Notiziario settimanale n. 471 del 28/02/2014
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Notiziario settimanale n. 471 del 28/02/2014 versione stampa Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace padre Paolo Dall’Oglio scomparso il 28 luglio 2013 in Siria illuminare il silenzio sul suo rapimento 08/03/2014: Giornata internazionale della donna Se pensiamo prima di agire e se agiamo confrontandoci con i nostri valori, possiamo mettere il sistema in ginocchio. Ecco perché la politica si fa in ogni momento della vita: al supermercato, in banca, sul posto di lavoro, all’edicola, in cucina, nel tempo libero. Scegliendo cosa leggere, quale lavoro svolgere, cosa e quanto consumare, da chi comprare, come viaggiare, a chi affidare i nostri risparmi, rafforziamo un modello economico sostenibile o di saccheggio, sosteniamo imprese responsabili o vampiresche, contribuiamo a costruire la democrazia o a demolirla, sosteniamo un’economia solidale e dei diritti o un’economia animalesca di sopraffazione reciproca. Francesco Gesualdi (da "Il cambiamento radicale della società") Indice generale Lettera di febbraio della Rete di Quarrata: riflettendo dal Brasile sulle conseguenze del liberismo (di Antonio Vermigli )..................................... 1 Una nota sul mio ex professore: Pier Carlo Padoan (di Emiliano Brancaccio)................................................................................................ 2 “Uno tsunami di migranti alla conquista dell’Europa”: niente di più FALSO (di Miriam Rossi).......................................................................... 3 Chi racconta le guerre di oggi (di David Randall)...................................... 4 Cooperazione: tra pretese delle burocrazie e primato del profitto: il rischio dell’ennesima occasione perduta (di Gianmarco Pisa)............................... 4 Assalto alle Camere del Lavoro (di Giuseppe Casarrubea)........................ 7 Il Belpaese e la violenza: molestie (di Maria G. Di Rienzo).......................8 Il magazzino 18 di Simone Cristicchi (di Claudia Cernigoi) ......................8 Sud Sudan: come si fa a parlare di conflitto etnico? (di ComboniFem Redazione Newsletter Suore Comboniane).............................................. 11 La speranza indignata (di Maria Julia Gomes Andrade)........................... 12 Bosnia Erzegovina, la posizione della società civile (di Rodolfo Toè) .....14 Corso per la realizzazione e la gestione di un orto familare (di Legambiente Massa Montignoso)............................................................ 15 1 Evidenza Lettera di febbraio della Rete di Quarrata: riflettendo dal Brasile sulle conseguenze del liberismo (di Antonio Vermigli ) Carissima, carissimo, sono rientrato da poco dal Brasile, dove, dopo alcuni impegni lavorativi, ho incontrato amici e visitato progetti che la nostra Rete accompagna da tempo. Sono capitato in un momento in cui si sta sviluppando una nuova protesta sociale. Gruppi di centinaia di giovani delle periferie, chiamati “Rolezinhos”, che si convocano su internet e, invadono gli Shopping Centers, suscitando paura nei frequentatori abituali, dal momento che arrivano in massa. Ma sono diversi dai manifestanti dello scorso luglio che accusavano il Governo di distogliere i fondi per la scuola, la salute, i trasporti per costruire gli stadi. Oltre a protestare per la corruzione dilagante. Ciò sta suscitando le più disparate interpretazioni a secondo con chi parli. Alcuni, quelli che hanno scelto il neoliberismo come idolo, prostrandosi al Dio denaro e al Dio consumo, con le loro analisi che partono solo dal giudizio, non meritano nessuna considerazione. Essendo di una tale povertà analitica da farmi vergognare per loro. Mentre c’è chi va al cuore del problema, come il nostro amico e referente Waldemar Boff, che afferma che non si tratta di giovani poveri, delle grandi periferie senza spazi per passare il tempo e la cultura, penalizzati dai servizi pubblici assenti o molto scadenti. Waldemar afferma che i giovani rolezinhos sono la nuova classe media, ossia, le classi C e D frutto della crescita economica grazie alle politiche sociali e educative dei governi Lula-Dilma. Che cosa si nasconde dietro il loro andare negli Shopping? Che cosa stanno comunicando questi ragazzi con il loro andare in massa nei bunker del consumo, nelle nuove cattedrali, dove puoi entrare solo se sei un “soggetto economico e sociale all’altezza”? Non vanno per fare manifestazioni o per rubare. Sono lì per dimostrare che gli spazi che prima loro non frequentavano, perché frequentati solo dai ricchi benestanti, fanno parte di loro. Perché anche loro possono comprare i “beni simbolo” (scarpe Nike e roba firmata) affinché questa merce possa essere un bene comune, popolare, alla portata degli operai. Il conflitto di classe in Brasile é sempre stato offuscato, tenuto nascosto. Per questo l’élite non gradisce che venga alla luce, per questo usano l’ideologia del”brasiliano cordiale e pacifico”. I gestori degli shopping non hanno niente in contrario che la gente delle periferie li frequenti. Non chiedono che vi arrivino in massa, perché disturba i normali frequentatori, perché rivela il conflitto sotterraneo di classe esistente. I responsabili degli shopping chiedono solo che non si presentino in massa... perché loro gradiscono che ci siano più compratori, indipendentemente dalla classe sociale. Le nuove classi C e D emergenti costituiscono un capitale economico nuovo da sfruttare, ma manca in loro il capitale culturale, che permetta loro di contestare questo tipo di società, come bene ha scritto la sociologa Valquiria Padilha. Cercano di rompere le barriere dell’apartheid sociale. E’ una denuncia verso un Paese altamente ingiusto, tra i più disuguali del mondo, organizzato su un grave peccato sociale. La nostra società é conservatrice e le nostre élite altamente insensibili alla sofferenza dei loro simili e, per questo ciniche. Attualmente in Brasile ci sono 60 milioni di famiglie di cui 5 mila possiedono il 50% della ricchezza nazionale. Siamo in una democrazia senza uguaglianza. I rolezinhos denunciano questa contraddizione. Essi entrano nel paradiso delle merci “visto virtualmente in TV”, per vederle realmente, toccarle con le proprie mani e acquistarle. Ecco il sacrilegio insopportabile per i “padroni e i frequentatori degli shopping. Di fronte a questi nuovi movimenti sociali di massa emersi nello scorso luglio e, alle ricolte che ne sono seguite, i movimenti cristiani si sono interpellati preparando il 13° incontro delle Comunità Ecclesiali di Base – CEBs, che si è svolto dal 7 all’11 gennaio scorso a Juazeiro do Norte nello stato del Cearà, avendo come tema: “Giustizia e profezia a servizio della Vita”, dove per la prima volta é arrivato un messaggio di condivisione e augurale del papa, riconoscendo nelle CEBs il modo d’essere, antico e nuovo, della Chiesa, una Chiesa che non si stanchi di essere il volto di “una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade”, piuttosto che di “una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”. Insomma una chiesa dove “il pastore prenda il puzzo delle sue pecore”. Direi, un’intesa perfetta fra il papa e la comunità, senza nessuno sforzo, come se fosse la cosa più naturale. E la commozione era sul volto di tutti. Mai visto un papa così in sintonia con la gente , fino a identificarsi totalmente con loro, con i loro problemi, con le loro difficoltà, come se fosse uno di famiglia, un padre, un fratello, un amico. Papa Francesco sta superando se stesso. Le sue espressioni semplici, le immagini popolari di cui il papa si serve per comunicare le sue idee non devono trarre in inganno; si tratta di parole che hanno alla loro base un pensiero solido, preciso, attuale, una convinzione lungamente maturata nella riflessione e nell’esperienza. Di conoscenze profonde, di dimestichezza con i grandi problemi del pensiero e della teologia del nostro tempo. Ma egli colpisce per il suo linguaggio laico usa nelle sue espressioni. Dove al centro mette la persona umana, l’uomo, tutto l’uomo, tutti gli uomini, dai “rolezinhos” a chi lavora per la Pace, dai movimenti sociali di protesta a quegli di salvaguardia ambientale... Un linguaggio antropologico che sostituisce, almeno provvisoriamente, quello teologico. Così le parole rivolte a tutti, coinvolgono tutti, credenti e non credenti, perché sa molto bene che non tutti i suoi interlocutori hanno una fede e una religione. Ha capito profondamente che quello laico é l’unico linguaggio udibile da parte dell’uomo e delle donne di oggi. L’urlo dei giovani emarginati del Brasile e di tutto il mondo prende sostanza anche dalla “sua” condanna dell’idolo del denaro, che domina i pensieri, gli atteggiamenti e crea gravi ingiustizie. La denuncia di papa Francesco non potrebbe essere più semplice e più efficace. E’ il no più deciso al capitalismo selvaggio, al liberalismo, al mercato senza regole e controlli, che uccide tutti i giorni! Il papa merita di essere ascoltato. Il suo non è un discorso di tecnica politica, ma un discorso di politica vera, di politica morale. Dove il campo economico è oggi, ancora assai lontano dai principi di giustizia umana e cristiana. Questo é un tempo di riflessione e di ricerca delle cause profonde del disordine economico e morale che grava sulle nostre società. Ogni uomo, per la sua quota di responsabilità. Credente o no, é chiamato in causa. Si ascolti questo papa e non gli eterni banditori dell’egoismo, veri e unici mandanti della morte di decine di milioni di uomini e donne ogni anno, che stanno distruggendo il tessuto dell’umana società. E’ a questo punto che Waldemar ed io ci siamo domandati: cosa é che ci fa felici? Abbiamo concordato sul fatto che, nella società neoliberista nella quale viviamo, l’ideale di felicità è centrato sul consumismo e sull’edonismo. Il che non significa che, realmente, essa sia frutto, come suggerisce la pubblicità, del possesso di beni materiali o della somma di piaceri. Dalla felicità il discorso è passato all’amore. Cos’è l’amore? Abbiamo deciso di parlare a partire dalle nostre esperienze. E’ stato allora che Waldemar ha riflettuto sul fatto che una delle grandi preoccupazioni del mondo di oggi è che gli straordinari progressi tecno scientifici stimolano una accentuata atomizzazione degli individui, spingendoli a perdere i loro vincoli di solidarietà, affettivi, religiosi, ecc... E che questi vincoli sono sostituiti da altri, burocratici, amministrativi e, soprattutto, anonimi (reti sociali), distanti dalle antiche relazioni affettive tra le persone, unite l’una all’altra sotto il segno dell’uguaglianza e della fraternità, con gli stessi 2 diritti e doveri, indipendentemente dalle disuguaglianze esteriori. Waldemar ha continuato: ciò che rende una persona felice non è il possesso di un bene o una vita confortevole. E’ soprattutto il progetto di vita che assume. Ogni progetto, coniugale, professionale, artistico, scientifico, politico, religioso, suppone una traiettoria piena di difficoltà e sfide. Ma è appassionante. E’ la passione o, se vuoi, l’amore, che densifica la nostra soggettività. E ogni progetto suppone vincoli comunitari. Se il sogno è personale, il progetto è collettivo. Gli ho dato ragione. Vivere per un progetto, una causa, una missione, un ideale o anche un’utopia, è ciò che dà senso alla vita. E una vita piena di significato è, anche se colpita da dolori e sofferenze, é ciò che ci dà la felicità. Saranno felici le 85 persone più ricche del mondo che hanno “accumulato” la fortuna di 1.7 trilioni di dollari, pari al reddito della metà della popolazione mondiale: tre miardi e mezzo di persone. Questo è un dato uscito da Davos (il Forum Mondiale dei paesi ricchi) lo scorso 20 gennaio.Questo dato, purtroppo reale é un grave pericolo sia per l’economia mondiale, sia per la democrazia. Mentre anche in Italia la forbice si allarga, i 10 individui più ricchi posseggono una quantità di ricchezza più o meno equivalente ai 5 milioni di italiani più poveri (studio Bankitalia). Antonio Vermigli Fonte: Rete di Quarrata (fonte: Rete di Quarrata) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2017 Approfondimenti Economia Una nota sul mio ex professore: Pier Carlo Padoan (di Emiliano Brancaccio) Pier Carlo Padoan fu uno dei miei professori durante i corsi del master in Economia del Coripe Piemonte, presso il Collegio Carlo Alberto. Sebbene fosse un master rigorosamente “mainstream”, ricordo che le lezioni di alcuni docenti, come Luigi Montrucchio e Giancarlo Gandolfo, suscitavano il nostro vivo interesse e alimentavano le discussioni. Tra i docenti c’era pure Elsa Fornero, che nel ruolo di professoressa rendeva indubbiamente molto meglio che in quello successivo di ministra. Rammento che invece non eravamo particolarmente entusiasti delle lezioni di Padoan. Forse a causa degli alti incarichi che all’epoca già ricopriva, in aula appariva un po’ distratto, vagamente annoiato, non particolarmente persuaso dai grafici che egli stesso tracciava sulla lavagna. Di una cosa tuttavia il nostro pareva convinto: la sostenibilità futura della nascente moneta unica europea era da ritenersi un fatto ovvio, fuori discussione. Era il 1999, data di nascita dell’euro, e Padoan guarda caso teneva il corso di Economia dell’Unione europea. Una volta gli chiesi cosa pensasse delle tesi di quegli economisti, tra cui Augusto Graziani, che esprimevano dubbi sulla tenuta dell’eurozona; domandai, in particolare, quale fosse la sua valutazione di quegli studi che già all’epoca criticavano l’idea che gli squilibri tra i paesi membri dell’Unione potessero essere risolti a colpi di austerità fiscale e ribassi salariali. A quella domanda Padoan non rispose: si limitò a scrollare le spalle e a sorridere, con un po’ di sufficienza. All’epoca in effetti l’atteggiamento di Padoan era piuttosto diffuso. L’euro veniva considerato un fatto definitivo, discutere di una sua possibile implosione era pura eresia. Ben pochi, inoltre, si azzardavano a dubitare delle virtù taumaturgiche dell’austerità. Da allora evidentemente molte cose sono cambiate. Sulla capacità delle politiche di austerity di rimettere in equilibrio la zona euro, in accademia lo scetticismo sembra ormai prevalente. Come segnalato anche dal “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times nel settembre scorso, esponenti delle più diverse scuole di pensiero concordano nel ritenere che le attuali politiche stiano in realtà pregiudicando la sopravvivenza dell’Unione. Persino il Fondo Monetario Internazionale critica la pretesa di riequilibrare l’eurozona puntando tutto su pesanti dosi di austerity a carico dei paesi debitori. Insomma, la dura realtà dei fatti costringe i più a rivedere i vecchi pregiudizi. Ma Padoan, che oggi si accinge a lasciare l’OCSE e ad assumere l’incarico di ministro dell’Economia, ha cambiato la sua opinione? Non direi. In un’intervista rilasciata poco tempo fa al Wall Street Journal, il nostro ha affermato che la crescente sfiducia verso l’austerity è solo “un problema di comunicazione” visto che a suo avviso “stiamo ottenendo risultati”. E ha aggiunto: “Il risanamento fiscale è efficace, il dolore è efficace”. Ci sono due modi per interpretare questa affermazione. Il primo è che Padoan stia cinicamente interpretando l’austerity come fattore di disciplinamento sociale. Dal punto di vista dei rapporti di forza tra le classi sociali ci sarebbe del vero in questa idea. Mettendola in questi termini, tuttavia, Padoan sottovaluterebbe il fatto che l’austerity sta anche contribuendo alla cancellazione di ogni residua istanza di coesione tra i popoli europei. Il secondo modo di interpretare Padoan è che egli ritenga tuttora che le attuali politiche aiuteranno il rilancio dell’economia. In questo caso avanzerei il sospetto che Padoan sia stato sedotto dai risultati di un suo ardimentoso studio recente, secondo il quale i paesi che passano da una situazione di indebitamento ad una di avanzo estero, e che immediatamente attivano politiche di austerity in grado di abbattere il rapporto tra debito e Pil, hanno maggiori probabilità di aumentare la crescita della produzione. Ora, anche volendo trascurare gli enormi limiti di significatività di questo studio, il problema è che esso entra in contraddizione con le evidenze oggi disponibili: non ultimo il fatto che l’austerity non sta affatto determinando una riduzione del rapporto tra debito e Pil [1]. In un caso o nell’altro, non deve meravigliare che Paul Krugman abbia tratto spunto dalla improvvida dichiarazione di Padoan per commentare che “certe volte gli economisti che occupano cariche pubbliche danno cattivi consigli; altre volte danno pessimi consigli; altre ancora lavorano all’OCSE”. E altre volte ancora, aggiungiamo noi, diventano ministri dell’Economia di un governo che anziché fare uscire il Paese dalla crisi rischia di affondarlo definitivamente. Emiliano Brancaccio [1] de Mello, L., P. C. Padoan and L. Rousová (2011), “The Growth Effects of Current Account Reversals: The Role of Macroeconomic Policies”, OECD Economics Department Working Papers, No. 871, OECD Publishing. Pubblicato su www.emilianobrancaccio.it. La riproduzione è consentita citando la fonte, preservando i links e riportando la nota a pié di pagina. (fonte: Nicola Cavazzuti) link: http://www.emilianobrancaccio.it/2014/02/21/una-nota-sul-mio-ex-professorepier-carlo-padoan/ Immigrazione “Uno tsunami di migranti alla conquista dell’Europa”: niente di più FALSO (di Miriam Rossi) Italia. Chiacchiere da bar attorno a un mazzo di carte, lungo i corridoi bianchi di una sala d’attesa di un medico o, perché no, nel talk show politico nella fascia di colazione/post-pranzo/post-cena/spuntino di mezzanotte. A un “non è che possiamo accoglierli tutti noi” fa eco un “già non c’è lavoro per noi, cosa verranno mai a fare questi” o ancora un “va bene l’accoglienza degli immigrati ma va limitata entro certi numeri, che 3 da tempo l’Italia ha superato”, e infine il proverbiale ma sempre attuale “ma proprio tutti qui devono venire?” (a cui talvolta si aggiunge la tripletta: ci usurpano il lavoro, vengono per rubare o spacciare droga o anche peggio, pesano sui nostri servizi sanitari aumentando le liste d’attesa dei cittadini che pagano le tasse). I toni e le argomentazioni non cambiano di molto quando l’oggetto della discussione è il numero degli immigrati in Italia, un flusso spesso ritenuto inarrestabile, eccessivo, tale da mettere in difficoltà le capacità di accoglienza del nostro Paese, se non dell’Europa intera. Opinioni, interpretazioni e giudizi spesso distorti, che non trovano riscontro nei dati reali circa i flussi globali delle migrazioni nel mondo. Gli italiani non sono però da soli in questa analisi pregiudiziale, tanto che l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari ha messo a punto un dossier che intende smontare ben 8 “falsi miti” legati alla migrazione. Il primo tra questi riguarda proprio il flusso migratorio in movimento dai Paesi impoveriti del sud del mondo a quelli del nord, ricchi, che costituirebbe il principale esistente. FALSO: il movimento da sud a nord interessa appena (si fa per dire) il 40% del traffico ordinario. Un 33% è rappresentato da flussi sud-sud, ossia da un Paese in via di sviluppo a un altro; il 22% da quelli nord-nord; e solamente un 5% dei migranti si sposta dal nord al sud del pianeta. Peraltro è bene puntualizzare che i 232 milioni di migranti che si sono mossi nel 2013 costituiscono il 2,5-3% dell’intera popolazione mondiale; una percentuale che in generale appare sovrastimata in maniera impressionante nei Paesi di accoglienza dei migranti. Sono circa 5 milioni e mezzo gli stranieri presenti in Italia, poco meno del 10% della popolazione, di cui i clandestini costituirebbero circa lo 0,5% della popolazione, secondo i dati aggiornati al 2012 forniti dall’ISMU, Istituto per lo Studio della Multietnicità della Fondazione Cariplo. Un numero estremamente esiguo se confrontato con lo tsunami umano che pretenderebbero i nostalgici della purezza italica. Da non dimenticare inoltre che, nel rispetto dell’articolo 10 della Carta Costituzionale, oltre che di diversi trattati internazionali in materia di rifugiati e apolidi, l’Italia è chiamata a concedere il diritto di asilo allo “straniero al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”. Non sorprenda dunque che il Paese accolga nel suo territorio rifugiati, una scelta che comporta l’ovvia pregressa azione di accoglienza e identificazione degli aventi diritto di asilo. È lo stesso Ministero degli Interni italiano a indicare che l’Italia si colloca al 6° posto tra i Paesi europei per numero di rifugiati, dopo Germania, Francia, Regno Unito, Svezia e Olanda, facendo riferimento al rapporto dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) 2012. Il sito non fornisce però alcun dato numerico di quelli messi in evidenza dall’Unhcr: al dicembre 2012 i rifugiati in Italia erano 64.779, pari a meno di 1 rifugiato ogni 1000 abitanti. Una cifra senz’altro significativa ma ben lontana dai 589.737 della Germania, dai 217.865 dalla Francia, dai 149.765 del Regno Unito e, in rapporto al numero di abitanti del Paese, anche dai 92.872 della Svezia e dai 74.598 della piccola Olanda. Basta poi alzare lo sguardo ben al di là dell’Europa per rendersi conto che i flussi di migranti (e rifugiati) con cui i Paesi europei hanno a che fare sono solo una minima parte rispetto alle reali emergenze affrontate da altri Stati al mondo, spesso con disponibilità finanziarie e possibilità di ricezione ben inferiori dell’UE. Nel 2012 ad esempio il Pakistan ha accolto 1 milione e 640 mila rifugiati afghani, e ben 862 mila afghani sono stati ammessi anche in Iran. La ragione principale delle migrazioni rimane l’incubo della guerra: il 55% dei rifugiati proviene da Paesi stravolti da conflitti armati, oltre all’Afghanistan, Somalia, Siria, Iraq e Sudan; e anche Mali e Repubblica Democratica del Congo. Proprio l’estrema emergenza spinge le persone a rifugiarsi nei Paesi limitrofi a quello di appartenenza da cui sono in fuga; è per questa ragione che ben l’81% dei rifugiati è ospitato in Stati impoveriti del sud del mondo e, di questi, circa un quarto nei 49 Stati meno sviluppati del pianeta. C’è di che riflettere sull’immagine di un’Italia invasa da migranti “a tutto vantaggio degli altri membri dell’UE”. Ancora più, mettendo da parte una visione eurocentrica, di un presunto allarme tsunami di migranti che dal sud povero del mondo si muoverebbe verso l’opulenta Europa. Come spesso accade, il confronto coi numeri restituisce un po’ di realtà e fa giustizia di tanti enunciati falsi, di cui probabilmente varrebbe la pena chiedersi chi trae vantaggi politici ed economici. Miriam Rossi (fonte: Unimondo newsletter) link: http://www.unimondo.org/Notizie/Uno-tsunami-di-migranti-alla-conquistadell-Europa-niente-di-piu-FALSO-144430 Informazione Chi racconta le guerre di oggi (di David Randall) I corrispondenti di guerra sono “drogati di adrenalina”, uomini e donne che non possono fare a meno del pericolo? Non sono d’accordo: corrono molti rischi per aprirci uno spiraglio di verità. Un paio di settimane fa nel Regno Unito è cominciato un fenomeno che durerà fino all’inverno del 2018. Giornali, riviste e tv hanno dato il via alle celebrazioni per il centenario della prima guerra mondiale. Come spesso accade in questi casi, è stata una decisione prematura, visto che alla data della dichiarazione di quel disgraziato conflitto mancano ancora sei mesi. Non ho mai ben capito il fascino che la guerra esercita su tante persone. Da alcuni decenni ho notato che gli scaffali delle librerie che hanno l’etichetta “Storia” continuano a riempirsi di titoli sui conflitti e sulle armi. Esistono canali satellitari che trasmettono solo documentari di guerra, mercati dell’antiquariato che vendono spade, pugnali e uniformi, e ogni weekend ci sono decine di eventi in cui gli uomini si vestono da soldati e giocano alla guerra. Viene da chiedersi se collegano mai il loro hobby alle migliaia di persone uccise e mutilate dalle armi che tanto li affascinano. scatenato dall’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre, hanno contribuito a tenere a bada i mezzi d’informazione. Oggi i conflitti sono molto più caotici. In posti come la Siria e la Libia non esiste una linea del fronte, non c’è un momento in cui gli eserciti si schierano uno contro l’altro, avanzano o si ritirano. Piuttosto, come sta succedendo a Damasco, ci sono zone momentaneamente controllate dall’Esercito siriano libero, da una delle sue fazioni ribelli o dalle forze di Assad. I conini si spostano e da una settimana all’altra non si sa neanche chi controlla i vari posti di blocco. Se si sbaglia, si rischia di tornare a casa in una cassa di legno. Non sono affatto d’accordo con chi dice che i corrispondenti di guerra sono “drogati di adrenalina”, uomini e donne che non possono fare a meno del pericolo. In balia delle dichiarazioni delle parti in causa (oggi accompagnate da filmati creati apposta per falsiicare la realtà e messi su YouTube), corrono molti rischi per aprirci uno spiraglio sulla verità. Saranno anche grandi bevitori e persone sgradevoli, ma spesso hanno molto coraggio. Prendiamo, per esempio, questo episodio raccontato nelle memorie del corrispondente di Newsweek Edward Behr, che nel 1961 seguì gli scontri tra Tunisia e Francia per il porto di Biserta. Per descrivere quello che definiva “uno dei maggiori atti di coraggio a cui ho mai assistito”, scriveva: “I paracadutisti francesi, furiosi per le perdite subite dalla loro unità, stavano rabbiosamente borbottando che avrebbero messo i tunisini contro un muro e li avrebbero fucilati tutti. Un giornalista italiano si avvicinò silenziosamente ai tunisini e, con le mani piantate sui fianchi, si mise davanti a loro, sfidando i francesi a sparare”. Il nome di quel coraggioso giornalista non è passato alla storia, e non posso chiederlo a Behr perché è morto nel 2007. Ma mi piacerebbe molto sapere chi era. DAVID RANDALL è stato senior editor del settimanale Independent on Sunday di Londra. Ha scritto quest’articolo per Internazionale. Il suo ultimo libro è Tredici giornalisti quasi perfetti (Laterza 2007). Internazionale 1038 | 14 febbraio 2014 Qualcuno dice che i corrispondenti di guerra sono solo una specie leggermente più sofisticata di fan dell’esercito, accusa che, avendone conosciuti molti, non condivido affatto. L’unico giornalista di questo tipo che ho mai incontrato è stato un tizio che lavorava per il mio primo giornale, che era così innamorato dell’esercito da venire in redazione in mimetica. Alla ine trovò il posto giusto per lui: addetto stampa del ministero della difesa. Ma i veri corrispondenti di guerra, dopo aver visto case bombardate e bambini mutilati, come oggi in Siria, conoscono troppo bene gli effetti dei conflitti per essere come lui. Come professione, il giornalismo di guerra è nato un secolo e mezzo fa, e il lavoro di chi se ne occupava non era molto diverso da quello di chi seguiva da lontano i grandi e caotici eventi sportivi. I reporter, come Sam Wilkeson del New York Times, vedevano la realtà della guerra più da vicino. Nel luglio del 1863, mentre girava per il campo dopo la battaglia di Gettysburg, si imbatté nel cadavere di un ufficiale di artiglieria dell’esercito dell’Unione di soli diciannove anni. Era suo figlio. Seguire la guerra all’estero era meno drammatico, e i corrispondenti si equipaggiavano come se stessero partendo per una vacanza in campeggio. Richard Harding Davies, un giornalista della ine dell’ottocento, metteva tra le cose essenziali da portare con sé lanterne di ottone, secchi di cuoio per l’acqua, una cassa di legno per le medicine e una vasca da bagno di gomma pieghevole. Tipi come Davies erano uomini troppo indipendenti per i gusti dei militari e, quando arrivò la prima guerra mondiale, i corrispondenti dovettero indossare l’uniforme. In genere erano tenuti lontani dalle battaglie vere e proprie e i loro articoli erano pesantemente censurati. Durante la seconda guerra mondiale e quella di Corea, i reporter erano più liberi, e in Vietnam lo sono stati ancora di più. Fin troppo per il presidente Nixon, dato che i resoconti di quell’inutile avventura statunitense hanno alimentato ogni giorno il movimento paciista. All’epoca delle due guerre del Golfo i militari avevano imparato la lezione, e i giornalisti potevano riportare solo quello che sentivano dire durante le conferenze stampa. Questo, e una buona dose di patriottismo 4 (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2014/02/21/chi-racconta-le-guerre-di-oggi-davidrandall/ Nonviolenza Cooperazione: tra pretese delle burocrazie e primato del profitto: il rischio dell’ennesima occasione perduta (di Gianmarco Pisa) Convegno “Una nuova legge per una nuova stagione della cooperazione italiana”. Albergo Nazionale: Roma, 28 Gennaio 2014 L’appuntamento romano intorno ai contenuti e alle prospettive della riforma complessiva, approvata in Consiglio dei Ministri lo scorso 24 Gennaio, della cooperazione internazionale allo sviluppo del nostro Paese è servito a profilare, intanto, lo stato dell’arte e, di conseguenza, a delineare a ritroso il percorso seguito per giungere a questo significativo traguardo ed a rappresentare le luci e le ombre, le potenzialità e le ambiguità, i contenuti ed i limiti dell’impianto governativo della riforma stessa. Convocato su iniziativa di Oxfam Italia e Action Aid, con CINI, Link 2007 ed AOI (Associazione delle ONG e delle Organizzazione per la Solidarietà e la Cooperazione Internazionale), il convegno romano è stato in realtà preceduto da numerosi altri appuntamenti, che sono serviti a meglio mettere a fuoco il tiro della proposta di riforma e a più nettamente individuare bisogni, rivendicazioni ed obiettivi del variegato mondo della cooperazione allo sviluppo. In un recente sondaggio presso gli operatori e i volontari della cooperazione internazionale, infatti, è emerso come il 64% ritenga prioritario lavorare affinché i fondi della cooperazione allo sviluppo siano gestiti con più trasparenza, il 51% promuovere la semplificazione delle procedure, il 43% riscontrare più competenza nel sistema. Da questo punto di vista, già lo scorso Forum della Cooperazione Internazionale di Milano (1-2 Ottobre 2012) aveva rappresentato la classica occasione sprecata. Difficile ascrivere a quel Forum altri meriti se non quello della ripresa della pubblica attenzione sul tema. Nessuna innovazione nelle categorie, nelle policy proposte e nelle pratiche presentate. Poco spazio alla realtà dinamica della cooperazione internazionale italiana quale questa è, sia nell’intervento dello Stato in termini di aiuto pubblico allo sviluppo (APS) e cooperazione bilaterale e multilaterale, sia nell’azione della società civile, relegata quasi al ruolo di spettatore, se non di comparsa (o inutile orpello), in termini di azione cooperante, costruzione partenariale, collaborazione, insomma, tra i popoli, i territori e le comunità. È in quella occasione che si è delineato, in termini più precisi e stringenti, il volto nuovo della co-operazione italiana allo sviluppo e il profilo specifico della riforma della cooperazione inter-nazionale. Un “volto nuovo” teso a “superare la separazione ideologica tra cooperazione [quella fatta dalle comunità] e internazionalizzazione [quella fatta per i profitti delle imprese]”, evitare di procedere “in ordine sparso” al fine di rendere la cooperazione allo sviluppo “coerente con la politica estera del governo” (la stessa che aderisce ai piani della guerra “umanitaria”, saluta l’intervento “protettivo” in Libia e si esercita nel fomentare la sanguinosa guerra civile in Siria). Il volto nuovo, cioè, di una cooperazione fatta dai privati, per esigenze di immagine e a tutela dei profitti, non più semplicemente “inscritta” ma addirittura “a servizio” della politica del Governo e degli interessi del business, coinvolgendo persino, sempre più, i militari nella gestione delle crisi e delle emergenze, come peraltro dimostrano gli stanziamenti per la cooperazione anche nell’ambito del decreto missioni. A fronte di tutto ciò, il disegno di legge del Governo Letta per la riforma della cooperazione non fa altro che recepire tali intendimenti e dare seguito ad un lungo itinerario di iniziative parlamentari più o meno finite nel vuoto o nel dimenticatoio. Nei numeri di “open parlamento”, stiamo parlando di: 39 disegni di legge, 39 mozioni, 11 interpellanze, 15 interrogazioni orali, 48 interrogazioni scritte, 19 in commissione, 4 risoluzioni di assemblea, 16 risoluzioni in commissione, 6 conclusive, 73 ODG in assemblea, 16 ODG in commissione e decine di audizioni nelle commissioni competenti. In sintesi, il convegno romano registra, quali punti di partenza della riflessione, almeno i seguenti: a) l’esigenza, riconosciuta da tutti gli operatori del settore, di aggiornare la legge 49 del 1987, non solo perché “il mondo è cambiato” ma soprattutto per aggiornare i profili e gli strumenti del settore, b) l’opportunità di mettere a valore il lavoro dell’inter-gruppo dei parlamentari per la cooperazione allo sviluppo, un’area trasversale di deputati e senatori, coordinata da Federica Mogherini del PD, c) lo svolgimento di una costante consultazione, in particolare, con il Ministro degli Affari Esteri, Emma Bonino, e con il vice-ministro con delega alla cooperazione, Lapo Pistelli, anch’egli del PD, d) i contenuti della lettera che le reti della cooperazione hanno indirizzato al Ministro per indicare le priorità della riforma, da più parti, peraltro, accusata di mancanza di visione ed eccesso di tecnicismo, e) l’iter più recente, che ha portato alla presentazione ed all’approvazione in Consiglio dei Ministri, di una riforma complessiva, in forma di “disposizioni generali”, per la cooperazione internazionale. A tal proposito, i punti salienti della legge di riforma del Consiglio dei Ministri sono i seguenti: 5 1) la cooperazione internazionale allo sviluppo viene definita come parte integrante e qualificante della politica estera del Paese nonché come articolazione del sistema della proiezione internazionale dell’Italia, sotto controllo ministeriale, con una propria dinamica “di sistema”, in quanto soggetti ed attori della cooperazione allo sviluppo diventano, insieme, le autorità pubbliche, le amministrazioni statali, le regioni, le province autonome e gli enti locali, le università e gli istituti di ricerca, il privato non-profit (non solo le ONG, ma anche le ONLUS e in generale l’associazionismo in regime di accreditamento) e il privato profit (imprese, aziende, cooperative, enti e fondazioni), accreditando in tal modo la piena e sostanziale equivalenza tra cooperazione non-profit e cooperazione profit; 2) l’istituzione di un fondo centrale e di un fondo rotativo cui accedono non solo gli enti del Terzo Settore, ma anche le aziende e il mondo “profit” e “business”, sia allo scopo di accompagnare e sostenere l’investimento all’estero del settore, sia al fine di costituire società miste con i partner nei Paesi terzi (accreditando così l’idea della reversibilità tra cooperazione ed internazionalizzazione); a ciò si accompagna poi, in particolare, l’assenza di un fondo unico per la cooperazione internazionale allo sviluppo, che pure era stata una delle richieste centrali avanzate al Ministero dagli operatori; 3) l’istituzione dell’AICS (Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo) e del CICS (Comitato Inter-ministeriale per la Cooperazione allo Sviluppo) che, insieme con la delega alla cooperazione internazionale, assegnata nell’ambito delle competenze del Ministero Affari Esteri, e alla revisione di funzioni della competente DGCS (Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo) vengono a delineare il profilo della nuova governance del sistema, attribuendo, in particolare, all’Agenzia compiti di individuazione, selezione e valutazione delle azioni, delle misure e dei progetti di cooperazione allo sviluppo, ed al CICS il compito di definire l’orientamento della co-operazione allo sviluppo attraverso il coordinamento e la concertazione tra i ministeri interessati; sebbene però la proposta di legge finisca con l’attribuire al Ministro degli Esteri in via puramente facoltativa e non vincolante la facoltà di assegnare la delega alla cooperazione internazionale ad un proprio vice-ministro, pur essendo questa un’altra delle (peraltro poche) richieste-chiave avanzate dagli operatori. Gli interventi programmati insistono ora sull’uno ora sull’altro dei diversi punti della riforma. Silvia Stilli, portavoce AOI, delinea il contesto generale in cui è maturata la proposta di riforma. Il 2014 è un anno di transizione, essendo alla vigilia (2015) del processo di valutazione internazionale in ordine al conseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG), a conclusione del cosiddetto “decennio di sviluppo” (2005-2015) delle Nazioni Unite; ed essendo inoltre un anno su cui si affacciano numerosi conflitti regionali e internazionali (basti pensare a quanto sta accadendo nel Vicino Oriente, nell’Africa Mediterranea e nell’Europa Orientale) dei quali sono in corso tavoli e tentativi di negoziato e di risoluzione. La cooperazione allo sviluppo nel biennio 2014-2015 ha più che mai di fronte la sfida di intercettare le istanze ed i bisogni che tali crisi e tali conflitti stanno già determinando, basti solo guardare allo scenario della Siria ed alla tragedia umanitaria che vi si sta consumando. Si impongono, quindi, il “tema” ed il “problema” di come affrontare, come sistema-Paese e come attori della cooperazione allo sviluppo, tali autentiche sfide locali, regionali e globali. Le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo (25 maggio) rappresentano un passaggio, al tempo stesso, significativo e minaccioso, da un lato perché per la prima volta nel processo elettorale verranno indicati anche i candidati alla carica di presidente della Commissione Europea e si insedierà un Parlamento Europeo finalmente dotato di più funzioni e più competenze, dall’altro perché prendono sempre più piede in Europa, alimentati dalla crisi e dall’incertezza, i venti e le forze di destra, demagoghi, populisti, localisti, nazionalisti e anti-europei. Tutto questo deve indurre tutti, decisori politici ed attori sociali, ad una forte attenzione politica e ad un conseguente impegno finanziario a sostegno degli sforzi della cooperazione internazionale, delle politiche per lo sviluppo ed il partenariato internazionale e della risoluzione pacifica dei conflitti. Aspetti su cui, d’altronde, non mancano le contraddizioni, come dimostra lo storno dei fondi dell’otto ? mille, proditoriamente trasferiti – dal governo centrale stesso – dalla cooperazione internazionale allo sviluppo ad altri settori. europeo di presidenza italiana anche per impattare sulla cooperazione internazionale allo sviluppo e sulle modalità di impegno dell’aiuto allo sviluppo. Federica Mogherini, deputata PD e coordinatrice dell’inter-gruppo parlamentare per la cooperazione: 1. Tornando alla relazione di Silvia Stilli, vengono avanzate tre osservazioni in merito alla riforma: 2. 1. 2. 3. 4. 1. 2. 3. 4. 5. valorizzare sussidiarietà e ruolo del Terzo Settore nel sistema della cooperazione allo sviluppo, riconoscere la ricchezza e la pluralità del mondo della cooperazione non-governativa, coinvolgere in maniera significativa e protagonistica le comunità di immigrati nel nostro Paese. Elisa Bacciotti (AOI) torna, nella relazione, su alcuni punti di valutazione e bilancio della riforma: il rilievo conferito alla nomina di un vice-ministro dedicato con delega nella persona di Pistelli, l’importanza rappresentata dall’inversione di tendenza in merito allo stanziamento dei fondi, l’impegno del Governo in merito ai fondi stanziati per la lotta alla povertà ed alle pandemie, l’incremento dei fondi disponibili, attestatisi su 181 milioni euro più 60 milioni euro nel fondo di rotazione fino al 2016 che consente, almeno, l’impostazione di una programmazione di medio periodo, l’attivazione di alcuni strumenti legislativi per la programmazione degli interventi di sviluppo, tra cui il ritorno dell’Italia nel Fondo Globale per la Lotta ad AIDS, TBC e malaria (100 milioni di euro). 3. Seguono, nello svolgimento dei lavori del convegno, alcuni interventi programmati, tra cui quello di Giulio Marcon, deputato indipendente di SEL, uno dei pochi a ricordare le criticità del progetto: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 2. 3. Luca De Fraia (CINI) si sofferma, nella relazione, sulle risorse e il profilo dell’intervento di riforma. Il tema all’ordine del giorno per il 2014 è quello della qualità, della effettività e della efficacia della cooperazione internazionale allo sviluppo, soprattutto intorno alle seguenti tre aree di priorità: 1. 2. 3. il ruolo del settore privato – complessivamente inteso – nell’azione di sistema per la cooperazione, il ruolo delle risorse domestiche nel quadro degli stanziamenti complessivi per la cooperazione, il ruolo dei Paesi del Nord del mondo e quello della cooperazione internazionale Sud – Sud. Il “rischio”, che può essere declinato tanto “in positivo” quanto “in negativo”, è quello di una nuova narrazione della cooperazione internazionale allo sviluppo, lontana da quella degli ultimi trent’anni. Vi sono certamente, a tal proposito, alcuni temi prioritari, la cui importanza si impone all’attualità: a) la scelta di puntare sull’ownership, come bussola della cooperazione internazionale di natura non governativa, nel senso che i progetti devono nascere e vivere eminentemente nelle comunità-target, b) la richiesta di rafforzare le buone pratiche del settore, sia nell’ambito delle azioni, sia nel quadro della interlocuzione strutturata tra istituzioni politiche e società civile impegnate nella cooperazione, c) ’appello a non perdere di vista l’anno-chiave 2014, sia come anno di implementazione, sia come anno di transizione, ed impegnare il semestre 6 l’assenza del fondo unico della cooperazione, l’eccessiva dipendenza della filiera dal MAE, l’enfatizzazione del mondo del privato profit, la scomparsa del volontariato internazionale, l’ambiguità tra cooperazione civile e militare, l’incertezza tra sviluppo ed interventi militari, il profilo complessivo assai opaco e deludente. Francesco Petrelli, portavoce di Concord Italia, inaugura la seconda sessione della conferenza con il: 1. Tutto ciò viene rappresentato, nella relazione, come inversione di tendenza significativa, sia perché attesta la ripresa di attenzione politica, sia perché apre opportunità di miglioramento degli strumenti. invita a “consolidare il consolidamento” in corso dal 2012, anche attraverso gli impegni previsti con il “decreto missioni”, ed a rafforzare l’interlocuzione tra la società civile e i gruppi parlamentari; richiama all’impegno del sistema-Paese nel contesto del semestre europeo di presidenza italiana sia sull’impatto della cooperazione italiana allo sviluppo sia sulle opportunità offerte da EXPO 2015; sollecita a non “perdere l’occasione” della approvazione di “questa” legge di riforma del settore della cooperazione, che giunge alla fine di un percorso lungo e “rischia” di essere l’ultima occasione. ripensare la cornice delle politiche, degli interventi e degli strumenti, cogliere l’occasione del semestre europeo sui temi della cooperazione e della immigrazione, guardare alla nuova Agenda per lo Sviluppo che farà seguito ai MDG nella fase post-2015. Giorgio Tonini, senatore PD e relatore sulla legge di riforma della cooperazione internazionale allo sviluppo, ricorda come l’iniziativa legislativa da parte del Governo fa seguito alla presentazione del disegno di legge Tonini-Mantica di riforma del settore, che a propria volta aveva ripreso il lavoro sviluppato dal Parlamento nel corso della precedente legislatura, a sua volta ancora erede della proposta congiunta ProdiD’Alema-Sentinelli all’epoca del governo Prodi. Ciò comporta l’esigenza di articolare una riflessione complessiva, sul metodo e sul merito. Quanto al profilo “di metodo” si richiede capacità di ascolto nel lavoro parlamentare e concretezza per centrare l’obiettivo di una vera e propria riforma di sistema pur con tutte le modifiche da apportare. Quanto al profilo “di merito”, vi sono almeno alcune correzioni, oltre alle altre che si aggiungeranno, da apportare al testo di riforma: a) l’introduzione della figura di vice-ministro dedicato rappresenta una facoltà e non una prescrizione, b) l’assenza del fondo unico per la cooperazione impone di garantire la continuità dei finanziamenti, c) il rapporto tra l’Agenzia e la DGCS va precisato (l’Agenzia è una figura tecnica, non diplomatica). Egizia Petroccione, portavoce CINI, nel suo intervento sottolinea l’importanza dell’iniziativa del governo, al netto, sebbene “molte richieste” del mondo-cooperazione siano accolte, delle modifiche: 1. la figura del vice-ministro dedicato va istituita e garantita in 2. 3. forza di legge e non in via facoltativa, il fondo unico va reso stabile per non disperdere l’elaborazione per la c.d. coerenza delle politiche, l’Agenzia dev’essere una struttura tecnica, trasparente e competente, non un doppione della DGCS. Al di là dei temi trattati da queste relazioni, va detto, tuttavia, che uno dei punti più clamorosamente deludenti della proposta di riforma è quello della sostanziale equiparazione tra mondo non-profit e mondo profit nell’attività di cooperazione e partenariato internazionale allo sviluppo. È necessario almeno chiarire a quali condizioni il privato profit possa accedere ai fondi della cooperazione e, sebbene vari attori non-profit della cooperazione guardino con favore all’ingresso del mondo del profitto nella cooperazione, è più che mai opportuno distinguere tra cooperazione (tesa alla costruzione di partenariati internazionali per lo sviluppo locale e la sicurezza umana) e internazionalizzazione (tesa alle esigenze di profitto, all’apertura di nuovi mercati e alle istanze di business del sistema di impresa). Nino Sergi (LINK 2007), nel suo intervento richiama all’esigenza di ulteriori migliorie da apportare: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. nella proposta governativa di riforma, “legge quadro” diventa “disciplina generale”, il vice-ministro dedicato va istituto in forza di legge e non in via facoltativa, è necessario lavorare per superare ogni minaccia di compromesso al ribasso tra burocrazie, l’Agenzia deve essere dotata di piena autonomia funzionale, gestionale e di bilancio, l’Agenzia deve essere sottratta alla subalternità alla DGCS, che è invece “luogo” politico, la cooperazione va resa sempre meno assistenzialistica e sempre più capace di impatto, la cooperazione, infine, va centrata sul partenariato internazionale e dotata di continuità. Nelle sue conclusioni Emilio Ciarlo, consigliere politico del vice-ministro Lapo Pistelli, ricorda che: a) tra “legge quadro” e “disciplina generale” non vi è una differenza sostanziale, dal momento che la denominazione di “legge quadro” viene adottata per gli interventi normativi destinati a sancire il “quadro di riferimento” per la legiferazione delegata e derivata ad opera delle Regioni e gli EE. LL., b) l’introduzione, sebbene non vincolante, della figura del vice-ministro dedicato con delega ad hoc rappresenta elemento di ricaduta significativo perché concorre a garantire la coerenza dell’impegno istituzionale sul tema anche se di per sé non può porsi come garanzia della coerenza delle politiche, c) la coerenza delle politiche, a sua volta, viene intercettata dal disegno di legge di riforma, sia perché le politiche di settore vengono indicate dal testo di legge, sia perché è istituito un comitato inter-ministeriale (CICS) con compiti di co-definizione strategica tra tutti i ministeri interessati, d) l’istituzione del fondo unico per la cooperazione, per quanto non prevista all’interno del testo di riforma, risulterebbe un elemento problematico, dal momento che la ripartizione degli stanziamenti riporterebbe il lavoro dell’ istituendo CICS sotto la Presidenza del Consiglio e quindi lo sottrarrebbe di fatto alla lettura parlamentare, contro lo spirito partecipativo e democratico proposto dalla legge, e) il CICS mantiene la facoltà di proporre le modalità di assegnazione delle risorse previste per la cooperazione internazionale allo sviluppo attraverso i riparti di spesa (cosiddetta coerenza di prassi), f) l’Agenzia deve essere resa autonoma sia sotto il profilo gestionale sia sotto il profilo di bilancio, mantenendo comunque un legame forte con la DGCS pur nella rispettiva specificità (essendo la DGCS deputata all’elaborazione delle politiche, l’Agenzia deputata alla direzione della cooperazione), 7 g) la partecipazione degli stakeholder a tutto il processo di definizione della cooperazione allo sviluppo e per articolare la filiera va reso, col dialogo strutturato, elemento-chiave della governance. In conclusione, il punto debole, che inficia di prospettiva questa riforma della cooperazione, è quello della articolazione di questa governance, non solo per la sostanziale mancanza della messa a coerenza delle politiche (non c’è alcun collegamento, oggi decisivo, tra impegno per la cooperazione allo sviluppo ed impegno per il lavoro di pace e per la risoluzione pacifica e negoziata delle crisi e dei conflitti, talvolta nelle medesime aree-obiettivo interessate alla realizzazione della cooperazione e dei partenariati), ma anche per la confusione che si determina tra i vari comparti di politica internazionale. Se l’ottica di sistema della proiezione internazionale del Paese attraverso i suoi quattro pilastri (cultura, italiani nel mondo, cooperazione e internazionalizzazione) non può che prevederne una adeguata “messa a valore” e “messa a sistema”, valorizzando e rafforzando la specificità e il valore aggiunto di ciascuno, la vigenza di una logica assistenzialistica della cooperazione e la sostanziale legittimazione della “invasione di campo” dell’internazionalizzazione all’interno della cooperazione, con un ruolo di primo piano riconosciuto alla logica profit e al mondo di impresa, facendo perfino scomparire il ruolo del volontariato internazionale e lo specifico della solidarietà internazionale, rappresentano elementi negativi, che l’iter parlamentare può senza dubbio intercettare e correggere, ma sui quali sarebbe necessario un di più di approfondimento e di consapevolezza anche da parte del mondo della cooperazione allo sviluppo nongovernativa. Dove sono finiti la prospettiva, la visione, l’orizzonte di senso del fare cooperazione internazionale? Perché ancora una così martellante insistenza sulla logica dell’aiuto più che su quella del partenariato, della rete, del rapporto pari tra soggetti, comunità, territori? Che fine ha fatto la “problematizzazione” della categoria medesima dello “sviluppo”, qui invece acriticamente assunta come tema-guida, lemmasenso, “stella polare”? Com’è stato già ricordato, c’è molto da rivedere, e non nel senso per il quale spinge questo Governo: non nel senso, cioè, della cooperazione fatta dai privati, per esigenze di immagine e a tutela dei profitti, “a servizio” della politica del Governo e degli interessi del business, coinvolgendo persino, sempre più, i militari nella gestione delle crisi e delle emergenze. Com’è noto, la cooperazione inter-nazionale è una scelta politica e, allora, tanto meglio non lasciarla nelle mani di burocrati e di tecnocrati. Se poi questo dev’essere il nuovo volto della cooperazione, tanto vale saltare questo giro. *** Gianmarco Pisa (RESeT: Ricerca su Economia, Società, Territorio: www.resetricerca.org/scaffale/4-tutte-le-sezioni/5-volontariato-e-terzosettore) (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2014/02/06/cooperazione-tra-pretese-delle-burocrazie-eprimato-del-profitto-il-rischio-dellennesima-occasione-perduta-gianmarco-pisa/ Politica e democrazia Assalto alle Camere del Lavoro (di Giuseppe Casarrubea) Il 25 febbraio proseguirà il processo per diffamazione contro Giuseppe Sciortino, accusato di avere divulgato, di fronte a un’emittente televisiva locale, informazioni diffamatorie contro i caduti della Camera del Lavoro di Partinico, a seguito della strage del 22 giugno 1947 organizzata, stando ai giudici di Viterbo e ai vari testimoni che ne avevano parlato, da Pasquale “Pino” Sciortino, padre del denunciato. (fonte: Newsletter di Giuseppe Casarrubea) link: http://casarrubea.wordpress.com/2014/02/06/assalto-alle-camere-del-lavoro/ Questione di genere Il Belpaese e la violenza: molestie (di Maria G. Di Rienzo) La violenza contro le donne, in Italia… non è un problema – non esiste, sono le donne ad essere violente – c’è, ma perché se la vanno a cercare – è una bolla mediatica – è colpa del femminismo. Queste le “opinioni” che gli italiani condividono serenamente, protetti dall’anonimato del web o dal consenso sociale purchessia. E’ la dimostrazione pratica che la violenza contro le donne, in Italia, è diffusa al punto da non essere nemmeno riconosciuta come tale. Prendiamo la storia del molestatore appena arrestato all’estero per i reati compiuti in quel di Bologna. I commentatori della notizia, da bravi razzisti, “non sorpresi che sia rumeno”, ci invitano a “capire che da certe culture e società non viene nulla di buono”, ma sono tuttavia comprensivi riguardo alle violenze che vengono contestate all’imputato: “Molestatore, violentatore… manca il senso della misura.” “Bisogna stare attenti a non esagerare perché persino i complimenti ormai sono molestie.” “Non sarebbe meglio usare i soldi dei cittadini per perseguire e punire i reati seri?” “Impariamo a gestire i termini che sono importanti! Una violenza rovina la vita di una donna, una palpata per quanto fastidiosa ci si può mettere una pietra sopra…” Ecco, impariamo a gestire i termini – sono davvero importanti. La palpata è una violenza, è un’imposizione di volontà su un altro essere umano che implica la non signoria sul proprio corpo da parte di chi la riceve: le donne, infatti, nonostante quel che i media ripetono ad oltranza sbavando sul lato B di Tizia e sulla scollatura di Sempronia, non sono deretani e seni ambulanti di proprietà della cittadinanza maschile. E non esistono per permettere a qualcuno di passare il tempo per strada commentando il loro aspetto, fischiando loro dietro, ordinando loro di rispondere – sorridere – girarsi eccetera e, quando non obbediscono o reagiscono, insultandole ferocemente. “Ecco, ecco la femminista bacchettona! Adesso non posso più nemmeno trovare una attraente?” E’ normale che gli esseri umani si trovino reciprocamente attraenti. La differenza sta nelle azioni che si decide di intraprendere al proposito. Segnalare a una donna che non è un essere umano completo e degno del nostro rispetto, ma un culo su cui possiamo posare una mano, un paio di tette su cui è nostro diritto sbavare, un paio di jeans o una gonna a cui ovviamente fischiamo dietro, un attrezzo per l’appagamento dei nostri impulsi, e far sapere questo a tutto il mondo, schiamazzando e dandosi di gomito con gli amici, voi potete chiamarli “complimenti”, ma restano violenze. In tutti i sondaggi e gli studi che ho letto, ma anche solo facendo riferimento alle testimonianze delle donne che conosco (sì, sono tante), questi sono i sentimenti che provocate nella persona a cui avete notificato quant’è per voi “attraente”: nervosismo, rabbia, disgusto, noia, paura e persino terrore/panico (provati in maggioranza da donne con alle spalle altri episodi di violenza subita). Ditemi, quando ricevete un “complimento” è così che vi sentite? Date un’occhiata più onesta alle vostre azioni e alle loro conseguenze, ascoltate che ne pensano le persone cui sono dirette: “Mi hanno fischiato dietro e detto di girarmi perché ero bella, ma visto che non ho risposto mi hanno gridato puttana, brutta stronza e troia.” Entro trenta secondi dall’averle fatto sapere che era “attraente”. E, incredibile, non vi sta correndo dietro implorandovi di venire a letto con voi. “Ho cercato di ignorare le molestie, ma oggi sono scoppiata a piangere in pubblico.” Che strano, l’avete simbolicamente ridotta a scarti di macelleria (natica-seno-coscia) e non vi sta chiedendo di venire a letto con voi! “Eeeh, sei così carina, tieni su la testa! Guardami! Rispondi!” Dai la zampa! Bravo, bravo cagnolino, eccoti il biscotto. Chissà perché, anche questa non si rotola per terra supplicando di venire a letto con voi. Forse teme che poi la scaricherete in un canile. 8 “Mi sono sentita terribilmente imbarazzata, anche se era lui a doversi vergognare. Le cose che mi ha detto in pubblico erano così disgustose che non riesco a ripeterle.” Pazzesco, avete sfoggiato una delle vostre migliori performance di pornografia verbale e lei non si eccita! Dev’esserci qualcosa che non va, in questa donna, se non sta piangendo per venire a letto con voi. “Stavo abbracciando la mia amica appena scesa dal treno e questo mi fa: E dai, abbraccia anche me, ti piacerà di più, vedrai. Ce ne siamo andate in fretta, ma lui ha continuato a borbottare alle nostre spalle sino a che non siamo uscite dalla stazione: lesbiche schifose, avete bisogno di uccello, troiette…” Avete invaso uno spazio personale in modo insultante e minaccioso, pensando che quel che avete negli slip sia un dono di dio all’universo e legittimi qualsiasi vostra azione: e ancora queste non vogliono venire a letto con voi, chissà perché. “Non solo mi ha messo la mano sul didietro, ma ci parlava. Capisci, parlava direttamente al mio culo, non con me.” Ora, cercate di seguirmi: nella vostra mente malata potete ridurre una donna a due glutei, ma lei non può smontarli dalla parte finale della schiena e lasciare che voi facciate con essi più ampia conoscenza. Il suo corpo è un intero e le appartiene. Il suo corpo non esiste per il vostro sollazzo. Disumanizzata sino a diventare due chiappe, la donna prova per voi ribrezzo e timore. Non meravigliatevi così tanto se venire a letto con voi è l’ultima cosa che le passa per la testa. E no, non basta che lei sia attraente per voi: in assenza di reciprocità, la vosta attrazione dovete ficcarvela in tasca, assieme ai vostri “complimenti” del menga. Maria G. Di Rienzo (fonte: LunaNuvola's Blog - il blog di Maria G. Di Rienzo) link: http://lunanuvola.wordpress.com/2014/01/31/il-belpaese-e-la-violenza/ Resistenze al nazi-fascismo Il magazzino 18 di Simone Cristicchi (di Claudia Cernigoi) Quattro anni fa l’editrice Mursia ha pubblicato un libro dal titolo “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”, scritto dal giornalista Jan Bernas (oggi portavoce del vice presidente vicario del parlamento europeo Gianni Pittella (PD), figlio dell’ex parlamentare socialista Domenico Pittella che nel 1992 si era candidato nella Lega delle Leghe di Stefano Delle Chiaie. Il libro non riporta nulla di nuovo dal punto di vista storiografico (risulta dalla stessa sinossi del testo che “Questo non è e non vuole essere un libro di storia” (http://www.forumforpages.com/facebook/esodo-istriano-pernon-dimenticare/ci-chiamavano-fascisti-eravamo-italiani-il-nuovo-librodi-jan-bernas/847529688/0 ): oltre ad alcune testimonianze di esuli istriani e di “rimasti”, si limita a ripetere cose già pubblicate più volte (e spesso anche più volte smentite in base a documentazione ufficiale), ciononostante, pur non essendo un’opera innovativa, è corredata da una prefazione di Walter Veltroni (curiosamente, nel sito di Bernas e nella nota biografica inserita nella pubblicazione curata dal Teatro Rossetti di Trieste compare anche una “postfazione di Gianfranco Fini”, che però non risulta pubblicata nel libro messo in commercio). Il libro è stato presentato per la prima volta a Roma in modo bipartisan da Luciano Violante e Fabio Rampelli, allora deputato del PDL (oggi in Fratelli d’Italia), anche se nella nota di cui sopra si legge che sarebbe stato Roberto Menia a presentarlo. Ed è a questo libro che dice di essersi ispirato il cantautore Simone Cristicchi per il suo spettacolo Magazzino 18 (Bernas infatti risulta coautore del testo teatrale): lo avrebbe comprato dopo averlo visto “per caso” in una libreria, incuriosito dal titolo. In seguito Cristicchi sarebbe venuto a Trieste dove Piero Delbello (direttore dell’IRCI Istituto Regionale Cultura Istriano-giuliano-dalmata) lo avrebbe accompagnato al Porto vecchio a prendere visione delle masserizie degli esuli istriani ancora conservate al Magazzino n. 18. Di questa visita Cristicchi usa dire che trovarsi in quel magazzino pieno di mobili e di altri oggetti è un po’ come visitare Auschwitz (paragone che ci sembra offensivo nei confronti delle vittime di Auschwitz, dato che gli oggetti trovati nei magazzini di quel lager erano stati rubati agli internati che poi furono uccisi, mentre qui si tratta di cose abbandonate dai loro proprietari, che hanno abbandonato le proprie città, ma non furono assassinati), ed ha quindi deciso di mettere in scena la “tragedia degli esuli”, perché, a suo parere, è stata finora ignorata. Va ribadito a questo punto che a Trieste della questione dell’esodo istriano si è sempre parlato, ed a livello nazionale è quantomeno da vent’anni, dalla dissoluzione della Jugoslavia, che sentiamo ribadire la necessità di parlare di questa tragedia “finora ignorata” ogniqualvolta viene pubblicato un libro o un articolo, quando esce un film, e nel corso delle celebrazioni e commemorazioni indette nel Giorno del ricordo (10 febbraio). In realtà la legge istitutiva del Giorno del ricordo (n. 92/2004) contempla che in questa occasione vadano approfondite, oltre alla questione dell’esodo e delle foibe, “le più complesse vicende del confine orientale”; e la lettura completa della norma ha creato, e crea tuttora, svariate polemiche sul come raccontare la storia di queste vicende, dato che le associazioni degli esuli hanno ritenuto di dover avere il monopolio delle commemorazioni e pertanto di imporre ad enti ed istituzioni varie di non far parlare relatori non omologati alla loro interpretazione della storia. In questo panorama si è inserito ora anche Cristicchi, considerato da alcuni un autore “impegnato” per certi suoi spettacoli sulla malattia mentale, sui minatori e sulla guerra. Senza entrare nel merito degli altri suoi lavori parliamo di Magazzino 18, del quale l’autore spiega che “la cosa più complicata è stata raccontare la situazione storica. Il rischio era ovviamente quello di annoiare e quindi abbiamo sintetizzato un arco di tempo di quarant’anni in cinque minuti di orologio. Anche da qui sono nate diverse critiche, perché sono stato accusato di aver dimenticato, o addirittura omesso di dire certe cose: io non ho omesso niente, ho solo avuto rispetto di un pubblico che viene a teatro, non ad ascoltare una conferenza, ma a emozionarsi, a provare rabbia, a ridere. Lo spettacolo vuole essere anche uno spunto per incuriosire la gente ad approfondire questa storia. Di certo non volevo fare lo storico”. Cristicchi dunque “non voleva fare lo storico”, ma “emozionare”: intento rispettabilissimo, se solo l’avesse rispettato e non avesse dato in quei “cinque minuti” (che nei fatti si sono però dilatati in tutto lo spettacolo) una lettura storica del tutto falsata, dato che non si è basato su testi storici ma ha riprodotto pedissequamente i vecchi testi di propaganda nazionalista inframmezzati da qualche appunto “antifascista”, probabilmente per apparire bipartisan, coerentemente con la promozione del testo di Bernas. E va detto subito che nella narrazione non viene rispettata la cronologia dei fatti e spesso non è inquadrata correttamente la sequenzialità delle vicende, il che sicuramente non aiuta lo spettatore a chiarirsi le idee su quello che è accaduto. Nello spettacolo Cristicchi impersona un archivista un po’ burino, Duilio Persichetti, che alla stregua di un Dante Alighieri de noantri si fa accompagnare alla scoperta della storia non da un poeta come Virigilio, ma da un oscuro “spirito delle masserizie” che gli appare nel deposito dei mobili abbandonati dagli esuli giuliano dalmati. E questo Spirito, lungi dal fornirgli dati storici, sembra il portavoce dell’antica agenzia Stefani che lavorava sotto il fascismo (o forse si ispira semplicemente al testo di Bernas, dal quale cita abbondantemente). “Un’intera regione svuotata della propria essenza. Gente costretta a lasciare la sua terra non per la fame o per la voglia di migliorare la propria condizione, ma perché non si può vivere senza essere italiani”, declama lo Spirito, non considerando che l’Istria non era esclusivamente italiana, ma una regione popolata anche da sloveni, croati ed istrorumeni, e l’essenza istriana, se vogliamo mantenere questa definizione, è data dalla commistione di queste etnie, non dalla presenza dei soli italiani, molti dei quali peraltro rimasero in Istria, restando italiani, come dimostra il fatto che ancora oggi la comunità italiana in Slovenia e Croazia è viva e vitale. Perché in Jugoslavia gli italiani potevano mantenere la propria nazionalità italiana, a condizione di acquisire la cittadinanza jugoslava (ed i cittadini jugoslavi di nazionalità italiana hanno da subito avuto il diritto alle scuole con insegnamento nella madre lingua, a finanziamenti per circoli culturali ed editoria, al bilinguismo nei rapporti con le istituzioni, fino ai seggi garantiti nei parlamenti locali: molto di più di quanto abbiano mai visto le comunità minoritarie in Italia); mentre nel caso in cui non volessero 9 rinunciare alla cittadinanza italiana, il Trattato di pace prevedeva che, in quanto “optanti”, lasciassero la Jugoslavia per andare in Italia. Nessuna “pulizia etnica” (con buona pace del Presidente Napolitano, che con tutto il rispetto, non è un esperto di storia), dunque, ma una banalissima questione di diritto internazionale. E che non vi fosse un clima di terrore nei confronti degli italiani è dimostrato dalle stesse parole dello Spirito, quando parla di “un’emorragia durata dieci anni”. Per fare un paragone, i tedeschi dei Sudeti dovettero lasciare le proprie case dalla sera alla mattina, senza poter portare via nulla, mentre se gli istriani poterono portare via “persino le bare dei propri cari” e riempire delle proprie masserizie, poi non ritirate, il Magazzino 18, si può ben comprendere la diversità dei due eventi. Infine un altro appunto: lo Spirito dice che “se ne andarono in trecentomila”, ma va precisato che nel 1958 l’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati pubblicò una sorta di censimento dal quale appare che i “profughi legalmente riconosciuti” erano 190.905 (i numeri poi furono fatti lievitare con operazioni di conteggio quantomeno discutibili, ma su questo vi rinviamo ai titoli in bibliografia). Quando poi lo Spirito si mette a raccontare (nei famosi cinque minuti) la storia del confine orientale, sembra essersi ispirato a qualche filmino dell’Istituto Luce: “quei luoghi settant’anni fa erano Italia, anche le pietre parlano italiano”, ma non dice che quei luoghi diventarono italiani meno di cento anni fa, e lo rimasero per una ventina d’anni, dopo la vittoria italiana nella prima guerra mondiale. “Il tricolore viene issato “non solo a Trento, a Gorizia e Trieste, ma anche a Zara, Pola, nell’Istria e nelle isole del Quarnaro; ed alla fine “anche Fiume qualche anno dopo si ricongiunge all’Italia”: che ciò sia avvenuto in barba al Trattato di Rapallo e con un colpo di mano, questo lo Spirito non lo ricorda. Non ce n’era il tempo? O perché non era intenzione di Cristicchi di parlare di storia? Così il “processo di riunificazione si conclude, ma per poco, perché vent’anni dopo il Fascismo (maiuscolo? n.d.r.) “sfalda il delicato equilibrio”: ma lo Spirito non spiega che l’Italia fissò il proprio confine orientale ben oltre a quelli che potevano essere considerati “luoghi dove le pietre parlavano italiano”, come Postumia, Tolmino, Villa del Nevoso (per usare i nomi italianizzati dallo Stato vincitore). Del resto, se Cristicchi più di una volta ha affermato che “un tempo l’Istria si chiamava Italia ed ora si chiama Slovenia e Croazia”, non ci si può aspettare che conosca la geografia, ma dà l’impressione che si sia limitato a ripetere gli slogan della propaganda nazionalista ed irredentista. Per “emozionare”, certamente. E va da sé che l’emozione, non essendo di per se stessa razionale, non ha bisogno di considerare la realtà dei fatti. Segue una carrellata, piuttosto confusa, che vorrebbe spiegare come il fascismo (noi lo scriviamo minuscolo, signor Spirito delle masserizie), si rese colpevole di violenze antislave (vengono citati l’incendio del Narodni Dom del 1920, il cambiamento forzato dei cognomi e dei toponimi, l’impedimento di parlare nella propria lingua, l’invasione della Jugoslavia nel 1941, i campi di internamento per civili) e da ciò si arriva alla conclusione che gli “slavi”, di fronte a questo fecero l’equazione “italiano = fascista”. Altra mistificazione che serve a creare uno stato emozionale e non razionale, mistificazione diffusa dalla propaganda antijugoslava e non corrispondente al vero, perché l’Esercito di liberazione jugoslavo, così come i militanti antifascisti del Fronte di liberazione (Osvobodilna fronta) accoglievano nelle proprie file antifascisti di tutte le etnie, e le stesse direttive emanate da Edvard Kardelj parlavano di “epurare non sulla base della nazionalità ma del fascismo”. In questo modo anche la lettura dello scritto di una bambina che era stata internata ad Arbe serve come apripista per ribadire quell’interpretazione fascista del fenomeno delle “foibe” che risale ancora al 1943, dopo gli eventi istriani post-armistizio: sentiamo come lo Spirito delle masserizie narra i fatti. Dopo l’armistizio l’esercito italiano si sfalda, arrivano i nazisti e a Trieste viene messo in funzione il lager della Risiera, ma non viene neppure accennato a quante vittime costò il ripristino dell’“ordine” in Istria nell’ottobre 1943, quando le truppe nazifasciste rivendicarono di avere fatto dai diecimila ai tredicimila morti (così i comunicati ufficiali apparsi sulla stampa dell’epoca). E poi, senza che si comprenda la conseguenza temporale dei fatti: “i partigiani slavi agli ordini di Tito scendono dalle montagne dell’interno dove sono accampati e di città in città di paese in paese, di casa in casa arrivano e arrestano i nemici del popolo”. Da questa descrizione un ignaro spettatore si fa l’idea che durante tutta la guerra i partigiani sarebbero stati “accampati in montagna” (a non fare niente, si suppone) in attesa di “scendere” (è interessante come certo tipo di propaganda insista sul fatto che i comunisti, i partigiani, gli “slavi” non arrivano mai normalmente da qualche parte, ma “scendono”, “calano”, “dilagano” e via di seguito) nelle città a dare la caccia ai “nemici del popolo” (termine questo usato dalla propaganda anticomunista perché mutuato dalle epurazioni staliniane, ma non usato dai partigiani). Mescolando assieme, senza contestualizzarli, i due momenti delle esecuzioni sommarie, quello dell’Istria del settembre 1943 e quello degli arresti del maggio 1945, lo Spirito ipotizza che potrebbe essersi trattato di vendette verso i fascisti e di vecchi rancori; ma quando “cominciano a sparire anche carabinieri, podestà, guardie forestali, farmacisti, maestri, sacerdoti, impiegati statali”, i “processi sommari e le esecuzioni di massa non risparmiano nemmeno cattolici, antifascisti e persino comunisti”, e ci si mette a “colpire anche donne, maestri, postini, antifascisti, gente che con la politica non c’entra niente”, allora si domanda: perché tutto questo? Come al solito, quando l’intenzione non è di ricostruire fatti storici, ma di “emozionare”, è facile, partendo da un presupposto sbagliato, arrivare a dimostrare un fatto non vero. Perché innanzitutto bisogna dividere i due eventi di cui abbiamo parlato: nell’Istria del 1943 ci furono sì delle vendette sommarie contro i rappresentanti del fascismo (piccoli gerarchi, in genere, non gli alti papaveri), ma fu infoibato un carabiniere solo, nessun podestà, nessun farmacista (perché poi allo Spirito sono venuti in mente proprio i farmacisti fra tutte le possibili categorie professionali, forse perché la famiglia di Luigi Papo, il futuro rastrellatore del 2° Reggimento MDT Istria, gestiva a Montona una farmacia che sotto il fascismo veniva usata come luogo di interrogatorio di partigiani?), sacerdoti uno (che sembra fosse un informatore dell’Ovra). Poi va ricordato che ai quei tempi le guardie forestali erano militarizzate e che gli “impiegati statali” erano in genere funzionari del fascio, così come i maestri erano coloro che intimidivano i bambini per impedire loro di parlare nella propria lingua, e che le donne potevano essere fasciste esattamente come gli uomini, così come potevano essere ausiliarie nelle forze armate. E se nel 1945 vi furono altre vendette personali, la maggior parte dei morti si ebbero tra i militari internati nei campi (l’internamento in campi lontani dal luogo di cattura era previsto dalle leggi di guerra, ed i militari italiani furono internati anche in campi britannici e statunitensi, dove le condizioni di vita non erano tanto migliori di quelle dei campi jugoslavi), mentre furono arrestati coloro che erano stati segnalati come criminali di guerra; gli antifascisti arrestati erano quei reparti del Corpo volontari della libertà italiani che si erano opposti in armi all’esercito jugoslavo (che era un esercito alleato: sarebbe accaduto lo stesso con il CVL milanese se si fosse opposto agli statunitensi); infine, per quanto riguarda i partigiani “comunisti”, va detto che vi furono anche un paio di esecuzioni (avvenute durante il conflitto) sul motivo reale delle quali d’altra parte non si è mai ricostruita la storia (ma fatti di questo genere avvennero in tutti i corpi della Resistenza, non solo in Italia). Tutta questa mistificazione (che dura da settant’anni) ha un preciso scopo, che nel testo di Cristicchi (fatto per “emozionare”, ricordiamolo) viene così spiegato: “forse perché gli italiani sono un ostacolo al Sogno (maiuscolo? n.d.r.) di Tito di realizzare una sola grande regione e quindi annettersi anche le zone a maggioranza italiana”, come Zara, l’Istria, Fiume, Trieste per creare “una sola grande Jugoslavia”, dove la “lotta per la liberazione dal nazifascismo giusta e sacrosanta” (bontà loro, n.d.r) qui “sembra un mezzo per raggiungere l’obiettivo del confine all’Isonzo e quella che nel resto d’Italia viene festeggiata come Liberazione qui prende le sembianze di occupazione”. Come abbiamo detto prima, per dimostrare una cosa inesistente (il “sogno della grande Jugoslavia”) l’autore (Bernas? Cristicchi?) è partito da presupposti falsi (l’eliminazione di chi non voleva la Jugoslavia), e riesce in tal modo a diffondere dal palcoscenico dei teatri di tutta Italia (ma anche dell’Istria) quelle teorie anti-jugoslave che fino a pochi anni fa erano peculiarità della destra irredentista ma ora sembrano avere preso piede anche in ambienti “antifascisti” e “di sinistra”. E così arriviamo ad uno dei momenti più bassi (dal punto di vista artistico e civile) dello spettacolo: quando Cristicchi si avvolge un fazzoletto rosso 10 attorno al collo e declama “per realizzare il sogno della grande Jugoslavia bisogna solo dare un calcio allo stivale” ed a questo punto parte il coro dei bambini che cantano la canzone della foiba, “Dentro la buca” (“un colpo alla nuca e giù nelle buca”, davvero delle parole adatte da far cantare a dei ragazzini). Viene poi data la parola ad un certo Domenico, “staffetta del Regio Esercito”, si presenta, “praticamente un postino” (un militare in guerra sarebbe un postino? se questa non è manipolazione, come la vogliamo chiamare?), che sarebbe stato infoibato ancora vivo assieme a tantissimi altri, recuperato da una foiba… no, non lo sa da che foiba sarebbe stato recuperato perché ce ne sono 1.700 in Istria (i recuperi verbalizzati si riferiscono a molte meno foibe, lo diciamo per tranquillizzare gli spettatori: il maresciallo dei Vigili del fuoco di Pola, Arnaldo Harzarich, dichiarò agli Alleati di avere esplorato dieci foibe istriane tra l’autunno e l’inverno 1943-44, dalle quali furono estratte 204 salme ed indicò altre cinque foibe dalle quali non fu possibile effettuare recuperi). Come Domenico sarebbero stati infoibati Luigi, Tonin, Giovanni, Norma… e qui parte la storia di Norma Cossetto, con le consuete falsità che vi sono state ricamate attorno negli anni, in base ad una inesistente testimonianza di una donna, mai identificata, che avrebbe assistito alle violenze. Nomi e cognomi degli scomparsi stanno scritti ci spiega Persichetti (che non ha detto i cognomi degli infoibati chiamati per nome, né nell’elencare le categorie degli uccisi ha fatto nomi: perché è uso consolidato, quando si parla di questi argomenti di generalizzare, e teniamo a mente che non è scopo di Cristicchi, come non lo era di Bernas, “fare storia”), per poi contraddirsi dicendo che non si saprà mai quanta gente è sparita in questo modo; si parla genericamente di persone “uccise in tempo di pace” termine che può significare tutto e niente, perché le vendette personali proseguirono per anni in tutta Europa, così come le condanne a morte eseguite dopo i processi ai criminali di guerra furono fatte “in tempo di pace”, basti pensare a Norimberga. Viene citata a questo punto la dichiarazione fatta da Milovan Gilas in un’intervista, pochi anni prima di morire, di essere stato incaricato assieme a Kardelj di andare in Istria per mandare via gli italiani con ogni mezzo. Considerando che Gilas era diventato “dissidente” già negli anni ’50, tale affermazione, fatta a tanti anni di distanza, lascia il tempo che trova, innanzitutto perché non ha alcun riscontro documentale, e poi perché il governo jugoslavo riconobbe alla comunità italiana tutte quelle garanzie che abbiamo descritto in precedenza. Poi si parla della strage di Vergarolla del 18/8/46 (della quale non vi è alcuna prova che si sia trattato di un attentato e tanto meno di un attentato organizzato per “terrorizzare” gli italiani), come motivo per cui quel giorno “la maggioranza degli italiani che abitava a Pola scelse come l’unica via l’esodo”. Però noi leggiamo sulla Voce del popolo del 5/4/08 che tre settimane prima della strage il CLN di Pola “aveva raccolto 9.496 dichiarazioni familiari scritte, per conto di 28.058 abitanti su un totale di 31.000, di voler abbandonare la città se questa dovesse venir assegnata alla Jugoslavia”: il che dovrebbe dimostrare che “l’esodo” era già stato deciso prima della tragedia. Interessante il punto in cui si sente dire che “tutta l’Istria è occupata dai titini” già prima della firma del Trattato di pace “firmato dai potenti della Terra” (togliendo l’emozione, più prosaicamente, si trattava delle potenze che si erano alleate contro la guerra scatenata dall’Asse, Germania, Italia, Giappone) che “consegna alla Jugoslavia un’intera regione italiana”, come “prezzo che l’Italia deve pagare per essere uscita sconfitta dalla seconda guerra mondiale”. Una riflessione sul fatto che l’Italia avrebbe anche potuto non dichiarare guerra al mondo intero assieme al suo alleato tedesco? Naturalmente no, perché non è di queste emozioni che si occupa uno Spirito delle masserizie. Ed ancora notiamo come si parli sempre di “titini” e non di Esercito jugoslavo: sentiamo mai parlare di “churchilliani” a proposito dei britannici o di “hitleriani” a proposito dei nazisti? È tanto difficile riconoscere alla Jugoslavia di essere stata uno dei Paesi alleati nella lotta contro il nazifascismo? Certamente, perché se le si riconoscesse questo ruolo si dovrebbe anche riconoscere che l’Esercito jugoslavo aveva il diritto e l’autorità di fare prigionieri i militari nemici e di arrestare i presunti criminali di guerra per sottoporli a processo, così come fecero gli eserciti delle altre nazioni alleate. E quindi crollerebbe anche tutta la costruzione dei crimini jugoslavi rivolti contro gli innocenti italiani. Altro punto interessante è che il diritto di conquista militare viene riconosciuto per l’Italia che aveva annesso i territori occupati militarmente dopo la prima guerra mondiale, anche quelli dove non vivevano italiani; mentre lo stesso discorso non sembra valere per la Jugoslavia, che anzi a seguito del Trattato di pace rinuncerà a zone che aveva conquistato militarmente. Persichetti poi parla della partenza dall’Istria e della miseria dei campi profughi: “pensi che voleva di’ passà da una casa magari co vista mare… ad un casermone di cemento armato in periferia o a un ex campo di concentramento!”, dice al suo superiore romano. I campi profughi non sono mai piacevoli, è vero, è così è una tragedia quella della bambina morta di freddo nel comprensorio di Padriciano, ma si rende conto il narratore di quanti italiani in Italia, nell’immediato dopoguerra, avrebbero fatto firme false per avere un appartamento in un “casermone di cemento armato in periferia” invece di continuare a vivere nelle baracche o negli appartamenti privi di servizi igienici che erano la norma e non l’eccezione a quei tempi? Non tutti gli esuli istriani abbandonarono la “casa con vista mare” (ed anche questa spesso era un appartamentino privo di tutto) ma provenivano da condizioni di vita di miseria, come la maggior parte della popolazione d’Europa prima del boom economico e dopo essere uscita da una guerra disastrosa. Si passa poi all’elenco di una serie di esuli “diventati famosi”, tra cui Alida Valli (che però viveva a Roma già prima della guerra, dato che Cinecittà si trovava lì e non a Pola, ma questo particolare evidentemente è sfuggito agli autori); una canzoncina è dedicata ai “rimasti”, descritti come disprezzati da tutti, ma alla fine “ancora italiani” com’erano sempre stati (altra contraddizione che non pare preoccupare gli autori: se vi furono dei “rimasti” e “rimasti italiani” vuol dire che non si era “svuotata una regione intera”, che non si aveva paura di parlare italiano, che non c’era alcuna manovra politica per far andare via gli italiani dall’Istria). Alla fine arriviamo all’altro momento bassissimo dello spettacolo, quando Persichetti, dirigendo il coro dei bambini, prende in giro gli operai che da Monfalcone si erano recati in Jugoslavia per dare una mano a ricostruire le infrastrutture distrutte durante la guerra e per partecipare alla realizzazione di una società socialista dopo vent’anni di fascismo. Alcuni di essi rimasero vittime dello scontro tra Tito e Stalin, quando molti filosovietici (che erano però per la maggior parte jugoslavi, e molti dei quali avevano commesso omicidi ed attentati contro il proprio governo) furono internati nell’isola di Goli Otok. Si tratta indubbiamente di una pagina buia della storia jugoslava, che però avrebbe dovuto essere affrontata diversamente, proprio per la sua tragicità, e non mediante lo spregio di coloro che avevano creduto in un ideale e coerentemente avevano cercato di realizzarlo. Infine il burino Persichetti dice allo Spirito delle masserizie che giocherà al lotto il numero 18 (spiegando che nella Smorfia tale numero significa “sangue”, sempre per emozionare il pubblico?) e che lui archivia tutto, tranne una lettera inviata alla figlia del proprietario di alcuni mobili rinvenuti, la quale aveva chiesto notizia delle masserizie dei suoi genitori che non li avevano mai “reclamati indietro”. Il che dovrebbe stroncare tutto il plot su cui si basa questo spettacolo: i mobili sono stati abbandonati dagli stessi proprietari, evidentemente perché non ne avevano più bisogno o sarebbe stato troppo complicato farseli mandare nel luogo in cui erano andati a vivere. Cosa del resto confermata da Piero Delbello in un articolo apparso sul Piccolo del 24 gennaio scorso: nel Magazzino 18 sono conservate “più o meno la metà delle cose che arrivarono subito dopo la guerra dall’Istria, ma che negli anni successivi dalle Prefetture di più città d’Italia continuarono a essere inviate nelcapoluogo giuliano. Fatte arrivare dalle varie ditte di spedizioni nelle località di destinazione delle famiglie che ne erano proprietarie, in più casi rimasero nei depositi. Senza che nessuno più le reclamasse. E dunque furono fatte infine convergere in Porto Vecchio, dove oggi occupano una parte del primo piano del 18”. In pratica si tratta di oggetti che agli esuli (od optanti che dir si voglia) una volta giunti nella città di destinazione, non interessava di conservare, per cui li hanno abbandonati. Cosa comprensibile per i mobili, che forse non potevano trovare posto nelle nuove case consegnate, ma perché non reclamare almeno gli oggetti di famiglia, le fotografie, i quaderni? Quale 11 valore simbolico si vuole attribuire a delle che sono state abbandonate perché i loro proprietari se ne sono disinteressati, non sequestrate né rapinate; e con quale sentimento questo materiale viene paragonato ai magazzini dove venivano accatastate le cose rubate ai prigionieri assassinati ad Auschwitz? Alla fine di tutto si parla delle vittime dell’una e dell’altra parte, e l’autore conclude “io non ho un nome ma potrei averne milioni. Come i profughi di tutto il mondo, costretti a lasciare la propria terra, per sfuggire alla povertà, all’odio, alla guerra”. Ecco, se Cristicchi fosse partito da queste due belle, significative frasi, ed avesse parlato delle tragedie degli esodi, di tutti gli esodi, senza pretendere di fare storia su un evento specifico (asserendo peraltro di non volerla fare), avrebbe potuto realizzare uno spettacolo di indubbio interesse, emozionando (in questo caso positivamente) e coinvolgendo lo spettatore. Invece il risultato di questa sua ambizione ha prodotto uno spettacolo di propaganda, in quanto il suo intento di creare emozione è degenerato nel voler creare piuttosto suggestione, fornendo agli spettatori dati falsi da cui trarre conclusioni errate. Come opera di propaganda Magazzino 18 è indiscutibilmente riuscito molto bene: ma per chi come noi ha studiato e conosce la storia di queste terre, vederla stravolta in questo modo allo scopo di denigrare il movimento internazionalista ed antifascista jugoslavo, è francamente intollerabile; ed inoltre, considerando il modo in cui è stato sponsorizzato, a livello mediatico, questo spettacolo, fa sorgere il dubbio che si tratti di un’operazione studiata a tavolino che può rivelarsi molto pericolosa per gli equilibri delicati del confine orientale. Le citazioni sono tratte da “Magazzino 18 di Simone Cristicchi, regia di Antonio Calenda, testo completo dello spettacolo + CD”, I Quaderni del Teatro, edizioni Il Rossetti – Promo Music, Trieste dicembre 2013. Claudia Cernigoi 31/1/2014 BIBLIOGRAFIA. • CERNIGOI Claudia, Operazione foibe tra storia e mito, Kappa Vu 2005. • COLUMMI Cristiana (e altri), Storia di un esodo. Istria 19451956, Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste, 1980. • CONTI Davide, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” 1940-1943, Odradek 2008. • GOBETTI Eric, L’occupazione allegra, Carocci 2007. • MICHIELI Roberta – ZELCO Giuliano, Venezia Giulia la regione inventata, Kappa Vu 2008. • PIRJEVEC Jože, Foibe, Einaudi 2010. • PURINI Piero, Metamorfosi etniche, Kappa Vu 2010. • SCOTTI Giacomo, Goli Otok, LINT 1991. • VOLK Alessandro, Esuli a Trieste, Kappa Vu 2004. (fonte: Newsletter di Giuseppe Casarrubea) link: http://casarrubea.wordpress.com/2014/02/10/il-magazzino-18-di-simonecristicchi/ Notizie dal mondo Africa Sud Sudan: come si fa a parlare di conflitto etnico? (di ComboniFem - Redazione Newsletter Suore Comboniane) Dal 15 dicembre 2013 la Repubblica del Sud Sudan, la più giovane nazione del mondo, nata il 9 luglio 2011 dopo anni di guerra civile, è pericolosamente in bilico. Lo spettro della “guerra civile” è riapparso dopo anni di relativa calma e faticosa ricostruzione: dal 9 gennaio 2005, con il trattato di pace firmato dal governo del Sudan e dall’Splm (Sudan people liberation movement), la gente del Sud Sudan aveva potuto finalmente sperimentare “assenza di bombardamenti aerei e di fuoco d’artiglieria pesante”. Le strade erano state progressivamente sminate, e qualcuno aveva addirittura iniziato a seminare e piantare. I “giovani” (il 70% della popolazione ha meno di 30 anni) non avevano mai vissuto la “pace”, perché la guerra civile, iniziata nel 1955, temporaneamente sospesa dal ’72 all’83, aveva fatto oltre 2 milioni di morti tra l’83 e il 2005. Non vogliamo entrare nel merito del conflitto – originato dall’emarginazione sofferta dal popolo sud sudanese durante il condominio egiziano-britannico ed esacerbato dallo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali, anzitutto del petrolio – ci preme soltanto sfatare un luogo comune: che la guerra in Sud Sudan sia “tribale”. Certamente l’isolamento sofferto dalla popolazione, che ha sopravvissuto per troppi anni con servizi sanitari ed educativi essenziali, garantiti dalle chiese, dai missionari/e, e da alcune ong, non ha aiutato l’incontro e la convivialità delle differenze etniche. Nel 2011 l’analfabetismo affliggeva ancora 85% della popolazione, con picchi oltre 90% per le donne, eppure la popolazione ha vissuto un sessennio di relativa pace, perché non ne poteva più della guerra. Le provocazioni del governo di Khartoum per presentare il Sud Sudan come uno Stato “fallito alla nascita” sono ben note a chi ha operato in alcuni Stati del Sud Sudan, in particolare in quelli ricchi di pozzi petroliferi. Signori della guerra come George Athor, Peter Gadet Yaak e lo stesso Riak Machar Teny hanno una storia di conflitto e alleanza con il governo del Sudan, altalene dettate da questioni di potere. La violenza scoppiata a fine 2013 è stata provocata da mire presidenziali e conflitti personali di capi militari che hanno vestito panni da “politici” senza smettere di essere capi di milizie. Ognuno di loro aveva ancora le proprie truppe nell’esercito nazionale, un esercito frammentato e totalmente privo di coesione. Le suore missionarie, che dalle 6.00 del 24 dicembre 2013 hanno vissuto le alterne razzie nella città di Malakal, sono testimoni che la cattedrale ha ospitato fino a 7mila persone in cerca di protezione, ora Dinka, ora Nuer e di tante altre etnie. I feriti, che hanno beneficiato delle medicazioni da parte di suor Cecilia e suor Mary Mumbi, in un dispensario improvvisato nei locali del convento, erano di varie provenienze. Suor Elena e il personale della Diocesi di Malakal hanno aperto le porte della cattedrale a chiunque ne avesse bisogno. Le atrocità commesse dall’armata bianca (convocata da Riek Machar) e dai soldati che sostengono i contendenti hanno ridotto Malakal a una città fantasma, con migliaia di morti, e mentre stiamo scrivendo la città è nuovamente minacciata dall’avanzata dei sostenitori di Riek Machar Teny, nato “Nuer”. Eppure, il capo dell’esercito governativo che sostiene Salva Kiir Mayardit, di origine Dinka, è James Hoth Mai… anche lui nato “Nuer”. Lo scorso dicembre a Juba, mentre le armi uccidevano, molti giovani di origine Dinka hanno protetto e salvato giovani di origine Nuer. E allora, perché i media parlano ancora di conflitto etnico? Fonte: ComboniFem - Newsletter Suore Comboniane n. 6/2014 del 13/02/2014 (fonte: ComboniFem - Newsletter Suore Comboniane n. 6/2014 del 13/02/2014) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2016 America Latina La speranza indignata (di Maria Julia Gomes Andrade) «Dovresti parlare della storia della regione», mi ha detto dom Pedro appena arrivata a casa sua, il 9 dicembre. Nell’apprendere che la rivista Caros Amigos mi aveva chiesto di tracciare un suo profilo per rendergli omaggio, Pedro mi aveva risposto per email: «Cara Maria Júlia, ti ringrazio per l’affetto, ma questo omaggio di Caros Amigos mi imbarazza molto. In ogni caso sei tu a rispondere di quello che scriverai. Io ti chiedo di dare risalto, soprattutto, al carattere comunitario di tutta la nostra lotta. Io sono solo un componente dell’ingranaggio». Non riesco a vedere Pedro Casaldáliga meglio che in queste parole. È noto per chi minimamente conosce la storia della Teologia della Liberazione, 12 della Chiesa cattolica brasiliana negli ultimi decenni e della regione dell’Araguaia che dom Pedro Casaldáliga è tra gli imprescindibili della poesia di Brecht. Ma egli si sente appena come un componente di un ingranaggio a servizio di qualcosa di più grande. «Le mie cause valgono più della mia vita», è del resto una delle sue frasi più famose. Concordando con Pedro, e rispettando il suo desiderio, è necessario evidenziare come le cause per le quali egli ha lottato dal suo arrivo in Brasile siano assai lontane da una soluzione. Le questioni di fondo che hanno permeato tutta l’azione del vescovo Pedro nella regione restano – purtroppo – estremamente attuali. Il catalano Pedro Casaldáliga, ancora prete, arrivò nella regione dell’Araguaia nel 1968. Il suo viaggio da Goiânia a São Félix, che oggi dura in media 24 ore, richiese 8 giorni. Era un paesetto ai margini del Rio Araguaia che non aveva una scuola né un centro di salute. La prima scuola e il primo centro di assistenza sanitaria decente vennero costruiti proprio da lui e dalla sua équipe. La popolazione era costituita, essenzialmente, da piccoli contadini e da indigeni xavante, tapirapé e karajá. L’intera regione viveva l’intensa espansione del “progresso”, con territori divisi in lotti e venduti dal governo militare alle grandi compagnie agricole e zootecniche. Territori già abitati, come villaggi indigeni, paesini e persino interi municipi! Molto velocemente Pedro Casaldáliga comprese che era la terra la grande questione al centro del conflitto: indigeni e piccoli contadini da un lato, grandi fazendas latifondiste dall’altro. E si schierò. Dalla parte dei poveri. Nel 1971 Pedro Casaldáliga viene consacrato vescovo, la regione in cui opera diventa una Prelatura, ed egli approfitta della visibilità del momento per lanciare un documento fondamentale in cui denuncia l’azione delle fazendas e la piena collaborazione di queste con il governo militare. “Una Chiesa dell’Amazzonia in conflitto con il latifondo e l’emarginazione sociale” è il titolo del testo, diventato immediatamente un punto di riferimento. Stampato e diffuso clandestinamente, il documento rivela le innumerevoli situazioni drammatiche vissute da contadini, indigeni e lavoratori di queste fazendas (in condizioni di lavoro schiavo). E quanto è ancora attuale ciò che Pedro scriveva nel 1971! «Sentiamo, in coscienza, che anche noi dobbiamo contribuire alla demistificazione della proprietà privata. E che dobbiamo premere – insieme a tante altre persone sensibilizzate – per una Riforma Agraria giusta, radicale, sociologicamente ispirata e tecnicamente realizzata senza ritardi esasperanti, senza intollerabili trucchi. L’ingiustizia ha un nome in questa terra: il Latifondo. E l’unico nome vero dello Sviluppo qui è Riforma Agraria». La situazione è dolorosamente attuale: non stiamo parlando di storie del passato. Quest’anno si è registrata una situazione drammatica in un municipio vicino a São Félix, a Luciara, che ha coinvolto una popolazione tradizionale – i retireiros – e alcuni fazendeiros della regione. Di nuovo, il centro della questione è la terra. A settembre gli ingressi della città di Luciara sono stati tutti bloccati per protesta contro la creazione di una Riserva di Sviluppo Sostenibile (RDS), rivendicata dai retireiros. I quali, da circa un secolo, vivono dell’allevamento collettivo di bestiame in un’area di Luciara. Si tratta di circa 100 famiglie, per un totale di 450 persone, che utilizzano nei mesi in cui non piove (da maggio a settembre) il letto del Rio Araguaia, per il pascolo del bestiame. Durante la stagione della pioggia, quando il fiume sale, le famiglie si spostano verso la terra più alta, dove conducono il bestiame, traendo dai boschi diversi tipi di piante, sementi e radici per il consumo proprio e per le diverse necessità delle famiglie. Questa terra alta è un’area contesa. È una terra dell’Unione di cui si sono recentemente appropriati in maniera illegale i fazendeiros mirando alla coltivazione della soia. Così, alla fine di settembre, in una situazione già tesa, (…) viene data alle fiamme la casa di due leader retireiros, vari dirigenti vengono minacciati e qualcuno spara contro la casa di Zecão e Rita. José Raimundo, detto Zecão, e Rita, entrambi professori, si erano trasferiti a Luciara nel 1990, provenienti da São Paulo. Volevano unirsi all’esperienza della Prelatura. Erano venuti con le figlie di alcuni mesi appena: Dandara Terra e Naiara Terra. Alcuni anni dopo nasce Matheus Terra, figlioccio di Pedro. I tre bambini trascorrono tutta l’infanzia e l’adolescenza a Luciara e oggi vivono a São Paulo, dove lavorano e studiano. Poco più di 10 anni fa, Zecão viene consacrato diacono da dom Pedro. Zecão e Rita diventano in questi 20 anni e passa fra i leader più importanti della Chiesa della regione, e tra le persone più fidate di Pedro. Non è un caso che siano stati loro i più minacciati. Quando ha inizio l’assedio a Luciara erano fuori città. E la tensione giunge a un punto tale che non possono far ritorno. Gli amici di Luciara, preoccupati per le minacce, chiedevano loro di non tornare. Senza sapere dove andare, si recano allora a São Félix per parlare con Pedro sul da farsi. Rita ricorda i dettagli di quei giorni oscuri: «Cosa facciamo?», era la domanda che si ponevano. «Pedro ci disse immediatamente: “Restate qui in casa con me”. Prese lui stesso tutti i contatti con il governo federale. Se non ci fosse stato questo contatto diretto in ambito federale, quanto avvenuto a Luciara non avrebbe avuto alcuna visibilità. E noi non saremmo mai potuti tornare a casa. Passammo un mese con quanto avevamo in valigia. Non tornammo a Luciara neppure per prendere il cambio. Ci mandavano tutto alcuni vicini solidali. Il gruppo federale di protezione dei testimoni venne qui a parlarci: “La situazione è ancora tesa, non potete tornare”. Pensavamo: perché si sente il bisogno di così tante cose? L’essenza della vita è essere giusti, essere onesti, essere pronti a denunciare. (…)». Zecão aggiunge: «Un giorno in cui mi sentivo particolarmente a disagio per quanto ci stava succedendo, chiesi a Pedro come faceva a convivere con le minacce ricevute per tutta la sua vita. Pedro mi rispose: “Chiedo al Divino di trasformare la rabbia in speranza indignata. E così mi sento sollevato”. Il nostro cuore deve essere così, sempre più grande, e deve relativizzare. Non significa cedere politicamente, ma non nutrire odio. Io piango, mi emoziono, e questo mi rende più forte. Alcuni dicono che sono una persona molto emotiva. Ma una vita senza passione è come cibo senza condimento. È la passione che mi muove». DALLA PARTE DEGLI XAVANTE Questa situazione di Luciara si ricollega al caso della disintrusione, avvenuta nel 2012, dell’area xavante di Marãiwatsédé, situata a circa due ore da São Félix. In un documento del 1970, “Schiavitù e Feudalismo nel nord del Mato Grosso”, Pedro aveva già indicato: «In vari punti della regione, gli stessi indios sono stati letteralmente espulsi dall’invasione delle fazendas latifondiste». Ed è esattamente questa la storia degli xavante di Marãiwatsédé, espulsi con aerei della Fab (Forza Aerea Brasiliana) nel 1968 e reinsediati in un’area distante del Mato Grosso, in un viaggio in cui morirono decine di indigeni. Un fatto che avrebbe provocato probabilmente uno scandalo se non si fosse trattato di indigeni di una regione remota del Mato Grosso. Gli xavante non hanno mai rinunciato all’idea di tornare a Marãiwatsédé, recandosi tante volte nell’area. Strategicamente, chiedevano agli amministratori della fazenda di poter visitare i cimiteri degli antenati, ma, una volta all’interno dell’area, mappavano ogni nuovo intervento, ogni disboscamento e ogni opera. All’inizio degli anni ‘90, quando presero la decisione di organizzarsi politicamente, disponevano di una mappa dettagliata di tutto ciò che era stato fatto nell’area negli ultimi 25 anni. Riuscirono ad avviare il processo di demarcazione e a ottenere l’omologazione nel 1998. Ma anche i politici locali si organizzarono, promuovendo l’occupazione di uno spazio nel cuore dell’area xavante, nel tentativo di impedire il ritorno degli indigeni. Inventarono da un giorno all’altro una città, Posto da Mata, sostenendo di vivere nella regione da molto più tempo di loro. Finché, nel 2012, il governo federale non coordinò la disintrusione dell’area restituendo definitivamente la terra agli xavante. La posizione di Pedro, nuovamente al lato degli indigeni, produsse, nel 2004, scritte offensive su un muro della Chiesa della città di Alto de Boa Vista - “Fuori il vescovo comunista” -, e minacce più serie alla fine del 2012, tali da indurlo, per la prima volta, ad accettare di allontanarsi da São Félix per qualche tempo, sotto la protezione della Polizia Federale. Ritornò subito, all’inizio del 2013: non voleva più restare lontano. Questi stessi militanti anti-xavante di Posto da Mata si sono trasferiti quest’anno a Luciara per lanciare il loro allarme: «Fate attenzione, perché a voi può accadere quello che è avvenuto a noi. Vogliono cancellare Luciara e lasciare tutta la città ai retireiros». Parole come queste hanno sortito un effetto enorme: la quasi totalità della popolazione di Luciara è contro la Riserva di Sviluppo Sostenibile, malgrado si tratti di terra 13 dell’Unione occupata illegalmente da mezza dozzina di fazendeiros. E, nel frattempo, i leader dei retireiros e i loro sostenitori continuano a ricevere intimidazioni. «La Riforma agraria, qui come in altre parti del Paese e del mondo, non è un’illusione sovversiva. Non può continuare a essere una frode pubblicitaria. Né può essere rinviata»: così affermava Pedro nel documento-denuncia del 1970. Ma in questo quadro è sicuro che la soluzione alla situazione dei retireiros venga rinviata. E i latifondisti grileiros ringraziano. La verità è che la disintrusione dell’area xavante di Marãiwatsédé ha fatto emergere altre situazioni. La questione di fondo con cui abbiamo a che fare qui è l’avanzata della soia: la politica di trasformazione della regione del basso Araguaia nella nuova grande frontiera della soia del Mato Grosso. La terra xavante ha rappresentato un ostacolo all’espansione, un sassolino nella scarpa, così come la Chiesa di Pedro e dei suoi seguaci. E la RDS dei reitireiros costituisce una potenziale minaccia. UNA CASA DALLE PORTE SEMPRE APERTE Pedro è anche poeta. Il tema del popolo dell’Araguaia, con i suoi dolori e la sua vita, è uno dei più ricorrenti nelle sue poesie. Penso a quanto è avvenuto a Luciara, alla solidarietà di Pedro nei confronti degli amici e dei retireiros, e mi viene sempre in mente questa poesia, un’evocazione del «viandante, non c'è cammino, il cammino si fa camminando» del poeta spagnolo Antônio Machado: «Retirante, l’unico cammino è quello che c’è. / Di campi e di case non ve ne sono più. / Neppure i sette palmi di terra di un tempo saranno per tutti! / Retirante, viandante, c’è un solo cammino. / Il cammino che siamo, il cammino che facciamo: / Per vivere, per andare; perché altri viandanti si uniscano. / Il cammino perché i disoccupati riprendano coraggio. / Perché chi si è perso si ritrovi./ Il cammino che siamo, il cammino che facciamo. / Se c’è uno steccato, non hai braccia e falce per distruggerlo? / Se la notte ti ha nascosto la direzione, cercala insieme ai fratelli: / un cuore in compagnia trova sempre il chiaro di luna. / Viandante, compagno, c’è un solo cammino: / il cammino che siamo, il cammino che facciamo! / Per ora, questo è quello che c’è... / Ma, un giorno, il mondo si ribalta e c’è quel che ci sarà!». Dom Pedro Casaldáliga compie 86 anni a febbraio. Da 25 anni convive con “fratello Parkinson”, come gli piace dire. Questa prolungata convivenza gli ha portato molte limitazioni. Negli ultimi anni non gli è più possibile scrivere e, pertanto, rispondere personalmente ai tanti messaggi che riceve ogni giorno. Ma non sono mai mancate mani amiche per aiutarlo con la posta elettronica, mantenendo in tal modo la tradizione: tutti i messaggi trovano risposta. Per tutto il giorno passano persone a rendergli visita a casa, che continua, letteralmente, a tenere le porte aperte. Le persone del popolo lo hanno sempre chiamato semplicemente Pedro. O, più raramente, “vescovo Pedro”, espressione pur sempre affettuosa. L’atteggiamento del popolo nei confronti di Pedro Casaldáliga dice molto della relazione che con esso egli ha stabilito. Mi ricordo sempre della prima volta che sono stata a São Félix, nel 2003, e delle risate che suscitavo quando lo chiamavo “Casaldáliga” o “dom Pedro Casaldáliga”. Sarebbe comprensibile se le difficoltà causategli dal Parkinson lo avessero reso una persona ombrosa e poco propensa a ricevere visite. Ma è esattamente il contrario. Pedro riceve tutti volentieri. Sempre e tutti. Fa domande sulle cose concrete della vita, dà la benedizione e scherza. Scherza molto! Nel 2009 passai di nuovo a casa sua per visitarlo e mi spaventai a vederlo usare, per la prima volta, il bastone. Egli certamente colse la mia espressione preoccupata e addolorata, perché mi guardò e disse: «È per spaventare i cani». Forse il suo senso dell’umorismo è stato in questo momento della sua vita una forma di protezione. Può essere. Egli non si lamenta della sua condizione, ma scherza. È qualcosa di assolutamente incredibile... I problemi di salute non gli hanno sottratto la sua caratteristica ironia, quella che lo fa parlare di “fratello-Parkinson”. E la casa è così carica di significato! Una casa semplice, come quella di qualunque sertanejo. Verniciata solo esternamente, le pareti interne sono di mattoni a vista, ed è piena di quadri, oggetti indigeni, foto, manifesti, prodotti artigianali di diversi Paesi dove Pedro è stato o dove vivono tanti amici della Prelatura. «Qui nulla è stato messo a caso, Maria Júlia, tutto ha un significato», mi disse nel 2003, quando andai a casa sua per la prima volta e rimasi completamente incantata ad osservare ogni dettaglio, con la voglia di conoscere la storia di ogni oggetto. Per non stancare Pedro, non stavo sempre a far domande, ma come avrei voluto... So che la piccola croce di cuoio gli è stata data da Frei Betto, quando quest’ultimo si trovava nel carcere Tiradentes, all’inizio degli anni ‘70. So che la foto della vecchietta ricoperta completamente di rughe che ci guarda sorridente in cucina è stata scattata da Carlos Moura, uno degli operatori di pastorale più importanti della storia della Prelatura, durante un viaggio all’interno del Piauí. E so che ci sono molte decorazioni karajá, tapirapé e xavante: dimostrazioni di affetto e amicizia nei confronti del vecchio vescovo, grande compagno di strada durante i conflitti vissuti dagli indigeni nella regione. Tutti i giorni della settimana di dicembre in cui sono stata ad Araguaia sono passati indios karajá per la casa di Pedro. In un luogo tanto carico di pregiudizi contro gli indigeni come São Félix, il “palazzo episcopale” dalle porte aperte è sempre stato un rifugio per i karajá, i tapirapé e gli xavante di passaggio per la città. La consacrazione episcopale di Pedro Casaldáliga non è stata solo un momento di denuncia. È stato compiuto in quell’occasione un gesto ancora più profondo di impegno pastorale e politico. Una simbologia incarnata della Teologia della Liberazione. Pedro rinunciò ad alcuni simboli classici: al posto della mitra, un cappello di paglia del sertão; al posto del baculo, un remo karajá, consegnato da un leader del popolo indigeno; al posto dell’anello d’oro, un anello di tucum. Dietro incoraggiamento di un’altra grande figura della Teologia della Liberazione, dom Tomás Balduíno, Pedro aveva accettato la nuova sfida del ministero episcopale. Ma con un diverso rituale. Nell’invito per la consacrazione, Pedro scrisse: «La tua mitra sarà un cappello di paglia sertanejo; il sole e la luna; la pioggia e il sereno; lo sguardo dei poveri con cui camminare e lo sguardo glorioso di Cristo, il Signore. Il tuo baculo sarà la Verità del Vangelo e la fiducia riposta in te dal tuo popolo. Il tuo anello sarà la fedeltà alla Nuova Alleanza del Dio liberatore e la fedeltà al popolo di questa terra». L’anello di tucum diventò, da allora, un simbolo. In un primo momento, significava: chi usa questo anello sta assumendo la causa dei popoli indigeni. Ma poi diventò qualcosa di ancora più grande, passando a significare l’impegno con le cause dei poveri, degli emarginati, della trasformazione sociale. Molti militanti usano questo simbolo e, in qualche modo, si riconoscono. E quante coppie si sono scambiate l’anello di tucum al posto della fede? Il tucum è una palma molto comune in Amazzonia. È un legno duro, resistente. E il fusto della palma è pieno di spine, lunghe e acuminate. Come dice Pedro, sono spine intrepide; questo cammino non è una passeggiata... Nel film prodotto nel 1994 e ispirato a questa storia, dom Pedro, nel finale, spiega al protagonista il significato “di questo anello nero”: «È l’anello di tucum, una palma dell’Amazzonia, segno dell’alleanza con la causa indigena, con le cause popolari. Usare questo anello vuol dire normalmente assumere queste cause e le loro conseguenze». E chiede alla fine: «Tu accetteresti di portarlo? Accetti? Guarda, questo ti impegna, eh? Ti segna». Voi accettate? (fonte: Comunità di via Gaggio) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2018 Europa Bosnia Erzegovina, la posizione della società civile (di Rodolfo Toè) C'è aria di temporale in una Sarajevo domenicale che cerca, un po' come tutto il resto del paese, di tornare alla normalità dopo le violenze di venerdì. Sabato pomeriggio in molti sono tornati in strada. Un po' per la necessaria curiosità di seguire gli sviluppi della più importante protesta della storia della Bosnia Erzegovina indipendente, un po', anche, per dare una mano a pulire. Nella capitale, così come a Tuzla e a Zenica, piccoli gruppi di cittadini si sono organizzati spontaneamente per ripulire le strade e nascondere, per quanto possibile, i segni delle violenze dei giorni scorsi. È il lato buono di una protesta che non è stata scevra di momenti 14 drammatici. A Sarajevo, nell'incendio della presidenza, i manifestanti hanno distrutto anche l'archivio nazionale di Bosnia Erzegovina, che era custodito nello stesso edificio. È forse questo il danno maggiore inflitto alla città durante questa rivolta. A fuoco l’Archivio nazionale della Bosnia Erzegovina “È bruciato uno dei nostri depositi”, ha constatato immediatamente dopo i disordini di venerdì il direttore dell'istituzione, Šaran Zahirovic'. “Con esso” - ha dichiarato al portale 'klix.ba' - “sono bruciati purtroppo alcuni dei documenti più preziosi in nostro possesso”. Anche se le stime dei danni verranno fatte in modo più accurato soltanto nei prossimi giorni [una parte della società civile sarajevese sta sostenendo che in realtà non ci sono stati danni all'archivio, NDE], è già possibile constatare la perdita definitiva di alcuni documenti di grande valore storico, tra i quali, ad esempio, gli atti della commissione creata dopo la fine del Secondo conflitto mondiale per indagare sui crimini di guerra, oltre che una sezione contenente diari, lettere, memorie personali in alcuni casi risalenti alla fine dell'Ottocento. “In gran parte”, continua Zahirovic', “si tratta di materiale che era riuscito a salvarsi nel corso delle due guerre mondiali e dell'ultima, negli anni novanta, ma che è stato distrutto in questa rivolta”. Memorie sopravvissute agli orrori del Novecento, e che ora, semplicemente, sono andate perdute. “È un'enorme vergogna culturale”. Bruciano i libri, in un modo che ricorda sinistramente uno degli eventi simbolicamente più famosi dell'assedio di Sarajevo, la distruzione della grande biblioteca nazionale nell'agosto del 1992. Se un nesso tra i due avvenimenti può sembrare forzato, è del resto vero che questo non è l'unico episodio che fa rivivere, nelle menti dei sarajevesi, la memoria della guerra. E sono gli abitanti stessi a sottolineare questa continuità. Sabato mattina, dopo la devastazione di un'ampia area del centro cittadino che va dal quartiere di Skenderija a via Maresciallo Tito, in molti hanno osservato come le immagini delle auto e degli edifici carbonizzati, delle vetrine sfondate sembrassero uscite direttamente da un altro tempo, da giorni in cui la città era preda di colpi di mortaio, granate e cecchini. Forse, in un certo senso, è proprio anche per questo riscoprirsi immediatamente così vulnerabili che i cittadini hanno risposto, in modo deciso, alla violenza. L'atto stesso di mettersi a disposizione della comunità, di ripulire le strade, di raddrizzare i danni ha un'importanza simbolica decisiva. I contestatori hanno dichiarato solennemente che “non lasceranno più spazio ai vandali e agli hooligan”, al tempo stesso però riconfermando che la volontà di proseguire le proteste è più salda che mai. Diverse centinaia di cittadini sono tornati in piazza sabato, in modo pacifico. Nel momento in cui scriviamo questo articolo, un corteo di cittadini sta protestando davanti alla presidenza. È vero che manca, tuttora, un'organizzazione, un coordinamento. La mobilitazione è in gran parte spontanea, senza portavoce, ma circolano comunque dei volantini con evidenziate le ragioni di chi è sceso in piazza: “Ci rammarichiamo per le vittime e per i danni subiti durante la protesta di venerdì”, si può leggere nel comunicato, “ma questo nostro rammarico va esteso alle fabbriche, agli spazi pubblici, alle istituzioni culturali e scientifiche, alle vite umane della cui distruzione sono invece direttamente responsabili coloro che, da vent'anni, governano il nostro paese”. La società civile: cittadini prima di tutto Una delle caratteristiche più interessanti della protesta, fino a questo momento, è probabilmente proprio il fatto di essere così atomizzata e priva di un programma definito e di gruppi organizzati. I sindacati, che pure avevano simpatizzato in un momento iniziale con la protesta, hanno immediatamente ritirato il loro supporto ai primissimi segni di violenza. Altro grande assente è la società civile, che invece aveva avuto un ruolo di primo piano nella stagione del 'risveglio civico' del 2013. Un'assenza che è, soprattutto, mediatica. “Gli attivisti e le attiviste sono in campo, ma la nostra posizione è che siamo, innanzi tutto, dei cittadini e delle cittadine”, spiega a Osservatorio Balcani e Caucaso Valentina Pellizzer, direttrice di 'One world see' e caporedattrice del portale 'Ženska Posla'. “La situazione è più complessa di quanto potrebbe apparire a una prima, superficiale occhiata: esiste una parte del mondo delle ONG bosniache che obiettivamente sta temporeggiando, chiedendosi quale sia il modo migliore per trarre vantaggio dalla situazione che si è creata. In più, non è secondaria la circostanza che buona parte di queste organizzazioni si è fortemente sbilanciata a favore dell'SDP nel corso delle elezioni del 2010, quindi questa situazione li mette in imbarazzo, da un punto di vista pubblico, hanno perso credibilità”. “In compenso, ci sono associazioni più 'sul terreno', come Akcija Gradjana, che dal primo momento hanno dato il loro pieno supporto alla manifestazione”. “La partecipazione della società civile, insomma, è molto variegata, anche se avviene prima di tutto attraverso il nostro sostegno personale. Ho alcune amiche di un'organizzazione per i diritti della comunità LGBT che in questo momento stanno partecipando alla manifestazione, anche se sappiamo benissimo che tra chi protesta ci sono anche gli estremisti che in passato ci hanno minacciato. Quindi vedi, ci sono vari livelli di partecipazione, ecco tutto, e diversi gradi di esposizione. Tutti però sostengono quello che sta accadendo, per esempio attraverso le proprie pagine facebook”. Darjan Bilic', attivista e presidente proprio di Akcija Gradjana, è in effetti uno di quelli che si è affidato ai social network per fare conoscere la propria posizione. In un intervento intitolato “Sarajevo è anche la mia città”, Bilic' scrive: “Il punto, signori, non sono gli incendi, gli edifici devastati, le auto capovolte; il punto è, piuttosto, l'incuria decennale di un sistema che ha prodotto esso stesso violenza”. E, rivolgendosi ai politici: “Posso capire che siate orripilati, sconvolti dal fuoco e dall'odore dei lacrimogeni, di come possa essere rovinata la città, agli occhi dei turisti e del pubblico mondiale … ma non vi ho mai visti preoccuparvi di come stesse Sarajevo, prima”. La protesta è politica Al di là delle violenze, dei disordini, dei saccheggi portati avanti durante le manifestazioni di venerdì, soprattutto da parte di persone giovanissime, la protesta si presenta come politica. I manifestanti hanno cominciato a fare le prime richieste: tra di esse, prima di tutto, le dimissioni da parte della classe politica. Una richiesta che, fino ad ora, ha dato i primi frutti proprio a Sarajevo. Il primo ministro cantonale Suad Zeljkovic' infatti, è stato costretto a dare le dimissioni, proprio dopo che lo stesso si era trovato a insultare una giornalista che gli chiedeva se avesse l'intenzione di farlo. A Bihac' Hamdija Lipovac(a, il contestatissimo premier del cantone UnaSana si è dimesso domenica poco prima di mezzanotte. Le dimissioni sono state rassegnate anche dai premier dei cantoni di Tuzla e di Zenica-Doboj. Sempre domenica si è dimesso anche Himzo Selimovic', direttore della Sezione per il coordinamento degli organi di polizia della BiH. La protesta sta avendo i suoi primi effetti. E anche se è troppo presto per riuscire a capire se saranno degli effetti positivi, per la prima volta la classe politica bosniaca sembra temere davvero l'opinione del proprio elettorato. Rodolfo Toè Fonte: balcanicaucaso.org (fonte: Unimondo newsletter) link: http://www.unimondo.org/Notizie/Bosnia-Erzegovina-la-posizione-dellasocieta-civile-144654 15 Corsi / strumenti Corsi di formazione Corso per la realizzazione e la gestione di un orto familare (di Legambiente Massa Montignoso) In collaborazione con l'azienda Spinetti di Montignoso si terranno otto lezioni teoriche e pratiche per imparare e praticare tutte le operazioni e le attività necessarie a realizzare con successo un piccolo orto. Il corso prenderà avvio il 1 Marzo (dalle 15.30) nei locali dell'azienda Spinetti alla Renella (Montignoso) sarà l'occasione per imparare a condurre un piccolo appezzamento di terra avendo attenzione anche all'ambiente conoscendo il metodo convenzionale e il biologico, particolare attenzione sarà rivolta all'uso dell'acqua e a tutti quelle tecniche agronomiche volte a ridurne l'uso. Fare un orto è un'ottimo modo per tornare ad essere protagonisti consapevolidella nosta alimentazione e per comprendere meglio quante energie ci sono intorno alla produzione del cibo. Alterneremo pratica e teoria svelando anche alcuni piccoli trucchi del mestiere affinche tutti possano raggiungere risultati soddisfacenti in questa attività che ci rimette in contatto con l'ambiente e ci torna a far apprezzare i cicli della natura. La partecipazione al corso è gratuita, ma sarà richiesta l'adesione a Legambiente (quota di iscrizione venti euro , trenta euro con l'abbonamento al mensile La Nuova Ecologia ) . Per informazioni e adesioni Giuseppe del Giudice 0585340173 - ore pasti Paolo Panni 3319154062 ************************** Circolo Legambiente Massa Montignoso Via Alberica, 6 - Massa 3319154062 fax 0585488086