Cerco i miei fratelli

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Cerco i miei fratelli
Betel brevi saggi spirituali 8.
Marko Ivan Rupnik
«Cerco
i miei fratelli»
Lectio divina su Giuseppe d’Egitto
“È il tempo quando fiorisce il tiglio”
Lipa
«Cerco i miei fratelli»
© 1998 Lipa Srl, Roma
prima edizione: ottobre 1998
sesta ristampa: novembre 2012
Lipa Edizioni
via Paolina, 25
00184 Roma
✆ 06 4747770
fax 06 485876
e-mail: [email protected]
www.lipaonline.org
Autore: Marko Ivan Rupnik
Titolo: «Cerco i miei fratelli»
Sottotitolo: Lectio divina su Giuseppe d’Egitto
Collana: Betel
Formato: 105x200 mm
Pagine: 128
In copertina: particolare di un dipinto di Marko I. Rupnik
Stampato nel novembre 2012 da Abilgraph
via Pietro Ottoboni, 11 – Roma
Proprietà letteraria riservata Printed in Italy
codice ISBN 88-86517-48-3
1. UNA PREDILEZIONE CUSTODE DI UNA VOCAZIONE SPECIALE .......
L’unicità e l’amore: Gen 37,2-11 .....................................
Quando l’amore suscita l’odio .........................................
Il “di più” dell’amore .....................................................
La primogenitura e l’elezione .........................................
I sogni ............................................................................
«Cerco i miei fratelli»: Gen 37,12-20 ...............................
Giacobbe manda Giuseppe ............................................
«Vedendolo, i fratelli lo vollero uccidere» ........................
Una storia di inganni: Gen 37,21-36 ..............................
Nella notte della cisterna ...............................................
L’inganno restituisce l’inganno ......................................
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2. «NELL’ORA DELL’OPPRESSIONE, OSSERVA IL PRECETTO» ..............
«Il Signore fu con Giuseppe»: Gen 39,1-6a ....................
«Non ti smarrire
nel tempo della seduzione»: Gen 39,6b-23 ...................
«Le lasciò tra le mani la veste» ........................................
Il bene punito .................................................................
La sapienza dono “dall’alto”: Gen 40,1-19 .....................
Il bene dimenticato: Gen 40,20-23 .................................
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3. GIUSEPPE SIGNORE SULL’EGITTO ..............................................
L’ascesa di Giuseppe: Gen 41,1-16.25-42.46-47 ............
«Non io, ma Dio» .............................................................
Un’intelligenza per leggere la storia...................................
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4. UNA SEVERA PEDAGOGIA .........................................................
I fratelli scendono in Egitto: Gen 42,1-17......................
«Certo su di noi grava la colpa
nei riguardi di nostro fratello»: Gen 42,18-38 .............
Per superare il motivo del grano: Gen 43 ....................
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5. PER AMORE DEL PADRE ...........................................................
«Eccoci schiavi del mio signore»: Gen 44,1-17 .............
«La vita dell’uno è legata
alla vita dell’altro»: Gen 44,18-34 ....................................
«Dio mi ha mandato qui
per assicurare a voi la sopravvivenza»: Gen 45,1-15 ...
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1. Una predilezione,
custode di una
vocazione speciale
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L’unicità e l’amore: Gen 37,2-11
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Questa è la storia della discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il
gregge con i fratelli. Egli era giovane e stava con i
figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre.
Ora Giuseppe riferì al loro padre i pettegolezzi sul
loro conto. 3Israele amava Giuseppe più di tutti i
suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e
gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche. 4I
suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui
più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano
parlargli amichevolmente. 5Ora Giuseppe fece un
sogno e lo raccontò ai fratelli, che lo odiarono ancora di più. 6Disse dunque loro: «Ascoltate questo
sogno che ho fatto. 7Noi stavamo legando covoni in
mezzo alla campagna, quand’ecco il mio covone si
alzò e restò diritto e i vostri covoni vennero intorno
e si prostrarono davanti al mio.» 8Gli dissero i suoi
fratelli: «Vorrai forse regnare su di noi o ci vorrai
dominare?». Lo odiarono ancora di più a causa dei
suoi sogni e delle sue parole.
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Egli fece ancora un altro sogno e lo narrò al padre e ai fratelli e disse: «Ho fatto ancora un sogno,
sentite: il sole, la luna e undici stelle si prostravano
davanti a me». 10Lo narrò dunque al padre e ai fratelli e il padre lo rimproverò e gli disse: «Che sogno è
questo che hai fatto! Dovremo forse venire io e tua
madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?».
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I suoi fratelli perciò erano invidiosi di lui, ma
suo padre tenne in mente la cosa.
Quando l’amore suscita l’odio*
Giuseppe è amato da Giacobbe: è questo ciò
che risulta evidente dal brano. Vi sono tanti altri
particolari insinuati nel racconto, che forse hanno
un nesso con le storie precedenti delle gelosie tra
* La storia di Giuseppe è così ricca anche dal punto di vista letterario che dà adito a tante digressioni che talvolta però ne complicano la comprensione come “parola di Dio”, piuttosto che facilitarla. Si
fanno infatti spesso tante congetture per la ricostruzione di una pretesa biografia di Giuseppe che ci distolgono, invece che concentrarci, sui
suggerimenti teologici e spirituali che ci vengono da questo racconto.
Cf a questo proposito quanto dice giustamente F. Rossi de Gasperis,
Prendi il libro e mangia! 1. Dalla creazione alla Terra Promessa, Bologna
1997, 94-95. Le letture troppo psicologiche, moraliste o romanzesche
del testo, che forzerebbero alcuni versetti distaccandoli dal grande insieme teologico e letterario del racconto biblico, alla fine, in modo più
o meno volontario, tentano di ridurre e superare l’unicità dei destini
singolari, come è avvenuto anche per Cristo, Messia e Signore, e per lo
stesso popolo ebraico. Alle pp. 78-96 di questo testo ci si riferisce ampiamente. Ci si riferisce inoltre, dell’esegesi contemporanea: ai testi
classici di G. Von Rad, Genesi, Brescia 19782 e Id., Teologia dell’Antico
Testamento, I-II, Brescia 1972-74, che inquadrano un’accurata indagine storico-critica in una chiara opzione teologica, dandoci non solo
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Rachele e Lia relative ai figli o con la funzione forse
ambigua esercitata da Giuseppe nel riferire al padre
i pettegolezzi del resto della famiglia (la Vulgata dice addirittura: accusò i suoi fratelli presso il padre di
un crimine pessimo), determinando con ciò mecca-
l’esame dei singoli brani o parole, ma un’interpretazione globale dell’Antico Testamento ricevuta dalle mani di Gesù Cristo; A. Meinhold, Die
Gattung der Josephsgeschichte und des Estherbuches: Diasporanovelle, parte
I, ZAW 87 (1975), 306-324 e parte II, ZAW 88 (1976), 72-93, dove si
legge il testo di Giuseppe come espressione di una “teologia della diaspora” sia contro il radicalismo ortodosso degli “uomini del ritorno”
che contro i gruppi sincretisti, facendo vedere come la diaspora di per
sé non impedisce la fedeltà a Dio e al proprio popolo; P. D. Miscall,
The Jacob and Joseph Stories as Analogies, JSOT 6 (1978), 28-40, breve
scritto in cui la storia di Giacobbe e di Giuseppe, con i loro motivi comuni dell’inganno del padre, dell’inimicizia tra i fratelli, della riconciliazione tra di loro, si illuminano l’una l’altra; E. M. McGuire, The
Joseph Story. A Tale of Son and Father, in B. O. Long, Images of Man
and God, Sheffield 1981, dove si trasferisce l’attenzione dal tema della
fratellanza a quello della filiazione; strettamente sull’analisi del testo,
ved. C. Westermann, Genesis. Kapitel 37-50, BK.AT 1.3, Neukirchen
1982, in cui si trova anche una abbondante bibliografia; A. Bonora, La
storia di Giuseppe. Genesi 37-50, Brescia 1982, che legge la storia di
Giuseppe come racconto teologico del dramma tra l’uomo e Dio, dell’uomo come autorealizzazione e di Dio come guida della storia; il testo
di L. A. Schökel, Giuseppe e i suoi fratelli, Brescia 1987 è la riproduzione della terza parte di un’altra opera dell’autore dedicata ai «testi di fraternità» della Genesi, di cui questo racconto costituirebbe l’esempio più
complesso. Gli altri motivi della storia di Giuseppe si trovano pertanto
in secondo piano; ancora, AA.VV., Giuseppe o l’uomo dai doppi destini
(BIBLIA - Atti del seminario invernale, Loreto, 26-28 gennaio 1990),
Firenze 1991. In questo volume sono raccolti i testi di G. Laras Il midrash su Giuseppe (vi si sottolinea l’interpretazione contraddittoria che
ha ricevuto la figura di Giuseppe nell’esegesi tradizionale dell’ebraismo
antico), di F. Flores d’Arcais, che legge la storia di Giuseppe nell’opera
Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, di F. Rossi de Gasperis
Giuseppe, il fratello saggio: panorama sapienziale del ciclo di Giuseppe
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nismi di rivalsa nei suoi confronti. Ma lasciamo da
parte questo, e concentriamoci invece sul significato spirituale e teologico della storia.
La prima constatazione che balza agli occhi è che l’amore scatena l’odio: per il semplice fatto che Giuseppe è
amato, gli altri lo odiano. Il testo dice che i fratelli non potevano parlargli amichevolmente, con un atteggiamento
benevolo a priori, dal momento che l’amicizia è proprio
questo: succeda quel che succeda, noi due ci capiamo,
non ci può essere tra noi ombra di equivoco, perché abbiamo l’uno per l’altro una comprensione a priori positiva.
I fratelli non possono avere tale atteggiamento verso
Giuseppe. La predilezione di Giacobbe rende Giuseppe
(una lettura descrittiva e globale del ciclo di Giuseppe nella tradizione
della “lectio divina”, come dice l’autore), di D. Garrone, La storia di
Giuseppe: un approccio esegetico (illustrazione dei contributi riconoscibili
nel testo delle diverse tradizioni bibliche), A. Roccati, Ambientazione
egiziana delle storie di Giuseppe e racconti romanzati paralleli (raffronto
tra il racconto biblico e i miti egiziani), più il testo di O. da Spinetoli,
Le dodici tribù di Israele, che non è direttamente attinente al nostro tema. Sul midrash su Giuseppe, questa volta “rinarrato”, ved. G.
Limentani, Il Midrash. Come i Maestri ebrei leggevano e vivevano la
Bibbia, Milano 1996, passim. La storia di Giuseppe, così ricca da riassumere tutto il contenuto della rivelazione, ha bisogno per la sua
comprensione di essere vista sull’orizzonte del suo compimento in
Gesù Messia. Oltre a tutti i richiami particolari, che di volta in volta
indicheremo, la storia di Giuseppe, venduto e rigettato dai fratelli,
asceso alla signoria sull’Egitto, grazie alla quale salva e raduna i fratelli, dà alle generazioni cristiane una chiave di lettura interpretativa della vicenda del Messia, come è evidente dall’ampio spazio ad essa dedicato nel discorso di Stefano al sinedrio (cf At 7,9-16) e poi dalle testimonianze di epoca patristica, ad esempio Origene (Comm. in Genesim
III,43-52, PG 12,127c-146b, e ancora, di lui, In Genesim hom. XV,
ibid., 240a-246b), Cirillo Alessandrino (Glaphyra in Genesim VI, PG
69,283d-336a), Ambrogio (De Ioseph, CSEL 32/2, Wien 1897, 71122), Efrem (In Genesim et Exodum commentarii, CSCO 152, Script.
syri 71, Louvain 1955, tr. latina CSCO 153,Script. syri 72, ib. 1955),
tutti suoi commentatori, o di epoca medievale (fra cui Ruperto di
Deutz, De Sancta Trinitate et operibus eius, VIII,18-IX,20 CCCM 21,
Turnhout 1971, 502-553).
In questo testo, senza pretese, si cerca di offrire una lettura della
storia di Giuseppe che, tenendo conto della ricchezza apportata dall’esegesi moderna e contemporanea, tenta di leggerla in un contesto inter-
pretativo per il quale la Bibbia è Parola di Dio che parla all’uomo e gli
si rivela, tutta la Bibbia è un libro unico, come unico è il Verbo di Dio
incarnato e unica la salvezza, tutta la Bibbia ha un senso spirituale, che
è Cristo, e che pertanto va interpretata anche con la Tradizione e in
continuità con essa, in ascolto di tutte le risonanze che la storia di
Giuseppe ha suscitato nelle varie generazioni dei cristiani.
La Parola di Dio è l’ambito vitale più connaturale all’uomo. È nella
Parola di Dio che l’uomo può purificarsi, può maturare tutte le dimensioni della sua personalità. È nella Parola di Dio che l’uomo assapora
quell’unità che fa di lui un essere beato. Con la Parola di Dio si illuminano i sentimenti dell’uomo, si evolve il pensiero, cresce la conoscenza,
matura la sapienza. La Tradizione è precisamente questo “prolungamento” della Parola di Dio. La Tradizione diventa un tesoro della comprensione della Parola, diventa una iniziazione al gustare la Parola e custodisce la Parola come simbolo in tutta la sua pienezza. Diverse tensioni dualiste e gnostiche che portano la Parola a vari riduzionismi sono superate in questa sua comprensione alla maniera del simbolo.
Nella Parola-Simbolo è lo Spirito Santo che dischiude i nessi comunicativi tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e il creato, tra la storia travagliata
del tempo e la trascendenza di Dio, tra il temporale e l’eterno, tra il
fragile e l’assoluto, tra il peccatore e la santità. Riflettere, sentire, gustare, desiderare nella Parola di Dio significa imbeversi dello Spirito Santo
che dà la vita e versa nel cuore l’amore del Padre. Perciò significa anche
trovarsi insieme, formarsi il pensiero, la volontà, il sentimento e i sensi
nella Chiesa, con gli altri; significa capire e comprendere con tutta la
memoria delle generazioni precedenti, con i Padri, con i maestri, con
le sante e i santi, nella liturgia in una celebrazione spirituale dove i linguaggi si ravvicinano, dove i gesti, le metafore, i suoni, i canti, le idee e
le immagini sono impregnate di una comunicazione personale e comunitaria della Verità che è la Persona Vivente in eterno.
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odioso ai fratelli, accumulando su di lui il rancore dei figli
di Lia e di quelli delle schiave.
Si tratta di una sottolineatura interessante, soprattutto perché i commentatori cristiani della Scrittura
hanno sempre visto in Giuseppe l’immagine del
Figlio di Dio. Ruperto di Deuz, un autore monastico
benedettino dell’XI secolo, dice ad esempio «Chi può
dubitare che il Padre non ami questo Giuseppe? Il
Padre infatti – dice Giovanni – ama il Figlio e tutto
ha posto nella sua mano (Gv 3,35), generandolo nella vecchiaia dell’eternità: quella vecchiaia per la quale egli è detto ed è l’“antico di giorni” (cf Dn 7,13).
In quella vecchiaia, in quell’antichità di natura senza
numero di anni, senza inizio di giorni, senza successione di tempi, quel Padre vecchio e antico generò il
Figlio ugualmente vecchio e antico: e per questo lo
amò» (De Sancta Trinitate et operibus eius, VIII, 504505). L’incapacità di guardare a Giuseppe amichevolmente si ripercuote così anche su Cristo, il Figlio prediletto del Padre (cf Mt 3,17). Cristo, rivelazione dell’amore del Padre, è anch’egli odiato e alla fine condannato proprio per il fatto di essere Figlio del Padre
(cf Mc 14,61-64). In Gv 15,25 c’è a questo proposito
un’esplicita dichiarazione: «Mi hanno odiato senza
ragione». Sembra quasi che l’amore sia destinato a
suscitare odio, che, anzi, questa sia una caratteristica
che contraddistingue l’amore di Dio. Infatti, poiché
l’amore di Dio è la santità di Dio, la sua perfezione,
non può coesistere con il male. E siccome l’amore
cerca di inglobare tutto, di abbracciare tutto e di vincere il male, il male si evidenzia e reagisce. Possiamo qui ricordarci sant’Agostino, che nel De catechizandis rudibus (IV,7-8, PL 40,314-316) afferma
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che Cristo è venuto nel mondo per rivelare l’amore
del Padre e, tramite questo amore, suscitare negli
uomini l’amore verso Dio. È un movimento molto
bello, ma anche molto tragico. Cristo suscita l’amore
negli uomini, ma questo amore nasce solo dopo la
sua crocifissione, solo dopo cioè che si è scatenata
una violenza tale da ucciderlo. È quanto esprime l’icona della deposizione dalla croce: solo dopo che
l’uomo ha risposto con la violenza all’amore di Dio,
solo dopo che Dio per amore è arrivato a subire la
sofferenza e la morte, solo allora, di fronte al corpo
morto di Cristo, l’uomo è capace di fare un gesto di
amore verso Dio, avvolgendo nella tenerezza il suo
corpo morto. Come se l’amore vincesse il male attraverso l’odio che gli si scatena contro, ma che riesce
ad assorbire. L’amore assorbe quest’odio e, in tale
maniera, lo vince, affinché si realizzi l’amore in pienezza. L’odio in fondo è una sorta di perversione
dell’amore. E dal momento che l’amore genera la vita, l’odio produce la morte. La morte può essere vinta solo da qualcuno capace di assorbirla, di lasciarsi
penetrare dalla morte, morire e poi avere l’energia di
rivivere o di essere rivificato. In tal modo la morte
non solo è vinta, ma è sterminato il suo potere (cf
Ap 1,18) e l’odio che l’ha prodotta rientra nell’amore.
Nella vita spirituale è illusorio pensare che
amando si possa automaticamente suscitare l’amore. È una sorta di idealismo spirituale. Amando si
può suscitare l’amore delle persone già purificate.
Altrimenti l’amore viene frainteso e in questo senso
si verifica il suo martirio, come avviene per Cristo.
Anche la nostra accoglienza dell’amore di Dio passa attraverso un processo di purificazione. Si arriva
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ad abbandonarsi all’amore di Dio attraverso fasi di
ribellione e di odio, che non è detto si rivolgano
direttamente contro Dio, ma possono camuffarsi
ed esprimersi come odio e ribellione contro una
regola di vita, contro una persona, contro istituzioni o dottrine... Un modo raffinato e velato di odio
verso l’Amore dal Volto personale è quello di screditarlo contrapponendogli la ragione, di svuotare
l’amore dell’intelligenza e l’intelletto dell’amore per
affermarlo contro l’amore, come se esistesse tra di
loro una sorta di contraddizione o di scisma a priori. Questo gioco d’inganni è un pretesto per asservire l’intelletto all’egoismo e all’autoaffermazione.
Su questa strada l’intelletto sarà inevitabilmente in
contrapposizione all’amore e dovrà cercare falsi argomenti per far valere le proprie ragioni di fronte
all’evidenza di un intelletto purificato, che ragiona
con amore. Sono difficoltà che normalmente attribuiamo alla sfera psicologica, ma che invece non
si esauriscono solo lì. Ma sperimentiamo le stesse
tentazioni di scisma tra ragione e amore nei rapporti interpersonali, oltre a viverle anche su scala
più ampia, nel rapporto tra gruppi, etnie, stati, istituzioni... Tuttavia, è soprattutto quando è in gioco
lo stesso operare dell’intelletto, nel campo della filosofia, delle scienze, del lavoro intellettuale in genere, che siamo soggetti ai rischi di tali contrapposizioni: è molto facile dividere l’attività della ragione e della creatività intellettuale dall’amore e confinare l’amore nel campo etico, nell’ambito cioè del
dovere, o ancora di più ridurlo allo spazio dell’attività caritativa. Anche il discorso su Dio rientra in
questa tentazione e, come i grandi teologi ci inse-
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gnano, occorre una grande vigilanza spirituale per
non cadere in queste trappole.
Ciò vale anche per quanto riguarda la missione
della Chiesa, la sua opera redentrice ed evangelizzatrice nel mondo, che si muove all’interno di questa parabola dell’amore. È infatti utopico pensare
che, amando il mondo, il mondo si converta in
modo automatico, cioè senza tragedia. Amare il
mondo può anche significare scatenare l’odio del
mondo verso la Chiesa. È la storia della Chiesa, e
soprattutto la storia dei santi, a confermarci continuamente che la Chiesa trasforma il mondo assumendo la reazione peccatrice del mondo, allo stesso modo di Cristo, di cui essa è il corpo (cf Col
1,24). Il peccato è deicida e, non appena Dio si è
reso corporeo, il peccato l’ha ucciso. La Chiesa,
che è la mistica e reale corporeità del Signore nel
mondo, è infatti continuamente sotto le mire del
peccato. Anzi, più la Chiesa vive consciamente e
autenticamente di Cristo, più il mondo non la sopporta. Ma è allora che in misura sempre maggiore
si rivela la pentecoste della Chiesa che la fa continuamente risorgere e progredire. Tant’è vero che
l’antico adagio recita in modo esplicito: “il sangue
dei martiri seme di nuovi cristiani” – sanguis martyrum semen christianorum (Tertulliano, Apol. 50,
13, CCL 1,171). Ora, il martirio passa dal suo aspetto fisico alla sua dimensione spirituale, morale e
culturale. In questo senso il cammino di Giuseppe
diviene così parabola non solo del cammino di
Cristo, ma del cammino di ogni battezzato e della
Chiesa. Cercare gli applausi, le approvazioni, non
fa parte del cammino spirituale, perché non fa par-
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te dell’amore. È l’amore del Padre in ultima istanza
il motivo del dramma del cristiano nel mondo, perché salva il cristiano dalle reazioni, pur logiche e
comprensibili, alla opposizione del mondo. Secondo una certa logica del mondo è grande chi reagisce, chi è forte, chi “picchia di più”. Ma l’amore
sconfessa questa mentalità con la capacità risurrezionale che gli è intrinseca. Perciò il forte è il debole agli occhi del mondo e il felice è lo sconfitto
dal mondo. Allo stesso tempo l’amore del Padre
salva il cristiano anche dal rischio del bigottismo e
del fanatismo, quando cioè con l’etichetta della fede si coprono atteggiamenti, azioni e mentalità che
possono suscitare reazioni addirittura violente di
persecuzione, che trovano tuttavia una loro giustificazione. Alcuni comportamenti e mentalità del
cristiano suscitano reazioni da parte del mondo
che non sono tuttavia a causa della cristoformità,
ma a causa di una comprensione ideologica del
cristianesimo. Il perseguitato a causa dell’amore è
sempre una rivelazione dell’amore. La Chiesa sa
che l’esito vero e definitivo della storia e di tutte le
storie si realizza attraverso la croce e, nella luce
dello Spirito Santo, si dischiude fino alla realtà
escatologica, cioè che la verità delle azioni degli
uomini non si esaurisce qui, ma affonda nella rivelazione della parusia. I facili applausi, le approvazioni superficiali, i consensi di comodo sono luccichii dell’ingannatore. Si può amare il mondo, lavorare per il mondo e riscuotere un certo successo.
Eppure, nell’ottica spirituale, tutto questo non significa ancora quella missione maturata nell’amore
che porta frutti che rimangono, perché è impossi-
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bile saltare dal giovedì santo alla domenica mattina
senza vivere la passione e la morte del venerdì e il
silenzio e l’attesa del sabato. Solo una missione impastata con l’amore del venerdì e del sabato santo
genera per la risurrezione.
Giuseppe, come figlio prediletto, è stato mandato in Egitto per essere lì prima dei fratelli per salvarli, ma questa predilezione è passata attraverso la cisterna, la prigione e tanta solitudine. La parabola di
Giuseppe, che si apre proprio con l’amore di
Giacobbe per lui, si pone immediatamente come
una parabola del discernimento su una via biblica.
Ci fa discernere la via per la vera vita dalle scorciatoie facili e il senso vero da quello immediato, che
soddisfa, ma non salva. La storia di Giuseppe, con il
suo realismo tragico, opera una demarcazione tra il
vero e l’illusione, tra lo spirituale e l’inganno.
Il “di più” dell’amore
Un’altra sottolineatura interessante del brano è
che Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli.
Per qualcuno qui potrebbe trovarsi la giustificazione
dell’odio dei fratelli: se Giuseppe è il prediletto del
padre, allora è chiaro che questo scatena l’invidia e
la gelosia degli altri. La gelosia e l’invidia si legano
sempre al possesso, al misurarsi su una scala quantitativa. Una perenne tentazione di noi uomini è infatti
quella di fare dell’amore una realtà oggettuale, ridotta a schemi quantitativi. Ma, se l’amore definisce la
persona e la persona si realizza nell’amore, ogni persona ha l’amore necessario per realizzare la propria
vita. «Dammi il tuo amore e questo mi basta», dice
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M. I. Rupnik
sant’Ignazio di Loyola. Il nucleo essenziale dell’amore è la libertà. L’amore è un legame incrollabile con
uno spazio di libertà infinita. L’amore ama e lascia liberi. L’amore riesce a includere anche il rifiuto dell’amore, ma non per questo cessa di amare. Infatti, l’amore è la libera adesione. L’uomo immagine di Dio
è persona proprio perché immagine dell’amore del
Dio tripersonale, del Dio della libera adesione nell’amore. Il punto di partenza per una comprensione
teologica dell’uomo è dunque la vocazione: Dio crea
l’uomo spirandogli, nello Spirito Santo, l’amore del
Padre che è la fonte della vocazione. L’uomo può fare qualsiasi cosa, ma non vivendola nella carità, non
gli giova a niente. Non solo, l’uomo è «nulla» (cf 1Cor
13,2-3). Possiamo dire che la persona umana è ciò
che è chiamata a diventare. Anche le parabole bibliche, sia quella globale che quelle delle grandi figure
che ne sono protagoniste, hanno tutte come punto
di partenza la vocazione (cf Abramo: Gen 12,1-4;
Mosè: Es 3,4; Geremia: Ger 1,4-10; la Madre di Dio:
Lc 1,30ss, ecc.). In senso ontologico, l’uomo è un essere dialogico. L’uomo è dialogo, colloquio, vocazione. Ora, ogni uomo, già con il fatto stesso di esistere, rivela di partecipare dell’amore di Dio, di essere
visitato da Dio, e di essere portatore di questa annunciazione spirituale (cf Sal 22,10, Ger 1,5, Lc 1,41).
L’uomo è dunque un essere della vocazione.
L’amore si realizza pertanto nel misterioso, inaccessibile spazio tra Colui che chiama all’esistenza, spirando nello Spirito l’amore e la vita, e colui che è chiamato, che esiste in virtù di questa chiamata e la cui
vita consiste nel rispondere ad essa. In questo spazio
tra il Padre datore dello Spirito che dona l’amore
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«Cerco i miei fratelli»
(cioè la vocazione) (cf Rm 5,5) e l’uomo chiamato
nell’amore, che si realizza nella sua libera adesione a
questa vocazione (e in ciò consiste il suo vero e proprio sì alla sua vita) si compie tutto l’amore. In questo spazio, l’amore è necessariamente totalmente
personale e totalmente libero, altrimenti non è amore. E dal momento che l’amore è compreso nella
chiave della vocazione, è evidente che ci può essere
un “amare di più”. Ma sarebbe fuorviante inserire in
questo una misurazione quantitativa. Se si perde
questa visione della persona e si sostituisce questa
logica dell’amore libero con dei criteri quantitativi,
con una cultura reificante e reificata, l’uguaglianza
diventa un criterio irrinunciabile, anche se il suo senso autentico rimane incompreso. Si sostituisce l’amore con la sua espressione, il donatore con il dono, e
la bilancia della misurazione diventa il criterio e la
giustificazione della propria contentezza o ribellione.
Nel mondo biblico questa mentalità è il primo frutto
del peccato. Quando in Gen 3 si sostituisce Dio con
un idolo, quando, invece di ammettere Dio nella sua
verità con una constatazione religiosa, riduciamo Dio
e i suoi attributi ad una qualche nostra idea, anche
la nostra mentalità è plasmata da questa idolatria. In
quanto culto delle cose inanimate, l’idolatria rende i
propri seguaci simili a sé, riduce l’uomo a schiavo di
una cultura degli oggetti e delle cose morte a cui
egli attribuisce un potere salvifico, magico, soprannaturale (cf Sal 115,4-8). Vediamo in Gen 4 che
Caino, in base a questo principio, soggiace ad una
mentalità di gelosia, perché attribuisce un peso esistenziale irrinunciabile a certe cose, ma questo lo fa
vivere ad un livello assai inferiore a quello della
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M. I. Rupnik
realtà vera dell’amore, e anche la sua conoscenza
dei fatti e delle persone diventa cieca. Ci muoviamo
infatti su una sovrastruttura della vita, su una ipotesi,
su un pensiero sganciato dalla realtà esistente. Si è
dunque costantemente tentati di guardare sotto le dita di Dio per vedere se fa bene, se distribuisce
ugualmente le cose. Lo si vuole controllare e in qualche modo sottomettere alla nostra meschina cultura
segnata da una logica di gelosia (cf Mt 12,38, 22,35;
Mc 8,11-12, Lc 11,16 ecc.). E dal momento che la gelosia è l’atteggiamento dell’uomo solo, isolato, staccato dalla fonte della vita, tutto ciò che può creare
una mentalità del genere porta, in un modo o in un
altro, alla morte. Un pensiero che è staccato dalla vita può arrivare a giustificare l’omicidio, il pretesto
per male operare, l’alibi per azioni deicide e fratricide, ma non può produrre niente di vivo né ragionare in favore della persona viva. Per questo, come dice la Scrittura, la gelosia e l’invidia sono il cammino
tramite il quale la morte è entrata nel mondo (cf Sap
2,24). Chi si è sganciato dall’abbraccio dell’amore,
cioè non ha aderito liberamente all’amore, non percepisce più quanto egli stesso è amato, ma guarda
geloso a come è amato l’altro. Non sentendosi amato, anzi, voltando addirittura le spalle all’amore e abbracciando una cultura idolatrica e reificata, misura
come l’altro è amato in una chiave di possesso delle
cose, in un’ottica dunque quantitativa e di gelosia.
Perciò mai, in nessun caso, vedrà realmente come
l’altro è amato. E ciò che desidererebbe fosse l’amore per lui, il modo in cui vorrebbe essere amato, è
solo espressione di una fame insaziabile di cose.
Solov’ëv applica a questa malattia spirituale il con-
18
«Cerco i miei fratelli»
cetto filosofico della cattiva infinità. La persona infatti
può essere appagata solo dalle relazioni libere e
amorose e dalle cose che un amore simile permea e
dona. Anche il figlio prodigo pensava che gestire le
cose secondo la propria volontà – e dunque possederle – lo avrebbe realizzato. Ma solo alla fine della
parabola, quando torna a casa, l’abbraccio del padre
gli dischiude lo sguardo sulle stesse cose che prima
lui aveva preso per possederle, che adesso gli ricordano del padre, del suo amore, creano la festa e gli
appartengono del tutto. È chiaro che il vero significato dell’amore personale e libero rimane per una
persona gelosa completamente nascosto e continuamente ingombro da una brama di cose, di gesti, di
affermazioni che non daranno mai la vita, l’amore e
le relazioni libere, elemento costitutivo dell’uomo
stesso. È invece rimanendo nello spazio d’amore,
dunque di comprensione della persona come vocazione, che intuiamo come l’altro ha l’amore che gli è
necessario per compiere la sua vocazione e realizzare se stesso come persona a immagine del Dio trinitario, dunque persona delle relazioni libere vissute
da figlio adottivo. Se io infatti percepisco quanto tu
mi ami, non posso odiare quell’altro che tu ami, perché, facendo male a lui, io faccio male a te (cf Mt
25,40). Infatti, nel racconto biblico, l’odio per
Giuseppe diventa un attacco a Giacobbe.
Torniamo alla frase «Israele amava Giuseppe più
di tutti i suoi figli», prescindendo dal fatto che si tratta di una parabola offertaci da Dio Padre per una
sua comprensione, o che Giuseppe è il figlio di
Rachele, la sposa più amata da Giacobbe. Il significato spirituale ci porta proprio alla comprensione
19
M. I. Rupnik
della persona come vocazione. Giuseppe ha una vocazione molto più esigente dei fratelli. Nella vocazione di Giuseppe si riassumerà la triplice riconciliazione come risposta al danno del peccato. Giuseppe
volgerà i suoi fratelli al padre e tra di loro. Una triplice riconciliazione quindi con Dio, con l’altro, e tutto
questo tramite la terra, la creazione, i frutti del creato, che, non più considerati come “merce”, sono
mezzo di incontro e di comunione. È a causa dell’esigenza di questa vocazione che Giuseppe riceve da
Giacobbe l’amore necessario per compierla. E viceversa. A causa di tanto amore di Giacobbe, Giuseppe può compiere questa missione. Il “di più” riguarda quello spazio intimo dell’amore e della persona creata dove essa si realizza lasciandosi penetrare da questo. Non riguarda affatto le categorie delle
diverse vocazioni dell’umanità. Per una persona, il
suo “di più” si svolge in uno stato di vita, per un altro il suo “di più” può essere altrove o accanto a
quell’altra persona, ma in una maniera diversa, perché comunque sempre personale. Ogni fratello aveva una vocazione e da Giacobbe, come da un buon
padre, tutti avevano ricevuto l’amore paterno necessario per realizzarla. Ma poiché Giuseppe sarà colui
che avrà come vocazione il ricomporre la famiglia, il
ritrovare i fratelli come figli di Giacobbe, c’è un “di
più” dell’amore del padre per lui. La vocazione di
Giuseppe era di convertire i fratelli al padre, cioè di
prendere sul serio il fatto di essere figli del padre,
convertire i fratelli dai loro schemi, dalle loro mentalità, dai loro attaccamenti, pascoli, bestiame, forza,
alla relazione con il padre e tra di loro, a questa diadica identità dell’uomo di figlio e fratello. Anche
20
«Cerco i miei fratelli»
Gesù, il Figlio amato dal Padre, compie la sua missione nel convertire gli uomini a Dio e nel farli convergere tra di loro nella comunità, nella Chiesa. E
anche a Pietro, che ha la vocazione di radunare e
confermare i fratelli (Lc 22,32), viene chiesto se ama
“di più” (Gv 21,15). Giuseppe è il prediletto di
Giacobbe, dal momento che la sua vocazione dovrà
proprio svelare ai fratelli l’amore preferenziale del
padre, affinché tutti i figli si possano ritrovare in tale
amore. E sarà proprio questo amore di predilezione
che si materializzerà nel grano, nell’abbondanza, e
che in ultima istanza si renderà corpo nel volto di
Giacobbe, dove nell’amore del padre si scopriranno
tutti fratelli e figli grazie a colui che è stato gettato
nella tragedia (Giuseppe) cioè nelle mani di chi non
si sente amato (i fratelli) affinché questi possa scoprirsi voluto bene.
Questa realtà della predilezione rileva immediatamente il nesso con Cristo e il suo Padre che è nei
cieli. Il Cristo di cui il Padre dice che è il Figlio prediletto nel quale Egli si compiace dovrà entrare nella tragedia del peccato degli uomini per riportarli alla scoperta del Volto del Padre. Questo li farà scoprire a loro volta amati, proprio attraverso il Figlio
prediletto, per iniziare un cammino da figli che non
misurano più l’amore, che resistono alla tentazione
della gelosia, perché hanno l’amore in abbondanza,
dal momento che il Padre non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato loro proprio perché scoprissero che sono amati tanto da compiere la vocazione che giustifica la loro esistenza da figli, capaci
di gioire dei fratelli. Il Padre non ha risparmiato il
proprio Figlio, ma si è con lui e in lui consegnato
21
M. I. Rupnik
nelle mani degli uomini ancora nemici di Dio (cf
Rm 5,6-10 e 8,32), affinché questi si possano scoprire amati da lui in quanto degni, benché peccatori,
del suo affidamento. Di modo che è visibile che
l’uomo sta a cuore al Padre tanto da non risparmiare il proprio Figlio. In questa maniera, l’uomo è stato raggiunto dall’amore del Padre, che desiderava, e
per la gelosia del quale ha alzato la mano sul fratello per denudarlo dell’amore di cui è stato rivestito.
La salvezza di Cristo è proprio l’annientamento
della logica della gelosia e dell’invidia. Infatti, un
criterio molto importante per la verifica della vita
spirituale è proprio la capacità di saper gioire per il
successo dell’altro, per il benessere dell’altro, per
l’amore con cui è coccolato l’altro, dal momento
che questo è indice del trovarsi all’interno dell’amore del Padre. Si gioisce perché l’altra persona aderisce a Dio, gioisce con Dio e Dio lo benedice. Se
non si è con Dio, questo non lo si può fare, non si
è in grado di vincere invidie e delusioni.
Una sottolineatura interessante ci viene da un’osservazione di Vladimir Solov’ëv. Giuseppe è l’ultimo
dei figli di Giacobbe, il figlio avuto in vecchiaia. Il
padre, amando di più l’ultimo, in un certo senso
non rispetta la gerarchia degli uomini secondo la
quale al maggiore vanno tutti i privilegi. I fratelli,
gelosi, tendono ad un livellamento dell’amore verso
il basso. La gelosia è allora suscitata da un falso
concetto di giustizia creato dal peccato, perché, come dice Solov’ëv, il peccato vuole un livellamento,
una uniformità al basso. Non è che tutti aspirano a
più amore per il fatto che Giuseppe è amato di più:
vorrebbero solo che Giacobbe amasse di meno.
22
«Cerco i miei fratelli»
La primogenitura e l’elezione
Una sottolineatura importante del racconto è
quella relativa alla questione della primogenitura e
del figlio minore. Anche Giacobbe era il figlio minore, ma con l’inganno aveva carpito ad Isacco la benedizione della primogenitura. Ora sperimenta come
il figlio che più ama è il più piccolo, il figlio che Dio
stesso gli ha concesso, dal momento che l’ha avuto
in vecchiaia, quando non si è più in grado di concepire. Un certo diritto all’interno della cultura patriarcale viene completato dall’elezione. Anche Giacobbe, alla fine del racconto, quando Giuseppe gli
presenta i suoi figli per benedirli, incrocia le braccia
e pone la destra sul capo del più piccolo, Efraim (cf
Gen 48,13-21). È curioso che l’amore da cui segue la
vocazione agisca attraverso l’elezione, e che chi non
è all’interno di questa logica veda l’elezione come
un criterio di discriminazione, dunque come un motivo di lotta che può giungere fino all’omicidio. La
Bibbia è la rivelazione di questa difficoltà che rimane una costante dell’umanità. A partire dalla prima
elezione, di cui l’autore non è un genitore, ma Dio
stesso – quella di Abele –, fino alla fine del percorso,
dove di nuovo in Gesù Cristo è Dio l’esplicito autore
dell’elezione, lo scontro rimane e Cristo lo dovrà assumere al prezzo della propria vita. D’altro lato sappiamo anche nella vita spirituale come è difficile assumere la vocazione e l’elezione, quanto sia insidiosa la tentazione di prendere l’elezione come leva
della forza, come punto per imporsi con un diritto
esclusivo. Ma siccome l’elezione ha la sua radice nell’amore, è impossibile viverla fuori della logica del-
23
M. I. Rupnik
l’amore e fuori del suo ambito. Vediamo perciò in
Cristo l’immagine pura, senza ombra, di una vita vissuta nella pienezza dell’elezione e nella totalità della
vocazione. Cristo è l’immagine del sacrificio nell’amore e di una assoluta kenosi della vita dell’eletto.
Ma non è solo immagine. È l’ambito in cui si consuma ogni vocazione e ogni elezione. Giuseppe, immagine di Cristo, assumerà infatti all’inizio questa
elezione in una maniera ancora inconsapevole. Non
conscio di tutti gli aspetti che una tale vocazione ed
elezione comportano. E questo lo vedremo adesso
nei suoi sogni, dove sarà disegnata la sua vita, ma
senza che lui sia consapevole di tutta la portata religiosa in essi racchiusa.
I sogni
I sogni sono infatti un altro elemento fondamentale della storia di Giuseppe. Il primo sogno è
riferito ad una sorta di elevazione di Giuseppe sopra i suoi fratelli, nel secondo addirittura i genitori
parteciperebbero ad un atto di venerazione nei
suoi confronti. I sogni sono una realtà che teologicamente va inquadrata con cautela, dal momento
che può appartenere al mondo mitologico, addirittura gnostico... Nella Bibbia il sogno è spesso il
momento della chiamata, un momento in cui Dio
si rivela all’uomo. Si tratta quindi di una sorta di
profezia, di manifestazione della vocazione, dal
momento che, seguendo l’ispirazione venuta nel
sogno, l’uomo si salva. In genere esistono due tipi
di sogni: i sogni della vocazione (cf 1Sam 3) e i sogni di protezione (cf Mt 2,13-15). Ma si tratta in en-
24
«Cerco i miei fratelli»
trambi i casi della stessa realtà. Nel sogno della vocazione uno intravede lo sguardo di Dio sulla sua
vita, e accondiscendere a questo rappresenta la
salvezza, la protezione della propria persona. Ora,
è interessante come Giuseppe, nonostante si trovi
in una situazione difficile, dal momento che è sì,
amato dal padre, ma proprio per questo oggetto
del rancore dei fratelli, fa dei sogni che lo mettono
al centro: il covone a cui tutti si prostrano, il sistema solare che gli si inchina... I covoni di grano diventeranno infatti una realtà chiave nella vocazione di Giuseppe. Non sono soltanto i fratelli che si
inchinano a lui, ma è il cibo che li salverà. Non solo perché darà loro la salvezza corporalmente, ma
perché, proprio tramite il grano, arriveranno alla
comprensione della pedagogia di Dio: questa diventerà rivelazione dell’amore di Giacobbe e, dunque, dell’amore come legame dell’intera famiglia.
Anche qui è sottinteso il nesso con Cristo, col grano, col pane, coll’eucarestia che ci nutre (cf Gv
6,48ss). Nel secondo sogno, dove è il sistema solare a rendere omaggio a Giuseppe, è chiaro il principio cristologico: Cristo, re dell’universo, signore e
giudice universale, a cui le leggi cosmiche e l’ordine prestabilito ubbidiscono, come già i Padri interpretavano l’apparizione della stella alla sua nascita
(cf anche Col 1,16, Mt 8,27...). «Chi è colui che i
suoi genitori e i suoi fratelli adorarono sulla terra,
se non il Cristo Gesù, quando lo adoravano Giuseppe e sua madre insieme con i discepoli, confessando in quel corpo vero Dio – colui cioè del quale soltanto è detto: Lodatelo, sole e luna; lodatelo,
tutte le stelle e i luminari (Sal 148,3)» (Ambrogio,
25
M. I. Rupnik
De Ioseph 8,76). Alcuni potrebbero chiedersi: questi
sogni non esprimono forse un grande soggettivismo, un narcisismo? La chiamata di Dio, che nella
Bibbia può avere il suo avvio o la sua coscientizzazione nel sogno, tiene conto della persona concreta. La chiamata, la vocazione, non è mai astratta,
né generica, né uguale per tutti. Come già detto, la
persona viene definita dalla vocazione, che è sempre concreta. Ciò significa che il carattere, i talenti,
la storia personale, anche le tendenze negative magari, nel caso di Giuseppe pure una sorta di narcisismo, non tolgono nulla all’azione di Dio e alla
sua chiamata. La vocazione è ricevuta da una persona concreta, dentro alla sua storia, all’interno
della sua cultura. Il fatto più interessante è piuttosto che il sogno in questo caso è come una visione
profetica che per un istante la persona intravede e
che poi avrà bisogno di tutta la vita per vivere. Il
sogno non è una sorta di ideale che si rivela all’uomo e a cui poi l’uomo tenderà. Il sogno biblico è
quasi sempre esplicitamente dialogico. È una realtà
simbolica alla quale l’uomo già partecipa e che
Dio man mano porterà alla pienezza. Non si tratta
neanche di una visione idealista, di una realtà che
esige in un secondo tempo una concretizzazione
storica, fenomenologica. È piuttosto una intima,
personale, comunicazione di Dio alla verità della
persona stessa, secondo la visione di Dio. È un
momento di grazia che, con l’efficacia tipica della
profezia, rende l’uomo partecipe dello sguardo di
Dio su di lui, sulla vita, sulla storia o su qualsiasi
realtà. Infatti, nella vita spirituale, ognuno di noi
può constatare che le scelte più importanti, la vo-
26
«Cerco i miei fratelli»
cazione stessa della nostra esistenza e il modo di
realizzarla non è una teoria che abbiamo imparato,
capito, o costruito e che dopo viviamo come una
sorta di proiezione nel concreto. Se fosse così, la
vita sarebbe un continuo conflitto tra le idee e la
realtà stessa. Quando gli uomini cercano di applicare nella vita principi astratti o teorie o ideologie
costruite solo razionalmente, questo si traduce solo
in una grande sofferenza. In questo caso rimangono solo due sbocchi inevitabili: o il fatalismo, o un
continuo compromesso, perché neanche con la
violenza si riesce a sottomettere la vita a degli
schemi astratti. Invece è nella vita quotidiana, concreta, che la vocazione della persona si comprende
nei momenti di grazia in una sinfonia a più voci: la
voce dello Spirito nel cuore, la voce della Chiesa,
la voce della Sacra Scrittura, delle persone vicine, i
talenti e le inclinazioni personali, le necessità della
gente, del mondo ecc. E la comprensione è un
processo dinamico che dura per tutta la vita. E anche qui c’è una maturazione che passa dalla tentazione ideologizzante, progettualista, fino alla constatazione religiosa, umile, che è importante essere
servo dell’amore, servo inutile che non cerca più
di realizzare i propri progetti, di affermarsi, ma che
sa che l’amore è allo stesso tempo del tutto irripetibile e personale e del tutto oggettivo, transindividuale e universale. Si passa dal “fare” al “seguire”
il Maestro per poterlo rivelare, dall’agire al testimoniare nell’agire e nell’essere. Su questo punto ci
può venire in aiuto di nuovo Solov’ëv con la sua
visione dell’amore coniugale, dove ritroviamo la
concezione del sogno come vocazione e poi come
27
M. I. Rupnik
lunga strada della realizzazione dell’amore. Gli innamorati si percepiscono belli, luminosi, perché si
guardano con lo sguardo a cui li ha rapiti l’amore.
Ma più tardi si accorgono che nella loro concretezza storica, fenomenologica, non sono così. Anzi,
cominciano ad apparire le mancanze, i difetti, i
peccati. È allora che matura la decisione per la vocazione, per un impegno e una fatica nella fedeltà,
per aiutarsi l’un l’altro a diventare come ci si è visti
nello sguardo dell’amore. Per ogni vocazione, l’artefice principale è quella Persona divina che fa da
tramite, cioè lo Spirito Santo. E ciò che Dio vede
nei cieli, lo Spirito Santo lo rende visibile nella storia in coloro che si lasciano guidare da lui.
Se si comprende il sogno in termini di percezione della vocazione, quindi dell’amore, la realizzazione passa attraverso la modalità dell’amore, cioè
attraverso il sacrificio. Un sacrificio che non scegliamo noi, altrimenti non è tale. Il sacrificio ci è richiesto dalla vita stessa, dagli altri. Anzi, è l’amore
stesso che lo esige. Se non è un sacrificio nell’amore e per amore, è un sacrificio perverso, deviante, insensato, che in un modo o nell’altro rivela una patologia. Giuseppe infatti, sognando i covoni e le stelle che si inchinano a lui, ha un segno
da parte di Dio di una vocazione che si espliciterà
solo alla fine della storia e che in pienezza sarà
realizzata da Cristo, Colui che raccoglierà l’umanità
dispersa dalla conflittualità, dalle contraddizioni,
proprio nel momento in cui sarà innalzato da terra
(cf Gv 12,32). E sarà innalzato da terra proprio da
coloro per i quali è l’amore incarnato, per i quali è
stato chiamato. Come Giuseppe, che diventerà l’e-
28
«Cerco i miei fratelli»
lemento unificante dei fratelli, dei figli di Giacobbe, grazie al male che loro stessi gli infliggono. La
vocazione, come realtà dell’amore, vive il suo primo grande dramma all’interno dei suoi, dei più vicini, che si rivelano come i veri lontani che debbono essere avvicinati. Allo stesso momento però, i
vicini, con la loro resistenza o con la loro contrarietà, fungono da discernimento e da verifica della
vocazione stessa. Se si tratta della vocazione in
senso teologico, dunque dell’amore del Padre, entra nella pasqua, risuscita e continua a esistere.
Se il sogno è la visione della vocazione che intravediamo rapiti nello sguardo di Dio, seguendo
la visione avuta nel sogno si arriva sempre alla realizzazione della vocazione, perché Dio ci sorveglia
e ci protegge su questo cammino. È interessante
vedere infatti come la via di Giuseppe nella realizzazione di questi sogni sia per lui un cammino pieno di pericoli e di continue morti. Giuseppe morirà
tante volte su questa strada, eppure sarà sempre
protetto da Dio, e attraverso questo percorso difficoltoso si delineerà la sua vera vocazione. L’amore
di Giacobbe, immagine dell’amore di Dio Padre,
farà sempre risuscitare Giuseppe, lo tirerà sempre
fuori dalle morti, perché proprio questo è il modo
dell’amore. Tant’è vero che, quando il Figlio di Dio
sarà ucciso, l’amore del Padre, nella forza dello
Spirito Santo, lo risusciterà. Queste morti, queste
prove, sono per Giuseppe veri e propri luoghi di
teofania. Infatti, nella storia di Giuseppe, a differenza dei racconti di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, non ci sono teofanie. Dio è misteriosamente nascosto all’uomo, eppure è sempre presente
29
M. I. Rupnik
nella sua storia. Dio agisce, ma attraverso le azioni
e anche i peccati degli uomini che Giuseppe riconosce come la voce del Signore. Dio non parla più
direttamente a Giuseppe come aveva fatto con
Abramo, Isacco, Giacobbe. Eppure è sempre presente ed è l’attore principale della storia, come riconoscerà Giuseppe nel cap. 45. La sua voce non è
più “altra” e sconvolgente, come era per Abramo,
ma diviene qualcosa di interiore all’uomo, una voce che discende dall’alto e che lo permea tutto,
rendendolo capace di leggere tutto nella chiave
della fede. Infatti, Giuseppe all’inizio non sa che i
sogni sono messaggi divini, una vera e propria
chiamata. Ma in tutta la storia si vede questo suo
atteggiamento religioso di fondo, questo timore di
Dio, grazie al quale Dio è il primo e l’unico. Ed è
questo il principio della sapienza (cf Sal 111,10; Pr
1,7). Perciò, di fatto, vive secondo i sogni, perché
passo per passo si lascia guidare dagli incontri, dagli eventi, in maniera che si dischiude tutta la sua
vocazione. Si nota una certa fanciullezza nel suo
cuore, quella purezza che permette di vedere Dio,
quel cuore di bambino che dialoga con tutto, perché tutto è vivo e in tutto Qual cuno gli parla.
Giuseppe non sa che è Dio che gli ha mandato i
sogni, ma, dal momento che è nell’amore, è disponibile alla comprensione dell’amore.
In questo senso, la storia di Giuseppe è estremamente necessaria per la vita spirituale, perché anche
nella vita del cristiano normalmente sono rare le
teofanie esplicite, i veri flussi di grazia, ma Dio ci
guida con la sua sapiente provvidenza attraverso gli
incontri, le persone, gli eventi, i luoghi. Si tratta allo-
30
«Cerco i miei fratelli»
ra di avere la saggezza per discernere e vagliare come le cose che ci stanno capitando, la vita di ogni
giorno fa parte della nostra vocazione per la quale
Dio ci ha chiamati in vita. In genere, non si tratta di
rivelazioni eccezionali, ma di quella intima cognizione che negli eventi, negli incontri e nel quotidiano,
nella storia, Dio, nello Spirito Santo, parla con me,
si comunica, orienta la mia vita a Lui, mi stringe a
Lui, mi rende simile a Lui. È quella straordinaria arte
spirituale che consiste nel trovare Dio in tutte le cose e in tutti gli eventi e nel trovarsi a vivere (cf 1Cor
10,31) e a fare tutto in Dio e con Dio. Non si tratta
di qualche residuo di magia o, peggio ancora, di
qualche sorta di fondamentalismo. È piuttosto quella
sana arte di cui si vanta la spiritualità cristiana: la vita nell’amore di Dio, dove tutte le cose ricordano
l’Amato. È la vita nel kairos, cioè quella pienezza
dell’amore che accorcia le distanze per la contemporaneità e la compresenza del Signore che ci fanno percepire un tempo pieno e una vita piena.
I fratelli di Giuseppe non vivono nella libera adesione dell’amore filiale, ma, sottomessi ad una logica
di invidia. Per questo non sono in grado di comprendere i sogni, che in questo contesto diventano
un incentivo in più per odiare il fratello. I sogni sono da loro interpretati solo in questo calcolo psicologico dell’avere e del potere, di essere di più o di
meno. Guardando alcuni grandi santi, è interessante
constatare l’abilità con la quale essi hanno saputo
intuire le vocazioni delle persone loro intorno nei
sogni, nei desideri che queste avevano. Basti pensare all’incontro di Ignazio di Loyola con Francesco
Saverio, due uomini di carattere fortissimo, lungimi-
31
M. I. Rupnik
ranti, proiettati verso il mondo, l’affermazione, il
successo da un punto di vista psicologico. Eppure
Ignazio non ha percepito Saverio come rivale, come
uno che poteva metterlo in ombra. Nelle visioni e
nei sogni che Francesco svelava ad Ignazio, Ignazio
leggeva lo Spirito che in una tale maniera chiama alla rivelazione di Dio attraverso Francesco.
«Cerco i miei fratelli»: Gen 37,12-20
12
I suoi fratelli andarono a pascolare il gregge del
loro padre a Sichem. 13Israele disse a Giuseppe: «Sai
che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti
voglio mandare da loro». Gli rispose: «Eccomi!». 14Gli
disse: «Va’ a vedere come stanno i tuoi fratelli e come sta il bestiame, poi torna a riferirmi». Lo fece
dunque partire dalla valle di Ebron ed egli arrivò a
Sichem. 15Mentr’egli andava errando per la campagna, lo trovò un uomo, che gli domandò: «Che cerchi?». 16Rispose: «Cerco i miei fratelli. Indicami dove
si trovano a pascolare». 17Quell’uomo disse: «Hanno
tolto le tende di qui, infatti li ho sentiti dire:
Andiamo a Dotan». Allora Giuseppe andò in cerca
dei suoi fratelli e li trovò a Dotan. 18Essi lo videro da
lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono di farlo morire. 19Si dissero l’un l’altro:
«Ecco, il sognatore arriva! 20Orsù, uccidiamolo e
gettiamolo in qualche cisterna! Poi diremo: Una bestia feroce l’ha divorato! Così vedremo che ne sarà
dei suoi sogni!».
32
«Cerco i miei fratelli»
Giacobbe manda Giuseppe
Giuseppe vive in casa con il padre, mentre i fratelli sono lontani a pascolare i greggi. La famiglia di
Giacobbe abita in Ebron e i fratelli sono con il bestiame a nord di Sichem, a più di 80 chilometri. È
una distanza geografica che ne indica anche una interiore. Il percorso che fa Giuseppe per raggiungere
i fratelli è in aperta campagna, accidentato. Come
per il carattere dei sogni, anche il fatto che Giuseppe affronti un viaggio così lungo è indice di una
sicurezza esistenziale come può averla soltanto uno
che si sente amato, allo stesso modo del Figlio di
Dio che si allontana dalla Trinità, dal seno del
Padre, per immergersi negli abissi del creato, dove
sprofonda nel male e nella morte.
Già qui abbiamo l’inizio della realizzazione dei
sogni, dove Giuseppe è il principio dell’unità della
famiglia, dal momento che il padre lo manda dai
suoi fratelli per cercarli. E il padre che invia
Giuseppe a trovare i fratelli è un’altra immagine
cristologica (cf Mt 15,24). Pensiamo a Cristo che si
incammina dietro alla pecora smarrita, che scende
fin nella tomba di Adamo, che fruga la stanza alla
ricerca della dracma perduta... O alla parabola del
padrone che pianta la vigna e manda i suoi servi a
ritirare il raccolto dai vignaioli, ma questi li picchiano uno dopo l’altro. E quando alla fine il padrone invia il figlio, i vignaioli lo uccidono per impossessarsi dell’eredità (cf Mt 21,33-41).
In questo brano per la prima volta Giuseppe
esplicita la sua vocazione: «Cerco i miei fratelli». Non
si rende ancora conto di che cosa significhi, ma sta
33
M. I. Rupnik
già facendo i primi passi nella direzione di ciò che
ha intuito nel sogno. Non comprende ancora del tutto, ma nell’obbedienza vive la sua identità. Una
realtà dalla quale siamo oggi segnati è che ciascuno
di noi ha le sue idee, i suoi progetti, i suoi interessi
che vuole realizzare, portare avanti, in un desiderio
di autoaffermazione che implica anche l’essere originali a tutti i costi, ma difficilmente si è capaci di accettare la proposta di un altro, di entrare in un’altra
logica, di assumere un mandato. E la missione si
compie proprio attraverso l’essere mandati. Giuseppe ha avuto, sì, i sogni, ma l’inizio della realizzazione della sua vocazione è il mandato del padre.
Cristo compie ciò che gli dice il Padre, fa non ciò
che è suo, ma ciò che è del Padre. Infatti, la vocazione di ogni cristiano non si può compiere se non secondo un mandato della Chiesa. La sottomissione di
ogni battezzato alla Chiesa, sia nella sua dimensione
comunitaria che gerarchica, garantisce l'obbedienza,
atteggiamento indispensabile per la realizzazione
della vocazione. Ed è logico,spiritualmente parlando.
Se la vocazione consiste nell’amore del Padre, è impossibile rivelare questo amore affermando se stessi.
Neanche se questo principio autoaffermativo viene
camuffato sotto vesti di generosità e di altruismo. La
difficoltà di oggi è probabilmente condizionata dal
fatto che la nostra cultura favorisce più una mentalità
di progettazione e di autorealizzazione, dove tutto
parte sempre e comunque da noi, senza nessuna seria interlocuzione, piuttosto che la mentalità propria
alla vocazione, dove si risponde e si segue e, seguendo, si serve. Si trova qui probabilmente anche il
motivo per cui oggi c’è così poca creatività. La crea-
34
«Cerco i miei fratelli»
tività è una reale relazione, e si realizza sullo sfondo
dell’amore, dove l’amato, rispondendo all’amore,
crea un mondo penetrato d’amore. È la relazione
d’amore sperimentata, realizzata, a stimolare quella
creatività che prende l’avvio solo da un certo distogliere lo sguardo da se stessi perché convinti della
mèta resurrezionale di ciò che si crea, dal momento
che l'amore risuscita, fa rivivere. È difficile che una
cultura tutta chiusa in un suo antropocentrismo si
svincoli dall’ideologico e dal moralistico. La creazione in questo caso sarà piuttosto una sorta di progettazione mischiata in qualche modo al profitto, al potere, all’autoaffermazione, dunque in definitiva la
produzione di qualcosa di sterile e destinato a morire. La creatività scaturisce dalla relazione d’amore, e
porta ad essa. Mira a coinvolgere le persone, perché
nasce dalla Persona. La nostra fede infatti è la fede
delle persone nella Persona. Si è creativi nel cercare
le persone, perché dalla Persona si è amati. Il materialismo esprime la possessione egoista del mondo
materiale dicendo: questo è mio, mi appartiene. Lo
stesso avviene nel mondo intellettuale: questo pensiero è mio. In sottofondo è l’identità della persona
che è saltata. “Io” equivale ad “io possiedo”, “io ho”.
«Chi ha l’amor proprio, è chiaro che ha tutte le passioni» (Massimo il Confessore, Centurie sulla carità,
III,8, in La Filocalia, ed. italiana, II, Torino 1983, 82).
In pratica, questo vuol dire che l’io viene posseduto
dalla passionalità che lo acceca in maniera da non
vedere più che “io sono” significa essere in relazioni
libere. Più relazioni vivo e più queste relazioni sono
autentiche, più io sono. Più una relazione è spoglia
di passione, di possesso, più è autenticamente d’a-
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