La Toscana di Pietro Leopoldo 2

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La Toscana di Pietro Leopoldo 2
Scipio Scipioni, La Toscana di Pietro Leopoldo: un’avanguardia di civiltà
Rassina, 29 novembre 2015
Dalla morte di Gian Gastone, ultimo granduca dei Medici, nel 1737, all’Unità d’Italia nel 1860 passano
poco più di centoventi anni. In questo periodo tramonta la Firenze città-Stato, di lontana origine
comunale, e nasce faticosamente la Toscana come Stato moderno vero e proprio. Guida tale
trasformazione una dinastia straniera, quella degli Asburgo-Lorena, e soprattutto un suo illustre
rappresentante, Pietro Leopoldo, forse il più grande dei principi assoluti europei.
Sono centoventi anni in cui tutto cambia: si rinnovano l’agricoltura e la vita produttiva, la giustizia e la
sanità, la cultura e il costume, mentre si licenzia l’esercito, si aprono scuole e ospedali e si regala a
Firenze e alla Toscana oltre un secolo di pace. Queste riforme, alcune delle quali superarono in
innovazione e avanzamento quelle di Parigi e Vienna, furono dovute per la maggior parte all’opera di
Pietro Leopoldo. Viene cancellata l’antica Inquisizione, fiorisce il teatro borghese, viene finalmente
combattuta la secolare miseria contadina, nasce una nuova cultura scientifica e “naturalista”, si
costruiscono le strade e i ponti sui quali ancora oggi camminiamo.
La vicenda lorenese, e leopoldina in particolare,
è
rimasta schiacciata tra quello che l’ha preceduta e
ciò che l’ha conclusa, ossia tra la gloria dei Medici e l’epica risorgimentale. Ma la Toscana di oggi,
luogo di bellezza e di cultura, di cui ci sentiamo legittimamente orgogliosi e che suscita ammirazione
nel mondo, ha assunto in quegli anni gran parte della sua fisionomia, perfino paesaggistica.
Pietro Leopoldo fu granduca di Toscana dal 1765 al 1790. Durante il suo governo, mise in atto una
serie di riforme che, nelle sue intenzioni, dovevano adeguare le istituzioni toscane alle grandi idee
dell’Illuminismo. I princìpi illuministici, del resto, almeno come orizzonte culturale, facevano ormai
parte della tradizione familiare degli Asburgo – Lorena.
Appena insediato, il granduca comincia a mettere in pratica uno dei cardini della sua filosofia di
sovrano: l’attenzione al popolo. Scrive di suo pugno:
“È
essenziale per chi governa di mostrarsi
popolare, di salutare indistintamente tutte le persone, anche del popolo, di farsi vedere a piedi […].”
Nei primi giorni del suo regno si verificò un piccolo incidente che mise in luce l’indole affabile del
principe. Desiderando recarsi alla villa di Poggio Imperiale, fu subito ordinato un biroccio, una vettura
scoperta a due o quattro posti, ma, siccome a Firenze quella parola non era conosciuta, fu mandato a
palazzo un barroccio, cioè un carro per trasportare materiali. Chiarito l’equivoco (in parte dovuto a una
corte di lingua tedesca che governava su sudditi italiani), la faccenda non finì qui. Anche il cavallo
inviato successivamente con la carrozza adeguata non fu all’altezza del compito, perché durante la
salita cadde malamente. Il principe proseguì allora, sorridente, il breve viaggio a piedi, consolando il
povero cocchiere moltissimo mortificato.
Pietro Leopoldo lesse gli scritti di Ludovico Antonio Muratori. Poco prima che il granduca prendesse
possesso della Toscana, era stato pubblicato a Milano Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, che si
proponeva di rendere più umani il diritto penale e l’esecuzione delle pene.
Oltre a Milano, l’altro centro dell’Illuminismo italiano era Napoli, dove visse e insegnò Antonio
Genovesi. Si potrebbe notare che Genovesi aveva caro il concetto della “pubblica felicità”, così come
Muratori, che vi dedicò addirittura un trattato (Della pubblica felicità). A Napoli visse anche
Ferdinando Galiani, studioso di economia e autore di un’opera sul commercio dei grani che fu ripresa
da Diderot e pubblicata nell’Encyclopédie.
Gli altri Stati italiani (Venezia, Genova, Lucca, Stato Pontificio) invece, se si esclude qualche apertura
del Regno di Sardegna, restarono chiusi agli ideali illuministici, che, peraltro, anche nel resto d’Europa
ebbero diversa penetrazione: la stessa Inghilterra dei “protoilluministi” Hobbes e di Locke rimase per
lo più la stessa di prima e così la Francia, patria dei “lumi”, non abbracciò certo le nuove idee ma si
ostinò nella conservazione dello status quo, e ciò fu la premessa che avrebbe portato il Paese alla
Rivoluzione.
I Toscani non furono precursori dell’Illuminismo, ma poterono disporre di un “sovrano filosofo”, quasi
una nuova incarnazione dell’ideale platonico.
All’inizio della sua esperienza di governo, Pietro Leopoldo si circondò di “consiglieri di Stato”:
innanzitutto i fratelli austriaci Franz e Anton von Thurn, giunti a Firenze al suo seguito. Poi, ancora un
altro austriaco, Franz Rosenberg-Orsini. Fra i toscani il più importante fu Pompeo Neri; anche
Francesco Gianni e Francesco Rucellai ricoprirono uffici di grande responsabilità.
In una visita a Napoli per accompagnare la sorella Maria Carolina dal re Ferdinando IV (che l’aveva
già sposata per procura), Pietro Leopoldo incontrò Bernardo Tanucci, ministro del regno, che aveva
già avviato importanti riforme e lo definì, riferendosi alla sua saggezza, “giovane di anni, ma vecchio
di mente”.
Il giovane granduca di Toscana dovette affrontare, iniziando il suo periodo di governo, una situazione
molto difficile. Lo Stato era in pezzi e subiva ancora le conseguenze di una carestia, che aveva colpito
nel 1763-’64 la Toscana, terribile, secondo una cronaca
non pure per patite fami e miserie, non pure per seguite morti e pestilenze, ma per istrazj e spettacoli non più visti:
moltitudini correnti rapaci per le disertate campagne o accorrenti fameliche dentro alle desolate città; poveri cibantisi d’erbe
e di ghiande e derelitti dalla impotente carità; madri, per disperazione fatte crudeli, abbandonati i figliuoli sulle squallide
vie.
Pietro Leopoldo cercò innanzitutto di avere un quadro esatto della situazione economica del
granducato e per questo commissionò una rilevazione statistica (la famosa “grande inchiesta” del ’66)
che avesse per oggetto lo stato dell’agricoltura, del commercio, dell’artigianato, degli impiegati nei vari
settori, della circolazione monetaria, dei trasporti e di altri indicatori economici. Il granduca si ispirava
al principio del “conoscere per provvedere”. Prima di ogni decisione o di ogni legge si dovevano
ascoltare tutte le opinioni, anche le più divergenti, che erano anzi sollecitate. Per affrontare e
capovolgere la situazione, Pietro Leopoldo trovò un punto di riferimento nelle grandi idee fisiocratiche
che circolavano in Europa e che incontravano perfetta rispondenza sia nei dettati della recente (1753)
ma già attivissima Accademia dei Georgofili sia nelle convinzioni dei suoi consiglieri, primi fra tutti
(oltre al Rosenberg) il Neri e il Gianni. Secondo i fisiocratici, soprattutto francesi, l’agricoltura
costituisce la prima e più importante attività economica e i terreni devono in primo luogo essere
liberati dai vincoli atavici. Bisognava, cioè, rendere libera la terra, per favorire la nascita e la prosperità
di una folta schiera di piccoli proprietari, che dovevano formare l’ossatura portante del Granducato. La
riforma partì dalla Maremma, assegnando la libera proprietà dei terreni maremmani, fino ad allora del
demanio, a chiunque li lavorasse e li bonificasse.
La Toscana contava allora circa un milione di abitanti, dei quali 80.00 circa vivevano a Firenze, dove
30.000 erano i cittadini “senza occupazione” ed esistevano appena 36 locande. Il problema più urgente
era l’insufficienza alimentare che causava le carestie. Leopoldo lo affrontò liberalizzando del tutto il
commercio del grano, fino ad allora sottoposto a rigidi vincoli. La legge frumentaria del 18 settembre
1767, varata prima per il solo territorio senese e poi per tutta la Toscana, sanciva una totale libertà
frumentaria: toglieva la tassa sul pane, inaugurava il libero commercio interno ed estero del grano, ne
consentiva la conservazione e l’accumulo ad opera dei privati. Grazie alle importazioni fu possibile
aiutare la popolazione colpita da carestia.
Un importante provvedimento leopoldino fu la soppressione degli appalti delle finanze pubbliche,
stabilendo che fosse lo Stato a provvedere direttamente alla riscossione delle imposte. Un’altra misura
fu quella di limitare i diritti di manomorta, ossia l’inalienabilità dei terreni di proprietà di soggetti
ecclesiastici, religiosi o nobiliari. I vecchi contratti agricoli furono modificati, introducendo il diritto di
affrancazione”, per il quale il contadino concessionario poteva a determinate condizioni, riscattare la
terra che lavorava e diventarne padrone. Lo scopo (a onore del vero in gran parte fallito) prefissosi dal
“
governo era quello di radicare una proprietà contadina come alternativa alla mezzadria.
Venne quindi avviata la bonifica della Maremma, di cui fu incaricato il gesuita Leonardo Ximenes,
impresa che però non riuscì. Fu invece portata a termine la bonifica della Val di Chiana con il metodo
delle “colmate”, consistente nella costruzione di terrapieni al cui livello venne portato il terreno
circostante, grazie alla sedimentazione dei detriti trascinati dalle acque.
Risulta quindi preminente l’interesse del granduca per la campagna, testimoniato anche da misure di
tutela della mezzadria. L’obiettivo era quello di creare una omogeneità territoriale Toscana, eliminando
o riducendo le differenze tra zona e zona. I provvedimenti che avevano come oggetto l’economia
agraria in generale furono ispirati ai princìpi di uguaglianza e libertà, come per esempio
l’assoggettamento all’imposta fondiaria anche dei possessi granducali, fino ad allora del tutto esenti.
Così, non si poterono opporre i vari enti religiosi, che dovettero accettare il nuovo ordinamento. Pietro
Leopoldo si prefiggeva di rendere ai proprietari la piena disponibilità dei terreni, mentre i contadini
dovevano essere padroni della loro forza lavoro. Non si riuscì però a creare efficienti imprese contadine
di medie dimensioni e l’obiettivo di ridistribuire il patrimonio fondiario in proporzioni più eque fra un
numero molto maggiore di proprietari non fu raggiunto.
Un cenno particolare merita l’architettura leopoldina, che ci ha lasciato molti splendidi edifici. Ma c’è
una realizzazione che non troviamo nei manuali di storia dell’arte, bensì piuttosto in una ideale storia
del progresso civile: quella delle case coloniche, delle quali in Toscana il granduca promuove i progetti
e le costruzioni. L’Accademia dei Georgofili, verso il 1770, avvia un dibattito sull’architettura rurale, al
quale contribuisce, con il suo trattato Delle case de’ contadini, Ferdinando Morozzi, fornendo una
nuova unità tipologica di costruzione. Nel 1780 Bernardino della Porta, rifacendosi al Buontalenti,
elabora un prototipo di casa colonica che diventa poi il modello tipo: la casa a blocco con colombaia e
loggiati. Si tratta di una costruzione a due piani, con tetto e padiglione e la colombaia a forma di
torretta posta al suo culmine. Quanto i contadini avessero bisogno di migliorare le loro condizioni
abitative lo spiega lo stesso granduca in uno scritto autografo, facente parte delle sue Relazioni.
Dopo le case, le strade. La politica stradale dei Lorena durò cent’anni, ed ebbe scopi molteplici: far
fiorire i commerci e l’agricoltura; creare una maglia viaria interna tra Firenze e il Granducato;
assicurare uno sbocco sul Tirreno ai traffici toscani e imperiali. Tra le tante opere, vi fu l’apertura del
passo dell’Abetone. Una strada che ci riguarda da vicino, la Firenze-Passo della Consuma-Casentino, fu
voluta da Pietro Leopoldo, che ne fece realizzare il primo tratto, fino al Passo della Consuma. Sarebbe
stata terminata vent’anni dopo.
Dopo l’agricoltura, anche le arti e i mestieri furono investite da un processo di impronta liberistica, che
poneva fine alla Toscana medievale e municipalistica e la trasformava in Stato moderno. Furono sciolte
le corporazioni e istituite le Camere di Commercio.
Il granduca si volse poi all’organizzazione dello Stato, giungendo a concepire una Costituzione che
avrebbe rappresentato una rivoluzione per un sovrano dell’”ancien régime”, informandosi al principio
che definisce lo Stato come una casa comune tra sovrano e cittadini. Ciò corrispondeva alle tesi
enunciate nel Contratto sociale di Rousseau.
In una lettera del 25 gennaio 1790, indirizzata alla sorella Maria Cristina, il granduca proclamava quei
principi costituzionali in cui credeva e non poté attuare: “Ogni Stato ha bisogno di una Costituzione o
di un contratto tra popolo e sovrano che limiti l’autorità o il potere del sovrano stesso. Se il sovrano non
vi si attiene, egli rinuncia così facendo alla sua posizione, che gli era stata data a queste condizioni
[…]. Il potere esecutivo risiede nel sovrano, mentre quello legislativo nel popolo e nei suoi
rappresentanti.”
E’ il rifiuto di ogni assolutismo, è la volontà (dieci anni prima della Rivoluzione Francese) di legare
sovrano e popolo, in modo che entrambi formino le leggi, si controllino a vicenda e concorrano al bene
comune dello Stato. A ispirare il progetto della Costituzione leopoldina furono anche, certamente, gli
avvenimenti contemporanei delle colonie inglesi in America, che portarono, con l’insurrezione, alla
fondazione degli Stati Uniti. Il granduca ne fu direttamente e costantemente informato da uno dei
protagonisti, Benjamin Franklin, con il quale era in rapporto d’amicizia, e dal fiorentino Filippo
Mazzei, intraprendente e avventuroso mercante che si era trasferito oltreoceano, grazie anche all’aiuto
dello stesso Leopoldo, e che forse gli aveva inviato il testo della Dichiarazione di Indipendenza del 4
luglio 1776.
Dei fatti americani l’Europa più attenta aveva riportato un’impressione profonda. Denis Diderot, uno
dei padri dell’Encyclopédie, così scriveva: “Dopo secoli di oppressione generale, possa la rivoluzione
che
è
appena operata al di là dei mari, offrendo a tutti gli abitanti dell’Europa un asilo contro il
fanatismo e la tirannide, istruire coloro che governano gli uomini sull’uso legittimo della loro autorità!
Possano questi coraggiosi americani prevenire l’accrescimento enorme e l’ineguale ripartizione della
ricchezza, il lusso, la mollezza, la corruzione dei costumi, e provvedere al mantenimento della loro
libertà e alla durata del loro governo!”. Si formava quel sistema americano che per la prima volta, con
anticipo sulla Rivoluzione Francese, si definiva democrazia. L’America faceva quello che l’Europa
aveva solo saputo pensare e realizzava quello che soltanto la Grecia antica era stata capace di
realizzare.
Seguendo quel modello, Leopoldo stila il suo abbozzo di Costituzione e lo passa al Gianni, che a sua
volta lo medita e lo postilla. Il lavoro di riflessione e limatura dura tre anni e nel 1782 il progetto finale
è
pronto. Vi si riconosce l’eguale diritto di tutti i cittadini alla felicità, alla libertà e alla proprietà e da
ciò deriva il loro diritto di esercitare il controllo sul governo. Il monarca non
è
più il padrone dello
Stato, ma il servitore del popolo. Egli non è che un delegato, il cui potere è d’ora in poi diviso fra lui e
le rappresentanze del popolo, elette con precisi meccanismi di partecipazione (assemblee comunali,
provinciali e generali).
La Costituzione non entrò mai in vigore, sia per non generare contrasti con il fratello di Pietro
Leopoldo, l’imperatore Giuseppe II, sia perché il granduca dovette ascendere improvvisamente al trono
imperiale, succedendo allo stesso fratello, prematuramente scomparso.
Ma fu varato anche un progetto di semplificazione dell’organizzazione amministrativa, che prevedeva
un nuovo ordinamento comunale, con un sindaco, il “Gonfaloniere”, e dei priori, estratti a sorte fra i soli
proprietari terrieri, che avrebbero costituito una nuova Magistratura. I restanti componenti del
Consiglio comunale sarebbero stati scelti mediante sorteggio fra tutti gli altri cittadini del comune
iscritti alle tasse e fra un limitato numero di rappresentanti dei coltivatori agricoli privi di mezzi. La
Magistratura e il Consiglio comunale avrebbero avuto, grosso modo, le competenze dei comuni di oggi.
Su tutto il sistema, però, vigilava un’autorità centrale, la “Camera delle comunità”. Il progetto aveva
l’obiettivo di estendere sempre di più la rappresentanza di tutti i cittadini e la loro consultazione a tutti i
livelli.
Un altro principio fondamentale cui si ispirava il granduca di Toscana era quello del “rendimento”, che
non teneva conto dell’origine sociale dei cittadini, ma li distingueva in due sole categorie produttive: i
possessori” e “gli artisti stabiliti”, ossia i proprietari terrieri e gli artigiani, che possono produrre
ricchezza e quindi contribuire al funzionamento dello Stato attraverso il versamento delle imposte.
“
A differenza di Aristotele, che considerava l’ideale una “miscela” tra le diverse componenti sociali,
Pietro Leopoldo riduceva queste ultime a due: il principe e i cittadini attivi.
Nel venticinquennio in cui la governò Pietro Leopoldo, la Toscana, secondo lo storico Hermann Büchi,
“
fu completamente trasformata in uno stato organizzato su principi moderni, senza bisogno di
rivoluzioni e prima della Rivoluzione Francese.”
L’inclinazione scientifica del granduca, coltivata anche privatamente con passione, faceva sì che si
guardasse con interesse alle innovazioni. Sulla Torre del Mangia a Siena fu installato il primo
parafulmine italiano. Era stato appena inventato da Benjamin Franklin, amico e frequentatore del
principe.
Pietro Leopoldo, inoltre, fissò e mantenne la neutralità della Toscana. Per quanto riguarda i rapporti
con la Chiesa, essi furono difficili. Il granduca intendeva arginare l’influenza politica della Chiesa
stessa, rendere più profonda la vita religiosa e semplificare tutti i costumi e i riti liturgici. Si trattava di
princìpi giansenisti e al giansenismo Pietro Leopoldo aderì per lungo tempo.
Tra i provvedimenti contro la Chiesa vi furono il divieto di eremitaggio e di questua, ritenute pratiche
parassitarie e del tutto inutili per la collettività. Nel 1782 il granduca fece sopprimere il Tribunale
dell’Inquisizione, che era in piedi da cinque secoli.
Il consigliere religioso di Pietro Leopoldo fu Scipione de’ Ricci, prima vicario a Firenze e poi vescovo
di Prato e Pistoia. L’intento del granduca era quello di una “democratizzazione” della Chiesa toscana
per renderla indipendente da Roma. Per questo promosse sinodi diocesani, ma solo a Prato e Pistoia un
sinodo ebbe luogo. Gli altri vescovi non seguirono il disegno leopoldino e tanto meno il cardinale di
Firenze Martini. Contro le iniziative di Pietro Leopoldo fu emessa anche una bolla papale, la
“
Auctorem fidei”.
In risposta, il granduca soppresse la nunziatura pontificia a Firenze.
Un’altra, la più famosa, innovazione leopoldina fu la riforma del codice penale (1786), che abolì la
pena di morte (mentre in Francia rimase anche dopo il 1789), anche per il reato di lesa maestà.
Certamente, il nuovo codice fu ispirato all’opera di Cesare Beccaria, che auspicava la mitezza delle
pene in luogo dell’intimidazione. Ed effettivamente si registrò una diminuzione dei delitti. A Firenze,
alla notizia della proclamazione della legge, furono bruciate, nel cortile del Bargello (sede della polizia
cittadina), le ormai inutili forche e gli antichi strumenti di tortura.
Riguardo al tipo di delitti e alla condizione sociale degli imputati, prima della riforma, prendiamo, per
averne un’idea, un anno e un luogo a caso: il territorio di Siena nel 1781. I processi svolti furono 1216,
i processati 1868. Vi furono, tra l’altro, 9 casi di adulterio, 2 di aborto, 2 di calunnia, 74 di “danno
dato”, 8 estorsioni, 106 ferimenti, 418 furti, 5 incesti, 3 infanticidi, 69 “inosservanze d’esilio”, 54 reati
di insulto, 2 lenocini,1 reato di “libello diffamatorio”, 57 omicidi, 6 reati per questua, 3 per ratto, 80 per
rissa, 5 reati di sodomia, 32 reati per “sollevazione di tumulti”, 124 stupri, 3 suicidi, 28 truffe, 7 reati di
usura. Nell’insieme, per tutti questi delitti, vi furono altrettante condanne al bollo, alla frusta, alla fune,
alla gogna, al carcere, a pene pecuniarie. Settantasette di questi casi furono di competenza
dell’Inquisizione. Un’altra parzialissima statistica ci dice l’origine sociale e la condizione dei rei. Su 45
imputati, 14 erano contadini, 3 lavoratori della terra, 2 servitori, 1 manovale, 1 muratore, 1 calzolaio, 1
cappellaio, 1 oste, 2 guardie, 1 ecclesiastico, 2 di condizione diversa.
su questo scenario, appena accennato, che cade l’innovativo Codice penale leopoldino dell’86. Esso
riunisce per la prima volta la materia sparsa in una miriade di leggi settoriali in un corpus organico che
È
attua la certezza del diritto. Inoltre, vi si ribalta l’impronta inquisitoria fino ad allora avuta dal processo
penale, nel quale la ricerca della verità era astrattamente perseguita con ogni mezzo (da qui,
soprattutto, la pratica della tortura): l’imputato diventa soggetto di diritti, protagonista del processo, al
quale finalmente la difesa partecipa in modo attivo. A questo fine la carcerazione preventiva
al minimo, la tortura
All’imputato
è
è
è
ridotta
abolita, viene istituita la difesa d’ufficio per gli imputati non abbienti.
riconosciuto il diritto al confronto diretto con l’accusatore. Infine, quando risulti
innocente, avrà diritto (novità quasi inconcepibile per i tempi) a un risarcimento per il danno subìto. Il
Codice penale leopoldino cancella anche, come si è detto, il “delitto di lesa maestà”. Il granduca
argomenta che o si tratta di un crimine vero e proprio, e allora deve ricadere sotto le leggi comuni, o
esso attende esclusivamente alla sfera del politico, e allora non c’è motivo alcuno di repressione.
Neppure la Rivoluzione Francese giungerà a queste innovazione estreme, in epoca di sovrani assoluti.
Non
è
l’eccessivo rigore delle pene, secondo Leopoldo, che fa da deterrente ai delitti, ma una solida
prevenzione e una pronta e giusta punizione dei colpevoli (mentre le irregolarità e le lungaggini dei
processi erano pratica quotidiana).
Purtroppo gli eventi presto contraddiranno, in parte, questo monumento del diritto costruito dal
granduca. Appena quattro anni dopo, infatti, i moti di Livorno e di Prato indurranno prima a
reintrodurre la pena di morte e una sorta di “delitto politico”, che il successore Ferdinando III riporterà
all’antico concetto di lesa maestà.
Nessun codice civile, invece, fu promosso, nonostante ve ne fosse un grande bisogno, dato che i molti
decreti, editti e leggi in materia erano contraddittori e non rispondevano ai princìpi dell’Illuminismo.
Ma lo spirito del Codice penale leopoldino avrebbe fatto molta strada, ispirando una scuola toscana di
diritto che concorrerà a redigere nel 1853 un nuovo codice penale, che gli stessi piemontesi, al
momento dell’unità d’Italia, non si sentiranno di sostituire con il ben più arretrato codice sardo, e fino
al 1889 l’Italia avrà quindi due codici penali, quello toscano e quello per il resto dello Stato.
Un risultato di grande importanza della politica granducale fu l’abbattimento del debito statale. Furono
decisi uno sfoltimento e una semplificazione delle tasse, che favorirono il potenziamento della capacità
contributiva dell’economia.
Un altro punto del programma politico d Pietro Leopoldo, quello, secondo le sue intenzioni, prioritario,
fu l’educazione dei sudditi. Il granduca, illuminista ma profondamente cristiano, adottò misure contro
la superstizione e l’analfabetismo diffuso e tentò di introdurre un sistema unitario di istruzione, ispirato
alle teorie di Johann Heinrich Pestalozzi. Il pedagogista e filosofo fu addirittura sul punto di essere
chiamato a Firenze, ma ciò non avvenne e il progetto di istruzione pubblica granducale rimase
incompiuto. In un’annotazione del granduca si legge il suo ideale di scuola: “Oggetto degli studi non è
di imparare molte nozioni, bensì l’arte di saperne acquisire di nuove. […] ”Occorre”, dice Pietro
Leopoldo, “avvezzare i fanciulli a fare uso della loro ragione nei differenti campi della vita, il che è lo
scopo di tutti gli studi.” E aggiunge che bisogna “insegnare a non farsi abbagliare da un vano splendore
di parole senza senso e non restare contenti mai prima di aver penetrato a fondo le cose”. Parole
inaudite, in bocca a un sovrano che pure sa bene quanto il conformismo serva ad ottenere consenso. Ma
la pedagogia di Pietro Leopoldo, lontana dall’essere mezzo di asservimento al potere,
è
un generoso
sogno di emancipazione del popolo ed ha punte di sconcertante modernità.
In ambito scolastico e culturale, fu anche stabilito il primato dell’università di Pisa su quella di Siena.
Curiosamente, non fu istituita nessuna cattedra di economia né di diritto amministrativo, discipline che
tanto stavano a cuore al granduca. Fu fondato a Firenze il Museo di Storia della Scienza e fu istituita
l’Accademia di Belle Arti. Vi fu inoltre il tentativo di creare un’accademia scientifica unica che
comprendesse la Crusca, ma il progetto fallì e la Crusca ritornò ad essere autonoma. Grande impulso fu
dato all’Accademia dei Georgofili, mentre non riuscì la fusione dei conservatori di musica, anche se la
musica a Firenze era molto coltivata e qui operò Luigi Cherubini.
Un altro settore interessato dalle riforme del granduca fu quello della sanità. In poco tempo fu
riassestato l’intero sistema ospedaliero fiorentino. Molte piccole strutture furono soppresse e i malati e
le attrezzature cliniche riuniti nel grande ospedale di Santa Maria Nuova, che venne ampliato e
ammodernato con ingenti spese. Furono create e potenziate anche le scuole di medicina e chirurgia,
così da consentire una ricettività di ben mille malati. Ma l’iniziativa più rivoluzionaria fu la creazione
del primo ospedale psichiatrico europeo, che il granduca stabilì nelle vecchie strutture, rinnovate,
dell’antico ospedale di San Bonifacio, in via San Gallo. A comprendere per primo la vera natura della
follia, considerandola come gli altri un male da curare con sistemi appropriati fu Vincenzo Chiarugi,
empolese laureatosi in medicina a Pisa nel 1779 e divenuto il fondatore della moderna psichiatria.
Dopo la morte del fratello Giuseppe II, Pietro Leopoldo dovette prendere il suo posto sul trono
imperiale asburgico. Il primo giorno di marzo del 1790 prese commiato dalla “sua” Toscana.
Nonostante i tanti progetti incompiuti, molte erano le riforme che aveva saputo condurre in porto,
guadagnandosi l’ammirazione del mondo illuminista e facendo della Toscana uno Stato europeo.
Concluderei proponendo un accostamento tra i provvedimenti di Pietro Leopoldo e quelli che un altro
grande riformatore sta adottando oggi in Italia. Il paragone non sembra illegittimo e si possono cogliere
parallelismi e analogie.
Ad esempio, abbiamo visto come il granduca attuò importanti riforme che rimisero in moto
un’economia stagnante. Allo stesso modo, oggi si afferma che una serie di misure appropriate hanno
fatto “ripartire” l’economia in crisi. Per la verità, Pietro Leopoldo ci riuscì davvero e oggi, per ora, si
dice soltanto (mentre a molti non risulta), ma queste sono sottigliezze.
Prendiamo la scuola: il granduca si impegnò in una riorganizzazione che ebbe l’obiettivo di creare
cittadini più consapevoli e preparati alla vita. Si ispirava alle idee di un grande pedagogista svizzero.
La riforma scolastica di oggi è stata dettata da un grande pedagogista siciliano. Pietro Leopoldo voleva
una scuola di qualità, una scuola buona, si potrebbe dire. E oggi abbiamo “la buona scuola”. Un
linguista potrebbe spiegare come il senso di un’espressione cambi semplicemente cambiando la
posizione di una parola, tanto da far assumere il carattere di stereotipo, di ironia e perfino di antifrasi.
Per esempio, il poeta Guido Gozzano descrive “le buone cose di pessimo gusto”, scoprendo, con il
superlativo, l’ironia dell’aggettivo. Secondo un suo biografo, Pietro Leopoldo, mosso da una sconfinata
fiducia nella ragione, intendeva le scuole soprattutto come presìdi di buon senso. E oggi le scuole sono
pensate soprattutto come prèsidi (del cui buon senso non dubitiamo). Vedete l’affinità: cambia solo
l’accento.
Troviamo un’altra corrispondenza tra passato e presente nel campo del diritto. Leopoldo si coprì di
fama abolendo la pena di morte. Il riformatore di oggi, non so se coprendosi di qualcosa, ha abolito
l’articolo 18. Una grande conquista giuridica anche questa.
Leopoldo progettò una Costituzione che non c’era, per limitare il potere esecutivo, cioè il proprio
potere. Il riformatore di oggi vuole cambiare la Costituzione esistente per accrescere il potere
esecutivo, cioè il proprio potere. È cambiato solo il “verso”, direbbe qualcuno.
Si può ravvisare un altro parallelismo tra le due vicende biografiche, un parallelismo, per così dire,
“
logistico”. La Storia, quella con la S maiuscola, a volte “chiama” i personaggi che ritiene degni. Così,
Pietro Leopoldo fu chiamato da Firenze alla capitale. Allo stesso modo, il riformatore di oggi è stato
chiamato da Firenze alla capitale. Vienna nel primo caso, Roma nel secondo. Entrambi capitali
imperiali, ma in epoche diverse.
Due protagonisti del loro tempo, accomunati da una volontà riformatrice: Pietro Leopoldo, un sovrano
che voleva essere democratico; il riformatore dei nostri giorni, un democratico (nel senso del partito)
che vorrebbe essere…sovrano.
Peccato che l’impero non esista più.