Notiziario settimanale n. 471 del 28/02/2014

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Notiziario settimanale n. 471 del 28/02/2014
Notiziario settimanale n. 471 del 28/02/2014
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
padre Paolo Dall’Oglio
scomparso il 28 luglio 2013 in Siria
illuminare il silenzio sul suo rapimento
08/03/2014: Giornata internazionale della donna
Se pensiamo prima di agire e se agiamo confrontandoci con i nostri
valori, possiamo mettere il sistema in ginocchio. Ecco perché la politica si
fa in ogni momento della vita: al supermercato, in banca, sul posto di
lavoro, all’edicola, in cucina, nel tempo libero. Scegliendo cosa leggere,
quale lavoro svolgere, cosa e quanto consumare, da chi comprare, come
viaggiare, a chi affidare i nostri risparmi, rafforziamo un modello
economico sostenibile o di saccheggio, sosteniamo imprese responsabili o
vampiresche, contribuiamo a costruire la democrazia o a demolirla,
sosteniamo un’economia solidale e dei diritti o un’economia animalesca
di sopraffazione reciproca.
Francesco Gesualdi (da "Il cambiamento radicale della società")
Indice generale
Lettera di febbraio della Rete di Quarrata: riflettendo dal Brasile sulle
conseguenze del liberismo (di Antonio Vermigli )..................................... 1
Una nota sul mio ex professore: Pier Carlo Padoan (di Emiliano
Brancaccio)................................................................................................ 2
“Uno tsunami di migranti alla conquista dell’Europa”: niente di più
FALSO (di Miriam Rossi).......................................................................... 3
Chi racconta le guerre di oggi (di David Randall)...................................... 4
Cooperazione: tra pretese delle burocrazie e primato del profitto: il rischio
dell’ennesima occasione perduta (di Gianmarco Pisa)............................... 4
Assalto alle Camere del Lavoro (di Giuseppe Casarrubea)........................ 7
Il Belpaese e la violenza: molestie (di Maria G. Di Rienzo).......................8
Il magazzino 18 di Simone Cristicchi (di Claudia Cernigoi) ......................8
Sud Sudan: come si fa a parlare di conflitto etnico? (di ComboniFem Redazione Newsletter Suore Comboniane).............................................. 11
La speranza indignata (di Maria Julia Gomes Andrade)........................... 12
Bosnia Erzegovina, la posizione della società civile (di Rodolfo Toè) .....14
Corso per la realizzazione e la gestione di un orto familare (di
Legambiente Massa Montignoso)............................................................ 15
1
Evidenza
Lettera di febbraio della Rete di Quarrata:
riflettendo dal Brasile sulle conseguenze del
liberismo (di Antonio Vermigli )
Carissima, carissimo,
sono rientrato da poco dal Brasile, dove, dopo alcuni impegni lavorativi,
ho incontrato amici e visitato progetti che la nostra Rete accompagna da
tempo. Sono capitato in un momento in cui si sta sviluppando una nuova
protesta sociale. Gruppi di centinaia di giovani delle periferie, chiamati
“Rolezinhos”, che si convocano su internet e, invadono gli Shopping
Centers, suscitando paura nei frequentatori abituali, dal momento che
arrivano in massa. Ma sono diversi dai manifestanti dello scorso luglio che
accusavano il Governo di distogliere i fondi per la scuola, la salute, i
trasporti per costruire gli stadi.
Oltre a protestare per la corruzione dilagante. Ciò sta suscitando le più
disparate interpretazioni a secondo con chi parli. Alcuni, quelli che hanno
scelto il neoliberismo come idolo, prostrandosi al Dio denaro e al Dio
consumo, con le loro analisi che partono solo dal giudizio, non meritano
nessuna considerazione. Essendo di una tale povertà analitica da farmi
vergognare per loro.
Mentre c’è chi va al cuore del problema, come il nostro amico e referente
Waldemar Boff, che afferma che non si tratta di giovani poveri, delle
grandi periferie senza spazi per passare il tempo e la cultura, penalizzati
dai servizi pubblici assenti o molto scadenti. Waldemar afferma che i
giovani rolezinhos sono la nuova classe media, ossia, le classi C e D frutto
della crescita economica grazie alle politiche sociali e educative dei
governi Lula-Dilma.
Che cosa si nasconde dietro il loro andare negli Shopping? Che cosa
stanno comunicando questi ragazzi con il loro andare in massa nei bunker
del consumo, nelle nuove cattedrali, dove puoi entrare solo se sei un
“soggetto economico e sociale all’altezza”? Non vanno per fare
manifestazioni o per rubare. Sono lì per dimostrare che gli spazi che
prima loro non frequentavano, perché frequentati solo dai ricchi
benestanti, fanno parte di loro. Perché anche loro possono comprare i
“beni simbolo” (scarpe Nike e roba firmata) affinché questa merce possa
essere un bene comune, popolare, alla portata degli operai. Il conflitto di
classe in Brasile é sempre stato offuscato, tenuto nascosto. Per questo
l’élite non gradisce che venga alla luce, per questo usano l’ideologia
del”brasiliano cordiale e pacifico”. I gestori degli shopping non hanno
niente in contrario che la gente delle periferie li frequenti. Non chiedono
che vi arrivino in massa, perché disturba i normali frequentatori, perché
rivela il conflitto sotterraneo di classe esistente. I responsabili degli
shopping chiedono solo che non si presentino in massa... perché loro
gradiscono che ci siano più compratori, indipendentemente dalla classe
sociale.
Le nuove classi C e D emergenti costituiscono un capitale economico
nuovo da sfruttare, ma manca in loro il capitale culturale, che permetta
loro di contestare questo tipo di società, come bene ha scritto la sociologa
Valquiria Padilha.
Cercano di rompere le barriere dell’apartheid sociale. E’ una denuncia
verso un Paese altamente ingiusto, tra i più disuguali del mondo,
organizzato su un grave peccato sociale. La nostra società é conservatrice
e le nostre élite altamente insensibili alla sofferenza dei loro simili e, per
questo ciniche.
Attualmente in Brasile ci sono 60 milioni di famiglie di cui 5 mila
possiedono il 50% della ricchezza nazionale. Siamo in una democrazia
senza uguaglianza. I rolezinhos denunciano questa contraddizione. Essi
entrano nel paradiso delle merci “visto virtualmente in TV”, per vederle
realmente, toccarle con le proprie mani e acquistarle. Ecco il sacrilegio
insopportabile per i “padroni e i frequentatori degli shopping.
Di fronte a questi nuovi movimenti sociali di massa emersi nello scorso
luglio e, alle ricolte che ne sono seguite, i movimenti cristiani si sono
interpellati preparando il 13° incontro delle Comunità Ecclesiali di Base –
CEBs, che si è svolto dal 7 all’11 gennaio scorso a Juazeiro do Norte nello
stato del Cearà, avendo come tema: “Giustizia e profezia a servizio della
Vita”, dove per la prima volta é arrivato un messaggio di condivisione e
augurale del papa, riconoscendo nelle CEBs il modo d’essere, antico e
nuovo, della Chiesa, una Chiesa che non si stanchi di essere il volto di
“una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade”,
piuttosto che di “una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di
aggrapparsi alle proprie sicurezze”. Insomma una chiesa dove “il pastore
prenda il puzzo delle sue pecore”.
Direi, un’intesa perfetta fra il papa e la comunità, senza nessuno sforzo,
come se fosse la cosa più naturale. E la commozione era sul volto di tutti.
Mai visto un papa così in sintonia con la gente , fino a identificarsi
totalmente con loro, con i loro problemi, con le loro difficoltà, come se
fosse uno di famiglia, un padre, un fratello, un amico. Papa Francesco sta
superando se stesso.
Le sue espressioni semplici, le immagini popolari di cui il papa si serve
per comunicare le sue idee non devono trarre in inganno; si tratta di parole
che hanno alla loro base un pensiero solido, preciso, attuale, una
convinzione lungamente maturata nella riflessione e nell’esperienza. Di
conoscenze profonde, di dimestichezza con i grandi problemi del pensiero
e della teologia del nostro tempo.
Ma egli colpisce per il suo linguaggio laico usa nelle sue espressioni.
Dove al centro mette la persona umana, l’uomo, tutto l’uomo, tutti gli
uomini, dai “rolezinhos” a chi lavora per la Pace, dai movimenti sociali di
protesta a quegli di salvaguardia ambientale... Un linguaggio
antropologico che sostituisce, almeno provvisoriamente, quello teologico.
Così le parole rivolte a tutti, coinvolgono tutti, credenti e non credenti,
perché sa molto bene che non tutti i suoi interlocutori hanno una fede e
una religione. Ha capito profondamente che quello laico é l’unico
linguaggio udibile da parte dell’uomo e delle donne di oggi. L’urlo dei
giovani emarginati del Brasile e di tutto il mondo prende sostanza anche
dalla “sua” condanna dell’idolo del denaro, che domina i pensieri, gli
atteggiamenti e crea gravi ingiustizie. La denuncia di papa Francesco non
potrebbe essere più semplice e più efficace. E’ il no più deciso al
capitalismo selvaggio, al liberalismo, al mercato senza regole e controlli,
che uccide tutti i giorni!
Il papa merita di essere ascoltato. Il suo non è un discorso di tecnica
politica, ma un discorso di politica vera, di politica morale. Dove il campo
economico è oggi, ancora assai lontano dai principi di giustizia umana e
cristiana.
Questo é un tempo di riflessione e di ricerca delle cause profonde del
disordine economico e morale che grava sulle nostre società. Ogni uomo,
per la sua quota di responsabilità. Credente o no, é chiamato in causa. Si
ascolti questo papa e non gli eterni banditori dell’egoismo, veri e unici
mandanti della morte di decine di milioni di uomini e donne ogni anno,
che stanno distruggendo il tessuto dell’umana società.
E’ a questo punto che Waldemar ed io ci siamo domandati: cosa é che ci fa
felici?
Abbiamo concordato sul fatto che, nella società neoliberista nella quale
viviamo, l’ideale di felicità è centrato sul consumismo e sull’edonismo. Il
che non significa che, realmente, essa sia frutto, come suggerisce la
pubblicità, del possesso di beni materiali o della somma di piaceri.
Dalla felicità il discorso è passato all’amore. Cos’è l’amore? Abbiamo
deciso di parlare a partire dalle nostre esperienze. E’ stato allora che
Waldemar ha riflettuto sul fatto che una delle grandi preoccupazioni del
mondo di oggi è che gli straordinari progressi tecno scientifici stimolano
una accentuata atomizzazione degli individui, spingendoli a perdere i loro
vincoli di solidarietà, affettivi, religiosi, ecc... E che questi vincoli sono
sostituiti da altri, burocratici, amministrativi e, soprattutto, anonimi (reti
sociali), distanti dalle antiche relazioni affettive tra le persone, unite l’una
all’altra sotto il segno dell’uguaglianza e della fraternità, con gli stessi
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diritti e doveri, indipendentemente dalle disuguaglianze esteriori.
Waldemar ha continuato: ciò che rende una persona felice non è il
possesso di un bene o una vita confortevole. E’ soprattutto il progetto di
vita che assume. Ogni progetto, coniugale, professionale, artistico,
scientifico, politico, religioso, suppone una traiettoria piena di difficoltà e
sfide. Ma è appassionante. E’ la passione o, se vuoi, l’amore, che
densifica la nostra soggettività. E ogni progetto suppone vincoli
comunitari. Se il sogno è personale, il progetto è collettivo.
Gli ho dato ragione. Vivere per un progetto, una causa, una missione, un
ideale o anche un’utopia, è ciò che dà senso alla vita. E una vita piena di
significato è, anche se colpita da dolori e sofferenze, é ciò che ci dà la
felicità.
Saranno felici le 85 persone più ricche del mondo che hanno
“accumulato” la fortuna di 1.7 trilioni di dollari, pari al reddito della metà
della popolazione mondiale: tre miardi e mezzo di persone. Questo è un
dato uscito da Davos (il Forum Mondiale dei paesi ricchi) lo scorso 20
gennaio.Questo dato, purtroppo reale é un grave pericolo sia per
l’economia mondiale, sia per la democrazia.
Mentre anche in Italia la forbice si allarga, i 10 individui più ricchi
posseggono una quantità di ricchezza più o meno equivalente ai 5 milioni
di italiani più poveri (studio Bankitalia).
Antonio Vermigli
Fonte: Rete di Quarrata
(fonte: Rete di Quarrata)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2017
Approfondimenti
Economia
Una nota sul mio ex professore: Pier Carlo Padoan
(di Emiliano Brancaccio)
Pier Carlo Padoan fu uno dei miei professori durante i corsi del master in
Economia del Coripe Piemonte, presso il Collegio Carlo Alberto. Sebbene
fosse un master rigorosamente “mainstream”, ricordo che le lezioni di
alcuni docenti, come Luigi Montrucchio e Giancarlo Gandolfo,
suscitavano il nostro vivo interesse e alimentavano le discussioni.
Tra i docenti c’era pure Elsa Fornero, che nel ruolo di professoressa
rendeva indubbiamente molto meglio che in quello successivo di ministra.
Rammento che invece non eravamo particolarmente entusiasti delle
lezioni di Padoan. Forse a causa degli alti incarichi che all’epoca già
ricopriva, in aula appariva un po’ distratto, vagamente annoiato, non
particolarmente persuaso dai grafici che egli stesso tracciava sulla
lavagna. Di una cosa tuttavia il nostro pareva convinto: la sostenibilità
futura della nascente moneta unica europea era da ritenersi un fatto ovvio,
fuori discussione.
Era il 1999, data di nascita dell’euro, e Padoan guarda caso teneva il corso
di Economia dell’Unione europea. Una volta gli chiesi cosa pensasse delle
tesi di quegli economisti, tra cui Augusto Graziani, che esprimevano dubbi
sulla tenuta dell’eurozona; domandai, in particolare, quale fosse la sua
valutazione di quegli studi che già all’epoca criticavano l’idea che gli
squilibri tra i paesi membri dell’Unione potessero essere risolti a colpi di
austerità fiscale e ribassi salariali. A quella domanda Padoan non rispose:
si limitò a scrollare le spalle e a sorridere, con un po’ di sufficienza.
All’epoca in effetti l’atteggiamento di Padoan era piuttosto diffuso. L’euro
veniva considerato un fatto definitivo, discutere di una sua possibile
implosione era pura eresia. Ben pochi, inoltre, si azzardavano a dubitare
delle virtù taumaturgiche dell’austerità. Da allora evidentemente molte
cose sono cambiate.
Sulla capacità delle politiche di austerity di rimettere in equilibrio la zona
euro, in accademia lo scetticismo sembra ormai prevalente. Come
segnalato anche dal “monito degli economisti” pubblicato sul Financial
Times nel settembre scorso, esponenti delle più diverse scuole di pensiero
concordano nel ritenere che le attuali politiche stiano in realtà
pregiudicando la sopravvivenza dell’Unione. Persino il Fondo Monetario
Internazionale critica la pretesa di riequilibrare l’eurozona puntando tutto
su pesanti dosi di austerity a carico dei paesi debitori. Insomma, la dura
realtà dei fatti costringe i più a rivedere i vecchi pregiudizi. Ma Padoan,
che oggi si accinge a lasciare l’OCSE e ad assumere l’incarico di ministro
dell’Economia, ha cambiato la sua opinione?
Non direi. In un’intervista rilasciata poco tempo fa al Wall Street Journal,
il nostro ha affermato che la crescente sfiducia verso l’austerity è solo “un
problema di comunicazione” visto che a suo avviso “stiamo ottenendo
risultati”. E ha aggiunto: “Il risanamento fiscale è efficace, il dolore è
efficace”.
Ci sono due modi per interpretare questa affermazione. Il primo è che
Padoan stia cinicamente interpretando l’austerity come fattore di
disciplinamento sociale. Dal punto di vista dei rapporti di forza tra le
classi sociali ci sarebbe del vero in questa idea. Mettendola in questi
termini, tuttavia, Padoan sottovaluterebbe il fatto che l’austerity sta anche
contribuendo alla cancellazione di ogni residua istanza di coesione tra i
popoli europei. Il secondo modo di interpretare Padoan è che egli ritenga
tuttora che le attuali politiche aiuteranno il rilancio dell’economia. In
questo caso avanzerei il sospetto che Padoan sia stato sedotto dai risultati
di un suo ardimentoso studio recente, secondo il quale i paesi che passano
da una situazione di indebitamento ad una di avanzo estero, e che
immediatamente attivano politiche di austerity in grado di abbattere il
rapporto tra debito e Pil, hanno maggiori probabilità di aumentare la
crescita della produzione. Ora, anche volendo trascurare gli enormi limiti
di significatività di questo studio, il problema è che esso entra in
contraddizione con le evidenze oggi disponibili: non ultimo il fatto che
l’austerity non sta affatto determinando una riduzione del rapporto tra
debito e Pil [1].
In un caso o nell’altro, non deve meravigliare che Paul Krugman abbia
tratto spunto dalla improvvida dichiarazione di Padoan per commentare
che “certe volte gli economisti che occupano cariche pubbliche danno
cattivi consigli; altre volte danno pessimi consigli; altre ancora lavorano
all’OCSE”. E altre volte ancora, aggiungiamo noi, diventano ministri
dell’Economia di un governo che anziché fare uscire il Paese dalla crisi
rischia di affondarlo definitivamente.
Emiliano Brancaccio
[1] de Mello, L., P. C. Padoan and L. Rousová (2011), “The Growth
Effects of Current Account Reversals: The Role of Macroeconomic
Policies”, OECD Economics Department Working Papers, No. 871,
OECD Publishing.
Pubblicato su www.emilianobrancaccio.it. La riproduzione è consentita
citando la fonte, preservando i links e riportando la nota a pié di pagina.
(fonte: Nicola Cavazzuti)
link: http://www.emilianobrancaccio.it/2014/02/21/una-nota-sul-mio-ex-professorepier-carlo-padoan/
Immigrazione
“Uno tsunami di migranti alla conquista
dell’Europa”: niente di più FALSO (di Miriam
Rossi)
Italia. Chiacchiere da bar attorno a un mazzo di carte, lungo i corridoi
bianchi di una sala d’attesa di un medico o, perché no, nel talk show
politico nella fascia di colazione/post-pranzo/post-cena/spuntino di
mezzanotte. A un “non è che possiamo accoglierli tutti noi” fa eco un “già
non c’è lavoro per noi, cosa verranno mai a fare questi” o ancora un “va
bene l’accoglienza degli immigrati ma va limitata entro certi numeri, che
3
da tempo l’Italia ha superato”, e infine il proverbiale ma sempre attuale
“ma proprio tutti qui devono venire?” (a cui talvolta si aggiunge la
tripletta: ci usurpano il lavoro, vengono per rubare o spacciare droga o
anche peggio, pesano sui nostri servizi sanitari aumentando le liste
d’attesa dei cittadini che pagano le tasse). I toni e le argomentazioni non
cambiano di molto quando l’oggetto della discussione è il numero degli
immigrati in Italia, un flusso spesso ritenuto inarrestabile, eccessivo, tale
da mettere in difficoltà le capacità di accoglienza del nostro Paese, se non
dell’Europa intera.
Opinioni, interpretazioni e giudizi spesso distorti, che non trovano
riscontro nei dati reali circa i flussi globali delle migrazioni nel mondo.
Gli italiani non sono però da soli in questa analisi pregiudiziale, tanto che
l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari ha messo a punto un
dossier che intende smontare ben 8 “falsi miti” legati alla migrazione. Il
primo tra questi riguarda proprio il flusso migratorio in movimento dai
Paesi impoveriti del sud del mondo a quelli del nord, ricchi, che
costituirebbe il principale esistente. FALSO: il movimento da sud a nord
interessa appena (si fa per dire) il 40% del traffico ordinario. Un 33% è
rappresentato da flussi sud-sud, ossia da un Paese in via di sviluppo a un
altro; il 22% da quelli nord-nord; e solamente un 5% dei migranti si sposta
dal nord al sud del pianeta. Peraltro è bene puntualizzare che i 232 milioni
di migranti che si sono mossi nel 2013 costituiscono il 2,5-3% dell’intera
popolazione mondiale; una percentuale che in generale appare
sovrastimata in maniera impressionante nei Paesi di accoglienza dei
migranti.
Sono circa 5 milioni e mezzo gli stranieri presenti in Italia, poco meno del
10% della popolazione, di cui i clandestini costituirebbero circa lo 0,5%
della popolazione, secondo i dati aggiornati al 2012 forniti dall’ISMU,
Istituto per lo Studio della Multietnicità della Fondazione Cariplo. Un
numero estremamente esiguo se confrontato con lo tsunami umano che
pretenderebbero i nostalgici della purezza italica.
Da non dimenticare inoltre che, nel rispetto dell’articolo 10 della Carta
Costituzionale, oltre che di diversi trattati internazionali in materia di
rifugiati e apolidi, l’Italia è chiamata a concedere il diritto di asilo allo
“straniero al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle
libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”. Non sorprenda
dunque che il Paese accolga nel suo territorio rifugiati, una scelta che
comporta l’ovvia pregressa azione di accoglienza e identificazione degli
aventi diritto di asilo. È lo stesso Ministero degli Interni italiano a indicare
che l’Italia si colloca al 6° posto tra i Paesi europei per numero di rifugiati,
dopo Germania, Francia, Regno Unito, Svezia e Olanda, facendo
riferimento al rapporto dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati
(Unhcr) 2012. Il sito non fornisce però alcun dato numerico di quelli
messi in evidenza dall’Unhcr: al dicembre 2012 i rifugiati in Italia erano
64.779, pari a meno di 1 rifugiato ogni 1000 abitanti. Una cifra senz’altro
significativa ma ben lontana dai 589.737 della Germania, dai 217.865
dalla Francia, dai 149.765 del Regno Unito e, in rapporto al numero di
abitanti del Paese, anche dai 92.872 della Svezia e dai 74.598 della piccola
Olanda.
Basta poi alzare lo sguardo ben al di là dell’Europa per rendersi conto che
i flussi di migranti (e rifugiati) con cui i Paesi europei hanno a che fare
sono solo una minima parte rispetto alle reali emergenze affrontate da altri
Stati al mondo, spesso con disponibilità finanziarie e possibilità di
ricezione ben inferiori dell’UE. Nel 2012 ad esempio il Pakistan ha
accolto 1 milione e 640 mila rifugiati afghani, e ben 862 mila afghani sono
stati ammessi anche in Iran. La ragione principale delle migrazioni rimane
l’incubo della guerra: il 55% dei rifugiati proviene da Paesi stravolti da
conflitti armati, oltre all’Afghanistan, Somalia, Siria, Iraq e Sudan; e
anche Mali e Repubblica Democratica del Congo. Proprio l’estrema
emergenza spinge le persone a rifugiarsi nei Paesi limitrofi a quello di
appartenenza da cui sono in fuga; è per questa ragione che ben l’81% dei
rifugiati è ospitato in Stati impoveriti del sud del mondo e, di questi, circa
un quarto nei 49 Stati meno sviluppati del pianeta.
C’è di che riflettere sull’immagine di un’Italia invasa da migranti “a tutto
vantaggio degli altri membri dell’UE”. Ancora più, mettendo da parte una
visione eurocentrica, di un presunto allarme tsunami di migranti che dal
sud povero del mondo si muoverebbe verso l’opulenta Europa. Come
spesso accade, il confronto coi numeri restituisce un po’ di realtà e fa
giustizia di tanti enunciati falsi, di cui probabilmente varrebbe la pena
chiedersi chi trae vantaggi politici ed economici.
Miriam Rossi
(fonte: Unimondo newsletter)
link:
http://www.unimondo.org/Notizie/Uno-tsunami-di-migranti-alla-conquistadell-Europa-niente-di-piu-FALSO-144430
Informazione
Chi racconta le guerre di oggi (di David Randall)
I corrispondenti di guerra sono “drogati di adrenalina”, uomini e donne
che non possono fare a meno del pericolo? Non sono d’accordo: corrono
molti rischi per aprirci uno spiraglio di verità.
Un paio di settimane fa nel Regno Unito è cominciato un fenomeno che
durerà fino all’inverno del 2018. Giornali, riviste e tv hanno dato il via
alle celebrazioni per il centenario della prima guerra mondiale. Come
spesso accade in questi casi, è stata una decisione prematura, visto che alla
data della dichiarazione di quel disgraziato conflitto mancano ancora sei
mesi.
Non ho mai ben capito il fascino che la guerra esercita su tante persone.
Da alcuni decenni ho notato che gli scaffali delle librerie che hanno
l’etichetta “Storia” continuano a riempirsi di titoli sui conflitti e sulle armi.
Esistono canali satellitari che trasmettono solo documentari di guerra,
mercati dell’antiquariato che vendono spade, pugnali e uniformi, e ogni
weekend ci sono decine di eventi in cui gli uomini si vestono da soldati e
giocano alla guerra. Viene da chiedersi se collegano mai il loro hobby alle
migliaia di persone uccise e mutilate dalle armi che tanto li affascinano.
scatenato dall’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre, hanno
contribuito a tenere a bada i mezzi d’informazione.
Oggi i conflitti sono molto più caotici. In posti come la Siria e la Libia non
esiste una linea del fronte, non c’è un momento in cui gli eserciti si
schierano uno contro l’altro, avanzano o si ritirano. Piuttosto, come sta
succedendo a Damasco, ci sono zone momentaneamente controllate
dall’Esercito siriano libero, da una delle sue fazioni ribelli o dalle forze di
Assad. I conini si spostano e da una settimana all’altra non si sa neanche
chi controlla i vari posti di blocco. Se si sbaglia, si rischia di tornare a casa
in una cassa di legno. Non sono affatto d’accordo con chi dice che i
corrispondenti di guerra sono “drogati di adrenalina”, uomini e donne che
non possono fare a meno del pericolo.
In balia delle dichiarazioni delle parti in causa (oggi accompagnate da
filmati creati apposta per falsiicare la realtà e messi su YouTube), corrono
molti rischi per aprirci uno spiraglio sulla verità. Saranno anche grandi
bevitori e persone sgradevoli, ma spesso hanno molto coraggio.
Prendiamo, per esempio, questo episodio raccontato nelle memorie del
corrispondente di Newsweek Edward Behr, che nel 1961 seguì gli scontri
tra Tunisia e Francia per il porto di Biserta. Per descrivere quello che
definiva “uno dei maggiori atti di coraggio a cui ho mai assistito”,
scriveva: “I paracadutisti francesi, furiosi per le perdite subite dalla loro
unità, stavano rabbiosamente borbottando che avrebbero messo i tunisini
contro un muro e li avrebbero fucilati tutti. Un giornalista italiano si
avvicinò silenziosamente ai tunisini e, con le mani piantate sui fianchi, si
mise davanti a loro, sfidando i francesi a sparare”. Il nome di quel
coraggioso giornalista non è passato alla storia, e non posso chiederlo a
Behr perché è morto nel 2007. Ma mi piacerebbe molto sapere chi era.
DAVID RANDALL è stato senior editor del settimanale Independent on
Sunday di Londra. Ha scritto quest’articolo per Internazionale. Il suo
ultimo libro è Tredici giornalisti quasi perfetti (Laterza 2007).
Internazionale 1038 | 14 febbraio 2014
Qualcuno dice che i corrispondenti di guerra sono solo una specie
leggermente più sofisticata di fan dell’esercito, accusa che, avendone
conosciuti molti, non condivido affatto. L’unico giornalista di questo tipo
che ho mai incontrato è stato un tizio che lavorava per il mio primo
giornale, che era così innamorato dell’esercito da venire in redazione in
mimetica. Alla ine trovò il posto giusto per lui: addetto stampa del
ministero della difesa. Ma i veri corrispondenti di guerra, dopo aver visto
case bombardate e bambini mutilati, come oggi in Siria, conoscono troppo
bene gli effetti dei conflitti per essere come lui.
Come professione, il giornalismo di guerra è nato un secolo e mezzo fa, e
il lavoro di chi se ne occupava non era molto diverso da quello di chi
seguiva da lontano i grandi e caotici eventi sportivi. I reporter, come Sam
Wilkeson del New York Times, vedevano la realtà della guerra più da
vicino. Nel luglio del 1863, mentre girava per il campo dopo la battaglia
di Gettysburg, si imbatté nel cadavere di un ufficiale di artiglieria
dell’esercito dell’Unione di soli diciannove anni. Era suo figlio. Seguire la
guerra all’estero era meno drammatico, e i corrispondenti si
equipaggiavano come se stessero partendo per una vacanza in campeggio.
Richard Harding Davies, un giornalista della ine dell’ottocento, metteva
tra le cose essenziali da portare con sé lanterne di ottone, secchi di cuoio
per l’acqua, una cassa di legno per le medicine e una vasca da bagno di
gomma pieghevole. Tipi come Davies erano uomini troppo indipendenti
per i gusti dei militari e, quando arrivò la prima guerra mondiale, i
corrispondenti dovettero indossare l’uniforme. In genere erano tenuti
lontani dalle battaglie vere e proprie e i loro articoli erano pesantemente
censurati. Durante la seconda guerra mondiale e quella di Corea, i reporter
erano più liberi, e in Vietnam lo sono stati ancora di più. Fin troppo per il
presidente Nixon, dato che i resoconti di quell’inutile avventura
statunitense hanno alimentato ogni giorno il movimento paciista.
All’epoca delle due guerre del Golfo i militari avevano imparato la
lezione, e i giornalisti potevano riportare solo quello che sentivano dire
durante le conferenze stampa. Questo, e una buona dose di patriottismo
4
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2014/02/21/chi-racconta-le-guerre-di-oggi-davidrandall/
Nonviolenza
Cooperazione: tra pretese delle burocrazie e
primato del profitto: il rischio dell’ennesima
occasione perduta (di Gianmarco Pisa)
Convegno “Una nuova legge per una nuova stagione della cooperazione
italiana”. Albergo Nazionale: Roma, 28 Gennaio 2014
L’appuntamento romano intorno ai contenuti e alle prospettive della
riforma complessiva, approvata in Consiglio dei Ministri lo scorso 24
Gennaio, della cooperazione internazionale allo sviluppo del nostro Paese
è servito a profilare, intanto, lo stato dell’arte e, di conseguenza, a
delineare a ritroso il percorso seguito per giungere a questo significativo
traguardo ed a rappresentare le luci e le ombre, le potenzialità e le
ambiguità, i contenuti ed i limiti dell’impianto governativo della riforma
stessa.
Convocato su iniziativa di Oxfam Italia e Action Aid, con CINI, Link
2007 ed AOI (Associazione delle ONG e delle Organizzazione per la
Solidarietà e la Cooperazione Internazionale), il convegno romano è stato
in realtà preceduto da numerosi altri appuntamenti, che sono serviti a
meglio mettere a fuoco il tiro della proposta di riforma e a più nettamente
individuare bisogni, rivendicazioni ed obiettivi del variegato mondo della
cooperazione allo sviluppo. In un recente sondaggio presso gli operatori e
i volontari della cooperazione internazionale, infatti, è emerso come il
64% ritenga prioritario lavorare affinché i fondi della cooperazione allo
sviluppo siano gestiti con più trasparenza, il 51% promuovere la
semplificazione delle procedure, il 43% riscontrare più competenza nel
sistema.
Da questo punto di vista, già lo scorso Forum della Cooperazione
Internazionale di Milano (1-2 Ottobre 2012) aveva rappresentato la
classica occasione sprecata. Difficile ascrivere a quel Forum altri meriti se
non quello della ripresa della pubblica attenzione sul tema. Nessuna
innovazione nelle categorie, nelle policy proposte e nelle pratiche
presentate. Poco spazio alla realtà dinamica della cooperazione
internazionale italiana quale questa è, sia nell’intervento dello Stato in
termini di aiuto pubblico allo sviluppo (APS) e cooperazione bilaterale e
multilaterale, sia nell’azione della società civile, relegata quasi al ruolo di
spettatore, se non di comparsa (o inutile orpello), in termini di azione cooperante, costruzione partenariale, collaborazione, insomma, tra i popoli, i
territori e le comunità.
È in quella occasione che si è delineato, in termini più precisi e stringenti,
il volto nuovo della co-operazione italiana allo sviluppo e il profilo
specifico della riforma della cooperazione inter-nazionale. Un “volto
nuovo” teso a “superare la separazione ideologica tra cooperazione [quella
fatta dalle comunità] e internazionalizzazione [quella fatta per i profitti
delle imprese]”, evitare di procedere “in ordine sparso” al fine di rendere
la cooperazione allo sviluppo “coerente con la politica estera del governo”
(la stessa che aderisce ai piani della guerra “umanitaria”, saluta
l’intervento “protettivo” in Libia e si esercita nel fomentare la sanguinosa
guerra civile in Siria). Il volto nuovo, cioè, di una cooperazione fatta dai
privati, per esigenze di immagine e a tutela dei profitti, non più
semplicemente “inscritta” ma addirittura “a servizio” della politica del
Governo e degli interessi del business, coinvolgendo persino, sempre più,
i militari nella gestione delle crisi e delle emergenze, come peraltro
dimostrano gli stanziamenti per la cooperazione anche nell’ambito del
decreto missioni.
A fronte di tutto ciò, il disegno di legge del Governo Letta per la riforma
della cooperazione non fa altro che recepire tali intendimenti e dare
seguito ad un lungo itinerario di iniziative parlamentari più o meno finite
nel vuoto o nel dimenticatoio. Nei numeri di “open parlamento”, stiamo
parlando di: 39 disegni di legge, 39 mozioni, 11 interpellanze, 15
interrogazioni orali, 48 interrogazioni scritte, 19 in commissione, 4
risoluzioni di assemblea, 16 risoluzioni in commissione, 6 conclusive, 73
ODG in assemblea, 16 ODG in commissione e decine di audizioni nelle
commissioni competenti.
In sintesi, il convegno romano registra, quali punti di partenza della
riflessione, almeno i seguenti:
a) l’esigenza, riconosciuta da tutti gli operatori del settore, di aggiornare la
legge 49 del 1987, non solo perché “il mondo è cambiato” ma soprattutto
per aggiornare i profili e gli strumenti del settore,
b) l’opportunità di mettere a valore il lavoro dell’inter-gruppo dei
parlamentari per la cooperazione allo sviluppo, un’area trasversale di
deputati e senatori, coordinata da Federica Mogherini del PD,
c) lo svolgimento di una costante consultazione, in particolare, con il
Ministro degli Affari Esteri, Emma Bonino, e con il vice-ministro con
delega alla cooperazione, Lapo Pistelli, anch’egli del PD,
d) i contenuti della lettera che le reti della cooperazione hanno indirizzato
al Ministro per indicare le priorità della riforma, da più parti, peraltro,
accusata di mancanza di visione ed eccesso di tecnicismo,
e) l’iter più recente, che ha portato alla presentazione ed all’approvazione
in Consiglio dei Ministri, di una riforma complessiva, in forma di
“disposizioni generali”, per la cooperazione internazionale.
A tal proposito, i punti salienti della legge di riforma del Consiglio dei
Ministri sono i seguenti:
5
1) la cooperazione internazionale allo sviluppo viene definita come parte
integrante e qualificante della politica estera del Paese nonché come
articolazione del sistema della proiezione internazionale dell’Italia, sotto
controllo ministeriale, con una propria dinamica “di sistema”, in quanto
soggetti ed attori della cooperazione allo sviluppo diventano, insieme, le
autorità pubbliche, le amministrazioni statali, le regioni, le province
autonome e gli enti locali, le università e gli istituti di ricerca, il privato
non-profit (non solo le ONG, ma anche le ONLUS e in generale
l’associazionismo in regime di accreditamento) e il privato profit
(imprese, aziende, cooperative, enti e fondazioni), accreditando in tal
modo la piena e sostanziale equivalenza tra cooperazione non-profit e
cooperazione profit;
2) l’istituzione di un fondo centrale e di un fondo rotativo cui accedono
non solo gli enti del Terzo Settore, ma anche le aziende e il mondo
“profit” e “business”, sia allo scopo di accompagnare e sostenere
l’investimento all’estero del settore, sia al fine di costituire società miste
con i partner nei Paesi terzi (accreditando così l’idea della reversibilità tra
cooperazione ed internazionalizzazione); a ciò si accompagna poi, in
particolare, l’assenza di un fondo unico per la cooperazione internazionale
allo sviluppo, che pure era stata una delle richieste centrali avanzate al
Ministero dagli operatori;
3) l’istituzione dell’AICS (Agenzia Italiana per la Cooperazione allo
Sviluppo) e del CICS (Comitato Inter-ministeriale per la Cooperazione
allo Sviluppo) che, insieme con la delega alla cooperazione internazionale,
assegnata nell’ambito delle competenze del Ministero Affari Esteri, e alla
revisione di funzioni della competente DGCS (Direzione Generale per la
Cooperazione allo Sviluppo) vengono a delineare il profilo della nuova
governance del sistema, attribuendo, in particolare, all’Agenzia compiti di
individuazione, selezione e valutazione delle azioni, delle misure e dei
progetti di cooperazione allo sviluppo, ed al CICS il compito di definire
l’orientamento della co-operazione allo sviluppo attraverso il
coordinamento e la concertazione tra i ministeri interessati; sebbene però
la proposta di legge finisca con l’attribuire al Ministro degli Esteri in via
puramente facoltativa e non vincolante la facoltà di assegnare la delega
alla cooperazione internazionale ad un proprio vice-ministro, pur essendo
questa un’altra delle (peraltro poche) richieste-chiave avanzate dagli
operatori.
Gli interventi programmati insistono ora sull’uno ora sull’altro dei diversi
punti della riforma.
Silvia Stilli, portavoce AOI, delinea il contesto generale in cui è maturata
la proposta di riforma. Il 2014 è un anno di transizione, essendo alla
vigilia (2015) del processo di valutazione internazionale in ordine al
conseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG), a
conclusione del cosiddetto “decennio di sviluppo” (2005-2015) delle
Nazioni Unite; ed essendo inoltre un anno su cui si affacciano numerosi
conflitti regionali e internazionali (basti pensare a quanto sta accadendo
nel Vicino Oriente, nell’Africa Mediterranea e nell’Europa Orientale) dei
quali sono in corso tavoli e tentativi di negoziato e di risoluzione. La
cooperazione allo sviluppo nel biennio 2014-2015 ha più che mai di fronte
la sfida di intercettare le istanze ed i bisogni che tali crisi e tali conflitti
stanno già determinando, basti solo guardare allo scenario della Siria ed
alla tragedia umanitaria che vi si sta consumando. Si impongono, quindi, il
“tema” ed il “problema” di come affrontare, come sistema-Paese e come
attori della cooperazione allo sviluppo, tali autentiche sfide locali,
regionali e globali.
Le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo (25 maggio)
rappresentano un passaggio, al tempo stesso, significativo e minaccioso,
da un lato perché per la prima volta nel processo elettorale verranno
indicati anche i candidati alla carica di presidente della Commissione
Europea e si insedierà un Parlamento Europeo finalmente dotato di più
funzioni e più competenze, dall’altro perché prendono sempre più piede in
Europa, alimentati dalla crisi e dall’incertezza, i venti e le forze di destra,
demagoghi, populisti, localisti, nazionalisti e anti-europei. Tutto questo
deve indurre tutti, decisori politici ed attori sociali, ad una forte attenzione
politica e ad un conseguente impegno finanziario a sostegno degli sforzi
della cooperazione internazionale, delle politiche per lo sviluppo ed il
partenariato internazionale e della risoluzione pacifica dei conflitti. Aspetti
su cui, d’altronde, non mancano le contraddizioni, come dimostra lo
storno dei fondi dell’otto ? mille, proditoriamente trasferiti – dal governo
centrale stesso – dalla cooperazione internazionale allo sviluppo ad altri
settori.
europeo di presidenza italiana anche per impattare sulla cooperazione
internazionale allo sviluppo e sulle modalità di impegno dell’aiuto allo
sviluppo.
Federica Mogherini, deputata PD e coordinatrice dell’inter-gruppo
parlamentare per la cooperazione:
1.
Tornando alla relazione di Silvia Stilli, vengono avanzate tre osservazioni
in merito alla riforma:
2.
1.
2.
3.
4.
1.
2.
3.
4.
5.
valorizzare sussidiarietà e ruolo del Terzo Settore nel sistema
della cooperazione allo sviluppo,
riconoscere la ricchezza e la pluralità del mondo della
cooperazione non-governativa,
coinvolgere in maniera significativa e protagonistica le
comunità di immigrati nel nostro Paese.
Elisa Bacciotti (AOI) torna, nella relazione, su alcuni punti di
valutazione e bilancio della riforma:
il rilievo conferito alla nomina di un vice-ministro dedicato con
delega nella persona di Pistelli,
l’importanza rappresentata dall’inversione di tendenza in merito
allo stanziamento dei fondi,
l’impegno del Governo in merito ai fondi stanziati per la lotta
alla povertà ed alle pandemie,
l’incremento dei fondi disponibili, attestatisi su 181 milioni euro
più 60 milioni euro nel fondo di rotazione fino al 2016 che
consente, almeno, l’impostazione di una programmazione di
medio periodo,
l’attivazione di alcuni strumenti legislativi per la
programmazione degli interventi di sviluppo, tra cui il ritorno
dell’Italia nel Fondo Globale per la Lotta ad AIDS, TBC e
malaria (100 milioni di euro).
3.
Seguono, nello svolgimento dei lavori del convegno, alcuni interventi
programmati, tra cui quello di Giulio Marcon, deputato indipendente di
SEL, uno dei pochi a ricordare le criticità del progetto:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
2.
3.
Luca De Fraia (CINI) si sofferma, nella relazione, sulle risorse e il profilo
dell’intervento di riforma. Il tema all’ordine del giorno per il 2014 è
quello della qualità, della effettività e della efficacia della cooperazione
internazionale allo sviluppo, soprattutto intorno alle seguenti tre aree di
priorità:
1.
2.
3.
il ruolo del settore privato – complessivamente inteso –
nell’azione di sistema per la cooperazione,
il ruolo delle risorse domestiche nel quadro degli stanziamenti
complessivi per la cooperazione,
il ruolo dei Paesi del Nord del mondo e quello della
cooperazione internazionale Sud – Sud.
Il “rischio”, che può essere declinato tanto “in positivo” quanto “in
negativo”, è quello di una nuova narrazione della cooperazione
internazionale allo sviluppo, lontana da quella degli ultimi trent’anni.
Vi sono certamente, a tal proposito, alcuni temi prioritari, la cui
importanza si impone all’attualità:
a) la scelta di puntare sull’ownership, come bussola della cooperazione
internazionale di natura non governativa, nel senso che i progetti devono
nascere e vivere eminentemente nelle comunità-target,
b) la richiesta di rafforzare le buone pratiche del settore, sia nell’ambito
delle azioni, sia nel quadro della interlocuzione strutturata tra istituzioni
politiche e società civile impegnate nella cooperazione,
c) ’appello a non perdere di vista l’anno-chiave 2014, sia come anno di
implementazione, sia come anno di transizione, ed impegnare il semestre
6
l’assenza del fondo unico della cooperazione,
l’eccessiva dipendenza della filiera dal MAE,
l’enfatizzazione del mondo del privato profit,
la scomparsa del volontariato internazionale,
l’ambiguità tra cooperazione civile e militare,
l’incertezza tra sviluppo ed interventi militari,
il profilo complessivo assai opaco e deludente.
Francesco Petrelli, portavoce di Concord Italia, inaugura la seconda
sessione della conferenza con il:
1.
Tutto ciò viene rappresentato, nella relazione, come inversione di tendenza
significativa, sia perché attesta la ripresa di attenzione politica, sia perché
apre opportunità di miglioramento degli strumenti.
invita a “consolidare il consolidamento” in corso dal 2012,
anche attraverso gli impegni previsti con il “decreto missioni”,
ed a rafforzare l’interlocuzione tra la società civile e i gruppi
parlamentari;
richiama all’impegno del sistema-Paese nel contesto del
semestre europeo di presidenza italiana sia sull’impatto della
cooperazione italiana allo sviluppo sia sulle opportunità offerte
da EXPO 2015;
sollecita a non “perdere l’occasione” della approvazione di
“questa” legge di riforma del settore della cooperazione, che
giunge alla fine di un percorso lungo e “rischia” di essere
l’ultima occasione.
ripensare la cornice delle politiche, degli interventi e degli
strumenti,
cogliere l’occasione del semestre europeo sui temi della
cooperazione e della immigrazione,
guardare alla nuova Agenda per lo Sviluppo che farà seguito ai
MDG nella fase post-2015.
Giorgio Tonini, senatore PD e relatore sulla legge di riforma della
cooperazione internazionale allo sviluppo, ricorda come l’iniziativa
legislativa da parte del Governo fa seguito alla presentazione del disegno
di legge Tonini-Mantica di riforma del settore, che a propria volta aveva
ripreso il lavoro sviluppato dal Parlamento nel corso della precedente
legislatura, a sua volta ancora erede della proposta congiunta ProdiD’Alema-Sentinelli all’epoca del governo Prodi. Ciò comporta l’esigenza
di articolare una riflessione complessiva, sul metodo e sul merito. Quanto
al profilo “di metodo” si richiede capacità di ascolto nel lavoro
parlamentare e concretezza per centrare l’obiettivo di una vera e propria
riforma di sistema pur con tutte le modifiche da apportare. Quanto al
profilo “di merito”, vi sono almeno alcune correzioni, oltre alle altre che si
aggiungeranno, da apportare al testo di riforma:
a) l’introduzione della figura di vice-ministro dedicato rappresenta una
facoltà e non una prescrizione,
b) l’assenza del fondo unico per la cooperazione impone di garantire la
continuità dei finanziamenti,
c) il rapporto tra l’Agenzia e la DGCS va precisato (l’Agenzia è una figura
tecnica, non diplomatica).
Egizia Petroccione, portavoce CINI, nel suo intervento sottolinea
l’importanza dell’iniziativa del governo, al netto, sebbene “molte
richieste” del mondo-cooperazione siano accolte, delle modifiche:
1.
la figura del vice-ministro dedicato va istituita e garantita in
2.
3.
forza di legge e non in via facoltativa,
il fondo unico va reso stabile per non disperdere l’elaborazione
per la c.d. coerenza delle politiche,
l’Agenzia dev’essere una struttura tecnica, trasparente e
competente, non un doppione della DGCS.
Al di là dei temi trattati da queste relazioni, va detto, tuttavia, che uno dei
punti più clamorosamente deludenti della proposta di riforma è quello
della sostanziale equiparazione tra mondo non-profit e mondo profit
nell’attività di cooperazione e partenariato internazionale allo sviluppo. È
necessario almeno chiarire a quali condizioni il privato profit possa
accedere ai fondi della cooperazione e, sebbene vari attori non-profit della
cooperazione guardino con favore all’ingresso del mondo del profitto
nella cooperazione, è più che mai opportuno distinguere tra cooperazione
(tesa alla costruzione di partenariati internazionali per lo sviluppo locale e
la sicurezza umana) e internazionalizzazione (tesa alle esigenze di profitto,
all’apertura di nuovi mercati e alle istanze di business del sistema di
impresa).
Nino Sergi (LINK 2007), nel suo intervento richiama all’esigenza di
ulteriori migliorie da apportare:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
nella proposta governativa di riforma, “legge quadro” diventa
“disciplina generale”,
il vice-ministro dedicato va istituto in forza di legge e non in via
facoltativa,
è necessario lavorare per superare ogni minaccia di
compromesso al ribasso tra burocrazie,
l’Agenzia deve essere dotata di piena autonomia funzionale,
gestionale e di bilancio,
l’Agenzia deve essere sottratta alla subalternità alla DGCS, che
è invece “luogo” politico,
la cooperazione va resa sempre meno assistenzialistica e sempre
più capace di impatto,
la cooperazione, infine, va centrata sul partenariato
internazionale e dotata di continuità.
Nelle sue conclusioni Emilio Ciarlo, consigliere politico del vice-ministro
Lapo Pistelli, ricorda che:
a) tra “legge quadro” e “disciplina generale” non vi è una differenza
sostanziale, dal momento che la denominazione di “legge quadro” viene
adottata per gli interventi normativi destinati a sancire il “quadro di
riferimento” per la legiferazione delegata e derivata ad opera delle Regioni
e gli EE. LL.,
b) l’introduzione, sebbene non vincolante, della figura del vice-ministro
dedicato con delega ad hoc rappresenta elemento di ricaduta significativo
perché concorre a garantire la coerenza dell’impegno istituzionale sul
tema anche se di per sé non può porsi come garanzia della coerenza delle
politiche,
c) la coerenza delle politiche, a sua volta, viene intercettata dal disegno
di legge di riforma, sia perché le politiche di settore vengono indicate dal
testo di legge, sia perché è istituito un comitato inter-ministeriale (CICS)
con compiti di co-definizione strategica tra tutti i ministeri interessati,
d) l’istituzione del fondo unico per la cooperazione, per quanto non
prevista all’interno del testo di riforma, risulterebbe un elemento
problematico, dal momento che la ripartizione degli stanziamenti
riporterebbe il lavoro dell’ istituendo CICS sotto la Presidenza del
Consiglio e quindi lo sottrarrebbe di fatto alla lettura parlamentare, contro
lo spirito partecipativo e democratico proposto dalla legge,
e) il CICS mantiene la facoltà di proporre le modalità di assegnazione
delle risorse previste per la cooperazione internazionale allo sviluppo
attraverso i riparti di spesa (cosiddetta coerenza di prassi),
f) l’Agenzia deve essere resa autonoma sia sotto il profilo gestionale sia
sotto il profilo di bilancio, mantenendo comunque un legame forte con la
DGCS pur nella rispettiva specificità (essendo la DGCS deputata
all’elaborazione delle politiche, l’Agenzia deputata alla direzione della
cooperazione),
7
g) la partecipazione degli stakeholder a tutto il processo di definizione
della cooperazione allo sviluppo e per articolare la filiera va reso, col
dialogo strutturato, elemento-chiave della governance.
In conclusione, il punto debole, che inficia di prospettiva questa riforma
della cooperazione, è quello della articolazione di questa governance, non
solo per la sostanziale mancanza della messa a coerenza delle politiche
(non c’è alcun collegamento, oggi decisivo, tra impegno per la
cooperazione allo sviluppo ed impegno per il lavoro di pace e per la
risoluzione pacifica e negoziata delle crisi e dei conflitti, talvolta nelle
medesime aree-obiettivo interessate alla realizzazione della cooperazione
e dei partenariati), ma anche per la confusione che si determina tra i vari
comparti di politica internazionale.
Se l’ottica di sistema della proiezione internazionale del Paese attraverso i
suoi quattro pilastri (cultura, italiani nel mondo, cooperazione e
internazionalizzazione) non può che prevederne una adeguata “messa a
valore” e “messa a sistema”, valorizzando e rafforzando la specificità e il
valore aggiunto di ciascuno, la vigenza di una logica assistenzialistica
della cooperazione e la sostanziale legittimazione della “invasione di
campo” dell’internazionalizzazione all’interno della cooperazione, con un
ruolo di primo piano riconosciuto alla logica profit e al mondo di impresa,
facendo perfino scomparire il ruolo del volontariato internazionale e lo
specifico della solidarietà internazionale, rappresentano elementi negativi,
che l’iter parlamentare può senza dubbio intercettare e correggere, ma sui
quali sarebbe necessario un di più di approfondimento e di consapevolezza
anche da parte del mondo della cooperazione allo sviluppo nongovernativa. Dove sono finiti la prospettiva, la visione, l’orizzonte di
senso del fare cooperazione internazionale? Perché ancora una così
martellante insistenza sulla logica dell’aiuto più che su quella del
partenariato, della rete, del rapporto pari tra soggetti, comunità, territori?
Che fine ha fatto la “problematizzazione” della categoria medesima dello
“sviluppo”, qui invece acriticamente assunta come tema-guida, lemmasenso, “stella polare”?
Com’è stato già ricordato, c’è molto da rivedere, e non nel senso per il
quale spinge questo Governo: non nel senso, cioè, della cooperazione fatta
dai privati, per esigenze di immagine e a tutela dei profitti, “a servizio”
della politica del Governo e degli interessi del business, coinvolgendo
persino, sempre più, i militari nella gestione delle crisi e delle emergenze.
Com’è noto, la cooperazione inter-nazionale è una scelta politica e, allora,
tanto meglio non lasciarla nelle mani di burocrati e di tecnocrati. Se poi
questo dev’essere il nuovo volto della cooperazione, tanto vale saltare
questo giro.
***
Gianmarco Pisa (RESeT: Ricerca su Economia, Società, Territorio:
www.resetricerca.org/scaffale/4-tutte-le-sezioni/5-volontariato-e-terzosettore)
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link: http://serenoregis.org/2014/02/06/cooperazione-tra-pretese-delle-burocrazie-eprimato-del-profitto-il-rischio-dellennesima-occasione-perduta-gianmarco-pisa/
Politica e democrazia
Assalto alle Camere del Lavoro (di Giuseppe
Casarrubea)
Il 25 febbraio proseguirà il processo per diffamazione contro Giuseppe
Sciortino, accusato di avere divulgato, di fronte a un’emittente televisiva
locale, informazioni diffamatorie contro i caduti della Camera del Lavoro
di Partinico, a seguito della strage del 22 giugno 1947 organizzata, stando
ai giudici di Viterbo e ai vari testimoni che ne avevano parlato, da
Pasquale “Pino” Sciortino, padre del denunciato.
(fonte: Newsletter di Giuseppe Casarrubea)
link: http://casarrubea.wordpress.com/2014/02/06/assalto-alle-camere-del-lavoro/
Questione di genere
Il Belpaese e la violenza: molestie (di Maria G. Di
Rienzo)
La violenza contro le donne, in Italia… non è un problema – non esiste,
sono le donne ad essere violente – c’è, ma perché se la vanno a cercare – è
una bolla mediatica – è colpa del femminismo. Queste le “opinioni” che
gli italiani condividono serenamente, protetti dall’anonimato del web o dal
consenso sociale purchessia. E’ la dimostrazione pratica che la violenza
contro le donne, in Italia, è diffusa al punto da non essere nemmeno
riconosciuta come tale.
Prendiamo la storia del molestatore appena arrestato all’estero per i reati
compiuti in quel di Bologna. I commentatori della notizia, da bravi
razzisti, “non sorpresi che sia rumeno”, ci invitano a “capire che da certe
culture e società non viene nulla di buono”, ma sono tuttavia comprensivi
riguardo alle violenze che vengono contestate all’imputato:
“Molestatore, violentatore… manca il senso della misura.”
“Bisogna stare attenti a non esagerare perché persino i complimenti ormai
sono molestie.”
“Non sarebbe meglio usare i soldi dei cittadini per perseguire e punire i
reati seri?”
“Impariamo a gestire i termini che sono importanti! Una violenza rovina
la vita di una donna, una palpata per quanto fastidiosa ci si può mettere
una pietra sopra…”
Ecco, impariamo a gestire i termini – sono davvero importanti. La palpata
è una violenza, è un’imposizione di volontà su un altro essere umano che
implica la non signoria sul proprio corpo da parte di chi la riceve: le
donne, infatti, nonostante quel che i media ripetono ad oltranza sbavando
sul lato B di Tizia e sulla scollatura di Sempronia, non sono deretani e seni
ambulanti di proprietà della cittadinanza maschile. E non esistono per
permettere a qualcuno di passare il tempo per strada commentando il loro
aspetto, fischiando loro dietro, ordinando loro di rispondere – sorridere –
girarsi eccetera e, quando non obbediscono o reagiscono, insultandole
ferocemente.
“Ecco, ecco la femminista bacchettona! Adesso non posso più nemmeno
trovare una attraente?” E’ normale che gli esseri umani si trovino
reciprocamente attraenti. La differenza sta nelle azioni che si decide di
intraprendere al proposito. Segnalare a una donna che non è un essere
umano completo e degno del nostro rispetto, ma un culo su cui possiamo
posare una mano, un paio di tette su cui è nostro diritto sbavare, un paio di
jeans o una gonna a cui ovviamente fischiamo dietro, un attrezzo per
l’appagamento dei nostri impulsi, e far sapere questo a tutto il mondo,
schiamazzando e dandosi di gomito con gli amici, voi potete chiamarli
“complimenti”, ma restano violenze.
In tutti i sondaggi e gli studi che ho letto, ma anche solo facendo
riferimento alle testimonianze delle donne che conosco (sì, sono tante),
questi sono i sentimenti che provocate nella persona a cui avete notificato
quant’è per voi “attraente”: nervosismo, rabbia, disgusto, noia, paura e
persino terrore/panico (provati in maggioranza da donne con alle spalle
altri episodi di violenza subita). Ditemi, quando ricevete un
“complimento” è così che vi sentite? Date un’occhiata più onesta alle
vostre azioni e alle loro conseguenze, ascoltate che ne pensano le persone
cui sono dirette:
“Mi hanno fischiato dietro e detto di girarmi perché ero bella, ma visto che
non ho risposto mi hanno gridato puttana, brutta stronza e troia.” Entro
trenta secondi dall’averle fatto sapere che era “attraente”. E, incredibile,
non vi sta correndo dietro implorandovi di venire a letto con voi.
“Ho cercato di ignorare le molestie, ma oggi sono scoppiata a piangere in
pubblico.” Che strano, l’avete simbolicamente ridotta a scarti di
macelleria (natica-seno-coscia) e non vi sta chiedendo di venire a letto con
voi!
“Eeeh, sei così carina, tieni su la testa! Guardami! Rispondi!” Dai la
zampa! Bravo, bravo cagnolino, eccoti il biscotto. Chissà perché, anche
questa non si rotola per terra supplicando di venire a letto con voi. Forse
teme che poi la scaricherete in un canile.
8
“Mi sono sentita terribilmente imbarazzata, anche se era lui a doversi
vergognare. Le cose che mi ha detto in pubblico erano così disgustose che
non riesco a ripeterle.” Pazzesco, avete sfoggiato una delle vostre migliori
performance di pornografia verbale e lei non si eccita! Dev’esserci
qualcosa che non va, in questa donna, se non sta piangendo per venire a
letto con voi.
“Stavo abbracciando la mia amica appena scesa dal treno e questo mi fa: E
dai, abbraccia anche me, ti piacerà di più, vedrai. Ce ne siamo andate in
fretta, ma lui ha continuato a borbottare alle nostre spalle sino a che non
siamo uscite dalla stazione: lesbiche schifose, avete bisogno di uccello,
troiette…” Avete invaso uno spazio personale in modo insultante e
minaccioso, pensando che quel che avete negli slip sia un dono di dio
all’universo e legittimi qualsiasi vostra azione: e ancora queste non
vogliono venire a letto con voi, chissà perché.
“Non solo mi ha messo la mano sul didietro, ma ci parlava. Capisci,
parlava direttamente al mio culo, non con me.” Ora, cercate di seguirmi:
nella vostra mente malata potete ridurre una donna a due glutei, ma lei non
può smontarli dalla parte finale della schiena e lasciare che voi facciate
con essi più ampia conoscenza. Il suo corpo è un intero e le appartiene. Il
suo corpo non esiste per il vostro sollazzo. Disumanizzata sino a diventare
due chiappe, la donna prova per voi ribrezzo e timore. Non meravigliatevi
così tanto se venire a letto con voi è l’ultima cosa che le passa per la testa.
E no, non basta che lei sia attraente per voi: in assenza di reciprocità, la
vosta attrazione dovete ficcarvela in tasca, assieme ai vostri
“complimenti” del menga.
Maria G. Di Rienzo
(fonte: LunaNuvola's Blog - il blog di Maria G. Di Rienzo)
link: http://lunanuvola.wordpress.com/2014/01/31/il-belpaese-e-la-violenza/
Resistenze al nazi-fascismo
Il magazzino 18 di Simone Cristicchi (di Claudia
Cernigoi)
Quattro anni fa l’editrice Mursia ha pubblicato un libro dal titolo “Ci
chiamavano fascisti. Eravamo italiani”, scritto dal giornalista Jan Bernas
(oggi portavoce del vice presidente vicario del parlamento europeo Gianni
Pittella (PD), figlio dell’ex parlamentare socialista Domenico Pittella che
nel 1992 si era candidato nella Lega delle Leghe di Stefano Delle Chiaie.
Il libro non riporta nulla di nuovo dal punto di vista storiografico (risulta
dalla stessa sinossi del testo che “Questo non è e non vuole essere un libro
di storia” (http://www.forumforpages.com/facebook/esodo-istriano-pernon-dimenticare/ci-chiamavano-fascisti-eravamo-italiani-il-nuovo-librodi-jan-bernas/847529688/0 ): oltre ad alcune testimonianze di esuli istriani
e di “rimasti”, si limita a ripetere cose già pubblicate più volte (e spesso
anche più volte smentite in base a documentazione ufficiale),
ciononostante, pur non essendo un’opera innovativa, è corredata da una
prefazione di Walter Veltroni (curiosamente, nel sito di Bernas e nella nota
biografica inserita nella pubblicazione curata dal Teatro Rossetti di Trieste
compare anche una “postfazione di Gianfranco Fini”, che però non risulta
pubblicata nel libro messo in commercio). Il libro è stato presentato per la
prima volta a Roma in modo bipartisan da Luciano Violante e Fabio
Rampelli, allora deputato del PDL (oggi in Fratelli d’Italia), anche se nella
nota di cui sopra si legge che sarebbe stato Roberto Menia a presentarlo.
Ed è a questo libro che dice di essersi ispirato il cantautore Simone
Cristicchi per il suo spettacolo Magazzino 18 (Bernas infatti risulta
coautore del testo teatrale): lo avrebbe comprato dopo averlo visto “per
caso” in una libreria, incuriosito dal titolo. In seguito Cristicchi sarebbe
venuto a Trieste dove Piero Delbello (direttore dell’IRCI Istituto
Regionale Cultura Istriano-giuliano-dalmata) lo avrebbe accompagnato al
Porto vecchio a prendere visione delle masserizie degli esuli istriani
ancora conservate al Magazzino n. 18. Di questa visita Cristicchi usa dire
che trovarsi in quel magazzino pieno di mobili e di altri oggetti è un po’
come visitare Auschwitz (paragone che ci sembra offensivo nei confronti
delle vittime di Auschwitz, dato che gli oggetti trovati nei magazzini di
quel lager erano stati rubati agli internati che poi furono uccisi, mentre qui
si tratta di cose abbandonate dai loro proprietari, che hanno abbandonato
le proprie città, ma non furono assassinati), ed ha quindi deciso di mettere
in scena la “tragedia degli esuli”, perché, a suo parere, è stata finora
ignorata.
Va ribadito a questo punto che a Trieste della questione dell’esodo istriano
si è sempre parlato, ed a livello nazionale è quantomeno da vent’anni,
dalla dissoluzione della Jugoslavia, che sentiamo ribadire la necessità di
parlare di questa tragedia “finora ignorata” ogniqualvolta viene pubblicato
un libro o un articolo, quando esce un film, e nel corso delle celebrazioni e
commemorazioni indette nel Giorno del ricordo (10 febbraio).
In realtà la legge istitutiva del Giorno del ricordo (n. 92/2004) contempla
che in questa occasione vadano approfondite, oltre alla questione
dell’esodo e delle foibe, “le più complesse vicende del confine orientale”;
e la lettura completa della norma ha creato, e crea tuttora, svariate
polemiche sul come raccontare la storia di queste vicende, dato che le
associazioni degli esuli hanno ritenuto di dover avere il monopolio delle
commemorazioni e pertanto di imporre ad enti ed istituzioni varie di non
far parlare relatori non omologati alla loro interpretazione della storia.
In questo panorama si è inserito ora anche Cristicchi, considerato da
alcuni un autore “impegnato” per certi suoi spettacoli sulla malattia
mentale, sui minatori e sulla guerra. Senza entrare nel merito degli altri
suoi lavori parliamo di Magazzino 18, del quale l’autore spiega che “la
cosa più complicata è stata raccontare la situazione storica. Il rischio era
ovviamente quello di annoiare e quindi abbiamo sintetizzato un arco di
tempo di quarant’anni in cinque minuti di orologio. Anche da qui sono
nate diverse critiche, perché sono stato accusato di aver dimenticato, o
addirittura omesso di dire certe cose: io non ho omesso niente, ho solo
avuto rispetto di un pubblico che viene a teatro, non ad ascoltare una
conferenza, ma a emozionarsi, a provare rabbia, a ridere. Lo spettacolo
vuole essere anche uno spunto per incuriosire la gente ad approfondire
questa storia. Di certo non volevo fare lo storico”.
Cristicchi dunque “non voleva fare lo storico”, ma “emozionare”: intento
rispettabilissimo, se solo l’avesse rispettato e non avesse dato in quei
“cinque minuti” (che nei fatti si sono però dilatati in tutto lo spettacolo)
una lettura storica del tutto falsata, dato che non si è basato su testi storici
ma ha riprodotto pedissequamente i vecchi testi di propaganda
nazionalista inframmezzati da qualche appunto “antifascista”,
probabilmente per apparire bipartisan, coerentemente con la promozione
del testo di Bernas. E va detto subito che nella narrazione non viene
rispettata la cronologia dei fatti e spesso non è inquadrata correttamente la
sequenzialità delle vicende, il che sicuramente non aiuta lo spettatore a
chiarirsi le idee su quello che è accaduto.
Nello spettacolo Cristicchi impersona un archivista un po’ burino, Duilio
Persichetti, che alla stregua di un Dante Alighieri de noantri si fa
accompagnare alla scoperta della storia non da un poeta come Virigilio,
ma da un oscuro “spirito delle masserizie” che gli appare nel deposito dei
mobili abbandonati dagli esuli giuliano dalmati. E questo Spirito, lungi dal
fornirgli dati storici, sembra il portavoce dell’antica agenzia Stefani che
lavorava sotto il fascismo (o forse si ispira semplicemente al testo di
Bernas, dal quale cita abbondantemente).
“Un’intera regione svuotata della propria essenza. Gente costretta a
lasciare la sua terra non per la fame o per la voglia di migliorare la propria
condizione, ma perché non si può vivere senza essere italiani”, declama lo
Spirito, non considerando che l’Istria non era esclusivamente italiana, ma
una regione popolata anche da sloveni, croati ed istrorumeni, e l’essenza
istriana, se vogliamo mantenere questa definizione, è data dalla
commistione di queste etnie, non dalla presenza dei soli italiani, molti dei
quali peraltro rimasero in Istria, restando italiani, come dimostra il fatto
che ancora oggi la comunità italiana in Slovenia e Croazia è viva e vitale.
Perché in Jugoslavia gli italiani potevano mantenere la propria nazionalità
italiana, a condizione di acquisire la cittadinanza jugoslava (ed i cittadini
jugoslavi di nazionalità italiana hanno da subito avuto il diritto alle scuole
con insegnamento nella madre lingua, a finanziamenti per circoli culturali
ed editoria, al bilinguismo nei rapporti con le istituzioni, fino ai seggi
garantiti nei parlamenti locali: molto di più di quanto abbiano mai visto le
comunità minoritarie in Italia); mentre nel caso in cui non volessero
9
rinunciare alla cittadinanza italiana, il Trattato di pace prevedeva che, in
quanto “optanti”, lasciassero la Jugoslavia per andare in Italia. Nessuna
“pulizia etnica” (con buona pace del Presidente Napolitano, che con tutto
il rispetto, non è un esperto di storia), dunque, ma una banalissima
questione di diritto internazionale.
E che non vi fosse un clima di terrore nei confronti degli italiani è
dimostrato dalle stesse parole dello Spirito, quando parla di “un’emorragia
durata dieci anni”. Per fare un paragone, i tedeschi dei Sudeti dovettero
lasciare le proprie case dalla sera alla mattina, senza poter portare via
nulla, mentre se gli istriani poterono portare via “persino le bare dei propri
cari” e riempire delle proprie masserizie, poi non ritirate, il Magazzino 18,
si può ben comprendere la diversità dei due eventi. Infine un altro
appunto: lo Spirito dice che “se ne andarono in trecentomila”, ma va
precisato che nel 1958 l’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e
dalmati pubblicò una sorta di censimento dal quale appare che i “profughi
legalmente riconosciuti” erano 190.905 (i numeri poi furono fatti lievitare
con operazioni di conteggio quantomeno discutibili, ma su questo vi
rinviamo ai titoli in bibliografia).
Quando poi lo Spirito si mette a raccontare (nei famosi cinque minuti) la
storia del confine orientale, sembra essersi ispirato a qualche filmino
dell’Istituto Luce: “quei luoghi settant’anni fa erano Italia, anche le pietre
parlano italiano”, ma non dice che quei luoghi diventarono italiani meno
di cento anni fa, e lo rimasero per una ventina d’anni, dopo la vittoria
italiana nella prima guerra mondiale. “Il tricolore viene issato “non solo a
Trento, a Gorizia e Trieste, ma anche a Zara, Pola, nell’Istria e nelle isole
del Quarnaro; ed alla fine “anche Fiume qualche anno dopo si ricongiunge
all’Italia”: che ciò sia avvenuto in barba al Trattato di Rapallo e con un
colpo di mano, questo lo Spirito non lo ricorda. Non ce n’era il tempo? O
perché non era intenzione di Cristicchi di parlare di storia?
Così il “processo di riunificazione si conclude, ma per poco, perché
vent’anni dopo il Fascismo (maiuscolo? n.d.r.) “sfalda il delicato
equilibrio”: ma lo Spirito non spiega che l’Italia fissò il proprio confine
orientale ben oltre a quelli che potevano essere considerati “luoghi dove le
pietre parlavano italiano”, come Postumia, Tolmino, Villa del Nevoso (per
usare i nomi italianizzati dallo Stato vincitore). Del resto, se Cristicchi più
di una volta ha affermato che “un tempo l’Istria si chiamava Italia ed ora
si chiama Slovenia e Croazia”, non ci si può aspettare che conosca la
geografia, ma dà l’impressione che si sia limitato a ripetere gli slogan
della propaganda nazionalista ed irredentista. Per “emozionare”,
certamente. E va da sé che l’emozione, non essendo di per se stessa
razionale, non ha bisogno di considerare la realtà dei fatti.
Segue una carrellata, piuttosto confusa, che vorrebbe spiegare come il
fascismo (noi lo scriviamo minuscolo, signor Spirito delle masserizie), si
rese colpevole di violenze antislave (vengono citati l’incendio del Narodni
Dom del 1920, il cambiamento forzato dei cognomi e dei toponimi,
l’impedimento di parlare nella propria lingua, l’invasione della Jugoslavia
nel 1941, i campi di internamento per civili) e da ciò si arriva alla
conclusione che gli “slavi”, di fronte a questo fecero l’equazione “italiano
= fascista”. Altra mistificazione che serve a creare uno stato emozionale e
non razionale, mistificazione diffusa dalla propaganda antijugoslava e non
corrispondente al vero, perché l’Esercito di liberazione jugoslavo, così
come i militanti antifascisti del Fronte di liberazione (Osvobodilna fronta)
accoglievano nelle proprie file antifascisti di tutte le etnie, e le stesse
direttive emanate da Edvard Kardelj parlavano di “epurare non sulla base
della nazionalità ma del fascismo”.
In questo modo anche la lettura dello scritto di una bambina che era stata
internata ad Arbe serve come apripista per ribadire quell’interpretazione
fascista del fenomeno delle “foibe” che risale ancora al 1943, dopo gli
eventi istriani post-armistizio: sentiamo come lo Spirito delle masserizie
narra i fatti.
Dopo l’armistizio l’esercito italiano si sfalda, arrivano i nazisti e a Trieste
viene messo in funzione il lager della Risiera, ma non viene neppure
accennato a quante vittime costò il ripristino dell’“ordine” in Istria
nell’ottobre 1943, quando le truppe nazifasciste rivendicarono di avere
fatto dai diecimila ai tredicimila morti (così i comunicati ufficiali apparsi
sulla stampa dell’epoca). E poi, senza che si comprenda la conseguenza
temporale dei fatti: “i partigiani slavi agli ordini di Tito scendono dalle
montagne dell’interno dove sono accampati e di città in città di paese in
paese, di casa in casa arrivano e arrestano i nemici del popolo”.
Da questa descrizione un ignaro spettatore si fa l’idea che durante tutta la
guerra i partigiani sarebbero stati “accampati in montagna” (a non fare
niente, si suppone) in attesa di “scendere” (è interessante come certo tipo
di propaganda insista sul fatto che i comunisti, i partigiani, gli “slavi” non
arrivano mai normalmente da qualche parte, ma “scendono”, “calano”,
“dilagano” e via di seguito) nelle città a dare la caccia ai “nemici del
popolo” (termine questo usato dalla propaganda anticomunista perché
mutuato dalle epurazioni staliniane, ma non usato dai partigiani).
Mescolando assieme, senza contestualizzarli, i due momenti delle
esecuzioni sommarie, quello dell’Istria del settembre 1943 e quello degli
arresti del maggio 1945, lo Spirito ipotizza che potrebbe essersi trattato di
vendette verso i fascisti e di vecchi rancori; ma quando “cominciano a
sparire anche carabinieri, podestà, guardie forestali, farmacisti, maestri,
sacerdoti, impiegati statali”, i “processi sommari e le esecuzioni di massa
non risparmiano nemmeno cattolici, antifascisti e persino comunisti”, e ci
si mette a “colpire anche donne, maestri, postini, antifascisti, gente che
con la politica non c’entra niente”, allora si domanda: perché tutto questo?
Come al solito, quando l’intenzione non è di ricostruire fatti storici, ma di
“emozionare”, è facile, partendo da un presupposto sbagliato, arrivare a
dimostrare un fatto non vero. Perché innanzitutto bisogna dividere i due
eventi di cui abbiamo parlato: nell’Istria del 1943 ci furono sì delle
vendette sommarie contro i rappresentanti del fascismo (piccoli gerarchi,
in genere, non gli alti papaveri), ma fu infoibato un carabiniere solo,
nessun podestà, nessun farmacista (perché poi allo Spirito sono venuti in
mente proprio i farmacisti fra tutte le possibili categorie professionali,
forse perché la famiglia di Luigi Papo, il futuro rastrellatore del 2°
Reggimento MDT Istria, gestiva a Montona una farmacia che sotto il
fascismo veniva usata come luogo di interrogatorio di partigiani?),
sacerdoti uno (che sembra fosse un informatore dell’Ovra).
Poi va ricordato che ai quei tempi le guardie forestali erano militarizzate e
che gli “impiegati statali” erano in genere funzionari del fascio, così come
i maestri erano coloro che intimidivano i bambini per impedire loro di
parlare nella propria lingua, e che le donne potevano essere fasciste
esattamente come gli uomini, così come potevano essere ausiliarie nelle
forze armate. E se nel 1945 vi furono altre vendette personali, la maggior
parte dei morti si ebbero tra i militari internati nei campi (l’internamento
in campi lontani dal luogo di cattura era previsto dalle leggi di guerra, ed i
militari italiani furono internati anche in campi britannici e statunitensi,
dove le condizioni di vita non erano tanto migliori di quelle dei campi
jugoslavi), mentre furono arrestati coloro che erano stati segnalati come
criminali di guerra; gli antifascisti arrestati erano quei reparti del Corpo
volontari della libertà italiani che si erano opposti in armi all’esercito
jugoslavo (che era un esercito alleato: sarebbe accaduto lo stesso con il
CVL milanese se si fosse opposto agli statunitensi); infine, per quanto
riguarda i partigiani “comunisti”, va detto che vi furono anche un paio di
esecuzioni (avvenute durante il conflitto) sul motivo reale delle quali
d’altra parte non si è mai ricostruita la storia (ma fatti di questo genere
avvennero in tutti i corpi della Resistenza, non solo in Italia).
Tutta questa mistificazione (che dura da settant’anni) ha un preciso scopo,
che nel testo di Cristicchi (fatto per “emozionare”, ricordiamolo) viene
così spiegato: “forse perché gli italiani sono un ostacolo al Sogno
(maiuscolo? n.d.r.) di Tito di realizzare una sola grande regione e quindi
annettersi anche le zone a maggioranza italiana”, come Zara, l’Istria,
Fiume, Trieste per creare “una sola grande Jugoslavia”, dove la “lotta per
la liberazione dal nazifascismo giusta e sacrosanta” (bontà loro, n.d.r) qui
“sembra un mezzo per raggiungere l’obiettivo del confine all’Isonzo e
quella che nel resto d’Italia viene festeggiata come Liberazione qui prende
le sembianze di occupazione”.
Come abbiamo detto prima, per dimostrare una cosa inesistente (il “sogno
della grande Jugoslavia”) l’autore (Bernas? Cristicchi?) è partito da
presupposti falsi (l’eliminazione di chi non voleva la Jugoslavia), e riesce
in tal modo a diffondere dal palcoscenico dei teatri di tutta Italia (ma
anche dell’Istria) quelle teorie anti-jugoslave che fino a pochi anni fa
erano peculiarità della destra irredentista ma ora sembrano avere preso
piede anche in ambienti “antifascisti” e “di sinistra”.
E così arriviamo ad uno dei momenti più bassi (dal punto di vista artistico
e civile) dello spettacolo: quando Cristicchi si avvolge un fazzoletto rosso
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attorno al collo e declama “per realizzare il sogno della grande Jugoslavia
bisogna solo dare un calcio allo stivale” ed a questo punto parte il coro dei
bambini che cantano la canzone della foiba, “Dentro la buca” (“un colpo
alla nuca e giù nelle buca”, davvero delle parole adatte da far cantare a dei
ragazzini).
Viene poi data la parola ad un certo Domenico, “staffetta del Regio
Esercito”, si presenta, “praticamente un postino” (un militare in guerra
sarebbe un postino? se questa non è manipolazione, come la vogliamo
chiamare?), che sarebbe stato infoibato ancora vivo assieme a tantissimi
altri, recuperato da una foiba… no, non lo sa da che foiba sarebbe stato
recuperato perché ce ne sono 1.700 in Istria (i recuperi verbalizzati si
riferiscono a molte meno foibe, lo diciamo per tranquillizzare gli
spettatori: il maresciallo dei Vigili del fuoco di Pola, Arnaldo Harzarich,
dichiarò agli Alleati di avere esplorato dieci foibe istriane tra l’autunno e
l’inverno 1943-44, dalle quali furono estratte 204 salme ed indicò altre
cinque foibe dalle quali non fu possibile effettuare recuperi). Come
Domenico sarebbero stati infoibati Luigi, Tonin, Giovanni, Norma… e qui
parte la storia di Norma Cossetto, con le consuete falsità che vi sono state
ricamate attorno negli anni, in base ad una inesistente testimonianza di una
donna, mai identificata, che avrebbe assistito alle violenze.
Nomi e cognomi degli scomparsi stanno scritti ci spiega Persichetti (che
non ha detto i cognomi degli infoibati chiamati per nome, né nell’elencare
le categorie degli uccisi ha fatto nomi: perché è uso consolidato, quando si
parla di questi argomenti di generalizzare, e teniamo a mente che non è
scopo di Cristicchi, come non lo era di Bernas, “fare storia”), per poi
contraddirsi dicendo che non si saprà mai quanta gente è sparita in questo
modo; si parla genericamente di persone “uccise in tempo di pace”
termine che può significare tutto e niente, perché le vendette personali
proseguirono per anni in tutta Europa, così come le condanne a morte
eseguite dopo i processi ai criminali di guerra furono fatte “in tempo di
pace”, basti pensare a Norimberga. Viene citata a questo punto la
dichiarazione fatta da Milovan Gilas in un’intervista, pochi anni prima di
morire, di essere stato incaricato assieme a Kardelj di andare in Istria per
mandare via gli italiani con ogni mezzo. Considerando che Gilas era
diventato “dissidente” già negli anni ’50, tale affermazione, fatta a tanti
anni di distanza, lascia il tempo che trova, innanzitutto perché non ha
alcun riscontro documentale, e poi perché il governo jugoslavo riconobbe
alla comunità italiana tutte quelle garanzie che abbiamo descritto in
precedenza.
Poi si parla della strage di Vergarolla del 18/8/46 (della quale non vi è
alcuna prova che si sia trattato di un attentato e tanto meno di un attentato
organizzato per “terrorizzare” gli italiani), come motivo per cui quel
giorno “la maggioranza degli italiani che abitava a Pola scelse come
l’unica via l’esodo”. Però noi leggiamo sulla Voce del popolo del 5/4/08
che tre settimane prima della strage il CLN di Pola “aveva raccolto 9.496
dichiarazioni familiari scritte, per conto di 28.058 abitanti su un totale di
31.000, di voler abbandonare la città se questa dovesse venir assegnata
alla Jugoslavia”: il che dovrebbe dimostrare che “l’esodo” era già stato
deciso prima della tragedia.
Interessante il punto in cui si sente dire che “tutta l’Istria è occupata dai
titini” già prima della firma del Trattato di pace “firmato dai potenti della
Terra” (togliendo l’emozione, più prosaicamente, si trattava delle potenze
che si erano alleate contro la guerra scatenata dall’Asse, Germania, Italia,
Giappone) che “consegna alla Jugoslavia un’intera regione italiana”, come
“prezzo che l’Italia deve pagare per essere uscita sconfitta dalla seconda
guerra mondiale”. Una riflessione sul fatto che l’Italia avrebbe anche
potuto non dichiarare guerra al mondo intero assieme al suo alleato
tedesco? Naturalmente no, perché non è di queste emozioni che si occupa
uno Spirito delle masserizie.
Ed ancora notiamo come si parli sempre di “titini” e non di Esercito
jugoslavo: sentiamo mai parlare di “churchilliani” a proposito dei
britannici o di “hitleriani” a proposito dei nazisti? È tanto difficile
riconoscere alla Jugoslavia di essere stata uno dei Paesi alleati nella lotta
contro il nazifascismo? Certamente, perché se le si riconoscesse questo
ruolo si dovrebbe anche riconoscere che l’Esercito jugoslavo aveva il
diritto e l’autorità di fare prigionieri i militari nemici e di arrestare i
presunti criminali di guerra per sottoporli a processo, così come fecero gli
eserciti delle altre nazioni alleate. E quindi crollerebbe anche tutta la
costruzione dei crimini jugoslavi rivolti contro gli innocenti italiani.
Altro punto interessante è che il diritto di conquista militare viene
riconosciuto per l’Italia che aveva annesso i territori occupati militarmente
dopo la prima guerra mondiale, anche quelli dove non vivevano italiani;
mentre lo stesso discorso non sembra valere per la Jugoslavia, che anzi a
seguito del Trattato di pace rinuncerà a zone che aveva conquistato
militarmente.
Persichetti poi parla della partenza dall’Istria e della miseria dei campi
profughi: “pensi che voleva di’ passà da una casa magari co vista mare…
ad un casermone di cemento armato in periferia o a un ex campo di
concentramento!”, dice al suo superiore romano. I campi profughi non
sono mai piacevoli, è vero, è così è una tragedia quella della bambina
morta di freddo nel comprensorio di Padriciano, ma si rende conto il
narratore di quanti italiani in Italia, nell’immediato dopoguerra, avrebbero
fatto firme false per avere un appartamento in un “casermone di cemento
armato in periferia” invece di continuare a vivere nelle baracche o negli
appartamenti privi di servizi igienici che erano la norma e non l’eccezione
a quei tempi? Non tutti gli esuli istriani abbandonarono la “casa con vista
mare” (ed anche questa spesso era un appartamentino privo di tutto) ma
provenivano da condizioni di vita di miseria, come la maggior parte della
popolazione d’Europa prima del boom economico e dopo essere uscita da
una guerra disastrosa.
Si passa poi all’elenco di una serie di esuli “diventati famosi”, tra cui
Alida Valli (che però viveva a Roma già prima della guerra, dato che
Cinecittà si trovava lì e non a Pola, ma questo particolare evidentemente è
sfuggito agli autori); una canzoncina è dedicata ai “rimasti”, descritti
come disprezzati da tutti, ma alla fine “ancora italiani” com’erano sempre
stati (altra contraddizione che non pare preoccupare gli autori: se vi furono
dei “rimasti” e “rimasti italiani” vuol dire che non si era “svuotata una
regione intera”, che non si aveva paura di parlare italiano, che non c’era
alcuna manovra politica per far andare via gli italiani dall’Istria).
Alla fine arriviamo all’altro momento bassissimo dello spettacolo, quando
Persichetti, dirigendo il coro dei bambini, prende in giro gli operai che da
Monfalcone si erano recati in Jugoslavia per dare una mano a ricostruire le
infrastrutture distrutte durante la guerra e per partecipare alla realizzazione
di una società socialista dopo vent’anni di fascismo. Alcuni di essi
rimasero vittime dello scontro tra Tito e Stalin, quando molti filosovietici
(che erano però per la maggior parte jugoslavi, e molti dei quali avevano
commesso omicidi ed attentati contro il proprio governo) furono internati
nell’isola di Goli Otok. Si tratta indubbiamente di una pagina buia della
storia jugoslava, che però avrebbe dovuto essere affrontata diversamente,
proprio per la sua tragicità, e non mediante lo spregio di coloro che
avevano creduto in un ideale e coerentemente avevano cercato di
realizzarlo.
Infine il burino Persichetti dice allo Spirito delle masserizie che giocherà
al lotto il numero 18 (spiegando che nella Smorfia tale numero significa
“sangue”, sempre per emozionare il pubblico?) e che lui archivia tutto,
tranne una lettera inviata alla figlia del proprietario di alcuni mobili
rinvenuti, la quale aveva chiesto notizia delle masserizie dei suoi genitori
che non li avevano mai “reclamati indietro”. Il che dovrebbe stroncare
tutto il plot su cui si basa questo spettacolo: i mobili sono stati
abbandonati dagli stessi proprietari, evidentemente perché non ne avevano
più bisogno o sarebbe stato troppo complicato farseli mandare nel luogo in
cui erano andati a vivere.
Cosa del resto confermata da Piero Delbello in un articolo apparso sul
Piccolo del 24 gennaio scorso: nel Magazzino 18 sono conservate “più o
meno la metà delle cose che arrivarono subito dopo la guerra dall’Istria,
ma che negli anni successivi dalle Prefetture di più città d’Italia
continuarono a essere inviate nelcapoluogo giuliano. Fatte arrivare dalle
varie ditte di spedizioni nelle località di destinazione delle famiglie che ne
erano proprietarie, in più casi rimasero nei depositi. Senza che nessuno più
le reclamasse. E dunque furono fatte infine convergere in Porto Vecchio,
dove oggi occupano una parte del primo piano del 18”.
In pratica si tratta di oggetti che agli esuli (od optanti che dir si voglia) una
volta giunti nella città di destinazione, non interessava di conservare, per
cui li hanno abbandonati. Cosa comprensibile per i mobili, che forse non
potevano trovare posto nelle nuove case consegnate, ma perché non
reclamare almeno gli oggetti di famiglia, le fotografie, i quaderni? Quale
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valore simbolico si vuole attribuire a delle che sono state abbandonate
perché i loro proprietari se ne sono disinteressati, non sequestrate né
rapinate; e con quale sentimento questo materiale viene paragonato ai
magazzini dove venivano accatastate le cose rubate ai prigionieri
assassinati ad Auschwitz?
Alla fine di tutto si parla delle vittime dell’una e dell’altra parte, e l’autore
conclude “io non ho un nome ma potrei averne milioni. Come i profughi
di tutto il mondo, costretti a lasciare la propria terra, per sfuggire alla
povertà, all’odio, alla guerra”.
Ecco, se Cristicchi fosse partito da queste due belle, significative frasi, ed
avesse parlato delle tragedie degli esodi, di tutti gli esodi, senza pretendere
di fare storia su un evento specifico (asserendo peraltro di non volerla
fare), avrebbe potuto realizzare uno spettacolo di indubbio interesse,
emozionando (in questo caso positivamente) e coinvolgendo lo spettatore.
Invece il risultato di questa sua ambizione ha prodotto uno spettacolo di
propaganda, in quanto il suo intento di creare emozione è degenerato nel
voler creare piuttosto suggestione, fornendo agli spettatori dati falsi da cui
trarre conclusioni errate.
Come opera di propaganda Magazzino 18 è indiscutibilmente riuscito
molto bene: ma per chi come noi ha studiato e conosce la storia di queste
terre, vederla stravolta in questo modo allo scopo di denigrare il
movimento internazionalista ed antifascista jugoslavo, è francamente
intollerabile; ed inoltre, considerando il modo in cui è stato sponsorizzato,
a livello mediatico, questo spettacolo, fa sorgere il dubbio che si tratti di
un’operazione studiata a tavolino che può rivelarsi molto pericolosa per
gli equilibri delicati del confine orientale.
Le citazioni sono tratte da “Magazzino 18 di Simone Cristicchi, regia di
Antonio Calenda, testo completo dello spettacolo + CD”, I Quaderni del
Teatro, edizioni Il Rossetti – Promo Music, Trieste dicembre 2013.
Claudia Cernigoi
31/1/2014
BIBLIOGRAFIA.
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guerra e mito della “brava gente” 1940-1943, Odradek 2008.
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MICHIELI Roberta – ZELCO Giuliano, Venezia Giulia la
regione inventata, Kappa Vu 2008.
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PIRJEVEC Jože, Foibe, Einaudi 2010.
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PURINI Piero, Metamorfosi etniche, Kappa Vu 2010.
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SCOTTI Giacomo, Goli Otok, LINT 1991.
•
VOLK Alessandro, Esuli a Trieste, Kappa Vu 2004.
(fonte: Newsletter di Giuseppe Casarrubea)
link:
http://casarrubea.wordpress.com/2014/02/10/il-magazzino-18-di-simonecristicchi/
Notizie dal mondo
Africa
Sud Sudan: come si fa a parlare di conflitto etnico?
(di ComboniFem - Redazione Newsletter Suore
Comboniane)
Dal 15 dicembre 2013 la Repubblica del Sud Sudan, la più giovane
nazione del mondo, nata il 9 luglio 2011 dopo anni di guerra civile, è
pericolosamente in bilico. Lo spettro della “guerra civile” è riapparso
dopo anni di relativa calma e faticosa ricostruzione: dal 9 gennaio 2005,
con il trattato di pace firmato dal governo del Sudan e dall’Splm (Sudan
people liberation movement), la gente del Sud Sudan aveva potuto
finalmente sperimentare “assenza di bombardamenti aerei e di fuoco
d’artiglieria pesante”. Le strade erano state progressivamente sminate, e
qualcuno aveva addirittura iniziato a seminare e piantare.
I “giovani” (il 70% della popolazione ha meno di 30 anni) non avevano
mai vissuto la “pace”, perché la guerra civile, iniziata nel 1955,
temporaneamente sospesa dal ’72 all’83, aveva fatto oltre 2 milioni di
morti tra l’83 e il 2005. Non vogliamo entrare nel merito del conflitto –
originato dall’emarginazione sofferta dal popolo sud sudanese durante il
condominio egiziano-britannico ed esacerbato dallo sfruttamento
selvaggio delle risorse naturali, anzitutto del petrolio – ci preme soltanto
sfatare un luogo comune: che la guerra in Sud Sudan sia “tribale”.
Certamente l’isolamento sofferto dalla popolazione, che ha sopravvissuto
per troppi anni con servizi sanitari ed educativi essenziali, garantiti dalle
chiese, dai missionari/e, e da alcune ong, non ha aiutato l’incontro e la
convivialità delle differenze etniche. Nel 2011 l’analfabetismo affliggeva
ancora 85% della popolazione, con picchi oltre 90% per le donne, eppure
la popolazione ha vissuto un sessennio di relativa pace, perché non ne
poteva più della guerra. Le provocazioni del governo di Khartoum per
presentare il Sud Sudan come uno Stato “fallito alla nascita” sono ben
note a chi ha operato in alcuni Stati del Sud Sudan, in particolare in quelli
ricchi di pozzi petroliferi. Signori della guerra come George Athor, Peter
Gadet Yaak e lo stesso Riak Machar Teny hanno una storia di conflitto e
alleanza con il governo del Sudan, altalene dettate da questioni di potere.
La violenza scoppiata a fine 2013 è stata provocata da mire presidenziali e
conflitti personali di capi militari che hanno vestito panni da “politici”
senza smettere di essere capi di milizie. Ognuno di loro aveva ancora le
proprie truppe nell’esercito nazionale, un esercito frammentato e
totalmente privo di coesione.
Le suore missionarie, che dalle 6.00 del 24 dicembre 2013 hanno vissuto
le alterne razzie nella città di Malakal, sono testimoni che la cattedrale ha
ospitato fino a 7mila persone in cerca di protezione, ora Dinka, ora Nuer e
di tante altre etnie. I feriti, che hanno beneficiato delle medicazioni da
parte di suor Cecilia e suor Mary Mumbi, in un dispensario improvvisato
nei locali del convento, erano di varie provenienze. Suor Elena e il
personale della Diocesi di Malakal hanno aperto le porte della cattedrale a
chiunque ne avesse bisogno. Le atrocità commesse dall’armata bianca
(convocata da Riek Machar) e dai soldati che sostengono i contendenti
hanno ridotto Malakal a una città fantasma, con migliaia di morti, e
mentre stiamo scrivendo la città è nuovamente minacciata dall’avanzata
dei sostenitori di Riek Machar Teny, nato “Nuer”. Eppure, il capo
dell’esercito governativo che sostiene Salva Kiir Mayardit, di origine
Dinka, è James Hoth Mai… anche lui nato “Nuer”. Lo scorso dicembre a
Juba, mentre le armi uccidevano, molti giovani di origine Dinka hanno
protetto e salvato giovani di origine Nuer. E allora, perché i media parlano
ancora di conflitto etnico?
Fonte: ComboniFem - Newsletter Suore Comboniane n. 6/2014 del
13/02/2014
(fonte: ComboniFem - Newsletter Suore Comboniane n. 6/2014 del 13/02/2014)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2016
America Latina
La speranza indignata (di Maria Julia Gomes
Andrade)
«Dovresti parlare della storia della regione», mi ha detto dom Pedro
appena arrivata a casa sua, il 9 dicembre. Nell’apprendere che la rivista
Caros Amigos mi aveva chiesto di tracciare un suo profilo per rendergli
omaggio, Pedro mi aveva risposto per email: «Cara Maria Júlia, ti
ringrazio per l’affetto, ma questo omaggio di Caros Amigos mi imbarazza
molto. In ogni caso sei tu a rispondere di quello che scriverai. Io ti chiedo
di dare risalto, soprattutto, al carattere comunitario di tutta la nostra lotta.
Io sono solo un componente dell’ingranaggio».
Non riesco a vedere Pedro Casaldáliga meglio che in queste parole. È noto
per chi minimamente conosce la storia della Teologia della Liberazione,
12
della Chiesa cattolica brasiliana negli ultimi decenni e della regione
dell’Araguaia che dom Pedro Casaldáliga è tra gli imprescindibili della
poesia di Brecht. Ma egli si sente appena come un componente di un
ingranaggio a servizio di qualcosa di più grande. «Le mie cause valgono
più della mia vita», è del resto una delle sue frasi più famose.
Concordando con Pedro, e rispettando il suo desiderio, è necessario
evidenziare come le cause per le quali egli ha lottato dal suo arrivo in
Brasile siano assai lontane da una soluzione. Le questioni di fondo che
hanno permeato tutta l’azione del vescovo Pedro nella regione restano –
purtroppo – estremamente attuali.
Il catalano Pedro Casaldáliga, ancora prete, arrivò nella regione
dell’Araguaia nel 1968. Il suo viaggio da Goiânia a São Félix, che oggi
dura in media 24 ore, richiese 8 giorni. Era un paesetto ai margini del Rio
Araguaia che non aveva una scuola né un centro di salute. La prima scuola
e il primo centro di assistenza sanitaria decente vennero costruiti proprio
da lui e dalla sua équipe. La popolazione era costituita, essenzialmente, da
piccoli contadini e da indigeni xavante, tapirapé e karajá. L’intera regione
viveva l’intensa espansione del “progresso”, con territori divisi in lotti e
venduti dal governo militare alle grandi compagnie agricole e zootecniche.
Territori già abitati, come villaggi indigeni, paesini e persino interi
municipi! Molto velocemente Pedro Casaldáliga comprese che era la terra
la grande questione al centro del conflitto: indigeni e piccoli contadini da
un lato, grandi fazendas latifondiste dall’altro. E si schierò. Dalla parte dei
poveri.
Nel 1971 Pedro Casaldáliga viene consacrato vescovo, la regione in cui
opera diventa una Prelatura, ed egli approfitta della visibilità del momento
per lanciare un documento fondamentale in cui denuncia l’azione delle
fazendas e la piena collaborazione di queste con il governo militare. “Una
Chiesa dell’Amazzonia in conflitto con il latifondo e l’emarginazione
sociale” è il titolo del testo, diventato immediatamente un punto di
riferimento. Stampato e diffuso clandestinamente, il documento rivela le
innumerevoli situazioni drammatiche vissute da contadini, indigeni e
lavoratori di queste fazendas (in condizioni di lavoro schiavo). E quanto è
ancora attuale ciò che Pedro scriveva nel 1971!
«Sentiamo, in coscienza, che anche noi dobbiamo contribuire alla
demistificazione della proprietà privata. E che dobbiamo premere –
insieme a tante altre persone sensibilizzate – per una Riforma Agraria
giusta, radicale, sociologicamente ispirata e tecnicamente realizzata senza
ritardi esasperanti, senza intollerabili trucchi. L’ingiustizia ha un nome in
questa terra: il Latifondo. E l’unico nome vero dello Sviluppo qui è
Riforma Agraria».
La situazione è dolorosamente attuale: non stiamo parlando di storie del
passato. Quest’anno si è registrata una situazione drammatica in un
municipio vicino a São Félix, a Luciara, che ha coinvolto una popolazione
tradizionale – i retireiros – e alcuni fazendeiros della regione. Di nuovo, il
centro della questione è la terra. A settembre gli ingressi della città di
Luciara sono stati tutti bloccati per protesta contro la creazione di una
Riserva di Sviluppo Sostenibile (RDS), rivendicata dai retireiros. I quali,
da circa un secolo, vivono dell’allevamento collettivo di bestiame in
un’area di Luciara. Si tratta di circa 100 famiglie, per un totale di 450
persone, che utilizzano nei mesi in cui non piove (da maggio a settembre)
il letto del Rio Araguaia, per il pascolo del bestiame. Durante la stagione
della pioggia, quando il fiume sale, le famiglie si spostano verso la terra
più alta, dove conducono il bestiame, traendo dai boschi diversi tipi di
piante, sementi e radici per il consumo proprio e per le diverse necessità
delle famiglie. Questa terra alta è un’area contesa. È una terra dell’Unione
di cui si sono recentemente appropriati in maniera illegale i fazendeiros
mirando alla coltivazione della soia.
Così, alla fine di settembre, in una situazione già tesa, (…) viene data alle
fiamme la casa di due leader retireiros, vari dirigenti vengono minacciati e
qualcuno spara contro la casa di Zecão e Rita.
José Raimundo, detto Zecão, e Rita, entrambi professori, si erano trasferiti
a Luciara nel 1990, provenienti da São Paulo. Volevano unirsi
all’esperienza della Prelatura. Erano venuti con le figlie di alcuni mesi
appena: Dandara Terra e Naiara Terra. Alcuni anni dopo nasce Matheus
Terra, figlioccio di Pedro. I tre bambini trascorrono tutta l’infanzia e
l’adolescenza a Luciara e oggi vivono a São Paulo, dove lavorano e
studiano. Poco più di 10 anni fa, Zecão viene consacrato diacono da dom
Pedro. Zecão e Rita diventano in questi 20 anni e passa fra i leader più
importanti della Chiesa della regione, e tra le persone più fidate di Pedro.
Non è un caso che siano stati loro i più minacciati. Quando ha inizio
l’assedio a Luciara erano fuori città. E la tensione giunge a un punto tale
che non possono far ritorno. Gli amici di Luciara, preoccupati per le
minacce, chiedevano loro di non tornare. Senza sapere dove andare, si
recano allora a São Félix per parlare con Pedro sul da farsi.
Rita ricorda i dettagli di quei giorni oscuri: «Cosa facciamo?», era la
domanda che si ponevano. «Pedro ci disse immediatamente: “Restate qui
in casa con me”. Prese lui stesso tutti i contatti con il governo federale. Se
non ci fosse stato questo contatto diretto in ambito federale, quanto
avvenuto a Luciara non avrebbe avuto alcuna visibilità. E noi non
saremmo mai potuti tornare a casa. Passammo un mese con quanto
avevamo in valigia. Non tornammo a Luciara neppure per prendere il
cambio. Ci mandavano tutto alcuni vicini solidali. Il gruppo federale di
protezione dei testimoni venne qui a parlarci: “La situazione è ancora tesa,
non potete tornare”. Pensavamo: perché si sente il bisogno di così tante
cose? L’essenza della vita è essere giusti, essere onesti, essere pronti a
denunciare. (…)».
Zecão aggiunge: «Un giorno in cui mi sentivo particolarmente a disagio
per quanto ci stava succedendo, chiesi a Pedro come faceva a convivere
con le minacce ricevute per tutta la sua vita. Pedro mi rispose: “Chiedo al
Divino di trasformare la rabbia in speranza indignata. E così mi sento
sollevato”. Il nostro cuore deve essere così, sempre più grande, e deve
relativizzare. Non significa cedere politicamente, ma non nutrire odio. Io
piango, mi emoziono, e questo mi rende più forte. Alcuni dicono che sono
una persona molto emotiva. Ma una vita senza passione è come cibo senza
condimento. È la passione che mi muove».
DALLA PARTE DEGLI XAVANTE
Questa situazione di Luciara si ricollega al caso della disintrusione,
avvenuta nel 2012, dell’area xavante di Marãiwatsédé, situata a circa due
ore da São Félix. In un documento del 1970, “Schiavitù e Feudalismo nel
nord del Mato Grosso”, Pedro aveva già indicato: «In vari punti della
regione, gli stessi indios sono stati letteralmente espulsi dall’invasione
delle fazendas latifondiste». Ed è esattamente questa la storia degli
xavante di Marãiwatsédé, espulsi con aerei della Fab (Forza Aerea
Brasiliana) nel 1968 e reinsediati in un’area distante del Mato Grosso, in
un viaggio in cui morirono decine di indigeni. Un fatto che avrebbe
provocato probabilmente uno scandalo se non si fosse trattato di indigeni
di una regione remota del Mato Grosso.
Gli xavante non hanno mai rinunciato all’idea di tornare a Marãiwatsédé,
recandosi tante volte nell’area. Strategicamente, chiedevano agli
amministratori della fazenda di poter visitare i cimiteri degli antenati, ma,
una volta all’interno dell’area, mappavano ogni nuovo intervento, ogni
disboscamento e ogni opera. All’inizio degli anni ‘90, quando presero la
decisione di organizzarsi politicamente, disponevano di una mappa
dettagliata di tutto ciò che era stato fatto nell’area negli ultimi 25 anni.
Riuscirono ad avviare il processo di demarcazione e a ottenere
l’omologazione nel 1998. Ma anche i politici locali si organizzarono,
promuovendo l’occupazione di uno spazio nel cuore dell’area xavante, nel
tentativo di impedire il ritorno degli indigeni. Inventarono da un giorno
all’altro una città, Posto da Mata, sostenendo di vivere nella regione da
molto più tempo di loro. Finché, nel 2012, il governo federale non
coordinò la disintrusione dell’area restituendo definitivamente la terra agli
xavante. La posizione di Pedro, nuovamente al lato degli indigeni,
produsse, nel 2004, scritte offensive su un muro della Chiesa della città di
Alto de Boa Vista - “Fuori il vescovo comunista” -, e minacce più serie
alla fine del 2012, tali da indurlo, per la prima volta, ad accettare di
allontanarsi da São Félix per qualche tempo, sotto la protezione della
Polizia Federale. Ritornò subito, all’inizio del 2013: non voleva più restare
lontano.
Questi stessi militanti anti-xavante di Posto da Mata si sono trasferiti
quest’anno a Luciara per lanciare il loro allarme: «Fate attenzione, perché
a voi può accadere quello che è avvenuto a noi. Vogliono cancellare
Luciara e lasciare tutta la città ai retireiros». Parole come queste hanno
sortito un effetto enorme: la quasi totalità della popolazione di Luciara è
contro la Riserva di Sviluppo Sostenibile, malgrado si tratti di terra
13
dell’Unione occupata illegalmente da mezza dozzina di fazendeiros. E, nel
frattempo, i leader dei retireiros e i loro sostenitori continuano a ricevere
intimidazioni. «La Riforma agraria, qui come in altre parti del Paese e del
mondo, non è un’illusione sovversiva. Non può continuare a essere una
frode pubblicitaria. Né può essere rinviata»: così affermava Pedro nel
documento-denuncia del 1970. Ma in questo quadro è sicuro che la
soluzione alla situazione dei retireiros venga rinviata. E i latifondisti
grileiros ringraziano.
La verità è che la disintrusione dell’area xavante di Marãiwatsédé ha fatto
emergere altre situazioni. La questione di fondo con cui abbiamo a che
fare qui è l’avanzata della soia: la politica di trasformazione della regione
del basso Araguaia nella nuova grande frontiera della soia del Mato
Grosso. La terra xavante ha rappresentato un ostacolo all’espansione, un
sassolino nella scarpa, così come la Chiesa di Pedro e dei suoi seguaci. E
la RDS dei reitireiros costituisce una potenziale minaccia.
UNA CASA DALLE PORTE SEMPRE APERTE
Pedro è anche poeta. Il tema del popolo dell’Araguaia, con i suoi dolori e
la sua vita, è uno dei più ricorrenti nelle sue poesie. Penso a quanto è
avvenuto a Luciara, alla solidarietà di Pedro nei confronti degli amici e dei
retireiros, e mi viene sempre in mente questa poesia, un’evocazione del
«viandante, non c'è cammino, il cammino si fa camminando» del poeta
spagnolo Antônio Machado:
«Retirante, l’unico cammino è quello che c’è. / Di campi e di case non ve
ne sono più. / Neppure i sette palmi di terra di un tempo saranno per
tutti! / Retirante, viandante, c’è un solo cammino. / Il cammino che siamo,
il cammino che facciamo: / Per vivere, per andare; perché altri viandanti si
uniscano. / Il cammino perché i disoccupati riprendano coraggio. / Perché
chi si è perso si ritrovi./ Il cammino che siamo, il cammino che facciamo. /
Se c’è uno steccato, non hai braccia e falce per distruggerlo? / Se la notte
ti ha nascosto la direzione, cercala insieme ai fratelli: / un cuore in
compagnia trova sempre il chiaro di luna. / Viandante, compagno, c’è un
solo cammino: / il cammino che siamo, il cammino che facciamo! / Per
ora, questo è quello che c’è... / Ma, un giorno, il mondo si ribalta e c’è
quel che ci sarà!».
Dom Pedro Casaldáliga compie 86 anni a febbraio. Da 25 anni convive
con “fratello Parkinson”, come gli piace dire. Questa prolungata
convivenza gli ha portato molte limitazioni. Negli ultimi anni non gli è più
possibile scrivere e, pertanto, rispondere personalmente ai tanti messaggi
che riceve ogni giorno. Ma non sono mai mancate mani amiche per
aiutarlo con la posta elettronica, mantenendo in tal modo la tradizione:
tutti i messaggi trovano risposta.
Per tutto il giorno passano persone a rendergli visita a casa, che continua,
letteralmente, a tenere le porte aperte. Le persone del popolo lo hanno
sempre chiamato semplicemente Pedro. O, più raramente, “vescovo
Pedro”, espressione pur sempre affettuosa. L’atteggiamento del popolo nei
confronti di Pedro Casaldáliga dice molto della relazione che con esso egli
ha stabilito. Mi ricordo sempre della prima volta che sono stata a São
Félix, nel 2003, e delle risate che suscitavo quando lo chiamavo
“Casaldáliga” o “dom Pedro Casaldáliga”. Sarebbe comprensibile se le
difficoltà causategli dal Parkinson lo avessero reso una persona ombrosa e
poco propensa a ricevere visite. Ma è esattamente il contrario. Pedro
riceve tutti volentieri. Sempre e tutti. Fa domande sulle cose concrete della
vita, dà la benedizione e scherza. Scherza molto! Nel 2009 passai di nuovo
a casa sua per visitarlo e mi spaventai a vederlo usare, per la prima volta,
il bastone. Egli certamente colse la mia espressione preoccupata e
addolorata, perché mi guardò e disse: «È per spaventare i cani». Forse il
suo senso dell’umorismo è stato in questo momento della sua vita una
forma di protezione. Può essere. Egli non si lamenta della sua condizione,
ma scherza. È qualcosa di assolutamente incredibile... I problemi di salute
non gli hanno sottratto la sua caratteristica ironia, quella che lo fa parlare
di “fratello-Parkinson”.
E la casa è così carica di significato! Una casa semplice, come quella di
qualunque sertanejo. Verniciata solo esternamente, le pareti interne sono di
mattoni a vista, ed è piena di quadri, oggetti indigeni, foto, manifesti,
prodotti artigianali di diversi Paesi dove Pedro è stato o dove vivono tanti
amici della Prelatura. «Qui nulla è stato messo a caso, Maria Júlia, tutto ha
un significato», mi disse nel 2003, quando andai a casa sua per la prima
volta e rimasi completamente incantata ad osservare ogni dettaglio, con la
voglia di conoscere la storia di ogni oggetto. Per non stancare Pedro, non
stavo sempre a far domande, ma come avrei voluto... So che la piccola
croce di cuoio gli è stata data da Frei Betto, quando quest’ultimo si
trovava nel carcere Tiradentes, all’inizio degli anni ‘70. So che la foto
della vecchietta ricoperta completamente di rughe che ci guarda sorridente
in cucina è stata scattata da Carlos Moura, uno degli operatori di pastorale
più importanti della storia della Prelatura, durante un viaggio all’interno
del Piauí. E so che ci sono molte decorazioni karajá, tapirapé e xavante:
dimostrazioni di affetto e amicizia nei confronti del vecchio vescovo,
grande compagno di strada durante i conflitti vissuti dagli indigeni nella
regione. Tutti i giorni della settimana di dicembre in cui sono stata ad
Araguaia sono passati indios karajá per la casa di Pedro. In un luogo tanto
carico di pregiudizi contro gli indigeni come São Félix, il “palazzo
episcopale” dalle porte aperte è sempre stato un rifugio per i karajá, i
tapirapé e gli xavante di passaggio per la città.
La consacrazione episcopale di Pedro Casaldáliga non è stata solo un
momento di denuncia. È stato compiuto in quell’occasione un gesto
ancora più profondo di impegno pastorale e politico. Una simbologia
incarnata della Teologia della Liberazione. Pedro rinunciò ad alcuni
simboli classici: al posto della mitra, un cappello di paglia del sertão; al
posto del baculo, un remo karajá, consegnato da un leader del popolo
indigeno; al posto dell’anello d’oro, un anello di tucum. Dietro
incoraggiamento di un’altra grande figura della Teologia della
Liberazione, dom Tomás Balduíno, Pedro aveva accettato la nuova sfida
del ministero episcopale. Ma con un diverso rituale. Nell’invito per la
consacrazione, Pedro scrisse: «La tua mitra sarà un cappello di paglia
sertanejo; il sole e la luna; la pioggia e il sereno; lo sguardo dei poveri con
cui camminare e lo sguardo glorioso di Cristo, il Signore. Il tuo baculo
sarà la Verità del Vangelo e la fiducia riposta in te dal tuo popolo. Il tuo
anello sarà la fedeltà alla Nuova Alleanza del Dio liberatore e la fedeltà al
popolo di questa terra».
L’anello di tucum diventò, da allora, un simbolo. In un primo momento,
significava: chi usa questo anello sta assumendo la causa dei popoli
indigeni. Ma poi diventò qualcosa di ancora più grande, passando a
significare l’impegno con le cause dei poveri, degli emarginati, della
trasformazione sociale. Molti militanti usano questo simbolo e, in qualche
modo, si riconoscono. E quante coppie si sono scambiate l’anello di tucum
al posto della fede? Il tucum è una palma molto comune in Amazzonia. È
un legno duro, resistente. E il fusto della palma è pieno di spine, lunghe e
acuminate. Come dice Pedro, sono spine intrepide; questo cammino non è
una passeggiata... Nel film prodotto nel 1994 e ispirato a questa storia,
dom Pedro, nel finale, spiega al protagonista il significato “di questo
anello nero”: «È l’anello di tucum, una palma dell’Amazzonia, segno
dell’alleanza con la causa indigena, con le cause popolari. Usare questo
anello vuol dire normalmente assumere queste cause e le loro
conseguenze». E chiede alla fine: «Tu accetteresti di portarlo? Accetti?
Guarda, questo ti impegna, eh? Ti segna».
Voi accettate?
(fonte: Comunità di via Gaggio)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2018
Europa
Bosnia Erzegovina, la posizione della società civile
(di Rodolfo Toè)
C'è aria di temporale in una Sarajevo domenicale che cerca, un po' come
tutto il resto del paese, di tornare alla normalità dopo le violenze di
venerdì. Sabato pomeriggio in molti sono tornati in strada. Un po' per la
necessaria curiosità di seguire gli sviluppi della più importante protesta
della storia della Bosnia Erzegovina indipendente, un po', anche, per dare
una mano a pulire.
Nella capitale, così come a Tuzla e a Zenica, piccoli gruppi di cittadini si
sono organizzati spontaneamente per ripulire le strade e nascondere, per
quanto possibile, i segni delle violenze dei giorni scorsi.
È il lato buono di una protesta che non è stata scevra di momenti
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drammatici. A Sarajevo, nell'incendio della presidenza, i manifestanti
hanno distrutto anche l'archivio nazionale di Bosnia Erzegovina, che era
custodito nello stesso edificio. È forse questo il danno maggiore inflitto
alla città durante questa rivolta.
A fuoco l’Archivio nazionale della Bosnia Erzegovina
“È bruciato uno dei nostri depositi”, ha constatato immediatamente dopo i
disordini di venerdì il direttore dell'istituzione, Šaran Zahirovic'. “Con
esso” - ha dichiarato al portale 'klix.ba' - “sono bruciati purtroppo alcuni
dei documenti più preziosi in nostro possesso”.
Anche se le stime dei danni verranno fatte in modo più accurato soltanto
nei prossimi giorni [una parte della società civile sarajevese sta sostenendo
che in realtà non ci sono stati danni all'archivio, NDE], è già possibile
constatare la perdita definitiva di alcuni documenti di grande valore
storico, tra i quali, ad esempio, gli atti della commissione creata dopo la
fine del Secondo conflitto mondiale per indagare sui crimini di guerra,
oltre che una sezione contenente diari, lettere, memorie personali in alcuni
casi risalenti alla fine dell'Ottocento.
“In gran parte”, continua Zahirovic', “si tratta di materiale che era riuscito
a salvarsi nel corso delle due guerre mondiali e dell'ultima, negli anni
novanta, ma che è stato distrutto in questa rivolta”. Memorie sopravvissute
agli orrori del Novecento, e che ora, semplicemente, sono andate perdute.
“È un'enorme vergogna culturale”.
Bruciano i libri, in un modo che ricorda sinistramente uno degli eventi
simbolicamente più famosi dell'assedio di Sarajevo, la distruzione della
grande biblioteca nazionale nell'agosto del 1992. Se un nesso tra i due
avvenimenti può sembrare forzato, è del resto vero che questo non è
l'unico episodio che fa rivivere, nelle menti dei sarajevesi, la memoria
della guerra. E sono gli abitanti stessi a sottolineare questa continuità.
Sabato mattina, dopo la devastazione di un'ampia area del centro cittadino
che va dal quartiere di Skenderija a via Maresciallo Tito, in molti hanno
osservato come le immagini delle auto e degli edifici carbonizzati, delle
vetrine sfondate sembrassero uscite direttamente da un altro tempo, da
giorni in cui la città era preda di colpi di mortaio, granate e cecchini.
Forse, in un certo senso, è proprio anche per questo riscoprirsi
immediatamente così vulnerabili che i cittadini hanno risposto, in modo
deciso, alla violenza. L'atto stesso di mettersi a disposizione della
comunità, di ripulire le strade, di raddrizzare i danni ha un'importanza
simbolica decisiva.
I contestatori hanno dichiarato solennemente che “non lasceranno più
spazio ai vandali e agli hooligan”, al tempo stesso però riconfermando che
la volontà di proseguire le proteste è più salda che mai. Diverse centinaia
di cittadini sono tornati in piazza sabato, in modo pacifico.
Nel momento in cui scriviamo questo articolo, un corteo di cittadini sta
protestando davanti alla presidenza. È vero che manca, tuttora,
un'organizzazione, un coordinamento.
La mobilitazione è in gran parte spontanea, senza portavoce, ma circolano
comunque dei volantini con evidenziate le ragioni di chi è sceso in piazza:
“Ci rammarichiamo per le vittime e per i danni subiti durante la protesta di
venerdì”, si può leggere nel comunicato, “ma questo nostro rammarico va
esteso alle fabbriche, agli spazi pubblici, alle istituzioni culturali e
scientifiche, alle vite umane della cui distruzione sono invece direttamente
responsabili coloro che, da vent'anni, governano il nostro paese”.
La società civile: cittadini prima di tutto
Una delle caratteristiche più interessanti della protesta, fino a questo
momento, è probabilmente proprio il fatto di essere così atomizzata e
priva di un programma definito e di gruppi organizzati.
I sindacati, che pure avevano simpatizzato in un momento iniziale con la
protesta, hanno immediatamente ritirato il loro supporto ai primissimi
segni di violenza.
Altro grande assente è la società civile, che invece aveva avuto un ruolo di
primo piano nella stagione del 'risveglio civico' del 2013. Un'assenza che
è, soprattutto, mediatica.
“Gli attivisti e le attiviste sono in campo, ma la nostra posizione è che
siamo, innanzi tutto, dei cittadini e delle cittadine”, spiega a Osservatorio
Balcani e Caucaso Valentina Pellizzer, direttrice di 'One world see' e
caporedattrice del portale 'Ženska Posla'.
“La situazione è più complessa di quanto potrebbe apparire a una prima,
superficiale occhiata: esiste una parte del mondo delle ONG bosniache che
obiettivamente sta temporeggiando, chiedendosi quale sia il modo
migliore per trarre vantaggio dalla situazione che si è creata. In più, non è
secondaria la circostanza che buona parte di queste organizzazioni si è
fortemente sbilanciata a favore dell'SDP nel corso delle elezioni del 2010,
quindi questa situazione li mette in imbarazzo, da un punto di vista
pubblico, hanno perso credibilità”.
“In compenso, ci sono associazioni più 'sul terreno', come Akcija
Gradjana, che dal primo momento hanno dato il loro pieno supporto alla
manifestazione”.
“La partecipazione della società civile, insomma, è molto variegata, anche
se avviene prima di tutto attraverso il nostro sostegno personale. Ho
alcune amiche di un'organizzazione per i diritti della comunità LGBT che
in questo momento stanno partecipando alla manifestazione, anche se
sappiamo benissimo che tra chi protesta ci sono anche gli estremisti che in
passato ci hanno minacciato. Quindi vedi, ci sono vari livelli di
partecipazione, ecco tutto, e diversi gradi di esposizione. Tutti però
sostengono quello che sta accadendo, per esempio attraverso le proprie
pagine facebook”.
Darjan Bilic', attivista e presidente proprio di Akcija Gradjana, è in effetti
uno di quelli che si è affidato ai social network per fare conoscere la
propria posizione. In un intervento intitolato “Sarajevo è anche la mia
città”, Bilic' scrive: “Il punto, signori, non sono gli incendi, gli edifici
devastati, le auto capovolte; il punto è, piuttosto, l'incuria decennale di un
sistema che ha prodotto esso stesso violenza”. E, rivolgendosi ai politici:
“Posso capire che siate orripilati, sconvolti dal fuoco e dall'odore dei
lacrimogeni, di come possa essere rovinata la città, agli occhi dei turisti e
del pubblico mondiale … ma non vi ho mai visti preoccuparvi di come
stesse Sarajevo, prima”.
La protesta è politica
Al di là delle violenze, dei disordini, dei saccheggi portati avanti durante
le manifestazioni di venerdì, soprattutto da parte di persone giovanissime,
la protesta si presenta come politica.
I manifestanti hanno cominciato a fare le prime richieste: tra di esse,
prima di tutto, le dimissioni da parte della classe politica. Una richiesta
che, fino ad ora, ha dato i primi frutti proprio a Sarajevo.
Il primo ministro cantonale Suad Zeljkovic' infatti, è stato costretto a dare
le dimissioni, proprio dopo che lo stesso si era trovato a insultare una
giornalista che gli chiedeva se avesse l'intenzione di farlo.
A Bihac' Hamdija Lipovac(a, il contestatissimo premier del cantone UnaSana si è dimesso domenica poco prima di mezzanotte. Le dimissioni sono
state rassegnate anche dai premier dei cantoni di Tuzla e di Zenica-Doboj.
Sempre domenica si è dimesso anche Himzo Selimovic', direttore della
Sezione per il coordinamento degli organi di polizia della BiH.
La protesta sta avendo i suoi primi effetti. E anche se è troppo presto per
riuscire a capire se saranno degli effetti positivi, per la prima volta la
classe politica bosniaca sembra temere davvero l'opinione del proprio
elettorato.
Rodolfo Toè
Fonte: balcanicaucaso.org
(fonte: Unimondo newsletter)
link:
http://www.unimondo.org/Notizie/Bosnia-Erzegovina-la-posizione-dellasocieta-civile-144654
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Corsi / strumenti
Corsi di formazione
Corso per la realizzazione e la gestione di un orto
familare (di Legambiente Massa Montignoso)
In collaborazione con l'azienda Spinetti di Montignoso si terranno otto
lezioni teoriche e pratiche per imparare e praticare tutte le operazioni e le
attività necessarie a realizzare con successo un piccolo orto.
Il corso prenderà avvio il 1 Marzo (dalle 15.30) nei locali dell'azienda
Spinetti alla Renella (Montignoso) sarà l'occasione per imparare a
condurre un piccolo appezzamento di terra avendo attenzione anche
all'ambiente conoscendo il metodo convenzionale e il biologico,
particolare attenzione sarà rivolta all'uso dell'acqua e a tutti quelle tecniche
agronomiche volte a ridurne l'uso. Fare un orto è un'ottimo modo per
tornare ad essere protagonisti consapevolidella nosta alimentazione e per
comprendere meglio quante energie ci sono intorno alla produzione del
cibo.
Alterneremo pratica e teoria svelando anche alcuni piccoli trucchi del
mestiere affinche tutti possano raggiungere risultati soddisfacenti in questa
attività che ci rimette in contatto con l'ambiente e ci torna a far apprezzare
i cicli della natura.
La partecipazione al corso è gratuita, ma sarà richiesta l'adesione a
Legambiente (quota di iscrizione venti euro , trenta euro con
l'abbonamento al mensile La Nuova Ecologia ) .
Per informazioni e adesioni
Giuseppe del Giudice 0585340173 - ore pasti
Paolo Panni 3319154062
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Circolo Legambiente Massa Montignoso
Via Alberica, 6 - Massa
3319154062 fax 0585488086