: un modello antichissimo e al tempo stesso modernissimo di
società, dove la mappa dei quattro milioni di partita IVA coincide con la mappa della
proprietà agraria, dove i distretti sono la versione moderna delle città e delle corporazioni
medievali. D’altra parte, l’internazionalizzazione dell’economia italiana è avvenuta in un
modo inarco - futurista, che sfugge a ogni statistica. Esistono in Italia milioni di volontari,
sostenuti prima dal 5 e ora dall’8 per mille, misura oggi che i conservatori inglesi
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intendono copiare, mentre Margaret Thatcher trent’anni fa dichiarava “non conosco la
società, ma solo gli individui”. Si è passati dalla legge al contratto, dall’impresa piramidale
ai distretti orizzontali. Il vecchio stato nazionale classico non esiste più, l’Unione Europea
non esiste ancora, e intanto emerge una realtà antichissima e nuova al tempo stesso, che
rappresenta un modello sociale affatto negativo, apprezzato persino all’estero.
Eppure, se è vero il primato anarco-futurista del modello italiano, è anche vero, per fare un
esempio, che il successo di un’impresa passata in pochi anni da zero a due miliardi e
mezzo di capitalizzazione, presente in 68 paesi, e in grado di dare lavoro a più di 30 mila
persone, oltre ad avere investito e aver guadagnato più del 150% in Borsa, è un successo
che si spiega solo con una cultura aziendale diversa da quella insegnata a scuola e nelle
aule universitarie. Un successo che è, infatti, il risultato di manager qualificati, non di
padri padroni che dominano le piccole imprese familiari, senza trovare il modo di
esprimersi. È il frutto di una reale ricerca di innovazione, fatta di creatività,
sperimentazione, valorizzazione delle risorse. Ed è, infine, frutto di investimenti nelle
risorse umane, che permettono di trasformare l’operaio vecchio stampo in un tecnico alla
guida di un sistema elettronico che fa parte di una catena.
Quali elite senza leadership? Molti corpi intermedi oggi non sono più in grado di
rappresentare gli interessi. Le classi dirigenti sono affette da un’autoreferenzialità
collusiva. La loro selezione non segue regole di mercato, ma modi relazionali. È per questo
che le élite, come pure lo Stato, non riescono a entrare in contatto con la “realtà
molecolare”. E anche quando la società è dinamica, e i singoli si muovono, il risultato resta
statico, come se fossero tutti in balia della paura e dell’incertezza. Pur in presenza di un
aumento degli iscritti al sindacato sia nel terziario, sia nella scuola, la richiesta di maggiore
tutela - in mancanza dei partiti politici - corrisponde a una domanda identitaria, mira a
soddisfare innanzitutto un desiderio di appartenenza.
Esiste, dunque, una domanda di sintesi, che viene dal basso. Per unire insieme interessi
molteplici, bisogna immaginare un insieme a più strati, come le lasagne, in cui ciascuno
degli interessi particolari abbia la sua giustificazione, e ognuno svolga la sua funzione, tra
un sotto e un sopra, che corrispondono rispettivamente a un concetto di potere o di
potenza, e alla disponibilità di risorse per affermarlo. In Italia, però, a differenza di quanto
avviene negli Stati Uniti, dove le lobby agiscono in modo trasparente per esercitare
pressioni sul Congresso, prevale la teoria della lobby paritaria. La concertazione è un
insieme di procedure e incontri attraverso i quali i rappresentanti definiscono la loro
posizione rispetto a legge finanziaria e progetti industriali.
Incertezza, rischi, complicazioni sono comuni a molti paesi. L’Italia, però, sembra guardare
con invidia alla capacità che altri hanno di affrontarle i problemi, senza subire la morsa di
feudalità molecolare o l’incapacità dello stato di rappresentare la società. L’Italia non
cresce da 10 anni. La produttività crolla. La così detta società molecolare è di fronte a uno
sviluppo drammatico. La verticalizzazione statale non funziona più, nemmeno in Francia.
Molti dubitano della capacità di autogestione dei corpi intermedi che si chiudono nella
paura. E allora? Le uniche vie d’uscita possibili sono nel dinamismo della concorrenza, per
sottrarre i corpi intermedi all’autoreferenzialità e in un nuovo progetto politico che porti a
compimento la transizione, iniziata anni fa, superando i pasticci istituzionali della riforma.
Interesse nazionale e sviluppo economico. Il ruolo dei media
I nostri dati. L’economia italiana, fondata sui distretti industriali, è più debole di quello
che potrebbe essere, ma più forte di quello che sembra. Per molti anni il sistema è stato
tenuto sotto controllo, con l’idea che la protezione fosse necessaria, ma è bastato eliminare
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quel meccanismo per vedere che “i liberti” sono in grado di fondersi tra loro. Al fine di
valorizzare i distretti, consentendo loro di operare secondo una logica di interesse
nazionale, la legge finanziaria dell’anno scorso ha tentato di dare uno statuto contabile
finanziario e legale su base contrattuale. I distretti italiani sono controllati tutti da una
holding olandese. La proprietà dell’industria italiana non è italiana. L’economia italiana si
è internazionalizzata fuori da schemi tradizionali e ha prodotto un sistema non
convenzionale di ricchezza, dove il prodotto interno lordo non vuol dire più niente.
Ma il PIL non va ignorato: rappresenta il reddito pro capite che viene prodotto e
consumato nel paese. E l’Italia è un paese che cresce meno del resto del mondo. La
struttura produttiva è ancora troppo concentrata su bassa tecnologia. La competitività ha
perso 20 punti in percentuale, perché il costo del lavoro non è in aumentato in linea con la
produttività. E non potendo più svalutare la lira, è essenziale mantenere la competitività
sui costi dei concorrenti. Quanto al capitale umano, la scuola italiana è tra le peggiori
d’Europa.
Per difendere, dunque, l’interesse nazionale dovremmo incidere sulle politiche europee. Il
ruolo dei rappresentanti italiani nelle sedi internazionali è fondamentale. Il contesto
internazionale, infatti, non è un vincolo esterno, ma il luogo stesso in cui si decide
nell’interesse del paese, e secondo la logica – nel caso europeo – del “win win”,
coinvolgendo cioè in un gioco di squadra tutti gli attori interessati, per fare in modo che a
vincere siano un po’ tutti. Un paese, però, può difendere il proprio interesse solo se
efficiente sul piano nazionale: la Spagna che ha superato la crisi degli anni Settanta è un
ottimo esempio da seguire dato che, dopo essere diventata un modello in casa propria, ora
è in grado di servire i propri interessi a Bruxelles.
Certo, ogni paese segue un modello di politica nazionale condiviso dai vari partiti di
governo e opposizione. Nel Regno Unito, Gordon Brown e John Cameron, per esempio,
hanno lo stesso obiettivo: entrambi vogliono attrarre investimenti che diano più lavoro
agli inglesi. In Francia, c’è la difesa del modello nazionale, e un tasso di investimenti
straordinario sulle risorse umane. Ma nel caso italiano, qual è il modello condiviso che
consentirebbe una politica coerente? L’Italia ha difficoltà a sposare sia la competitività del
modello britannico, sia il modello francese di una burocrazia basata sul merito. Limitarsi a
difendere la cultura del protezionismo è un handicap che rischia di far apparire l’Italia un
paese debole, oltreché troppo piccolo per imporre le proprie decisioni in una logica di
“win win”. Il vero problema italiano, dunque, è culturale. Non riguarda solo il ruolo dei
media, ma la fortissima chiusura culturale di un paese che si sta provincializzando sempre
di più e preferisce concentrarsi su veline e calciatori, anziché confrontarsi con quanto
succede altrove.
I nostri media. Quando nel mondo, a proposito dei giornali, si parla di cani da guardia, in
Italia in genere si pensa al cane di guardia del padrone. Il ruolo dei media viene spesso
sopravvalutato, assegnando agli organi di stampa e di informazione compiti formativi
impropri. Oppure è un ruolo che viene degradato a un gioco autoreferenziale di élite o
porzioni di società che riflettono le paure del paese. È vero che spesso gli editori
esasperano gli aspetti negativi della nostra competizione all’estero. C’è più romanzo nel
bene che nel male. Ma è anche vero che spesso i media hanno anticipato quello che le élite
hanno capito a distanza. Per esempio, sono stati più europeisti di Confindustria e
sindacati. Hanno scoperto interesse comuni cominciando a discutere apertamente di
diritto dell’ambiente, di corruzione, di sprechi. E sono riusciti ad affermarsi all’estero, a
internazionalizzarsi. In Italia si traduce il doppio rispetto alla Francia e triplo rispetto alla
Spagna: ma forse, a questa apertura vero l’estero è corrisposto un annullamento di
identità, al fine di venire accettati. Siamo diventati un soggetto del mondo, al prezzo di
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non essere più italiani, di rinnegare il Paese.
L’interesse comune non è la somma di interessi privati. Il ruolo dei media è al crocevia tra
l’interesse proprio e quello dell’establishment; si è però spesso scambiato l’interesse
privato per interesse nazionale. Dopo l’ingresso dell’euro, molti soggetti in Italia si sono
provincializzati, passando dai prezzi alle tariffe, dal capitale alle rendite. Si è assistito a
distorsioni nel processo di privatizzazione, e anomalie di alcune proprietà, con presenze
ingiustificate in patti di sindacato. I media sono considerati semplici strumenti, da
contrapporre al nemico della proprietà. Vengono spesso accusati dei danni provocati
dall’aver pubblicato un certo articolo, mentre il vero problema di cui si dovrebbe discutere
sono i danni provocati dall’aver trascurato un dato argomento o dall’averlo fatto passare
sotto silenzio. Non è stato ancora mai calcolato l’effetto che l’assenza di trasparenza può
avere sull’efficienza di un sistema, sulla crescita culturale di una coscienza comune.
Non esistono provocazioni moderate. Ma i media, se pure non sono sufficienti per azioni
di rottura, per le quali è spesso necessario l’intervento della magistratura, possono causare
danni per eccesso di conformismo, o per semplice distrazione, come avviene quando non
reagiscono a notizie inaccettabili, come la retrocessione dell’Italia rispetto al Botswana
secondo una recente classifica del World Economic Forum. Per amarsi, però, bisogna
conoscersi, e i media non fanno conoscere l’Italia agli italiani. In preda alla stanchezza da
post-miracolo, ignorano la vera gerarchia della distribuzione dei redditi nella società
contemporanea.
Eppure, nonostante il potere dei media, c’è chi non è disposto a esagerarne il ruolo. La
pedagogia della nazione non spetta ai media, ma alla scuola, che è in dissesto, come
l’università, malgrado le tante punte di eccellenze. D’altra parte intervenire oggi sui
media, magari solo per limitare le veline, non si può. È lontano il tempo del fascismo,
quando le veline di Mussolini attraverso l’agenzia Stefani decretavano: “da oggi meno
papa”.
Quanto allo scenario estero - determinante per l’economia di un paese come l’Italia priva
di una tradizione di programmazione economica comparabile a quello francese - l’impatto
dei media italiani è scarsissimo: di fatto non contribuiscono a formare opinioni.
Trascurano l’esistenza di un pubblico straniero. E l’italocentrismo è tale che le vicende
europee trovano spazio solo se lette in chiave interna, tant’è che da quando Romano Prodi
ha lasciato la presidenza della Commissione, il numero dei centimetri di pagine dedicata
alla rassegna stampa dei giornali italiani è notevolmente diminuito. L’autodenigrazione
nazionale, però, non può arrivare sino a negare la realtà. È falso sostenere che il centro
destra non abbia fatto riforme: vorrebbe dire ignorare la riforma societaria, fallimentare,
del risparmio, la legge Biagi, la legge obiettivo, la riforma delle pensioni, che sommata alla
Dini è considerata una delle migliori d’Europa, per gli effetti di stabilizzazione che
comporta.
I nostri mali. La retorica del vincolo esterno, però, rischia di produrre effetti opposti: non
basta a mobilitare il paese e non aiuta a sprovincializzarlo. Così, l’opinione pubblica resta
una delle grandi lacune nazionali. C’è carenza di opinione pubblica: e non è solo un
problema di platea, ma anche di capacità di mobilitazione. I giornali italiani vendono la
metà delle copie vendute nel Regno Unito.
Al di là dell’influenza dei media, o dei perversi effetti degli assetti proprietari, la
situazione economica del paese è preoccupante: si rischia il declino industriale. Anche se è
vero che la filiera della piccole e medie imprese, nel tessile e calzaturiero, si sta
riorganizzando, e la Fiat si sta risollevando, c’è un grave problema di reti e di
infrastrutture. L’interesse nazionale è stretto nella contraddizione che oppone produttori e
consumatori, da un lato, azionisti e imprese dall’altro, dove spesso l’interesse
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dell’azionista non corrisponde a quello dell’azienda stessa. Il capitalismo asfittico, inoltre,
è reso inane da una pletora di organismi di regolazione e di autorità indipendenti, che
paralizzano qualsiasi investimento: nel campo dell’energia, vengono emanate 400 delibere
di regolazione in un anno, 1,8 al giorno.
In Italia vige un’economia relazionale, non di mercato, fatta di regole e autorità che le
fanno rispettare. In alcuni settori, come l’energia, l’economia di scala è fondamentale: in
questo senso bisogna ragionare se si vogliono fornire servizi a costi più bassi. Per essere
attrattivi verso investitori terzi è opportuno dedurre gli investimenti dai costi fiscali, come
ha fatto la Spagna foraggiando la crescita di imprese, limitare le norme sulle stock options,
a favore degli azionisti, evitare le distorsioni di mercato. Chi investe in Italia deve trovare
una convenienza per l’impresa. In Italia invece vengono confuse immagine e reputazione,
dimenticando che la reputazione si costruisce con comportamenti coerenti, rispetto ai
valori dichiarati. Per questo, non basta rimuovere le persone, bisogna cambiare le regole e
soprattutto cambiare i meccanismi di “governance”. Bisogna ridisegnare tutte le autorità,
per smontare l’economia relazionale e introdurre un’economia di mercato, fatta di regole e
autorità che le fanno rispettare. Si dovrebbe ad esempio rivedere la legge sull’editoria, con
l’abolizione a termine dei patti di sindacato. Come? Basterebbe stabilire una norma che
prescriva che un dato strumento tra cinque anni diventerà illegale. Sarebbe già un bel
passo avanti.
Quale leadership per la difesa dell’interesse nazionale e dell’immagine del Paese?
Al governo, verticalizzazione o networking? In quale senso e in quale modo coordinare la
leadership in una società come quella italiana, che per quanto frammentaria e
molecolarizzata non è composta da monadi? I distretti funzionano perché si collegano tra
di loro, generando valore aggiunto a vantaggio di ciascuno. Il che smentisce la tesi che gli
italiani siano individualisti. È vero che storicamente l’incontro tra gli italiani è avvenuto
raramente, e che spesso c’è stato un fraintendimento tra gli interessi di cui gli esponenti
delle élite erano portatori e gli interessi degli italiani. Ma oggi molti si domandano se non
sia il caso di governare concentrico più che governare verticale, se non si debba mettere in
atto un modo di governare che sia più coordinare, che non ordinare, come teorizzava
Vittorio Bachelet quando scriveva che il cuore dell’attività amministrativa sta nel
coordinamento più che nella guida.
Oggi governare è coordinare. Nessuno crede più nella decisione, bersaglio della
verticalizzazione. Prevale il “networking in government”, il “multilevel, multicentered
government”. D’accordo per la circolazione delle informazioni, ma quando si tratta di
decidere? In quel caso, occorre generare l’interesse e il progetto che la comunità di
riferimento sente come importante, in modo da superare l’insicurezza e mobilitare la
gente, senza riproporre il vecchio antagonismo di classe.
L’interesse nazionale in Italia va difeso contro gli stessi italiani. A differenza di quanto è
successo nella Spagna post-franchista tra popolari e socialisti, in Italia è mancata una
tregua tra contrapposti fronti, siglata sull’altare di un comune interesse condiviso: come
darsi una economia prospera, uno stato che funzioni, una società civile sicura di sé. Lo
Stato funziona peggio rispetto ad altri paesi. La crescita economica è ferma: prima l’Italia
cresceva più degli altri, poi come gli altri, ora meno degli altri. La società civile sta
diventando incivile, priva di spirito civico, mentre la cultura dell’illegalità è sempre più
diffusa.
Come si è arrivati a questo punto? Le élite da sempre consapevoli di queste tare non sono
corse in tempo ai ripari. Le classi dirigenti, prive di ricambio, si sono dimostrate incapaci
di mettersi in gioco, accettando i principi liberali, mentre i partiti non hanno mai favorito
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l’economia di mercato e i principi della concorrenza. Molti hanno ritenuto, a torto, che la
caduta del muro di Berlino nel 1989 avrebbe colmato questa grave frattura politica e
culturale, per sviluppare in pieno un’economia di mercato e una società liberale. E invece
si è assistito alla nascita di un bipolarismo rissoso, senza un vero ricambio di classi
dirigenti.
Il senso vero della leadership. La leadership è la capacità di mobilitare energie per
realizzare un progetto. Caratteristica di un leader è di avere prima di tutto una visione, un
sogno che diventi progetto. Oggi però la dimensione progettuale manca. Ma il progetto
non è certo quello che emerge sulla base dei sondaggi dalla “pancia” degli italiani,
attraverso l’orizzontalità del networking e del coordinamento: il solo pensarlo
condurrebbe dritti al disastro. Un leader, poi, deve avere reputazione: “walk and talk”.
Viceversa, chi frequenta gli ambienti degli investitori finanziari oggi li scopre scontenti e
delusi nei confronti dell’Italia. Un leader, inoltre, deve avere la capacità di mettersi in
gioco. Mentre i leader italiani non amano circondarsi di persone forti. Infine, come
selezionare la leadership? Il problema non è la formazione, ma l’assenza di domanda di
leadership, a causa della collusione relazionale. Occorre, dunque, costruire un sistema che
generi la domanda di leadership. È quello che l’economia di mercato richiede. Vale a dire
un sistema di regole predefinite, in base alle quali compiere una selezione, offrendo una
parità di opportunità. Esattamente il contrario di quanto avviene con l’economia
relazionale, dove la selezione avviene in base alla fedeltà che si è dimostrata, non in base
al merito di cui si è stati capace.
Occorre poi definire anche le regole in base alle quali si assumono decisioni. È assurdo
pensare di governare un’impresa in cui lavorano 145 mila persone tenendoli sotto
controllo. È bene, invece, avere chiari il modello di governance e i suoi valori. Il vero
problema, insomma, non è il dilemma tra il governare verticale o il governare concentrico,
ma riuscire semmai a far funzionare organizzazioni complesse, campo nel quale la cultura
italiana è pari a zero, mentre i tedeschi sono molto più avanti.
Certo, - concede il fautore del networking - non sarà attraverso i sondaggi che si potrà
estrarre il senso della leadership, ma il progetto, la visione, l’interesse concreto dovrà
essere nell’identità e nella vocazione possibile delle identità alle quali esso si propone. In
sostanza, tra il progetto che la leadership offre e le aspettative esiste un rapporto che la
leadership, come una levatrice, deve tirare fuori.
Economia e politica. Selezionare la leadership e le classi dirigenti è un problema politico.
In questo senso, la nuova legge elettorale peggiora le cose. Andrebbe modificata per
reintrodurre la preferenza unica, se davvero si volesse contribuire a selezionare la
leadership. Quanto alle classi dirigenti, il PIL lo fanno le persone, e alcune persone più di
altri. Ora, parte del problema del PIL italiano deriva dal fatto che molti manager di aziende
pubbliche non sono adeguate al ruolo e andrebbero sostituite. Ma non è facile dato che nel
sistema italiano, formalistico e poco incline a valorizzare l’aspetto meritocratico, le scelte
prevalenti sono condizionate - in misura maggiore rispetto ad altri paesi- da logiche di
appartenenza.
La leadership tende oggi a essere identificata con la carica pubblica: si è leader per la
carica che si esercita. Ma le cariche dipendono dalla pervasività della politica. Machiavelli,
quando studiava la reputazione del politico rinascimentale, dava risalto alla difficoltà di
durare nel tempo. Oggi i politici investono sulla durata a scapito della reputazione.
Occorre dunque compiere uno sforzo per reagire al deficit civico che nella società civile
affligge la politica, e restituire alla vera politica onori e oneri che essa impone.
Bisogna riconoscere che senza partiti è difficile creare élite e leadership. E senza riforma
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L’interesse nazionale: cos’è e come difenderlo
elettorale è impossibile. Sarebbe, quindi, auspicabile estendere al parlamento nazionale lo
stesso metodo che è stato adottato per l’elezione nei comuni. Un sindaco d’Italia potrebbe
assicurare la rappresentanza dei partiti, la preferenza, ma sarebbe anche responsabile di
persona. Oggi invece il consiglio dei ministri è organizzato in modo tale che solo
attraverso una mozione di sfiducia individuale si può pensare di mandare a casa un
ministro riottoso.
Sono cinque le società italiane considerate su base mondiale élites di eccellenza. Eni,
Unicredit, Enel, Generali, Banca Intesa vengono considerate tali per dimensioni, risultati, e
per i manager che le fanno progredire. In passato alcune grandi aziende hanno creato élite.
Fiat, Olivetti, Montedison sono state scuole di management senza master all’Harvard
Business School. In passato nell’industria italiana c’era la leadership dei proprietari: la
scuola manageriale era quella di Agnelli e Pirelli. Oggi c’è una leadership di manager e il
tempo non consente errori di management. E dunque c’è ancora più bisogno di un’attenta
selezione, perché se i manager adeguati non esistono dentro l’azienda, è necessario
chiamarli da fuori, e non sempre sono in grado di far bene. Le aziende dovrebbero dotarsi
di metodi che garantiscano la massima circolazione delle élite. Ma non esistendo in Italia
grandi aziende in termini di capitalizzazione, si rischia di uscire dal mercato.
Quanto alle élite politiche, sono rari i casi di pensionamento. Il ricambio generazionale
non c’è più, perché si confonde tra élite e leader, si usa l’élite per nascondere il gruppo di
interesse, creando i presupposti per l’auto rigenerazione. Più che organizzare simposi è
opportuno approvare una riforma elettorale di tipo europeo. Diversamente dall’élite
politica e l’élite industriale corrono rischi seri. Un manager dell’Enel, azienda che rimane
per il 23 per cento di Stato, è un funzionario pubblico che deve rendere conto delle sue
scelte a due milioni e mezzo di azionisti. Se sbagliasse, verrebbe esecrato dal mercato,
potrebbe essere licenziato senza aver diritto a liquidazioni d’oro. Ma se non creasse i
presupposti per il ricambio generazionale, sarebbe condannato a esecrare se stesso.
Molti concordano nel sostenere che bisogna liberare la leadership politica dal ciclo
elettorale. Si vota troppo e troppo di frequente. Occorre adeguare il ciclo elettorale; si
potrebbe come suggerisce qualcuno, indire un anno elettorale, anticipando le politiche o
raggruppando comunali e provinciali, anche a costo di equilibrismi impossibili. Le regole
della competizione politica per il ricambio generazionale andrebbero stabilite per legge. I
partiti sono sempre più apparati che attingono al finanziamento pubblico. Sarebbe
dunque nel loro interesse introdurre il principio di contendibilità della leadership secondo
regole di democrazia interna.
Gli ostacoli invisibili. Per alcuni il ricambio generazionale è l’altra faccia della domanda
di moralità: siamo tutti molto esperti nel pretendere da altri ciò che nessuno è disposto a
fare in proprio. C’è un’intera generazione cresciuta senza responsabilità. Quanti dei suoi
esponenti, oggi leader affermati, sarebbero disposti ad assumersi l’impegno di lasciare il
timone, una volta compiuti i 60 anni, restituendo la leadership e accettando di lavorare
come numero due?
C’è un ostacolo mentale che impedisce non solo la selezione, ma la stessa formazione delle
élite. Appartiene all’ordine del costume e dei comportamenti. È l’idea del tutto e subito,
del niente merito perché si è tutti eguali, del diritto a ogni costo e del tramonto inesorabile
del senso del dovere e dunque della responsabilità. L’idea è legata al pervicace retaggio
della contestazione del ‘68 e al conformismo disfattista, relativista e nichilista che
l’accompagna e domina incontrastato. Finché non si acquisisce questa consapevolezza,
sarà difficile cambiare alcunché, premiare il merito e compensare lo sforzo. E l’eccellenza
continuerà ad essere oggetto di scherno, tutt’al più di invidia, ma non riuscirà mai ad
essere motivo di emulazione.
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L’interesse nazionale: cos’è e come difenderlo
Non c’è bisogno di recriminare sul ‘68 per parlare di mancato ricambio generazionale,
obiettano altri. E citano l’avvicendarsi naturale delle generazioni, i padri che cercano di
castigare i figli, e poi si vedono sostituire dai figli, che in veste di concorrenti, mangiano
parti del loro stesso mercato. Per formare una classe di manager d’élite ci vuole
permanenza, fedeltà al progetto fondamentale. I big players non nascono dal nulla, ma
sono frutto di un progetto che perdura nel tempo. Non nascono da società di reti, ma da
aziende che producono beni, più che servizi. Inutile, dunque, lanciare crociate contro il
pensiero debole, replicano altri, per spiegare le nostre lacune politico-culturali. Non esiste
un nesso di causa-effetto dall’identità nazionale alla crescita o dalla crescita all’identità
nazionale. Ma un semplice problema di assunzione di responsabilità di fronte a una
funzione obiettiva. Ed è questo che in Italia oggi manca.
Conclusioni
Lo spirito dei tempi è alla ricerca di qualche forma di unità, lavora alla riduzione dei
contrasti. La politica, se si osserva la carta geografica dell’Europa, negli ultimi anni, da
destra a sinistra, da sinistra a destra, segue oggi un’unica direzione: contro i governi in
carica. Succede in Svezia, in Austria, forse in Francia. Come mai? Perché la politica è fatta
di incapaci? No, perché i cittadini hanno bisogno di altro. Il mondo è cambiato. E la cifra
dei cambiamenti in atto in Europa rende complicatissimo governare con mezzi
convenzionali. Difficile governare col 50,1, col 52 %: occorre un consenso più ampio per
affrontare un cambiamento strutturale molto forte. Non basta cambiare la legge elettorale:
pur introducendo il premio di maggioranza, se sei minoranza, resti minoranza. È per
questo che oggi si è alla ricerca di formule diverse. I tedeschi, riuniti nella Große Koalition,
oggi ammettono: abbiamo un asset che prima ci mancava, la fiducia. Solo così si può
pensare di ridurre il grado di conflittualità, che oggi resta troppo alto e esasperato, anche
se solo in termini illusori. Perché la realtà, come spesso accade, è ben diversa da come la si
immagina.
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