A passo d`auto. Impresa e lavoro nel settore automobilistico
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A passo d`auto. Impresa e lavoro nel settore automobilistico
A PASSO D’AUTO Impresa e lavoro nel settore automobilistico A cura di Andrea Bardi, Francesco Garibaldo, Volker Telljohann Indice Introduzione Francesco Garibaldo, Andrea Bardi, Volker Telljohann 5 Ristrutturare l’industria automobilistica e la sua forza lavoro: una prospettiva a livello mondiale di Ulrich Jürgens 11 Catene del valore e sistemi di fornitura 41 La riorganizzazione della catena del valore nella filiera automobilistica Giuseppe Volpato 43 Audi e Bmw: le strategie di fornitura di due case automobilistiche di successo Rainer Greca 75 Il fornitore modulare nel settore automobilistico svedese Peter Fredriksson 119 Sistemi locali e sviluppo regionale 145 Lo sviluppo della modularizzazione e il design di prodotti di nicchia in Brasile Mario Sergio Salerno, Ana Valéria Carneiro Dias 147 Il distretto automobilistico di Stoccarda – evoluzione e tendenze con particolare riferimento alla cooperazione nei cluster virtuali Joachim Warschat, Kristina Wagner, Christina Edelmann 167 Gli impatti dell’industria automobilistica sui modelli di sviluppo regionale Andrea Bardi, Giuseppe Calabrese 203 Regolazione e condizioni del lavoro 245 Strategia aziendale globale – Rappresentanza globale dei lavoratori? I casi Volkswagen e DaimlerChrysler Torsten Müller, Hans-Wolfgang Platzer, Stefan Rüb 247 Processi di ristrutturazione e regolazione sociale - il caso tedesco Volker Telljohann 275 Il Teamworking nel settore automobilistico negli U.S.A.: strategie ed effetti sulle prestazioni produttive e sui risultati dei lavoratori William Cooke, David Meyer, Christopher Huxley 297 Scenari di sviluppo del settore auto 341 L’auto, la mobilità, il lavoro Francesco Garibaldo 343 Introduzione di Francesco Garibaldo, Andrea Bardi, Volker Telljohann L’industria automobilistica rappresenta, per tutte o quasi le economie avanzate del mondo, la colonna vertebrale della struttura industriale dei rispettivi paesi. Se a questo si associa il fatto che non esiste paese ad economia avanzata che non sia anche leader industriale, per sillogismo diviene evidente quanto importante risulta essere l’auto per la prosperità passata, attuale e futura dei paesi appartenenti al cosiddetto primo mondo. L’industria dell’auto è peraltro strategica anche per la quasi totalità dei paesi emergenti, ovvero quelle nazioni che più recentemente si sono affermate sui mercati globali come significative aree di produzione, anche grazie alla capacità di attrarre ingenti investimenti da parte dei costruttori automobilistici. Questa pubblicazione parte da questo convincimento, ovvero dall’importanza strategica del settore automobilistico, ed esce in un momento di crisi e trasformazione dell’industria dell’auto in tutto il mondo; la crisi pare essere particolarmente forte soprattutto in Europa e negli U.S.A ma è tutt’altro che distribuita in modo omogeneo. Il libro vuole fornire ai lettori, in particolar modo a non specialisti interessati al settore – ad esempio gli studiosi di altri settori, i sindacalisti, i rappresentanti del mondo dell’impresa e i policy maker ed i funzionari pubblici che si occupano di industria, commercio e pianificazione pubblica - un’informazione ed una valutazione aggiornata di quanto sta accadendo, con una particolare attenzione alle aziende della sub-fornitura; quanto accade infatti nelle aziende finali - quelle convenzionalmente chiamate OEM (Original Equipment Manufacturers) in tutti i settori – è più noto. Il testo offre innanzitutto uno spaccato di orizzonte internazionale, dal momento che non può che essere questo il quadro di riferimento per un ragionamento su questo settore. Il testo affronta le problematiche sia strategiche sia organizzative che caratterizzano il settore automobilistico e più in specifico analizza le scelte operate da alcuni tra i più importanti produttori di automobili a livello globale. In particolare, i saggi raccolti si concentrano su alcuni aspetti solitamente meno indagati quali il legame tra OEM e fornitori di componenti, Original Equipment Suppliers (OES), l’impatto dell’industria dell’auto sul territorio di localizzazione, il lavoro e la sua regolazione, il rapporto tra auto e mobilità. Il testo è articolato in un saggio di apertura, tre diverse sezioni caratterizzate da tre articoli ognuna e un saggio di chiusura. Il libro illustra, attraverso il saggio di apertura di Ulrich Jürgens, le connessioni tra processi di ristrutturazione industriale e lavoro a livello globale, sottolineando peraltro l’esigenza di approfondire anche in una logica di ricerca sul campo la natura di questo legame. Seguono poi nove articoli suddivisi in tre diverse tematiche: · Catene del valore e sistemi di fornitura · Sistemi locali e sviluppo regionale · Regolazione e condizioni del lavoro Il capitolo conclusivo di Francesco Garibaldo chiude il testo, proponendo un possibile scenario di sviluppo e rilancio del settore auto all’interno di una più ampia prospettiva, quella della mobilità sostenibile. L’approccio dei diversi saggi è differente sia nell’ampiezza dei temi trattati che nella copertura geografica; alcuni affrontano il quadro complessivo dei temi industriali e del lavoro su base nazionale, altri su base regionale, naturalmente le localizzazioni strategiche dell’industria dell’auto; altri ancora si soffermano su aspetti specifici, pur inquadrandoli nella dinamica complessiva del settore. Il lettore attento può costruire dei percorsi propri di comparazione delle tendenze in atto, cercando dei criteri interpretativi dell’apparente “cacofonia” che ne risulta. Il primo dei tre saggi della sezione dedicata alla catena del valore e i sistemi di fornitura, intitolato “La riorganizzazione della catena del valore nella filiera automobilistica” e curato da Giuseppe Volpato, esplora con approccio longitudinale le implicazioni del processo di motorizzazione intervenuto sia in Italia sia nel mondo, descrivendo l’impatto dell’evoluzione della domanda (da primo acquisto a sostituzione) sulle strategie dei costruttori automobilistici. L’articolo esamina in special modo le evoluzioni intervenute all’interno del sistema di fornitura, approfondendo in particolare i rapporti tra OEM e OES e attingendo a vari esempi tratti dalle esperienze avviate da diversi costruttori e fornitori automobilistici europei, statunitensi e giapponesi. Questo tema è analizzato approfonditamente rispetto ai casi Audi e Bmw da Rainer Greca, curatore del pezzo intitolato “Audi e Bmw – strategie di fornitura di due produttori di successo”, il quale descrive in chiave comparativa e longitudinale l’approccio strategico dei due costruttori tedeschi rispetto ai rispettivi sistemi di fornitura, così come le implicazioni organizzative, individuando peraltro le principali similarità e diversità. Il tema della modularizzazione emerge chiaramente come strategia “forte” perseguita da tutti i costruttori automobilistici presi in esame nei diversi contributi. Ciò non di meno, come sottolinea Fredriksson nel suo pezzo “Il fornitore modulare nel settore automobilistico svedese”, il quale analizza nel dettaglio il modello organizzativo della fornitura di moduli degli stabilimenti svedesi di Saab e Volvo, i costruttori automobilistici mondiali hanno spesso seguito percorsi differenziati. La seconda sezione: “Sistemi locali e sviluppo regionale”, anch’essa composta da tre contributi, risulta essere fortemente connessa alla precedente nel senso che esplorando la dimensione del rapporto tra settore auto e territorio affronta inevitabilmente le problematiche relative ai sistemi fornitura, in genere caratterizzati da una moltitudine di imprese sub-fornitrici, contoterziste e di servizi di diverse dimensioni e concentrate all’interno di aree geografiche delimitate, ovvero i sistemi produttivi locali. Nel primo pezzo “Lo sviluppo della modularizzazione e il design di prodotti di nicchia in Brasile”, curato da Mario Sergio Salerno e Ana Valéria Carneiro Dias è descritto come la costruzione di un parco fornitori attraverso l’investimento greenfield è in genere il percorso utilizzato per gli insediamenti produttivi di nuova costruzione, non solo nei paesi in via di sviluppo. La prossimità, spaziale e temporale, tra assemblatore finale e fornitori di primo livello permette, nel caso dell’investimento greenfield, una gestione ottimizzata e sincronizzata delle forniture di moduli, ma una ricaduta modesta sul tessuto imprenditoriale autoctono. Il caso in questione pare tuttavia essere una positiva eccezione. Infatti, descrivendo il caso della sussidiaria brasiliana di Fiat Auto, Salerno e Carneiro Dias dimostrano come le specificità di contesto del Brasile (condizione delle infrastrutture stradali regionali, preferenze e abitudini consolidate dei consumatori, ecc.) abbiano indotto il costruttore torinese ad attribuire allo stabilimento brasiliano una forte autonomia (decentralizzazione) sia sul fronte dello sviluppo prodotto sia rispetto alla selezione dei fornitori da utilizzare. Ciò ha permesso da un lato un forte sviluppo delle competenze interne allo stabilimento brasiliano, dall’altro la preferenza verso fornitori locali. Nel loro contributo relativo al distretto di Stoccarda (Il distretto automobilistico di Stoccarda – evoluzione e tendenze, con particolare riferimento alla cooperazione nei cluster virtuali), Joachim Warschat, Kristina Wagner e Christina Edelmann, introducendo il concetto di virtual cluster, sottolineano come emergano in modo dirompente due effetti opposti, ovvero da un lato l’espansione delle produzioni di auto a livello globale, dall’altro il radicamento di tali produzioni all’interno di agglomerati produttivi che vengono a concentrarsi all’interno di aree geograficamente delimitate. Gli autori, valorizzando le potenzialità della cooperazione a livello locale come elementi di competitività su scala globale, evidenziano l’esistenza di una possibile combinazione positiva tra le due dimensioni, utilizzando il termine “glocalizzazione”. Il ruolo del territorio, ovvero il contesto sociale “situato” e le competenze in esso radicate, risulta essere centrale al fine di comprendere le capacità innovativa e competitiva dei sistemi produttivi locali. In questo caso gli attori locali quali le università, gli enti pubblici locali e le associazioni di impresa rappresentano veri e propri attori dello sviluppo. Il loro ruolo diviene cruciale in particolare in quei territori dove è forte e radicata la presenza di un’imprenditorialità diffusa, ovvero un importante tessuto di PMI. A tal proposito Warschat, Wagner e Edelmann, delineando lo scenario di sviluppo futuro, sottolineano che i processi di globalizzazione mettono a dura prova gli equilibri socio-economici raggiunti all’interno dei sistemi produttivi locali (regional network) dei paesi occidentali, con particolare riferimento alle PMI. Ciò non di meno, nell’evidenziare la necessità che i regional network si trasformino in virtual cluster, sottolineano come all’interno di questo scenario gli elementi di cooperazione informale quali la fiducia continuino a giocare un ruolo determinante. L’ultimo contributo della sezione: “Gli impatti dell’industria automobilistica sui modelli di sviluppo regionale”, curato da Andrea Bardi e Giuseppe Calabrese, introducendo il concetto di filiera, compara le performance economico-finanziarie delle imprese appartenenti alle filiere dell’automobile piemontese e della motoristica emiliano-romagnola, evidenziando similarità e diversità nei due modelli. Il netto differenziale tra le due filiere in termini di indici di bilancio dimostra che il modello multisettore e multiprodotto emiliano-romagnolo ha registrato nel periodo analizzato risultati più performanti rispetto al sistema monospecializzato piemontese nel quale la crisi del settore finale si è riverberata inevitabilmente sulla sottostante struttura della fornitura, soprattutto sui primi livelli della catena della fornitura. La sezione “Regolazione e condizioni del lavoro” propone tre articoli: Il primo: “Strategie d’impresa globali – rappresentanza degli interessi globali dei lavoratori? I casi della Volkswagen e della Daimler-Chrysler”, curato da Torsten Müller, Hans-Wolfgang Platzer e Stefan Rüb, riferisce di due casi esemplari non solo perché sono esempi per gli altri ma anche perché rappresentano situazioni idealtipiche. Il pezzo di Volker Telljohann su globalizzazione e patti per l’occupazione propone una valutazione critica di alcuni tra i più rilevanti patti per l’occupazione e la competitività sottoscritti tra sindacato e i più importanti gruppi tedeschi quali Siemens, DaimlerChrysler, Volkswagen, Bosch, General Motors, Karstadt, Philips, Braun Melsungen, BASF e Deutsche Bahn (Ferrovie tedesche). La valutazione complessiva porta a evidenziare come in alcuni casi tali patti rischino di minare i fondamenti del contatto collettivo di lavoro in Germania. Infine, l’articolo dal titolo: “Lavoro di gruppo nel settore della fornitura motoristica negli Stati Uniti: strategie ed effetti sull’esperienza nell’impresa manifatturiera e conseguenze sui lavoratori”, curato da William Cooke, David Meyer e Christopher Huxley, offre, attraverso i risultati di una corposa indagine sul campo che ha coinvolto numerose imprese di fornitura auto negli Stati Uniti, un quadro originale sulle finalità, le modalità e i risultati dell’introduzione del teamworking in azienda, valutando al contempo l’impatto sui lavoratori e sul loro grado di motivazione. Il saggio conclusivo: “L’auto, la mobilità, il lavoro”, propone il terreno della mobilità sostenibile come cantiere di lavoro, ovvero spazio di politica pubblica in grado di combinare, facendo leva sia sulla domanda sia sull’offerta di mobilità, l’interesse collettivo di un ambiente libero da un inquinamento oramai divenuto emergenza vitale e l’interesse “privato” di un settore industriale in crisi di sovrapproduzione ma in grado di rappresentare un attore chiave all’interno di una nuova stagione di crescita, sviluppo e benessere. Ristrutturare l’industria automobilistica e la sua forza lavoro: una prospettiva a livello mondiale di Ulrich Jürgens 1 Motore della crescita L’industria automobilistica, durante il suo primo secolo di vita è stata caratterizzata da una crescita quasi inesorabile, nonostante ci siano stati periodi di recessione e di stasi e, in generale, lo sviluppo sia avvenuto in modo ciclico. Il XXI Secolo vede l’industria automobilistica ancora prospera a livello mondiale Motore della crescita e dello sviluppo economico dei paesi industrializzati, l’industria oggetto della nostra ricerca, si è diffusa in diverse aree geografiche, ed in particolare, in epoca recente, ha raggiunto buoni risultati nei paesi in via di sviluppo e nei paesi dell’ex blocco orientale. Tale diffusione della produzione può aver attenuato le prospettive di crescita dei paesi più industrializzati, ma fino ad ora ha portato soprattutto guadagno. Nello stesso periodo, l’industria è stata caratterizzata da fasi di riorganizzazione e ristrutturazione. Considerando solo la seconda metà del secolo scorso ed il periodo del boom della ripresa post-bellica, la prima di queste ondate di riorganizzazione ha riguardato il lavoro, la qualità del lavoro e le relazioni industriali (fine anni ’60 e anni ’70); la seconda fase ha riguardato l’acquisizione di nuove tecnologie, robotizzazione, computerizzazione delle fabbriche (seconda metà degli anni ’70 fino alla metà degli anni ’80); la terza fase ha riguardato le sfide poste dal Giappone in termini di concetti più elevati di management e produzione, sviluppo dei prodotti, relazioni con l’indotto (gli anni ’80); e la quarta fase ha affrontato la globalizzazione e la reingegnerizzazione delle catene del valore, modificando radicalmente la divisione del lavoro nell’industria tra organizzazioni e aree geografiche(gli anni ’90). La quinta ondata di riorganizzazione è stata innescata da fusioni e acquisizioni e dal mercato dei capitali guidato da nuovi modelli imprenditoriali (1997-2002). Nell’affrontare il presente, l’immagine diventa confusa. Mentre le strategie di riorganizzazione del periodo precedente proseguono tuttora, portando risultati attesi ed inattesi, il futuro è più incerto che mai. L’incombenza di una elevata sovracapacità minaccia gli attori e potrebbe imporre ridimensionamenti ed esuberi; una serie di nuove tecnologie “rivoluzionarie” sembrano annunciare un periodo di innovazioni dirompenti, permettendo a nuovi attori di accedere all’industria a scapito di altri; e la ristrutturazione della divisione del lavoro tra OEM (Original Equipment Manufacturers: costruttori di sistemi originali) e fornitori nelle catene del valore globalizzate continua a velocità costante, portando alterne sorti per i dipendenti in diverse aziende e paesi. Questo studio affronta le dinamiche centrali della ristrutturazione e l’impatto che esse hanno avuto sulla forza lavoro. Si incentra in primo luogo sull’orientamento dell’industria verso nuovi mercati in crescita, particolarmente verso la Cina e l’Europa orientale all’inizio del nuovo decennio, in secondo luogo su una maggiore intensità di innovazione nel settore e sulle concomitanti modifiche alla base della conoscenza tecnologica e nelle strutture di fornitura, e, in terzo luogo, su avvicendamenti nella catena del valore, in particolare nelle relazioni tra produttori automobilistici e fornitori (indotto). Il secondo capitolo descrive queste tendenze di sviluppo. Il terzo capitolo riguarda l’impatto della ristrutturazione sui dipendenti dell’industria automobilistica. L’articolo si conclude con un sommario e con un capitolo conclusivo. 2 Ristrutturazione &C., riorganizzazione Per l’industria automobilistica l’inizio del nuovo secolo ha portato grande turbolenza, squilibri, e una spinta ininterrotta ed apparentemente unificante verso la ristrutturazione. Questa situazione deriva dalle nuove opportunità generate dagli sviluppi tecnologici e del mercato, dalle modifiche nel posizionamento degli attori tra gli stakeholder dell’industria, da nuovi concetti alla base della divisione del lavoro e dell’organizzazione industriale –strategie e processi che sono stati avviati ed introdotti negli anni ’90. 1 Sviluppi del Mercato Gli anni ’90 sono stati gli anni della globalizzazione. I produttori di motoveicoli hanno svolto un ruolo guida all’interno di questo processo. Come mostra la Tavola 1, tutte le principali aziende automobilistiche hanno aumentato, nel giro di pochi anni, l’esportazione all’estero della propria produzione, con un processo inizialmente rapido che tuttora sta continuando con lo stesso ritmo. La Toyota, per esempio, ha recentemente annunciato che avrebbe duplicato nel prossimo decennio la propria capacità produttiva fuori dal Giappone (“Automotive News”, 8 novembre 2004: 3) così come altri produttori stanno progettando di espandere all’estero le proprie capacità produttive. All’inizio degli anni 2000 e alla vigilia di cambiamenti macropolitici iniziati con la liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati dei prodotti e dei capitali, le opportunità di crescita nei mercati emergenti sono identificate in primo luogo nell’Europa centrale, orientale e con la Cina, considerate sedi per nuovi impianti di assemblaggio multinazionali. Questa tendenza prosegue la corsa che aveva caratterizzato il decennio precedente alla costruzione di impianti in America Latina, in particolare in Brasile. Se le speranze di un di maggiori opportunità di mercato vengono deluse, restano almeno i vantaggi della produzione a basso costo. La struttura dei costi sta diventando una fattore chiave che determina la differenziazione tra vecchie e nuove localizzazioni. Tavola 1: Quote di Produzione all’Estero dei Principali Produttori Automobilistici 2000 e 1993 Produttore automobilistico 2000 1993 GM 48,1% 37,6% Ford 48,7% 30,9% Toyota/Daihatsu 30,2% 20,0% VW 60,7% 53,3% Fiat 40,0% 30,3% Nissan 49,1% 35,8% Renault 41,8% 15,6% Honda 51,3% 37,1% Fonte: Toyota Motor Company (2002): Profilo aziendale; Automotive News Market Data Book 1994; Servizio Stampa VDA 31.1.1995; Toyota Motor Corporation, The Automobile Industry 1994. Negli anni ’90 l’industria automobilistica ha diretto gran parte dei propri investimenti verso paesi con retribuzioni elevate, in particolare verso gli Stati Uniti. Nella prima decade del 21° secolo invece l’attenzione si concentra sulla Cina e sull’Europa centrale ed orientale (MOE), definite aree a bassa retribuzione. In vista dell’allargamento dell’Unione Europea, i paesi della MOE hanno offerto una combinazione unica di condizioni di produzione a basso costo e mercati altamente redditizi per l’industria automobilistica. Il nuovo decennio è caratterizzato dunque dall’interesse verso la Cina e l’Europa orientale. Il dinamismo dello sviluppo cinese è infinitamente maggiore del boom latino-americano degli anni ’90. Con gli occhi puntati sulle prospettive di crescita del mercato cinese, considerate immense a breve e lungo termine (le tendenze di bolla di sapone gettano dubbi sul medio termine), tutti i maggiori produttori automobilistici e fornitori di componentistica, hanno iniziato a sviluppare progetti di joint venture per costruire impianti ed espandere le proprie capacità produttive. Si prevede che in Cina la capacità produttiva passi da 2,6 milioni nel 2003 a 6,4 milioni nel 2007; infatti solo per quanto riguarda la capacità di utilizzo delle vetture passeggeri prodotte da aziende transnazionali è prevista una crescita della domanda da 1,8 a 3,1 milioni (Federazione Internazionale dei Metalmeccanici 2004: 38). Dal 1999 la capacità di utilizzo degli impianti automobilistici brasiliani è stata circa del 50% (Nazioni Unite 2004: 123). In 23 province e città sono attualmente in costruzione nuove fabbriche automobilistiche (Sieren 2003). “Guardare avanti”, afferma il Rapporto sullo Sviluppo industriale in Cina, su Auto Industry in China 2003 si legge, “le opportunità sono enormi per l’industria automobilistica. Nei prossimi 10–15 anni, la Cina diventerà il più grande mercato automobilistico del mondo … In quel momento, la produzione annua potrebbe raggiungere i 17 milioni di unità e le auto immatricolate potrebbero essere 100 milioni di unità” (Ministero della Scienza e della Tecnologia 2002). E’ chiaro che in questa fase i dati possano essere considerati “gonfiati” In vista della crescita economica cinese, lo sviluppo dell’industria automobilistica era tarato sul mercato interno. Sono previsti tuttavia dei cambiamenti. La Volkswagen (VW) si aspetta che, entro i prossimi tre anni, il 10% della propria produzione in Cina possa essere esportata, e che le esportazioni acquistino in futuro un ruolo sempre più importante. Fondamentale risulterà l’esportazione della componentistica. General Motors intende acquistare annualmente dalla Cina una quantità di componenti pari ad un valore di10 miliardi di US$, mentre GM e Ford stanno spingendo i propri fornitori ad aprire fabbriche in Cina. Le aziende statunitensi intendono infatti approfittare dei bassi costi di produzione che caratterizzano l’industria cinese . Effettivamente, l’esportazione di componenti per automobili dalla Cina sta crescendo rapidamente. Nel 2003 il valore delle esportazioni di componentistica era pari a 2,4 miliardi di US$, rispetto all’1,8 miliardi del 2002. Questo importo può apparire basso, se viene confrontato con gli obiettivi di esportazione definiti dal Governo per il 2010, che dovrebbero raggiungere i 70- 100 miliardi di US$. Il raggiungimento di questi numeri è condizionato dalla necessità dell’industria componentistica cinese di migliorare sia il livello qualitativo che i costi della propria produzione. Attualmente è difficile considerare questa industria competitiva a livello globale. “La maggior parte delle circa 1500 imprese di componentistica del paese che producono ad un livello accettabile ha libri paga gonfiati, equipaggiamento produttivo obsoleto o poca esperienza nella produzione di massa di parti, a fronte dei rapidi cambiamenti di design a cui sono abituati i produttori automobilistici statunitensi ” afferma uno dei Big Three degli acquirenti, citato in un articolo del “Wall Street Journal Europe” (Shirozu 2003). Un rapporto del Boston Consulting Group colloca gli svantaggi derivanti da queste inefficienze nei settori dell’indotto tra il 10 ed il 20%, per quanto riguarda grandi joint ventures affermate, e fino al 40% per le aziende automobilistiche minori . (The Boston Consulting Group 2002). Una maggiore competitività sui mercati internazionali è uno dei principali obiettivi della nuova Politica di Sviluppo dell’Industria Automobilistica formalmente annunciata dal governo cinese nel 2004. Viene riaffermato l’obiettivo di trasformare l’industria automobilistica in un’“industria portante” per la nazione entro il 2010 e, come tale, rimarrà nell’ambito del macro-livello di controllo da parte del governo centrale. Il programma governativo prevede inoltre che l’industria automobilistica debba svilupparsi per diventare competitiva, sia a livello nazionale che internazionale ed eliminare inefficienza e bassa qualità (Auto Industry 2004). La Cina offre considerevoli vantaggi dal punto di vista delle retribuzioni. Nella Tav. 2 vengono indicati i dati sul costo del lavoro, che può essere considerato l’aspetto principale dell’attuale supremazia cinese. Tavola 2: Retribuzioni mensili di categorie professionali selezionate ( espresso in dollari USA), in India, Cina, Taiwan e Giappone India Cina Singapore Taiwan Giappone USA D i r e t t o r e 1,764 Generale 2,865 11,131 13,638 18,300 31,200 D i r e t t o r e 937 Produzione 1,866 6,740 6.986 12,045 11,592 D i r e t t o r e 724 Impianto 1,399 4,639 6,036 7,992 8,052 I n g e g n e r e 490 Sistemista 746 2,290 2,573 4,663 5,460 Supervisore 384 Produzione 589 1,847 2,253 3,485 3,917 Segretaria/o 176 393 1,326 1,415 1,720 2,208 Autista 147 279 975 1,520 1,217 2,442 Il secondo ambito geografico di investimento che caratterizzerà il nuovo decennio, è l’Europa dell’Est. Questa regione offre un’interessante combinazione di aspetti positivi: un mercato europeo integrato e vantaggi in termini retributivi. Gli investimenti si concentrano attualmente, nella Repubblica Slovacca e nelle regioni adiacenti nella Repubblica Ceca, in Polonia, in Ungheria, dove la prossimità degli agglomerati automobilistici austriaci offre anche vantaggi logistici. Un ruolo importante viene svolto dal fornitore austriaco-canadese Magna Steyr, che offre non solo servizi ingegneristici, ma anche l’assemblaggio completo di veicoli nel premium segment. La costituzione di un centro di sviluppo Magna Steyr presso il sito produttivo di Audi a Györ (Ungheria), conferma questo processo. Nonostante il trasferimento di capacità produttive nell’Europa orientale, fin dall’inizio degli anni ’90 abbia inteso principalmente trarre vantaggio dalle opportunità di mercato che si sviluppavano nella regione (Richet/Bourassa 2000), di fatto buona parte della produzione era destinata ai mercati occidentali, dato che, la maggioranza dei mercati dell’Europa orientale continuano ad essere ancora serviti da vetture usate provenienti dall’Europa occidentale. La percentuale di auto tedesche prodotte all’estero ed immatricolate in Germania è pari ad un quinto, ed è notevolmente aumentata negli ultimi anni. (“Automobilwoche” 19, 13 settembre 2004). Nel 2003, la quota totale di vetture per passeggeri prodotte in Polonia, nella Repubblica Ceca, nella Repubblica Slovacca e in Slovenia (ndt: nel testo originale viene ripetuto “Slovakia”), rappresentava il 18% di tutti i veicoli tedeschi prodotti all’estero (VDA 2004: Tatsachen und Zahlen: 55). Il precursore è stato il Gruppo Volkswagen, che tra il 1991 ed il 2001 ha integrato la Skoda ceca ed ha aumentato lo sviluppo della produzione nella Repubblica Slovacca (Podevins 2004). La sussidiaria della Volkswagen, Audi, produce sia i motori che la vettura sportiva TT nella sede di Györ in Ungheria. Altri produttori di veicoli a motore che avevano già costruito impianti in paesi della MOE negli anni ’90, sono Fiat in Polonia, GN/Opel in Polonia e Ungheria e Suzuki in Ungheria. Nel 2003, l’assicuratore crediti francese Euler-Sfac, dopo la fine dei regimi comunisti, ha investito in Polonia, Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca nel settore dei motoveicoli, per un importo complessivo pari a 20 miliardi di US$. All’inizio del nuovo decennio, la capacità produttiva è di nuovo fortemente aumentata con la prospettiva dell’allargamento dell’UE. Il produttore sud-coreano Kia, ha deciso di spendere 700 milioni di euro entro il 2005, in uno stabilimento a Zilina (Repubblica Slovacca), con una capacità produttiva pari a 200.000 veicoli. Un altro importante investimento è la joint venture tra Toyota e PSA a Kolin (Repubblica Ceca), che ammonta a 1,5 milioni di euro entro il 2005. Inoltre, Opel e Fiat stanno investendo somme considerevoli in Polonia, Suzuki in Ungheria, aumentando le capacità esistenti. Nel 2006 i nuovi stati membri dell’UE, Polonia, Slovacchia, Ungheria, Slovenia e la Repubblica Ceca, avranno 13 stabilimenti di assemblaggio, 10 fabbriche powertrain e centinaia di impianti dell’indotto. Sono inoltre previsti siti produttivi per Honda e MG Rover. Questo investimento arriverà quasi a raddoppiare la produzione totale dei quattro nuovi paesi membri Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca e Ungheria tra il 2004 ed il 2006 (Podevins 2004; Dudenhöffer 2004). La tendenza a ricorrere all’outsourcing riguarda anche aree geografiche diverse dai nuovi paesi UE. Nel 1999, Renault ha preso in carico il produttore automobilistico rumeno Dacia, e, da settembre 2004, produce una vettura, tecnicamente analoga a quelle costruite in Francia, che, seppure pensata per il mercato dell’est e venduta a 5000 euro, certamente troverà acquirenti anche in Europa occidentale. La retribuzione mensile degli operai è di 150 euro, ed è la metà delle retribuzioni dell’Europa centrale. I futuri mercati per questa vettura sono l’Europa centrale ed orientale e la Turchia, i paesi del Maghreb e l’Europa occidentale (“Automobilwoche”, 27 settembre 2004: 5). L’industria dell’indotto è particolarmente attratta dal basso costo del lavoro nei Paesi MOE, poiché, raggiungendo in media il 25% dei costi totali, in questo settore superano il 15% del costo medio del lavoro nell’assemblaggio finale (Dudenhöffer 2004: 3). Dato che l’indotto che ha sede in Europa centrale raggiunge proprio l’assemblaggio finale, questo settore, come suggeriscono le analisi, potrà registrare tassi crescita simili o superiori a quelli dell’industria automobilistica nel suo complesso. Negli ultimi anni, somme considerevoli sono state investite dai principali fornitori; il fornitore statunitense Delphi ad esempio, soltanto in Polonia impiega attualmente 5000 persone. Qui gli investimenti totali ammontano a 250 milioni di US$. Le piccole e medie imprese dell’indotto, spesso sono sottoposte a pressioni particolari, dato che la loro struttura finanziaria le obbliga a generare direttamente dai profitti il capitale necessario per espandere la competenza tecnologica e la crescita.. Considerata la forte pressione sui costi da parte dei produttori finali, rilocalizzare in Europa centrale e orientale, spesso rappresenta l’unica soluzione. Come mostra la tavola 3, sono enormi in Europa le differenze nelle retribuzioni e nel costo del lavoro nel suo complesso. Considerato 100 il livello di retribuzione tedesco, negli stessi paesi dell’Europa occidentale, i valori arrivano al 50% del livello tedesco; e nei paesi dell’Europa orientale variano dal 20% in Ungheria, fino al 13% nella Repubblica Slovacca, al 6% in Romania e al 4% in Russia. I dati nella tavola 3 si basano sugli importi retributivi annui e sul costo del lavoro pro-capite nell’industria automobilistica; sono inclusi anche gli stipendi degli impiegati che in proporzione spesso sono più alti, la 13° mensilità, ed altri pagamenti, che, come spesso avviene, non vengono presi in considerazione quando si mettono a confronto le paghe orarie. Tavola 3: Scala delle retribuzioni annue (Germania=100) e costo del lavoro per persona impiegata nelle industrie automobilistiche europee 2003 Stipendi e salari Costo totale del lavoro Germania 100,0 100,0 Regno Unito 75,9 69,9 Francia 70,2 78,3 Svezia 66,4 77,7 Spagna 55,6 59,6 Italia 49,5 57,4 Ungheria 20,3 22,0 Polonia 18,1 17,8 Repubblica Ceca 16,4 17,9 Slovenia 11,8 - Slovacchia 12,9 13,9 Romania 5,6 6,2 Russia 4,0 - Fonte: VDA: International Auto Statistics, edizione 2004, p.350f.; 361f., propri calcoli. Il dato medio pro capite per stipendi e salari in Germania era di 45.700 euro; per il costo totale del lavoro 57.200 euro La tavola 4 mostra la situazione dei fornitori tedeschi ed i loro progetti per la realizzazione di nuovi stabilimenti o l’espansione della propria produzione e lo sviluppo delle capacità produttive in aree geografiche diverse: dalla tavola si evince come all’inizio del decennio anche l’Europa orientale avesse un ruolo simile a quello della Germania (est e ovest), per quanto riguarda la pianificazione di nuove capacità produttive oltre al fatto che le prospettive di investimenti a medio termine nella regione erano già superiori a quelle tedesche. La stessa cosa vale a medio termine, per la realizzazione di capacità produttive in Asia. La tavola 4 mostra l’aumento dell’importanza – molto minore – di queste zone di collocazione per finalità di sviluppo. Tavola 4: Programmi di espansione di produzione e capacità di sviluppo in nuove aree geografiche, a breve e medio termine dei fornitori tedeschi Breve termine Medio termine 2001-2006 2006-2011 % Produzione % Sviluppo % Produzione % Sviluppo RFT – vecchi stati federali 15,8 27,1 9,6 29,0 RFT – nuovi stati federali 7,3 7,5 5,1 6,5 Europa 10,3 9,8 8,8 11,2 Europa orientale 21,8 8,3 20,6 9,3 Russia 1,2 0,0 6,6 1,9 Nord America 14,5 14,3 10,3 10,3 Sud America 5,5 3,0 8,1 2,8 Asia 13,9 8,3 18,4 10,3 Altri 0,6 0,0 1,5 0,0 Non pianificato 9,1 21,8 11,0 18,7 Fonte: Dudenhöffer et Deutschland, p. 17-18 al 2002: Gemeinschaftsstudie Automobilstandort Come abbiamo visto, la combinazione tra basse retribuzioni ed integrazione europea nella MOE, produce una configurazione particolare, che, con lo sviluppo dell’industria automobilistica, può indebolire la situazione precedente, di tutto guadagno, nelle relazioni tra paesi industrializzati e paesi di transizione/sviluppo, attraverso la rapida ricollocazione di risorse a valore aggiunto e posti di lavoro, a detrimento dei paesi industrializzati. Di contro, i produttori automobilistici tedeschi, sviluppano capacità produttive in Cina, in primo luogo per espandersi sul mercato cinese. I coreani ed i giapponesi, in quell’area hanno una combinazione simile tra vantaggi in termini di costo del lavoro e ingresso sul mercato – anche se manca la prospettiva europea di integrazione politica ed economica. In vista delle differenze del costo del lavoro, che rispetto alla Cina variano da un decimo ad un tredicesimo dell’ammontare domestico, le aziende giapponesi e coreane hanno incentivi considerevoli per l’outsourcing delle attività. 2 Innovazione La tecnologia di innovazione del prodotto apre un’altra area di nuova crescita e di cambiamento radicale nell’organizzazione industriale. La regolamentazione nazionale e sopranazionale, è un’importante forza motrice in questo campo. E lo sviluppo di nuovi sistemi propulsori, nuovi materiali, parti elettriche ed elettroniche, e risultanti nuove funzionalità e caratteristiche dei prodotti che facilitano la vendita, per quanto riguarda i motoveicoli, offrono opportunità di crescita basate sulla conoscenza, che generano richieste di nuove competenze e opportunità per l’ingresso di nuovi attori nel settore. Alla fine degli anni ‘90 ed all’inizio del 2000 e dopo il recesso della prima ondata di globalizzazione, si è verificato un marcato aumento delle attività di innovazione, in particolare in Europa ed in Giappone. In vista di un’intera gamma di nuove tecnologie di cui era annunciata la messa in opera nella prima decade del nuovo secolo, un rapporto McKinsey affermava: “L’industria automobilistica affronta … una rivoluzione dell’innovazione …” (McKinsey/VDA 2003: 69). La metafora della rivoluzione era stata usata solo un decennio prima, con riferimento a cambiamenti radicali nell’industria automobilistica. In quel periodo si trattava dell’introduzione della “produzione agile”, incentrata in primo luogo su nuovi concetti organizzativi – fornitura just-in-time, lavoro di gruppo, miglioramento continuo, ecc. L’innovazione del decennio successivo, è più fortemente determinata da sviluppi nella tecnologia di prodotto e nuovi sistemi propulsori. Per quanto riguarda la gamma di nuove tecnologie anticipate, un altro studio vede l’industria automobilistica come “settore battistrada del futuro” e prevede che: “… sovracapacità, diminuzione delle vendite, mancato rientro … presto apparterranno al passato. Dopo i decenni della tecnologia informatica e della tecnologia della comunicazione, sta iniziando il decennio dell’automobile.” (Hypovereinsbank/Mercer 2001: 2). Come mostra la tavola 5, modifiche nella tecnologia di prodotto stanno spostando il baricentro nell’ambito delle tecnologie di base nella produzione automobilistica, con conseguenze per le competenze organizzative e per le aree operative di diverse aziende specializzate. Mentre l’importanza delle tecnologie meccaniche ed idrauliche è drasticamente diminuita, il contributo della pneumatica ed in particolare dell’elettronica, stanno fortemente aumentando. Tavola 5: Spostamento dell’importanza di tecnologie chiave dell’auto 2000 2010 Tecnologie meccaniche 61,0% 51,5% Tecnologie idrauliche 14,0% 7,5% Pneumatica 3,0% 4,0% Elettronica 22,0% 37,0% Fonte: Hypovereinsbank/Mercer 2001 La figura 1 mostra il percorso dell’innovazione per veicoli classe compact in Europa. L’evidenziazione mostra tecnologie che contribuiscono in modo particolarmente forte a modificare l’architettura del valore aggiunto. Come regola, comportano tecnologie di produzione e competenze completamente nuove, e, in certe situazioni, permettono a nuove aziende di prendere piede nel settore. Il percorso dell’innovazione si divide in quattro segmenti: interni, powertrain, carrozzeria, scocca. Tutti questi segmenti, sottolineano gli autori, sono fortemente influenzati da sviluppi nella parte elettrica/elettronica. Figura 1: Il Percorso dell’innovazione per veicoli classe compact in Europa Fonte: McKinsey & Company (2003): p. 20 Nel confrontare questi mercati regionali, si presuppone che molte innovazioni siano introdotte in Nord America con un ritardo di tre/cinque anni rispetto all’Europa (McKinsey/VDA 2003: 20ff.). La differenza di fondo tra percorsi di innovazione europei e giapponesi, è l’introduzione della propulsione elettro-ibrida, che in Giappone è avvenuta all’inizio del periodo in questione, ma che lo studio (datato 2003!) non prevede per l’Europa fino al 2011. Tuttavia, una maggiore intensità innovativa, accompagnata dalla domanda di maggiore sicurezza e comfort da parte degli utenti, produce un dilemma: “Gli utenti vogliono macchine migliori ma non vogliono pagarle di più. Per i produttori di veicoli, i costi che ne risultano e la pressione ad innovare, premono sulla produttività. L’industria automobilistica affronta quindi una rivoluzione nell’innovazione con conseguenze profonde sulla catena del valore” (ibidem: 69). Secondo gli autori dello studio, le possibilità offerte dall’elettronica per controllare e caratterizzare il comportamento delle vetture, determinano anche la natura delle innovazioni di prodotto in atto. “Le innovazioni dei prossimi anni, differiscono fondamentalmente da quelle degli anni passati. I moduli e processi esistenti, fino ad ora sono stati costantemente quasi solo ottimizzati – mentre le innovazioni future rivoluzioneranno interi sistemi. Porteranno alla sparizione di molte componenti meccaniche, … il loro sviluppo richiede competenze completamente diverse … I ricercatori che lavorano sull’interfaccia tra elettronica e meccanica di precisione, dovranno essere esperti del nuovo settore della meccanotronica ... Per loro sarà necessario avere conoscenze di programmazione complessive, per poter scrivere software di controllo personalizzati del veicolo” (ibidem: 42f.). Il boom dell’innovazione nell’industria automobilistica solleva interessanti domande rispetto alle teorie del ciclo di prodotto e sulla classificazione del settore auto come industria matura, dalla quale al più ci si possono aspettare innovazioni di incremento, ma non innovazioni di radicale avanzamento – almeno non per quanto riguarda gli attori affermati. È giusta questa immagine di “old economy” dell’industria automobilistica? Le nuove tecnologie saranno una fonte di “ringiovanimento”, premettendo a questo settore di entrare in una fase nuova, “fluida” di maggiore intensità innovativa? Il fattore “regolamentazione” gioca un ruolo chiave nel determinare la direzione e l’intensità nell’innovazione dei sistemi propulsori. Nei paesi della triade, la regolamentazione è stata anche messa in campo in larga misura per proteggere le industrie domestiche, ed ha avuto una rilevante influenza sull’intensità e sulla tempistica dei processi innovativi. Ha anche contribuito notevolmente ad aumentare il valore aggiunto per veicolo. Questo causa un aumento dei prezzi di costo, che influenzano la situazione competitiva. Dal punto di vista dell’occupazione, si tratta di un difficile atto di bilanciamento. D’altro canto, la regolamentazione crea e garantisce area di attività ad altra professionalità, per quanto riguarda ricerca e sviluppo e produzione, mentre si rischia che l’aumento dei prezzi faccia diminuire la domanda. È rischioso per il produttore andare avanti con lo sviluppo di tecnologia, anticipando la regolamentazione, solo per poi scoprire che le funzionalità create non vengono accettate, o che il mercato non mostra interesse o apprezzamento per la loro utilità. In un contesto di lobbying, i produttori europei hanno attribuito ai costi aggiuntivi dovuti alla regolamentazione, più di 5.000 euro. 3 Relazioni dei fornitori Le spinte verso una reingegnerizzazione delle catene del valore e frammentazione, specializzazione, consolidamento delle strutture e dei modelli di business degli attori ad essa collegati, continuano ad essere un processo dinamico di cambiamento, con molti tentativi e fallimenti e ripetute riorganizzazioni (cfr. Jürgens 2004). La necessità di chiudere il gap competitivo con i giapponesi, mettendo sul mercato una gamma sempre più ampia di modelli, ad intervalli sempre più brevi, stabilendo siti produttivi all’estero sull’onda della globalizzazione, ed il farlo con risorse di capitali ristrette – un fattore che diventa sempre più pesante a partire dagli anni ’90 – ha prodotto un cambiamento dinamico nelle strutture industriali, un cambiamento che continua a dispiegarsi con grande dinamismo nel nuovo decennio. Questo cambiamento è caratterizzato anche da concentrazione societaria e frammentazione. Una prova lampante della prima tendenza, è la caduta del numero di produttori automobilistici indipendenti. Anche tra le imprese dell’indotto, pochi attori sono stati in grado di venire a capo della grande quantità di nuove richieste – di sviluppo e competenza produttiva, mobilizzazione di capitali, competenza come fornitori di sistemi e moduli. Entro un decennio, il settore della componentistica si è trasformato, attraverso fusioni ed acquisizioni, in un terreno di conquista per le imprese fornitrici multinazionali. Si sono costituiti megafornitori, che operano su una base paritetica rispetto ai maggiori produttori, per quanto riguarda consistenza finanziaria, forza lavoro, multinazionalità. La tavola 6 mostra la crescita dei primi cento a livello globale, nei soli quattro anni dal 1998 al 2002. I primi 25 sono posizionati meglio degli altri, con un turnover medio tre volte più alto rispetto a quello del gruppo successivo. Tuttavia, le 25 piccole imprese tra le prime cento a livello globale, registrano i più alti gradi di cambiamento, aspetto difficile da conciliare con la tesi semplificatoria delle economie di scala e scopo. Tavola 6: I primi cento fornitori a livello globale nel 2002 e 1998 per turnover (in milioni di US$) 2002 1998 Quota 2002 Modifica % (1998) % Turnover totale 367, 1 284, 3 100 (100) 29 1° quartile: 234, 0 178, 7 64 (63) 31 66,3 54,9 18 (19) 21 42,1 33,6 11 (12) 25 25,6 17,1 7 (6) 50 (da Delphi a Bridgestone) 2° quartile: (da American Automotive) Axle a TI 3° quartile: (da Stanley Flex-N-Gate) Electric 4° quartile: a (da Webasto a F-Tech) Fonte: “Automotive News Data Center”, Quotazioni dei principali fornitori, http://www.autonews.com/datacenter.cms La principale forza motrice alla base di questo processo, è l’outsourcing degli OEM al fine di ridurre l’integrazione verticale nello sviluppo del prodotto e nella produzione. Esperti finanziari prevedono che questa tendenza continui, con il risultato che la quota dell’indotto nel valore complessivo di un’automobile, aumenterà dal 60% al 70% entro il 2010. Un aumento del 33% nel 2002 fino al 51% nel 2010, è atteso per la quota dell’indotto nello sviluppo di nuovi prodotti (VDA 2000: 52). L’outsourcing della produzione verso i fornitori avviene in parallelo con una politica degli OEM tesa a ridurre il numero di fornitori diretti, stabilendo un ordine nella filiera della fornitura. All’inizio degli anni ’90, questa tendenza seguiva il modello giapponese di una “piramide”, con l’OEM al vertice, seguito da un primo livello di fornitori, a loro volta serviti da un secondo livello di fornitori, anch’essi a loro volta serviti da un terzo livello di fornitori e così via fino alla base, che è costituita dai fornitori di materie prime. Una simile piramide, riduce la complessità delle catene dell’indotto per gli OEM. Nel frattempo essi hanno drasticamente ridotto il numero di fornitori diretti, e si sta sviluppando una struttura multi-livello, con un numero ridotto di aziende di primo livello, che forniscono direttamente gli OEM. Queste aziende di primo livello sono servite da aziende di livelli inferiori che non hanno più relazioni dirette con gli OEM. Andrebbe aggiunto, che la tendenza verso la costituzione di una nuova gerarchia, è visibile anche tra fornitori di equipaggiamento di processo, servizi ingegneristici, ecc.. La modularizzazione determina una particolare tendenza alla strutturazione a livelli del settore dell’indotto – non conosciuta in questa forma in Giappone. Definire moduli in modo adeguato alle numerose e diversificate richieste dell’industria (p.es. per quanto riguarda sviluppo, produzione, logistica, ecc.), si è rivelato un processo difficile, che ha richiesto enormi acquisizioni ingegneristiche da parte degli OEM ed ingenti sforzi per acquisire le necessarie competenze da parte dei fornitori intenzionati a fare affari. All’inizio degli anni ’90, la modularizzazione era in primo luogo un progetto europeo, anche se oggi non è più così. La maggiore concentrazione quantitativa di fornitori di moduli (e sistemi), è comunque ancora europea, e quindi è lì che il cambiamento strutturale nell’industria della componentistica per automobili è stato più significativo. La tendenza verso una produzione a moduli e sistemi, favorisce fortemente lo sviluppo di “megafornitori”. Gli esperti finanziari tedeschi Roland Berger & Partner, affermano che il consolidamento in questo settore industriale, nel 2000 aveva già prodotto un oligopolio di sette – otto principali fornitori di moduli e sistemi. Prevedono che questo quadro si riduca a cinque o sei entro il 2005, ed a tre entro il 2010. Allo stesso tempo, il numero di moduli e sistemi per vettura si è ridotto attraverso l’ulteriore integrazione di parti e funzioni in moduli e sistemi più grandi. Mentre nel 2000 una vettura conteneva da 18 a 20 moduli, Roland Berger prevede che entro il 2005si riducano a 14 e 16, ed a circa 10 entro il 2010 (Roland Berger & Partner GmbH 2000). L’aspetto più eclatante dello sviluppo rispetto ad un modello piramidale, è dunque la tendenza a ridurre il numero degli attori sia a livello degli OEM che tra i fornitori di primo livello di moduli e sistemi. I cambiamenti descritti, hanno trasformato il ruolo degli OEM e stabilito nuovi aspetti e modalità di specializzazione tra gli attori nella catena del valore stessa. Mentre l’integrazione verticale, nel tipico produttore automobilistico nordamericano o europeo alla metà degli anni ’80 era ancora al 50 – 60%, e produzione, ricerca e sviluppo e assemblaggio finale, erano considerati competenze centrali, nel 1995 l’integrazione verticale era già scesa fino al 30 – 40%. I produttori di motoveicoli avevano già accettato il nuovo ruolo di produttori automobilistici con competenze centrali per quanto riguarda il design, lo sviluppo della tecnologia fondamentale e l’assemblaggio finale. In futuro, i produttori automobilistici saranno integratori del marchio, con meno del 20% di integrazione verticale e competenze centrali concentrate su design, marketing e vendite. Questo sviluppo avviene in parallelo con la frammentazione della catena del valore determinata da aziende che acquisiscono funzioni specifiche. Mentre gli OEM dominavano direttamente o indirettamente l’intera “piramide”, dagli elementi e dalle tecnologie di base fino ai componenti, dai sistemi e moduli fino all’integrazione definitiva ed all’assemblaggio, riservandosi fondamentalmente il diritto di scegliere quali elementi dell’intero spettro di attività dovevano essere prodotti internamente o messi sul mercato, cinque gruppi specializzati formano ora: - specialisti della tecnologia che si focalizzano su parti e tecnologie specifiche, specialisti per moduli e sistemi come il cofano, la cabina di guida, ecc.; - specialisti dei servizi di sviluppo, aziende ingegneristiche per lo sviluppo di veicoli e componenti di veicoli; - esperti di assemblaggio, che assemblano vetture per conto delle aziende che detengono il marchio; - integratori del marchio, che limitano la propria competenza centrale allo sviluppo concettuale, al design delle vetture ed a marketing e vendite. La figura 2 mostra le quote dei vari tipi di prodotti dell’indotto e degli OEM nella catena del valore complessiva nel 1999 e la redistribuzione prevista tra i diversi specialisti. Figura 2: Modiche dell’incidenza attraverso catene del valore segmentate La tendenza verso la reingegnerizzazione di strutture a valore aggiunto iniziata negli anni ’90, sembrava aver preso slancio. Secondo un recente studio di Mercer Management Consulting in collaborazione con l’istituto Fraunhofer (Future Automotive Industry Structure 2015 – “FAST 2015”), l’incidenza del valore aggiunto dei produttori automobilistici a livello mondiale, diminuirà dal 35,3% nel 2002 al 22,5% nel 2015 e la quota dell’indotto del settore automobilistico aumenterà fino al 77%. Questo studio, che esamineremo più in dettaglio, anticipa una crescita dinamica nell’industria automobilistica globale a livello mondiale, per il periodo 2002 – 2015. Come mostra la tavola 8, è atteso un ulteriore aumento del volume produttivo da 57 a 76 milioni di veicoli, portando una crescita totale del valore aggiunto da 645 miliardi di euro a 903 miliari di euro. Tuttavia, i produttori ed i fornitori parteciperanno a questa crescita complessiva, con quote largamente differenziate. La quota dei produttori diminuirà in termini sia assoluti che relativi, da 228 miliardi di euro a 203 miliardi di euro, accompagnata, come previsto dallo studio, da una caduta del numero di produttori automobilistici da 12 a 9. I fornitori saranno i beneficiari di questo sviluppo. La loro quota aumenterà da 417 miliardi di euro a 700 miliardi di euro, accompagnata anche da un consolidamento nel numero di fornitori, del quale si prevede una riduzione da 5500 a 2800 (Mercer Management Consulting/Fraunhofer Gesellschaft 2003). Tavola 7: Previsione di sviluppo del valore aggiunto nell’industria automobilistica a livello mondiale* 2002- 2015 (FAST 2015) 2002 29915 Produzione di veicoli (milioni di unità) 57 76 Valore aggiunto OEM (miliardi di euro) 228 203 Valore aggiunto Indotto 417 700 645 903 % Modifica (miliardi di euro) Valore aggiunto Totale (miliardi di euro) *Automobile development/production, light vehicles Fonte: Mercer Management Consulting, Fraunhofer Gesellschaft 2003 Secondo lo studio FAST, basato su indagini complessive dei più importanti decision makers di produttori automobilistici, fornitori e aziende di servizi ingegneristici in Germania, l’aumento enorme del volume totale di valore aggiunto, riguarda i differenti segmenti dei veicoli in gradi profondamente diversi. La tavola 8 mostra la previsione per le quote dei principali moduli del veicolo. Tavola 8: Valore Aggiunto per Principali Moduli del Veicolo 2002 – 2015 (FAST 2015 – Previsione) 2002 2015 Modifica Carrozzeria 102 107 4,9% Powertrain 54 90 66,7% Motore e aggregati 115 135 17,4% Struttura della scocca 50 50 0% Scocca (esterno) 70 71 1,4% Interno 128 133 3,9% Elettrica/elettronica 127 316 148,8% Fonte: Mercer Management Consulting/Fraunhofer Gesellschaft (2003): Future Automotive Industry Structure 2015 I cambiamenti nella distribuzione del valore aggiunto tra i moduli principali, riflettono in primo luogo l’influenza delle innovazioni descritte, specialmente l’aumentata importanza dell’elettronica nella produzione di automobili. Questo ha chiaramente portato a profonde modifiche nelle filiere dell’indotto, offrendo a nuovi attori con competenze nell’elettronica, di accedere al settore e, facendo ristagnare opportunità di business in altri segmenti industriali. Non solo il segmento powertrain, ma anche quello della parte elettrica/elettronica, che aveva già contribuito per la maggior parte al volume di valore aggiunto nel 2002, si è rivelato un fattore importante di crescita. Si prevede che gli spostamenti nelle quote di valore aggiunto tra moduli di veicoli e segmenti di tecnologia, saranno accompagnati da spostamenti altrettanto forti per quanto riguarda la quota di valore aggiunto nell’industria automobilistica tra le regioni del mondo. Lo studio FAST percepisce il futuro andamento positivo, misurabile in base ai tassi di crescita in Cina e in India, ed alla crescita del volume di valore aggiunto in Europa. I paesi del NAFTA e il Giappone invece, probabilmente vedranno solo un moderato aumento del volume di valore aggiunto. Tavola 9: Quota delle regioni del mondo nel valore aggiunto dell’industria automobilistica 2002 e 2015 Regione 2002 2015 Modifica Europa 192,1 318,1 65,6 NAFTA 227,1 266,6 17,4 Sud America 80,9 29,5 -51,2 Giappone 115,4 127,6 10,6 Corea del Sud 25,9 30,9 19,3 Cina 12,1 43,5 259,5 India 2,5 10,7 328,0 ROW 39,5 66,1 67,3 Fonte: Mercer Management Consulting, Fraunhofer-Gesellschaft 2003 In breve, gli spostamenti delle quote regionali di produzione, e quindi di occupazione, sono accompagnate da un altrettanto drastico spostamento di incidenza all’interno delle strutture degli attori delle catene del valore. Gli spostamenti nelle relazioni tra gli OEM ed i fornitori automobilistici nei differenti livelli, si sovrappongono a spostamenti tra fornitori di differenti moduli del veicolo e segmenti di tecnologia. 3 Le conseguenze per i dipendenti dell’industria automobilistica Ristrutturazione e riorganizzazione hanno chiaramente conseguenze di ampia portata per i dipendenti dell’industria. Non esistono ad oggi studi complessivi sul tema. Quindi ci limiteremo a delineare alcune tendenze. Ci concentriamo quindi su aspetti quantitativi della ristrutturazione. Non affrontiamo le nuove necessità di qualificazione e riorganizzazione delle strutture della forza lavoro. La tavola 10 mostra la struttura occupazionale dell’industria automobilistica mondiale, ordinata per dimensione della forza lavoro per ciascun paese nel 2003. Il confronto tra il 1993 ed il 2003, mostra una leggera riduzione dell’occupazione in alcuni dei paesi della triade. Nel caso del Giappone, la recessione ha un impatto evidente. L’occupazione è scesa anche nei paesi di transizione, anche se recentemente ha ripreso a crescere spiccatamente in verso i livelli precedenti, mentre Ungheria e Repubblica Slovacca, già denotano vigorosi tassi di aumento. Tassi di crescita particolarmente forti, si registrano da parte dei paesi di nuova industrializzazione (NIC), Turchia e Sud Africa. Tavola 10: Occupazione nell’industria automobilistica mondiale per Paese, 2003 (>10,000 dipendenti) 2003, 1993 2003* 1993 Differenza 1993-2003 in % Cina* 1,850 1,894 -2,3 U.S.A. 1,126 1,14 -1,2 Germania 870 731 19,0 Giappone 721 800 -9,9 Fed. Russa 537 694 -22,6 Francia 280 315 -11,1 India 251 188 33,5 Brasile 250 200**** - UK 216 205 5,4 Corea del Sud 198 193 2,6 Italia 172 177 -2,8 Spagna 169 143 18,2 Turchia 168 49 242,9 Canada 153 138 10,9 Messico 138 200**** - Rep. Ceca 95 105 -9,5 Sud Africa 78 37 110,8 Svezia 75 64 17,2 Polonia 74 93 -20,4 Romania 61 219 -72,1 Indonesia 50 43,8 14,2 Belgio 44 52 -15,4 Ungheria 40 27 48,1 Austria 30 30 0,0 Olanda 27 32 -15,6 Rep. Slovacca 23 14 64,3 Portogallo 23 21 9,5 Altri*** (<10,000) 48 83 Totale 7,767 7,938**** -42,4 -2,2 *China 2000; Bulgaria 2001; Canada 2001; ** 1993: Canada 1992; India 1992 *** Estimated total of: Bulgaria, Denmark, Finland, Ireland, Norway, Slovenia, Serbia-Montenegro, Switzerland **** Own Estimations Fonte:VDA 2004: International Auto Statistics; p. 349f; VDA 1995: International Auto Statistics; p.319f.; VDA 1996: International Auto Statistics; p.313f. I dati nella tavola 10 rappresentano i dipendenti dell’industria automobilistica, definiti in base alla classificazione statistica NACE 34. Comprendono però solo una parte rispetto al totale dei dipendenti. La ragione non è legata solo a problemi nella registrazione della forza lavoro del settore in determinati paesi, come la Cina o l’India, ma anche alla lunghezza e alla complessità delle filiere dell’indotto in quest’industria. Un esame delle matrici di rotazione (input-output matrices), fornisce informazioni più dettagliate per stabilire il numero di dipendenti del settore a monte, impegnati in attività che in definitiva rappresentano il valore aggiunto del produttore automobilistico. Se prendiamo l’esempio dell’industria automobilistica tedesca, troviamo che in base alla classificazione NACE, nel 2000 erano impiegate poco meno di 770.000 persone. Calcoli e stime degli ingressi da settori industriali e dei servizi, per quanto riguarda i produttori automobilistici, includendo il loro valore di produzione (valore aggiunto), risultano in una forza lavoro totale di 1,8 milioni, il doppio dei dati formalmente definiti per l’industria automobilistica. Circa 250.000 di questi dipendenti lavoravano nei servizi ai produttori ed altri servizi per l’industria dei motoveicoli. L’industria automobilistica formale, è quindi solo la punta di un iceberg, molto difficile da stimare nella sua totalità. Il confronto con analisi dei criteri di rotazione relativi al passato, mostra che proprio la parte conosciuta (sotto la superficie) è cresciuta. Questo dipende dallo spostamento delle tecnologie di base citato in precedenza, in particolare dall’aumento della quota della parte elettrica/elettronica nel valore aggiunto, e dalla crescente importanza dei servizi. Rinforzati dall’outsourcing, essi vengono forniti in modo crescente da aziende di altri settori. In alcuni paesi, come in Germania, le relazioni industriali sono un altro fattore che influenza lo sviluppo. Dato che l’industria automobilistica, con i suoi sindacati forti, gode di un livello alto di retribuzione, il sourcing/outsourcing, tende a concentrarsi sulle industrie meno organizzate, poco sindacalizzate e con bassi livelli salariali. Negli ultimi anni, gli sviluppi dell’occupazione nelle industrie automobilistiche nazionali, si sono caratterizzati per spostamenti rispetto al peso degli attori nella catena del valore automobilistica. Come abbiamo visto, questo vale per quanto riguarda spostamenti tra i fornitori, e per differenti dinamiche di crescita nella tecnologia automobilistica e nei moduli dei veicoli. Rispetto ai produttori automobilistici, lo studio FAST ha anche presentato una previsione dettagliata degli effetti sull’occupazione in Europa (vedi tavola 11). In base a questo studio, l’industria automobilistica europea, nel 2002 aveva una forza lavoro complessiva pari a 2,75 milioni. Il dato rappresenta la forza lavoro direttamente coinvolta nel valore aggiunto nei motoveicoli, incluso il settore dei fornitori a monte, fino al secondo livello. Sono esaminati sviluppo, vendite ed attività di marketing. Non sono inclusi (contrariamente ai sopraccitati dati relativi alla Germania) gli strumenti di produzione, ecc. In base a questa previsione, il numero di dipendenti in Europa, aumenterà fino ad un totale di 3,97 milioni entro il 2015. Come mostra la tavola 11, metà di questi dipendenti lavorano nel segmento elettrico/elettronico. Gli altri moduli principali mostrano una crescita piuttosto moderata o, come nel caso dei moduli della scocca o della stagnazione persino una diminuzione assoluta dell’occupazione. Tavola 11: Modifica nelle strutture a Valore Aggiunto a Livello Mondiale ed Effetto sull’Occupazione in Europa (UE 15) nello Studio FAST (2002-2015) Crescita (assoluta) Quota Europa Dipendenti (1000)* OEM Fornitori Totale Telaio + € 13 miliardi ND –24 +161 +137 Powertrain + € 38 miliardi ND +1 +126 +127 Motore e aggregati + € 30 miliardi ND –16 +153 +137 Struttura scocca + € 19 milaridi ND –61 +36 –25 Scocca (esterno) + € 19 miliardi ND –65 +89 +24 Interno +€7 miliardi ND 0 +202 +202 Electrico/electtronico + € 157 miliardi ND +146 +466 +612 –18 +1.214 + € 283 miliardi + € 126 miliardi +1.232 * Stima; stessa produttività nei sette moduli principali. Fonte: Mercer Management Consulting, Fraunhofer-Gesellschaft 2003 Una forte crescita europea in termini di occupazione è prevista in base all’oscura supposizione, che il valore aggiunto in Europa crescerà di più rispetto ad altre regioni del mondo produttrici di automobili. Un aspetto ovvio tuttavia, è l’espansione dell’Europa occidentale, per includere i paesi della MOE rispetto all’UE dei 15 del 2002. Come mostra la tavola 11, gli OEM e l’indotto, traggono vantaggio in modo assai differente dagli impatti ampiamente positivi, ma di diverse dimensioni, che le strutture del valore aggiunto hanno sull’occupazione. Complessivamente, si prevede che gli OEM attraverseranno un leggero calo dell’occupazione (–18.000). La crescita della forza lavoro nell’indotto, è di nuovo sproporzionatamente alta. Solo la forte crescita nel settore elettrico/elettronico può bilanciare le considerevoli perdite di occupazione in altri moduli di veicoli da parte degli OEM. Le modifiche del peso dell’occupazione rispetto ai moduli, indicano rilevanti differenze nelle prospettive di occupazione nei vari segmenti dell’industria. In base alla previsione, ci saranno anche spostamenti nel peso dell’occupazione tra le collocazioni regionali della produzione a livello mondiale. Sulla base di stime generalmente ottimiste rispetto alla crescita di volumi produttivi ed alla domanda per quanto riguarda i motoveicoli, si può prevedere che tutte le regioni del mondo vedranno una crescita dell’occupazione, che sarà però distribuita in modo molto differenziato. Per il 2002, l’occupazione mondiale nell’industria automobilistica è stimata per un totale di 8,8 milioni e se ne prevede una crescita a 11,8 milioni entro il 2015, un aumento di 3 milioni (25%). Queste sostanziose aspettative, sono state già discusse per quanto riguarda l’Europa. Tassi di crescita piuttosto deboli sono previsti per NAFTA e Giappone. Tavola 12: Modifica dell’occupazione nel settore automobilistico nelle diverse regioni del mondo (2002-2015) (Mercer/Fraunhofer Study) La crescita complessiva dell’occupazione mondiale, continua ad essere prevista anche qui, seppure con forti differenze. Un esame dettagliato di queste stime, esula dallo scopo di questo studio. Ciò che è importante, è la prospettiva di enormi spostamenti strutturali, con conseguenti, spesso drammatici effetti sull’occupazione. 4 Sommario e conclusioni Come abbiamo visto, la ristrutturazione di vasta portata e la riorganizzazione complessiva nell’industria automobilistica iniziata negli anni ’90, è proseguita a velocità costante nel nuovo decennio. Questa ristrutturazione è guidata dall’emergere di nuove regioni e dallo sviluppo di nuove capacità produttive, da maggiore intensità di innovazione e dalle conseguenti modifiche nelle tecnologie automobilistiche centrali, così come da aggiustamenti nelle catene del valore, in particolare nelle relazioni tra OEM e fornitori. Ristrutturazione e riorganizzazione hanno un impatto di vasta portata sulle strutture occupazionali nel mondo dell’industria automobilistica. I limiti di questo testo, hanno permesso di considerare solo brevemente le tendenze di sviluppo quantitativo. Nonostante le dimensioni dell’industria e la sua importanza per lo sviluppo economico in tutto il mondo, poco si sa della dimensione e della struttura della forza lavoro nel settore automobilistico. Come abbiamo visto, gli esperti prevedono un massiccio spostamento del peso specifico dei siti produttivi automobilistici a livello mondiale ed all’interno delle strutture degli attori delle catene del valore, per il periodo fino al 2015. Nell’ambito di questo testo, si è solo potuto riferire ripetutamente dell’ampiezza di questi sviluppi. Un’analisi approfondita di queste modifiche strutturali e dei loro effetti sui lavoratori, sono quindi un argomento sempre più urgente per ricerca e politica del lavoro a livello pratico. 5 Bibliografia American Chamber of Commerce in Poland (2004) http://www.amcham.com.pl/ai_01_2004_9.phtml ASIAWEEK, ASIAWEEK Salary Survey 2000 – In the Company of Millionaires, in: “ASIAWEEK”, Vol. 26, No. 10, March 17, 2000. 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Catene del valore e sistemi di fornitura La riorganizzazione della catena del valore nella filiera automobilistica Giuseppe Volpato 1 La riorganizzazione della filiera automobilistica europea negli anni ’80 e ’90 La filiera automobilistica, intesa come il complesso delle imprese che concorrono alla produzione delle parti componenti e all’assemblaggio finale delle autovetture, ha conosciuto a partire dagli anni ’80 una profonda riorganizzazione determinata dall’evolvere del confronto competitivo tra le principali casi automobilistiche della “triade” composta da: Nordamerica, Europa Occidentale e Giappone. In quegli anni l’acme competitivo era rappresentato dall’offensiva sviluppata dalle case automobilistiche giapponesi verso i mercati occidentali e gli Stati Uniti in primo luogo. Fra i diversi elementi che spiegavano la maggior competitività dei costruttori automobilistici giapponesi vi era un ampio ricorso alla fornitura esterna di parti componenti (outsourcing) che era stata veicolata dal dualismo del mercato del lavoro giapponese che prevedeva più elevati livelli retributivi per i dipendenti delle grandi imprese (case automobilistiche) rispetto alle piccole imprese (produttori di componenti). Su questa differenza di base le case automobilistiche giapponesi, e soprattutto la Toyota, avevano in seguito costruito a partire dal periodo immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale ulteriori vantaggi competitivi derivati da meccanismi di fornitura basati sulla capacità di produrre in stretta connessione con il variare della domanda nel tempo attraverso una programmazione della produzione di tipo pull, in contrasto a quella di tipo push utilizzata dalle case automobilistiche occidentali, e l’organizzazione della consegna dei componenti da assemblare da parte delle aziende fornitrici basati su sistemi just-in-time. La risposta delle case automobilistiche occidentali prese corpo soprattutto negli anni ’90 e si articolò su una molteplicità di fronti anche con sensibili differenze tra le diverse case costruttrici, ma non c’è dubbio che per quanto concerne le relazioni tra case costruttrici, solitamente indicate come Original Equipment Manufacturers (OEM), e fra fornitori di componenti, Original Equipment Suppliers (OES), prevalse la tendenza all’imitazione del modello giapponese, per quanto consentito dalla diversità delle legislazioni e dalle peculiarità nazionali vigenti in tema di relazioni sindacali. Imitazione che si basò soprattutto su una riduzione del numero dei fornitori e una diminuzione del livello di integrazione verticale degli OEM attraverso l’ampliamento del ricorso alle forniture esterne di parti componenti. 2 Le nuove esigenze dei mercati maturi Nel frattempo però si facevano sempre più evidenti anche i mutamenti intervenuti nella domanda automobilistica mondiale. Da un lato il livello di motorizzazione nei paesi più industrializzati aveva ormai superato la fase della motorizzazione di prima dotazione per entrare largamente nella fase della domanda di sostituzione, dall’altro anche i paesi meno industrializzati, che ormai venivano indicati come Newly Industrialized Countries (NICs), stavano raggiungendo la soglia di reddito che consentiva loro, e in una certa misura esigeva, l’inizio di un processo di motorizzazione di massa. Soffermandoci innanzitutto sui mercati più industrializzati, rappresentati dalla “triade”, l’aspetto più rilevante era rappresentato dal fatto che il completamento della prima motorizzazione aveva innescato un gioco combinato basato su una pluralità di elementi: a) Ormai in tutti questi paesi il numero di vetture circolanti era largamente superiore alle 300 vetture ogni mille abitanti (Tabella 1) e ciò voleva dire che ciascun nucleo familiare risultava dotato in media di almeno una autovettura e cominciava quindi a manifestarsi anche il fenomeno della multimotorizzazione delle famiglie; Tabella 1 - Evoluzione del tasso di motorizzazione (vetture e veicoli circolanti ogni 1000 abitanti) 1950 1960 1970 1980 1990 (1) 2000 (1) 2004 (1) vetture vetture vetture vetture vetture veicoli vetture veicoli vetture veicoli 226 320 414 546 578 752 461 761 463 767 USA 11 73 216 417 479 512 532 577 541 584 Germania (2) 37 111 232 417 422 495 475 574 491 592 Francia 43 32 167 312 409 454 475 526 495 556 Regno Unito 6 98 210 330 499 507 563 629 588 657 Italia Giappone 0 3 68 203 299 456 414 573 427 42 580 (1) Dal 1990 è opportuno tener conto del complesso dei veicoli in quanto, similmente a quanto accade negli Stati Uniti e in Giappone, una parte crescente di veicoli classificati come commerciali sono utilizzati come autovetture. Negli Stati Uniti questo processo è così avanzato da far segnare un arretramento della densità di autovetture circolanti per effetto della immatricolazioni di pick-up e SUV che sono considerati light truck. (2) I dati a partire dal 1990 si riferiscono alla Germania unificata Fonte: Nostre elaborazioni da OCDE ed Anfia. b) Tra l’altro ciò significava che la domanda automobilistica era ormai espressa dall’intera varietà della popolazione; se in precedenza gli acquirenti di automobili erano prevalentemente di sesso maschile e di età superiore ai 30 anni, con gli anni ‘90 tutti gli strati della popolazione divennero protagonisti di questo tipo di acquisto senza rilevanti differenza di sesso, età, condizione economica e professionale; c) Inoltre si era generalizzato il passaggio da acquisto di prima dotazione ad acquisto di sostituzione, tra l’altro questa diversa caratterizzazione della domanda ebbe l’effetto di stimolare l’ampliamento dell’offerta e la moltiplicazione dei modelli e delle versioni. Da un lato si assistette al lancio di modelli aventi caratteristiche diverse da quelle tradizionalmente offerte e rappresentati da citycar, da vetture di tipo crossover e da Sport Utility Vehicle (SUV), dall’altro si produsse una ulteriore articolazione dei singoli segmenti con differenti strategie di prezzo: modelli first entry e modelli premium. Dopo questa radicale, anche se progressiva trasformazione, la segmentazione del mercato viene fatta con almeno una quindicina di categorie di veicoli e tutti i maggiori costruttori si stanno attrezzando per proporre una gamma più vasta dei loro modelli, mirata anche su sezioni quantitativamente più modeste della domanda automobilistica tradizionalmente indicate con il termine di “nicchia”. Anzi ormai si può dire che il complesso del mercato automobilistico di un paese ad alta motorizzazione è un insieme di nicchie, alcune piuttosto consistenti, altre decisamente più ridotte. Anche l’Italia mostra questa tendenza. La Tabella n.2 indica che nel 1990 l’offerta di autovetture nel mercato italiano comprendeva un totale di 148 modelli per 1352 versioni. Nel 2002 il complesso dei modelli è cresciuto a 237 e quello delle versioni a 2462, denotando un marcato ampliamento dell’offerta, anche se nel medesimo intervallo di tempo i gruppi automobilistici si sono contratti di numero per effetto di fusioni e assorbimenti. 43 Tabella 2 - Numero modelli offerti in Italia per segmento Segmenti (1) Segmento A Segmento B Segmento C Segmento D Segmento E Segmento F Totale Modelli Totale Versioni Descrizione Utilitarie Piccole Medio inferiori (2) Medio superiori (3) Superiori (4) Lusso (5) 1990 9 20 33 44 22 20 148 1352 1995 13 25 42 58 31 29 198 1540 2002 17 29 54 67 37 33 237 2462 (1) I segmenti considerati sono solo 6 per uniformarsi alla ripartizione esistente nel 1990. (2) Comprensive anche dei piccoli Fuoristrada (3) Comprensive anche dei medi Fuoristrada e dei piccoli Monovolume (4) Comprensive anche dei grandi Fuoristrada, dei grandi Monovolume e delle Sportive (5) Comprensive anche delle Supersportive Fonte: nostre elaborazioni da “Quattroruote”, varie annate. d) Infine la componente competitiva rappresentata dall’innovazione di prodotto ha assunto un ruolo ancor più rilevante di quanto non avesse in passato; in altre parole se in precedenza erano soprattutto i differenziali di prezzo fra i diversi prodotti a guidare la scelta dei consumatori, con gli anni ’90 sono soprattutto i contenuti innovativi (di stile, di tecnologia e di prestazioni in chiave di guidabilità e di sicurezza) a polarizzare l’interesse della domanda all’interno dei vari segmenti di mercato. L’insieme di questi fattori di trasformazione ha comportato una profonda modificazione tanto della struttura della domanda, che risulta enormemente più variegata rispetto al passato, e che, come si è già sottolineato, si articola in un numero sempre crescente di segmenti specifici, quanto del comportamento degli acquirenti, che si mostrano molto più sensibili all’andamento della congiuntura economica e al tasso di novità espresso dall’offerta delle case automobilistiche. Questo secondo aspetto può essere espresso anche in termini analitici dicendo che si è sensibilmente ridotta l’elasticità della domanda rispetto al prezzo a favore di una esaltazione della elasticità della domanda rispetto alla varietà e all’innovazione. 44 3 Modalità di sviluppo dei mercati in fase di decollo Negli anni ’90 si è anche rafforzata l’affermazione del processo di motorizza zione dei NICs che in passato aveva già dato apparenti segni di forte sviluppo seguiti però da fasi di recessione, ma che ora sembrano aver imboccato una fase di crescita di non ritorno come mostrano i dati riportati nella Tabella n.3. Tabella 3 - Evoluzione del tasso di motorizzazione (veicoli circolanti per 1000 abitanti) 1985 1990 117 160 Polonia 27 37 Turchia 173 180 Argentina 86 87 Brasile 3 5 China 3 5 India 25 71 Corea del Sud Fonte: Nostre elaborazioni da OCDE ed Anfia. 1995 229 65 167 89 8 6 177 2004 344 89 183 118 14 8 294 L’aspetto principale connesso a questa espansione della domanda è rappresentata dal fatto che i Governi dei paesi interessati hanno mostrato un notevole interesse a favorire questo processo di motorizzazione, ma a patto che esso non creasse forti tensioni nelle rispettive bilance commerciali. In concreto si sono limitate le importazioni mentre si è favorito la localizzazione di nuove unità produttive tanto degli OEM che degli OES, anche attraverso la concessione di notevoli agevolazioni: nell’acquisizione dei suoli, nelle opere di urbanizzazione collegate alla realizzazione dei nuovi stabilimenti e nella concessione di particolari agevolazioni fiscali soprattutto nei casi in cui le nuove localizzazioni venissero realizzate attraverso joint-venture con imprese domestiche. 4 Il ri-orientamento automobilistiche strategico delle case Ovviamente queste nuove caratterizzazioni della domanda non hanno mancato di produrre riorientamenti progressivi, ma profondi, delle strategie 45 commerciali delle case automobilistiche. Tra i fenomeni più significativi va certamente menzionato: e) Un sensibile aumento degli investimenti rivolti alla R&D e all’innovazione di prodotto, la cui incidenza rispetto al fatturato raggiunge oggi valori nettamente superiori a quelli riscontrati in passato, che in generale si collocavano al disotto del 3% e che attualmente superano sistematicamente il 4% con qualche punta di eccellenza che tocca il 6% sul fatturato come il Gruppo BMW (Tabella n.4 e 4 bis). Fonte: Nostre elaborazioni dagli Annual Report 46 f) Una dilatazione della gamma offerta sia attraverso l’aumento delle versioni, ma anche con un ampliamento del numero dei segmenti serviti, con l’effetto che la tradizionale differenza tra case automobilistiche “specialiste” e “generaliste” è ormai quasi priva di significato dal momento che anche i principali marchi considerati “specialisti” come BMW e Mercedes hanno esteso la propria offerta nei segmenti inferiori della gamma e nei segmenti dei Multi Purpose Vehicle (MPV) e degli Sport Utility Vehicle (SUV), anche attraverso l’acquisizione di nuovi marchi. Nel contempo anche marchi un tempo specializzati nei segmenti inferiori della gamma stanno dilatando la loro presenza commerciale attraverso forme di up-grading della loro gamma, come nel caso dei marchi coreani. Di qui un aumento del confronto competitivo in tutti i segmenti e una forte dilatazione del numero dei modelli offerti. 47 Fonte: Nostre elaborazioni dagli Annual Reports g) Un altro fronte di particolare impegno per gli OEM è rappresentato dal processo di consolidamento nelle diverse aree di mercato, attuato sia attraverso iniziative di assorbimento e di fusione, sia attraverso una politica di apertura di nuovi siti produttivi soprattutto nei NICs. Per quanto riguarda il primo tipo di strategia i casi più rilevanti sono quelli rappresentati dall’assorbimento da parte di Renault di una quota azionaria di riferimento del capitale Nissan che da anni stava attraversando una fase di crisi pronunciata. L’iniziativa, varata nel marzo 48 del 1999, ha previsto l’assorbimento di una quota pari al 36,8% del capitale della casa giapponese. Come è noto la riorganizzazione è stata affidata a Carlos Ghosn che ha lanciato un programma di razionalizzazione e di sviluppo molto incisivo, realizzato contro ogni previsione addirittura in anticipo sulla tabella di marcia. Molto più problematica invece la fusione realizzata tra la Daimler Benz e la Chrysler che non sono ancora riuscite a concretizzare le sinergie che le aziende partner si ripromettevano. Altri casi significativi di merger & acquisition sono rappresentati dall’assorbimento da parte della Ford dei marchi Jaguar, Land Rover e Volvo, della Daewoo da parte della General Motors, per citare solo i casi più rilevanti. Questo tipo di politica ha, fra l’altro, consentito una maggior equilibratura della capacità produttiva dei gruppi consolidati sulle diverse aree produttive, che sono state seguite da ulteriori iniziative di nuova localizzazione nelle aree potenzialmente più interessanti come i paesi dell’Europa Orientale e dell’est Asiatico. In concreto se si raffrontano le quote di produzione per aree dei principali OEM riferite al 1996, al 2000 e al 2004, come sono riportate nelle tabelle n.5 e 5 bis, si può notare che tale bilanciamento, che si è manifestato per tutti i principali gruppi automobilistici, è avvenuto non solo per la complementarietà produttiva generata dai casi di merger & acquisition, come si è ampiamente verificato per l’inserimento della Renault nella Nissan e per la fusione fra Daimler e Chrysler, ma anche per l’apertura di nuovi siti produttivi in paesi a in fase di decollo della motorizzazione come in Europa dell’est, in India, in Cina. In proposito, allo scopo di verificare questo assunto il confronto tra i tre momenti è stato fatto sommando le produzioni relative al complesso dei marchi controllati alla data del 2004 qualora i marchi considerati fossero attivi anche nei momenti precedenti. Ad esempio le produzioni di Volvo, Jaguar, Aston Martin, Land Rover, sono state inserite nel gruppo Ford nel 1996 anche se questi marchi a quella data non facevano parte del gruppo americano. Altrettanto è stato fatto per marchi in analoga situazione come la produzione Daewoo inserita in GM e quella dei marchi Daihatsu e Hino inseriti nel gruppo Toyota prima dei rispettivi momenti di assorbimento. Analogamente si è proceduto per il Gruppo Daimler-Chrysler che non era ancora stato costituito nel 1996. Ovviamente marchi precedentemente non operativi, come ad esempio Smart del Gruppo DC, sono stati aggiunti solo successivamente alla loro attivazione. 49 h) Appare però indubbio che le strategie di riorganizzazione di maggior rilievo hanno riguardato l’assetto complessivo della filiera e le modalità dei rapporti tra OEM e OES solitamente indicate come supply-chain-management, un tema sul quale occorre effettuare una analisi più dettagliata che concerne i seguenti punti: ¨ La sistematica riduzione dei costi di fornitura della componentistica anche attraverso la delocalizzazione dei fornitori in aree a basso costo della manodopera; ¨ La delega ai fornitori diretti (First Tier Suppliers - FTS) di organizzare la sottostante piramide della subfornitura allo scopo di semplificare le relazioni commerciali della casa automobilistica e di concentrare la responsabilità del FTS per quanto concerne la qualità dei moduli forniti. ¨ La specializzazione della casa costruttrice nella progettazione dell’architettura generale delle vetture delegando ai fornitori di sistemi integrati il compito di produrre innovazione e di coordinare la catena gerarchica di subfornitura; ¨ La condivisione di pianali e di componenti tra modelli differenti, sia appartenenti a marchi controllati dallo stesso gruppo automobilistico, sia fra modelli appartenenti a gruppi diversi, attraverso la costituzione di piattaforme organizzative comuni; ¨ Il tentativo di generalizzare le modalità di fornitura just-in-time come passaggio ad una organizzazione basata sul build-to-order (BTO); 50 Tabella n. 5 - Produzione mondiale di veicoli per costruttore e per zona (1) Anno Gruppo BMW 1996 BMW, Rover 2000 BMW Gruppo GM BMW, Mini 4,45% 10,06% 11,44% -- 85,04% -- -- -- 3,52% 100% 71,67% 0,78% 23,71% 0,33% -- -- 3,51% 100% 67,20% 1,50% 30,70% 0,15% -- -- 0,45% 100% 61,22% 1,47% 33,33% 0,26% 2,57% -- 1,15% 100% 1996 GM, GM Daewoo 59,70% 5,33% 23,24% 2,24% -- 1,90% 100% 8.336 2000 GM, GM Daewoo 63,62% 4,25% 21,00% 1,79% -- 2,29% 100% 8.849 2004 GM, GM Daewoo 57,26% 7,17% 18,63% 3,64% -- 7,12% 100% 2004 Gruppo DaimlerChrysler Marchi Considerati Nordame rica Incidenza % Eu Altri Core Orienta Paesi Europa Giappo a del le e Asia, Totale Sudamerica Occidental ne Sud Totale Turchia Africa e Produzio Incidenza e Inciden Incidenza Oceania ne Unità % Incidenza za Incid % Inciden (000) % % enza za Incidenza % % % -93,81% ---1,74% 100% 1.147 -85,03% ---4,91% 100% 835 Mercedes, Chrysler, 1996 Jeep, Dodge, Mercedes Trucks, Mercedes, Chrysler, 2000 Jeep, Dodge, Smart, Mercedes Trucks, Mercedes, Chrysler, Jeep, Dodge, 2004 Maybach, Smart, Mercedes Trucks, 7,59 % 7,06 % 6,19 % 1.250 3.964 4.667 4.629 8.966 Gruppo Fiat Gruppo Ford Fiat, Lancia, Alfa 1996 Romeo, Ferrari, Maserati, Iveco Fiat, Lancia, Alfa 2000 Romeo, Ferrari, Maserati, Iveco Fiat, Lancia, Alfa 2004 Romeo, Ferrari, Maserati, Iveco Ford, Aston Martin, 1996 Jaguar, Land Rover, Mazda, Volvo Ford, Aston Martin, 2000 Jaguar, Land Rover, Mazda, Volvo Ford, Aston Martin, 2004 Jaguar, Land Rover, Mazda, Volvo -- 21,16% 60,76% 16,56% -- -- 1,52% 100% 2.561 -- 17,76% 64,22% 15,34% -- -- 2,69% 100% 2.641 -- 20,94% 52,78% 21,32% -- -- 4,95% 100% 2.120 56,38% 1,86% 28,79% 0,50% 9,30% -- 3,17% 100% 7.971 57,72% 2,27% 27,02% 0,74% 9,44% -- 2,93% 100% 8.250 45,70% 4,45% 27,87% 2,90% 10,34% 0,01 % 8,73% 100% 7.919 52 Tabella n.5 bis - Produzione mondiale di veicoli per costruttore e per zona - segue (1) Eu Corea Orienta Europa Giappo del Sudam le e Occident ne Sud erica Turchi ale Inciden Inciden Inciden a Incidenz za Incide za za % Inciden a % % nza % za % % Norda merica Ann o Honda Gruppo PSA Gruppo Renault 199 6 200 0 200 4 199 6 200 0 200 4 Marchi Considerati Honda Honda Honda Altri Paesi Total Totale Asia, e Produz Africa e Incid ione Oceania enza Unità % (000) Inciden za % 100% 37,63% -- 5,11% -- 52,53% -- 4,73% 40,82% 0,92% 2,99% 0,40% 48,84% -- 6,03% 100% 38,14% 1,91% 5,90% 0,49% 38,39% 0,95% 98,84% 0,20% -- -- 2,71% 92,39% 0,73% -- -- 3,47% 84,32% 0,50% -- -- 11,72% 100% 1,48% 43,73% 1,05% 36,94% Peugeot, Citroen -Peugeot, Citroen -Peugeot, Citroen -Renault, D a c i a , 199 N i s s a n , 12,52% 6 Infiniti, Samsung 15,16% 0,07 % -- 2.073 2.506 100% 3.238 100% 1.990 4,17% 100% 4,21% 100% 2.879 3.405 4.583 53 200 0 200 4 199 6 Gruppo Toyota 200 0 200 4 Gruppo Volkswagen 199 6 Renault, D a c i a , N i s sa n , Infiniti, Samsung Renault, D a c i a , N i s sa n , Infiniti, Samsung T oyot a , Daihatsu, Hino T oyot a , Daihatsu, Hino T oyot a , Daihatsu, Hino A u d i , Ben t ley, Bugatti, Lamborghini , Seat, Skoda,VW 14,15% 2,78% 47,76% 6,18% 26,24% 0,29 % 2,59% 100% 5.144 19,28% 2,12% 40,47% 7,49% 25,41% 1,43 % 3,80% 100% 5.663 14,99% 0,05% 2,25% 0,46% 71,88% -- 10,36% 100% 5.598 18,52% 0,60% 2,99% 0,25% 69,73% -- 7,91% 100% 5.956 19,61% 1,04% 5,82% 1,75% 56,57% -- 15,21% 100% 7.874 6,10% 16,77 % 67,31% 8,11% -- -- 1,72% 100% 3.787 54 A u d i , Ben t ley, 200 B u g a t t i , 8,34% 0 Lamborghini , Seat, Skoda,VW A u d i , Ben t ley, 200 B u g a t t i , 4,42% 4 Lamborghini , Seat, Skoda,VW Fonte: nostre elaborazioni da ANFIA e CCFA. 10,85 % 62,33% 11,47 % -- -- 7,01% 100% 5.107 11,84 % 55,78% 14,94 % -- -- 13,03% 100% 5.095 55 ¨ Lo sviluppo di una architettura del prodotto automobilistico dal punto di vista dell’assemblaggio secondo uno schema a moduli diretto alla riduzione degli investimenti negli impianti di assemblaggio finale e alla abbreviazione dei tempi di montaggio delle autovetture; ¨ L’aumento dell’importanza delle innovazioni di prodotto, operato soprattutto a livello di componentistica per il passaggio a forme competitive basate sul tempo come riduzione del time-to-market e la contrazione del ciclo di vita del prodotto. 5 La pressione sui costi di fornitura Nonostante che la competizione fra case automobilistiche per la difesa e l’accrescimento delle rispettive quote di mercato tenda a giocarsi sempre più sulla valorizzazione del prodotto automobilistico in termini di qualità e innovazione, la pressione esercitata dalle case automobilistiche sulle proprie reti di fornitura non cessa di essere spasmodica dal momento che i margini di profitto della maggior parte delle case continua ad essere insoddisfacente. Fra i meccanismi utilizzabili per ridurre i costi la delocalizzazione verso paesi a minori costi della manodopera sembra una delle leve più efficaci. Se si guarda ai differenziali di costo presenti nelle diverse aree (Grafico n.1) è indubbio che le differenze appaiano estremamente rilevanti. Fonte: Nostre elaborazioni su dati BGC (2004) E in questo senso si indirizza anche il risultato di un recente sondaggio realizzato dal Fraunhofer Institute, dal quale emerge che la ragione prevalente addotta dai manager del settore, per la realizzazione di uno stabilimento all’estero riguarda l’uso di lavoratori a basso costo, come riportato nel Grafico n.2. Tuttavia la precisa quantificazione del valore economico dei vantaggi e degli svantaggi associati alla delocalizzazione verso paesi a basso costo della manodopera pone rilevanti problemi. Infatti se da un lato il differenziale dei saggi salariali riconosciuti nei diversi paesi è noto, la loro incidenza nel costo totale della produzione di un modello di autovetture dipende da una molteplicità di variabili: il livello tecnologico dell’impianto che si intende realizzare, il livello di competenza del personale di nuova acquisizione, l’effettiva produttività della manodopera, che nei paesi emergenti potrebbe risultare nettamente inferiore a quella del personale utilizzabile negli impianti già localizzati nei paesi ad alta industrializzazione riducendo per questa via il vantaggio dei più bassi saggi salariali. Senza contare che in numerosi casi la scelta a favore di questa o quella soluzione può essere profondamente influenzata da politiche pubbliche di sovvenzione attuate a favore di localizzazioni green-field. 57 Grafico 2. Motivi prevalenti nella delocalizzazione degli stabilimenti Fonte: Fraunhofer ISI, citato in VDA, 2004 Annual Report Secondo una recente analisi basata su un confronto tra diversi tipi di localizzazione è emerso che il vantaggio alla delocalizzazione da parte di stabilimenti di assemblaggio finale di veicoli è molto contenuto per quanto riguarda la compressione dei costi, derivante dal fatto che l’incidenza di questa categoria di costo incide ormai solamente per qualche punto percentuale del costo industriale di stabilimento (Tabella 6) e può essere completamente ribaltato dai maggiori costi di natura logistica derivante da localizzazioni lontane dagli altri centri decisionali ed operativi della casa automobilistica come quelli di progettazione e di distribuzione. Del resto una conferma di questo genere di evoluzione ci deriva anche dall’analisi dell’incidenza del costo del personale sul totale del fatturato. Come già evidenziato nella Tabella n.4, questa incidenza si colloca mediamente attorno al 12-15% con situazioni che scendono persino sotto il 10% come nel caso del Gruppo Fiat Auto. Se si considera che questo valore percentuale comprende al proprio interno tutte le tipologie di addetti e non solo quelli utilizzati nelle attività di produzione strettamente industriale (Personale 58 Amministrativo, Commerciale, di Progettazione, di Marketing, ecc.) si capisce la parte strettamente produttiva rappresenta ormai una componente di costo piuttosto modesta. Per contro cresce sempre più la parte di costo relativa agli acquisti di componenti che ormai rappresentano mediamente oltre il 70% del costo del venduto. Di conseguenza, la delocalizzazione appare motivabile per questo genere di stabilimenti non tanto dalla esigenza di ridurre il costo industriale quanto dalla necessità di operare all’interno del mercato di sbocco rappresentato da un paese in fase di decollo della motorizzazione. Una situazione che contribuisce grandemente a dare una immagine “domestica” al prodotto offerto e a facilitare la sua affermazione sul mercato, anche per la possibilità di ridurre i tempi di consegna, che rappresenta un elemento sempre più importante dal punto di vista competitivo, come esamineremo nel paragrafo successivo. Discorso analogo vale per i produttori di componentistica operanti in condizioni similari dal punto di vista della struttura dei costi, come ad esempio per i fornitori di tecnologia elettronica. Al contrario per le produzioni di componenti nelle quali si manifesta una alta incidenza del costo del lavoro la delocalizzazione appare come una soluzione di notevole rilievo. 6 La gerarchizzazione della catena di fornitura L’efficacia del decentramento produttivo si basa sull’ipotesi che il sistema di fornitura sia in grado di sostituirsi alla produzione diretta da parte degli OEMs con una riduzione dei costi dei componenti. Le case automobilistiche cercano di favorire il raggiungimento di questo obiettivo attraverso la concentrazione delle forniture e l’adozione sempre più frequente di un rapporto basato sul single supplier. Ciò ha prodotto una trasformazione del sistema di fornitura da una struttura piatta, nella quale ogni singolo fornitore, anche di piccola dimensione, intratteneva rapporti diretti con la casa automobilistica, ad una struttura altamente gerarchizzata, in cui solo i fornitori di primo livello hanno contatti diretti con l’OEM e sono incaricati di organizzare a loro volta un sistema gerarchizzato di sub-fornitori di tipo specialistico. 59 La nuova divisione del lavoro fra case automobilistiche e fornitori ha a sua volta innescato nuove opportunità di merger & acquisition con una drastica riduzione delle società specificatamente specializzate nelle produzioni destinate al settore degli autoveicoli. Secondo una stima dell’Economist Intelligence Unit il numero dei fornitori è destinato a ridursi drammaticamente nei prossimi dieci anni proseguendo un trend che ha visto il passaggio da circa 30,000 imprese nel 1988 a circa 8,000 in 1999. Previsioni di analogo andamento, ma ancora più stringenti sono state effettuate dalla Società di consulenza PricewaterhouseCoopers, secondo la quale i fornitori di primo rango (1° tier suppliers), stimati pari a 5.600 nel 2002, dovrebbero passare a 2.800 nel 2015. Ma questo rappresenta solo uno degli aspetti, anche se fra i più importanti, del ciclo di trasformazione innescato, dal momento che i singoli fornitori stanno anche ridefinendo le rispettive aree tecnologiche di competenza. Nello schema “piatto” di fornitura, ogni singolo fornitore cercava di massimizzare la gamma dei prodotti offerti, in quanto ciò tendeva a semplificare le procedure di valutazione e di selezione dei buyer della casa automobilistica. Ora, nella struttura gerarchizzata, questo aspetto non rappresenta più un fattore di vantaggio, ma, anzi, un punto di debolezza, in quanto un catalogo di prodotti molto ampio comporta investimenti troppo elevati e l’incapacità di sostenere un adeguato livello di innovazione su tutto il fronte dei prodotti offerti. Di qui un processo di focalizzazione dei fornitori di primo livello su un più compatto ed omogeneo assieme di prodotti, realizzato attraverso lo scambio tra fornitori, mirato alla cessione di attività in cui si è meno competitivi e l’acquisizione da altri fornitori di quelle in cui si vanta già una forte specializzazione. Tra l’altro la concentrazione degli interlocutori risponde a precise esigenze tecniche. Poiché i fornitori debbono essere attivati con tempi molto precoci, se si vuole che essi siano messi nelle condizioni di fornire un efficace sviluppo sulle parti da inserire nei nuovi modelli, è necessario attuare un lavoro di forte scambio informativo con i progettisti della casa e la costruzione di una vera e propria cultura di sostegno al co-design. Non a caso è sempre più frequente il caso in cui tecnici delle aziende fornitrici operano sistematicamente presso gli uffici di progettazione del costruttore per realizzare l’integrazione necessaria ad assicurare il massimo dei risultati. 7 La specializzazione della casa costruttrice nella progettazione dell’architettura Come si è già sottolineato è prevedibile un ulteriore sviluppo del processo di decentramento produttivo da parte delle case automobilistiche verso i fornitori di componenti, non solo sul fronte della produzione di parti, ma anche e soprattutto per quanto concerne gli investimenti in R&D. L’obiettivo finale consisterebbe nel riservare alla casa automobilistica funzioni di sviluppo dell’architettura complessiva dei modelli, delegando la completa attività di ricerca innovativa e di sviluppo industriale ai fornitori. Una scelta che in parte è motivata dal fatto che i fornitori, e soprattutto quelli tecnologicamente più avanzati che possono contare su attività di fornitura ad una pluralità di OEM, sono nella posizione migliore per sfruttare gli elevati livelli di specializzazione che i moderni componenti richiedono e di ripartire su una pluralità di commesse (e quindi di clienti) i notevoli investimenti e i costi di sperimentazione che le attività in oggetto richiedono. Inoltre gioca indubbiamente anche il desiderio degli OEM di cercare di ridurre al massimo possibile il loro investimento, cercando di scaricare sul fornitore la quota e soprattutto il rischio connesso ai processi di innovazione. Ovviamente però questo genere di strategia non è priva di risvolti negativi per gli OEM. In primo luogo la rinuncia all’innovazione nella componentistica ha l’effetto di abbassare significativamente il livello di competenze interne delle case automobilistiche. È facile immaginare che la riduzione dei tecnici e dei ricercatori operanti alle dirette dipendenze delle case produce un depauperamento che si manifesta sia nella valutazione successiva della validità delle scelte tecnologiche proposte dal fornitore, sia nella contrattazione dei prezzi d’acquisto delle forniture. In secondo luogo l’ampliamento degli investimenti di ricerca e sviluppo richiesti agli OES, accompagnati da una richiesta di riduzione dei prezzi di fornitura, comporta nella generalità dei casi la concentrazione delle commesse su un numero ristretto di fornitori allo scopo di consentire loro delle maggiori economie di scala sulle quali fare leve per il ritorno degli investimenti. Il tutto si sta traducendo in un processo di progressiva concentrazione dei fornitori che tendono ad attuare politiche di assorbimento e di fusione reciproca nello sforzo di raggiungere la massa critica a livello di singola linea di prodotto necessaria ad assicurare la sopravvivenza futura. Di conseguenza la scelta delle case automobilistiche, guidata in misura prevalente dal desiderio di 62 ampliare il loro potere contrattuale nei confronti dei fornitori, minaccia alla lunga di produrre effetti opposti a quelli auspicati. 8 La condivisione di pianali e di componenti tra modelli differenti La ricerca di economie di scala e di scopo da parte dei fornitori può essere adeguatamente valorizzato solo in presenza di forme di ulteriore standardizzazione dei prodotti da parte delle case automobilistiche. Tuttavia è ormai evidente che le forme di standardizzazione “semplici” basate sulla proposta di uno stesso modello di vettura per una pluralità di mercati (world car) si è rivelato un insuccesso. Ciò è già emerso di fronte alle difficoltà sperimentate nel trasferimento di prodotti all’interno dei mercati più avanzati rappresentati dalla “triade”, ma l’inadeguatezza della standardizzazione dei modelli è destinata a risultare ancora maggiore via via che si consolideranno i mercati a motorizzazione emergente. Pertanto le case automobilistiche stanno sperimentando nuove forme di standardizzazione, più raffinate e complesse, ma parziali in quanto mirate all’utilizzo di parti comuni senza che ciò comporti anche la standardizzazione dei modelli che devono mantenere dei margini di customization sia riferita ai diversi mercati nazionali sia alle specifiche esigenze del singolo consumatore finale. Questo processo passa attraverso la progettazione di “common platforms” in grado di utilizzare un numero rilevante di subsistemi comuni, lasciando però la libertà di realizzare secondo modalità differenziate per i singoli mercati la carrozzeria e altri elementi di più facile apprezzamento da parte del consumatore. Si tratta di un passaggio tanto cruciale, ai fini dell’ottenimento di forti vantaggi di costo, quanto difficile e complesso. Un passaggio che nessuna casa automobilistica può dire di aver ormai realizzato in modo soddisfacente, ma verso la quale tutte le case, senza eccezione, si stanno orientando, consapevoli che solo in questo modo si riuscirà a risolvere l’attuale contraddizione tra il vantaggio della varietà spendibile dal lato del marketing e quello della standardizzazione postulato da una produzione economica e di alta qualità. Questo orientamento, iniziato da tempo dalle case automobilistiche giapponesi, dotate di una gamma di modelli molto ampia che in molti casi deve essere ulteriormente specificata in funzione di singoli aree di mercato, è stata via via fatta propria da tutti gli altri costruttori, anche per effetto del processo di concentrazione e consolidamento dei marchi in un numero 63 sempre più ristretto di global player. Dal punto di vista della filiera anche questa evoluzione preme verso forme di concentrazione delle forniture, dal momento che singole componenti, che un tempo venivano ottimizzate per un singolo modello e presentavano quindi significative differenze con le parti utilizzate per modelli similari dando luogo a commesse distinte, sono attualmente condivise da una pluralità di autovetture e quindi concentrate in blocchi di fornitura più ampi ed omogenei. Questa tendenza è stata ulteriormente rafforzata dalla necessità indotta dal confronto competitivo di dilatare la lunghezza del tempo di garanzia assicurato ai propri prodotti. Non solo, ad esempio, la normativa europea impone ormai alle case automobilistiche di assicurare alla clientela finale un biennio di garanzia, ma è ormai sempre più frequente che vengano offerti a scopo promozionale periodi di garanzia triennali ed ad anche quinquennali, sia per ridurre i costi di mantenimento da parte della clientela, sia per giovarsi dell’effetto comunicativo derivante dal fatto che una lunga garanzia viene interpretata dal consumatore come una ulteriore forma di conferma della qualità intrinseca del prodotto, dal momento che un significativo aumento delle attività di riparazione eseguite in garanzia rappresentano un onere non indifferente per il costruttore che va quindi controbilanciato dall’ottenimento di elevati livelli di qualità. Infine la menzionata comunanza di parti presenta il non trascurabile vantaggio di ridurre i livelli di parti di ricambio da stoccare nei diversi mercati a parità di rapidità rifornimento delle reti di concessionari e di servizio alla clientela finale. In complesso non c’è dubbio che le forme di comunanza, pur se portatrici di complessità in fase di progettazione e di maggiori difficoltà ai fini della necessaria differenziazione tra prodotti, sono destinate a svilupparsi ulteriormente. 9 L’individuazione di un nuovo modello produttivo basato sul BTO L’evoluzione delle strategie di marketing dei costruttori stanno ponendo nuove sfide all’organizzazione della produzione delle vetture. Infatti le esigenze di mercato si stanno ponendo in contrapposizione con la tradizionale strategia di derivazione fordista di standardizzare al massimo le attività di produzione e montaggio, allo scopo di massimizzare le economie di scala, semplificare il numero e le caratteristiche delle parti componenti, utilizzare impianti dedicati a singoli modelli di vetture. Le reti di distribuzione delle vetture stanno premendo sempre più affinché gli impianti 64 di produzione siano in grado di variare il mix della produzione ed organizzarsi per passare dalla logica push alla logica pull. Come è noto in una organizzazione della supply chain basata sulla logica push la programmazione della produzione si basa su una previsione della domanda e spetta alla rete commerciale compensare, attraverso meccanismi di promozione delle vendite e di ribasso dei prezzi, eventuali differenze tra quanto prodotto e quanto effettivamente richiesto dal mercato. Ma in un mercato sempre più volubile e volatile, come si è precedentemente sottolineato, questa impostazione sta diventando sempre più onerosa e sempre meno capace di servire adeguatamente la clientela. Di qui lo sforzo di passare ad una organizzazione della produzione di tipo pull nella quale sono gli ordini di acquisto firmati dalla clientela a rappresentare l’input del programma di produzione e di assemblaggio finale sia degli stabilimenti della casa costruttrice che di tutta l’organizzazione a monte della supply chain. Questa impostazione, indicata come Built-to-Order (BTO) presenta notevoli vantaggi sul fronte della distribuzione e della customer satisfaction, ma crea tensioni logistiche e problemi di integrazione del flusso di informazioni e di materiali lungo la supply chain che non sono facili da tenere sotto controllo. Ciò è tanto più vero per il fatto che una delle condizioni necessarie, anche se non sufficienti per attivare un produzione di tipo BTO, è rappresentata dalla disponibilità di impianti produttivi di tipo flessibile, vale a dire in grado di assemblare prodotti diversi in quantità variabile, in funzione dei cambiamenti della domanda senza che questa variabilità a brevissimo termine dei programmi di produzione (nella quantità delle vetture e nel loro mix) producano pesanti riflessi negativi sui costi di produzione e sull’intera catena di fornitura e di assemblaggio finale. Tra l’altro, la realizzazione di sviluppi verso il BTO è strettamente legato ad uno sviluppo delle forme di integrazione telematica della catena di fornitura che sta procedendo a ritmi assai spediti nonostante le implicazioni che queste applicazioni comportano circa il potere contrattuale dei soggetti coinvolti. 10 Lo sviluppo di una architettura del prodotto automobilistico basata su moduli Un altro elemento chiave della riorganizzazione strategica della filiera automobilistica è rappresentato dalla progettazione dell’automobile per parti o sistemi e dalla modularizzazione degli assemblaggi. Si tratta di fenomeni diversi che è opportuno tenere distinti, anche se presentano degli evidenti 65 punti di contatto. La progettazione del veicolo per sistemi integrati al proprio interno deriva dal fatto che il veicolo può essere descritto come un insieme di gruppi funzionali, ciascuno dei quali è incaricato di svolgere determinati compiti: la produzione di energia motrice e la sua trasmissione alle ruote, il sistema frenante, il sistema di guida della vettura, il sistema di emissione dei gas di scarico, ecc. In passato questi sistemi avevano, dal punto di vista della loro progettazione, una bassa integrazione interna in quanto erano composti di singoli elementi meccanici che potevano essere progettati con modeste forme di interdipendenza. Attualmente tutti questi sistemi funzionali presentano una fortissima integrazione interna, derivata dal fatto che il loro funzionamento è controllato da circuiti elettronici. In sostanza, ogni sistema funzionale non è più la somma meccanica di tante parti distinte, ma rappresenta un complesso integrato che può, e deve essere progettato in modo ottimale solo attraverso una regia unitaria svolta da un fornitore avente il ruolo di system integrator. Uno degli esempi più significativi di questa integrazione di sistemi attuativi della vettura, un tempo realizzati in modo distinto, è rappresentato dall’Electronic Stability Program (ESP) che sovrintende alla regolazione elettronica automatica della stabilità della vettura e che agisce frenando singolarmente le ruote della vettura qualora i rilevatori di imbardata e di accelerazione laterale evidenzino una situazione di instabilità dinamica dell’auto. Questo sistema rappresenta l’integrazione di singoli sistemi precedentemente regolati in modo singolo come il sistema di antibloccaggio delle ruote in fase di frenata (Antilock Braking System ABS), quello di accentuazione della frenata in situazioni critiche (Brake Assist System - BAS) e quello di controllo della trazione (Electronic Traction System - ETS). Per contro il fenomeno della modularizzazione non fa riferimento alla progettazione delle singole parti componenti un sistema funzionale, ma si focalizza sul suo assemblaggio e sulle attività di testing da realizzare nella fase immediatamente antecedente il trasferimento sulla linea di assemblaggio finale della vettura. Il modulo è quindi un macro-componente, composto da più parti, ma fisicamente compatto, che è possibile e conveniente assemblare e testare in blocco e non per singole parti fuori dalla linea di assemblaggio finale della vettura, allo scopo di aumentare la semplicità delle operazioni di assemblaggio nonché la velocità di esecuzione. In certi casi può quindi succedere che un sistema funzionale coincida con un modulo, come nel caso del power train o del sistema di emissione dei gas combusti, ma in altri casi ciò può non avvenire. Ad esempio il sistema di illuminazione di una vettura o il sistema di guida rappresentano certamente dei sistemi funzionali, ma la 66 loro complessità o la loro estensioni su una pluralità di parti della vettura impedisce il loro pre-assemblaggio nella forma di moduli. 11 Forme competitive basate sul tempo Il quadro competitivo nell’industria automobilistica risulta sempre più basato su aspetti legati alla tempestività dell’offerta. Tale rapidità di intervento può essere declinata su una pluralità di versanti tutti significativi. Un primo aspetto riguarda la velocità con la quale la casa automobilistica è in grado di passare dalla definizione del concept di una nuova vettura al momento in cui ha inizio la produzione industriale della vettura stessa. Questo intervallo di tempo, convenzionalmente denominato time-to-market, svolge un ruolo critico nel confronto competitivo, in quanto di fronte alla domanda di sostituzione, manifestata dai mercati più sviluppati le preferenze dei consumatori denotano una elevata volatilità. Un time-to-market compresso offre quindi la possibilità di cogliere per primi le nuove tendenze di mercato avendo la possibilità di svolgere un ruolo di quasi monopolista attraverso forme di offerta anticipatorie rispetto alla concorrenza. Un altro fronte della battaglia contro il tempo riguarda l’accorciamento del ciclo di vita del prodotto. Come è noto ogni singolo modello automobilistico è destinato a subire la concorrenza di quelli presentatati dalle case concorrenti in momenti successivi. Si genera quindi un invecchiamento relativo in cui l’effetto in generale si manifesta attraverso la riduzione della quota di vendita del modello più vecchio a favore di quelli più recenti. Questo decadimento di competitività può essere contrastato attraverso operazioni di rinnovo del modello sia di tipo estetico (restyling) sia di tipo funzionale, ad esempio con l’introduzione di migliorie tecniche. Tuttavia si tratta di operazioni costose in quanto hanno l’effetto di contrarre i tempi utili per il recupero degli investimenti. Vanno quindi sapientemente dosati in funzione di una pluralità di aspetti. 12 Conclusioni L’analisi dell’attuale fase evolutiva nell’industria automobilistica mostra che anche nei prossimi anni si manterrà particolarmente elevato il livello competitivo in tutta la filiera automobilistica e che il ruolo della componentistica assumerà una importanza ancora superiore a quella attuale. La stima circa l’ammontare del valore aggiunto che sarà acquisito dal complesso dei fornitori, ipotizza un valore pari al 77% dei 76 milioni di 67 veicoli che saranno prodotti nel 2015 per un ammontare in euro pari a 700 miliardi. Le aree tecnologiche che beneficeranno di questa espansione sono rappresentate soprattutto dall’elettronica, che godrà di una crescita di ordini in valore dai 127 miliardi di euro del 2002 ai 316 miliardi del 2015, seguita dalla componentistica riguardante i propulsori per i quali si stima una crescita da 115 a 135 miliardi di euro e dalla componentistica per gli interni dei veicoli, da 128 a 133 miliardi di euro. Tuttavia è molto probabile che l’incremento del valore della componentistica si ridistribuisca in misura assai differenziata tra le diverse aree produttive in funzione delle tecnologie controllate. In altre parole, si stima che si assisterà ad una polarizzazione della produzione su due estremi, rappresentati da paesi altamente sviluppati per le tecnologie più sofisticate e da paesi NICs per quelle meno sofisticate. Inoltre la possibilità di acquisire la crescente domanda di componentistica richiederà la capacità di effettuare ingenti investimenti in R&D. Secondo la società di consulenza Roland Berger già per il 2010 occorrerà che la quota di investimento in R&D valutata attualmente pari al 40% dovrebbe crescere al 60%. In sostanza esistono interessanti possibilità di espansione per i fornitori, ma solo al prezzo di una iniziativa particolarmente dinamica sul duplice piano dello sviluppo di innovazioni e del controllo dei costi attraverso la realizzazione di forniture di classe mondiale. 13 68 Bibliografia BCG (2004), Capturing Global Advantage, The Boston Consulting Group, Boston. BIT (2005), Les évolutions de l’industrie automobile qui ont une incidence sur les équipementiers, Bureau International du Travail, Genève. Bonnafos de G., Chanaron J.J., Mautort L. (1983), L’industrie automobile, La Découverte-Maspero, Paris. Bourguignon A. (1993), Découverte-Maspero, Paris. Le modale japonais de gestion, La Camuffo A. e Volpato G. 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In Baviera la BMW possiede altri stabilimenti produttivi a Dingolfing, Regensburg, Landshut e Wackersdorf; nel resto della Germania altri due stabilimenti si trovano a Eisenach (Turingia) e a Leipzig (Sassonia), mentre l’Audi ha solo un altro stabilimento in Germania, a Neckarsulm nel Baden-Württemberg. 2 La storia della BMW e dell’Audi Basta analizzare brevemente la storia della BMW e dell’Audi per rendersi conto che a più riprese, nel corso della storia, entrambe queste imprese hanno dovuto affrontare gravi problemi di natura tecnica, sociale, economica, ma anche politica, per sopravvivere sul mercato automobilistico. Talvolta delle circostanze favorevoli hanno sostenuto il loro sviluppo, ma si sono anche verificate delle situazioni disastrose, che sono state affrontate, permettendo a queste due aziende di superare e sopravvivere alla tempesta causata dalla crisi economica e dalla concorrenza crescente. L’Audi e la BMW sono state entrambe fondate da ingegneri dallo spirito pionieristico. Nel 1899 August Horch fondò una società vicino a Colonia, dove nel 1901 fu fabbricata la prima automobile. La società si trasferì successivamente in Sassonia nel 1902 e fu trasformata in una società per azioni nel 1904. Lo stesso anno fu costituita la società A. Horch & Cie. Motorwagen-Werke AG. Nel 1932 l’Audi divenne parte della Auto-Union AG, la fusione dei quattro precedenti produttori indipendenti di automobili e motociclette: Audi, Horch, DKW (costituita nel 1907), e Wanderer (costituita nel 1885). Quattro anelli d’argento collegati tra di essi divennero il marchio commerciale di questo gruppo. Nel 1916 fu fondata a Monaco la Bayerische Flugzeug Werke per la costruzione di aeroplani. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e la crescente importanza degli aerei permisero alla società di prosperare, grazie al sostegno dell’Impero austro-ungarico e del Reich tedesco per lo sviluppo e la produzione di aerei da guerra. Tuttavia, in seguito al divieto di continuare la produzione di aerei da parte delle Forze Alleate dopo la fine della guerra, la società fu costretta a riconvertirsi, limitando la sua attività alla fabbricazione di automobili e motociclette, ora in collaborazione con la Bayerische Motorenwerke che nel frattempo era stata costituita a Monaco nel 1917. Uno stabilimento produttivo fu rilevato dalla BM ad Eisenach nel 1928. Nuovamente, durante il regime nazista, gli stabilimenti furono riconvertiti e destinati alla produzione di motori per velivoli per servire la Luftwaffe tedesca di Monaco (1936), Eisenach (1937), e Berlino (1941 – due stabilimenti). Per entrambi i marchi, la fine della Seconda Guerra Mondiale rappresentò l'inizio di un nuovo capitolo: nella Germania dell’Est, l’amministrazione militare sovietica ordinò lo smantellamento di tutti gli stabilimenti produttivi destinati alla riparazione, mentre la produzione di motori per velivoli fu proibita sia nella Germania Est e Ovest. Oggi si potrebbe arrivare ad affermare che il successo di queste due imprese è attribuibile proprio alla coercizione alla riconversione e al ritorno allo sviluppo e alla fabbricazione di automobili e motociclette. L’Audi si trasferì a Ingolstadt, nella zona americana, dove diede inizio all’attività di produzione di piccoli camion, automobili e motociclette; nel 1949 fu costituita la Auto Union GmbH. Diverse serie di automobili e motociclette furono sviluppate e realizzate nei numerosi stabilimenti tedeschi nelle regioni del Baden-Wurttemberg, della Baviera e del Nord Reno-Westfalia; nel 1958, la Daimler rilevò il gruppo, che fu venduto nuovamente nel 1964 alla Volkswagen. Nel 1969 l’Audi e la NSU (costituita nel 1873) diedero vita, mediante una fusione, alla Auto Union AG. Successivamente, il processo di concentrazione dell’industria automobilistica della Germania Occidentale influenzò l’evoluzione della Auto Union GmbH: gli stabilimenti produttivi furono gradualmente chiusi finché non restarono aperti solo quelli di Ingolstadt e Neckarsulm. Nel 1985 fu costituita la Audi AG e il simbolo aggiornato dei quattro cerchi collegati fra di essi fu nuovamente utilizzato come marchio commerciale. 73 Anche gli stabilimenti BMW della Germania Orientale furono chiusi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e la produzione di motori per aerei fu proibita. Ebbe inizio una nuova era incentrata sulla progettazione e sulla produzione di automobili e motociclette. Nel 1947 fu progettata la prima motocicletta BMW del dopoguerra, che divenne un successo grazie alle condizioni economiche vigenti in quel momento. Durante questa fase di ripresa economica in Germania furono progettati e realizzati nuovi modelli automobilistici. Alla fine degli anni 1950, in seguito a una crisi, la BMW fu sul punto di essere venduta alla Mercedes e fu solo grazie all’intervento di una piccola minoranza di azionisti e concessionari, che si opposero all’operazione di vendita e che posero il veto durante la votazione nell’ambito dell’assemblea degli azionisti, che riuscirono finalmente a convincere uno dei principali azionisti a tenere il controllo della BMW. Nel 1967, la BMW rilevò la Hans Glas GmbH e acquistò i due stabilimenti di Dingolfing e Landshut. Dopo l’apertura di un nuovo stabilimento a Dingolfing nel 1973, furono realizzati altri nuovi stabilimenti a Regensburg nel 1987, a Wackersdorf nel 1990, a Eisenach nel 1992 (attrezzaggi), e a Leipzig nel 2004. 3 La situazione attuale Nel corso degli ultimi decenni, l’Audi e la BMW sono entrambe diventate degli “attori globali”, con l’apertura di stabilimenti, linee di assemblaggio, fabbriche per attività CKD/SKD (Complete Knock Down/Semi Knock Down), e la costituzione di centri di distribuzione e marketing in tutti principali mercati mondiali – in parte in collaborazione con imprese locali, come ad esempio nel caso della BMW con Pretorius in Sud Africa, dell’Audi con Cosworth Technology in Gran Bretagna e negli USA, e con l’acquisizione da parte di entrambe le case automobilistiche di marchi esteri; infatti il Gruppo BMW detiene Mini e Rolls-Royce in Inghilterra, mentre l’Audi detiene la Lamborghini in Italia. Attualmente, l’Audi produce automobili, motori e utensili in Ungheria, Cina, Brasile, Thailandia, Inghilterra e Italia; la BMW ha stabilimenti produttivi negli Stati Uniti, Sud Africa, Austria, Francia e Inghilterra; recentemente ha costituito anche una joint-venture in Cina. Una differenza fondamentale fra queste due case automobilistiche risiede nel fatto che, nel caso del Gruppo BMW, il pacchetto azionario è totalmente detenuto dal Gruppo, mentre l’Audi è di proprietà al 100% della Volkswagen. Secondo la strategia organizzativa del gruppo, l’Audi fa parte 74 della divisione sportiva della Volkswagen. Il gruppo mette a disposizione di questo settore, così come di altre divisioni, tutta la sua forza in termini di R&S e di scambi, ad esempio per quel che concerne i motori ed altri componenti con gli stabilimenti produttivi VW in Germania, Skoda nella Repubblica Ceca o Seat in Spagna. Entrambi i produttori competono nello stesso segmento di alta qualità del mercato automobilistico internazionale – delle auto sportive e ad alta innovazione tecnologica. Mentre l’Audi è concentrata nel settore automobilistico, il Gruppo BMW produce anche motociclette e motori per aerei. E’ interessante notare, in seguito ad un’attenta osservazione dello sviluppo tecnico e organizzativo dell’altra azienda, come la vicinanza geografica determini le condizioni di una cooperazione competitiva fra i diversi livelli della catena del valore netta di entrambi i produttori automobilistici. E’ in atto, inoltre, una stretta collaborazione con altri due famosi produttori automobilistici della Germania Meridionale, nella regione di Stoccarda e nel Baden-Württemberg: Mercedes e Porsche, per quel che riguarda lo sviluppo congiunto di sistemi di gestione del traffico. Oltre a questa concentrazione di OEM (Original Equipment Manufacturers), altri importanti fornitori dell’indotto automobilistico hanno la propria sede nella Germania Meridionale, tra cui Bosch, ZF Friedrichshafen, Siemens, BASF, il che permette una così intensa collaborazione in questo distretto automobilistico. Nel corso degli ultimi anni, l’Audi e la BMW hanno ottenuto dei risultati in media superiori rispetto al trend generale registrato nel settore dell’auto: infatti, se gli altri produttori hanno incontrato dei problemi di sopravvivenza di fronte alla competizione globale, entrambe queste imprese, nell’ultimo decennio hanno, conseguito un record dopo l’altro, riuscendo così a rafforzare la propria posizione sul mercato. Il seguente grafico illustra le prestazioni economiche dell’Audi e della BMW nel corso dell’ultimo decennio: 75 Fig. 1 – Il fatturato di Audi e BMW nel periodo 1994 – 2003 Si osserva che nel lasso di tempo fra il 1994 e il 2003, il fatturato annuale di entrambe le società è costantemente migliorato: l’Audi è passata da 8.880 milioni di Euro nel 1994 a 52.689 milioni nel 2003 (+593%); la BMW è passata da 21.538 milioni di Euro nel 1994 a 41.525 milioni di Euro nel 2003 (+193%) con un tasso di crescita annuale compreso fra il 3% e il 15%. Solo per la BMW è stato registrato un calo fra il 2002 e il 2003 (–2,1%). Tuttavia entrambe le società sono state in grado di aumentare ilo numero di veicoli venduti, come illustrato dal grafico successivo: 76 Fig. 2 – Vendite di Audi e BMW nel periodo 1994-2003 Il numero di veicoli venduto da Audi fra il 1994 e il 2003 è passato da 378.180 a 1.003.791 (+265%) e quello della BMW è passato da 931.883 a 1.104.916 (+119%). Il declino dello sviluppo della BMW dopo il 1999 è stato causato dai problemi derivanti dall’acquisto del Gruppo Rover da parte della BMW nel 1994, che furono poi risolti con la vendita della società a un prezzo simbolico; questa battuta d’arresto fu poi recuperata nei due anni successivi. Entrambe le imprese hanno un forte posizionamento nei principali mercati, oltre che in quello nazionale, europeo e nordamericano, come illustrato nella tabella successiva (Fig. 3). Nel 2003 l’Audi ha venduto il maggior numero di automobili nei paesi europei esclusa la Germania (324.254), la BMW nell’America del Nord (294.900); mentre in Germania l’Audi ha venduto 237.786 veicoli, e la BMW 255.800, ossia una quantità simile a quella venduta negli altri paesi europei (263.600). Nel mercato dell’America del Nord (86.421) e di altri paesi (121.431) l’Audi ha avuto minore successo rispetto alla BMW (156.200). 77 Fig. 3 – Mercati di Audi e BMW, 2003 Il seguente grafico, che riguarda il numero di addetti alla fine di ogni anno fra il 1994 e il 2003, illustra anch’esso un andamento positivo. Il numero degli addetti degli stabilimenti Audi è aumentato in modo costante, passando da 32.215 nel 1994 a 52.689 nel 2003 (+163%). Mentre se la BMW aveva 109.362 addetti nel 1994, dopo la crisi della Rover, il numero è sceso a 93.624, per poi risalire nuovamente a 104.342 nel 2003 (–4.6%). Questi dati mostrano che, nel caso di gruppi automobilistici consolidati, la riduzione della gamma verticale della produzione non comporta necessariamente una perdita di posti di lavoro. 78 Fig. 4 – Il numero degli addetti di Audi e BMW nel periodo 1994 - 2003 Soprattutto nel caso di Audi, la crescita del valore delle azioni ha avuto un particolare rilievo, come illustrato dal grafico successivo: Fig. 5 – Il valore delle azioni Audi e BMW nel periodo 1999 -2003 79 Se il prezzo delle azioni Audi è costantemente aumentato, passando da 24,03 € nel 1999 a 225,00 € nel 2003 (+936%), il prezzo delle azioni BMW ha seguito un andamento fluttuante, passando da 14,00 € a 36,95 €, ma registrando allo stesso tempo un notevole utile durante l’intero periodo (+264%). Nel paragrafo successivo, l’accento è posto unicamente sullo sviluppo dei rapporti di entrambe le società con i loro rispettivi fornitori nel corso degli ultimi trenta anni, con particolare riferimento alle forme di collaborazione con i mega-fornitori e alle strategie messe in atto per superare i rischi di dipendenza. Gli altri importanti fattori alla base del successo di queste due case automobilistiche possono essere brevemente riassunti qui di seguito: · L’Audi e la BMW vendono i loro prodotti principalmente agli attori vincenti del processo di globalizzazione, ossia a quei clienti che possono permettersi di acquistare un’auto costosa e di qualità. · Entrambe le case automobilistiche hanno ideato delle campagne pubblicitarie di successo dei loro rispettivi marchi e hanno creato un’immagine che esprime efficacemente i valori e i desideri dei ceti elevati a livello globale. · “Il mondo è il mercato” è la strategia vincente seguita da entrambi questi attori globali, che sono riusciti ad affermarsi sia dal punto di vista della 80 · · · · · · produzione che del marketing su tutti i principali mercati mondiali, quali: gli Stati Uniti, l’Europa, la Cina, il Sud Africa e il Sud America. Le attività di sviluppo e ricerca in campo tecnologico si basano sui settori di nicchia e sulla tradizione in entrambi i casi aziendali; la filosofia di entrambi i marchi riflette l’ambizione di essere sempre un passo avanti rispetto agli altri concorrenti dal punto di vista tecnologico; ma è stata proprio la rivalità fra l’Audi e la BMW (ed altri produttori automobilistici nazionali) a stimolare entrambe le imprese a sviluppare dei prodotti di notevole valore. In entrambi i casi, tradizionalmente, la qualificazione del personale si basa sia sulla preparazione ricevuta nell’ambito del sistema della pubblica istruzione e della formazione professionale erogata all’interno dell’impresa e questo costituisce uno dei punti di forza per entrambe le società. La riorganizzazione internazionale ed esterna della produzione sulla scia del “modello giapponese” ha portato alla combinazione di nuove forme di produzione (es. lavoro di squadra) con i punti di forza tradizionali (es. l’assunzione di manodopera qualificata). La collaborazione con i sindacati ha una lunga tradizione alle spalle e la contrattazione fra i rappresentanti sindacali e la direzione si svolge da decenni in una prospettiva di collaborazione interna; è stato proprio grazie a questa collaborazione, che negli anni ‘70 l’Audi è riuscita a superare la crisi del settore automobilistico, potendo contare sul sostegno dei comitati aziendali; entrambe le società sono riuscite ad elaborare delle strategie flessibili di produzione (“la fabbrica che respira”) con il sostegno attivo del sindacato dei metalmeccanici IG Metall nel corso degli anni 1990. Anche la collaborazione con il governo, sia a livello locale che nazionale, è stata sviluppata bene. Entrambe le società interagiscono positivamente con gli enti e i governi regionali e locali, come ad esempio nel caso della costruzione di nuove infrastrutture di trasporto di strutture produttive, ma anche per la realizzazione di nuove università con facoltà tecniche. I servizi finanziari sono stati sviluppati da entrambe le imprese; tale strategia è stata introdotta come copia della strategia di altri concorrenti che hanno ottenuto dei risultati di successo non soltanto derivanti dalla produzione di automobili, ma anche dall’offerta di servizi assicurativi, finanziari, bancari, ecc. 81 Se analizziamo tali strategie “vincenti” potremmo dedurre che la chiave del successo in entrambi i casi è rappresentata da un mix di “isomorfismo” e “polimorfismo”. Il termine isomorfismo descrive i processi dell’identità strutturale delle organizzazioni nell’ambito dello stesso campo di appartenenza. Potremmo distinguere tre principali meccanismi fra le cause del cambiamento organizzativo verso l’isomorfismo. (1) L’isomorfismo basato sulla pressione esterna (isomorfismo coercitivo) può derivare sia da pressioni formali e informali che le organizzazioni possono esercitare su altre organizzazioni dipendenti o dalle aspettative dell’ambiente sociale a cui appartengono tali organizzazioni. La portata dell’impatto strutturale sulle organizzazioni dipende dalle risorse ricevute dalle potenti istituzioni centrali. (2) L’isomorfismo basato sull’imitazione (isomorfismo mimetico) è caratterizzato dalla copia di elementi strutturali di modelli organizzativi che sono ritenuti legittimi e di successo. L’incertezza è un fattore estremamente rilevante nell’isomorfismo per imitazione. L’insicurezza può derivare dall’eventuale ambiguità degli scopi dell’organizzazione o dai cambiamenti intervenuti nella relazione mezzi-fini. (3) L’isomorfismo basato sugli obblighi (isomorfismo normativo) contraddistingue il presunto dovere di conformarsi allo “stato dell’arte” in una certa comunità professionale che utilizza una base cognitiva comune nello stabilire norme e modelli. D’altra parte, il “polimorfismo” si riferisce all’evoluzione di strutture basate su tradizioni regionali o culturali e deriva dall’impatto di determinati ambienti intellettuali, legali, sociali ed economici. Vale la pena osservare come nel corso degli ultimi venti anni non tutte le strategie adottate da entrambi i gruppi abbiano avuto successo, benché seguissero i comuni modelli di riferimento, ma è anche vero che entrambi hanno messo a punto dei sistemi individuali propri. In entrambi i casi, le strategie scelte si sono rivelate per alcuni versi giuste e per altri errate: ad esempio, l’Audi ha progettato una piccola utilitaria notevole dal punto di vista tecnico – la A2 – che però non è stata presa in considerazione dal mercato; d’altra parte, la BMW ha riscosso un grande successo nello stesso segmento con la Mini. La decisione di non conformarsi alla filosofia prevalente di mercato in alcuni casi è stata corretta, ma anche l’impostazione basata sul modello “mainstream” si è rivelata errata: ad esempio, la BMW ha fatto la scelta giusta negli anni 1980 quando ha deciso di non seguire una “strategia di diversificazione”, come invece ha fatto senza successo la Mercedes; ma è anche vero che la BMW si è ritrovata in serie difficoltà dopo 82 l’acquisizione del Gruppo Rover, benché in quel momento questa decisione era stata presa sulla scia della strategia diffusa a livello mondiale e seguita dai diversi produttori automobilistici. Il grafico seguente riassume in cinque dimensioni – tecnologia, organizzazione del lavoro, struttura organizzativa e mercato – i principali sviluppi avvenuti nel settore automobilistico dal 1920 al 1980 ed oltre: Fig. 6 –Sviluppi relativi alla tecnologia, l’organizzazione del lavoro, la struttura e l’orientamento del mercato nel settore automobilistico Agli inizi del 1900, le automobili erano prodotte su piccola scala e le poche unità erano costruite principalmente secondo i criteri della produzione artigianale. I componenti necessari per la produzione erano forniti da fabbriche che erano solitamente ubicate in prossimità degli stabilimenti dei produttori automobilistici. Negli anni ‘20, avvenne un radicale cambiamento con l’introduzione della produzione di massa e della produzione basata sul sistema della catena di montaggio nella fabbrica della Ford negli Stati Uniti d’America, ad opera di Womack, che rappresentò la prima rivoluzione nell’industria automobilistica. Il concetto fondamentale alla base della produzione di massa è l’assemblaggio su vasta scala dei singoli pezzi costruiti dai fornitori esterni. La tecnologia usata può essere caratterizzata come meccanizzazione e 83 automazione rigida; l’organizzazione del lavoro, tradizionalmente di tipo Tayloristico-Fordistico, si basa sul concetto dell’ingegnerizzazione scientifica, che comprende tutta una serie di specifiche funzioni e segmentazioni alla catena di montaggio con mansioni monotone e ripetitive. Sia l’Audi che la BMW hanno adottato tale modello di produzione (isomorfismo mimetico) e applicato con successo il concetto della produzione di massa. Tra il 1925 e il 1930, a Berlino, fu assemblata la prima BMW. Successivamente, la produzione fu trasferita ad Eisenach nella Turingia, seguita dallo slogan: “La BMW Dixi rappresenta per l’Europa ciò che la Ford è per l’America.” A partire dal 1931, fu realizzato il modello DKW Audi nello stabilimento di Zwickau: fino al 1942 oltre 250.000 modelli uscirono dalla fabbrica. I cambiamenti avvenuti nella produzione automobilistica nel dopoguerra sono stati simili sia per l’Audi che per la BMW e hanno seguito le strategie adottate dalla maggior parte dei produttori automobilistici: · dal punto di vista tecnologico, a partire dagli anni ‘80, la meccanizzazione e l’automazione sono state sostituite dalla computerizzazione, dal controllo numerico (NC) e dall’automazione flessibile. · l’introduzione del lavoro di squadra nell’organizzazione del lavoro ha sostituito il concetto tradizionale del lavoro di fabbrica gerarchico. E’ stato adottato il “modello giapponese”, ma in combinazione con la tradizione culturale di entrambi i gruppi. · per quanto riguarda il lato dell’offerta, è avvenuto un processo d’integrazione verticale. Tale processo d’integrazione si è fermato negli anni ‘90 quando Ford e General Motors furono le prime ad esternalizzare la produzione di alcuni componenti, seguite poi da altre case automobilistiche che copiarono tale concetto. La struttura aziendale divenne multidivisionale e gerarchica. Benché le automobili fossero vendute in tutto il mondo, i mercati e le interdipendenze fra i fornitori mantengono ancora un carattere regionale. La struttura aziendale è cambiata, passando dal concetto originario di “fabbrica unitaria” – descritta in teoria come un sistema chiuso – a una struttura gerarchica multidivisionale – concettualizzata come un sistema aperto – verso la costituzione di reti d’imprese e dei loro fornitori con un integrazione verticale e orizzontale e con interconnessioni transfunzionali – che possono essere interpretate al meglio facendo riferimento alla teoria ecologica o neo-istituzionale. 84 · l’area di azione delle imprese e delle reti assume caratteristiche sempre più globali. Il termine chiave “glocalizzazione” si riferisce al fatto che entrambi i tipi d’imprese hanno messo a punto delle strategie adeguate per soddisfare le esigenze dei diversi mercati nazionali, seguendo allo stesso tempo delle strategie globali (es. Audi in Cina, BMW in Sud Africa). 4 Relazioni fra fornitori Per quel che concerne lo sviluppo delle relazioni fra produttori e fornitori nel settore automobilistico, possiamo distinguere brevemente quattro fasi nella ristrutturazione del rapporto fra l’Audi e la BMW e i rispettivi fornitori, a partire dal 1980: 1. un tipo di esternalizzazione (outsourcing) prevalentemente a livello nazionale; 2. la concentrazione dei fornitori a livello regionale e una crescente gerarchia fra di essi e l’internazionalizzazione della catena di fornitura; 3. la costituzione di parchi di fornitori e una crescente importanza dei cosiddetti “mega-fornitori” e dei “campioni nascosti”; 4. tentativi di recuperare il controllo sulla catena di fornitura; lo sviluppo d’imprese virtuali. Riassumendo, potremmo affermare che tali sviluppi indicano degli effetti opposti: da una parte, l’espansione globale della produzione e dall’altra il suo crescente radicamento in reti regionali. Durante l’ultima fase, hanno assunto una crescente importanza i luoghi virtuali e la collaborazione in tempo reale, mentre i luoghi “reali” della produzione automobilistica restano sempre al centro della produzione. Nel 1990 una ricerca sugli effetti regionali della riorganizzazione dell’industria automobilistica incentrata sulla regione di Ingolstadt ha messo in luce come all’epoca l’Audi avesse una rete di 1.200 fornitori contemporaneamente, che assicuravano la continuità della fornitura di componenti agli stabilimenti di Ingolstadt e Neckarsulm, per la maggior parte provenienti dalla Germania stessa. La maggior parte delle imprese era ubicata nelle regioni del Nord Rhein Westphalia, del Baden-Württemberg e della Baviera, mentre altri pezzi di ricambio e componenti provenivano dalle altre regioni dell’Assia, della Bassa Sassonia, Rheinland-Pfalz, Berlino, Amburgo, Schleswig-Holstein, Saarland e Brema. Ulteriori componenti erano importati da Austria, Italia e Francia, diretti allo stabilimento di Ingolstadt (provenienti dagli stessi produttori in parte per l’Audi e in parte 85 per la BMW), e di Neckarsulm, ma anche da Gran Bretagna, Paesi Bassi, Belgio, Stati Uniti, Svezia, Yugoslavia, Lussemburgo, Norvegia e Giappone. Oltre 11.000 singole imprese offrivano, producevano, consegnavano o costruivano utensili, macchine, edifici, trasporti, ecc. Nella stessa regione di Ingolstadt circa 350 imprese in 51 diverse località lavoravano per l’Audi AG, di cui la maggior parte costituita da piccole e medie imprese. In questa fase, l’Audi e la BMW lavoravano con il sistema degli spedizionieri regionali. Tutti i componenti erano trasportati presso un interporto, dove erano smistati e caricati su TIR destinati a percorrere lunghi tragitti notturni per consegnare puntualmente la merce agli stabilimenti produttivi la mattina successiva. A uno degli spedizionieri era affidato il compito di organizzare i trasporti giornalieri. Per migliorare e stabilizzare la catena della fornitura era data più responsabilità ai singoli fornitori affinché essi stessi organizzassero il flusso dei materiali e delle informazioni. In tal modo si è evoluta in modo continuativo la piramide gerarchica della fornitura. Il numero dei fornitori di primo livello variava fra gli 800 e i 2.000; a sua volta ogni fornitore di primo livello poteva contare su una struttura di 200 - 800 subfornitori. Alla fine l’indotto era composto da 160.000 unità di fornitura e fino a 1.600.000 imprese nella cascata totale di fornitori. A tale proposito, il fatto che questo sviluppo si sia verificato simultaneamente per tutti i produttori automobilistici, ha provocato degli effetti collaterali indesiderati derivanti da tali strategie, ossia l’enorme crescita del traffico per il trasporto merci in Europa centrale e una notevole crescita del settore logistico. Nel corso degli anni ‘90, è avvenuta una profonda ristrutturazione di questo sistema di produzione e fornitura, che potrebbe essere caratterizzato dai seguenti elementi: · nell’ambito di ogni trust è stato ideato il concetto di piattaforma-produzione; all’interno dei gruppi è stata messa a punto una specializzazione e una divisione funzionale dei prodotti; diverse serie sono state prodotte nei singoli stabilimenti utilizzando componenti e sistemi prodotti in altre fabbriche; ad esempio, l’Audi assemblava il modello TT a Györ, i modelli A2 e A8 a Neckarsulm, A3 e A4 a Ingolstadt e produceva diversi tipi di motori per il Gruppo Volkswagen; inoltre, una linea di assemblaggio motori fu aperta a Györ in Ungheria, mentre gli spedizionieri locali consegnavano pezzi del motore a Ingolstadt o a Györ, ed era stato istituito un treno che ogni notte 86 trasportava avanti e indietro fra i due stabilimenti pezzi e motori completi; · le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione sono state implementate su vasta scala a supporto della produzione all’interno della fabbrica e delle relazioni con i fornitori esterni; · furono, inoltre, sviluppati e adottati i concetti di automazione intelligente; · all’interno della fabbrica fu avviato un processo continuo di riorganizzazione e di miglioramento mediante l’introduzione di tecnologie sociali ; · furono messi a punto vari strumenti come l’outsourcing, l’insourcing e la subfornitura per riorganizzare le relazioni interne ed esterne; · esternamente, le relazioni con i fornitori erano costantemente riorganizzate; agli spedizionieri si chiedeva di offrire dei servizi logistici supplementari; alcuni furono in grado di soddisfare questo tipo di domanda e di rivoluzionare totalmente la gamma di servizi offerti, mentre altri rinunciarono e si ritirarono dal mercato; · i fornitori reagirono ai cambiamenti che stavano avvenendo all’interno del settore automobilistico offrendo nuovi prodotti; ad esempio, un ex-produttore di pompe ubicato vicino allo stabilimento dell’Audi a Ingolstadt avviò la produzione di tettucci apribili, che erano venduti anche al Gruppo Volkswagen. La complessità e la varietà crescenti della produzione automobilistica avevano bisogno di essere gestite; un’automobile Audi normalmente presenta non meno di 35.000 componenti diversi di notevole varietà; la consegna di tali componenti non poteva avvenire unicamente a partire da alcuni magazzini. Da ciò consegue il riconoscimento dell’importanza e del miglioramento crescente dei sistemi logistici; i fornitori erano coinvolti in tutti i passaggi del processo produttivo e si fecero carico dei servizi logistici, oltre al trasporto o alla produzione hardware come parte delle loro attività. La disintegrazione verticale è la ragione alla base della crescita della catena della fornitura. Già negli anni ‘90, il giro d’affari dei servizi logistici in Europa si aggirava intorno a un volume di oltre 80 milioni di ECU. La maggior parte di questo volume riguardava i servizi logistici convenzionali – oltre 60 milioni di ECU – per il deposito e il trasporto. Un esempio che illustra chiaramente la crescita di questo settore è costituito dal Gruppo Thyssen che entrò nel mercato dei servizi logistici nel 1967. Nel 1988 Thyssen Trans aveva un fatturato di 500,000 DM e impiegava 2.000 addetti. Alla fine degli anni 87 1990 impiegava 8.000 addetti con un fatturato di oltre 3,2 milioni DM. Il gruppo contava 300 sedi in oltre 30 paesi diversi, sia all’interno che all’esterno dell’Unione Europea, come, ad esempio, a Singapore. Nell’ambito del gruppo di fornitori, avvenne un processo di concentrazione, ma talvolta la motivazione alla base del processo di fusione ed acquisizione era semplicemente quella di voler sfruttare altre imprese di successo, come ad esempio il caso della Peguform che si ritrovò in gravi difficoltà dovute al fatto che le American Venture Industries avevano prelevato fondi dalla consociata tedesca, provocando un debito di oltre cinquanta milioni di Euro e mettendo a rischio circa 5.500 posti di lavoro. Le ragioni che portarono a tale processo di concentrazione fra i fornitori sono le seguenti: · “Il mondo è la fabbrica”: era possibile sopravvivere alla crescente concorrenza solo costituendo delle reti di produzione internazionali; · “Il mondo è il mercato”: solo una rete globale consolidata di fornitori era in grado di seguire gli OEM nel processo di trasformazione in “attori globali”. I fornitori di maggiore successo sono stati in grado di occuparsi delle funzioni chiave dell’approvvigionamento e della consegna di componenti e sistemi piuttosto che singoli componenti, mentre gli OEM si sono concentrati sulle competenze chiave. I maggiori fornitori mondiali del settore automobilistico sono elencati nella tabella seguente (Fig. 7): Nel 2001 il maggiore fatturato annuale (in miliardi di Euro) è stato conseguito dai seguenti mega-fornitori: Delphi Automotive Systems (28,7), Robert Bosch (23,2), e Visteon Automotive Systems (19,98), seguiti da Denso (17,87), Lear (14,99), Johnson Controls (14,98), Magna International (11,55), TRW (11,12), Faurecia (9,61), Alsin Seiki (9,31), Dana (8,48), Valeo (8,08), ZF Friedrichshafen (7,8), Yazaki (6,77), Arvin Meritor (6,37), Thyssen Krupp Automotive (6,21), DuPont (5,72), Siemens VDO Automotive (5,7), Michelin (5,06), GKN (4,84), Autoliv (4,39), Magneti Marelli (4,2), Koyo Seiko (4,06), Calsonic Kansel (4,0), Bridgestone/Firestone (3,83), Takata (3,63), Goodyear Tire Rubber (3,56), BASF (3,5), e American Axle Manufacturing (3,42). Cinque dei maggiori mega-fornitori europei sono tedeschi (Bosch, Continental, ZF Friedrichshafen, Thyssen Krupp, Siemens), tre francesi (Valeo, Faurecia, Michelin), uno inglese (GKN), e uno italiano (Magneti Marelli). Le conseguenze della crescente importanza dei fornitori per l’Audi e la BMW sono state: 88 · · · · · le operazioni di produzione, ricostituzione delle scorte e distribuzione sono state organizzate a livello globale; i fornitori di primo livello si sono assunti la responsabilità di sostenere la rete di distribuzione globale; i servizi erogati dai fornitori di software hanno acquisito una maggiore importanza; la precisione nelle consegne (Just-in-time) e la consegna alla linea (Ship-to-line) sono state costantemente migliorate; l’innovazione continua dei cicli di produzione ha richiesto un coinvolgimento dei fornitori fin dalle prime fasi delle attività di R&S; la flessibilizzazione e il decentramento nei rapporti di fornitori OEM hanno creato una maggiore domanda di metodi e strumenti per orientare la collaborazione. 89 Fig. 7 - I 30 principali mega-fornitori mondiali del 2001 In breve, si possono distinguere tre tipi di fornitori, la cui strategia è stata “vincente” durante la fase di ristrutturazione per il Gruppo BMW: 1. Mega-fornitori con un fatturato annuo di oltre 2,5 miliardi di Euro; il vantaggio di queste imprese è determinato dalla loro presenza globale, dal potere finanziario, dalla capacità produttiva e dalla forza di partecipazione alle attività di R&S degli OEM; 90 2. I fornitori piccoli e medi con un fatturato annuo di meno di 500 milioni di Euro; i vantaggi di queste imprese sono: la flessibilità, la prontezza e le soluzioni ad hoc, interesse nel produrre solo piccoli volumi; 3. I grandi fornitori con un fatturato annuo di meno di 2,5 miliardi e di oltre 500 milioni di Euro, che riescono a combinare i vantaggi degli altri due tipi di fornitori. Sono stati adottati nuovi concetti e strumenti per la cooperazione fra OEM e fornitori. Ad esempio, l’Audi ha lanciato il processo KVP2 (il processo di miglioramento continuo quadrato) che comprendeva fabbriche congiunte con risultati integrati e progetti di consegna orientati, focalizzate all’aumento degli utili dei clienti e alla riduzione degli sprechi, l’ottimizzazione dei metodi di lavoro e l’ottimizzazione della qualità. La BMW ha richiesto ai suoi fornitori di assicurare la gestione della qualità e la trasparenza lungo tutti i processi, compresi tutti i subfornitori. I fornitori sono stati così costretti a stabilire per ogni cliente il proprio sistema di elaborazione dati relativo al controllo qualità. 5 Effetti regionali Poiché questi nuovi concetti richiedevano una collaborazione più stretta fra Audi e BMW e i fornitori, sono stati costituiti sofisticati sistemi regionali di fornitura e preassemblaggio nei pressi dei siti produttivi della Baviera del Sud e degli stabilimenti BMW e Audi. In questa regione, i fornitori hanno stabilito delle linee di preassemblaggio che servivano solo a questo scopo, mentre i pezzi di ricambio e i componenti erano prodotti in paesi a basso costo salariale, come la Repubblica Ceca, la Slovacchia o la Polonia. Attualmente, circa 80 fornitori Audi hanno la loro sede in Baviera, dove la direzione Audi sostiene l’insediamento di siti produttivi. In Baviera si è costituita, con il sostegno del governo regionale, una rete denominata BAIKA, di cui fanno parte: Audi, BMW, DaimlerChrysler, Ford, Honda, Opel, Peugeot, Porsche, Renault, Toyota, Volkswagen, i 10 gruppi di fornitori più importanti, Aisin Seiki, Bosch, Delphi Automotive Systems, Denso, Faurecia, Johnsons Controls, Lear, Magna International, TRW, Visteon, 850 imprese della Baviera e 1.450 fornitori di 34 paesi.. La rete BAIKA collabora con partner internazionali nell’ambito di reti di fornitori a livello europeo e negli USA: Automobilcluster Österreich (258 membri), Detroit Regional Chamber, ACS – Il Distretto Automobilistico della Slovenia (50 membri), AFIA – La Società Portoghese dei Produttori di Componenti per Automobili (48 membri), ZAP SR – l'Associazione 91 dell'Industria Automobilistica della Repubblica Slovacca (157 membri), l'Associazione dell'Industria Automobilistica della Repubblica Ceca (14 OEM-115 fornitori), NEVA – Settore Automobilistico Olandese (280 membri), l'Associazione Ungherese dei Produttori di Componenti per Automobili (205 membri). Altri gruppi internazionali simili sono, ad esempio, AFAC (Argentina), Sindipecas (Brasile), Acma (India), Japia (Giappone), e INA (Messico) AMICA (Marocco), MEMA/OESA (USA). E’ interessante notare come nella maggior parte di queste reti di fornitori regionali o nazionali sono presenti i “mega-fornitori”; ciò rappresenta una prova del fatto che costituiscono una rete interna globale all’interno delle loro strutture. Nel vecchio schema organizzativo dello stabilimento Audi le linee di assemblaggio erano circondate da zone di consegna di parti e componenti. In questa zone i componenti erano preassemblati e poi portati alle linee di assemblaggio finale. Nel caso dello stabilimento Audi di Ingolstadt ad esempio, le parti anteriori erano consegnate da una fabbrica specializzata nel preassemblaggio ubicata a 500 metri di distanza, le strumentazioni provenivano da un fornitore ubicato a 3 chilometri di distanza, i cruscotti e i circuiti interni del cofano da un altro fornitore ubicato a 5 chilometri di distanza, i paraurti da due fornitori ubicati a 24 e 25 chilometri di distanza, i pannelli di rivestimento interno degli sportelli da fornitori ubicati a una distanza di 26 chilometri, i sedili da fornitori ubicati a una distanza di 27 chilometri e i serbatoi da altri fornitori ancora ubicati a una distanza di 103 chilometri. La realizzazione di un parco fornitori (Güterverkehrszentrum), ubicato direttamente all’ingresso dello stabilimento Audi, dove attualmente si sono insediate 17 ditte fornitrici con oltre 2.500 addetti, costituisce una nuova formula organizzativa che consente il preassemblaggio di moduli e impianti in perfetta sincronia, grazie alla produzione all’interno dello stabilimento. Possono costituire un esempio il modulo anteriore e la batteria. Nel primo caso, la parte anteriore è montata nella linea di assemblaggio del parco fornitori e portata esattamente in sequenza con la linea di assemblaggio Audi; nel secondo caso, la batteria è montata direttamente dagli addetti del fornitore presso la linea di assemblaggio all’interno dello stabilimento Audi. Questo modello permette l’applicazione del concetto della “fabbrica che respira” stabilendo una collaborazione variabile con i fornitori; inoltre, migliora il controllo dell’intera catena di produzione, mediante il monitoraggio dell’intero ciclo produttivo e delle singole sequenze. 92 Il sistema del parco fornitori è stato realizzato da Audi anche a Neckarsulm, (15 fornitori), e da BMW a Regensburg (10 fornitori) e Lipsia. Altri OEM hanno introdotto questo sistema, come illustrato nella Tabella seguente. Tab. 1 - Parchi di fornitori Audi BMW Fiat Ford GM Jaguar MCC (Smart) Mercedes Opel Renault SEAT Volkswagen Volvo Località Neckarsulm Ingolstadt Regensburg Leipzig Melfi Colonia Valencia Saarlouis Ellesmere Port Halewood Hambach Rastatt Bochum Rüsselsheim Anversa Vauxhall Sandouville Martorell Arbrera Mosel Bruxelles Palmela Torslanda Numero di fornitori 15 17 10 18 11 41 10 3 15 13 10 80 7 3 7 26 9 13 7 14 8 Nel caso del parco fornitori Audi di Ingolstadt (GVZ – Güterverkehrs-zentrum) la nostra ricerca mostra come il sistema sia stato sviluppato gradualmente – e non pianificato all’interno di un programma generale prestabilito. In seguito alla costruzione dei primi edifici del parco, l’esperienza ha permesso di migliorare la collaborazione e quindi sono state costruite ulteriori strutture e si sono insediati nuovi fornitori. 93 6 Riorganizzazione della catena della fornitura Questo modello non è stato ideato da Audi o BMW, ma dalla Fiat di Melfi, a cui le imprese tedesche si sono riferite; ci troviamo di fronte a d un esempio di isomorfismo mimetico. Entrambi i produttori hanno creato anche delle strutture polimorfiche, basate sulle loro specifiche opportunità, esperienze e tradizioni locali. I fattori di successo alla base di questo modello possono essere descritti come segue: · i rischi d’investimento sono ridotti; ad es. il parco fornitori è stato finanziato dal governo regionale; gli edifici adibiti all’assemblaggio e all’immagazzinamento possono essere affittati solo dai fornitori e gli investimenti necessari devono essere sostenuti totalmente da essi; solo in alcuni casi l’Audi ha assistito finanziariamente la realizzazione d’infrastrutture per la produzione o per la fornitura di servizi logistici; · la collaborazione fra l’Audi e i fornitori è migliorata e i contatti diretti possono essere immediatamente attivati se necessario; · l’Audi ha un controllo diretto in tempo reale sulla situazione produttiva dei fornitori; i problemi di produzione possono essere evidenziati sul nascere. Uno degli obiettivi della ristrutturazione dei rapporti fra OEM e fornitori consiste nell’affrontare l’organizzazione verticale della produzione per abbassare i costi di produzione. Il grafico seguente illustra il rapporto di produzione netto reale fra BMW e DymlerChrysler che attualmente è a circa il 30 %, mentre per l’Audi è al 20 %. La Porsche ha il rapporto più basso a circa il 18 %. 94 Fig. 8 – Organizzazione verticale della produzione Ci si potrebbe aspettare che le aspettative sui fornitori si amplino notevolmente. In futuro gli OEM si concentreranno sempre di più sulle proprie competenze chiave, mentre i fornitori si occuperanno sempre di più di altre mansioni, quali la costruzione, la produzione, il coordinamento dei subfornitori, la funzionalità e la qualità dei sistemi nella loro totalità. Per l’anno 2010 si prevede che il rapporto di produzione netto reale per gli OEM scenderà nuovamente al 20 %, la quota dello sviluppo al 50 %e la quota totale al 25 %. Sviluppi già in atto possono essere riscontrati in: · Cooperazione in R&S; · produzione e logistica; · Gestione della catena della fornitura. La cooperazione in attività di R&S costituiva già un elemento del concetto di produzione snella. Le squadre di sviluppo con membri degli OEM e dei fornitori rappresentavano un concetto noto come ingegneria simultanea (simultaneous engineering) (SE). Nello sviluppare nuovi prodotti, le 95 squadre SE si riunivano regolarmente per l’ideazione, per discutere i vari problemi o per mettere a punto delle soluzioni. Se distinguiamo quattro fasi nello sviluppo di un nuovo modello di automobile, prendendo come esempio la serie 3 della BMW, possiamo osservare che oggi i fornitori sono coinvolti sin dalle prime fasi del processo e gli vengono assegnati molti più incarichi rispetto al passato. Negli anni ’90 la pianificazione strategica, la fase preliminare dello svilppo della serie e lo sviluppo vero e proprio erano di competenza della BMW; i fornitori intervenivano solo alla fine dello sviluppo e durante la produzione della serie. Mentre, i fornitori intervenivano solo alla fine dello sviluppo della serie e durante la produzione della serie. Nel 1998 i principali fornitori erano coinvolti sin dall’inizio nella fase di sviluppo della serie, mentre per quanto riguarda la serie del 2005, il coinvolgimento inizia sin dalla fase preliminare. Attualmente, la modalità più frequente prevede che degli ingegneri lavorino direttamente all’interno degli stabilimenti Audi e BMW durante lo sviluppo di un progetto per migliorare la comunicazione fra i partner. Il risultato è una maggiore dipendenza fra le imprese. Le interviste effettuate alla fine di questa fase di ristrutturazione hanno messo in rilievo dei nuovi problemi emergenti nella cooperazione fra gli OEM e i fornitori dal punto di vista della gestione dei produttori e dei fornitori, quali: 4. I problemi logistici fra i produttori automobilistici e i fornitori erano spesso dovuti a difficoltà di comunicazione, discrepanze sociali e differenze culturali piuttosto che a difficoltà tecniche; molto spesso gli addetti e soprattutto i proprietari delle ditte fornitrici si lamentavano dell’arroganza e delle abitudini autoritarie dei dirigenti della ditta OEM; 5. Sono state individuate differenze di qualifiche e salari fra le persone coinvolte (dirigenti e lavoratori); gli addetti delle ditte fornitrici che lavoravano all’interno e all’esterno dello stabilimento OEM hanno reagito esprimendo la loro insoddisfazione con un alto tasso di mobilità di lavoratori sia in posizioni dirigenziali che come operai; 6. Sono emerse delle strategie di contrapposizione nascoste da parte dei lavoratori dell’OEM, derivanti dalla paura di perdere posti di lavoro a causa della strategia di outsourcing; 7. La combinazione fra le strategie di insourcing e outsourcing, nel caso ad esempio in cui un componente veniva ancora prodotto direttamente nello stabilimento, mentre altre parti erano realizzate da un fornitore esterno, 96 allora gli addetti della ditta OEM non cercavano di risolvere gli eventuali problemi d’interfaccia; 8. L’alto tasso di mobilità di lavoratori non era fonte di preoccupazione per la direzione del mega-fornitore, che ha sede negli USA, poiché la loro competitività è garantita da una strategia globale di produzione e fornitura; inoltre, i dirigenti del mega-fornitore non sono interessati a migliorare il capitale umano che risiede in regioni lontaei o in paesi stranieri. Sotto la pressione costante della concorrenza globale, alcuni fornitori hanno sviluppato ulteriori capacità funzionali, che si sono rivelate di grande successo, tanto che ad esempio nel 2003 ZF Friedrichshafen ha registrato un fatturato annuo di 8,9 miliardi di Euro, 53,500 addetti in 119 stabilimenti in 25 paesi (27 stabilimenti in Germania, 13 negli USA, 9 in Cina, 7 in Francia, 5 in Brasile, Spagna e Italia, 4 in Sud Africa, 3 in India, 2 in Corea, Slovacchia, Turchia e Austria, 1 in Argentina, Australia, Algeria, Belgio, Ungheria, Iran, Tailandia, Taiwan). Alcuni “campioni nascosti” – anche fra le piccole e medie imprese – hanno sviluppato delle applicazioni e delle conoscenze chiave e, dunque, si sono create nuove dipendenze per gli OEM. 7 Mega-fornitori Alcuni dei fornitori di primo livello sono diventati essi stessi degli operatori globali e si sono trasformati in imprese ancora più grandi degli stessi produttori automobilistici. Questi “mega-fornitori” attualmente forniscono diversi componenti a quasi tutti i produttori automobilistici sulla piattaforma di una strategia globale di produzione e in qualsiasi località mondiale; alcuni potrebbero avere già raggiunto la capacità di produrre essi stessi un’automobile, sulla base delle conoscenze raccolte nell’ambito della collaborazione con tutte le più importanti case automobilistiche. Un’ulteriore differenziazione fra i gruppi di fornitori si riferisce alla capacità di fornire solo parti, componenti, sistemi, o moduli. Mentre alcuni autori descrivono queste caratteristiche come il risultato di un processo evolutivo, le interviste realizzate mostrano in realtà uno scetticismo crescente riguardo al concetto della modularizzazione a causa dei costi e degli sforzi crescenti di coordinamento. Le tendenze descritte hanno cambiato il rapporto fra produttori automobilistici e i loro fornitori a causa della mutata natura della relazione 97 fra produttori e fornitori (ossia il potere fondato su conoscenze strategiche, competenze di R&S, legami globali). Ciò vale, in particolare, per il rapporti fra gli OEM e i mega-fornitori. I mega-fornitori sono spesso definiti in base alla loro “massa critica”: il numero e la dimensione degli stabilimenti, la presenza globale, il fatturato, il capitale, e il numero di addetti, come illustrato nei seguenti grafici, con l’esempio del Gruppo BMW e dei suoi mega-fornitori. Fig. - Fatturato Il Gruppo BMW con oltre 42.200 milioni Euro ha il più alto fatturato rispetto a Delphi (oltre 24.200 milioni Euro), Bosch (23.300 milioni Euro), Lear (oltre 12.700 milioni Euro), Johnson controls (oltre 17.700 milioni Euro), Magna International (oltre 14.400 milioni Euro), Faurecia (9,900 milioni Euro), e Siemens VDO (oltre 8.500 milioni Euro). 98 Fig. 9 - Addetti La maggior parte degli addetti lavora per Bosch (oltre 225.000 a livello mondiale), seguito da Delphi (192,000), Lear (120.000), Johnson Controls (113.000), dal Gruppo BMW con 101.365 addetti, mentre Magna International (73.000), Faurecia (59,000), e Siemens (43.000) hanno un minore numero di addetti. E’ interessante notare come alcuni dei “mega-fornitori” sono più internazionalizzati, come illustrato dal grafico successivo. 99 Fig. 10 - Mega-fornitori e siti nei vari paesi Mentre il Gruppo BMW è presente in 30 paesi (con 50 stabilimenti), Bosch opera in 50 paesi (236 stabilimenti), Delphi in 41 paesi (41 stabilimenti), Siemens in 34 paesi (137 stabilimenti), Lear in 33 paesi (300 stabilimenti), Johnson Controls in 30 paesi (500 stabilimenti). Solo Faurecia (27 paesi, 160 stabilimenti), e Magna International (22 paesi, 245 stabilimenti) sono meno “globalizzati”. Il Gruppo BMW stima in una proiezione una crescente importanza dei fornitori di primo livello (fornitori di sistema), come illustrato dal grafico successivo. 100 Fig. 11 – Fornitori di primo livello per dimensione (BMW) Nell’anno 2000, 35 mega-fornitori avevano una quota di fatturato pari al 36 % (= 4.7 miliardi di Euro), con circa 200 grandi imprese partecipanti in qualità di fornitori di sistema con il 29 % del fatturato, (= 3.8 miliardi di Euro), con circa 700 piccole e medie imprese coinvolte con il 35 % (= 4.5 miliardi di Euro). Entro il 2006, la quota dei mega-fornitori è destinata a salire al 50 %, con le grandi imprese che resteranno a circa il 30 %; mentre la quota delle PMI si ridurrà al 20 %. Il grafico successivo mostra che i fornitori hanno già assunto il ruolo di imprenditori nel settore automobilistico considerando il numero di innovazioni da loro sviluppate: 101 Fig. 12 – Settore d’Innovazione Nel 2001 in un campione rappresentativo di progetti di pre-sviluppo di ricerca, le piccole e medie imprese (PMI) BMW hanno conseguito lo stesso numero d’innovazioni significative (3 su 18; 16,7 %) delle grandi imprese; lo stesso numero proveniva da innovazioni interne; 9 (50 %) sono state presentate da mega-fornitori. Tre innovazioni con una USP - unique selling position sono state sviluppate da PMI e grandi imprese (ognuna con una quota del 17,5 %), mentre 8 (82,5 %) sono state realizzate da mega-fornitori; in questa categoria non è stata presentata nessuna innovazione interna. Per quel che concerne questi dati, si potrebbe dire che uno degli effetti collaterali non previsti delle strategie di fornitura degli OEM negli anni ‘90 è stata la crescente dipendenza degli OEM dai “mega-fornitori” e dai “campioni nascosti”: con un conseguente mutamento dell’equilibrio di potere. Gli OEM hanno, quindi, cercato delle alternative e dei cambiamenti nelle loro strategie e nella gestione della catena della fornitura: 102 La risposta della BMW al potere crescente dei mega-fornitori è di: · Creare un mix di fornitori: ossia, obbligare i fornitori di primo livello a collaborare con i fornitori scelti dall’OEM senza permettere loro di assumere il controllo sulle attività dei fornitori di secondo livello; · Costruire delle reti di fornitori: reti integrate per la modularizzazione e reti integrate per partenariati strategici con fornitori autonomi a diversi stadi della catena di fornitura. 8 Imprese virtuali Un concetto evolutivo della strategia di partenariato consiste nello sviluppo delle imprese virtuali (VE), ossia reti di OEM e fornitori con collegamenti fra i diversi stadi della cascata di fornitura, mediante l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione avanzate (IT), messe a punto dall’industria automobilistica, per migliorare la cooperazione fra OEM e fornitori. Il networking attraverso strutture virtuali può essere interpretato come una reazione alla pressione dei costi, per ottimizzare la catena del valore aggiunto e per integrare partner, clienti e fornitori. Poiché le strategie di risparmio sui costi mediante la riorganizzazione interna della produzione di massa sono estremamente sfruttate e poiché le potenzialità di risparmio derivanti dalla spremitura dei fornitori sono limitate e mettono in pericolo la qualità della produzione, il processo di ottimizzazione della catena della fornitura è diventato il fattore più importante nella competizione globale, in quanto determina la qualità delle interfacce ed è essenziale per la determinazione del prezzo del prodotto finale e dell’utile delle imprese. Solo un’organizzazione della catena della fornitura basata sulle tecnologie IT è in grado di offrire la possibilità di ridurre i costi, migliorando la trasparenza dei processi e automatizzando la struttura del contenuto. VE sono anche considerate come uno strumento utile per contenere il potere dei mega-fornitori, in quanto grazie alla rete di numerosi partner indipendenti gli OEM possono riassumere il controllo e la guida della catena della fornitura. Le interviste effettuate con i dirigenti durante il periodo in cui tale strategia era appena stata lanciata illustrano chiaramente come questa sia stata la strada scelta nel caso dell’Audi per “riprendere il controllo sull’intera catena della fornitura ed avere quindi la possibilità di reagire tempestivamente in caso di interferenze”, mentre il responsabile della BMW era indeciso riguardo ai risultati attesi dal programma VE che era stato intrapreso, 103 secondo la sua opinione, semplicemente “perché altri lo facevano e dunque anche noi dovevamo farlo se non volevamo arrivare troppo tardi.” Per riassumere, si potrebbe affermare che le strutture VE sono realizzate dagli OEM al fine di: · Monitorare e controllare la catena della fornitura; · Sostenere l’integrazione orizzontale e verticale dei fornitori; · Riaggiustare l’equilibrio di potere a favore degli OEM; · Individuare in tempo reale eventuali problemi nella catena della fornitura; · Evitare i problemi per l’intera catena della produzione; · Migliorare la gestione dei rischi anche per il singolo fornitore. Il termine “impresa virtuale” (VE) è utilizzato con varie sfumature di significato, come ad esempio: · Impresa Virtuale; · Azienda Virtuale; · Organizzazione Virtuale; · Fabbrica Virtuale. Nella letteratura e nella pratica del management il termine VE descrive vari oggetti e strutture, come ad esempio: · Telelavoro; · Squadre Virtuali; · Uffici Satellitari; · R&S su base IT; · Reti intra- e inter-aziendali su base IT; · Lavoro tramite Internet di liberi professionisti; · Gestione della conoscenza. Più precisamente, l’impresa virtuale (VE) può essere definita come un insieme di forme ibride di collaborazione fra il mercato e la gerarchia basate su condizioni giuridiche e tecnologiche mutevoli. Le piattaforme delle VE sono delle reti d’imprese, la cui collaborazione può essere definita come una rete temporanea. Le “strutture virtuali” possono prendere il posto delle “strutture reali” nell’industria automobilistica in molteplici dimensioni, come illustrato dal grafico successivo. 104 Fig. 13 - Le imprese virtuali nell’industria automobilistica Le strutture virtuali possono aiutare a migliorare la gestione della catena della fornitura mediante: · L’integrazione della catena delle informazioni e sostituendo le strategie “push” con quelle “pull”; · Il miglioramento della trasparenza della gestione del processo. La “strategia del mercato virtuale automobilistico” utilizza nuovi metodi di distribuzione e gestione. I vantaggi della VE per la produzione sono: · Riduzione dei costi mediante il miglioramento delle pratiche di variazione, minori spese di viaggio e trasporto; · Risparmio di tempo grazie all’accesso ai documenti da parte di tutti i partner coinvolti; · Migliore inserimento dei nuovi addetti; · Risparmio di tempo di viaggio; · Tempi ridotti d’immissione di un prodotto sul mercato; · Riduzione dei rischi grazie a una migliore sicurezza dei dati e dei processi, procedure più affidabili e razionali e trasparenza delle attività; · Migliore flusso d’informazioni grazie all’accesso di tutti i partner allo stesso livello d’informazioni, all’accesso simultaneo ai documenti effettivi e evitando un sovraccarico d’informazioni; 105 · Risparmio di tempo derivante dall’utilizzo dello stesso software (TTC) e dalla standardizzazione degli strumenti; · Migliore flessibilizzazione delle attività. Alcuni esempi di VE già costituite nell’ambito della cooperazione fra OEM e fornitori: Audi: “Integrierte Audi-Prozessdatenbank”: IADP supporta la connessione fra prodotto, processi e risorse. BMW: l’integrazione della gestione dei dati e messa in rete in tempo reale. Tutti gli attori che partecipano ai processi di pianificazione e produzione devono essere in grado di utilizzare gli stessi dati, compreso il libero accesso al patrimonio informativo dei fornitori. DaimlerChrysler: la pianificazione della fabbrica digitale e programmi di qualificazione per gli addetti. Presso lo stabilimento di Tuscaloosa, test virtuali permettono di simulare delle realtà già simulate, con un risparmio di tempo di almeno 1/3 per i controlli dei dati. Opel: la fabbrica virtuale consiste in un portale informativo di pianificazione, costruzione, visualizzazione, ottimizzazione e unità standardizzate per assicurare la riusabilità. La realtà virtuale sarà integrata nel lavoro quotidiano. European Network Exchange “ENX”: una piattaforma di comunicazione europea del settore automobilistico su cui avvengono tutte le comunicazioni relative alla catena della fornitura fra tutte le imprese partecipanti. Presso la BMW le serie future sono sviluppate sulla base di modelli VR. La VR non riguarda soltanto i processi interni, ma anche la collaborazione con i fornitori. Un fornitore di sistema dunque deve essere in grado di produrre e lavorare con dei programmi VR compatibili. Un modello di riferimento digitale relativo ad un nuovo modello di automobile è prodotto, comunicato e discusso in maniera interattiva fra gli OEM e i fornitori. I principali obiettivi sono: la progettazione, la costruzione della carrozzeria e il packaging. Utilizzando la stessa piattaforma software possono essere prese le decisioni relative alla progettazione e possono essere effettuate anche le prove d’urto. Non vi è dunque più bisogno di conversioni e trasferimenti fisici, dunque possono essere evitati eventuali problemi d’interfaccia e perdite di dati . L’Audi ha inoltre sviluppato la configurazione completa di una nuova fabbrica mediante i programmi VR. “Attraverso la trasposizione diretta negli attuali progetti di auto, abbiamo raggiunto un alto grado di accettazione e di utilizzo produttivo”, ha affermato Gerhard Grabmaier, coordinatore e leader di progetto della fabbrica digitale presso l’Audi. “In 106 ogni progetto di sviluppo, aumentiamo la profondità della funzionalità utilizzata, l’integrazione e il legame con i nuovi fornitori.” Il processo effettivo di sviluppo e ottimizzazione è incentrato sulla rete nell’intera formazione del processo di produzione; ad esempio, i progettisti del reparto carrozzeria sviluppano le strutture nel loro insieme, che saranno successivamente dettagliate dai fornitori addetti all’installazione. Presso la linea di assemblaggio l’Audi usa gli strumenti di Delmia, nel reparto carrozzeria i prodotti Tecnomatix. Tutti i fornitori devono lavorare con gli stessi metodi e strumenti. Con la nuova Audi A6 i fornitori coinvolti condividono di già gli stessi processi e modelli di dati. Il concetto di fabbrica digitale ha rafforzato la collaborazione fra i vari reparti Audi. La VE richiede che tutti i fornitori utilizzino gli stessi strumenti e programmi degli OEM. Il know-how dello sviluppo virtuale di un’automobile è offerto ai fornitori dalla BMW grazie a particolari programmi di qualificazione. La formazione relativa ai metodi, ai processi e alle procedure di applicazione preferita dalla BMW mira a stabilire una base di conoscenza comune. I fornitori, tuttavia, hanno dei costi molto alti costi dovuti al fatto che sono obbligati a utilizzare nuovi software e hardware. Poiché gli OEM lavorano con sistemi diversi, i fornitori devono utilizzare piattaforme diverse, costose e complesse se vogliono evitare di dipendere da uno o l’altro produttore. Solo le grandi aziende possono permettersi di acquistare il know-how necessario e le soluzioni dalle imprese IT come SAP, Oracle, i2, Commerce One ma anche IBM o Siemens, e possono così definire standard e automatizzare i processi globali. Tutti sono a favore di una tecnologia commerciale, che sia condivisa dai propri reparti, dai fornitori e dalla logistica. L’interesse per l’automazione e la razionalizzazione da parte degli OEM, è condizionata dal fatto che in questo modo risulta più semplice organizzare meglio i propri reparti tenendo conto sia dei mercati e sia della possinilità di costruire un solido partenariato ai fini dell’approvvigionamento. L’integrazione dei fornitori non solo ne riduce il numero ma offre anche la possibilità di produrre a dei costi più bassi. La seconda fase consiste nell’integrare i nuovi partner nella rete di cooperazione che realizza prodotti, componenti, sistemi o servizi simili. I fornitori e i loro partner condividono gli stessi contenuti, il che significa che tutto ciò che offre il mercato è organizzato in basi di dati. Ne consegue che una rete trasparente si evolve secondo degli standard uniformi ad ogni livello. Eventuali problemi sociali e comportamentali, che possono derivare da questa nuova strategia sono elencati di seguito: 107 · · · · I fornitori temono che i dirigenti OEM possano perseguire delle strategie non dichiarate, finalizzate a difendere i propri interessi e dunque agiscono di conseguenza senza comunicare. La collaborazione si basa sulla comunicazione; benché dal punto di vista del management OEM, il partenariato sia realizzato in gruppi di lavoro congiunti, i partecipanti e i dirigenti delle ditte fornitrici spesso si lamentano del fatto che non sentono di avere l’auto-controllo ma di essere controllati; ecco perché nelle interviste hanno espresso una sensazione di “doppio legame” (“double bind”); La gestione delle interazioni nelle relazioni OEM-fornitori può essere considerata da un punto di vista intenzionale e strutturale e può essere descritta in termini di mettere in grado (“enabling”) (interdipendenza) e controllo (“control”) (interpenetrazione) , mentre in tali interazioni il mettere in grado è la filosofia mentre il controllo è la realtà e il risultato è spesso di “mimetismo” (“mimicry”); La pressione esercitata sui fornitori è trasmessa anche agli addetti, e ciò non crea solo diverse condizioni di lavoro, ma ad esempio nelle fabbriche degli OEM e delle imprese fornitrici i lavoratori si sentono spesso schiacciati dal concetto di “ottenere di più con meno”; Il desiderio dilagante “di cambiare schieramento” è un chiaro indicatore di un’identificazione negativa e di una minore motivazione al lavoro, che potrebbe costituire la ragione per una riduzione della produttività e della qualità. 9 Conclusioni Nel ricostruire la storia di BMW e AUDI è difficile individuare un’unica “via alta” che ha portato queste aziende al successo odierno. A più riprese, entrambe le società sono state sul punto di essere eliminate dal mercato automobilistico, com’è successo per la maggioranza dei concorrenti in passato. Entrambe le imprese sono riuscite a sopravvivere grazie a delle circostanze politiche favorevoli, alla competenza tecnica, al capitale umano e alla fiducia degli investitori, come ad esempio dopo la crisi avvenuta alla fine della I e della II Guerra Mondiale, ma anche nel dopoguerra. L’Audi e la BMW sono sopravvissute nel mercato automobilistico globale, benché abbiano seguito due percorsi diversi: se la BMW ha conservato la sua indipendenza avvantaggiandosi del fatto di non essere subordinata alle decisioni di nessun consiglio di amministrazione, l’Audi ha scelto la strada della dipendenza – in quanto in possesso prima della Mercedes e successivamente della Volkswagen – anche se la leggenda Audi vuole che sia 108 il gruppo Volkswagen a dover riconoscere il merito della sua sopravvivenza all’Audi, in quanto negli anni ‘60 gli ingegneri dell’Audi misero a punto a porte chiuse e contro la volontà espressa dal consiglio, una nuova tecnologia di successo, che è alla base di una nuova automobile, piuttosto che il contrario. Entrambi i gruppi hanno adattato delle strategie isomorfiche in seguito al profilarsi della “minaccia giapponese”, ma hanno anche messo a punto dei programmi polimorfici, facendo affidamento alle proprie forze e tradizioni e ai propri ambienti sociali, economici e politici, ad esempio collaborando con i sindacati o con i governi regionali. Durante l’ultimo decennio, entrambi i gruppi sono stati favoriti allo stesso modo dal processo di globalizzazione, in quanto la crescente differenziazione economica e sociale aumenta la domanda da parte dei nuovi ceti alti a livello internazionale di “segni distintivi”, ed ecco che le automobili di classe Audi e BMW sono portatrici di quel forte valore simbolico e senza tempo. Almeno per quanto riguarda l’Audi e la BMW, i risultati della ricerca sollevano seri dubbi riguardo alla possibilità di ridurre le attività delle imprese globali alla produzione di marca. Probabilmente solo nel settore automobilistico di punta sembra essere necessario avere una cosiddetta posizione di vendita unica (USP - unique selling position) poiché i consumatori non saranno disposti a pagare prezzi troppo elevati per delle smarties; ciò richiede delle competenze chiave, di sviluppo e progettazione tecnica ad esempio, come dimostrato dall’Audi in passato con lo sviluppo dell’Audi Quattro. Già in passato le strategie condivise da entrambe le case automobilistiche con altri produttori hanno avuto degli effetti collaterali indesiderati. Se gli OEM potevano esternalizzare alcuni degli impatti di tali risultati, ad esempio ai governi o ai fornitori, così com’è accaduto nel caso della crescita del traffico merci o dei rischi d’investimento, altri effetti collaterali si sono riversati sugli OEM stessi costringendoli a cambiare strategia, come è avvenuto nel caso del potere crescente dei mega-fornitori. E’ stato Max Weber che per primo ha fatto riferimento agli effetti collaterali indesiderati derivanti dalle condizioni imposte dall’economia capitalista, nel libro “Gehäuse der Hörigkeit”, che obbliga gli attori coinvolti a contribuire alle condizioni che hanno creato ma che non possono assolutamente più cambiare. La nuova controstrategia degli OEM contro il potere crescente dei mega-fornitori e dei “campioni nascosti” crea nuovi problemi nella comunicazione fra produttori e fornitori, benché la fiducia sia un elemento fondamentale per una proficua collaborazione: a livello micro, i cosiddetti 109 “double-binds” (doppi legami) sono il risultato di una comunicazione strategica; a livello strutturale, il “mimetismo” (“mimicry”) e il “linguaggio ambiguo” (“double-speak”) derivano da un atteggiamento misto teso a facilitare e rendere le cose possibili, da una parte, e di controllarle, dall’altra, nelle interazioni. Poiché non è possibile prevedere le conseguenze di tutte le decisioni, la capacità degli “attori razionali” sui mercati è limitata. Nel caso della produzione automobilistica, le strategie di mercato scelte dagli OEM– com’è stato d’altronde dimostrato – hanno comportato dei nuovi problemi inaspettati. Si potrebbe argomentare che le strategie descritte sono un tentativo di controllare il mercato, ma nel momento in cui tali tentativi falliscono essi danno vita a nuove condizioni a cui gli attori devono reagire, non solo a causa dell’effetto boomerang dei risultati derivanti dalla riduzione dei prezzi che si traduce in minore qualità e minore controllo sulla catena del prodotto, ma anche perché dobbiamo affrontare diversi tipi di razionalità economica. In altri termini, il mercato della produzione automobilistica può essere paragonato a un mondo sommerso in cui nuotano diversi tipi di pesci che devono trovare delle strategie diverse per sopravvivere: ci sono quelli che lottano e competono da soli contro altri pesci per assicurarsi il sostentamento, altri formano dei gruppi o delle alleanze o delle simbiosi di varie nature. Poi ci sono gli squali che adottano una strategia completamente diversa e il cui unico interesse consiste nel mangiare altri pesci. Se trasferiamo questa immagine al settore automobilistico possiamo dire che alcune delle aziende che rilevano le ditte fornitrici non sono interessate alla produzione automobilistica ma soltanto ai profitti. Una volta raggiunto questo obiettivo, lasciano il mercato e rivolgono il proprio interesse altrove, alla ricerca di altre vittime da sfruttare in altri comparti. Questo comportamento strategico limita la collaborazione comunicativa, in quanto non solo può creare dei buchi pericolosi nella catena della fornitura ma, cosa ancora più importante, dimostra che l’idea di una razionalità economica uniforme è sbagliata. Perseguire delle strategie orientate unicamente al profitto può distruggere le catene di produzione, che sono state costruite in maniera razionale per perseguire degli obiettivi economici differenti: realizzare utili producendo automobili. 10 110 Bibliografia Audi AG, Das Rad der Zeit, Bielefeld, Delius Klasing, 2000. Audi AG, Die Geschichte der Markenzeichen, Bielefeld, Delius Klasing, 2002. Bayerischer Rundfunk, Traditionsfirmen in Bayern Audi, “Bayern heute”, 25.2.2004. BMW Group, Gestaltungsaufgaben des Einkaufs im Produktentstehungsprozess und in der Serie. Working Paper, München, 2003. Buchholz W., Werner H., Supply Chain Solutions. Best practices in e-Business, Stuttgart, Schäffer-Poeschel, 2001. 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Il presente capitolo intende partire dalle esperienze maturate da questi due costruttori automobilistici svedesi per analizzare e discutere il concetto di fornitura modulare. Tuttavia, bisogna innanzitutto delineare il quadro del settore automobilistico “svedese” e delle due principali società “svedesi”, la Volvo e la Saab. L’ondata di fusioni e acquisizioni, che ha attraversato il settore automobilistico globale attuale, ha interessato moltissimo anche la Svezia. La General Motors ha acquistato il 50% delle azioni della Saab Automobile nel 1990 e il restante delle azioni nel 2000. La Volvo Car Corporation è stata rilevata dalla Ford Motor Company nel 1999 e ora fa parte della fascia alta del gruppo automobilistico Ford insieme a Land Rover, Jaguar, Lincoln e Aston Martin. Molti dei precedenti fornitori svedesi fanno anch’essi parte di multinazionali globali, come la Lear, o si trovano adesso a competere su un mercato globale, come, ad esempio, il fornitore specializzato nella sicurezza Autoliv. Le strategie, le risorse e le attività delle aziende svedesi sono molto influenzate dagli attori e dai proprietari stranieri così come dalle condizioni locali e dalla cultura svedese. Un aspetto importante tipico della cultura svedese è rappresentato dagli sforzi dei due costruttori automobilistici nel progettare dei sistemi di assemblaggio in grado di garantire sia la “qualità della vita lavorativa” degli operatori addetti alle linee di assemblaggio, sia l’efficienza delle aziende. L’esempio più rappresentativo di tali esperienze è quello relativo allo stabilimento Volvo di Uddevalla, in cui piccoli gruppi semiautonomi di operatori assemblavano delle autovetture complete secondo una configurazione fissa (Berggren 1994). Altri esempi sono costituiti dallo stabilimento Volvo di Kalmar e dallo stabilimento Saab di Malmö, che utilizzava dei veicoli a guida automatica invece delle linee per trasportare le autovetture da una stazione di assemblaggio all’altra con cicli di lavoro relativamente lunghi (Ellegård et al. 1992). Dei sistemi sofisticati di organizzazione del lavoro permettevano ai gruppi di operatori di questi stabilimenti di variare il ritmo della produzione a seconda delle proprie esigenze e preferenze, a condizione che rispettassero i parametri produttivi giornalieri fissati. Tuttavia, per motivi dovuti alle capacità produttive, questi stabilimenti relativamente piccoli sono stati chiusi fra la fine degli anni 1980 e gli inizi degli anni 1990. La Volvo e la Saab ora concentrano le proprie attività, rispettivamente, soprattutto nei principali stabilimenti svedesi di Gothenburg e Trollhättan. Assicurare delle buone condizioni di lavoro per gli operatori addetti all’assemblaggio continua ad essere un tratto distintivo delle due società, benché sotto altre forme, ad esempio, attraverso l’utilizzo di un sistema di assemblaggio modulare, che sarà descritto più avanti. Un altro tratto essenziale tipico della cultura svedese è rappresentato dal fatto che la Volvo e la Saab hanno un piccolo mercato interno. Oltre alle difficoltà di raggiungere grandi volumi su altri mercati, ciò ha limitato la crescita della Volvo e della Saab. Nel 2003, la Volvo ha venduto circa 415.000 automobili, mentre la Saab poco più di 130.000. Le loro rispettive capacità di dotarsi di risorse interne erano, dunque, limitate e i fornitori hanno sempre svolto un ruolo importante per entrambe le case automobilistiche. Hanno così instaurato delle strette relazioni con molti fornitori svedesi e stanno ora cercando di utilizzare queste esperienze anche nei loro rapporti con i fornitori globali che sviluppano, preassemblano e forniscono i moduli completi. Benché il settore automobilistico svedese sia ora fortemente influenzato dalla globalizzazione all’interno dell’industria, queste importanti caratteristiche nazionali influenzano ancora questi due costruttori automobilistici. Il prossimo paragrafo di questo capitolo fornirà una breve panoramica sull’utilizzo della fornitura modulare nel settore automobilistico nel suo insieme. L'utilizzo della fornitura modulare da parte di Volvo e Saab sarà descritto nei due paragrafi seguenti. I tre paragrafi finali del capitolo si riferiscono alle esperienze dei casi svedesi e illustrano come la fornitura modulare contribuisca all’evoluzione organizzativa nel settore 115 automobilistico. In particolare, bisogna sottolineare come la collaborazione, il conflitto e la competizione coesistono nelle reti di fornitura modulare e alimentano l’evoluzione organizzativa. 2 La fornitura modulare nel settore automobilistico I principi alla base del concetto di fornitura modulare sono sempre più utilizzati e studiati da esperti ricercatori e operatori del settore. Tuttavia, il concetto in quanto tale non è totalmente inedito nel settore automobilistico. I flussi di moduli sono esistiti sin dall’esistenza del settore stesso. Le industrie automobilistiche hanno sempre suddiviso i complessi processi di assemblaggio in parti, o moduli gestibili (Baldwin e Clark 1997). Motori e sedili sono tipici moduli di prodotti che sono stati realizzati e preassemblati in flussi separati prima di essere inoltrati verso la linea principale per l’assemblaggio finale. I moduli di prodotti che sono oggi generalmente preassemblati e consegnati in sequenza sono elencati nella Tabella 1. Si tratta di ciò che Wilhelm (1997) definisce i moduli di primo livello, il che significa che si trovano al secondo livello più alto nella struttura di prodotto, mentre l’autovettura completa si posiziona al livello più elevato. Tab. 1 – Tipici moduli di primo livello nel settore automobilistico Avantreno Retrotreno Paraurti Abitacolo Portiera completa Pannello della porta Motore Sistema di scarico Parte anteriore Serbatoio del carburante Leva del cambio Cambio/scatola del cambio / Due volumi Rivestimento padiglione Strumentazione Fari Pedaliera Parte posteriore Sedili Soft top Piantone del volante Sistema di guida /sterzo Tetto apribile Sospensioni Ruote Tergicristallo Cablaggio elettrico Fonte: Mercer 1995, McAlinden et al. 1999, Salerno 2001. Tuttavia, un nuovo elemento è rappresentato dal fatto che le varianti del modulo ora sono preassemblate e fornite nella stessa sequenza come varianti auto sulla linea di assemblaggio finale (vedere ad es. Doran 2002). Sako e Warburton (1999) mettono in rilievo che alcune case automobilistiche europee hanno cominciato a preassemblare i moduli in sequenza verso la metà/fine anni ‘80. Salerno (2001) descrive com’erano preassemblati in sequenza i cruscotti della Ford Escort in uno degli stabilimenti brasiliani nel 116 1983. Da allora, il preassemblaggio sequenziale dei moduli è diventato sempre più diffuso, nonostante vi siano differenze rilevanti su come e fino a che punto li utilizzano i diversi produttori automobilistici. Il motivo dell’utilizzo crescente del preassemblaggio sequenziale dei moduli consiste nel fatto che gli sforzi di personalizzazione effettuati dai costruttori automobilistici hanno portato a una forte varietà di prodotto e incertezza oltre a un tentativo di ridurre i costi logistici (Sako e Warburton 1999, Salerno 2001, Doran 2002). Nell’industria automobilistica europea, ad esempio, il numero totale dei modelli automobilistici è aumentato dell’84% dal 1990 al 1999 (Sako e Warburton 1999). Il preassemblaggio sequenziale e la consegna dei moduli sono, dunque, usati come uno strumento per la creazione efficiente di varietà di prodotto. Un ulteriore aspetto consiste nel fatto che i fornitori (ancora una volta) si sono assunti la responsabilità dello sviluppo e del preassemblaggio sequenziale dei moduli (Doran 2004). Automotive News Europe rivela che un numero crescente di costruttori automobilistici con stabilimenti di assemblaggio in Europa acquistano i moduli da fornitori esterni (vedere ad es. Wright 1999 e 2000, Wright Curtis 2001). Per ridurre il lead-time di consegna e permettere di sequenziare i moduli di grandi dimensioni, i fornitori hanno realizzato le cosiddette Unità di Assemblaggio Moduli (MAU), che sono delle unità relativamente piccole ubicate in prossimità degli stabilimenti di assemblaggio auto. Molte delle MAU che riforniscono uno degli stabilimenti automobilistici sono inoltre ubicate in un distretto comune, dando così vita a un parco fornitori (vedere Tabella 2). Uno dei parchi europei più noti è quello destinato alla produzione delle automobili Smart a Hambach, Francia. Otto su dieci fornitori di moduli sono insediati all’interno dello stabilimento della Smart, mentre gli altri due sono all’esterno dell’area dello stabilimento ma sempre a una breve distanza. I principi operativi e la progettazione variano fra i vari parchi fornitori (Morris et al. 2004), in base alle condizioni locali vigenti in quella regione, alla società e ai prodotti in questione. Un analogo sviluppo, relativo alla fornitura modulare e all’uso delle MAU può essere osservato in America Centrale e del Sud (Tabella 3). Numerose case automobilistiche hanno esternalizzato i flussi di moduli, a partire dal momento in cui hanno ristrutturato vecchi stabilimenti o costruito nuove sedi in questa regione (McAlinden et al. 1999, Salerno 2001, Lung 2001). Nel Nord America, tuttavia, sono stati principalmente gli stabilimenti BMW e DaimlerChrysler del tipo green field (consistenti cioè nell’apertura dal nulla di nuove unità produttive) che utilizzano delle MAU di proprietà dei 117 fornitori per il preassemblaggio e la consegna di moduli (McAlinden et al. 1999). A causa delle loro relazioni sindacali e con i fornitori, Ford e GM hanno deciso di non esternalizzare ulteriormente la responsabilità dei moduli al di fuori degli stabilimenti USA (Lung 2001, Morris et al. 2004). Tuttavia, la Ford e alcuni dei suoi fornitori di moduli hanno recentemente costituito un parco fornitori in prossimità dello stabilimento di Chicago (Wilson 2002). I costruttori automobilistici USA hanno, quindi, scelto strategie diverse per i loro stabilimenti nazionali rispetto agli altri stabilimenti esteri di loro proprietà. I costruttori automobilistici giapponesi hanno, in generale, mantenuto al proprio interno le attività di preassemblaggio di grandi moduli sia per quel che riguarda i loro stabilimenti nazionali e quelli con sede all’estero (Chew 1998, Sako e Warburton 1999, Fredriksson 2002, Morris et al. 2004). Le uniche eccezioni rilevate riguardano il parco fornitori della Toyota in Messico (Chappell 2003) e della Nissan nel Sunderland e in Gran Bretagna (Cullen 2002). Tab. 2 - Parco fornitori in Europa per stabilimento di assemblaggio automobilistico Casa automobilistica Audi BMW DaimlerChrysler Fiat Ford Jaguar Nissan Opel/Vauxhall Renault Seat Smart Volkswagen Parco fornitori Ingolstadt Neckarsulm Monaco Leipzig Rastatt Melfi Cassino Valencia Saarlois Genk Colonia Halewood Sunderland Anversa Ellesmere Port Saragozza Sandouville Abrera Hambach Palmela Bruxelles Poznan # MAU 11 11 10 7 10 18 ? 15 8 9 11 15 ? 7 3 11 5 26 10 11 7 16 118 Mosel Gent Torslanda Volvo 13 12 10 Fonte: Wright Curtis 2001, Cullen 2002, Miel 2002, Frink 2003a, 2003b, Morris et al. 2004. Le Tabelle e gli esempi di cui sopra illustrano chiaramente che l’uso della fornitura modulare è estremamente diffuso nel settore automobilistico. Indicano, inoltre, che vi sono differenze nelle modalità di attuazione e nei diversi gradi di applicazione del concetto da parte delle case automobilistiche. Appare chiaramente che ogni singola casa automobilistica ha scelto delle soluzioni diverse per i diversi stabilimenti, le linee di prodotto, i moduli e i fornitori. Queste differenze riguardano il modo e la misura in cui la fornitura modulare è utilizzata e indicano che non esiste un’unica soluzione ideale d’ideazione e attuazione. Risulta, invece, chiaro come questo concetto generale deve essere adattato ad ogni situazione specifica. Intendiamo ora analizzare il modo in cui queste due case automobilistiche svedesi, la Volvo e la Saab, hanno attuato il concetto di fornitura modulare. Tab. 3 – L’uso della fornitura modulare nell’America Centrale e del Sud C a s automobilistica DaimlerChrysler Fiat Ford GM Renault VW a Descrizione Daimler ha uno stabilimento e Chrysler un altro. Entrambi gli stabilimenti sono ubicati in Brasile e ricevono i moduli dalle MAU dei fornitori. Detiene due stabilimenti di assemblaggio, uno in Brasile e uno in Argentina. Entrambi ricevono i moduli dalle MAU, alcune delle quali sono ubicate in un parco fornitori adiacente. Detiene uno stabilimento in Brasile dove le MAU di proprietà dei fornitori sono ampiamente utilizzate per la consegna dei moduli in sequenza. Alcuni fornitori sono ubicati all’interno dello stabilimento Ford, mentre altri sono ubicati in un parco fornitori adiacente. Detiene uno stabilimento in Brasile dove le MAU sono ampiamente utilizzate per la consegna dei moduli in sequenza. Tutti i fornitori sono insediati all’interno della sede. Detiene uno stabilimento in Brasile che utilizza i fornitori per la consegna dei moduli. I fornitori sono ubicati in un parco fornitori adiacente allo stabilimento. Detiene due stabilimenti di assemblaggio auto in Brasile. 119 Entrambi gli stabilimenti ricevono i moduli in sequenza da un certo numero di MAU. Fonte: McAlinden et al. 1999, Salerno 2001, Lung 2001 3 La fornitura modulare nella Volvo Car Corporation La Volvo Car Corporation applica il concetto della fornitura modulare presso i suoi due principali stabilimenti di assemblaggio con sede rispettivamente a Gothenburg in Svezia e a Gent in Belgio. Questo paragrafo è dedicato all’analisi dello stabilimento di Gothenburg che, nel 2003, produceva circa 160.000 automobili su un’unica linea finale di assemblaggio. La Volvo ha cominciato ad utilizzare il sistema di fornitura modulare verso la metà degli anni ‘90. S’intende ora illustrare la situazione attuale e analizzare come è progettato, attuato e migliorato il sistema industriale. 1 L’emergere della strategia modulare presso la Volvo La Volvo ha lanciato il modello S80 nell’estate del 1998, primo modello basato sulla nuova piattaforma P2, divenuto a sua volta la base dei modelli S60, V70, XC70, e XC90. Quando sono stati messi a punto la piattaforma P2 e il modello S80, la Volvo ha attuato la strategia modulare con conseguenze molto ampie che hanno interessato anche le relazioni con i fornitori e la struttura industriale. Questo processo è avvenuto in una fase molto critica, successiva alla rottura fra Volvo e Renault nel 1994. Durante un periodo di poco più di due anni, le aziende avevano investito molte risorse in una piattaforma comune. Quando si è conclusa la collaborazione tra le due aziende, la Volvo si è ritrovata senza una piattaforma propria e scarsissime risorse finanziarie. La situazione si rivelò molto grave, data anche l’esigenza propria del settore automobilistico di rinnovare frequententemente la gamma dei prodotti – soprattutto perché a quell’epoca la Volvo era una delle più piccole case automobilistiche ‘indipendenti’ del mondo. La Volvo si rese dunque conto che aveva bisogno di ideare un nuovo modo di lavorare per sviluppare una nuova piattaforma entro tempi ragionevoli. Suddividendo il modello S80 in un certo numero di moduli, la Volvo poteva esternalizzarne alcuni e allo stesso tempo procedere in parallelo e accorciare i tempi di sviluppo del prodotto. I fornitori avrebbero, dunque, potuto contribuire con proprie risorse finanziarie e di tempo. La Volvo poteva, 120 inoltre, avvantaggiarsi dell’esperienza acquisita da questi fornitori globali quando doveva collaborare con altri costruttori automobilistici nello sviluppo di progetti. La Volvo ha organizzato il progetto di sviluppo secondo delle squadre modulari transfunzionali, in cui i fornitori giocavano un ruolo importante. Inoltre, i cambiamenti continui nella struttura industriale erano evidenti. Vi era un gran numero di fornitori che consegnava tradizionalmente alla Volvo uno o più componenti, ognuno dei quali a sua volta faceva assemblare questi componenti presso una stazione di preassemblaggio o una linea finale di assemblaggio. Attualmente, i moduli completi sono subappaltati a fornitori globali che hanno costituito delle Unità di Assemblaggio di Moduli (MAU) locali in prossimità dello stabilimento Volvo. Il prossimo paragrafo fornisce una descrizione della struttura industriale derivante da quest’impostazione e della modalità di gestione adottata dalle MAU per consegnare in sequenza i moduli di grandi dimensioni fisiche. 2 La struttura industriale della fornitura modulare Prima dello sviluppo del modello S80 e della piattaforma P2, due fornitori di moduli erano dotati di MAU, che preassemblavano e consegnavano i moduli in sequenza allo stabilimento di assemblaggio finale della Volvo. Uno era ubicato nell’ex-area del cantiere navale di Arendal, a soli dieci minuti di distanza dalla sede della Volvo. L’altra MAU era ubicata a 200 km a nord di Gothenburg. Le MAU non facevano parte di una strategia modulare appositamente studiata e predisposta dalla Volvo; tuttavia, questa soluzione si rivelò essere particolarmente adatta ad affrontare diversi problemi pratici. Numerose MAU di fornitori s’insediarono nell’area Arendal, costituendo così un parco fornitori vero e proprio per la produzione del modello automobilistico S80 modularizzato (Tabella 4). La società produttrice di componenti della Volvo costituì due unità di assemblaggio all’esterno dello stabilimento, mentre altre furono realizzate all’interno. Dal punto di vista della produzione, la Volvo aveva interresse ad utilizzare le MAU e le unità interne di preassemblaggio per i seguenti scopi: (i) ridurre la lunghezza della linea di assemblaggio del 50% allo scopo di diminuire i tempi di produzione e aumentare il controllo, (ii) anche al di fuori del carico di lavoro alla linea mediante la creazione di gran parte dell’immensa varietà di prodotto fuori linea, (iii) migliorare la qualità mediante dei sistemi di controllo più efficienti, (iv) realizzare metà delle attività di assemblaggio interne fuori linea per ragioni ergonomiche, e (v) sfruttare le competenze tecniche di 121 pre-produzione dei fornitori, acquisite attraverso la collaborazione con altri costruttori automobilistici. Lo sviluppo della struttura industriale per il modello S80 ha dunque rappresentato un enorme impegno per la Volvo, per quel che concerne il suo utilizzo sistematico della fornitura modulare. Infatti, le MAU elencate nella parte superiore della Tabella 4 occupavano nel loro complesso praticamente lo stesso numero di addetti della Volvo nel suo stabilimento di assemblaggio. Ulteriori moduli, MAU e fornitori di moduli si sono aggiunti nel corso degli ultimi anni, come illustrato nella Tabella. Ciò è dovuto al fatto che altri tre nuovi modelli automobilistici sono ora prodotti presso lo stabilimento della Volvo e sono necessari nuovi moduli, ad esempio i portelloni posteriori per i modelli delle familiari. Importanti cambiamenti strutturali sono, inoltre, avvenuti in seguito all’esternalizzazione di alcune stazioni di preassemblaggio interne da parte della Volvo, es. l’operazione di preassemblaggio dell’abitacolo, e l’acquisizione di alcuni fornitori, es. Becker rilevato da Johnson Controls Incorporated. Il concetto di fornitura modulare della Volvo si sta dunque evolvendo attraverso le azioni e le strategie Volvo e le iniziative dei fornitori. 122 Tab. 4 - Fornitori di moduli le cui MAU sono ubicate in prossimità dello stabilimento Volvo di Gothenburg. Fornitura modulare agli inizi degli anni 1998 MAU Moduli Becker Rivestimento padiglione, console centrale Borgers Coprivano bagagliaio Delphi Cablaggi elettrici Lear Interior Strumentazione, Pannelli delle porte Raufoss Paraurti posteriore, Rivestimenti in plastica, Softnose (paraurti anteriori antishock) Rieter Tappetini Tenneco Sistema di scarico Walbro Serbatoio del carburante Lear Seating Sedili anteriori e posteriori Collins & Aikman Tappetini extra CCT*** ECT*** Asse posteriore, tirante della molla Gruppo di alimentazione Ruote VKF*** Fornitura modulare alla fine del 2003 MAU Moduli Johnson Controls Rivestimento padiglione console centrale Borgers Coprivano bagagliaio, Pannelli laterali, Copertura del pianale Delphi Cablaggi elettrici Lear Interior Strumentazione, Pannelli delle porte Plastal Rieter Tenneco TI Automotive Lear Lear EEDS Lear Paraurti posteriore, Rivestimenti in plastica, Paraurti Softnose Tappetini Sistema di scarico Serbatoio del carburante Sedili anteriori e posteriori Cablaggi elettrici Abitacoli Sequrit Inoplast CCT*** Q-window Portellone posteriore Asse posteriore, tirante della molla Collins & Aikman Sedili extra, Copertura del pianale Autoliv Sede Arendal Arendal Arendal Arendal Arendal Arendal Arendal Arendal Bengtsfors* Frölunda** Bulycke** Bulycke** Kungälv** Sede Arendal Arendal Arendal Arendal, Tanum* Arendal Arendal Arendal Arendal area Volvo area Volvo Bergsjön** Arendal area Volvo Bulycke** Frölunda** Volante, IC, airbag, cinture di sicurezza area Volvo 123 KTS ECT *** MCP 3 Lista delle finiture Gruppo di alimentazione Ruote Arendal Bulycke** Kungälv** Funzionamento dei flussi di moduli I principi operativi di ogni flusso di moduli sono illustrati nella Figura 1. Quando la Volvo preleva una carrozzeria dal buffer (polmone) dopo la verniciatura e la immette nella linea finale di assemblaggio, quella carrozzeria si riferisce a uno specifico ordine di acquisto e a una specifica identità. Tutte le opzioni scelte dall’acquirente in termini di colore, tipo di motore, rifiniture interne, ecc. sono collegate a questa identità. Le varianti di moduli specifici devono, dunque, essere disponibili in ogni stazione lungo la linea quando arriva la carrozzeria. Quindi, quando la carrozzeria è immessa nella linea di assemblaggio, gli ordini delle necessarie varianti di moduli sono inviati alle MAU. Le MAU che devono rifornire la prima stazione di assemblaggio hanno circa quattro ore a loro disposizione, mentre le unità che intervengono alla fine della linea hanno circa dodici ore. Per essere in grado di preassemblare e consegnare i moduli in un tempo così breve, tutte le MAU devono essere ubicate in prossimità dello Stabilimento Volvo. Fig. 1 – L’assemblaggio sincronizzato delle varianti di moduli e automobili immagine: carrozzerie nella linea finale di assemblaggio della Volvo - In questo punto sono immesse le carrozzerie nella linea di assemblaggio ed è stabilita la sequenza delle automobili da costruire. Sarà inviato un ordine alle MAU più o meno nel momento in cui saranno richieste le varianti dei moduli. - Le varianti dei moduli di cablaggio sono consegnate nella giusta sequenza 124 - Le varianti dei moduli dei sedili sono consegnate nella giusta sequenza Fornitori di componenti Fornitori di componenti ~ 4 ore La Volvo è responsabile del trasporto dei moduli dalle MAU alla linea finale di assemblaggio. I camion fanno la spola fra lo stabilimento e le MAU e i prelievi sono effettuati una o due volte l’ora in ogni MAU. La frequenza dei prelievi varia a seconda del ritmo di lavoro dello stabilimento Volvo e la densità d’imballaggio di ogni tipo di modulo. La densità d’imballaggio è, in generale, abbastanza bassa poiché i moduli richiedono degli spedizionieri speciali per assicurare la protezione da eventuali danni che possono verificarsi durante il trasporto e per facilitare l’accesso agli operatori. I costi di trasporto verso lo stabilimento Volvo non aumentano, tuttavia, nella stessa misura. Anzi, sono diminuiti rispetto alla precedente generazione di automobili, in quanto gli ingegneri addetti alla logistica della Volvo hanno messo a punto un sistema in grado di soddisfare allo stesso tempo la domanda di costi bassi e di consegne frequenti dei moduli con una bassa densità d’imballaggio. 4 Coordinamento dei flussi di moduli Allo scopo di coordinare la fornitura dei moduli, la Volvo invia le informazioni dal sistema di pianificazione della produzione alle MAU. Le informazioni saranno utilizzate per pianificare i processi di ricostituzione delle scorte e di produzione, assicurando così la consegna delle diverse varianti di moduli come richiesto dalla Volvo. Una volta al mese, con un anticipo di sei settimane, è inviata una previsione di produzione. Questa costituisce la base dei processi di pianificazione delle MAU, poiché gli ordini effettivi della Volvo possono deviare dalle previsioni solo entro determinati limiti specificati nei contratti. Inoltre, ogni MAU riceve due piani di produzione con una diversa tempistica. Il piano aggregato di lungo termine è aggiornato e fatto circolare una volta la settimana e riguarda le 62 settimane successive di produzione. Si basa sul calendario degli ordini e sulle previsioni delle vendite della Volvo. Benché un po’ incerto, questo piano è complementare alle previsioni di produzione per la pianificazione di lungo termine dei fornitori. Le MAU ricevono un piano ancora più dettagliato relativo ai rispettivi tipi e varianti di moduli. Questo piano è aggiornato e fatto circolare quotidianamente e riguarda le 12 settimane successive di produzione. Sono fissati i primi otto giorni di questo piano dettagliato, nel senso che la Volvo s’impegna ad 125 assemblare le varianti specifiche di automobili in una certa sequenza. A partire dal nono giorno in poi, il piano diventa una previsione e può variare notevolmente in quanto la Volvo assembla un’automobile solo nel momento in cui parte l’ordine da parte del cliente specificando tutti gli optional del caso, che possono essere variati praticamentefino all’ultimo momento prima dell’inizio della produzione. Per coordinare il preassemblaggio delle varianti di moduli specifici con la loro necessità d’immissione nella linea finale di assemblaggio, le MAU ricevono delle istruzioni di sincronizzazione che costituiscono gli ordini effettivi della Volvo. Un ordine di sincronizzazione è inviato ad ogni MAU ogni volta che una carrozzeria è immessa nella linea finale di assemblaggio e che specifica esattamente il tipo di variante di modulo richiesto. E’ proprio l’ordine di sincronizzazione che dà il via alle attività di preassemblaggio presso le MAU, poiché la richiesta di una variante di modulo specifica non è totalmente certa finché le carrozzerie non saranno immesse nella linea finale. L’invio degli ordini di sincronizzazione dipende anche dal sistema finanziario che regola la fatturazione da parte delle MAU nei confronti della Volvo. 5 Soluzione di problemi nei flussi di moduli A causa della stretta integrazione delle attività delle MAU con la linea finale di assemblaggio della Volvo, la gestione delle deviazioni dalla norma è molto importante. Le eventuali deviazioni di qualità devono essere gestite rapidamente poiché tutti i moduli sono dedicati ad una specifica autovettura e non sono disponibili sostituzioni. Se uno degli operatori della Volvo addetti all’assemblaggio scopre una certa deviazione su un modulo di abitacolo, ad esempio, il responsabile MAU sarà immediatamente informato e potranno essere intraprese tre azioni diverse. La prima consiste nel verificare che gli abitacoli preassemblati e trasportati non presentano difetti. La seconda consiste nell’inviare un ingegnere addetto alla qualità allo stabilimento della Volvo per analizzare il difetto. La terza azione consiste nell’inviare un modulo sostitutivo o solo dei sottocomponenti. In caso di un grave difetto di qualità o di se è difficile risalire alle cause, gli addetti delle MAU e della Volvo agiscono congiuntamente. Ciò potrebbe comportare la necessità di analizzare le modalità secondo cui sono gestiti i moduli all’interno della Volvo, durante il trasporto, all’interno delle MAU, o nei processi di un fornitore di componenti. Nell’ambito di tale azione congiunta, vi sono alcuni difetti che non possono essere esattamente definiti, ad es. se la sfumatura di un colore effettivamente è una deviazione dallo standard specificato o no, 126 così come le contromisure appropriate, ad es. se la lucidatura manuale dopo la verniciatura è sufficiente o se il processo di verniciatura deve essere corretto. Le eventuali deviazioni di consegna sono ugualmente importanti da gestire, in quanto dei problemi presenti in alcune MAU possono ripercuotersi negativamente e arrestare la linea della Volvo. Ciò è dovuto al fatto che alcuni moduli possono essere montati sulle automobili solo in una determinata stazione di assemblaggio come ad esempio quelli dell’abitacolo, che possono essere montati nelle carrozzerie solo da un particolare robot. Dunque, se non sono disponibili le giuste varianti per l’abitacolo, la linea della Volvo si fermerà e, conseguentemente, anche quelle delle altre MAU. Alcuni moduli, ad es. i paraurti, possono essere montati nelle carrozzerie solo dopo che le automobili sono uscite dalla linea, che non dovrà essere fermata in caso di problemi che possono verificarsi in questi flussi. Tuttavia, le conseguenze economiche sono gravi in entrambi i casi, così come gli effetti sulla capacità della Volvo di mantenere le sue promesse di consegna. Per evitare eventuali deviazioni di consegna, alcune MAU sono invitate a dare un input ai processi pianificazione della Volvo. Conseguentemente, i piani di produzione che ne derivano saranno più consoni alle condizioni delle MAU e così alcuni problemi di consegna potranno essere evitati. Le MAU sono autorizzate a fissare dei limiti nel sistema di pianificazione della produzione della Volvo. Ciò implica che se una MAU prevede o deve affrontare dei problemi di consegna riguardanti una certa variante di modulo, ad es. se la Lear non riesce a consegnare gli abitacoli per le automobili con guida a destra, la Volvo eviterà di assemblare le automobili che richiedono la variante in questione. Il piano di produzione e l’ordinazione dei moduli saranno dunque limitati finché il problema della MAU in questione non sarà stato risolto. Benché tali restrizioni possano essere introdotte anche soltanto alcune ore prima per evitare degli arresti di linea molto costosi, si fa ricorso ad una soluzione di questo tipo con estrema cautela in quanto si ripercuoterà su tutte le altre MAU. Se una restrizione appare duratura o se i problemi in un flusso di moduli causa effettivamente un arresto della linea, allora la Volvo e la MAU interessata intraprenderanno delle azioni comuni. Nella maggior parte dei casi ciò consiste nel sostenere e nell’esercitare pressione su un fornitore di componenti che si trova ad affrontare dei problemi con una certo tipo di componente. 127 6 Miglioramenti nei flussi di moduli e nella struttura industriale Oltre alle attività ordinarie e interattive di soluzione dei problemi nei diversi flussi di moduli, la Volvo e le MAU s’incontrano per discutere dei miglioramenti necessari in maniera più generale e proattiva. I dirigenti delle MAU si riuniscono regolarmente per discutere dei piani e delle istruzioni della Volvo e delle eventuali risposte congiunte da dare. Discutono, inoltre, del modo per migliorare l’interfaccia comune con la Volvo e per ottimizzare l’uso delle risorse. Non è certamente facile raggiungere delle economie di scala per delle MAU relativamente piccole in quanto ognuna di esse gestisce solo uno o pochi moduli e serve solo un cliente. Questo problema è stato parzialmente risolto grazie a questi incontri e discussioni fra manager, in quanto alcune delle MAU ora si rivolgono alle stesse società a cui affidano la gestione delle infrastrutture, dello smaltimento dei rifiuti, della manodopera occasionale, dell’assunzione di esperti di manutenzione, dei trasporti, ecc. Un ulteriore forum di discussione delle MAU è organizzato dalla Volvo. In queste sede, le MAU presentano i loro punti di vista comuni alla Volvo, e sono informate dei piani di produzione, di come procede il lavoro di miglioramento e di problem-solving, dei nuovi modelli introdotti, dei restyling, ecc. Queste riunioni sono importanti perché contribuiscono a stabilire le modalità d’interazione fra la Volvo e le MAU e a migliorare le prestazioni. 4 La fornitura modulare della Saab Automobile Il presente paragrafo descrive la modalità di applicazione del concetto di fornitura modulare da parte della Saab. Nel 2003, la Saab produceva circa 130.000 automobili dei modelli 95- e 93- nel suo stabilimento di Trollhättan in Svezia. Data la sua dimensione ridotta, la Saab ha attuato il concetto di fornitura modulare in un modo leggermente diverso rispetto alla Volvo, come ulteriormente illustrato in una relazione della Saab alla direzione della General Motors (GM), di cui fa parte. 1 I rapporti fra Saab e General Motors GM ha una grande influenza sull’organizzazione e la gestione della Saab e della sua catena di fornitori. Ad esempio, la Saab non dispone di un proprio 128 Ufficio Acquisti, ma è la GM che se ne occupa direttamente. In particolare, è soprattutto la GME, GM Europa, he detiene il controllo sulla Saab. oltre all’influenza sulla Saab attraverso i modelli di auto basati sulle piattaforme Opel, la GM interviene anche sulla progettazione dei processi. Il Global Bill of Process della GM è uno standard che stabilisce le modalità secondo cui devono essere fabbricate tutte le automobili GM, es. l’ordine di assemblaggio dei componenti nella carrozzeria. Il processo standardizza anche l’uso delle misure di performance. Ad esempio, la GM utilizza lo standard di “ore/uomo per automobile” per effettuare il confronto di produttività fra gli stabilimenti e questa misura è alla base della decisione di esternalizzazione alcune attività di assemblaggio. Questo processo standard stabilisce, inoltre, che i moduli di grandi dimensioni, come ad esempio i sedili, dovrebbero essere esternalizzati ad un fornitore dotato di una MAU insediata nei pressi dello stabilimento automobilistico. L’uso della fornitura modulare da parte della Saab è quindi notevolmente influenzato dagli standard della GM. 2 Fornitura modulare nella Saab La Saab ha di recente esteso l’utilizzo del sistema di fornitura modulare e riceve numerosi moduli da MAU di proprietà di fornitori (Tabella 5). Queste MAU sono ubicate in prossimità della Saab e sono gestite più o meno secondo gli stessi principi delle MAU della Volvo. Ossia, ricevono le previsioni di produzione a lungo termine relative alle varianti di moduli che saranno necessari, mentre gli ordini effettivi sono trasmessi solo alcune ore prima della consegna prevista. Le attività di problem-solving sono svolte in stretta collaborazione con le MAU e i rappresentanti dell’assemblaggio, della logistica e degli acquisti della Saab. Tuttavia, le MAU non sono ubicate nella stessa area limitata e non costituiscono da quel punto di vista un parco fornitori. Tab. 5 - Fornitura modulare della Saab. Paraurti (forniti da Sapa) Pannelli delle porte (forniti da Lear) Sistemi di scarico (forniti da terzi) Serbatoio del carburante (fornito da terzi) Cablaggi elettrici (forniti da terzi) Rivestimento padiglione (fornito da Lear) Strumentazioni (fornite da Lear) Sedili (forniti da Lear) Ruote (fornite da MPC) 129 Come illustrato dalla suddetta Tabella, alcuni dei fornitori di moduli Saab utilizzano una ditta di logistica esterna per il preassemblaggio dei propri moduli. Dati i piccoli volumi della Saab e la quantità relativamente limitata del lavoro di preassemblaggio richiesto su questi moduli, i fornitori di moduli coinvolti non potevano permettersi di realizzare delle MAU distinte. Hanno, invece, affidato tali operazioni a una ditta di logistica esterna, in maniera, dunque, da utilizzare le risorse per i diversi flussi di moduli. Oltre alla riduzione dei costi derivante da una migliore ottimizzazione delle risorse, questa soluzione si è rivelata ideale per la Saab, in quanto ha solo un contatto per i numerosi flussi di moduli. Se, da una parte, la Saab intende aumentare i volumi di produzione e il numero di varianti di prodotto per ottimizzare al meglio le scarse risorse, la società, d’altra parte, intende ampliare l’utilizzo della fornitura modulare. 5 I ruoli strategici delle MAU nella catena della fornitura Le Unità di Assemblaggio dei Moduli (MAU) costituite in prossimità di uno stabilimento di assemblaggio automobilistico servono ovviamente per uno scopo logistico ben preciso, come illustrato dai casi di Volvo e Saab. Ossia le unità MAU preassemblano e consegnano le varianti di moduli di grandi dimensioni fisiche in tempi brevi e in base alle esigenze di qualità e consegna del cliente. Inoltre, le MAU servono come buffer (polmone di riserva) o interfaccia con lo stabilimento produttivo, contribuendo così alla efficienza e allo sviluppo del costruttore automobilistico e del fornitore di moduli. Questi due ruoli strategici di tamponamento e d’interfaccia sono illustrati maggiormente nei dettagli nelle sezioni seguenti, anche in relazione all’esistenza di casi di collaborazione e conflitto nei flussi di moduli. 1 I ruoli d’interfaccia e di tamponamento Dal punto di vista dello stabilimento di assemblaggio automobilistico, le MAU svolgono un ruolo di buffer (tamponamento), rendendo così più efficiente la linea finale di assemblaggio. Ciò è dovuto al fatto che la varietà totale di prodotto è realizzata dai moduli del prodotto e, dunque, una quota corrispondente di varietà nelle attività di assemblaggio è gestita dalle MAU. Il lavoro che rimane sulla linea è dunque più standardizzato e le perdite relative alla varietà sono relativamente basse nonostante siano realizzati più modelli automobilistici diversi (Kinutani 1997, Wilhelm 1997). Il lead-time alla linea sarà anche più corto man mano che sarà svolto un numero sempre 130 più limitato di attività (Salerno 2001). Un’unità MAU contribuisce, così, alla realizzazione più efficiente di varianti automobilistiche nella linea finale di assemblaggio gestita dal costruttore automobilistico. Per questo motivo, com’è anche chiaramente illustrato in letteratura, Volvo e Saab sottolineano il ruolo strategicamente importante svolto dalle MAU per le proprie rispettive capacità di personalizzazione dell’offerta sul mercato. Un ragionamento simile vale anche dal punto di vista del fornitore. Se le MAU non esistessero, non sarebbe possibile soddisfare a pieno le richieste dei costruttori automobilistici di tempi di consegna brevi e di forniture di varianti di moduli specifici e si posizionerebbero più indietro lungo la supply chain, fino a retrocedere agli stabilimenti principali dei fornitori. A quel punto dovrebbero affrontare delle esigenze ben diverse rispetto alle condizioni esistenti di produzione di lotti di componenti, alcuni dei quali sono standardizzati, mentre altri sono propri esclusivamente dei prodotti specifici di una data casa automobilistica. Ciò vale soprattutto nel caso di una casa automobilistica che regola la produzione sulla base degli ordini dei clienti, come nel caso della Volvo, poiché la domanda resta incerta fin quasi al momento dell’inizio della produzione. Le richieste degli acquirenti di automobili di varianti specifiche ricadrebbero indietro lungo la catena sulla produzione di componenti, se non ci fosse la funzione di buffer svolta dalle MAU. I principali stabilimenti avrebbero dunque bisogno d’interagire direttamente con i vari costruttori automobilistici con tutte le loro diverse esigenze di pratiche operative e d’impostazione di sistemi informativi, ecc. Le MAU contribuiscono, invece, alla standardizzazione e all’efficienza all’interno degli stabilimenti di produzione di componenti, svolgendo così un ruolo strategicamente importante dal punto di vista dei fornitori di moduli. Le MAU sono, inoltre, degli attori importanti in quanto fanno da ponte con tutti gli altri membri della rete. Dal punto di vista di un costruttore automobilistico, una MAU può contribuire con nuove idee derivanti direttamente dai fornitori dei componenti e/o dagli altri costruttori automobilistici. Una MAU può anche mediare i contatti fra la casa automobilistica e i fornitori di componenti. Un esempio può essere rappresentato dalla MAU della Delphi che ha aiutato la Volvo a stabilire i contatti con uno dei propri fornitori di fusibili e che alla fine è diventato il fornitore preferenziale, contribuendo così alla riduzione dei costi dei fusibili della Volvo. Il ruolo d’interfaccia può naturalmente essere svolto in entrambe le direzioni, in quanto una MAU può aiutare il fornitore di moduli a entrare in contatto con nuove società, idee, strumenti, ecc., attraverso la casa automobilistica. 131 I ruoli di tamponamento e d’interfaccia delle MAU le rendono delle componenti essenziali per creare efficienza e sviluppo, mediante l’inibizione o la creazione di legami fra la casa automobilistica e i punti nevralgici operativi dei fornitori (Thompson 1967). Questi ruoli comportano delle difficoltà in relazione a delle semplici considerazioni di performance, in quanto, ad esempio, le attività interne delle MAU possono essere soggette a delle economie di scala solo in una certa misura (von Corswant et al. 2003). Di conseguenza la performance di una MAU non può essere pienamente valutata mediante le misure che sono tradizionalmente utilizzate nel settore automobilistico, es. ‘ore/uomo per modulo’ o ‘difetti/ppm per modulo’ (Schmitz e Platts 2003). Tali misure si basano sul tentativo di isolare una MAU dal suo contesto nell’ambito della supply chain. La performance di una MAU, invece, deve essere considerata rispetto al contributo che dà alla performance generale della casa automobilistca e del fornitore. 2 Cooperazione e conflitto I ruoli di tamponamento e d’interfaccia delle MAU implicano la necessità di collaborazione fra le società. Anzi, l’esistenza stessa di una MAU si basa sulla cooperazione fra un fornitore di moduli e una casa automobilistica. Senza un orientamento reciproco comune di lungo periodo, non potrà essere effettuato nessun investimento in una MAU. La collaborazione fra ogni MAU e il cliente è fondamentale anche dal punto di vista della produzione. Il caso della Volvo illustra chiaramente che ogni MAU e l’organizzazione dell’assemblaggio finale hanno bisogno d’instaurare uno stretto rapporto di collaborazione in questioni come la pianificazione della produzione e il problem-solving. Ecco perché la MAU costituisce un esempio rappresentativo di ‘relazioni di partenariato’ e della modalità di sviluppo delle relazioni fra gli attori nel settore automobilistico (Doran 2003). Potrebbero, inoltre, esistere disaccordi nelle relazioni fra i fornitori di moduli e la casa automobilistica. Alcune delle tematiche operative che i costruttori automobilistici in questione e le loro rispettive MAU hanno frequentemente discusso riguardano i costi, le condizioni di consegna, i requisiti di qualità, i piani di produzione, ecc. (Morris et al. 2004 per esempi simili). Un altro tipo di conflitto riguarda il fatto che la casa automobilistica pretende che le MAU si adattino alla situazione e alle esigenze del caso. Il fornitore di moduli, da parte sua, pone delle richieste opposte alle sue unità MAU chiedendo loro di soddisfare le esigenze dei centri di produzione e sviluppo centralizzati del fornitore, che servono diversi costruttori automobilistici. 132 Ecco dunque che la MAU si ritroverà “schiacciata” fra le richieste contrastanti dei suoi due principali interlocutori. Una MAU si ritrova dunque intrappolata in una struttura di conflitti che assomiglia al cosiddetto ‘paradosso della rete di fornitura’ descritto da Ford et al. (2003). Questi autori sostengono che se un’impresa detiene il controllo totale, allora la flessibilità e l’innovatività della rete dei fornitori ne risentiranno. Alla fine, sia il cliente sia il fornitore hanno bisogno di acquisire un certo grado di controllo ed è qui che le MAU possono svolgere un ruolo importante nel controbilanciare le richieste contrastanti. La cooperazione e il conflitto riguardano diverse questioni esistenti allo stesso tempo nelle relazioni fra fornitori di moduli, MAU e costruttori automobilistici. Trovare il giusto equilibrio fra le diverse richieste contrastanti è una parte importante del ruolo di tamponamento e interfaccia svolto dalle MAU, che permetterà ai fornitori di moduli e ai costruttori automobilistici di realizzare e sviluppare le rispettive strategie. 6 Evoluzione della rete di fornitura attraverso la cooperazione e la competizione modulare I casi di Volvo e Saab hanno dimostrato che le loro rispettive MAU hanno collaborato reciprocamente sulle varie questioni in atto. La struttura industriale a cui appartengono le MAU presenta, tuttavia, anche alcuni elementi di competizione. Il presente paragrafo intende analizzare la coesistenza di elementi di cooperazione e competizione nelle reti di fornitura modulare. Cooperando in diversi flussi di moduli, alcuni dei fornitori di moduli della Saab hanno utilizzato la stessa ditta esterna di logistica per lo svolgimento delle attività di preassemblaggio. In tal modo sono state realizzate, almeno in una certa misura, delle economie di scala, che non sarebbero state altrimenti raggiunte se i fornitori di moduli avessero semplicemente creato delle proprie MAU. L’unità MAU che fornisce i moduli alla Volvo ha collaborato per aumentare l’utilizzo delle risorse e allo stesso tempo per elaborare delle strategie comuni per affrontare alcune problematiche della Volvo. Inoltre, alcune di queste MAU hanno fornito componenti ad altre MAU su base reciproca, ad es. Delphi ha fornito i cablaggi elettrici alla Lear e ha collaborato per migliorare diversi aspetti nelle loro relazioni commerciali. La cooperazione fra gli attori coinvolti nei diversi flussi di moduli ha dunque contribuito a sviluppare le proprie reciproche prestazioni oltre alla struttura industriale. 133 Allo stesso tempo, poiché la cooperazione fra i flussi di moduli può apportare vantaggi, alcuni degli attori coinvolti possono anche diventare dei diretti concorrenti. Ad esempio, i fornitori di moduli, Johnson Controls e Lear, della Volvo sono entrambi fornitori di componenti e moduli interni, quali ad esempio sedili e abitacoli a livello globale. Anche Delphi è in grado di offrire abitacoli, mentre la Lear ha un reparto distinto per l’elettronica e i cablaggi elettrici. La Volvo invita questi fornitori a competere per acquisire la commessa degli stessi moduli quando sono avviati dei nuovi progetti di automobili. Benché le MAU interessate siano principalmente impegnate in questioni operative, le loro rispettive prestazioni saranno valutate dalla Volvo e avranno un peso sulla scelta del fornitore. Quindi, utilizzando dei fornitori con offerte di prodotto abbastanza simili a livello globale, la Volvo ha inserito l’elemento di competizione all’interno della propria rete di fornitura modulare. Tali soluzioni sono molto comuni all’interno dell’industria automobilistica ed esistono a vari livelli in tutti i parchi di fornitori precedentemente illustrati nella Tabella 2. Ecco, dunque, che elementi di competizione e cooperazione sono insiti nelle reti di fornitura modulare che coinvolgono le MAU. Alcune questioni sono di fondamentale importanza per la competitività degli attori, mentre altri aspetti sono più neutri e richiedono cooperazione. Anche l’orizzonte temporale scelto dagli attori ha un impatto notevole sui modelli di cooperazione e competizione. La cooperazione a breve termine attraverso la condivisione delle risorse può rivelarsi un vantaggio per le prestazioni operative delle MAU, mentre una cooperazione a lungo termine andrà a vantaggio di solo una o poche MAU. La gestione delle relazioni, come osservato da Medlin (2004), richiede la ricerca di un continuo equilibrio fra le diverse prospettive temporali. Poiché i fornitori di moduli, le MAU e i costruttori automobilistici gestiscono e utilizzano la competizione e le opportunità di cooperazione relative a diversi aspetti e orizzonti temporali, nel far ciò sviluppano se stessi e le loro rispettive relazioni. Questi sono alcune volte notevoli, ma prevalentemente di carattere continuo nella gestione delle diverse questioni di routine quotidiana. Le tensioni incanalate nelle reti di fornitura modulare che coinvolgono le MAU contribuiscono, dunque, a una graduale evoluzione della società interessata. 134 7 Considerazioni finali da una prospettiva tipicamente “svedese” Quando Volvo e Saab erano piccoli costruttori automobilistici “indipendenti” hanno tratto notevoli vantaggi dallo sviluppo di stretti rapporti con i loro rispettivi fornitori. E’ stato, dunque, possibile raggiungere delle economie di scala e acquisire delle risorse per lo sviluppo attraverso la costituzione di relazioni con i fornitori. Ciò ha permesso ai due costruttori automobilistici svedesi di sopravvivere in un settore estremamente competitivo come quello automobilistico. La fornitura modulare può, quindi, essere considerata come un’estensione naturale dei processi messi in atto da Volvo e Saab prima che Ford e GM entrassero in scena. Tuttavia, Volvo e Saab possono ora godere i vantaggi di scala e gli sviluppi tecnologici realizzati all’interno di Ford e GM. Anche i maggiori volumi di acquisto sui componenti comuni rappresentano un vantaggio per Volvo e Saab nelle trattative di acquisto con i fornitori di moduli. Ma è anche vero che Volvo e Saab continuano a trarre beneficio dall’utilizzo della fornitura modulare. Infatti, oggi sono molto più dipendenti dai fornitori di moduli che in passato. La progettazione dei prodotti e le decisioni di approvvigionamento sono diventate tuttavia molto più complesse. Le condizioni e le esigenze della Volvo e della Saab devono ora essere correlate rispettivamente a quelle della Ford e della GM. Le decisioni finali di fornitura modulare devono, dunque, essere più o meno adattate alle esigenze e alle condizioni locali dei due costruttori automobilistici “svedesi” rispettivamente di Gothenburg e Trollhättan. I ruoli di logistica, tamponamento e interfaccia svolti dalle MAU sono dunque cambiati e sono ora diventati molto più complessi a causa delle strutture organizzative globali. Un ulteriore importante cambiamento per le MAU ma anche per Volvo e Saab è dovuto al fatto che l’utilizzo di piattaforme comuni da parte di Ford e GM permette di delocalizzare la produzione di diversi modelli di auto in altre sedi senza la necessità di effettuare dei forti investimenti. S’introduce, così, la competizione per acquisire i volumi di produzione fra i diversi stabilimenti all’interno del gruppo, es. fra la Saab a Trollhättan e l’Opel a Rüsselsheim in Germania, coinvolgendo ovviamente le MAU. Essendo la Saab e le sue MAU a Trollhättan un piccolo stabilimento di assemblaggio automobilistico, hanno dunque bisogno d’instaurare un rapporto di 135 collaborazione reciproca per essere insieme competitivi rispetto ad altri stabilimenti del gruppo GM. Lo stesso ragionamento vale per lo stabilimento Volvo di Gothenburg e le sue MAU. La cooperazione è allo stesso tempo necessaria fra questi stabilimenti in competizione, comprese le MAU, poiché le multinazionali automobilistiche e i fornitori globali tendono a standardizzare molti aspetti diversi per ridurre i costi. Riuscire a instaurare una buona cooperazione e gestire al meglio i conflitti con gli altri attori della rete di fornitura modulare sembra, dunque, essere una delle sfide più importanti che dovrà essere affrontata in futuro dai fornitori, dai costruttori automobilistici e dalle MAU. 8 Bibliografia Baldwin C.Y., Clark K.B. Managing in an Age of Modularity, “Harvard Business Review”, Sep-Oct, 1997, pp. 84-93. Berggren C., Nummi vs. Uddevalla, “Sloan Management Review”, Winter, 1994, pp. 37-49. Chappell L., Toyota will give supplier parks a go, “Automotive News”, Vol. 77, No. 6053, p. 51, 2003. Chew E., Europe’s top plant avoids outsourced modules, “Automotive News Europe”, Vol. 3, No. 18, 1998, p. 3. Cullen T.J., Automakers are divided on supplier parks, “Automotive News Europe”, Vol.77, No. 6006, 2002, p. 22. Doran D., Supply chain implications of modularization, “International Journal of Operations & Production Management”, Vol. 23, No. 3, 2003, pp. 316-326. 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Analizzeremo lo sviluppo del modulare e il ruolo dei centri di progettazione di nicchia nell’industria mondiale. Verrà poi esplorato il concetto di sede centrale (headquarter) di progetto, come elemento organizzativo essenziale al radicamento dell’industria locale. 2 L’industria dell’auto in Brasile: quadro generale Con poche eccezioni, i principali attori globali del settore hanno stabilimenti in Brasile: Daimler-Chrysler (autocarri, A-class/Smart 4-porte in programma), Fiat, Ford, GM, Honda, International (autocarri), Iveco (autocarri), Mitsubishi (commerciali leggeri), Peugeot-Citroen, Renault-Nissan, Scania, Toyota, VW, VW (veicoli commerciali) e Volvo (autocarri) hanno 32 impianti nel paese; sono presenti inoltre grandi imprese del settore motori diesel, telai per autobus e macchine agricole. L’industria di autoassemblaggio rappresenta il 10% circa del PIL industriale, con vendite pari a US$16 miliardi. Si calcola che la capacità produttiva si attesti a 3,2 milioni di veicoli/anno. Le previsioni per la produzione 2004 indicavano 2,4 milioni di veicoli. L’export ha raggiunto i US$ 6 miliardi nel 2003; US$10 miliardi, se si comprendono componenti e pezzi di ricambio. 80.000 addetti sono occupati negli impianti di assemblaggio, con altri 12.000 occupati nel settore dei macchinari agricoli. Le entrate dell’industria componentistica si aggirano attorno a US$12 miliardi, con 177.000 occupati. Il Brasile è il primo paese nel settore 141 automotive della regione Mercosur; l’Argentina ha prodotto 160.000 veicoli nel 2002 e l’Uruguay appena 2.000. Solo per fare un raffronto, il Messico ha prodotto 1,8 milioni di veicoli nel 2001 e nel 2002; il suo mercato interno arriva a 1,1 milioni, ma sono stati importati più di 500.000 veicoli nel 2002. L’industria brasiliana può vantare alcuni degli impianti produttivi più efficienti al mondo, resi tali soprattutto dal loro assetto organizzativo, che comprende la fornitura modulare e l’integrazione del fornitori negli stabilimenti di assemblaggio. Oltre a queste caratteristiche, il paese è all’avanguardia anche nel campo dei carburanti alternativi (alcool), motori ibridi (multi-fuel ad alcool, benzina, metano) e capacità ingeneristiche per la progettazione di derivati a bassissimo costo. Una di queste caratteristiche altamente innovative è rappresentata dallo sviluppo di motori a carburanti ibridi, che utilizzano miscele con percentuali variabili di benzina e alcool (metanolo). L’alcool usato come carburante presenta diversi vantaggi. Meno inquinamento, ridotta dipendenza dal petrolio, risorsa rinnovabile, con enormi opportunità di crescita produttiva e molti centri di ricerca dedicati alla canna da zucchero e alla sua trasformazione in alcool. In Brasile l’alcool è utilizzato come carburante per le vetture fin dagli anni ’70. Il programma era finanziato da sussidi, ma quando la crisi debitoria dello Stato si aggravò, ci furono tagli ai sussidi e il programma subì un rallentamento. Uno dei principali problemi del sistema era la fluttuazione dei prezzi. Infatti, quando i prezzi internazionali dello zucchero aumentano, crescono anche quelli dell’alcool, dal momento che gli stessi produttori lavorano entrambi i prodotti; i consumatori dipendevano dai produttori locali, che erano in grado di fissare i prezzi. Il risultato fu un calo consistente delle vendite di vetture alimentate ad alcool. Molti attori della catena automotive hanno iniziato a considerare le possibilità per un rilancio delle vetture ad alcool. I reparti ingegneristici delle aziende costruttrici di iniettori in Brasile si sono lanciate in una corsa allo sviluppo di motori ibridi a due carburanti, in grado di funzionare con qualsiasi miscela benzina-alcool. La VW ha lanciato la prima vettura con questo sistema nel marzo 2003; Fiat e GM seguirono a ruota. Oggi, tre aziende producono il sistema ibrido bi-fuel: Marelli (la prima e leader di mercato, con il 65% delle vendite), Bosch e Delphi. I consumatori possono miscelare il carburante e la benzina a piacere, con percentuali dallo 0 al 100%; il sistema identifica in ogni istante la miscela di carburante presente nel motore. Il consumatore si può proteggere dalle fluttuazioni dei prezzi del petrolio o dell’alcool; in un certo senso può 142 addirittura controbilanciare gli aumenti di prezzo: un vantaggio rilevante quando i prezzi del petrolio sono in salita. Attualmente i motori ibridi rappresentano il 25% delle vendite totali di vetture private e la domanda è ancora in crescita: tutte case assemblatrici con esperienza locale di ingegneria dei motori ad alcool sono in grado di adattare rapidamente i loro modelli e lanciare così nuove versioni ibride. Il prossimo passo consisterà nel finalizzare lo sviluppo di un sistema ibrido tetra-fuel: benzina pura, benzina brasiliana (che contiene il 25% di alcool assoluto), alcool (idratato, con motori alimentati ad alcool) e metano. Nell’agosto del 2004 la GM ha lanciato l’Astra ibrida tri-fuel: benzina brasiliana, alcool e metano. Il sistema tetra-fuel fornirebbe un’enorme autonomia, fino a 900 km e potrà essere adattato ai sistemi a sola benzina presenti in quasi tutti i paesi. 3 Modularità negli impianti brasiliani La modularità è attualmente al centro dell’attenzione dell’industria. La diffusione dei concetti di modularità nella catena automotive brasiliana ha trasformato le relazioni interaziendali e quelle con l’indotto e i fornitori. Probabilmente il primo documento dedicato alla modularità nel settore automotive è stato presentato nel 1996 al Colloquio internazionale Gerpisa (Marx, Zilbovicius & Salerno, 1996; pubblicato nel 1997); in esso si analizzava il pionieristico consorzio modulare collegato all’impianto di autocarri VW. Qui, i fornitori svolgono tutte le operazioni di montaggio; la VW si occupa della progettazione e della personalizzazione di prodotto, della qualità, della commercializzazione, della pianificazione e del controllo produttivo. La produzione di autocarri e autobus della VW ha riscosso un grande successo; l’azienda è leader in Brasile e nella regione per alcuni prodotti (autocarri leggeri e di medie dimensioni). Si può attribuire questo successo alla logica d’impianto e alla riduzione dei costi, ma forse, e in maniera più sostanziale alla progettazione ingegneristica della VW, capace di personalizzare gli autocarri in base alle esigenze dei clienti (percorsi, merchandise per il trasporto, peso, ecc.), una performance che i concorrenti non sono in grado di replicare appieno. Ovviamente, design personalizzato nella fornitura modulare si traduce in una forte integrazione con i fornitori, per avere le specifiche giuste per il motore, la trasmissione, il telaio e la cabina di ciascun veicolo. 143 Di solito con modularità s’intende un fenomeno fisico. Ad esempio, è abbastanza comune che si ricorra alla modularità nella progettazione, in produzione e in categorie d’uso (Baldwin e Clark, 1997; Sako e Murray, 2000). Vorremmo ipotizzare un altro approccio, che prende in esame l’attività d’impresa. Anche se la modularità è connessa a strategie di progettazione e di produzione, nonché all’organizzazione, i programmi modulari attuati in Brasile sono principalmente legati alla ridefinizione dell’attività e alla sua gestione, alla ridefinizione degli ambiti di pertinenza delle aziende, al nuovo ruolo dei fornitori e a una nuova forma di relazioni con le aziende assemblatrici, caratterizzate non solo da una fornitura materiale, ma anche da speciali relazioni di servizio. La fornitura di sub-assemblaggi non è una novità nemmeno nell’industria automobilistica. Se pensiamo al sub-assemblaggio interno, il processo è vecchio quanto la produzione in serie. I motori, ad esempio, sono sempre arrivati già assemblati in un punto specifico della catena di montaggio, come anche i sedili, i cruscotti e gran parte dei “moduli” di oggi: l’unica differenza risiede nel soggetto che li fabbrica/assembla, la casa automobilistica o il fornitore. Se però con modularità s’intende un intero sistema organizzativo e finanziario e relazioni interaziendali, i moduli rappresentano solo la parte visibile del sistema. Con modularità intendiamo quindi non solo una strategia progettuale (design modulare), una fornitura o montaggio modulari, o una manutenzione (utilizzo) modulare, ma piuttosto una nuova forma di relazione tra aziende assemblatrici e fornitrici che riplasmano i contorni dell’industria e, fino a un certo limite, perfino la definizione dell’attività d’impresa e i rischi collegati. Il concetto di modularità che trattiamo qui ha ovviamente una dimensione fisica e funzionale (il “modulo”, il “sistema” ecc.), ma è anche molto più di questo. È un’opzione connessa a un particolare gioco competitivo e una strategia commerciale adottata da alcune case assemblatrici per trovare una risposta alla necessità di internazionalizzazione delle proprie attività produttive, grazie a risparmi negli investimenti. Nei programmi modulari, rischi e investimenti sono condivisi con alcuni fornitori selezionati. Questi ultimi investono in installazioni dedicate all’interno degli impianti dell’azienda assemblatrice, talvolta all’interno dello stesso stabilimento di assemblaggio. Le case assemblatrici pagano in due modi, secondo un contratto specifico: a) in parte fisso, indipendentemente dai volumi produttivi, come ammortamento del capitale investito, in parte 144 variabile, in base alla produzione; b) solo in base alla produzione finale (il veicolo finale) accettato dalla casa assemblatrice (variabile pura). In tal senso, l’equazione finanziaria dell’attività è mutata. L’impresa assemblatrice necessita di meno capitale per controllare impianto e attività e ha introdotto il pagamento in base alla produzione realizzata e non secondo quella programmata, trasformando quindi i costi fissi in variabili. La Chrysler, ad esempio, ha ammesso di aver investito in Campo Largo solo il 32% dell’intera somma che un impianto totalmente integrato richiederebbe (Automotive Industries, 1998) per produrre il veicolo commerciale leggero Dakota. Anche se scontiamo il palese intento pubblicitario dell’annuncio di Chrysler e di Dana, che in quel momento intendevano espandere la produzione di autotelai ad altri clienti, in particolare negli Stati Uniti, è pur vero che i fornitori erano responsabili della produzione di parti, quali il montaggio motore e l’autotelaio con 300 componenti (telaio, assali anteriori e posteriori, albero motore, sospensioni, sistema sterzante e frenante, serbatoio, circuiti elettrici e ruote/pneumatici), con questi ultimi che contribuivano per un terzo al costo del veicolo. Persino la decisione di chiudere lo stabilimento – come si è puntualmente verificato a seguito di una strategia di prodotto sbagliata e scarse vendite – assume modalità differenti rispetto a quanto avviene negli impianti tradizionali. In tal modo, la casa assemblatrice necessita di investimenti ridotti per installare gli impianti, lanciare nuovi modelli e così via. Minori investimenti d’installazione si traducono in maggiori possibilità di far fronte all’esigenza di insediare stabilimenti in continenti/regioni/paesi diversi, e in rischi minori in termini di redditività. Le nostre indagini mostrano però che altre realtà strategiche sono altresì importanti: la VW non voleva che una singola azienda controllasse la maggior parte delle operazioni dell’impianto consortile modulare di autocarri; infatti decise di rifiutare la proposta della Dana relativa agli autotelai. La decisione di terziarizzare un modello rispetto a un altro è ovviamente di natura strategica, legata alla definizione delle competenze chiave dell’assemblatrice, oltre ad altre e analoghe considerazioni di ordine strategico. E’ opinione comune che la modularità richieda la prossimità fisica tra impresa assemblatrice e fornitori, come vediamo in molti dei nuovi impianti automobilistici in Brasile e in altri paesi. Tuttavia, in molte regioni automobilistiche tradizionali – come Detroit, Torino o São Bernardo do Campo (regione ABC in Brasile), aziende assemblatrici e fornitori operano 145 fianco a fianco, indipendentemente dalla modularità. Infatto, negli anni 90, più del 75% dei fornitori dello stabilimento VW di São Bernardo – la sede centrale della VW brasiliana, il più vecchio impianto industriale automobilistico del paese, un’icona dell’industria dell’auto in Brasile, come lo è la fabbrica di Wolfsburg in Germania – si trovavano a non più di 50 km dalla fabbrica. Oggi nessuno considererebbe quell’impianto un “modello”. Bisogna andare oltre la prossimità fisica. La prossimità è cruciale per alcuni sub-assemblaggi/moduli essenziali, ma non per tutti i componenti. Ricevere sub-assemblaggi invece di componenti isolati si traduce in problemi logistici, costi, programmi di linea e controllo di qualità diversi. Un abitacolo con pedali comporta costi logistici diversi dai suoi componenti; i sedili sono un altro tipico esempio. Alcuni processi hanno economie di scale e/o l’esigenza di capitale fisso che non rende possibile decentrare la produzione in ogni nuovo stabilimento di assemblaggio. Poiché la casa assemblatrice richiede l’esclusività per le installazioni all’interno del proprio complesso (o condominio), i fornitori tendono a investire il meno possibile, concentrando le operazioni principali negli stabilimenti centrali che producono per tutti i clienti. Questo è maggiormente evidente quando ci sono importanti costi fissi nell’operazione, come lo stampaggio di sedili, la produzione di componenti della sospensione, iniezione e stampaggio del sistema illuminante, gli scappamenti, ecc. I fornitori producono quindi i componenti nei propri stabilimenti, li assemblano nel modulo del complesso dell’azienda assemblatrice. Di norma, gran parte del valore aggiunto si realizza negli stabilimenti centrali del fornitore. Riteniamo che la modularità sia molto più di una prossimità fisica e che comprenda anche altre attività, oltre alla partecipazione dei fornitori nella progettazione o nel sub-assemblaggio. Ciò si traduce nella responsabilità dei fornitori di primo livello per alcuni servizi, quali l’assistenza tecnica del sub-assemblaggio e la partecipazione diretta alla risoluzione dei problemi afferenti alla linea di montaggio, per affrontare e rispondere a cambiamenti di programma, a piccole modifiche nel design di prodotto e così via. Ciò è di estrema importanza per ridurre le fragilità di un sistema a basso inventario: rimandare l’ordine di un sub-assemblaggio specifico aumenta la possibilità di modificare la tempistica di produzione per far fronte a variazioni di produzione dovute vuoi a problemi di fornitura o a trasformazioni del mercato. La prossimità fisica ha quindi una sua importanza, mediata però da questi altri elementi di servizio; in altre parole, l’efficienza di consegna e relazioni di servizio day-to-day si traducono in prossimità allo stabilimento di assemblaggio, ad esempio, all’interno di un consorzio. Se queste relazioni 146 di servizio non sono presenti, l’importanza della prossimità tra case assemblatrici e fornitori di primo livello si riduce. Forse lo stabilimento auto più “modulare” è quello della Ford a Camaçari (Bahia), che produce la nuova Fiesta e l’Ecosport, una sport utility basata sulla piattaforma della Fiesta. Qui, la verniciatura, la rifinitura degli sportelli, il pannello frontale (con la colonna dello sterzo), i sedili, la selleria, i paraurti, il cruscotto, il montaggio ruote, il pannello anteriore (raffreddamento, fari), l’assemblaggio motore e scatola del cambio e parti dello stampaggio vengono realizzati dall’indotto. Tredici fornitori hanno installazioni all’interno dell’impianto produttivo della Ford e altri dieci nelle vicinanze. In altri stabilimenti modulari, ciascun ‘modulista’ gestisce il proprio impianto e rifornisce il proprio modulo; alla Ford Camaçari è presente una linea che assembla il “fondo” della vettura. In uno speciale AGV, la parte anteriore, gli scarichi e la sospensione vengono assemblati passando attraverso diversi impianti dei fornitori. Poi l’AGV entra nella linea finale di assemblaggio della Ford, in cui il fondo viene montato insieme alla carrozzeria. Qui il sincronismo diventa cruciale, la tempistica produttiva è attivata dal carrello, gli investimenti sono condivisi e le relazioni di servizio entrano a pieno titolo nel sistema. Poiché i modulisti si occupano di trasformare i costi fissi in variabili, di ridurre il capitale investito, facilitare il cambiamento del programma di produzione per far fronte alle incertezze del mercato e della fornitura, di effettuare consegne just in sequence, essi offrono non solo un prodotto ma anche un servizio… A parte tutte queste novità, la modularità ha limiti ben delineati. Il consorzio modulare VW non è il modello vincente nel caso di una produzione di autovetture. Le forniture modulari sono concentrate solo in alcuni sub-assemblaggi. La relazione tra impresa assemblatrice e modulisti non è omogenea; ci sono quindi modulisti strategicamente più importanti di altri. La fornitura è circoscritta al primo livello (Graziadio, 2004); alcune indicazioni sembrano ipotizzare che gli inventari siano stati ridotti ai livelli più bassi della filiera (Salerno, Marx e Zilbovicius, 2002). Alcune aziende hanno inoltre deciso di non utilizzare la modularità in alcuni sub-assemblaggi dopo un’analisi dei costi – abbiamo studiato il caso di un’importante casa assemblatrice che ha deciso di produrre internamente un modulo anteriore, perché i prezzi richiesti dai potenziali fornitori erano più elevati del target. Analogamente, un’altra azienda assemblatrice non è stata in grado di esternalizzare le operazioni di stampaggio per le stesse ragioni – e in quel caso, il contratto era stato annunciato pubblicamente, ma il fornitore aveva rinunciato, sostenendo che l’investimento era elevato e i 147 ricavi modesti – non si erano accordati sui prezzi e sulle condizioni della fornitura. Rimane inoltre aperta la questione se, e fino a che punto, la terziarizzazione di operazioni chiave di assemblaggio renda più difficile gestire la qualità e gli elementi sistemici della performance di prodotto per l’azienda assemblatrice. Abbiamo già brevemente accennato alla relazione tra modularità e prossimità fisica. Durante la fase di sviluppo di una vettura, con prossimità si intende la localizzazione che si trova vicino al centro di sviluppo, nel centro direzionale o altrove: la co-progettazione realizzata parzialmente da Fiat (modello Palio), GM (Meriva; Celta/Blue Macaw) e VW (Fox) in Brasile si è sviluppata negli stabilimenti locali delle principali aziende di componentistica. Anche nei casi di co-progettazione per l’adattamento ai mercati locali o per lo sviluppo di derivati per i mercati regionali, ciò si traduce nella prossimità con le sedi direzionali locali. Nella sezione seguente presentiamo il tema dello sviluppo di prodotto in Brasile. 4 Strategie di sviluppo del prodotto: il Brasile come polo periferico di progettazione In merito alle attività di sviluppo, ultimamente si può osservare un cambiamento apparente delle strategie adottate precedentemente, sia nelle case assemblatrici di vetture, che in quelle di autocomponentistica: se all’inizio degli anni ’90 una strategia di prodotto globale, o più specificatamente della vettura globale, era l’obiettivo esplicito di gran parte delle aziende, con implicazioni rilevanti a livello di attività di sviluppo del prodotto realizzate in Brasile, nel 2000 è emersa una strategia alternativa; le aziende hanno preferito sviluppare modelli locali o regionali, oppure modelli mirati ai mercati emergenti, invece di modelli unici per il mondo intero. Questo cambiamento è avvenuto a causa della percezione che le differenze nazionali e culturali esistono, anche se la diffusione delle tecnologie informatiche e la liberalizzazione dei mercati hanno contribuito a dare una certa omogeneità ai gusti e alle preferenze dei consumatori nei diversi paesi; inoltre, le situazioni locali – per esempio le condizioni stradali e climatiche, la polvere – potrebbero influire sull’utilizzo dei prodotti e generare esigenze diverse da un luogo all’altro. La Fiat è stata una delle prime aziende a scegliere, dopo l’apertura del mercato brasiliano negli anni ’90, di sviluppare una vettura mirata ai paesi emergenti, la famiglia della Palio. Attualmente, la General Motors (GM) e la Volkswagen (VW) hanno in portafoglio modelli destinati ai mercati locali, 148 regionali o emergenti – la Celta, nel caso della GM, la Fox per la VW. Che sia una coincidenza o meno, queste case produttrici detengono la leadership nelle vendite interne brasiliane per le autovetture. La scelta di sviluppare prodotti adattati alle condizioni locali o regionali comporta alcune implicazioni per la distribuzione delle attività di sviluppo di prodotto nei diversi paesi. Anche se è possibile sviluppare o adattare il prodotto regionale nelle sedi centrali di progettazione, l’esigenza di apportare modifiche genera, secondo molti autori (Dunning, 1993), un maggiore decentramento delle attività di sviluppo del prodotto verso altre unità, dato che la prossimità al mercato finale sarebbe necessaria per captare i gusti, le preferenze e le condizioni d’uso. Questo decentramento non è indiscriminato; in altre parole, solo alcune unità sono scelte per partecipare a queste attività. Ecco perché possiamo definire il decentramento delle attività di sviluppo del prodotto un decentramento selettivo (Carneiro-Dias, Salerno, 2003). In questo scenario, le filiali brasiliane delle case assemblatrici di auto stanno emergendo come polo di sviluppo del prodotto secondario, dopo un periodo di riduzione dei team ingegneristici negli anni ’90, a seguito di strategie auto globali. L’unità brasiliana della Fiat è responsabile degli adattamenti delle piattaforme alle condizioni locali o regionali e dello sviluppo di derivati. Per esempio, le sedi centrali hanno sviluppato, insieme ai team ingegneristici brasiliani, la famiglia della Palio, concepita per raggiungere i mercati emergenti. Durante le fasi di definizione del concetto di prodotto, del design avanzato e dello styling della vettura, gli ingegneri e i direttori degli acquisti brasiliani si sono recati in Italia. Successivamente, il processo di progettazione è stato centralizzato in Brasile, sotto il coordinamento di Fiat Italia. La sussidiaria brasiliana era inoltre responsabile dello sviluppo dei derivati tre-volumi e pick-up. I modelli della famiglia Palio sono attualmente prodotti in nove paesi, tutti in via di sviluppo, e commercializzati in più di un centinaio di paesi; il Brasile è stato scelto tra questi paesi per integrare lo sviluppo del prodotto, in ragione della sua importanza per il gruppo. A parte lo sviluppo di piattaforme e derivati, in Brasile ci sono due dei “centri d’eccellenza di sviluppo del prodotto” della società – gli altri quattro centri sono tutti in Italia. I centri brasiliani sono responsabili dello sviluppo di alcuni specifici componenti per motori (per risolvere problemi di carburante di bassa qualità o alternativi, come l’alcool) e per lo sviluppo dei moduli delle sospensioni. Ciò significa che anche se le sedi direzionali stanno sviluppando un prodotto non mirato al mercato brasiliano o sudamericano, possono comunque delegare all’unità brasiliana la responsabilità di sviluppo 149 di questi moduli o componenti specifici, sempre con il coordinamento di Fiat Italia. I dirigenti della sede centrale Fiat in Italia, come anche i manager della sussidiaria brasiliana, affermano che il successo è in gran parte dovuto al decentramento dell’engineering. La VW fornisce un altro esempio interessante del cambiamento di strategie per la dislocazione delle attività di sviluppo del prodotto nelle diverse unità del gruppo. Dopo gli anni ’90 la VW decise di snellire la sua struttura ingegenristica locale, al fine di ridurre i costi e i tempi di sviluppo. I prodotti destinati a nicchie di prezzo medio-alte erano sviluppati centralmente e prodotti localmente o importati dai centri produttivi centrali. Per quanto riguarda i modelli per il mercato a livello entry, la VW decise di continuare la produzione del suo vecchio modello Gol, dopo averlo sottoposto a un re-styling. L’azienda aveva però iniziato a risentire della concorrenza di altre case assemblatrici che seguivano strategie di progettazione più decentrate, in particolare nella nicchia del livello entry; la principale minaccia era rappresentata dalla crescita della sussidiaria brasiliana della Fiat. I concorrenti con capacità locali di progettazione – quali la Fiat e la GM – erano in grado di ridurre il time to market dei nuovi lanci, riuscendo quindi a conquistare fette di mercato. Questo scenario indusse la VW a modificare la propria strategia e a reintegrare l’unità brasiliana all’interno delle sue attività di sviluppo del prodotto. Di recente la sussidiaria brasiliana della VW ha partecipato attivamente allo sviluppo di tre modelli. Il primo è la New Polo e i suoi derivati, la versione con portellone e la berlina. La piattaforma è stata sviluppata in Germania; il modello con portellone, prodotto e venduto in Spagna, Slovacchia, Brasile e Cina, è stato sviluppato con la supervisione dell’unità tedesca. Per il secondo derivato, la berlina Polo Sedan, prodotta e venduta in Brasile, Cina e Sudafrica, è stata la sussidiaria brasiliana ad essere responsabile dello sviluppo; in particolare durante la fase di definizione dell’ideazione e della programmazione di prodotto in Germania, erano presenti esperti brasiliani dei settori ingegneristica, acquisti e qualità e inoltre una parte dell’attività ingeneristica di processo e di prodotto è stata realizzata in Brasile. Essere responsabile dei derivati significa anche che la sussidiaria brasiliana è chiamata a gestire il processo di sviluppo, con l’obiettivo di raggiungere i target di costo e il time-to-market; in questo rappresenta il concetto di “direzione generale, o headquarter, di progetto” sul quale ritorneremo più avanti. Il caso del terzo prodotto, la Fox, è particolarmente interessante. Si tratta anch’esso di un derivato della piattaforma Polo, ma il suo sviluppo è stato 150 proposto dalla sussidiaria brasiliana per occupare la nicchia delle vetture a basso costo, a sostituzione del modello Golf ormai molto vecchio. La sussidiaria brasiliana ha dovuto lottare per ottenere l’autorizzazione a procedere dalla casa madre e in questo processo il fatto che il Brasile rappresenti la seconda migliore unità in termini di volume produttivo, la miglior terza nelle vendite e la più vecchia unità straniera della multinazionale ha avuto un suo peso. Durante il processo di sviluppo del prodotto, la Fox era chiamata “Tupi”, il nome di una tribù indigena del Brasile – per sottolinearne la nazionalità. Si tratta di un modello più piccolo e semplice, sviluppato in Brasile, con la casa madre che si è limitata ad apporre il timbro finale di approvazione; in base a quanto ci è stato riferito dai rappresentanti della VW che abbiamo intervistato, ciò è dovuto non tanto al fatto che l’ingegneristica brasiliana mancasse di tecnologia o di competenze, ma ad una questione politica: la casa madre doveva mostrare di avere il controllo sul progetto. Alla VW come alla Fiat, la decentralizzazione è maggiore per le vetture a basso costo, che sono le più importanti per il mercato locale. Nelle due case assemblatrici, l’ingegneristica brasiliana partecipa anche allo sviluppo di altri modelli, ma in questo caso il personale locale è assegnato ai rispettivi centri di sviluppo, vicini alle sedi direzionali. Anche l’unità brasiliana della GM ha da poco aumentato le proprie attività ingegneristiche. Nella seconda metà degli anni ’90 aveva sviluppato derivati locali per la famiglia della Corsa (pick-up, berlina e station wagon); inoltre, questi sforzi di sviluppo del prodotto avevano dato vita a un modello locale, la Celta, un entry-level sviluppato su una piattaforma Corsa modificata. In seguito, all’inizio del 2000, la sussidiaria brasiliana aveva pertecipato allo sviluppo della monovolume Meriva. Lo sviluppo è stato realizzato dalla Opel e dalla sussidiaria brasiliana; gran parte delle attività ingegneristiche sono state realizzate in Brasile, con la partecipazione di ingegneri tedeschi. Tutte le decisioni relative al prodotto, così come la gestione del progetto, sono state assegnate ad un comitato d’indirizzo composto da dirigenti sia brasiliani che tedeschi. In ultima analisi, l’unità brasiliana ha anche tratto profitto da questa esperienza in quanto ha visto crescere le proprie capacità di sviluppo del prodotto e consolidare il proprio centro locale di sviluppo del prodotto. La Meriva è stata lanciata sul mercato brasiliano nel 2002. Questi casi dimostrano che sono diverse le ragioni utili a spiegare perché le unità brasiliane di Fiat, GM e VW siano state scelte per realizzare attività di sviluppo del prodotto localmente. Come abbiamo detto in precedenza, la necessità di adattarsi alle condizioni locali potrebbe essere una; ma abbiamo 151 anche sostenuto che questo fattore non è sufficiente a garantire che le sussidiarie locali sviluppino (o adattino) localmente i modelli che producono o vendono. Prendiamo ad esempio le sussidiarie brasiliane che sono responsabili dello sviluppo di modelli che altre sussidiarie in America Latina, nell’Europa dell’Est o in Asia sono chiamate a produrre e/o a commercializzare. In questi casi la prossimità non era una ragione abbastanza forte da sostenere la decisione di decentrare le attività di sviluppo del prodotto in Cina, Turchia, Messico o Sudafrica. La strategia di decentralizzare le attività attinenti alla progettazione trova altre motivazioni oltre alla prossimità ai mercati. Una di queste è rappresentata dalle risorse che una sussidiaria possiede in materia di progettazione; in questo senso, come abbiamo dimostrato nella sezione precedente, le sussidiarie brasiliane sia di case assemblatrici di auto che di autocomponentistica hanno sviluppato grandi competenze ingegneristiche nel periodo di chiusura del mercato, soprattutto nell’industria metalmeccanica. Tali competenze sono state riconosciute dalle sedi centrali delle società e potrebbero rappresentare l’elemento distintivo delle sussidiarie brasiliane rispetto ad altre realtà. I responsabili dell’engineering della VW affermano che fu scelto il Brasile come sede direzionale del progetto della Polo Sedan proprio per la sua comprovata esperienza e competenza nello sviluppo di prodotto, durante il periodo in cui il mercato locale era chiuso. D’altra parte, queste risorse non sono poi così diverse da quelle che si riscontrano nelle case madri, tranne per gli aspetti correlati a regolamenti locali o a nuove condizioni di mercato, quali l’utilizzo di alcool come carburante (come nel caso di multi-fuel, già precedentemente discusso), le cattive condizioni delle strade o persino la capacità di sviluppare un’autovettura a costo ridotto ma con una buona tenuta di strada. Ne è l’esempio la sussidiaria brasiliana della Fiat, riconosciuta dall’azienda stessa come uno dei centri di competenza per lo sviluppo di sospensioni, il che è dovuto anche al cattivo stato del manto stradale in Brasile. Un’altra spiegazione dell’integrazione brasiliana nello sviluppo di prodotto è data dal fatto che molti centri di progettazione e design delle case madri sono sottoposti a superlavoro, connesso alla concorrenza spietata dei mercati centrali e alla conseguente necessità di aumentare il numero di nuovi modelli e di diminuire al contempo il loro time-to-market. In tal senso quando si presenta la necessità di apportare adattamenti sostanziali a un modello, le case automobilistiche preferiscono delegare tali attività ad altre unità, lasciando quindi il centro progettazione libero di dedicarsi ai mercati centrali. Ciò spiega almeno in parte perché la decentralizzazione è maggiore 152 quando si tratta di sviluppare modelli destinati a paesi emergenti, dove in generale i modelli entry-level sono molto più economici di quelli commercializzati nella Triade e, di conseguenza, anche molto diversi, con numerosi adattamenti o caratteristiche speciali, come vediamo nel caso della famiglia Palio (Fiat), nella Fox (VW) e nella Celta (GM). La decisione di condividere le attività di sviluppo del prodotto con altre unità aggiunge flessibilità al processo di sviluppo dei prodotti destinati ai mercati centrali e a quelli per i mercati emergenti, con la possibilità di compensare i costi di una doppia struttura di engineering. In effetti, come indicato dagli intervistati presso la Fiat, la decentralizzazione dello sviluppo del prodotto ha generato una riduzione del time-to-market, con conseguente vantaggio per la Fiat in quanto prima azienda a entrare nella nicchia delle vetture entry-level, pur in presenza di altri modelli che però erano o troppo vecchi (la Gol della VW) o più costosi (la Corsa della GM), al lancio della famiglia Palio. Secondo la Fiat, si è realizzata anche una riduzione dei costi di sviluppo, dato che la struttura brasiliana per lo sviluppo del prodotto, pur comprendendo anche gli stipendi degli ingegneri, era meno onerosa della controparte italiana. Il fatto che l’unità brasiliana sia un centro di competenza per alcuni moduli è altresì importante perché, come sottolineato da alcuni intervistati, talvolta la casa madre italiana non è in grado di sviluppare un modulo o un componente per mancanza di capacità fisiche, mentre invece quando l’engineering brasiliano partecipa al processo il tempo di sviluppo si riduce. L’esempio dello sviluppo della space-wagon Meriva della GM conferma questo punto. I responsabili dello sviluppo di prodotto della GM hanno dichiarato che la logica principale della ripartizione dell’attività di sviluppo tra il Brasile e la Germania era quella di ridurre i tempi, dato che la struttura ingegneristica della Opel operava già a pieno regime; visto che l’unità brasiliana aveva una certa esperienza ingegneristica e una struttura adeguata (con software di analisi virtuale, laboratori di prototipizzazione, laboratorio di crash test, ecc.), si era deciso di sviluppare il nuovo modello in Brasile, proprio per trarre vantaggio dalla struttura esistente. La scelta dell’unità che andrà a integrare le attività di sviluppo del prodotto tiene conto anche delle relazioni con la casa madre, come appare chiaro nel caso della Fox della VW. L’importanza dell’unità, spesso misurata in termini di vendite totali, è anch’esso un fattore essenziale. In questo caso, l’andamento e le prospettive di mercato sono considerate nella valutazione dell’importanza di una sussidiaria. Ancora una volta possiamo citare l’esempio della sussidiaria brasiliana della VW, alla quale è stata assegnata 153 la responsabilità delo sviluppo della Polo Sedan, anche perché il Brasile era considerato il mercato più importante per il modello a tre volumi. Abbiamo già fatto riferimento in questa sezione al concetto di “sede (centrale) di progetto”. Si tratta di un concetto analogo a quello di “mandato di prodotto”, nel quale una sussidiaria è pienamente responsabile del processo di sviluppo di un dato prodotto, comprendendone anche la gestione. Ne consegue che le decisioni relative al budget e alla tempistica sono di responsabilità della sussidiaria (ora “sede di progetto”). Inoltre, la “sede di progetto” è responsabile della scelta di alcune aziende di autocomponentistica, che si occuperanno delle forniture per il nuovo modello e talvolta ne svilupperanno alcune parti in collaborazione con l’azienda assemblatrice. È una posizione diversa rispetto a quella richiesta quando si tratta di adattare localmente dei modelli globali, o di partecipare allo sviluppo di un modello della casa madre. Nel caso del Brasile, la VW e la GM erano le sedi di progetto per lo sviluppo della Fox e della Celta, rispettivamente; la Fiat può essere considerata una sede di progetto per i derivati della famiglia della Palio e può essere considerata una “co-sede”, insieme all’Italia, nel caso della prima Palio. Questa situazione ha avuto delle conseguenze a livello di attività di progettazione realizzate in Brasile anche per le aziende di autocomponentistica, poiché quando c’è co-design tra le case assemblatrici e le aziende di autocomponentistica, questo realizzerà in Brasile, dove si trova il capo progetto (la sussidiaria brasiliana dell’azienda assemblatrice). Ciò accade perché, anche se gli strumenti informatici permettono di sviluppare un prodotto in co-design con un partner localizzato ovunque, talvolta la prossimità fisica tra attori è estremamente necessaria, in particolare quando nel processo sono presenti elementi taciti (Carrincazeaux e Lung, 1997). Abbiamo osservato empiricamente che quanto maggiori sono le attività di progettazione realizzate localmente dalle case assemblatrici, maggiore è il numero di produttori di componenti che svolgono queste attività localmente. Durante il processo di sviluppo della Palio, ad esempio, aziende come la sussidiaria brasiliana della Lear Corporation e la Metagal, un’azienda brasiliana di specchietti, hanno partecipato alle attività di sviluppo, rafforzando così i propri team ingegneristici locali. Nel caso delle unità brasiliane di multinazionali, spesso lo sviluppo viene realizzato in Brasile, con il supporto tecnico dei centri principali di progettazione, se necessario. Un altro importante effetto delle sussidiarie brasiliane che diventano sedi di progetto è il consolidamento della locale industria autocomponentistica. Quando l’unità brasiliana di una casa assemblatrice di auto è il capo 154 progetto, sarà anche responsabile della scelta di (alcuni) fornitori; di conseguenza è più probabile che la scelta cada su un fornitore operativo in Brasile, per ragioni che vanno da relazioni storiche di lunga data alla garanzia di una presenza fisica durante il processo di sviluppo del prodotto e nelle fasi successive, durante la produzione (compresa l’assistenza tecnica), ecc.; se, per ragioni tecniche, viene scelto un fornitore che non è presente in Brasile, talvolta la casa assemblatrice pretenderà che quest’ultimo apra delle installazioni nel paese, data l’importanza della prossimità nel co-design e nella fornitura, come abbiamo già visto nel presente capitolo. Nell’industria dell’autocomponentistica brasiliana possiamo però riscontrare esempi di team ingegneristici la cui sopravvivenza non dipende dal livello di attività di sviluppo del prodotto ottenuto dalle case assemblatrici; in altre parole, in queste unità si realizzeranno attività legate all’innovazione, anche se le aziende assemblatrici di auto non trasferiscono in Brasile attività di sviluppo di nuovi prodotti. Le loro attività di engineering e i prodotti o le tecnologie generate sono destinati ad altri mercati, a parte quello brasiliano, oppure a mercati emergenti; queste unità sono ritenute centri di competenza all’interno dei loro gruppi e quindi forniscono nuovi prodotti o tecnologie all’intera multinazionale e/o ai clienti indipendentemente dalla loro localizzazione. Questi centri di competenza sono in massima parte nati da aziende che hanno sviluppato competenze locali di progettazione nel periodo di chiusura del mercato; a loro volta queste competenze erano strettamente connesse alle condizioni locali: sospensioni adatte al pessimo stato delle strade, polvere, alcool come carburante, preferenze locali di mercato, come piccoli modelli di pick-up, ecc.. Quando si aprì il mercato ed emersero strategie globali, queste aziende furono oggetto di acquisizioni o di fusioni con società transnazionali, ma mantennero alcune competenze al loro interno, pur trasferendone altre alle case madri o ai centri principali di progettazione. Talvolta la competenza mantenuta in Brasile non era detenuta dalla nuova azienda controllante. Un esempio: quando Mahle acquisì Metal Leve do Brasil, assegnò alla sussidiaria brasiliana il mandato relativo allo sviluppo di cuscinetti, dato che questo prodotto non era precedentemente contemplato nel portafoglio della Mahle e nel frattempo la Metal Leve aveva sviluppato una forte competenza locale di engineering. Attualmente, la sussidiaria brasiliana della Mahle è responsabile di tutte le attività di R&S relative ai cuscinetti, integrata agli altri tre centri di R&S di proprietà della multinazionale, tutti e tre localizzati nella Triade – Stoccarda (Germania), Detroit (USA) e Tokyo (Giappone). 155 Anche il caso di Eaton illustra questo punto. La principale sussidiaria brasiliana di Eaton fa parte della divisione Light & Medium Duty Transmissions ed è formalmente riconosciuta all’interno del gruppo come centro di competenza per lo sviluppo di trasmissioni leggere. Ciò significa che l’intero processo di sviluppo del prodotto, compresi la definizione di concetto e la pianificazione di prodotto, viene realizzato in Brasile, anche se il processo segue le procedure aziendali sviluppate e controllate dalla casa madre e i materiali e i componenti sono condivisi tra diverse unità. Come nel caso della Mahle, questa situazione ha ragioni storiche; negli anni ’80, quando l’unità faceva parte della società Clark, iniziò a sviluppare prodotti locali per rispondere alle esigenze dei clienti, in particolare la General Motors, che richiedeva lo sviluppo di trasmissioni leggere da montare sui suoi modelli di pick-up in Brasile, diversi da quelli americani in quanto avevano un profilo di vetture per la città (modelli ‘car-like’) e non per la campagna. Questo ha inaugurato una nuova fase dell’ingegneristica brasiliana della Eaton, che fino a quel momento era responsabile dell’adattamento dei prodotti del gruppo alle esigenze locali. Il centro di sviluppo del prodotto della Eaton in Brasile è uno dei quattro centri di R&S del gruppo; gli altri sono il centro principale negli USA e quelli di Amsterdam (Olanda) e Manchester (GB). Il panorama che abbiamo illustrato in questa sezione, che ha preso in esame le strategie messe in atto sia dalle aziende di componenti che dalle aziende assemblatrici per la distribuzione mondiale delle attività di sviluppo del prodotto, sottolinea il fatto che il Brasile sta emergendo come un polo secondario di sviluppo del prodotto all’interno dell’industria automotive e come polo principale tra i paesi esterni alla Triade. Finora il paese ha consolidato le proprie risorse ingegneristiche, con solo poche eccezioni, nello sviluppo di modelli e caratteristiche destinate ai mercati emergenti; cioè veicoli a costi molto contenuti, ma abbastanza confortevoli, con materiali robusti e design moderno. In tal senso, dal punto di vista dei paesi sviluppati, questi sono ritenuti prodotti di “nicchia”, nonostante la loro importanza in termini di mercato potenziale. Resta da vedere se la strategia di costruzione di un polo secondario di engineering in Brasile verrà seguita da gran parte delle aziende nei prossimi anni, nonostante la crescente importanza di altri paesi emergenti, quali la Cina. Va quindi sottolineata l’importanza delle competenze locali di engineering, che si sono consolidate in Brasile a partire dalla prima installazione dell’industria automobilistica nel paese negli anni ’50, insieme al loro riconoscimento da parte delle multinazionali; queste ultime continuano ancora a fare la differenza, quando 156 si tratta di scegliere dove assegnare le attività di progettazione di nuovi prodotti. 5 Conclusioni L’industria automotive brasiliana presenta caratteristiche molto speciali e diverse rispetto ad altri paesi periferici o emergenti, tra cui la modularità, l’ideazione e il design di prodotto. Il Brasile è il principale centro di progettazione esterno alla Triade; formalmente, le società controllanti ritengono le aziende di assemblaggio e autocomponentistica unità di progettazione locale nella ripartizione globale delle attività. Si è sviluppato un settore specialistico, dietro la spinta del mercato, che comprende i veicoli a prezzo contenuto di entry-level, una nicchia che esula dalle priorità di gran parte dei gruppi che controllano le aziende assemblatrici. La razionalizzazione degli impianti di assemblaggio e delle relazioni di fornitura, realizzate mediante la modularizzazione e i suoi componenti, quali il just in sequence, i servizi, ecc., ha contribuito a costruire una struttura produttiva a basso costo, agile e flessibile. Il concetto di “sede di prodotto” è cruciale. Diverse indagini hanno dimostrato che una progettazione su base locale rende più facile innovare all’interno della relazione di fornitura e introdurre i fornitori locali nel mercato globale, almeno finché la scelta dei fornitori viene realizzata localmente. In ogni caso, una forte gerarchia caratterizza il settore automotive. L’autonomia locale in materia di design è sottoposta a supervisione stretta della casa madre, mentre alcune decisioni centrali sono prese in base a motivazioni di ordine politico, quando per esempio si opta per una produzione centralizzata per mantenere i posti di lavoro, oppure preesistenti divisioni internazionali dei mercato, e così via. Il futuro di queste nuove realtà è strettamente collegato allo sviluppo delle attività e all’abilità dimostrata dalle sussidiarie locali nelle relazioni con le sedi direzionali delle società controllanti. 6 Riferimenti Automotive Industries, Modular Mania, “Automotive Industries”, Nov. 1998, pp. 34-43 Baldwin C.Y., Clark K.B., Managing in the age of modularità, “Harvard Business Review”, v.75, n.5, settembre-ottobre, 1997, pp.84-93. 157 Carneiro-Dias A.V., Salerno M., International Division Of Labour In Product Development Activities: Towards A Selective Decentralisation?, 11o Colloquio Internazionale GERPISA. Actes, Parigi, 11-13 giugno 2003. 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Contemporaneamente, nella vicina città di Mannheim, Carl Friedrich Benz ottenne il brevetto per il suo veicolo a motore a tre ruote, chiamato “Benz Motorwagen”. Le imprese che fondarono, rispettivamente la “Daimler Motorengesellschaft” e la “Benz & Cie.”, si fusero nella “Daimler-Benz” nel 1926 dopo la morte di Daimler. Erede diretta di questa prima fabbrica è la DaimlerChrysler AG, uno dei più importanti gruppi industriali del settore automotive. Un’altra personalità strategica in questa storia è Ferdinand Porsche, che aveva lavorato alla Mercedes Benz come Direttore tecnico, entrando anche a far parte del suo consiglio di amministrazione. Nel 1931 aprì l’ufficio Porsche di consulenza ingegneristica a Stoccarda, gettando così le basi per la Dr.Ing.h.c. F. Porsche AG, la più famosa casa produttrice di auto sportive tedesca. Insieme ad altri, questi personaggi eccezionali gettarono le basi per lo sviluppo della regione economica di Stoccarda, in particolare nella produzione metalmeccanica e automobilistica. Oggi Stoccarda è una delle quattro capitali dell’automotive nel mondo, insieme a Toyota in Giappone, Detroit negli Stati Uniti d’America e Torino in Italia. 160 2 Partecipanti La regione di Stoccarda è la sede di due importanti case automobilistiche e di un gruppo diversificato di fornitori, con conseguente sviluppo dell’indotto soprattutto nel settore dell’ingegneria meccanica; va inoltre segnalata la presenza di istituti di ricerca e di consulenza ingegneristica, specializzati nel prodotto auto e servizi. L’industria automobilistica della regione si avvicina alla conformazione ideale di un cluster produttivo molto diversificato e interconnesso. La struttura del distretto automobilistico di Stoccarda comprende le seguenti tipologie di partner: · · · · · Produttori DaimlerChrysler AG (Stoccarda), http://www.daimlerchrysler.com Dr. Ing. h.c. F. Porsche AG (Stoccarda), http://www.porsche.com Micro Compact Car smart GmbH (Böblingen), http://www.smart.com Ernst Auwärter Karosserie– und Fahrzeugbau KG (Steinenbronn), http://www.auwaerter.de NEOPLAN Bus GmbH (Stoccarda), http://www.neoplan.de L’indotto è ovviamente composto da un gran numero di aziende indipendenti di dimensioni variabili: Mega-fornitori La regione ospita le sedi centrali di quattro fornitori automobilistici che fanno parte dei Top-100 al mondo: · Robert Bosch GmbH (Stoccarda), http://www.bosch.de · Mahle GmbH (Stoccarda), http://www.mahle.com · Behr GmbH & Co. (Stoccarda), http://www.behr.de · J. Eberspächer GmbH & Co. (Esslingen), http://www.eberspaecher.de Nella regione è inoltre presente un gruppo di consociate e filiali delle 100 migliori aziende di fornitura. Tra queste: TRW Inc. (Alfdorf), Valeo SA (Bietigheim), Rheinmetall AG (Hirschmann) (Neckartenzlingen), Continental AG (Benecke-Kaliko AG) (Eislingen), ZF (Bietigheim). Le principali aziende fornitrici hanno inoltre avviato rapporti di collaborazione, compartecipazione e joint-venture con i produttori della regione (p.es. Recaro/Johnson Controls Inc., Bosch GmbH/Magneti Marelli SPA, ZF AG/Zexel Corp.). 161 Fornitori di piccole e medie dimensioni Nonostante l’attuale tendenza del settore verso una politica di fusioni e acquisizioni, si stima che circa 250 fornitori di medie dimensioni (2o livello) producano componenti, assemblaggi e sistemi complessi per l’OEM e per i mega-fornitori (1o livello). Numerose piccole imprese, solitamente indipendenti, producono parti e componenti (3o livello). A seguito della crescente tendenza a trasferire ai fornitori l’attività di sviluppo, la produzione just-in-time e i servizi logistici, il numero delle imprese indipendenti è destinato a ridursi nei prossimi anni. Istituti di ricerca e fornitori di servizi ingegneristici Numerosi istituti di ricerca e fornitori di servizi, sia pubblici che privati, si affiancano e sostengono l’industria automobilistica; essi sono: Bertrandt AG, Xcellsis GmbH, HP Divisioni Soluzioni Auto (ASD), Istituto Motori a combustione e Motorizzazioni dell’Università di Stoccarda (ricerca di base) e l’Istituto di ricerca Motorizzazione e Veicoli a motore (FKFS, ricerca applicata). Diversi Istituti Fraunhofer hanno sede a Stoccarda, tra cui l’Istituto Fraunhofer di Ingegneria industriale (IAO) e quello di Ingegneria Produttiva e Automazione (IPA), che mantengono stretti rapporti con l’industria automobilistica. Vista la massiccia concentrazione di impianti produttivi e di aree funzionali della catena produttiva automobilistica, la regione di Stoccarda è diventata il “cluster automobilistico più esteso, compatto e potente d’Europa”. 3 Sviluppo economico Gli anni Novanta, dopo un decennio di prosperità, hanno portato a una fase di contrazione, legata agli adeguamenti imposti dalle trasformazioni in atto nell’economia. “Nella regione di Stoccarda... l’industria automobilistica ha conosciuto un periodo di stagnazione... con un calo dell’output del 5,6% e un’occupazione quasi statica, rispetto agli aumenti del 21% e 4,1% rispettivamente, nella totalità della RFT” (Morgan 1999). Si è inoltre registrata una crescita negativa in vari settori industriali, nella produzione di veicoli, nella meccanica e nell’ingegneria elettrica. Nuovi processi produttivi e tecnologie hanno ridotto la domanda di lavorazioni semplici. Una crescente competitività nel segmento superiore del mercato delle vetture ha portato alla scomparsa di concorrenti; inoltre una rigida politica di prodotto si è tradotta in una grande sovracapacità produttiva a livello internazionale. 162 La conseguenza per l’industria automobilistica è stata una crisi profonda che si è prodotta tra il 1992 e il 1994, con drastiche riduzioni nel numero degli occupati, il trasferimento di rami d’azienda organizzativi e la chiusura di interi impianti e linee produttive. A seguito della ristrutturazione del settore, si è registrata una ripresa graduale che ha prodotto un boom economico all’interno del cluster automobilistico di Stoccarda dalla metà degli anni Novanta fino ad oggi, solo attenuato in tempi recenti dalla generale tendenza verso un rallentamento dell’economia mondiale. Quasi un quinto dell’1,2 milioni di occupati nell’industria nello stato federale di Baden-Württemberg (BW) lavora nel settore produttivo direttamente correlato all’auto. Se si considerano tutti gli occupati nella produzione, nelle vendite, nella distribuzione e nell’utilizzo di veicoli a motore, si può affermare che una persona su sei dipende direttamente o indirettamente dal settore automobilistico. L’industria dell’auto rappresenta una percentuale del 20,8 del PIL nazionale e rappresenta la più importante classe di attività della Germania. Un quarto dei 920.000 dipendenti dell’industria automobilistica tedesca è collocato nel Sudovest del paese. Nel 2002 il settore dell’auto, per quanto riguarda la produzione, ha registrato nella regione di Stoccarda una percentuale di fatturato pari a circa il 50% (cfr. Fig. 1). Fig. 1 – Percentuale del fatturato del settore automobilistico rispetto al settore produttivo generale. Fonte: Ufficio statistico federale, Enti statistici regionali; Calcoli IMU. Fatti e cifre Riportiamo di seguito alcuni fatti e alcune cifre. 163 · · · Fatturato totale della produzione automobilistica nella regione di Stoccarda nel 2002: €36,7 miliardi, pari a un 1/7 (14,2%) del fatturato nazionale di settore, o, in altre parole, a circa il 59% del fatturato di settore nel BW (cfr. Fig. 2). La Regione di Stoccarda non è mai stata così dipendente sia sul piano industriale che economico dall’automobile come alla fine del XX secolo. Nel 2001 i 234.000 occupati del settore automobilistico nel BW hanno generato entrate totali di circa €60 miliardi. Rispetto all’anno precedente, questo rappresentava un aumento del 6,3%, mentre il tasso di occupazione era cresciuto del 3,5%. Fig. 2 - Percentuale di fatturato e tasso di esportazione nel settore della produzione di veicoli in miliardi di Euro negli anni 1998-2002. 1998 2001 2002 Fatturato Fatturato Fatturato Fatturato Fatturato Fatturato nazionale estero nazionale estero nazionale estero RFT-Ovest* Baden-Württember g Regione di Stoccarda 95,28 105,1 (52,40%) 21,27 23,01 (52,0%) 11,04 14,43 (56,7%) 102,14 24,44 12,9 150,64 (59,6%) 35,47 (59.2%) 23, 41 (64,5%) 104,56 25,37 13,23 154,18 (59,6%) 36,50 (59,0%) 23,44 (63,9%) *ex Germania Ovest Fonte: Ufficio statistico federale, Enti statistici regionali; Calcoli IMU 4 Supply chain e struttura collaborativa Nessun altro settore industriale ha sperimentato una trasformazione strutturale analoga a quella dell’automotive nell’ultimo decennio. Il calo rilevante nel volume di vendite all’inizio degli anni Novanta ha portato alla ristrutturazione delle realtà esistenti per rispondere in modo più rapido e flessibile alle richieste del mercato. Le case automobilistiche hanno adottato procedure che spostano una mole rilevante delle pressioni e dei rischi sulla supply chain. Attualmente, i produttori e i principali fornitori operano sostanzialmente con i loro partner in base a contratti a breve termine per lo sviluppo e la produzione. L’utilizzo di piattaforme di collaborazione e di scambio business to business (B2B) su internet ha fortemente accentuato la dinamica del cambiamento e probabilmente contribuirà allo sviluppo di connessioni 164 più flessibili e agili tra i produttori di primo equipaggiamento (OEM) e i loro fornitori (Batz et al. 1999). Un numero limitato di produttori automobilistici organizzati in reti internazionali serve il mercato globale, ma questo numero continua a diminuire. I fornitori sono obbligati a seguire questa tendenza e quindi si associano in reti internazionali. Quelli che possiedono le competenze necessarie per lo sviluppo, la produzione e la logistica, oltre alla disponibilità dei fondi necessari possono riuscire a diventare “partner di sistema” e lasciarsi alle spalle i fornitori meno attrezzati. Le strutture di cooperazione tra OEM e fornitore e quelle tra fornitore e fornitore sono caratterizzate da tendenze diverse. Il capitolo seguente le prende in esame. 2 Sfide e strategie per fornitori e OEM – tendenze L’industria automobilistica sta attraversando una drastica e dinamica fase di riorganizzazione, che finirà per generare strutture organizzative e funzioni completamente nuove nella catena di valore. Tale sviluppo costringe i produttori, così come i fornitori, a migliorare processi e procedure sia interni che esterni, con un’azione concertata. La tendenza generale verso la globalizzazione ha portato alla concentrazione delle case automobilistiche attraverso processi di acquisizione interni al settore. Nel 1990 le imprese costruttrici indipendenti presenti sul mercato erano 25. Dieci anni più tardi, ne erano rimaste solo 16, tutte, tranne quattro, impegnate in alleanze strategiche con altri competitori. Jürgens afferma: “Nel 2000, gli europei sembrano essersi reinventati: sono loro il motore di nuove fusioni & acquisizioni. L’industria automobilistica statunitense, di conseguenza, non è più rappresentata dai Big Three, dopo la fusione tra Chrysler e Daimler, e tre dei Big Five giapponesi sono ora passati sotto il controllo di aziende automobilistiche europee”. Recenti proiezioni industriali ipotizzano che per l’anno 2010 rimarranno soltanto otto OEM indipendenti. La massa critica globale dei produttori crescerà, passando da 1,0 nel 2000 a 3,0 milioni di unità all’anno, nel 2010. Se queste previsioni saranno confermate, il potere d’acquisto potenziale dei restanti attori si attesterà a 100 miliardi di euro per produttore (Grammel, Dispan, Stieler 2000). Gli effetti sinergici dei processi di fusione sono essenzialmente di natura economica e fondati su interventi di razionalizzazione nello sviluppo di veicoli e piattaforme, nella produzione di motori e sistemi di trasmissione, 165 nonché su effetti di economie di scala che producono un aumento del potere di acquisto ed effetti di economie di ambito nelle vendite/marketing e nella manutenzione. I processi di ristrutturazione all’interno dell’industria s’incentrano principalmente sullo sviluppo e sullo sfruttamento di competenze chiave, accompagnati dall’esternalizzazione o outsourcing di funzioni non essenziali e dall’implementazione di linee di produzione, gestione e amministrazione più snelle. Di conseguenza, il numero dei siti produttivi e del personale è oggetto di un calo costante. Dal momento che tali procedure vengono adottate su scala globale, anche i fornitori ne subiscono gli effetti. Appare chiaro come i mega fornitori siano destinati a prosperare, grazie ai vantaggi dei centri di ricerca e sviluppo su larga scala e di una rete internazionale di sedi produttive e commerciali. I fornitori o le imprese di piccole e medie dimensioni (PMI) devono fronteggiare forti pressioni per rispondere alle richieste di OEM e mega-fornitori. Anche i fornitori hanno intrapreso azioni nell’ambito delle competenze chiave e dell’ottimizzazione dei processi interni. Oggi, la produzione just-in-time, gli elevati standard di qualità (sei sigma), i servizi di logistica e warehousing/immagazzinaggio, insieme a una gestione dei costi più efficiente, sono diventati una necessità per le imprese di medie dimensioni. Competenze future dovranno contemplare l’eccellenza nell’innovazione e la partecipazione attiva in collaborazioni per affrontare con successo le attività di ricerca e sviluppo (R&S) a sostegno degli obiettivi dei produttori, finalizzati a cicli di sviluppo del prodotto più brevi. Tuttavia, data l’entità di tali attività, i fornitori del settore automobilistico di piccole e medie dimensioni sono sottoposti a un carico eccessivo. Hanno a disposizione possibilità limitate di essere presenti sull’arena internazionale. Si può inoltre verificare un processo di concentrazione nell’industria delle forniture. Nell’anno 2010 i fornitori che operano a livello globale rappresenteranno il 95% del volume di acquisti dell’industria automobilistica. A lungo termine, sopravviveranno al massimo 50 mega fornitori globali, che rappresentano il primo livello dell’intero settore della fornitura, alle condizioni generali descritte più sopra. I programmi di fornitura di Chrysler e Ford confermano tale tendenza: tra il 1997 e il 2000 hanno ridotto il numero dei fornitori diretti di circa il 40% (Grammel, Dispan 2000). I fornitori, in particolare le PMI, sono chiamati a fronteggiare queste tendenze, che pesano in modo sostanziale sulla loro struttura organizzativa e 166 sulle loro modalità di cooperazione. Di seguito verranno prese in esame le diverse possibilità per affrontare tali sviluppi. 1 La cooperazione motore dell’azione I produttori si aspettano e pretendono dai fornitori che si trovino a breve distanza dal loro centro di produzione e sviluppo. Questo non è soltanto una grande sfida per i fornitori, ma rappresenta anche un forte onere finanziario. Forme di cooperazione sono una possibilità per venire incontro alle esigenze dei costruttori. Attraverso la collaborazione i fornitori sono in grado di rispondere a richieste che, da solo, il singolo produttore o fornitore non potrebbe accogliere. Dietro la spinta della globalizzazione, le aziende devono abbinare due tendenze. Da un lato l’azienda deve essere localizzata a livello regionale, dall’altro è indispensabile che adotti una strategia globale per poter competere sul mercato. Per avere successo ed essere competitivi sul mercato globale, sono essenziali orientamento e relazioni locali. Questa apparente contraddizione si palesa nel termine “glocalizzazione”. Questa tendenza genera nuove sfide per le aziende e per le loro reti. In particolare sono state identificate tre sfide, che interessano soprattutto per le PMI: · Le PMI usano il potenziale regionale e globale solo in maniera limitata; · Le PMI non identificano il potenziale regionale in maniera olistica; · Le PMI dispongono di risorse limitate e devono quindi sfruttare le possibilità di un orientamento e di un mercato globali . La forma di collaborazione organizzativa dei cluster offre molti vantaggi alle PMI. Si definisce cluster una concentrazione geografica di imprese e organizzazioni interdipendenti. I partecipanti ai cluster affrontano opportunità e sfide comuni e condividono un’infrastruttura, mercati del lavoro e servizi specializzati. I cluster promuovono quindi sia la competitività che la collaborazione. I vantaggi dei cluster sono: · Maggiore produttività rispetto ad altre reti o collaborazioni; · Maggiori innovazioni rispetto ad altre strutture geografiche con strutture più allargate; · Le opportunità di nuovi sviluppi riguardanti il mercato vengono riconosciute con maggiore rapidità; · Le innovazioni sono trasferite e trasformate in modo più efficiente e più rapido; · Attività di start-up sono realizzate in maniera più agevole grazie alla concentrazione geografica di esperti, clienti e mercati. Inoltre, si può 167 · 2 costruire molto più facilmente la catena di valore. L’ingresso nel mercato con nuovi prodotti e produzioni è altresì reso più facile; I fattori di successo più sostanziali dei cluster sono le relazioni fondate sulla fiducia reciproca, le strutture ravvicinate di comunicazione e lo scambio di conoscenze, in particolare quelle tacite, sul piano regionale. La condivisione di conoscenze ha più a che fare con la messa in connessione delle persone che con la raccolta di saperi espliciti in un database. Nuove forme di sviluppo regionale si concentrano maggiormente sulla messa in relazione dei rapporti esistenti, piuttosto che sulle attività di richiamo per nuove organizzazioni o aziende in una data regione. Abbinare due tendenze: radicamento regionale e azione globale Per restare competitive, le aziende devono continuare a migliorare dietro la spinta di crescenti pressioni e influenze internazionali. Malgrado i vantaggi dei cluster, le reti regionali e le collaborazioni tra imprese locali si frantumano a seguito della tendenza verso la globalizzazione (Hirsch-Kreinsen, Schulte 2000). Ora più che mai però, il fattore di fiducia nelle collaborazioni è un importante indicatore di successo . La Fig. 3 illustra le due tendenze che le PMI sono chiamate a fronteggiare. Da un lato un’azienda ha la propria rete a livello regionale, mentre nell’altro deve essere presente in un contesto globale per restare competitiva. Fig. 3 – Le tendenze: Regionalizzazione e globalizzazione È emersa quindi la necessità di una nuova forma di cooperazione, chiamata “cluster virtuale”. In particolar modo nei settori dove forte è la presenza dei fornitori, quale quello automobilistico, i cluster virtuali sono già stati implementati, almeno in parte. Queste due tendenze si traducono per i 168 fornitori di piccole e medie dimensioni nella necessità di localizzarsi vicino ai produttori nella loro area geografica e nel contempo di essere proiettati verso il resto del mondo (Lay 1999). Secondo Marceau un cluster virtuale può essere descritto come un luogo di cooperazione virtuale, al quale partecipano gli attori di un cluster regionale (cfr. Fig. 4). Fig. 4 – Modello di cluster virtuale In un cluster virtuale imprese e organizzazioni, quali università e istituzioni pubbliche, collaborano su piani diversi della rete. Mentre operano in un cluster virtuale le PMI affinano la loro capacità di cogliere nuove opportunità di cooperazione (Grammel, Dispan, Stieler 2000). I cluster virtuali sostengono quindi la posizione e la competitività delle PMI. La caratteristica principale di un cluster virtuale consiste nel fatto che la cooperazione tra i componenti del cluster si concentra sulle competenze chiave. Lo sviluppo di un cluster virtuale è la virtualizzazione della supply chain. In presenza di un ambiente improntato alla fiducia, la collaborazione in un ambiente virtuale è caratterizzata da una scambio di know-how e saperi. I vantaggi dei cluster virtuali per le aziende partecipanti sono: · Fattiva collaborazione di esperti in un ambiente virtuale · Un rapido feedback durante tutte le fase del progetto (quindi si possono realizzare rapidamente idee e innovazioni) 169 · Migliore coordinamento di progetto che genera una migliore implementazione del progetto stesso · Riduzione dei costi, determinata da un’organizzazione più snella e rapida dei progetti · In generale, gli incontri in presenza possono essere sostituiti dal ricorso a un software di comunicazione · Si può utilizzare una base comune di conoscenze relativa ai clienti, costruita da tutti i partecipanti del cluster virtuale. Il terreno comune di un cluster virtuale è una piattaforma internet, nella quale avviene lo scambio di informazioni, di saperi e di esperienze. Secondo Rallet e Torre, la vicinanza organizzativa porta a uno scambio migliore di conoscenza implicita, rispetto alla sola vicinanza geografica. I primi esempi di cluster virtuali esistono già, ma non c’è ancora un approccio o un modello comune per la creazione di un cluster virtuale. Il sostegno offerto da strutture e modalità di comunicazione per un’operatività efficace, fondata sulla conoscenza, non è ancora stato oggetto di un’adeguata analisi; mancano inoltre metodi e strumenti operativi informatici (software), per questa nuova forma di co-operazione. Essa tuttavia rappresenta la base comune per un’efficiente ed efficace collaborazione tra produttori e fornitori a livello mondiale e a lungo termine. 3 Fattori di successo e i rischi delle collaborazioni Nell’ambito dei Cluster tedeschi dell’automotive il tema della cooperazione e della comunicazione è stato identificato come una delle principali aree di miglioramento e di intervento per lo sviluppo del settore automobilistico in Germania (raffrontare con Grammel, Dispan, Stieler 2000; Bullinger 2003). In tal senso, l’Istituto Fraunhofer di Ingegneria industriale (IAO) a Stoccarda (Germania) e l’Istituto di Cibernetica d’impresa (IfU) a Mühlheim (Germania) hanno avviato uno studio empirico sulla cooperazione knowledge-intensive in particolare nel settore automobilistico. Lo studio ha evidenziato e analizzato gli elementi importanti, le potenzialità e i rischi della cooperazione regionale. La ricerca si è svolta nell’ambito del progetto del Ministero federale tedesco dell’Istruzione e della Ricerca (BMBF) “Integrazione della conoscenza eterogenea nelle reti produttive flessibili in specifiche strutture industriali di distretto” (numero di ricerca: 02PP1001). 170 1 Collaborazioni knowledge-intensive nelle reti regionali Uno degli obiettivi del progetto di ricerca tedesco è stato la realizzazione di un’indagine sulla “cooperazione knowledge-intensive nelle reti regionali”. Il progetto ha inoltre svolto un’analisi approfondita, con interviste a esperti del settore e l’organizzazione di diversi workshop con i rappresentanti dell’industria. Per prendere in esame la rilevanza a livello europeo di queste tematiche, sono stati realizzati dei workshop con la partecipazione dei rappresentanti delle imprese industriali. Questi workshop si sono svolti in Italia, nella regione Emilia-Romagna (il cluster motore), e in Slovenia, a Lubiana, dove si trova un cluster di ingegneria meccanica. Il questionario tedesco è stato adattato per i partner EUREKA italiani e sloveni. L’indagine ha esplorato le seguenti tematiche: · Informazioni generali sull’azienda e/o il partner intervistato · Rilevanza e tipologica della collaborazione · Struttura della collaborazione · Aspetti organizzativi della collaborazione · Metodi e sistemi a sostegno della collaborazione L’indagine si è soffermata in particolare sui settori dell’auto, dell’elettronica, dell’ingegneria meccanica e dell’ingegneria delle centrali elettriche. 2 Risultanze dell’indagine Di seguito presentiamo una sintesi dei punti principali emersi dal questionario, dai workshop e dalle interviste in Germania: · La maggioranza delle imprese coinvolte sono fornitrici dell’industria automotive per i settori elettronici e metalmeccanici. Più di metà delle aziende che hanno risposto al questionario appartengono al gruppo delle PMI. · Le risposte alle domande relative alla cooperazione erano fortemente polarizzate. Metà delle aziende intervistate collabora su base permanente o almeno con regolarità, mentre l’altra metà solo raramente o mai. La rilevanza delle collaborazioni sembra destinata ad aumentare sostanzialmente, in quanto il 75% delle aziende ha affermato di voler attuare forme più accentuate di cooperazione in futuro. Le risposte alle domande relative a quali informazioni e strumenti/dispositivi sarebbero necessari per sostenere le collaborazioni sono riportate in Fig. 5: Fig. 5 – Informazioni e strumenti ritenuti importanti per le collaborazioni 171 · · · Quando si sceglie la forma di cooperazione, gli aspetti regionali non svolgono il ruolo importante che ci si potrebbe attendere. La cooperazione in ambito produttivo viene implementata principalmente a livello globale, la cooperazione in R&S soprattutto a livello nazionale. L’intenzione di avviare collaborazioni è determinata da ragioni diverse. Forze di mercato, sviluppo di mercati strategici o di produzioni mostrano sempre aspetti motivazionali diversi. Nel progetto di cui sopra, i principali aspetti motivazionali che spingono alla collaborazione sono: riduzione dei costi (45%), effetti sinergici (33%), utilizzo del know-how (31%) di altre imprese. Queste affermazioni sono essenzialmente confermate da altre indagini. La mancanza di affidabilità dei partner è indicata come la maggiore difficoltà (64%) nelle collaborazioni (cfr. Fig. 6). Il coordinamento dell’ordine/progetto di lavoro potenziale è causa di problemi nel 51% delle collaborazioni. Ma il 76% delle aziende indica che una preparazione organizzativa, quali un piano di progetto o la definizione di processi, è realizzata prima dell’avvio della cooperazione. Fig. 6 – Difficoltà nelle collaborazioni 172 Una scambio insufficiente di informazioni e comunicazione è un altro aspetto che emerge durante le collaborazioni, infatti solo il 56% delle aziende che hanno risposto al questionario scambia documenti e informazioni prima dell’avvio della cooperazione. · Il 49% delle imprese richiede un sostegno per la ricerca di partner e l’identificazione di una cooperazione efficace · Nelle svariate fasi della cooperazione i criteri organizzativi sono più importanti degli aspetti tecnici. · Nell’area della gestione delle conoscenze, dell’utilizzo legale dei risultati durante l’attività di cooperazione e successivamente ad essa, si riportano numerose difficoltà nel trovare soluzioni condivise e comuni. La rilevanza delle collaborazioni e dell’elemento competizione è certamente destinata ad aumentare in maniera rilevante in futuro. Ciò è chiaramente dimostrato da studi e indagini già realizzati. Così, aumenta non solo la frequenza delle collaborazioni, ma anche la loro intensità. Tale tendenza può essere dimostrata dal cambiamento registrato nella divisione organizzativa del lavoro. A titolo di esempio, nel settore auto l’esternalizzazione è cresciuta passando dal 40% nel 1989 all’80% del 1999. Anche se l’aspetto regionale svolge un ruolo secondario, le imprese denunciano la mancanza di metodi e strumenti che solitamente sono forniti da reti regionali, tra cui procedure rapide, strutture informali ben funzionanti o comportamenti fortemente improntati alla fiducia reciproca, e quindi 173 manifestano l’intenzione di intervenire in questo senso con forme di sostegno. Un’ulteriore esigenza emersa fa riferimento al sostegno ideale a processi meno strutturati e dinamici. Si possono trovare questi processi knowledge-intensive non standardizzati distribuiti lungo tutta la catena di valore nell’intero ciclo vitale delle collaborazioni. Le imprese richiedono inoltre un ambiente che sia in grado di supportare l’attivazione di scambi spontanei formali e informali delle conoscenze di processo. L’integrazione dei processi di cooperazione all’interno del workflow delle imprese mediante una tecnologia informatica adeguata faciliterebbe e offrirebbe un sopporto al processo di sviluppo di prodotto. L’approccio basato sui cluster offre al mercato una nuova tipologia di relazioni. L’innovazione e lo sviluppo di nuovi prodotti non rappresentano più l’attività di una sola impresa e inoltre le reti regionali non sono la soluzione migliore per affrontare il mercato globale. L’integrazione di queste due tendenze ci porta al nuovo modello dei cluster virtuali. Mancano meccanismi, metodi e strumenti per la “virtualizzazione” della conoscenza implicita di processo, rispetto alla comprensione dei conflitti e alla loro risoluzione all’interno del processo di cooperazione distribuito nei cluster virtuali. 3 Azioni da intraprendere La necessità di forme di sostegno da realizzarsi mediante metodi e strumenti adeguati interessa in particolar modo l’utilizzo delle conoscenze, gli aspetti legali e la gestione del progetto, la creazione di una cultura della fiducia e lo scambio di saperi e informazioni. Abbiamo già sottolineato la necessità di sviluppare un modello economico per i “cluster virtuali”. La sfida è rappresentata dal sostegno offerto a processi distribuiti, meno strutturati e altamente dinamici, quali ad esempio i processi di risoluzione dei problemi. L’accesso alla conoscenza orientato al processo è una delle principali fonti motivazionali che spingono le aziende a intraprendere attività di cooperazione. Alla base di azioni innovative si trova inoltre lo scambio di conoscenze. In particolare lo scambio e l’integrazione di esperienze e di know-how sull’identificazione e la risoluzione di conflitti è in questo contesto un’abilità critica per l’innovazione. In sintesi, sono state identificate le seguenti azioni da intraprendere: 174 · · · · · · · Azioni da intraprendere all’interno dell’industria: Trasparenza delle informazioni e delle conoscenze ponendo l’accento sull’integrazione del know-how di processo nelle collaborazioni Integrazione di processo relativa al sostegno di processi di coordinamento spontanei (interfacce) Cultura della cooperazione con particolare attenzione alla creazione di una base collaborativa di fiducia reciproca. Azioni da intraprendere nell’ambito della ricerca: Sviluppo di un modello economico di “Cluster virtuali” Sostegno ottimale ai processi distribuiti per la risoluzione dei problemi Coordinamento della conoscenza esperta e della sua integrazione in processi di cooperazione distribuita Creazione di una cultura collaborativa improntata alla fiducia attraverso reti informali Ciò richiede lo sviluppo di un ambiente che sostenga l’attivazione, lo scambio spontaneo e informale di conoscenze di processo e l’integrazione all’interno del processo di cooperazione. Questo ambiente deve mirare ad accompagnare le imprese nell’offerta di prodotti e servizi di mercato in collaborazione con altre imprese. Allo stesso tempo deve mirare a sfruttare al massimo le potenzialità delle catene di valore collaborative. L’approccio TRUST è stato messo a punto partendo da queste esigenze. TRUST intende fornire alle aziende, che vogliono e sono in grado di impegnarsi in attività di collaborazione, l’ambiente e gli strumenti necessari per comunicare e sostenere la produzione in un contesto virtuale distribuito, senza dover stabilire connessioni dirette locali o regionali, permettendo così alle strutture collaborative o alle joint-venture tra partner o ex competitori, che intendono intensificare la loro collaborazione o semplicemente unire le forze, di rispondere alle esigenze dei mercati del futuro. TRUST è impegnato a facilitare l’integrazione delle due tendenze - il radicamento regionale e l’azione globale - non solo per gli attori globali, ma soprattutto per offrire queste opzioni alle piccole e medie imprese del settore automotive. 4 L’approccio TRUST Per rispondere all’esigenza di fornire nuovi metodi e strumenti a sostegno della collaborazione tra le aziende in strutture a cluster, è stato avviato il progetto EUREKA TRUST (Utilizzo delle potenzialità regionali rispetto ai 175 processi di risoluzione dei problemi nella produzione – progetto EUREKA S! 2736 factory). Le aziende industriali che hanno contribuito al progetto facevano parte del Cluster Automotive di Stoccarda: DaimlerChrysler AG (OEM), KEIPER GmbH & Co (2o livello, sedili per auto), Cirp GmbH (3o livello, prototipizzazione), Invenio GmbH (3o livello, servizi ingegneristici). L'obiettivo strategico di TRUST era quello di sostenere collaborazioni virtuali interne ed esterne alle aziende e gettare le basi per la collaborazione delle aziende in un cluster virtuale (cfr. Fig. 7). Fig. 7 – Progetto TRUST obiettivo Eureka Durante il progetto è stato elaborato un nuovo modello di cooperazione per descrivere le potenzialità di sviluppo nell’ambito delle collaborazioni (come spiegato nel capitolo 2.1). L’obiettivo di questo approccio consiste nell’accompagnare l’aziende nel percorso che parte da una cooperazione interaziendale a una cooperazione tra imprese all’interno di un cluster virtuale. Il modello comprende tre fasi. Esse sono: · Livello 1 La collaborazione si sviluppa all’interno dell’azienda. I processi di cooperazione verranno sostenuti da reti interne (centro virtuale di competenze interno). Ciò porta, ad esempio, a una migliore collaborazione tra siti aziendali diversi. · Livello 2 Il secondo livello sostiene la collaborazione esterna all’azienda (centro virtuale di competenza esterno). Si focalizza l’attenzione sullo sviluppo e il supporto alle reti di partner aziendali. 176 · Livello 3 Intende sostenere lo sviluppo di cluster virtuali. Diversi centri virtuali di competenze affiancano un cluster virtuale specificatamente a un settore, p.e. il cluster automotive. L’elemento portante del modello è un centro virtuale di competenze (CVC), che può essere definito come un’unità organizzativa virtuale. Nel CVC, informazioni, conoscenze e competenze sono raggruppate e integrate insieme in argomenti, o topic, specifici (p.e. qualità, TI, robotica meccanica). I diversi argomenti sono elaborati e decentrati all’interno di strutture a rete di risorse umane, per poi essere ridistribuiti attraverso i servizi. Il CVC può comprendere forme di collaborazione sia interne che esterne, non necessariamente afferenti a connessioni locali, come descritto nel capitolo 2.2. All’interno dell’approccio TRUST, la caratteristica principale di un cluster virtuale consiste nel fatto che è composto da diversi centri virtuali di competenze, che si incentrano su competenze chiave o di supporto. Gli aspetti principali e più importanti dell’ambiente di lavoro in un CVC sono (cfr. Fig. 8): · Scambio attivo di idee e conoscenze per l’attuazione e l’accompagnamento di progetti, tra i detentori di know-how critici (collegamento tra esperti) · Interventi per colmare le lacune di conoscenze nei progetti, nella gestione del know-how · Risoluzione dei problemi efficiente e orientata all’innovazione, nella rete di competenze · Apprendimento professionale orientato alle mansioni e ai problemi 177 Fig. 8 - Operatività in un centro virtuale di competenze Un sostegno costante e basato sulle informazioni era dunque necessario per rispondere alle seguenti domande: · Come può un CVC reperire contenuti rilevanti e aggiornati? · Com’è possibile trovare un esperto competente? · Com’è possibile risolvere i problemi? 1 Le soluzioni TRUST Nei capitoli seguenti vengono presentate le soluzioni TRUST. Come può un CVC reperire contenuti rilevanti e aggiornati? Il concetto di CVC L’operatività del CVC richiede la definizione dell’infrastruttura organizzativa e tecnologica. Si dovranno inoltre definire le interfacce per le strutture esistenti, integrandole al concetto di CVC. Senza una comprensione chiara delle infrastrutture e delle ripercussioni sui processi aziendali, non sarà possibile attuare una corretta implementazione di una piattaforma virtuale. Occorre prevedere un concetto di ruolo, che integri esperti autorevoli al centro competenze, insieme a importanti promotori per il centro di competenze, p.es. amministratori delegati (CEO). I processi del CVC dovranno essere definiti fin dall’inizio, animati e portati a regime. La Fig. 9 riporta ruoli e relativi processi. 178 Fig. 9 – Processi nel CVC Il CVC offre contenuti approfonditi, connessi sul piano semantico a un argomento specifico o a un campo di competenze. Ciò si raggiunge mediante l’offerta e l’amministrazione di un database di conoscenze. Le competenze esistenti vengono visualizzate attraverso profili di competenze, che mostrano le competenze che i partecipanti del CVC già detengono. I contenuti e i profili di competenze mettono in connessione gli esperti in rete e i detentori di competenze nelle varie postazioni, dando così avvio all’integrazione di know-how tecnico, ad esempio, o di conoscenze relative a partner o clienti. Un altro elemento distintivo del CVC risiede nei servizi e nel sostegno offerto da esperti per l’elaborazione di task complesse e specialistiche e l’accompagnamento al processo decisionale. Il CVC mette a disposizione strumenti per lo sviluppo di soluzioni ai problemi, come verrà descritto in uno dei capitoli seguenti. Il concetto di CVC s’incentra sugli obiettivi dei dipendenti e le finalità strategiche dell’azienda. Per quanto riguarda i collaboratori dell’azienda, gli obiettivi sono: · Accesso alle nuove tecnologie · Accesso agli esperti e ai loro saperi e competenze · Accesso all’informazione esperta · Agevolare i contatti con i referenti a disposizione Per quanto riguarda l’azienda, le finalità strategiche sono: · Sviluppo di competenze 179 · Maggiore rapidità d’azione degli esperti (personale altamente specializzato) · Garantire uno sviluppo continuo delle conoscenze e la crescita delle competenze · Valorizzare le capacità innovative Per sostenere i processi di lavoro, i concetti qui descritti sono stati elaborati sotto forma di software modulare. Questi moduli vengono integrati nella piattaforma per il centro virtuale di competenze. Di seguito vengono illustrati i profili di competenze e l’approccio adottato per la risoluzione dei problemi. Com’è possibiie reperire un esperto competente? Realizzazione dei Profili di Competenze Alla base del concetto di profilo di competenze sta la definizione di argomenti (topic) collegati alle competenze dell’azienda e dei suoi collaboratori. In TRUST il profilo di competenze comprende la competenza professionale, quella legata al metodo e l’abilità sociale. Quest’ultima si riflette nel collegamento con diverse reti e organizzazioni. In TRUST si costruisce l’arbero degli argomenti (topic tree) in una prima fase, mediante tassonomia. Quest’ultima si basa sull’analisi degli argomenti rilevanti per i partner industriali di TRUST. La visualizzazione avviene inizialmente mediante la classica struttura ad albero. La gestione è realizzata da un gruppo specifico di componenti del CVC (amministratore e responsabile dei diversi CVC). Il profilo di competenze è composto dagli argomenti che fanno parte dell’albero, dal livello di esperienza del partecipante del CVC, dalle reti e organizzazioni alle quali è collegato il personale dell’azienda e dalla parte contenutistica. La Fig. 10 riporta una parte del profilo di competenze. Il profilo di competenze viene aggiornato manualmente dal detentore del profilo di competenze, in modo semi-automatico dagli utenti del centro virtuale di competenze, che valuta i contenuti, e in modo automatico dalla piattaforma stessa. I quattro campi principali del profilo di competenze sono descritti di seguito: · Argomenti (p.es in Fig. 10: “Kompetenzprofile”) All’interno del CVC un soggetto può scegliere dall’albero i diversi argomenti che gli/le interessano o quelli sui quali sta già lavorando. Dopo aver risposto alle domande sulle qualifiche ed esperienze relative all’argomento specifico, si può accedere all’argomento prescelto su tre 180 · · · livelli di esperienze. Questo campo visualizza le competenze professionali del soggetto all’interno del CVC. Livello di esperienze TRUST definisce tre livelli: interessato, competente ed esperto. I livelli possono essere assegnati dal soggetto stesso, da un collega nel CVC, un superiore e dal sistema. Se l’argomento è valutato come “esperto”, diventa una competenza. Il passaggio da argomento a competenza viene visualizzato sull’albero degli argomenti. L’argomento è evidenziato. Reti (Fig. 10: “Mitarbeit in Projekten/Gremien”) Il campo delle reti visualizza le attività del soggetto che fa parte del CVC all’interno degli ambiti del CVC. Il profilo permette quindi di avere una visione più approfondita delle attività all’interno di progetti, circoli, reti o raggruppamenti, ecc. Il campo visualizza una parte delle competenze personali di un membro del CVC. C o n t e n u t o Questa parte del profilo di competenze mostra l’input o i contenuti forniti dal componente del CVC. Contenuti e detentore sono direttamente collegati. I componenti del CVC possono trovare agevolmente un esperto, sia facendo una ricerca tra i contenuti in memoria, oppure navigando nel profilo di competenze di un componente del CVC e del suo contenuto già valutato. Fig. 10 – Profilo di competenze 181 Il profilo di competenze aiuta a trovare facilmente l’esperto giusto per un problema o una questione aperta. Se non si trova un esperto o non è disponibile, si prevede che l’assistente alla risoluzione dei problemi trovi una soluzione. Com’è possibile risolvere i problemi? Realizzazione dell’Assistente alla Risoluzione dei problemi L’approccio TRUST per la risoluzione dei problemi offre la possibilità di sviluppare le competenze esistenti per la risoluzione dei problemi dei collaboratori, mediante un apprendimento situazionale e orientato al problema, all’interno delle reti di conoscenza. L’obiettivo di questo approccio consiste quindi nell’ottimizzare il processo di risoluzione dei problemi, che di norma è molto intuitivo e non strutturato. Per far ciò si prendono in considerazione tre elementi: · L’assistenza per lo sviluppo strutturato della risoluzione dei problemi mediante l’offerta di approcci, dispositivi e strumenti rilevanti (assistente alla risoluzione dei problemi) · La messa a disposizione di esperti e persone di riferimento nella rete di conoscenze, che possono contribuire a una rapida elaborazione di soluzioni, mediante il trasferimento e l’adeguamento delle proprie 182 esperienze e di esempi, o sostenere lo sviluppo distribuito delle soluzioni dei problemi, grazie alle proprie competenze individuali (derivate dai profili di competenze) · L’offerta sistematica e intelligente di conoscenze rilevanti (knowledge based), necessarie al risolutore per lo svoluppo di soluzioni adeguate al proprio problema. Un presupposto per una risoluzione rapida e certa di problemi è rappresentato da un modello di processo per la risoluzione dei problemi, così come dalla documentazione e dall’attivazione di problemi e soluzioni. Al centro dell’intervento sta l’offerta di “know-how” e di collegamenti al “know-what”. All’interno del progetto TRUST, è stato sviluppato un sistema per progettare il processo di risoluzione dei problemi in modo sistematico e strutturato e per implementare e integrare questo processo nelle attività e nelle collaborazioni dell’azienda. Il processo di risoluzione di problemi si avvia, una volta identificata la tipologia del problema. Il processo TRUST di risoluzione dei problemi è composto dalle fasi di identificazione del problema, di ricerca di soluzioni esistenti, analisi della situzione, adozione di soluzioni o sviluppo di nuove soluzioni, verifica delle soluzioni, implementazione e valutazione della soluzione. Le diverse fasi sono suddivise in sotto-elementi, che forniscono, a titolo d’esempio, una descrizione strutturata della fase, tabelle, consigli, esempi, ecc. Per passare da una fase all’altra, occorre soddisfare alcuni requisiti, in base al modello del portale di qualità (cfr. Fig. 11). Fig. 11 – Processo di risoluzione dei problemi 183 In questo contesto il processo di risoluzione dei problemi viene considerato come micro-logico, a supporto del processo operativo di base. Ciò significa che il processo di risoluzione dei problemi può essere applicato a qualsiasi tipologia di problema, progetto o fase di progetto, nonché a qualsiasi situazione non relativa a processi nell’attività lavorativa. La gestione di un problema può dunque richiedere da alcuni minuti (soluzione ad-hoc) a diversi giorni (soluzione a lungo termine). Quando si parla della risoluzione dei problemi in questo contesto, occorre distinguere due aspetti: soluzione preventiva e soluzione ad hoc dei problemi. La risoluzione situativa dei problemi intende sostenere il soggetto coinvolto direttamente nel contesto in cui si verifica un problema. Spesso la rimozione delle cause non rappresenta il primo passo verso una soluzione, ma piuttosto ci si limita a una semplice gestione dei sintomi. La soluzione preventiva dei problemi intende invece evitare la ricomparsa di un problema mediante il ricorso a conoscenze adeguate. Questo comporta spesso una re-ingegnerizzazione dei processi aziendali coinvolti per rimuovere definitivamente le cause di un problema. Soprattutto se un problema si ripresenta più volte, comportando ulteriori ed elevati costi aggiuntivi, è necessario prevenire il problema a lungo termine, rimuovendone le cause. L’approccio TRUST sostiene sia la risoluzione di un problema contingente, quando si presenta, che la prevenzione di un problema. Il vantaggio dell’approccio TRUST per chi è chiamato a risolvere un problema è rappresentato da una maggiore trasparenza e abilità nel campo di pertinenza del problema. Con un approccio sistematico, il risolutore è in 184 grado di elaborare soluzioni in modalità strutturate sia individualmente che in collaborazione con altri. Il risultato del processo di risoluzione del problema non è soltanto la soluzione documentata, ma anche la trasparenza dell’approccio e la conoscenza necessaria per prevenire che il problema si ripresenti. In tal modo si rafforzerà la competenza relativa alla risoluzione dei problemi. Soluzione informatica: Assistente alla risoluzione dei problemi Il supporto informatico permette di accelerare il processo di risoluzione distribuita dei problemi nella rete di conoscenze. All’interno di TRUST è stato messo a punto uno strumento software, per sostenere da un lato i processi collaborativi nella rete di conoscenze e, dall’altro, lo sviluppo distribuito di risoluzioni di problemi e il (ri)utilizzo di soluzioni esistenti. L’Assistente alla risoluzione dei problemi (ARP) intende accompagnare l’utilizzatore in tutte le fasi del processo di risoluzione dei problemi, fornendo conoscenze approfondite, sotto forma, ad esempio, di liste di controllo, metodiche, suggerimenti, esempi o referenti (cfr. Fig. 12). Fig. 12 – Assistente alla risoluzione dei problemi L’Assistente alla risoluzione dei problemi è stato integrato sotto forma di modulo nel software per il Centro Virtuale di Competenze e può essere 185 collegato agli strumenti software per la prevenzione dei problemi, come i tool FMEA o altri applicativi quali i sistemi informativi di progetto o i sistemi per la gestione della qualità, ecc. 2 I vantaggi di TRUST In sintesi, i vantaggi del CVC sono: Riduzione dei costi grazie a · Risoluzione rapida e agevole dei problemi · Riduzione dei costi di tempistica (co-ordinamento, incontri in presenza) · Messa a disposizione di processi e contenuti digitali Riduzione dei tempi di sviluppo grazie a · Accesso rapido alle competenze · Migliore e più rapida comunicazione · Soluzione diretta e specifica dei problemi · Sostegno di esperti Rafforzamento dell’innovazione grazie a · Collaborazione tra il personale di diverse unità organizzative · Ampia collaborazione di progetto su un argomento specifico · Sviluppo di conoscenze e competenze mediante la comunicazione con esperti · Distribuzione di conoscenze che supera frontiere fisiche Il CVC è stato analizzato ed elaborato, insieme alle sue parti, attraverso un attento processo di sviluppo, concertato insieme all’utente industriale e al partner per lo sviluppo di software. Nella fase di discussione e durante le interviste, i partner tedeschi non solo stati i soli a proporre input relativei a metodi, concetti e approcci nell’ambito di TRUST. I prototipi di software sono stati elaborati mediante un approccio a due fasi. Il secondo prototipo sarà sottoposto a ulteriori ampiamenti fino alla fine dell’anno. 3 Validazione dei risultati I risultati di TRUST aviluppati dai partner sono: · Modello economico per i Cluster Virtuali (CV) · Concettualizzazione dei Centri Virtuali di Competenze (CVC) interni all’azienda e tra imprese · Concettualizzazione di un modello di risoluzione dei problemi knowledge-based · Prototipo software di soluzione per CV e CVC · Moduli software per profili di competenze e assistente per la risoluzione dei problemi 186 · Sempre all’interno del progetto, è stato allestito un Centro Virtuale di Competenze presso KEIPER GmbH & Co KG. Questo centro intendeva sostenere la competenza trasversale del Servizio CED del gruppo (Circolo IT del CVC), che è distribuito in tutto il mondo. È stata realizzata un’altra installazione pilota per un Centro Virtuale di Competenze inter-aziendale per lo sviluppo di una rapida Prototipizzazione knowledge based da parte di Cirp GmbH, Invenio Engineering Services GmbH. La motivazione per il Circolo IT del CVC prevedeva essenzialmente il miglioramento della comunicazione e del coordinamento tra il CED del gruppo in Germania e le sedi indipendenti all’estero. L’obiettivo perseguito era quello di ridurre i costi (p.es. causati da soluzioni moltiple o dal mancato utilizzo di standard), mediante il coordinamento di standard e approcci e il miglioramento della trasparenza dei requisiti e dei progetti informatici interni delle unità operative a livello internazionale. Un altro importante obiettivo consisteva nell’accelerare la realizzazione di requisiti mediante l’utilizzo di abilità ed esperienze che coprano l’intera organizzazione. Ad affiancare l’implementazione organizzativo, è stato utilizzato il portale di conoscenze Circolo IT del CVC per organizzare fin dall’inizio la preparazione e l’elaborazione di documenti, nonché l’attività di coordinamento e animazione del Circolo IT (Fig. 13). 187 Fig. 13 – Esempio di Circolo IT del Centro Virtuale di Competenze Le esperienze dimostrano che: · l’integrazione del portale di conoscenze nei processi organizzativi · l’integrazione di sistemi informatici esistenti · l’accettazione dello strumento da parte dei dipendenti dell’azienda · l’aggiornamento e la pronta somministrazione dei contenuti sono i fattori essenziali di successo per l’ultilizzo del software. Poiché la concettualizzazione e il software rappresentano un approccio promettente per raggiungere l’insieme degli obiettivi strategici, i risultati ottenuti si estendono al di là della durata del progetto. Nel sintetizzare la validazione dei risultati e le esperienze raccolte nelle interviste con gli esperti, il centro virtuale di competenze risponde alle esigenze dei nostri partner commerciali per collaborare e unire le competenze con succcesso, sia all’interno di un’impresa che all’interno di reti aziendali. I partner industriali hanno riconosciuto un elevato valore potenziale nell’utilizzo dell’ARP e dei profili di competenze. La piena implementazione dei risultati della ricerca per lo sviluppo di competenze richiede un grande impegno di consulenza. Tale approccio assicura che gli strumenti e le metodiche informatiche elaborate vengano applicate in maniera corretta ed efficiente. 188 5 Visione Per il prossimo futuro sembra ragionevole prevedere una costante intensificazione delle condizioni generali del settore customer nell’industria automobilistica. La competizione nei mercati pressoché saturi dell’Europa occidentale, degli USA e del Giappone richiede un’innovazione costante e anche i clienti nei mercati in espansione della Cina e dell’Europa orientale non saranno disposti a spendere il loro denaro in automobili del passato. Ciò nonostante i prodotti vanno adattati ai mercati locali e alle richieste dei consumatori. La competizione incombente nella localizzazione della R&S rappresenta un rischio per l’industria automobilistica in Germania. I nostri standard elevati relativi ai costi del lavoro possono essere giustificati soltanto dalla migliore performance best-in-class in ogni suo possibile aspetto. Nel 2002 il direttore di una importante casa automobilistica tedesca ha preteso un aumento di efficienza del 30% dai suoi partner R&S. Può sembrare una pretesa esagerata, ma come dimostra un recente studio sull’industria automobilistica tedesca, esiste una realistica probabilità che questa richiesta possa venire esaudita, grazie all’ottimizzazione dell’efficienza di procedure e processi. In ogni caso per raggiungere gli effetti desiderati, tutti i partner organizzativi, includendo esplicitamente gli OEM, dovranno lavorare insieme,. L’unica soluzione è la seguente: il futuro risiede nella rete dei centri regionali per l’innovazione all’interno di un cluster virtuale che opera sul piano internazionale e globale. Un primo passo nella giusta direzione è stato compiuto grazie al progetto EUREKA TRUST con la messa in rete dei partecipanti al cluster di Stoccarda e al cluster della regione Emilia-Romagna all’interno del cluster virtuale di TRUST. Per l’integrazione dell’intero cluster e dei suoi partecipanti, occorre realizzare strutture e presupposti essenziali. A lungo termine, imprese e istituzioni collegate potranno sopravvivere nel mercato globale solo all’interno di cluster virtuali. „La fiducia è il più grande sacrificio di sé” Christian Friedrich Hebbel 189 6 Bibliografia Altvater E., Mahnkopf, B., Grenzen der Globalisierung. Ökonomie, Ökologie und Politik in der Weltgesellschaft, Münster, Westfälisches Dampfboot, 1996. Automobilstadt. Verlagsgruppe Stuttgart, Motor-Presse http//www.stuttgart.de/sde/item/gen/14813.htm, 22.07.2004. Automobilzulieferer - neue Konzepte bestimmen die Zukunft, Zulieferertag Automobil Baden-Württemberg am 20.11.2002 im Haus der Wirtschaft in Stuttgart: RKW Baden-Württemberg aktuell; 2002. Balling R., Kooperation. Frankfurt am Main, Peter Lang, 1997. Batz U.,....[et al.], Strukturbericht 1998/99. Zur wirtschaftlichen und beschäftigungspolitischen Lage im der Region Stuttgart, Stuttgart, 1999. 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Rispetto alla tematica dello sviluppo regionale, la conformazione della struttura produttiva nazionale ha rappresentato da un lato un prolifico terreno di analisi, dall’altro un cantiere all’interno del quale si sono sviluppati modelli interpretativi in grado di dare visibilità e importanza a quei fattori esterni all’impresa in grado di rappresentare un driver per la crescita e lo sviluppo economico. In particolare, la scuola dei “distrettualisti” ha offerto sia alla comunità scientifica sia agli attori pubblici e associativi una ricca serie di strumenti e criteri di lettura in grado di descrivere e interpretare quelle peculiari traiettorie dello sviluppo in grado di spiegare il successo storico della piccola impresa diffusa italiana nei mercati internazionali. All’interno del dibattito teorico il modello “distrettuale”, definito di specializzazione flessibile, è venuto a contrapporsi con l’organizzazione produttiva fordista, propria delle regioni di prima industrializzazione. Non da oggi questa chiave di lettura ci pare insoddisfacente in quanto non in grado di inquadrare fenomeni nuovi, portatori di profondi cambiamenti sia a livello di impresa sia di contesto regionale. Inoltre, il modello della specializzazione flessibile si è spesso associato a quei settori più propriamente riferibili al cosiddetto “Made in Italy”. Nella realtà sono anche altri i comparti cresciuti in virtù dei benefici derivanti dalla presenza di esternalità positive di localizzazione o economie di “agglomerazione”. Tra questi ritroviamo non pochi comparti industriali a medio-alto contenuto tecnologico quali macchine e apparecchi meccanici, macchine e apparecchi elettrici, motociclette, autoveicoli, ecc.. 195 Il presente contributo di prefigge di descrivere alcuni aspetti caratterizzanti i modelli di sviluppo regionale, offrendo al contempo una descrizione degli elementi che connotano tre possibili impatti idealtipici, a livello locale, dell’industria automobilistica e dei settori ad essa connessi. I tre idealtipi sono: il parco fornitori; il distretto industriale; la filiera produttiva. Posto che gli idealtipi rappresentano, come ovvio, una semplificazione, nella realtà si ritrovano più frequentemente delle forme ibride, le quali, in genere, mescolano i caratteri di due idealtipi. In nessun caso si ritrovano invece elementi propri di tutti e tre gli idealtipi, viste le spiccate diversità tra gli estremi. Partendo da questa classificazione, verranno messe a confronto due strutture produttive regionali, il Piemonte e l’Emilia-Romagna, caratterizzate entrambe dalla presenza di un’importante industria motoristica. Nel caso del Piemonte, tipicamente legata alla produzione di autoveicoli, in Emilia-Romagna, come vedremo in seguito, maggiormente articolata e differenziata. Le profonde diversità tra i due modelli di sviluppo regionale, descritte nella parte iniziale del presente contributo, verranno poi lette attraverso l’analisi di alcuni tra i più importanti indicatori economico-finanziari tratti dai bilanci aziendali e il confronto tra cluster omogenei di imprese riconducibili alla motoristica. La metodologia utilizzata segue il modello tradizionale dell’analisi dei bilanci disaggregato in indicatori di sviluppo e attività industriale, struttura finanziaria ed equilibrio patrimoniale, redditività industriale. Pur consapevoli delle forzature, relativamente al settore auto, la regione Piemonte risulta essere caratterizzata da una struttura produttiva “monoprodotto” e “monosettore”, con la presenza di un grande OEM (original equipment manufacturer) e una componentistica concentrata sul settore automobilistico, nonché localizzata prevalentemente all’interno del territorio della provincia di Torino, seppur fortemente orientata all’export. La regione Emilia-Romagna ci pare invece caratterizzata da una struttura produttiva “multiprodotto” e “multisettore”, con una componentistica in grado di indirizzarsi verso diversi comparti verticali quali l’automobile, il motociclo e le macchine agricole, solo per citarne alcuni; e con la presenza 196 di imprese committenti finali (OEM) spesso di non grandi dimensioni e appartenenti a diversi settori produttivi. In questo senso ad una filiera piemontese tendenzialmente monosettore (auto) si contrappone una filiera emiliano-romagnola tipicamente multisettore (auto, motociclo, ciclomotore, macchine agricole, motori, ecc.). Non a caso, così come dimostrato da recenti ricerche, l’area torinese, anche evidentemente in ragione della presenza di uno stabilimento di assemblaggio Fiat Auto, è stata maggiormente colpita dalla recente crisi dell’assemblatore torinese rispetto a quanto non sia per le imprese dell’auto localizzate nella regione Emilia-Romagna. Di seguito sono descritti gli elementi principali caratterizzanti i tre diversi modelli idealtipici sopra citati. 2 Le tipologie prevalenti di insediamenti produttivi locali nel mondo Il settore auto ha storicamente forgiato non solo le possibilità di mobilità dei singoli ma anche le politiche dei governi nazionali, le tecniche di management adottate dai dirigenti di impresa, così come la fisionomia delle realtà territoriali all’interno delle quali l’industria dell’auto veniva a localizzarsi. Posto che l’evoluzione storica dei sistemi locali rappresenta un elemento determinante al fine di comprendere la natura del legame tra un’industria e il suo territorio di riferimento, l’analisi seguente non include valutazioni di carattere “longitudinale” ma tende piuttosto a descrivere gli elementi di diversità tra gli idealtipi richiamati. Cionondimeno, i territori sono “corpi” in movimento; la lettura delle traiettorie di sviluppo di un’area produttiva locale non può pertanto prescindere dalla considerazione della variabile storica e dall’utilizzo di criteri analitici volti a interpretare le traiettorie evolutive del sistema nel suo complesso. Posto che in alcune aree del paese il modello del distretto sembra trasformarsi in un sistema più aperto e interconnesso come è quello della filiera, i tre idealtipi descritti non rappresentano in nessun modo un percorso di sviluppo sequenziale e lineare. 1 Parchi fornitori e varianti Il parco fornitori, così come le sue innumerevoli varianti (condominio, consorzio, ecc.), si caratterizza normalmente come un investimento 197 greenfield, ovvero un’iniziativa di localizzazione industriale all’interno di un’area geografica sostanzialmente priva di consistenti insediamenti urbani e produttivi. Si caratterizza non a caso per essere un investimento guidato da un costruttore finale che, insieme ad un numero contenuto di fornitori in genere di grandi dimensioni (mega-supplier), promuove un investimento estero diretto e destinato in genere verso paesi in via di sviluppo, oppure indirizzato verso aree svantaggiate di paesi sviluppati. L’unico caso italiano di parco fornitori “puro” è localizzato a Melfi. I rapporti tra fornitori e assemblatore finale, nel caso del parco fornitori, risultano essere particolarmente stretti. Oltre alla prossimità geografica tra committente e fornitori si assiste a una forte integrazione dei processi e della gestione della qualità. I fornitori sono in genere chiamati a rifornire l’assemblatore di moduli personalizzati direttamente sulla linea di montaggio attraverso schemi di certificazione e accreditamento formalizzati (free-pass). Si rende pertanto necessaria una forte sincronizzazione tra la programmazione della produzione del committente e quella dei fornitori, i quali sono responsabili dell’organizzazione degli approvvigionamenti dei componenti e delle materie prime messe a disposizione da fornitori di secondo e terzo livello. Alla fornitura di moduli si associa quindi una gerarchizzazione spinta del sistema di fornitura nella sua completa articolazione. La portata dell’investimento rende la “partita” un gioco ristretto tra grandi fornitori, denominati per l’appunto mega-fornitori Dal momento che i parchi fornitori sono funzionalmente progettati allo scopo e costruiti tendo conto delle specifiche esigenze produttive e di logistica, i dati sulla produttività sono in genere particolarmente elevati. Rispetto invece all’impatto sul territorio è chiaro che il parco fornitori comporta delle ricadute significative sia dal punto di vista occupazionale sia per quanto concerne le reti infrastrutturali di collegamento. L’attore pubblico ha tuttavia un ruolo “passivo”, ossia di pura incentivazione all’insediamento industriale che a volte, a seconda dei casi, trascina un co-investimento pubblico sulle reti di viabilità stradale, ferroviaria o portuale. L’effetto spillover, ovvero la ricaduta sull’imprenditorialità locale, sulla cultura d’impresa, sulle professionalità, pare invece essere modesto, ovvero circoscritto alle sole attività di servizio indiretto e di supporto alla produzione o più frequentemente al funzionamento del parco (portineria, servizi di sicurezza, servizi di pulizia, ecc.). 198 2 Distretti industriali e sistemi produttivi locali I distretti industriali e i sistemi produttivi locali si caratterizzano per essere aree produttive geograficamente circoscritte ad elevata presenza di piccole e medie imprese. Sono solitamente cresciuti in modo rilevante ma relativamente graduale, ovvero nell’arco di un periodo di tempo piuttosto lungo. Le imprese distrettuali risultano essere specializzate in una o più fasi di un processo produttivo e sono funzionalmente collegate all’interno di reti verticali, orizzontali e miste. Le imprese appartenenti al distretto sono inoltre in genere connotate dall’intessere rapporti informali e fiduciari con gli altri attori appartenenti al contesto locale. In questo senso, risultano essere evidenti le differenze rispetto al caso precedente. Il modello in questione viene pertanto a sostenere l’esigenza di specializzazione, combinandola a una flessibilità sistemica in grado di permettere al contempo controllo dei costi (bassi costi di transazione e di coordinamento) e personalizzazione dell’offerta. È evidente che con i distretti viene a nascere un percorso di sviluppo diverso, alternativo rispetto a quello schema rigido che vede la gerarchia in antitesi al mercato. Fiorisce per l’appunto quel modello divenuto poi noto come di “specializzazione flessibile”. Il distretto è un sistema chiuso sia verso l’esterno sia verso l’interno. Le consistenti quote di export sono trainate da poche imprese finali interne all’agglomerato produttivo e i fenomeni di internazionalizzazione in entrata sono pressoché assenti. Diversamente dal caso precedente, il distretto si caratterizza per la presenza di grandi imprese committenti e al contempo per l’esistenza di una vasta rete di fornitori locali cresciuti in larga parte grazie alle commesse messe loro a disposizione da parte delle imprese finali localizzate nell’area. Sia le imprese committenti sia quelle fornitrici sono organizzate intorno a un settore produttivo specifico, ovvero partecipano con ruoli diversi alla fabbricazione di un particolare prodotto finale, e sono racchiuse all’interno di un sistema chiuso, sia verso sia dall’esterno. Ad una connessione in genere diretta tra committente e fornitori piuttosto che segmentata su livelli differenti, come invece è nel caso della modularizzazione, si abbina un modello fondato sulla fornitura di componenti e semilavorati “sciolti” piuttosto che di moduli e sistemi complessi. 199 Ancora, contrariamente al caso precedente, si assiste, all’interno del distretto, alla presenza di forti processi di spillover, in grado di diffondere, attraverso la gemmazione di piccole imprese originate dalle grandi e medie aziende committenti locali, una diffusa cultura dell’imprenditorialità. Infine, diversamente dal caso precedente, nell’esempio del distretto, il policy maker ricopre un ruolo determinante, in quanto promotore di esternalità positive, anche e soprattutto attraverso la creazione di centri di servizi reali all’impresa a controllo pubblico. Tali centri, nell’esperienza italiana, oltre ad aver fornito al distretto una dignità identitaria in quanto attore dello sviluppo, hanno altresì contribuito ad una prima qualificazione della struttura e delle competenze delle piccole imprese interne al distretto, attraverso la costruzione di un’offerta di servizi legati alla qualità, la formazione, l’acquisto di nuovi macchinari e l’innovazione tecnologica. Nel settore automobilistico si è parlato di sistema produttivo locale piuttosto che di vero e proprio distretto. Nell’auto si è infatti assistito al nascere di un vero e proprio indotto, cresciuto intorno allo stabilimento di un costruttore finale, come è stato nel caso di Torino. Quel meccanismo virtuoso del distretto che è stato in grado di generare al contempo specializzazione, flessibilità e controllo dei costi, si inceppa nel momento in cui un mix di elementi di carattere macro, meso e cascata micro, vengono a mutare lo scenario di riferimento. All’interno del nuovo scenario competitivo non tutti i settori e non tutti i territori reagiscono tuttavia nel medesimo modo. Ai settori cosiddetti del “Made in Italy”, fortemente colpiti dal massiccio irrompere sui mercati europei di prodotti fabbricati in paesi a un minor costo del lavoro, si affiancano comparti in grado di imboccare un nuovo percorso di sviluppo. Questo percorso impatta sul sistema dell’impresa ma anche sul sistema istituzionale locale, si tratta dell’emergere di filiere produttive regionali. 3 Filiere produttive locali La filiera produttiva emerge spesso dalle ceneri del distretto. L’industria diffusa si trasforma aprendo le porte ad una media impresa globale, attore protagonista del modello in questione. La filiera è un sistema aperto, non solo in chiave di export così com’era nel distretto, ma anche e soprattutto in termini di internazionalizzazione attiva in uscita, in grado di permettere, diversamente dal modello del distretto, una maggiore capacità di penetrazione sui mercati internazionali attraverso la 200 creazione di filiali commerciali all’estero e la costituzione di unità operative dedicate all’assistenza tecnica presso il cliente. La filiera produttiva si caratterizza anche da una maggior internazionalizzazione in entrata ed è un sistema aperto anche in termini di settore, dal momento che combina imprese appartenenti a diverse categorie merceologiche, seppur localizzate in larga parte all’interno di un’area geografica circoscritta, quale è un contesto regionale. In Emilia-Romagna si sono infatti sviluppate dal dopoguerra ad oggi una serie di competenze trasversali a diversi settori quali l’auto, il motociclo, le macchine agricole, ecc.; che a loro volta hanno generato quella domanda locale in grado di far crescere e progredire una serie di comparti collegati quali quello della produzione di macchine e attrezzature per la produzione prima e in un secondo momento dei servizi avanzati all’impresa. È cresciuta in questo modo una vera e propria filiera orizzontale, trasversale a diversi settori collegati alla produzione di motori; è quella che chiameremo filiera della motoristica, sottolineando in tal modo il carattere intersettoriale della filiera . L’ibridazione di competenze orizzontali ha in parte contribuito ad accelerare processi di innovazione di processo e di prodotto. In quest’ultimo caso si assiste ad una incorporazione di innovazione generata in altri settori all’interno dei prodotti tradizionali. L’integrazione tra tecnologie differenti e comparti diversi che consegue alla ridefinizione del contenuto di innovatività del prodotto e della sua complessità, ricompone il sistema delle conoscenze nel quale l’impresa opera, comprese anche le imprese terze, sia di produzione sia di servizio, collegate. In Emilia-Romagna questa riconfigurazione emerge con particolare chiarezza in alcuni comparti legati alla meccanica avanzata. Il settore automotive, da questo punto di vista, ci sembra essere una delle esperienze più d’avanguardia, dal momento che integra meccanica avanzata, elettronica, tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC), così come tecnologie legate ai nuovi sistemi di propulsione per veicoli non convenzionali (elettrici, a idrogeno, metano, Gpl). In questo senso la filiera pare contrapporsi al distretto, tipicamente imperniato su un solo settore produttivo. Alla vocazione intersettoriale tra comparti tecnologicamente prossimi tipica della filiera produttiva si affianca, come detto, una struttura produttiva regionale caratterizzata dalla presenza di numerosi committenti appartenenti a diversi settori, non necessariamente di grandi dimensioni e connessi a un 201 sistema di fornitura e sub-fornitura radicato localmente. Tale sistema, oltre a non essere più riconducibile ad un indotto largamente dipendente da un numero ristretto di settori di destinazione e di committenti finali, risulta essere in grado di produrre beni intermedi differenti, operando contemporaneamente su diversi livelli della catena di fornitura. La stessa impresa può pertanto agire come fornitore di primo livello per un produttore di motocicli e come fornitore di secondo livello per un’azienda che destina i suoi prodotti (moduli, sistemi e gruppi pre-assemblati) a un produttore di auto sportive. La filiera è pertanto caratterizzata da un sistema di fornitura: · · · · Multicliente; Multiprodotto; Multisettore; Multilivello. Non a caso, all’interno della filiera, pur permanendo rapporti diretti tra committenti e fornitori di componenti e lavorazioni, emergono processi di gerarchizzazione della catena di fornitura che viene ad articolarsi su diversi livelli. Si tratta di un processo cosiddetto di modularizzazione. Ancora, diversamente dal modello del distretto, all’interno della filiera paiono essere più accentuati processi di creazione di reti autonome e gruppi orizzontali di PMI, in prevalenza localizzate all’interno dell’area regionale seppur aperte verso l’esterno. In ultimo, la filiera si caratterizza per un più attivo rapporto tra mondo dell’Università e mondo della piccola e media impresa, così come per un ruolo diverso dell’attore pubblico locale, anche in ragione di un’accelerazione dei processi di devoluzione di poteri in materia di politiche industriali, avvenuti in Italia a partire dai primi anni novanta. In questo caso all’azione diretta del pubblico, volta a promuovere un primo percorso di qualificazione delle strutture produttive, tipica del modello del distretto industriale, si sostituisce un’azione indiretta, ovvero di facilitazione e di messa a sistema degli attori dello sviluppo, sostenendo l’avvio di un secondo stadio dello sviluppo, maggiormente orientato alla ricerca e l’innovazione di prodotto, di processo e organizzativa. 3 Metodologia di indagine e selezione delle imprese La metodologia utilizzata in questa indagine è stata quella del bilancio somma su campioni chiusi tramite benchmarking tra raggruppamenti di imprese su base territoriale, dimensionale e di attività produttiva. Per 202 bilancio somma si intende che le voci dello stato patrimoniale e del conto economico di ciascun raggruppamento di imprese vengono sommate come se si trattasse di un’unica impresa. Tale metodologia se da un lato consente di creare serie storiche coerenti, dall'altro lato esclude a priori le imprese costituite o cessate successivamente l'anno di inizio dell'analisi. L’acquisizione dei dati si è basata sulle banche dati AIDA dalle quali sono stati estratti i bilanci contabili delle società di capitale che risultano attualmente attive. L’analisi è stata effettuata su gli ultimi bilanci disponibili. Il periodo di osservazione è stato il quadriennio 2001-2004. Per assicurare omogeneità dei dati ed evitare discontinuità aziendali, sono stati esclusi i bilanci consolidati e le holding industriali. Sono stati costruiti in questo modo due campioni chiusi, uno relativo alle imprese appartenenti alla filiera dell’auto piemontese e l’altro alla filiera motoristica emiliano-romagnola (auto, motociclo, ciclomotore, macchine agricole, motori, ecc.). I due campioni sono stati a loro volta ripartiti secondo i seguenti criteri: · · Dimensionale. La ricerca ha seguito la normativa comunitaria, recentemente modificata, che prevede tre raggruppamenti – micro imprese (meno di 2 milioni di Euro di fatturato), piccole imprese (da 2 a 10 milioni di Euro di fatturato), medie imprese (da 10 a 50 milioni di Euro di fatturato) – al quale è stato aggiunto il raggruppamento delle grandi imprese (maggiore di 50 milioni di Euro di fatturato). Le imprese dei campioni analizzati in questa ricerca sono state classificati secondo i valori registrati nel 2001. Settoriale. Le filiere dell’auto e della motoristica sono state suddivise in otto raggruppamenti in modo da individuare le imprese il cui core business è direttamente connesso ai settori oggetto dell’analisi, tra cui rientrano: · gli original equipment manufactures (OEM vale a dire assemblatori di autoveicoli, motocicli, ciclomotori, trattori, ecc.; costruttori di carrozzerie e rimorchi) · i componentisti di parti e accessori per autoveicoli, motocicli, ciclomotori, trattori, motori, ecc.; · le imprese dei settori gomma-plastica-chimica (pneumatici, parti e accessori in gomma e plastica per auto e motoristica); · e le imprese appartenenti ai settori funzionali e connessi 203 · · · · · come: lavorazione metalli (stampaggio lamiera a caldo e a freddo); produzione di metalli (essenzialmente fusione di metalli e leghe); meccanica specializzata (macchine utensili, meccanica strumentale, macchine elettriche, costruttori di stampi); servizi e studi di ingegneria (progettazione, collaudo, costruzione prototipi, etc.); altri comparti (tessitura, pelletterie, lavorazione vetro, etc.). Nel momento in cui è stata effettuata l’elaborazione è stato possibile costruire, per il quadriennio analizzato, la serie storica dei bilanci di 598 imprese piemontesi della filiera dell’auto e 453 nella filiera motoristica emiliano romagnola. La metodologia del campione chiuso se da un lato assicura il confronto temporale, dall’altro lato riduce sensibilmente il numero delle imprese selezionabili sia perché al momento dell’elaborazione molti bilanci del 2004 non erano ancora presenti nella banca dati, sia perché i cambiamenti societari avvenuti nell’arco temporale analizzato comportano l’esclusione dal campione di tali imprese. Come era atteso i due campioni presentano una distribuzione dimensionale sostanzialmente diversa con una maggiore prevalenza di medie e grandi imprese nella filiera auto piemontese rispetto all’Emilia-Romagna (tabella 1). Tabella 1: Distribuzione dei campioni per dimensione aziendale PIEMONTE N Micro impresa Piccola impresa Media impresa Grande impresa Totale 97 303 149 49 598 EMILIA-ROMAGNA % 16,2 50,7 24,9 8,2 100,0 N % 111 235 85 22 453 24,5 51,9 18,8 4,9 100,0 Fonte: Elaborazioni Ceris-Cnr e IPL Le medie e grandi imprese sono rispettivamente il 24,9% e l’8,2%, e il 18,8% e il 4,9%. 204 Nella tabella 2 è stata riportata la percentuali di copertura delle due filiere incrociando la classificazione dimensionale con quella settoriale. In particolare si segnala che: · · · · · le imprese appartenenti al comparto dei componentisti costituiscono il raggruppamento maggiore e sono in totale 166 in Piemonte (27,8% del campione) e 216 in Emilia-Romagna (47,6% del campione) con una netta prevalenza di grandi imprese; la lavorazione metalli e le imprese della meccanica sono i comparti più rappresentati dopo i componentisti; non sono presenti grandi imprese nella produzione di metalli e negli studi di ingegneria in entrambe le regioni, e altresì nella gomma-plastica-chimica e nella lavorazione di metalli in Emilia-Romagna; la micro e piccola dimensione prevale nella lavorazione dei metalli e negli studi di ingegneria; gli OEM sono poco rappresentati in Piemonte avendo escluso tutto il gruppo FIAT che produce in massima parte al di fuori dei confini piemontesi. Tabella 2: Distribuzione dei campioni per dimensione aziendale e settore industriale (valori in percentuale) PIEMONTE EMILIA-ROMAGNA Micro Piccola Media Grande Totale Micro Piccola Media Grande Totale OEM 1,0 Componentisti 18,6 Gomma-plastica-chimica 12,4 Lavorazione metalli 29,9 Produzione metalli 2,1 Meccanica 21,6 Studi di ingegneria 9,3 Altri comparti 5,2 Totale 100,0 2,0 27,4 13,9 27,1 1,7 18,2 5,0 5,0 100,0 1,3 26,8 11,4 25,5 6,0 21,5 1,3 6,0 100,0 6,1 51,0 4,1 12,2 0,0 20,4 0,0 6,1 100,0 2,0 27,8 12,2 25,9 2,7 19,7 4,3 5,4 100,0 4,5 40,5 4,5 24,3 5,4 10,8 9,9 0,0 100,0 6,0 44,4 3,8 16,2 6,8 18,8 2,1 1,7 100,0 8,2 63,5 1,2 9,4 4,7 10,6 1,2 1,2 100,0 36,4 54,5 0,0 0,0 0,0 4,5 0,0 4,5 100,0 Fonte: Elaborazioni Ceris-Cnr e IPL 4 Analisi economica-finanziaria Il presente paragrafo contiene l’analisi delle caratteristiche economico-finanziarie delle imprese appartenenti alla filiera dell’auto piemontesi e della motoristica emiliano romagnola tra gli anni 2001 e 2004. 7,5 47,6 3,3 16,2 5,8 14,6 3,8 1,3 100,0 205 La finalità è quella di fornire un quadro dettagliato della situazione del comparto in oggetto attraverso la specificazione di indicatori tradizionali di bilancio. Inoltre, laddove è stato ritenuto opportuno, alcune variabili sono state incrociate al fine di segnalare eventuali relazioni di causa-effetto. Le tabelle e i grafici presentati in questo paragrafo forniscono una valutazione completa sul settore e sul posizionamento delle imprese dell’auto nelle due regioni. Come precisato nel capitolo precedente, le unità oggetto di osservazione sono state inoltre suddivise per classi omogenee sulla base di criteri dimensionali e settoriali. 1 Indicatori di sviluppo In questo paragrafo verranno presi in considerazione i principali indicatori di sviluppo delle imprese basati sul volume di valore aggiunto generato, sul costo del personale quale proxy dell’andamento occupazionale e sul valore delle immobilizzazioni tecniche. Le immobilizzazioni tecniche sono state calcolate come somma delle immobilizzazioni materiali e immateriali al netto dei rispettivi fondi di ammortamento. Inoltre, è stata effettuata la scomposizione delle principali voci di bilancio relative alle immobilizzazioni tecniche, vale a dire ricerca e sviluppo, impianti e immobili, confrontando, la loro evoluzione con le immobilizzazioni di tipo finanziario. Innanzitutto l’analisi condotta sul campione di imprese della filiera dell’auto ha messo in luce come la dimensione aziendale delle imprese piemontesi risulti sensibilmente superiore a quella imprese emiliano romagnole (tabelle 3, 4 e 5). Ciò è evidente per tutti gli indicatori di sviluppo utilizzati in questa ricerca e che misurano in senso statico la capacità produttiva media nei due raggruppamenti regionali. In particolare osservando i valori medi relativi al 2004 le imprese piemontesi eccedono del 60% rispetto alle pari imprese emiliano romagnole per il valor aggiunto e le immobilizzazioni tecniche e del 75% per il costo del personale. Nella regione subalpina, ad esempio, l’occupazione media nel relativo campione di imprese è di 135,2 addetti, mentre in Emilia-Romagna è circa la metà (73,1). Tale netta distinzione si ripresenta in tutte le stratificazioni dimensionali e settoriali utilizzate in questa ricerca. Le uniche eccezioni riguardano le medie imprese, che sono dimensionalmente pressoché simili nelle due regioni, e i produttori di metallo emiliano romagnoli nelle immobilizzazioni tecniche. In particolare per quanto riguarda i produttori OEM, i componentisti, i produttori di particolari in gomma-plastica-chimica, le imprese della meccanica specializzata e gli studi di ingegneria il gap dimensionale varia da 2 a quattro volte. 206 Nel quadriennio analizzato il valore aggiunto delle imprese della filiera dell’auto piemontese è aumentato in misura sensibilmente minore rispetto al campione emiliano romagnolo (rispettivamente +2,4% e +6,3%). Come è evidenziato dalla figura 1 l’evoluzione di tale indicatore è risultato difforme nelle due regioni. In Piemonte si è assistito ad un iniziale calo nel 2002 e a successive crescite moderate, mentre in Emilia-Romagna la riduzione dei volumi produttivi interni si è verificata nel 2003 ed è stata controbilanciata da una forte crescita nell’ultimo anno (+8,6%). Rispetto ai valori medi, in entrambe le regioni le performance migliori derivano dalle micro imprese, rispettivamente per il Piemonte +17,7% e per l’Emilia-Romagna + 22,0%, e i risultati peggiori per le grandi imprese, addirittura in calo in Piemonte (-1,6%) e stazionario in Emilia-Romagna (+1,2%). Difforme è risultato, invece, tra le due regioni l’andamento del valore aggiunto nelle classi dimensionali intermedie, in forte crescita per le piccole imprese in Piemonte (+17,4%) e per le medie imprese in Emilia-Romagna (+13,3%), e sui valori medi regionali per le altre rispettive pari dimensionate. È da osservare che in entrambi i campioni circa il 40% delle imprese hanno ridotto il valore aggiunto e che le imprese piemontesi presentano una maggior variabilità. In Emilia-Romagna prevalgono le crescite moderate, mentre in Piemonte quelle elevate in particolar modo per le grandi imprese. Questo risultato indica che rispetto alle valutazioni medie in alcuni casi non incoraggianti esistono, tuttavia casi aziendali che registrano performance ragguardevoli. Figura 1: Evoluzione del valore aggiunto e delle immobilizzazioni tecniche nette 207 Anche per quanto concerne gli investimenti tecnici al netto degli ammortamenti, la filiera dell’auto piemontese (-6,1%) denota una evoluzione decisamente negativa rispetto alle lieve incremento registrato dalle imprese emiliano romagnole (2,4%). In Piemonte, la riduzione degli investimenti verificatesi nelle medio (-6,8%) e grandi imprese (-9,6%) non è stata compensata sufficientemente dalle buone performance realizzate dalle micro (+20,4%) e piccole imprese (+14,3%). In Emilia-Romagna, invece, il calo delle immobilizzazioni tecniche si è verificato unicamente nelle grandi imprese (-3,3%). La dinamica di sviluppo delle imprese, ovvero l’incremento o il decremento dei volumi di attività come conseguenza degli effetti della domanda di mercato, non può prescindere dalla politica di investimento. A livello settoriale la diversità di comportamento in termini di sviluppo delle imprese può essere opportunamente colta incrociando i saggi di variazione del valore aggiunto e dell’attivo immobilizzato. La figura 2 riporta le variazioni congiunte di valore aggiunto e immobilizzazioni tecniche lungo il quadriennio compreso tra il 2001 e il 2004 ed evidenzia il differenziale di performance settoriale nelle due diverse regioni. Ad eccezione dei produttori di metalli e i componentisti della gomma e plastica, i rispettivi comparti regionali si collocano sul grafico in posizione ravvicinata segno di una comune tendenza congiunturale anche se si possono distinguere, in qualche modo, alcuni fattori distintivi. È il caso delle OEM piemontesi il cui sensibile incremento in investimenti in immobilizzazioni 208 tecniche nette (+21,0%), rispetto alla media regionale e alle pari specializzate emiliano romagnole (+12,1%), non si è tradotto in un immediato incremento del valore aggiunto, anzi è diminuito (-4,0%). Valutazioni simili nelle due regioni possono essere effettuate per le imprese della meccanica, in forte calo per entrambi gli indicatori, per i componentisti e le imprese specializzate nella lavorazione dei metalli, in aumento la produzione interna ma in calo gli investimenti tecnici. Ad eccezione degli studi di ingegneria, tendenzialmente i comparti della filiera motoristica emiliano-romagnola performano meglio dei settori piemontesi soprattutto in termini di crescita del valore aggiunto. Infatti, nel primo quadrante, in cui sono collocati i settori con variazioni positive per entrambi gli indicatori, rientrano quattro settori emiliano-romagnoli e uno solo piemontese. È interessante osservare che i comparti ai vertici della filiera, gli OEM e i componentisti, in entrambe le regioni ottengano risultati contrapposti. I primi forti aumenti degli investimenti e scarsi risultati in crescita del valore aggiunto, i secondi al contrario, crescita dei volumi e riduzione degli investimenti. Figura 2: Variazioni del valore aggiunto e delle immobilizzazioni tecniche nette (2001-2004) 209 La scomposizione delle principali voci di bilancio relative alle immobilizzazioni tecniche nette con l’aggiunta delle immobilizzazioni di tipo finanziario segnala una evoluzione pressoché similare per quanto riguarda gli investimenti in immobili e impianti (figura 3). Il valore netto a bilancio di queste voci si è ridotto in entrambe le regioni in particolar modo per gli impianti. Se per quanto concerne gli investimenti in immobili tale riduzione era un risultato atteso in quanto la tendenza attuale è quella di concentrare le risorse negli investimenti più meramente produttivi, la diminuzione delle immobilizzazioni in impianti segnala, invece, una mancanza di fiducia nelle prospettive di crescita interna tramite ulteriori industrializzazioni nei specifici territori e di conseguenza di possibili delocalizzazioni esterne. Infatti, tale situazione coinvolge le medie e soprattutto le grandi imprese, i componentisti e gli OEM piemontesi. Le piccole imprese, invece, in entrambe le regioni denotano propensioni favorevoli a tali investimenti. Valutazioni dissimili riguardano, invece, gli investimenti in ricerca e sviluppo e le immobilizzazioni finanziarie. Se in questo ultimo caso tra le due regioni si può osservare una simile evoluzione, anche se più pronunciata in Emilia-Romagna, per quanto riguarda la capitalizzazione delle spese in ricerca sviluppo, sebbene spesso sia dovuto a opportunità di tipo fiscale, il netto divario maturatosi nel quadriennio analizzato, +49,1 in Emilia-Romagna e -38,9%% in Piemonte, desta non poche preoccupazioni 210 per la filiera dell’auto subalpina in particolar modo perché è causata unicamente dalle grandi imprese e dai produttori OEM e componentisti che dovrebbero essere maggiormente deputati ad effettuare tali investimenti. FiguraErrore. L'origine riferimento non è stata trovata.: Evoluzione di alcune componenti dell’attivo immobilizzato (2001=100) Il costo del personale riportato in tabella 5 evidenzia una crescita del 6,6% nella filiera dell’auto piemontese e del 13,5% nella filiera motoristica emiliano romagnola. La trasposizione in termini occupazionali deve, tuttavia, considerare l’aumento delle retribuzioni contrattuali orarie degli operai e degli impiegati che a livello nazionale, secondo dai Istat, è stato per l’intera industria del 11,5 e per i mezzi di trasporto del 12,4. Dalla comparazione dei due dati si può dedurre che l’occupazione in Piemonte è diminuita del 4-5%, mentre in Emilia-Romagna è leggermente aumentata dell’1-2%. La ripartizione dimensionale e settoriale conferma le valutazioni riportate nell’analisi del valore aggiunto. In Piemonte le uniche situazioni favorevoli riguardano le micro e piccole imprese, i componentisti e gli studi di ingegneria, in Emilia-Romagna ad eccezione della meccanica e in parte della gomma-plastica-chimica non si riscontrano situazioni negative. 2 Indicatori di attività industriale Il presente paragrafo intende fornire indicazioni più dettagliate in merito alla produttività dei fattori lavoro (valore aggiunto su costo del lavoro) e capitale 211 fisico (valore aggiunto su immobilizzazioni tecniche nette). Un ulteriore elemento distintivo delle imprese riguarda il rapporto tra capitale circolante operativo e fatturato in modo da evidenziare la relazione che lega il livello dei fabbisogni finanziari correnti ai volumi di attività dell’azienda e di conseguenza il cambiamento delle politiche gestionali. Inoltre è stata condotta l’analisi del livello di integrazione verticale attraverso la discriminazione dei costi sostenuti per la produzione interna e i costi sostenuti per l’affidamento della produzione a soggetti esterni: l’indice di riferimento è dato dal rapporto tra costi “interni” e il totale dei costi di produzione. Tale misura risulta più elevata laddove la struttura produttiva sia maggiormente verticalizzata, ovvero sia più esteso il controllo interno sulle fasi produttive, e più ridotta nel caso contrario. L’indicatore relativo alla produttività del fattore lavoro mette in risalto una dinamica negativa per entrambe le filiere produttive, la debole crescita della produzione interna è stata sostenuta da input di fattore lavoro in valore superiori(figura 4). FiguraErrore. L'origine riferimento non è stata trovata.: Evoluzione della produttività del lavoro e del capitale Il Piemonte, in particolare denota valori costantemente in calo e inferiori rispetto all’Emilia-Romagna, anche se il divario si è leggermente ridotto nel periodo analizzato. In tutti i raggruppamenti dimensionali e settoriali le imprese emiliano romagnole registrano valori superiori di produttività del 212 lavoro. Contrariamente alle attese e alla filiera motoristica, la produttività del lavoro delle imprese piemontesi non è correlata positivamente con la dimensione aziendale, ma presenta i valori massimi nella media e micro impresa. Quest’ultima classe dimensionale è l’unica ad aver incrementato l’indicatore in entrambe le regioni. La produttività del capitale, al contrario, evidenzia un sostanziale miglioramento in particolar modo se si considera la circostanza che nel 2001 e nel 2002 le immobilizzazioni tecniche avevano beneficiato delle rivalutazioni consentite dalla lg. 342/00. A livello complessivo le valutazioni inerenti il confronto territoriale sono simili a quelle relative alla produttività del lavoro. L’Emilia-Romagna registra valori superiori, ma la crescita maggiore si è manifestata in Piemonte. Per quanto concerne la ripartizione dimensionale le medie e grandi imprese hanno registrato le performance migliori in entrambe le regioni. La figura 5 mostra la relazione tra variazioni di produttività del lavoro e del capitale fisico in termini di immobilizzazioni tecniche nette. Il posizionamento della maggior parte dei comparti lungo la linea tratteggiata, che rappresenta le medesime variazioni dei due indicatori, mostra una sorta di relazione stabile tra le due misure di produttività. I settori posti al di sotto della linea tratteggiata evidenziano incrementi minori del costo del personale rispetto all’impiego del capitale immobilizzato tecnico, ma tale situazione si è verificata significativamente solo in due casi: i settori OEM e gomma-plastica-chimica piemontesi. Considerazioni opposte valgono per i settori al di sopra della linea tratteggiata, in particolare per i componentisti e le imprese specializzate nella lavorazione dei metalli per entrambe le regioni. Figura 5: Variazioni della produttività del lavoro e del capitale (2001–2004) 213 Ad eccezione degli studi di ingegneria piemontesi e i produttori della gomma-plastica-chimica emiliano romagnoli, unici a incrementare contemporaneamente entrambi gli indicatori, i rimanenti comparti delle due filiere ricadono negli stessi quadranti e con una relativa prossimità, segno di una comune politica operativa. Come evidenziato dalla figura, i comparti in cui il Piemonte eccede in entrambi gli indicatori di produttività sono gli studi di ingegneria e i componentisti, mentre l’Emilia-Romagna prevale nei produttori di gomma-plastica-chimica e di metalli. In figura 6 è stato riportato il rapporto capitale circolante netto operativo su fatturato all’inizio e alla fine del periodo analizzato. La linea tratteggiata indica situazioni di invarianza dell’indicatore tra il 2001 e il 2004, il posizionamento ravvicinato a tale linea di gran parte dei settori che compongono le filiere dell’auto piemontese e motoristica emiliano-romagnola, evidenzia una sostanziale costanza delle politiche complessive di gestione riguardanti le scorte di magazzino, i crediti e i debiti operativi, vale a dire le politiche commerciali, di gestione dei processi e dei programmi produttivi, di approvvigionamento, gestione degli acquisti e dei materiali. Figura 6: Rapporto circolare netto operativo su fatturato 214 I settori collocati al di sotto della linea tratteggiata hanno registrato miglioramenti nel fabbisogno finanziario corrente, vale a dire unicamente il comparto miscellaneo e la gomma-plastica-chimica del Piemonte. In posizione opposta si collocano le imprese della meccanica emiliano-romagnola, gli OEM e i produttori di metallo piemontesi. È da osservare che gli OEM piemontesi registrano sensibilmente il minor fabbisogno finanziario corrente in relazione al volume di fatturato, addirittura nel 2001 tale rapporto era negativo, vale a dire che i debiti operativi erano superiori al valore del magazzino e dei crediti operativi. Rispetto alle precedenti analisi degli indicatori di bilancio su base settoriale, la valutazione delle politiche gestionali presenta una netta differenziazione territoriale solo in parte dovuta alle economia di scala maggiormente presenti nella filiera dell’auto piemontese. Il fabbisogno finanziario corrente per sostenere l’attività produttiva e di vendita è sensibilmente inferiore in tutti comparti piemontesi rispetto ai pari classificati emiliano-romagnoli. Nella tabella 6 sono presentati i divari tra i livelli di integrazione verticale dei singoli raggruppamenti. Si tratta di indicazioni assai utili al fine di 215 comprendere le politiche di organizzazione della produzione industriale. Si osserva, inoltre, che il modello adottato per la misurazione del grado di integrazione verticale dipende dall’entità degli ammortamenti e, quindi, dalle scelte di rivalutazione monetarie dei cespiti adottate dalle imprese. Il grado di integrazione delle imprese dell’auto e della motoristica ammonta a circa 23–24%. Ciò significa che il 23–24% circa dei costi di produzione sono di natura interna, ovvero riflettono processi di trasformazione controllati e gestiti internamente. In Piemonte l’indicatore risulta stabile nel tempo per cui non si evidenzia una tendenza specifica alla verticalizzazione o deverticalizzazione, nemmeno in conseguenza dell’inizio delle difficoltà congiunturali nel 2001. In Emilia-Romagna, invece, soprattutto nell’ultimo biennio, si è registrata una sensibile propensione a trasferire parte del processo produttivo verso l’esterno. Come era atteso il grado di integrazione si riduce al crescere delle dimensioni aziendali. Il divario di aggira su un significativo 10%, con dati tendenziali non molto significativi, eccezion fatta per le micro imprese che hanno ridotto in entrambe le regioni la quota di produzione interna. Data la natura di servizio, il raggruppamento degli studi di ingegneria dovrebbero essere il comparto più integrato verticalmente, dal momento che tali imprese non presentano nei loro conti economici, o solo in minima parte, costi per l’acquisizione di materiali e materie prime. La maggior parte dei loro costi si riferisce a fattori interni alla gestione operativa, come il costo del lavoro. Tale risultanza si verifica solo in Piemonte, con valori intorno al 45%, in Emilia-Romagna gli studi di ingegneria, pur essendo di dimensione minore, tendono in misura maggiore ad assegnare verso l’esterno parti delle commesse ottenute. Tra gli altri comparti significativi differenziali si registrano per le imprese della gomma-plastica-chimica e la lavorazione dei metalli in cui le imprese emiliane-romagnole registrano gradi di integrazione superiori di circa 6-7 punti percentuali. In particolare è da segnalare il comportamento degli OEM. Nel 2001 sia in Piemonte che in Emilia-Romagna erano stati registrati valori simili e sensibilmente inferiore ai valori medi, rispettivamente 16,5% e 18,4%. Al termine del quadriennio analizzato, gli OEM piemontesi hanno attuato processi di insorcing, incrementando il grado di verticalizzazione di 6,6 punti percentuali, le OEM emiliano romagnole hanno, invece, ulteriormente sviluppato le politiche di outsourcing. Per quest’ultime imprese solo il 17,5% dei costi è di natura interna. 216 3 Analisi della struttura finanziaria e dell’equilibrio patrimoniale Il presente paragrafo si concentra inizialmente sull’analisi della dinamica della struttura finanziaria, intesa come composizione delle fonti di finanziamento suddivise in capitale proprio (o patrimonio netto) e debito. Quest’ultimo aggregato, data la sua composizione eterogenea, è stato ulteriormente scomposto sulla base dei seguenti due criteri: natura delle fonti di finanziamento: finanziaria o operativa; durata delle fonti di finanziamento: breve termine (scadenza entro l’anno), lungo termine (scadenza oltre l’anno). La dinamica delle voci componenti il passivo patrimoniale può essere sintetizzata nell’indice di consolidamento del debito (debiti a lungo termine su totale debiti) e l’indicatore di dipendenza finanziaria (totale mezzi finanziari di terzi su totale passività) che mette in evidenza il grado di esposizione finanziaria complessiva delle imprese. L’analisi dell’equilibrio patrimoniale trae, invece, spunto dalla considerazione di due indicatori: indice di copertura delle immobilizzazioni e indice di liquidità. Il primo (passività consolidate su capitale fisso) attiene all’equilibrio delle componenti patrimoniali a lungo termine, ed, in particolare, fornisce indicazioni in merito alla capacità delle imprese di garantire un’adeguata copertura finanziaria del capitale immobilizzato attraverso passività consolidate (patrimonio netto e debiti a medio-lunga scadenza). Il secondo (liquidità immediate e differite su passività correnti) attiene, invece, alla gestione delle voci correnti patrimoniali, verificando, nello specifico, se le risorse liquide immediate e differite siano in grado di far fronte agli impegni a breve scadenza. La considerazione congiunta di questi indicatori permette di offrire un giudizio sull’equilibrio della struttura patrimoniale. Tale giudizio si articola nelle seguenti quattro categorie di imprese: equilibrate: caratterizzate da indice di copertura delle immobilizzazioni compreso tra 1 e 3 ed indice di liquidità compreso tra 0,6 e 1,4; · sbilanciate: caratterizzate da indice di copertura delle immobilizzazioni superiore a 1 ed indice di liquidità superiore a 1, con esclusione delle imprese già definite equilibrate; · 217 instabili: caratterizzate da indice di copertura delle immobilizzazioni superiore a 1 ed indice di liquidità inferiore a 1, con esclusione delle imprese già definite equilibrate; · squilibrate: caratterizzate da indice di copertura delle immobilizzazioni inferiore a 1. · I grafici riportati in figura 7 utilizzano come base l’anno 2001 (fatto pari a 100) e mostrano una dissimile evoluzione delle diverse componenti finanziarie in particolar modo per quanto concerne la durata dei finanziamenti esterni e il capitale di rischio. In Piemonte emerge chiaramente una forte propensione al consolidamento del debito per entrambe le componenti, mentre in Emilia-Romagna la dilazione del debito ha interessato solo e in misura limitata i debiti finanziari. Nel quadriennio considerato, infatti, i debiti di lungo periodo sono aumentati nella filiera piemontese del 37,1% rispetto al 6,5% dell’Emilia-Romagna, mentre i debiti di breve termine sono cresciuti solo del 4,6% in Piemonte contro il 13,1% della filiera motoristica emiliano romagnola. Tale difforme dinamica delle diverse componenti del debito ha portato ad una convergenza tra i due campioni di imprese, riducendo il differenziale del rapporto di consolidamento del debito. Nel 2001 il rapporto debiti a lungo termine su totale debiti era circa la metà in Piemonte rispetto all’Emilia-Romagna (rispettivamente 8,3% e 16,0%). Nel 2004 è leggermente aumentato in Piemonte (10,7%) ed è, invece, diminuito in Emilia-Romagna (15,2%). 218 Figura 7: Dinamica delle componenti del passivo patrimoniale Come anticipato, in Piemonte il consolidamento del debito ha interessato entrambe le fonti di finanziamento e in particolar modo i debiti finanziari; quelli a breve scadenza sono diminuiti dell’8,3%, mentre quelli di lungo periodo sono aumentati del 27,2%. Tale risultato ha interessato tutte le classi dimensionali e in particolare i componentisti e i produttori della gomma-plastica-chimica. Il consolidamento del debito finanziario si è manifestato, invece, solo in parte in Emilia-Romagna, che ha registrato una minima diminuzione dei debiti finanziari di breve periodo (-1,8%) e un ridotto incremento di quelli di lungo periodo (+7,7%), ed è stato inficiato dalla maggiore crescita delle fonti di natura commerciale. Infatti, i debiti operativi sono aumentati del 15,4% contro il 10,4% del Piemonte. Mediamente i debiti commerciali sono cresciuti in misura maggiore rispetto ai debiti finanziari in entrambe le regioni. È interessante osservare che la dinamica evolutiva delle fonti debitorie è stata simile nelle classificazioni dimensionali e settoriali delle due filiere. Nelle medie e grandi imprese e nei comparti della componentistica, gomma-plastica-chimica e lavorazione metalli è prevalsa la crescita delle fonti operative rispetto ai debiti finanziari. Le uniche eccezione riguardano gli OEM e gli studi di ingegneria che in Piemonte hanno beneficiato ampiamente del sostegno del mercato finanziario, evenienza che non si è manifestata in Emilia-Romagna. La filiera motoristica emiliano-romagnola evidenzia in particolar modo una maggior propensione verso la ricapitalizzazione del patrimonio netto cresciuto del 17,7%, mentre nella filiera dell’auto piemontese il capitale proprio è aumentato solo del 3,6%. Tale divergenza, tuttavia, è da attribuire 219 interamente alla grande impresa piemontese che ha registrato una diminuzione del capitale di rischio del 6,5%, mentre gli altri raggruppamenti dimensionali hanno denotato performance simili alle pari imprese emiliano romagnole. La figura 7 evidenzia, inoltre, che in Piemonte i debiti, sia a breve che a lungo termine, sono aumentati in misura maggiore rispetto al capitale proprio, mentre in Emilia-Romagna si è verificata la situazione opposta. Tale evoluzione è sintetizzabile dall’indice di indipendenza finanziaria che è peggiorato in Piemonte di 0,5 punti percentuali, dal 70,5% a 71,0%, mentre in Emilia-Romagna è migliorato di un punto percentuale, dal 66,1 al 65,1%. Le imprese della filiera dell’auto piemontese dipendono maggiormente dalle fonti esterne rispetto alle imprese della filiera motoristica emiliano romagnola, circa 6 punti percentuali. Il gap è evidente soprattutto nella grande impresa, 71,2% in Piemonte, 62,2% in Emilia-Romagna. L’evoluzione delle fonti patrimoniali nelle sue diverse componenti non può essere svincolata dal confronto della dinamica del capitale investito, immobilizzato e circolante, al fine di valutare complessivamente l’equilibrio patrimoniale di breve e di lungo periodo. Nella tabella 7 vengono riportate le frequenze relative ai vari giudizi di equilibrio patrimoniale negli anni 2001 e 2004. La maggioranza relativa delle imprese delle due filiere mostra condizioni patrimoniali equilibrate nel 2004 (40,8% in Piemonte e 34,5% in Emilia-Romagna) e rispetto al 1999 in crescita soprattutto nella regione subalpina. Il miglioramento dell’equilibrio patrimoniale è particolarmente evidente nella forte riduzione delle imprese che presentano squilibrio strutturale, circostanza che si è manifestata in forma più marcata e diffusa in Piemonte. Le imprese che presentano insufficienza di fonti di finanziamento stabilmente legate all’impresa, tale da generare un indice di copertura delle immobilizzazioni inferiore ad 1, si sono ridotte in Piemonte dal 29,9% al 21,2%, e in Emilia-Romagna dal 24,8% al 18,1%. In linea di massima si è assistito ad un passaggio dalle situazioni più critiche con squilibri patrimoniali generalizzati o limitati al breve periodo, a posizioni più rassicuranti. È da segnalare, tuttavia, la presenza in entrambe le filiere, e soprattutto in Emilia-Romagna, di un cospicuo, e in sensibile aumento, numero di imprese che utilizzano in modo smisurato le fonti consolidate non per la copertura degli investimenti immobilizzati, ma per finanziare impropriamente le attività di capitale circolante. Malgrado i sensibili miglioramenti, in Piemonte le aziende più a rischio sono le grandi imprese e i componentisti (circa il 30% del raggruppamento). In Emilia-Romagna, invece, presentano le strutture più squilibrate le micro 220 imprese e i produttori di metalli. Tra i più virtuosi troviamo gli OEM piemontesi, i componentisti emiliano romagnoli, e, indifferentemente dalla regione di localizzazione, i produttori della gomma-plastica-chimica. 4 Analisi della redditività industriale Il presente paragrafo è focalizzato sulla redditività industriale (ROI; margine operativo netto su capitale investito netto operativo), relativa all’attività caratteristica delle imprese, ed in particolare sull’analisi delle componenti di tale redditività, e sulla redditività del capitale proprio (ROE; risultato d’esercizio su capitale proprio e fondi rischi). La redditività industriale viene normalmente scomposta in: il ROS, margine sulle vendite (margine operativo netto su fatturato), che misura il grado di efficienza delle imprese; · il ROT, indice di rotazione del capitale investito (fatturato su capitale investito netto nell’area industriale), che indica le velocità di trasformazione del capitale investito in introiti derivanti dalla vendita dei prodotti e/o servizi. · L’analisi della redditività evidenzia le maggiori discordanze tra le due filiere. Infatti, per entrambi gli indicatori si è determinata una dinamica divergente ampliando il già consistente gap iniziale (figura 8). In Emilia-Romagna il ROI industriale è rimasto pressoché costante, recuperando interamente le difficoltà manifestatesi nel 2003, e il ROE è aumentato di 2,2 punti percentuali. In Piemonte, invece, sia il ROI industriale che il ROE sono diminuiti rispettivamente di 1 e 1,9 punti percentuali. In tal modo per la filiera dell’auto piemontese la dinamica reddituale ha determinato che complessivamente i pressoché nulli profitti di inizio periodo si siano tramutati in valori negativi. In particolare hanno contribuito a questo risultato le grandi imprese (ROE2004= -5,42%), i componentisti (ROE2004= -1,23%), la meccanica (ROE2004= -27,4%). Tutti i raggruppamenti dimensionali e settoriali piemontesi, con eccezione dei produttori di metalli per entrambi gli indicatori e la gomma-plastica-chimica per il ROI industriale, denotano risultati inferiori a quelli della filiera motoristica emiliano-romagnola. Figura 8: Evoluzione della redditività del capitale investito netto operativo e del capitale proprio 221 Rispetto ai relativi valori medi regionali eccellono in entrambi i campioni le micro imprese, le imprese specializzate nella gomma-plastica-chimica e gli studi di ingegneria, nonché le piccole imprese e i produttori di metalli in Piemonte, le medie imprese e le aziende specializzate nella lavorazione di metalli in Emilia-Romagna. Tranne che per i produttori di metallo non si registrano in Emilia-Romagna posizioni reddituali particolarmente sfavorevoli (Tabelle 8 e 9). In tutti gli anni analizzati e in entrambe le filiere i valori di ROI industriale risultano indirettamente proporzionali rispetto alla dimensione aziendale. Ad esempio nel 2004, il ROI delle micro imprese era in Piemonte pari al 6,2% e in Emilia-Romagna del 7,7%, nelle piccole e medie imprese erano rispettivamente circa il 5% e il 6,5%, nelle grandi erano pari all’1,5% e il 5,1%. Tale relazione si verifica in Piemonte anche nel caso della redditività del capitale proprio, mentre in Emilia-Romagna solo le micro imprese si differenziano sensibilmente dalla media regionale. La scomposizione del ROI industriale consente di analizzare più in profondità i fattori che hanno condizionato la redditività delle filiere analizzate. Il ROS esprime la politica economico-gestionale dell’impresa tramite la capacità dell’impresa di estrarre profitti dalle proprie vendite, attraverso un adeguato contenimento dei costi operativi. Il ROT, invece, sintetizza la velocità di recupero del capitale investito nella gestione operativa. 222 Come evidenzia la figura 9, nel 2004, ad eccezione dei produttori di metalli e degli studi di ingegneria, tutti i comparti della filiera motoristica emiliano-romagnola, evidenziano, rispetto alle pari specializzate imprese piemontesi, livelli superiori di margine superiore delle vendite e inferiori nella rotazione del capitale investito segno da un lato di una migliore efficienza nella gestione dei costi e di un apprezzamento da parte del mercato, e dall’altro lato di un minor capacità di trasformazione del capitale investito in ricavi di vendita. Unanime giudizio positivo per entrambi gli indicatori, in confronto al rispettivo benchmark regionale, spetta solo ai produttori di metalli piemontesi e agli studi di ingegneria emiliano romagnoli. Figura 9: Composizione della redditività industriale (2004) La dinamica delle due componenti della redditività industriale è meglio evidenziata nella figura 10 la quale presenta le variazioni quadriennali del ROS e del ROT per tutti i raggruppamenti settoriali di imprese. 223 Il posizionamento ravvicinato sulla figura dei comparti delle due filiere aventi medesima specializzazione segnala l’attuazione di medesime strategie operative. Tale situazione si è manifestata in particolar modo per le imprese della gomma-plastica-chimica e i componentisti che sono stati gli unici settori ha ottenere performance positive per entrambi gli indicatori, i produttori di metallo e in parte le imprese specializzate nella lavorazione di metalli. I rimanenti settori evidenziano gap considerevoli in un solo indicatore: gli OEM in entrambi i campioni registrano una variazione del ROS minima mentre nella rotazione del capitale investito gli OEM piemontesi denotano un forte calo (-24,7%) e quelli emiliano-romagnoli un leggero incremento (+4,3%).; · gli studi di ingegneria, simile calo per il ROT ma incremento del ROS per gli studi di ingegneria piemontesi (+1,4 punti percentuali) e sensibile calo per gli emiliano romagnoli (-4,9 punti percentuali); · o in entrambi gli indicatori: · la meccanica dove per i piemontesi il considerevole calo del ROS (-5,7 punti percentuali) è stato compensato da un aumento dell’indice di rotazione del capitale investito operativo, mentre per i meccanici emiliano romagnoli il calo di redditività è stato determinato da entrambi gli indicatori. Figura 10: Variazioni del ROS e del ROT (2001–2004) 224 5 Conclusioni Le valutazioni riportate nel capitolo precedente in merito alla dinamica economico-finanziaria evidenziano una situazione complessivamente più favorevole per la filiera motoristica emiliano-romagnola rispetto alla filiera dell’auto piemontese, soprattutto per quanto riguarda l’evoluzione dell’attività produttiva e in misura minore per quanto concerne la posizione finanziaria. Lo scarto è particolarmente evidente negli indicatori di sviluppo quali la crescita del valore aggiunto, degli investimenti tecnici netti, soprattutto quelli in ricerca e sviluppo, e dell’occupazione, e gli indici della produttività del lavoro e della situazione reddituale sia in termini assoluti che dinamici. Le imprese piemontesi eccellono unicamente nella relazione tra capitale circolante netto operativo e fatturato e in un miglior equilibrio fonti-impieghi di lungo e di breve periodo. Quest’ultimo risultato è stato ottenuto in Piemonte grazie al progressivo consolidamento del debito, in particolar modo quello di natura finanziaria, tale da ridurre il gap tra le due regioni nel rapporto tra debiti a lungo termine e debiti a breve. 225 Il netto differenziale tra le due filiere in termini di indici di bilancio induce a ritenere che il modello multisettore e multiprodotto emiliano-romagnolo abbia registrato nel periodo analizzato risultati più performanti rispetto al sistema monospecializzato piemontese nel quale la crisi del settore finale si è riverberata inevitabilmente sulla sottostante struttura della fornitura, soprattutto sui primi livelli della catena della fornitura. I risultati in cui la filiera dell’auto piemontese denota performance minori sono in larga parte condizionati dalla grande impresa che registra variazioni degli indicatori sensibilmente inferiori rispetto alle altre classi dimensionali. In merito sempre al confronto dimensionale nei due campioni di imprese, in generale, le micro imprese si equivalgono e denotano complessivamente i risultati migliori, le piccole imprese ottengono performance superiori in Piemonte, mentre le medio imprese e, ovviamente le grandi imprese, in Emilia-Romagna. È da segnalare, altresì, che i dati relativi al campione piemontese evidenziano una maggior variabilità, il dato medio è la risultante di un numero maggiore di imprese con risultati estremamente negativi o positivi. In generale il presente contributo mette in discussione l’equazione per la quale la piccola dimensione di impresa rappresenta un limite strutturale rispetto alla possibilità di puntare sull’innovazione attraverso l’investimento in ricerca e sviluppo. Così come sopra descritto sono al contrario proprio le PMI, spesso distanti dal mercato di sbocco, a rappresentare una delle leve centrali a sostegno degli investimenti in ricerca e sviluppo all’interno delle filiere di prodotto. Per quanto riguarda la classificazione settoriale gli indicatori di bilancio evidenziano nelle due filiere risultati generalmente simili segno di una comune tendenza e simili politiche operative, le principali eccezioni sono relative ai produttori di gomma-plastica-chimica e agli original equipment manufactures. Rispetto ai pari specializzati, in termini dinamici i comparti piemontesi che hanno registrato i risultati migliori sono stati unicamente gli studi di ingegneria e, con un differenziale minore, i componentisti. Nei rimanenti settori prevalgono le imprese emiliano-romagnole. È doveroso segnalare che per quanto concerne i produttori di gomma-plastica-chimica e agli original equipment manufactures, per i quali si registrano i risultati più discordanti nelle due filiere, le limitate performance piemontesi non interessano gli investimenti in immobilizzazioni tecniche nette segno di una profonda trasformazione in atto e di una significativa fiducia riposta nel futuro. 226 La ripartizione settoriale tra comparti il cui core business è direttamente connesso ai settore automobilistico e motoristico, tra cui rientrano (OEM, componentisti e gomma-plastica-chimica) e comparti funzionali (lavorazione metalli, produzione metalli, meccanica specializzata, servizi e studi di ingegneria) consente di evidenziare alcuni aspetti di particolare interesse nella comparazione tra le due filiere. Come anticipato le principali divergenze riguardano i comparti maggiormente dipendenti dalla natura merceologica delle filiere, vale a dire quelli al vertice della catena della fornitura. Gli OEM e i componentisti della gomma e plastica prevalgono in misura evidente in Emilia-Romagna, mentre i componentisti, sebbene in proporzione minore, in Piemonte. Tale risultato dipende inevitabilmente dalla struttura produttiva dei sistemi regionali messi a confronto. La filiera emiliano-romagnola è più diversificata di quella piemontese e consente in questo modo di mediare la performance economica complessiva. La soddisfacente performance dei componentisti piemontesi evidenzia il ruolo di preminenza assunto da questo comparto rispetto agli assemblatori finali. Tra i settori funzionali, invece, i cui rientrano principalmente i fornitori di secondo e terzo livello, l’unico comparto che si differenzia è quello relativo ai servizi e studi di ingegneria in cui eccellono le imprese piemontesi. Per gli altri comparti tale risultato è congruente. I settori meno funzionali alle filiere dell’automotive e della motoristica hanno maggiori possibilità di seguire politiche di diversificazione e, in situazioni di crisi, cercare nuovi mercati di sbocco. La distinzione per i design piemontesi è dovuta essenzialmente alla capacità di queste imprese di operare a livello globale e di dipendere in misura minore dalle alterne circostanze locali. L’analisi economica-finanziaria delle imprese appartenenti alla filiera dell’auto piemontese e della filiera motoristica emiliano-romagnola ha interessato la serie storica dei bilanci aziendali degli ultimi quattro anni disponibili, dal 2001 al 2004. Tale periodo è stato indubbiamente condizionato dalla situazione congiunturale dei mercati finali, e in Piemonte in particolar modo dalla situazione finanziaria di Fiat Auto. Nel momento in cui questo testo è stato consegnato alla stampa, il gruppo automobilistico torinese sta sperimentando una prolungata e favorevole fase produttiva sostanzialmente superiore a quella dei suoi principali concorrenti. Sarà interessante valutare in futuro le possibili ripercussioni sulla filiera piemontese e soprattutto verificare se perdura una stretta concordanza nei risultati economici, come si è avuto modo di verificare in questo contributo, innanzitutto con i primi livelli della catena della fornitura. 227 Tabella 3: Valore aggiunto (valori medi per impresa) Totale Micro imprese Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese OEM Componentisti Gomma-plastica-chimica Lavorazione metalli Produzione metalli Meccanica Studi di ingegneria Altri comparti Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna 2001 2002 2003 2004 6.559 3.939 591 543 1.577 1.535 5.753 5.585 51.632 40.401 21.757 11.191 9.341 4.563 8.293 1.405 3.569 1.983 3.517 2.122 5.247 2.052 2.271 1.195 6.803 6.943 6.457 3.964 627 592 1.699 1.548 5.902 5.729 49.105 39.970 21.311 11.266 9.387 4.600 8.024 1.501 3.520 1.980 3.107 2.280 4.899 1.976 2.594 1.276 6.894 6.812 6.655 3.857 651 615 1.708 1.555 5.808 5.739 51.710 37.535 20.903 10.514 10.036 4.544 7.543 1.541 3.582 1.975 3.196 2.220 5.154 1.759 2.568 1.336 7.219 7.427 6.714 4.189 695 662 1.851 1.646 6.030 6.330 50.781 40.880 20.256 11.641 10.422 4.959 8.156 1.676 3.734 2.166 3.187 2.395 4.317 1.768 2.837 1.325 7.306 7.675 D04–01 D04–03 2,4% 6,3% 17,7% 22,0% 17,4% 7,3% 4,8% 13,3% -1,6% 1,2% -6,9% 4,0% 11,6% 8,7% -1,6% 19,2% 4,6% 9,3% -9,4% 12,9% -17,7% -13,9% 24,9% 10,9% 7,4% 10,5% 0,9% 8,6% 6,9% 7,6% 8,4% 5,9% 3,8% 10,3% -1,8% 8,9% -3,1% 10,7% 3,8% 9,1% 8,1% 8,7% 4,2% 9,7% -0,3% 7,9% -16,2% 0,5% 10,5% -0,8% 1,2% 3,3% Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio Tabella 4: immobilizzazioni tecniche nette (valori medi per impresa) Totale Micro imprese Piccole imprese Medie imprese Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna 2001 2002 2003 2004 5.234 2.928 451 375 1.091 1.002 4.367 3.794 4.903 2.851 475 414 1.171 1.005 4.179 3.751 5.072 2.955 505 436 1.246 1.072 4.121 3.882 4.917 3.000 543 446 1.246 1.120 4.072 4.037 D04–01 D04–03 -6,1% 2,4% 20,4% 18,7% 14,3% 11,8% -6,8% 6,4% -3,1% 1,5% 7,5% 2,1% 0,0% 4,4% -1,2% 4,0% 228 Grandi imprese OEM Componentisti Gomma-plastica-chimica Lavorazione metalli Produzione metalli Meccanica Studi di ingegneria Altri comparti Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna 42.963 33.040 19.202 9.771 8.499 3.366 4.103 1.180 3.245 1.402 1.870 2.353 3.766 955 980 480 5.835 2.464 38.951 31.396 16.640 9.743 7.922 3.232 4.274 1.177 3.028 1.322 2.037 2.596 3.489 916 1.183 489 5.033 1.997 40.659 32.184 20.172 10.666 7.847 3.190 4.479 1.186 3.027 1.408 1.840 2.554 4.026 910 1.231 694 4.865 4.659 38.844 31.959 23.228 10.952 7.810 3.278 5.136 1.287 2.573 1.305 1.827 2.680 3.330 921 1.187 616 4.324 3.842 2001 2002 2003 2004 4.441 2.384 426 370 1.118 978 3.851 3.493 34.441 23.115 14.594 5.998 6.597 2.887 5.649 986 2.280 1.184 2.158 1.451 3.547 1.231 1.835 4.449 2.484 445 401 1.201 1.015 3.931 3.672 33.743 23.935 14.289 6.332 6.776 3.024 5.547 992 2.300 1.209 1.966 1.531 3.378 1.244 2.063 4.646 2.561 456 422 1.239 1.044 4.009 3.818 35.634 24.541 14.805 6.463 7.186 3.141 5.567 1.014 2.331 1.240 2.134 1.547 3.664 1.250 2.065 4.736 2.706 479 449 1.305 1.104 4.158 4.049 35.830 25.841 14.288 6.868 7.523 3.329 5.468 1.070 2.479 1.301 2.211 1.671 3.474 1.255 2.211 -9,6% -3,3% 21,0% 12,1% -8,1% -2,6% 25,2% 9,1% -20,7% -6,9% -2,2% 13,9% -11,6% -3,5% 21,1% 28,4% -25,9% 55,9% -4,5% -0,7% 15,1% 2,7% -0,5% 2,8% 14,7% 8,5% -15,0% -7,3% -0,7% 4,9% -17,3% 1,3% -3,6% -11,3% -11,1% -17,5% Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio Tabella 5: costo del lavoro (valori medi per impresa) Totale Micro imprese Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese OEM Componentisti Gomma-plastica-chimica Lavorazione metalli Produzione metalli Meccanica Studi di ingegneria Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte D04–01 D04–03 6,6% 13,5% 12,4% 21,3% 16,8% 12,8% 8,0% 15,9% 4,0% 11,8% -2,1% 14,5% 14,0% 15,3% -3,2% 8,5% 8,7% 9,9% 2,5% 15,2% -2,1% 1,9% 20,5% 2,0% 5,7% 5,1% 6,5% 5,4% 5,8% 3,7% 6,1% 0,6% 5,3% -3,5% 6,3% 4,7% 6,0% -1,8% 5,6% 6,3% 5,0% 3,6% 8,0% -5,2% 0,4% 7,1% 229 Altri comparti Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna 605 3.977 4.320 674 4.003 4.112 770 4.036 4.164 826 4.270 4.442 36,5% 7,4% 2,8% 7,3% 5,8% 6,7% Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio Tabella 6: grado di integrazione verticale (valori percentuali) Totale Micro imprese Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese OEM Componentisti Gomma-plastica-chimica Lavorazione metalli Produzione metalli Meccanica Studi di ingegneria Altri comparti Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna 2001 2002 2003 2004 24,0 25,3 39,4 33,0 29,0 27,9 26,1 23,3 22,5 25,1 16,5 18,4 24,5 27,7 24,2 30,8 23,8 31,5 27,7 31,3 26,0 26,2 47,6 24,5 23,7 30,1 24,1 25,0 34,8 31,5 30,0 27,4 26,7 23,1 22,4 24,9 18,7 18,4 23,7 27,0 24,2 31,8 25,5 31,7 26,6 30,8 26,2 27,6 49,1 24,0 22,9 30,2 23,9 24,8 33,8 30,4 29,7 27,3 27,0 23,1 22,1 24,6 18,3 18,5 23,7 26,7 23,9 30,8 24,3 31,1 28,6 29,1 26,1 27,2 44,7 23,0 23,0 31,3 24,1 23,6 32,1 28,7 29,0 26,4 25,5 22,0 22,8 23,1 23,1 17,5 24,4 25,3 21,0 29,4 23,3 28,7 26,7 28,3 26,5 26,8 44,1 23,4 23,1 30,5 D04–01 D04–03 0,1 -1,7 -7,3 -4,3 0,0 -1,4 -0,6 -1,3 0,3 -2,0 6,6 -1,0 -0,1 -2,4 -3,2 -1,4 -0,6 -2,9 -1,1 -3,0 0,6 0,6 -3,5 -1,1 -0,5 0,4 0,2 -1,3 -1,7 -1,6 -0,7 -0,9 -1,5 -1,1 0,8 -1,5 4,8 -1,0 0,7 -1,4 -2,9 -1,4 -1,0 -2,4 -2,0 -0,8 0,5 -0,4 -0,7 0,4 0,2 -0,8 Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio Tabella 7: equilibrio fonti-impieghi (percentuali di imprese)* Squilibrate 2001 2004 Instabili 2001 2004 Sbilanciate 2001 2004 Equilibrate 2001 2004 230 Totale Micro imprese Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese OEM Componentisti Gomma-plastica-chimica Lavorazione metalli Produzione metalli Meccanica Studi di ingegneria Altri comparti Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna 29,9 24,8 38,1 36,0 28,1 22,6 24,8 21,2 40,8 4,5 41,7 20,6 30,7 27,0 34,2 40,0 25,2 17,8 25,0 34,6 30,5 21,2 34,6 23,5 31,3 16,7 21,2 18,1 22,7 23,4 19,8 19,7 20,1 9,4 30,6 9,1 16,7 20,6 27,1 18,6 13,7 20,0 22,6 11,0 12,5 34,6 16,9 18,2 23,1 17,6 21,9 0,0 10,9 15,3 9,3 15,3 13,2 15,0 10,1 18,8 2,0 4,5 0,0 14,7 18,1 15,3 2,7 13,3 6,5 8,2 12,5 3,8 13,6 24,2 11,5 35,3 6,3 0,0 9,2 11,7 10,3 14,4 11,6 10,3 6,7 14,1 0,0 4,5 8,3 17,6 12,0 14,9 9,6 0,0 3,9 2,7 6,3 3,8 11,9 16,7 7,7 5,9 12,5 0,0 24,4 25,7 29,9 24,3 24,1 27,8 23,5 23,5 18,4 18,2 16,7 26,5 17,5 18,1 28,8 6,7 32,9 42,5 31,3 26,9 21,2 31,8 19,2 29,4 25,0 50,0 28,8 35,6 34,0 37,8 26,1 34,2 30,9 38,8 28,6 27,3 25,0 38,2 19,3 26,5 26,0 33,3 34,8 52,1 50,0 26,9 33,9 40,9 30,8 52,9 25,0 83,3 34,8 34,3 22,7 24,3 34,7 34,6 41,6 36,5 38,8 72,7 41,7 38,2 33,7 39,5 34,2 40,0 35,5 31,5 31,3 34,6 34,7 22,7 34,6 11,8 37,5 33,3 40,8 34,5 33,0 24,3 42,6 35,9 42,3 37,6 40,8 59,1 50,0 23,5 41,6 40,0 50,7 46,7 38,7 34,2 31,3 34,6 37,3 24,2 38,5 23,5 40,6 16,7 * Totale riga per anno = 100 Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio Tabella 8: redditività industriale (valori percentuali) Totale Micro imprese Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese OEM Componentisti Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna 2001 2002 2003 2004 3,8 6,1 4,6 8,2 5,6 7,4 4,6 5,9 3,2 5,6 4,5 4,6 1,5 6,2 3,3 5,7 5,9 8,2 5,4 7,1 5,2 5,6 2,2 5,1 4,7 4,5 0,9 5,6 3,4 4,6 5,6 7,0 4,5 6,3 4,2 4,8 2,9 3,6 3,2 3,0 2,2 5,0 2,8 5,8 6,2 7,7 5,0 6,6 4,7 6,3 1,5 5,1 2,6 4,4 1,6 6,4 D04–01 D04–03 -1,0 -0,3 1,6 -0,5 -0,5 -0,9 0,1 0,4 -1,7 -0,5 -1,9 -0,2 0,0 0,1 -0,6 1,3 0,7 0,7 0,6 0,3 0,5 1,5 -1,4 1,5 -0,6 1,4 -0,6 1,4 231 Gomma-plastica-chimica Lavorazione metalli Produzione metalli Meccanica Studi di ingegneria Altri comparti Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna 8,4 4,9 4,6 7,9 8,7 4,1 3,7 9,5 4,2 15,3 6,9 4,8 8,7 7,0 3,3 7,2 6,2 5,1 3,8 8,0 4,7 15,1 8,4 8,0 3,8 7,1 4,3 6,3 6,0 3,8 2,9 4,6 3,7 12,6 11,5 4,4 10,7 9,2 3,6 7,8 5,6 3,6 -3,1 5,0 5,6 9,1 11,9 6,0 2,3 4,3 -1,0 0,0 -3,1 -0,5 -6,8 -4,5 1,3 -6,2 5,0 1,2 6,9 2,1 -0,8 1,5 -0,5 -0,1 -6,1 0,4 1,8 -3,5 0,4 1,6 Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio Tabella 9: redditività del capitale proprio (valori percentuali) Totale Micro imprese Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese OEM Componentisti Gomma-plastica-chimica Lavorazione metalli Produzione metalli Meccanica Studi di ingegneria Altri comparti Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna Piemonte Emilia-Romagna 2001 2002 2003 2004 0,1 5,9 1,6 9,2 3,3 9,5 0,4 6,8 -0,5 4,4 6,0 1,7 -5,8 6,4 16,3 6,9 3,5 7,9 10,9 6,9 -3,6 14,1 -3,4 29,3 6,1 1,1 0,1 6,0 6,6 15,6 4,5 8,5 0,7 7,6 -0,8 4,1 7,3 1,5 -7,0 6,6 13,2 10,1 -0,2 9,6 4,7 7,9 5,8 10,3 -0,2 25,6 7,6 6,0 -0,8 3,4 5,2 8,9 1,3 5,4 1,8 4,8 -2,2 1,9 3,2 0,8 -0,9 3,8 -2,9 9,5 2,4 7,2 5,6 1,7 -12,8 3,0 1,2 24,3 10,9 2,7 -1,8 8,1 10,7 12,2 5,4 7,0 3,7 9,3 -5,4 7,7 0,9 9,4 -1,2 7,7 11,9 17,1 4,1 9,5 5,7 3,7 -27,4 8,5 8,0 10,9 17,2 1,0 Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio D04–01 D04–03 -1,9 2,2 9,1 3,0 2,1 -2,5 3,4 2,6 -4,9 3,3 -5,0 7,7 4,6 1,2 -4,4 10,1 0,6 1,6 -5,2 -3,2 -23,8 -5,5 11,4 -18,4 11,1 -0,1 -1,0 4,7 5,4 3,3 4,1 1,6 1,9 4,5 -3,2 5,8 -2,3 8,6 -0,3 3,8 14,8 7,6 1,7 2,3 0,1 2,0 -14,6 5,5 6,8 -13,3 6,3 -1,6 232 Bibliografia Bardi A., Garibaldo F., The Automobile Cluster in the Emilia-Romagna: Company Strategies and Organisational Evolution, prossimo pubblicazione su “The International Journal of Production Economics”. Bardi A., Bertini S. (a cura di) (2005), Dinamiche territoriali e nuova industria, Maggioli , Rimini. Bardi A., Garibaldo F. (eds.) (2005), Company strategies and organisational evolution in the automotive sector: a worldwide perspective, Peter Lang, Frankfurt. Bardi A. (2004), La nuova competizione oltre il distretto: il caso dell’Emilia-Romagna, in Garibaldo F., Telljohann V., Prospettive delle condizioni sociali e ruolo del lavoro nella società italiana, Maggioli, Rimini. Becattini G. (a cura di) (1987), Mercato e forze locali: il distretto industriale, Il Mulino, Bologna. Becattini G., Sengenberger W. (a cura di) (1991), Distretti industriali e cooperazione fra imprese in Italia, Banca di Toscana, Firenze. Brioschi F., Cainelli G. (2001) (a cura di), Diffusione e caratteristiche dei gruppi di piccole e medie imprese nelle aree distrettuali, Fondazione Giordano Dell’Amore, Giuffrè Editore, Milano. Brusco S. 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Il dibattito verte su alcuni interrogativi centrali: · Quali sono i meccanismi e le relazioni di causa che legano la dinamica evolutiva della transnazionalizzazione economica e aziendale e quella della rappresentanza dei lavoratori e le strategie sindacali? · Quali fattori (e a quale livello) sono utili a determinare la transnazionalizzazione delle relazioni industriali nelle aziende internazionali e quanto sono efficaci? · Fino a che punto sono diffusi gli strumenti esistenti per la rappresentanza dei lavoratori a livello aziendale globale? · Quali requisiti preliminari, in termini sia di struttura che di attori, devono essere presenti perché si realizzi un sistema di norme del lavoro che “travalichino i confini nazionali”? Il progetto di ricerca condotto dagli autori e basato sulla comparazione di studi di caso, persegue l’obiettivo di delineare alcune risposte iniziali a queste domande, certamente complesse. La ricerca ha esaminato due aziende che operano a livello globale in quattro settori industriali. Esse sono: · Due aziende chimiche tedesche: Bayer e BASF. · Due aziende alimentari: Nestlé (Svizzera) e Kraft Foods (USA). · Due società tedesche di servizi finanziari: Deutsche Bank e Allianz. 236 · Le due case automobilistiche tedesche, Volkswagen e DaimlerChrysler, su cui si incentra il presente contributo. Dopo una breve esposizione per contestualizzare lo sviluppo delle relazioni industriali transnazionali a livello globale, abbiamo messo a confronto Volkswagen e DaimlerChrysler, che possiamo considerare come pionieri nel campo delle relazioni industriali globali. In entrambi i casi, le strutture corporate transregionali hanno incentivato lo sviluppo di dispositivi globali nelle relazioni industriali a livello aziendale. In particolare, quasi contemporaneamente nelle due aziende sono stati siglati accordi per la creazione di comitati aziendali mondiali (world works councils) e un impegno per l’adozione di standard sociali minimi nell’intera struttura. Ci sono tuttavia differenze significative tra le due aziende per quanto riguarda l’importanza e la configurazione delle relazioni industriali a livello di gruppo, il che riflette le differenze esistenti nella strategia corporate e nella tradizione delle relazioni industriali. All’inizio degli anni 90, il gruppo Volkswagen si era già dato una struttura a rete composta da di società integrate globalmente. Questo cambiamento fondamentale di assetto nel suo profilo transnazionale ha prodotto due effetti rilevanti: in primo luogo, una crescente competizione all’interno del gruppo tra i diversi impianti produttivi per assicurarsi investimenti, nuovi modelli e allocazione di produzioni; in secondo luogo, una trasformazione dell’organizzazione delle funzioni e delle responsabilità all’interno del gruppo. In particolare, dai primi anni 90, la strategia di piattaforma e la conseguente standardizzazione globale della produzione e degli standard delle tecnologie di processo hanno eliminato il tradizionale gap di ‘modernità’ esistente tra le unità operative del gruppo in Germania e nel resto del mondo, esponendo quindi tutti gli impianti, all’interno della rete produttiva integrata globalmente, a una competizione sistematica su costi, produttività e modernizzazione. In contrasto, il gruppo DaimlerChrysler è più tedesco-americano che globale. Lo sviluppo e l’espansione del gruppo DaimlerChrysler-Mitsubishi rappresentano una strategia da triade, per la quale i tre mercati principali vengono riforniti con marques diverse e da aziende che operano sostanzialmente in autonomia. Mercedes-Benz persegue principalmente una strategia di esportazione globale con una rete distributiva mondiale; solo raramente apre installazioni produttive all’estero e in massima parte solo per eludere tariffe penalizzanti. Sebbene l’azienda abbia tentato di stabilire forme di collaborazione e sinergie con società precedentemente indipendenti, gli esiti non sono stati soddisfacenti. Tale approccio non è stato tuttavia 237 adottato per la marque Mercedes-Benz, considerata il gioiello del gruppo, gestito, per ragioni di marketing, come un’attività produttiva totalmente indipendente dal punto di vista tecnico. 2 Globalizzazione economica, aziende relazioni industriali transnazionali globali e Fermo restando le continue controversie sulla natura della globalizzazione e l’interrogativo se questa rappresenti un fenomeno qualitativamente nuovo di costruzione sociale transnazionale – e se sì, da quando – intendiamo presentare di seguito le conclusioni da noi elaborate a partire dai risultati della nostra ricerca e dagli studi di caso. In base a una serie di tendenze evolutive della globalizzazione sia economica che aziendale, appare evidente che, a partire dagli anni 80, si è avviata una nuova fase di globalizzazione più intensa e dinamica. Tali tendenze comprendono un significativo aumento degli investimenti diretti e in portafoglio, come espressione e conseguenza di un processo nel quale la competizione tra le aziende non si sviluppa più soltanto (o principalmente) sui mercati dei beni di consumo, ma anche, e sempre con maggiore rilevanza, sui mercati finanziari e dei capitali. Le società globali e transnazionali sono il motore propulsivo di questo processo, ma ne sono a loro volta controllate. La tendenza verso la ‘finanziarizzazione’ delle decisioni aziendali è spesso accompagnata da cambiamenti di ampia portata nell’organizzazione, che, oltre al mutamento delle logiche decisionali in merito alle localizzazioni internazionali, vengono espressi in termini di trasformazione qualitativa delle forme transnazionali di controllo interno e della strategia corporate. Le recenti innovazioni nella strategia corporate sono inoltre caratterizzate dalla rapida crescita di nuovi processi di razionalizzazione transnazionale (riconfigurazione di catene di valore), da una strategia di unità operative flessibili, dall’importanza di modelli produttivi comprovati, o benchmark, e dal predominio di un approccio basato sul valore dell’azionista, solo per citare alcune delle principali tendenze. Infine, questi cambiamenti della struttura e della strategia aziendali sono stati accompagnati, ormai da più di due decenni, da una crescita significativa nel numero di società multi e transnazionali. Sebbene il contesto così mutato possa essere una condizione necessaria per una rapida e intensa transnazionalizzazione della rappresentanza dei 238 lavoratori, sul singolo luogo di lavoro e, laddove pertinente, delle organizzazioni sindacali in generale, non è tuttavia sufficiente. La transnazionalizzazione delle relazioni industriali non segue un semplice modello di risposta (le relazioni industriali) a una stimolo (economico). Il modello, o pattern, di causazione è molto più complesso e fortemente contraddittorio, oltre a essere contrassegnato da numerosi ostacoli strutturali. Per quanto riguarda il periodo necessario per adeguarsi a un contesto in mutazione, è anch’esso caratterizzato da numerosi elementi di inerzia istituzionale. La transnazionalizzazione delle relazioni industriali e lo sviluppo di strutture e norme a livello aziendale globale subiscono l’influenza di fattori determinanti di ordine politico ed economico, che sono specifici dell’azienda stessa. Allo stesso tempo, e in aggiunta a fattori strutturali ‘obiettivi’, svolgono un ruolo cruciale anche fattori ‘soggettivi’, in particolare quelli correlati all’approccio specifico e alla gestione dei problemi, da parte di attori significativi. I fattori politici determinanti e i contesti legislativi svolgono anch’essi un ruolo importante nello sviluppo delle relazioni industriale in un contesto sopranazionale, come dimostrano gli sviluppi a livello UE (Direttiva EWC/CAE, istituzionalizzazione del dialogo sociale, ecc.). Sul piano globale, le condizioni per la creazione di strutture transnazionali per la rappresentanza degli interessi dei lavoratori nelle aziende globali, al momento e in un prossimo e prevedibile futuro, corrispondono alle misure presenti e prevalenti in Europa prima dell’adozione della Direttiva EWC/CAE. Il numero ridotto di forum europei d’informazione e consulenza transnazionali nella cosiddetta ‘fase pre-Direttiva’ corrisponde al numero ridotto di strutture globali per il dialogo, nonostante il ritmo accelerato della globalizzazione aziendale negli ultimi decenni. In altre parole, senza l’impulso politico dato dal dispositivo legislativo europeo in materia di occupazione e lavoro, che ha strutturato, sostenuto e richiesto la contrattazione su basi obbligatorie, qualsiasi crescita importante delle strutture transnazionali, come appare evidente nella copertura ‘estensiva’ di grandi aziende europee da parte dei Comitati Aziendali Europei, sarebbe inconcepibile. Senza questo impulso politico per sviluppare le relazioni industriali europee-transnazionali a livello aziendale (di gruppo), è virtualmente inconcepibile che il processo organizzativo dell’europeizzazione delle organizzazioni sindacali nazionali o il rafforzamento dei sindacati a livello europeo avrebbero potuto svilupparsi. In contrasto, né gli strumenti normativi dell’OIL né le linee guida dell’OCSE 239 sulle multinazionali offrono un quadro normativo–regolatorio, né un trampolino di lancio per la creazione di strutture transnazionali a livello aziendale: in altre parole, la creazione di strutture bilaterali per il dialogo globale dipende totalmente da condizioni iniziali puramente volontaristiche e dal contesto della contrattazione in ciascuna azienda, come analizzato di seguito. Il contesto politico è in un certo senso favorevole alla negoziazione e all’accordo sulle condizioni, in altre parole gli accordi aziendali globali, per garantire standard sociali minimi sulla base di strumenti internazionali rilevanti (convenzioni fondamentali dell’OIL, linee guida OCSE). Nonostante si tratti solitamente di leggi ‘soft’, questi strumenti costituiscono un quadro, regolamentato politicamente, e un insieme di valori a livello internazionale, che può essere attivato per sostenere la contrattazione aziendale. Infine, le corrispondenti norme internazionali sono adottate direttamente e indirettamente attraverso l’impegno e l’auto-regolamentazione unilaterali delle aziende sotto forma di responsabilità sociale delle imprese. Tali approcci si sono diffusi in maniera rilevante sotto la spinta di un’opinione pubblica che si mostra preoccupata per l’impatto della globalizzazione; ora hanno ora trovato una più stabile rappresentanza attraverso il Global Compact del Segretario Generale dell’ONU. Pur lasciando da parte le controversie sul valore politico, sulla sostanza, l’entità e la sostenibilità di questi approcci volontari, occorre dire che essi sono ambivalenti dal punto di vista della transnazionalizzazione e della rappresentanza sul posto di lavoro e sindacale: sebbene in linea di principio possano promuovere l’inclusione, cioè la partecipazione istituzionale o procedurale, del lavoratore e da qui rappresentare un elemento o un veicolo per la transnazionalizzazione delle relazioni industriali a livello aziendale, possono altresì servire a precludere o ad ostacolare la transnazionalizzazione, se il management si serve delle iniziative volontarie per cercare di eludere urichieste o impegni ben più pressanti. In sintesi, rispetto a quanto fin qui osservato, siamo in presenza di alcune spinte politiche ufficiali che potrebbero stimolare, sostenere o promuovere lo sviluppo di relazioni industriali transnazionali in un contesto globale, indipendentemente dal fatto che ciò si realizzi effettivamente a livello della singola azienda o con la partecipazione delle organizzazioni sindacali. Le conseguenze possibili sono due. La prima consiste nel fatto che mai come ora la via per affrontare i problemi della globalizzazione, o lo sviluppo di una forma di regolamentazione del lavoro nel contesto globale, da parte delle organizzazioni sindacali, dovrà sempre più passare attraverso società che operano a livello globale. La seconda, che soluzioni a livello aziendale, con 240 la creazione di strutture o di accordi sulle regole, sono possibili soltanto sulla base delle interazioni delle forze in campo e attraverso contrattazioni e accordi di tipo ‘volontario’. Qual è quindi la relazione esistente tra questi sviluppi a livello d’impresa e il più ampio contesto economico e strutturale, tra i fattori afferenti a una specifica azienda e le percezioni e le strategie degli attori? 1. Le percezioni degli attori nel posto di lavoro e nelle organizzazioni sindacali, in altre parole il loro punto di vista e la valutazione della globalizzazione, in termini di opportunità, rischi e necessità di intervento, variano sostanzialmente, sia tra i nostri otto studi di caso, che all’interno di una singola azienda, tra i rappresentanti aziendali (responsabili dei comitati aziendali) e gli attivisti di base, tra i sindacati nazionali dell’industria e infine tra i sindacati nazionali e le Federazioni Sindacali internazionali (GUF). 2. A sua volta, la presa di coscienza dell’esigenza di un’azione transnazionale, a seguito della globalizzazione (del corporate) dipende dal grado (o valutazione) delle possibilità di compensare o fronteggiare la pressione verso il cambiamento creato dalla globalizzazione per mezzo di istituzioni nazionali e forme di regolamentazione della conflittualità. Raffronti tra gli studi di caso sembrano ipotizzare che da solo l’elemento spaziale delle unità operative globalizzate di un’azienda non rappresenta il principale fattore per determinare se la rappresentanza dei lavoratori sarà riconfigurata su base transnazionale. Piuttosto, l’identificazione della necessità di un’azione sul piano transnazionale a seguito della globalizzazione aziendale è il prodotto di due insiemi specifici di circostanze: · In primo luogo, una ricollocazione delle decisioni centrali fuori della portata delle istituzioni nazionali per la co-determinazione e la partecipazione dei lavoratori; · In secondo luogo, una centralizzazione transnazionale delle decisioni e dell’implementazione di strategie sopranazionali di razionalizzazione, insieme al benchmarking delle unità operative, la competizione tra queste operazioni e la ricollocazione delle unità operative o la minaccia di agire in tal senso. 3. Anche in presenza di questi fattori e della consapevolezza di dover intervenire di conseguenza, un’idea specifica di ciò che potrebbe essere una risposta strategica adeguata varia tra gli organismi di rappresentanza aziendale e le organizzazioni sindacali. Le risposte variano da una strategia nazionale di assorbimento (mantenimento di 241 un’attività nel contesto attuale, in cambio di concessioni negoziate), una risposta vissuta o come prioritaria e fondamentale o semplicemente come sintomatica di un’assenza di alternative politiche, a una strategia di transnazionalizzazione limitata della rappresentanza aziendale dei lavoratori o a una strategia di ampia transnazionalizzazione della rappresentanza aziendale dei lavoratori. Anche se la strategia di transnazionalizzazione limitata riconosce l’esigenza di interventi sopranazionali, non giunge al punto di adattare la sua intera strategia nazionale verso una compiuta transnazionalizzazione e di cedere risorse e poteri alla dimensione transnazionale: solo una sfera circoscritta e limitata viene aperta alla transnazionalizzazione, lasciando così il ‘core business’ essenzialmente intatto. In contrasto, una strategia transnazionale ampia considera lo sviluppo di un livello transnazionale dell’attività, indispensabile per la strategia globale della rappresentanza aziendale e sindacale. I settori nazionali di attività vengono fortemente transnazionalizzati con la messa a disposizione di risorse adeguate; si tende e si è disposti a mettere in comune e condividere il potere, la strategia persegue la finalità di permettere al livello transnazionale di influire sulle politiche e sulle attività nazionali. Indipendentemente dal fatto che un’azienda si trovi o meno a operare globalmente, le diverse varianti di strategie transnazionali posso o correlarsi solo sul piano europeo ai Comitati Aziendali Europei (determinazione delle priorità in presenza di risorse limitate, accettazione delle barriere strutturali che influiscono sullo spazio globale) ed estendersi a spazi transregionali, o diventare globali per una serie di considerazioni strategiche. 4. La scelta specifica della strategia da adottare e la sua implementazione sono fortemente influenzate da modelli preesistenti, che fanno riferimento alle relazioni industriali dell’impresa (rapporti di potere, stili e procedure collaborativi o confrontazionali/antagonistici, legalistici o pragmatici-informali per la risoluzione dei problemi). Le variazioni riconoscibili di questi fattori nelle società controllanti presentano relazioni di causa, non certo scevre da ambiguità, nei confronti della pratica aziendale di transnazionalizzazione. Tuttavia, emergono indicazioni che relazioni industriali tradizionalmente collaborative nella società capogruppo, basate sui principi della co-gestione, a loro volta supportate da attività altamente professionali dei comitati aziendali e da corrispondenti posizioni di forza dei lavoratori (densità di 242 sindacalizzazione in azienda, ecc.) sono una condizione essenziale per lo sviluppo di strumenti e istituti transnazionali. 5. Si può distinguere l’emergere di un modello strategico di base da parte dei lavoratori, all’interno dei diversi tentativi di estendere percorsi nazionali, testati e consolidati, per la risoluzione del conflitto e la creazione del consenso verso una direzione transnazionale. Questo modello di base – il tentativo di delineare una forma di transnazionalizzazione ‘dipendente dal percorso‘ – può essere messo in pratica soltanto se si soddisfano ulteriori condizioni. La nostra ricerca ha evidenziato la presenza di pionieri e ‘imprenditori politici’ tra i lavoratori: per questi individui, lo sviluppo di strutture unilaterali o bilaterali negoziate con il management diventa un progetto (personale). In presenza di accordi bilaterali sulle strutture transnazionali di dialogo o strumenti normativi a portata globale, è altresì un elemento sine qua non che le aziende, da parte loro, siano aperte, in linea di principio, alle soluzioni negoziate su base volontaria e considerino loro interesse adottare forme specifiche di cultura aziendale transnazionale e di partecipazione dei lavoratori. Questa serie di fattori determinanti che abbiamo derivato e generalizzato dal nostro studio, insieme all’importanza di ciascun fattore e delle sue interazioni, serve a sottolineare i numerosi ostacoli e le diverse barriere che si frappongono allo sviluppo di relazioni industriali transnazionali. Si devono verificare diverse condizioni favorevoli, che si rafforzano reciprocamente, prima che si possano creare strutture e accordi globali con un certo grado di sostanza e di qualità innovativa, come evidenziato dai due casi della Volkswagen e della Daimler Chrysler, che abbiamo analizzato e raffrontato e che presentiamo di seguito. 3 I casi di Volkswagen e Daimler Chrysler 1 Il World Group Council della Volkswagen La Volkswagen (VW), la multinazionale automobilistica tedesca, conta circa 320.000 dipendenti in tutto il mondo, di cui la metà in Germania, circa 70.000 nel resto d’Europa e i rimanenti ripartiti tra Brasile, Messico, Sud-Africa e Argentina. Una Commissione internazionale per il gruppo VW è stata istituita dall’International Metalworkers’ Federation (IMF) fin dal 1979. Questo organismo, che si è riunito raramente (nel 1986 e 243 successivamente nel 1993), perseguiva la finalità principale di sostenere lo scambio di esperienze. Tuttavia, oltre al dibattito interno al World Company Committee (Commissione Aziendale Mondiale) dell’IMF, siamo in presenza di una radicata e continua tradizione di collaborazione internazionale tra i lavoratori della VW, esemplificata negli sforzi compiuti sia dai rappresentanti dei lavoratori che dai lavoratori stessi in Germania, in particulare nella sede centrale di Wolfsburg, per organizzare azioni di solidarietà e fornire e far circolare informazioni in tutti gli impianti VW nel mondo. Tali attività comprendevano: contratti bilaterali tra rappresentanti dei lavoratori tedeschi e rappresentanti locali di lavoratori nelle consociate straniere; viaggi di studio e scambio per i rappresentanti dei lavoratori nelle consociate straniere per permettere loro di comprendere la pratica sindacale e l’attività dei comitati aziendali della VW in Germania; raccogliere fondi dei lavoratori tedeschi per sostenere organizzazioni sindacali indipendenti in Brasile e Sudafrica. Agli inizi degli anni 80 è stato inoltre istituito un ‘gruppo di lavoro per la solidarietà internazionale’ composto da delegati di fabbrica, maestranze iscritte al sindacato tedesco of IG Metall e membri dei comitati aziendali. Questo gruppo mantiene stretti contatti con i rappresentanti dei lavoratori della VW negli altri paesi, offre sostegno pratico e organizza seminari internazionali e programmi di intrattenimento per i rappresentanti stranieri che vengono in Germania per incontri o seminari. Alla fine degli anni 80, in presenza di questa lunga tradizione di contatti internazionali tra lavoratori e dopo che una terza unità operativa era venuta ad aggiungersi alle altre già presenti in Europa, con l’acquisizione della SEAT, i rappresentanti dei lavoratori tedeschi decisero di affrontare l’idea di istituire un CAE con l’avvio di trattative con i rappresentanti dei lavoratori belgi e spagnoli. La prima riunione di un Comitato di Gruppo Europeo si è tenuta il 31 agosto 1990 – senza un accordo formale, ma con la partecipazione della direzione centrale. Nel febbraio 1992, fu siglato un accordo di CAE, cioè circa due anni prima dell’adozione della Direttiva EWC/CAE. Il Comitato di Gruppo Europeo fu un passo intermedio verso la creazione di un Comitato Mondiale del Gruppo VW. La transizione avvenne senza scosse. Inizialmente, a partire dal 1995, uno dei due incontri annuali del CAE si allargò fino a diventare una ‘Conferenza mondiale dei lavoratori’ alla quale furono invitati i rappresentanti delle unità operative VW in Brasile, Messico, Sudafrica e Argentina, per presentare i loro rapporti e 244 ricevere informazioni, insieme ai delegati europei. La terza conferenza, tenutasi nel maggio 1998 nella sede direzionale della consociata VW Skoda a Mlada Beleslav nella Repubblica Ceca, sancì la costituzione del Comitato Mondiale del Gruppo VW (WGC). Un accordo scritto, che venne a cementare l’intesa con il management, fu siglato un anno più tardi nel maggio 1999. Punti chiave dell’accordo per World Group Council Volkswagen (WGC) Il preambolo dell’accordo di WGC della Volkswagen definisce una serie di principi guida essenziali per il ruolo del WGC e le sue relazioni con il management del gruppo. Essi sono: compatibilità tra responsabilità sociale e competitività; garantire che tale compatibilità sia un obiettivo del dialogo sociale globale; impegno da parte del WGC per la condivisione collaborativa della responsabilità; impegno da parte del management per il riconoscimento globale di organizzazioni sindacali libere, libertà di associazione ed elezione libera e diretta dei rappresentanti dei lavoratori, in tutti gli impianti del gruppo VW. Il WGC si riunisce almeno una volta all’anno e i temi da affrontare, in base all’importanza per le diverse realtà produttive, sono i seguenti: salvaguardia dell’occupazione e dei siti produttivi; sviluppo delle strutture del gruppo; produttività e strutture di costo; relazioni di fornitura all’interno del gruppo; condizioni del lavoro (p.e. orari di lavoro, struttura salariale e del lavoro); indennità sociali aziendali; nuove tecnologie produttive; nuove forme di organizzazione del lavoro; salute e sicurezza; protezione ambientale; effetti rilevanti delle decisioni e sviluppi politici sul gruppo VW; sviluppo di un quadro politico ed economico per l’attività internazionale. Il WGC deve essere consultato con regolarità in merito a trasferimenti programmati della produzione, se questi hanno effetti interregionali, per far sì che la posizione di WGC sia presa in considerazione durante il processo decisionale. I 27 seggi del WGC sono distribuiti come segue: Tab. 2 – Distribuzione dei 27 seggi del WGC Paese Germania Spagna Belgio Repubblica Ceca Slovacchia No. di componenti 11 3 1 1 1 Per marque 8 Volkswagen, 2 AUDI, 1 VW Sachsen 2 SEAT, 1 VW Navarra 1 VW Bruxelles 1 Skoda 1 VW Slovacchia 245 Polonia RU Portogallo Totale Europa Messico Brasile Argentina Sudafrica Totale Non-Europa 1 1 1 20 1 4 1 1 7 1 VW Poznan 1 Rolls-Royce/Bentley 1 AutoEuropa 1 VW de Mexico 4 VW do Brazil 1 VW Argentina 1 VW Sudafrica Il WGC elegge un consiglio esecutivo responsabile dell’organizzazione degli incontri. Ogni marque della VW e ogni regione in cui la VW è presente hanno almeno un delegato rappresentato nel consiglio. Consulenti interni ed esterni possono essere chiamati a partecipare agli incontri del WGC, previa risoluzione del consiglio esecutivo. Il management del gruppo VW fornisce un budget annuale per il WGC. Le spese di viaggio dei delegati WGC vengono coperte dalle rispettive società del gruppo. Oltre a questo sostegno finanziario per il WGC, le società del gruppo forniscono anche le infrastrutture necessarie affinché i componenti del WGC possano espletare i propri compiti, ivi compresa un’adeguata formazione. Struttura e attività del WGC L’accordo che ha istituito il Comitato Aziendale del Gruppo europeo è servito da modello per il WGC, tanto da essere adottato quasi parola per parola, con alcune variazioni nel preambolo e nelle indicazioni relative alla nomina dei delegati. L’accordo per WGC è valido solo per le società di cui la VW è socia di maggioranza. I componenti devono essere ‘rappresentanti delle maestranze, eletti liberamente e legittimati democraticamente’. Poiché sono presenti strutture di rappresentanza dei lavoratori a livello aziendale in tutti gli impianti della VW nel mondo, le procedure per la nomina dei delegati non hanno mai incontrato alcun problema. Con più di 40 unità produttive in tutto il mondo, non è stato ritenuto fattibile avere un rappresentante per ciascun impianto e il numero di delegati è stato limitato a 27. Questo rappresenta uno scostamento dalla formula utilizzata dal comitato europeo, che comprende un rappresentante per ciascun impianto. Il WGC ha un presidente, un segretario generale e un consiglio esecutivo. Sia l’attuale presidente che il segretario generale provengono dalla sede centrale della casa madre tedesca. Il presidente è la figura centrale della rappresentanza dei lavoratori nel gruppo VW e ricopre anche la carica di presidente del comitato del gruppo europeo, del comitato aziendale del gruppo VW in Germania, del comitato aziendale centrale di Volkswagen 246 AG, del comitato aziendale di Wolfsburg ed è membro del comitato esecutivo del consiglio di sorveglianza della società. La composizione del consiglio esecutivo del WGC comprende i rappresentanti delle singole marques e/o regioni, come segue: Tab. 3 – Composizione del consiglio esecutivo del WGC Marque/Regione VW AUDI SEAT Skoda Nord America Sud America Totale Competenza Unità operative VW in Germania, Belgio, RU, Spagna, Polonia, Slovacchia a Sudafrica Unità operative AUDI in Germania e Ungheria Unità operative SEAT in Spagna Unità operative Skoda nella Repubblica Ceca Impianto VW in Messico Unità operative VW in Brasile e Argentina Numero 2 1 1 1 1 1 7 Un funzionario sindacale a tempo pieno ha il diritto di partecipare alle riunione sia del WGC che del suo consiglio esecutivo. Lo statuto del WGC istituisce enti di coordinamento a livello regionale per garantire uno scambio reciproco ed efficace di informazioni tra gli impianti e il consiglio esecutivo. Gli enti regionali di coordinamento nominano un delegato che siede nel consiglio esecutivo. L’istituzione del WGC è stata l’espressione della filosofia del top management VW che persegue una più stretta collaborazione con i rappresentanti dei lavoratori e le organizzazioni sindacali, nonché una maggiore trasparenza nei confronti delle maestranze. Tutto ciò è collegato all’esperienza messa in atto in passato, al fine di un’adeguata risoluzione dei conflitti grazie al coinvolgimento e al sostegno dei rappresentanti dei lavoratori. L’accordo del WGC fa dunque esplicito riferimento al principio ampiamente consolidato e testato nei comitati aziendali tedeschi (ed europei) della VW per la ‘risoluzione collaborativa dei conflitti’ e cerca di allargarlo alla collaborazione tra il management centrale e il WGC. Un esempio concreto dell’applicazione del principio ‘di risoluzione collaborativa del conflitto’ a livello globale risale alla fine del 1998, quando si risolse una ‘crisi’ nelle unità operative brasiliane della VW grazie all’organizzazione sindacale brasiliana CUT che accettò l’introduzione della settimana lavorativa di quattro giorni e un piano di prepensionamenti, in cambio di una garanzia occupazionale di cinque anni a favore dei lavoratori di VW do Brazil. Tali misure, che richiamavano quelle concordate tra IG Metall e la VW in Germania nel 1993, furono rese possibili solo grazie a un 247 grado elevato di fiducia personale, di trasparenza nelle informazioni e al grande e continuato sostegno dei colleghi tedeschi per tutto il permanere della crisi. Il WGC è un forum informativo e consultivo che si occupa in particolare dei problemi strategici collegati allo sviluppo del gruppo su scala internazionale. In pratica l’attività informativa e consultiva del WGC non differisce da quella dell’EWC/CAE, il che significa che tutto il consiglio del gruppo VW partecipa alle riunioni del WGC e condivide informazioni con trasparenza e completezza, un segno dell’importanza che il management assegna a questo istituto. L’accordo per il WGC alla VW sancisce un preciso diritto di consultazione, nell’eventualità di ricollocazioni programmate con effetto sopraregionale. Il WGC o il suo consiglio esecutivo devono essere informati delle ricollocazioni programmate il più rapidamente possibile. Essi hanno il diritto di esprimere un parere entro un periodo di tempo concordato. Il WGC ha inoltre il diritto di richiedere riunioni consultive formali relative alle proposte di ricollocazione. I delegati del WGC intendevano inoltre sviluppare l’istituto ben oltre il suo ruolo informativo e consultivo, trasformandolo in un organismo in grado di negoziare e concludere accordi con il management del gruppo. Un passo in questa direzione è stato intrapreso nel giugno del 2002 con la conclusione di una ‘dichiarazione sui diritti sociali e le relazioni industriali alla Volkswagen’, che definisce una serie di standard concordati su diritti sociali e linee guida per relazioni ‘accettabili’ tra i rappresentanti dei lavoratori e il management. Il WGC della VW continuerà con ogni probabilità a svolgere un ruolo centrale all’interno del sistema generale di rappresentanza dei lavoratori. Poiché la VW è una rete mondiale integrata, in futuro sarà necessario trasferire per quanto possibile la discussione e la negoziazione al livello di comitato di gruppo. Il CAE della VW, come istituto regionale, rappresenterà un elemento all’interno di un sistema generale ‘multi-level’. In un sistema pienamente sviluppato, la sua funzione consisterà nel rappresentare gli interessi a livello regionale. Questa interazione dei diversi forum deve essere ancora sviluppata appieno. 248 2 Rappresentanza DaimlerChrysler globale dei lavoratori della La DaimlerChrysler è una delle maggiori case automobilistiche del mondo, con circa 370.000 dipendenti. A metà degli anni 90, l’allora Daimler Benz AG (sede centrale in Germania), modificò sostanzialmente la propria strategia aziendale, passando da una diversificazione orientata all’export a un approccio ‘multiregionale’ che identificava nella divisione automotive il core business dell’azienda, nell’intento di fare della Daimler Benz AG una casa automobilistica globale. A seguito di questo mutamento strategico, la società non solo dismise quelle attività che non erano più ritenute parte del core business, ma estese in maniera consistente la sua divisione automotive, grazie alla fusione con l’americana Chrysler Group, per fondare la DaimlerChrysler AG (con sede legale in Germania) nel 1998 e alle alleanze strategiche con Mitsubishi Motors e Hyundai Motor Company nel 2000-01. DaimlerChrysler divenne socia di minoranza delle due società, con il 34% della Mitsubishi e il 10% della Hyundai. Questo cambiamento di strategia, in particolare la fusione tra Daimler e Chrysler, che portò a un fortissimo aumento dei dipendenti della multinazionale nel Nord America, spinse i dirigenti del comitato aziendale centrale della DaimlerChrysler in Germania a cercare di creare strutture di rappresentanza mondiale dei lavoratori. I rappresentanti dei lavoratori tedeschi decisero di stabilire strutture mondiali di rappresentanza non certo in ragione del potenziale pericolo di ‘razionalizzazione’ a seguito della fusione. Dato che le due aree di attività, Mercedes-Benz e il Chrysler Group, coprivano regioni e segmenti di mercato diversi e il management aziendale aveva dichiarato esplicitamente di voler mantenere la Mercedes-Benz come marque di punta, le due componenti dell’azienda appena fondata non entravano in una situazione di concorrenza tale da giustificare una più stretta collaborazione transnazionale tra i lavoratori. Piuttosto, la motivazione principale per i rappresentanti tedeschi era la loro preoccupazione che la fusione potesse condurre a uno spostamento delle strutture decisionali e di potere sia per il management che per le maestranze. In tal senso, le loro pressioni per la creazione di strutture mondiali di rappresentanza erano dettati dall’esigenza di cementare la loro posizione di forza, estendendone l’ambito di intervento sul piano internazionale. Prima della fusione del 1998, lo sviluppo di contatti transnazionali non era ritenuto un obiettivo essenziale nelle attività del comitato aziendale tedesco 249 della Daimler Benz. Tuttavia, contatti transnazionali informali tra singoli delegati di comitati aziendali e rappresentanti sindacali in Germania e sindacalisti delle unità operative dell’azienda in Brasile e in Sudafrica si erano mantenuti costanti a partire dai primi anni 80. Questi contatti informali hanno rappresentato un punto di partenza per lo sviluppo di una rete sindacale transregionale ‘non ufficiale’ alla DaimlerChrysler, che ancora esiste e riunisce gli attivisti e i delegati sindacali dei siti produttivi dell’azienda in Europa, Nord e Sud America e Sudafrica. Relazioni industriali transregionali ‘ufficiali’ hanno invece conosciuto una rapida crescita, slegata a questa rete informale di attivisti, a seguito della fusione e in presenza di tre diversi aspetti: Nel primo, la rappresentanza a livello di consiglio fu assegnata alla dimensione transnazionale nel 1998, destinando un seggio del consiglio di sorveglianza della DaimlerChrysler a un funzionario del sindacato dei lavoratori del settore auto in USA (International Union, United Automobile, Aerospace and Agricultural Implement Workers of America, UAW); Nel secondo, furono create strutture mondiali di rappresentanza a livello aziendale, con il ‘Gruppo di lavoro internazionale per l’automotive’, che, dopo un periodo di prova di quattro anni fu trasformato nel Comitato mondiale dei lavoratori (WEC) nel luglio del 2002; Nel terzo, nel settembre del 2002, fu siglato un accordo globale sui principi della responsabilità sociale della DaimlerChrysler, gettando così le basi per la definizione di standard minimi di lavoro da adottare in tutto il mondo. Le diverse fasi che hanno portato allo sviluppo della rappresentanza mondiale dei lavoratori della DaimlerChrysler vengono descritte e analizzate in dettaglio di seguito. Estensione transregionale della co-determinazione Immediatamente dopo la fusione tra Daimler Benz e Chrysler nel 1998, i principali rappresentanti del comitato aziendale tedesco e del sindacato metalmeccanici tedesco, IG Metall, si incontrarono per discutere insieme in merito alla risposta strategica più appropriata da dare e in particolare come migliorare la collaborazione con l’UAW. Inizialmente, la proposta di assegnare un seggio nel consiglio di sorveglianza all’UAW fu ritenuta alquanto controversa (il diritto societario tedesco stabilisce una struttura amministrativa a due livelli, che prevede un consiglio di sorveglianza, con la presenza di rappresentanti dei lavoratori, che controlla un consiglio di 250 gestione responsabile della gestione routinaria). In particolare, IG Metall era preoccupato che ciò potesse costituire un precedente, che portasse ad analoghe richieste in altre aziende. Dopo lunghe discussioni, l’allora presidente di IG Metall, Klaus Zwickel, prese la decisione finale di offrire all’UAW uno dei seggi di IG Metall nel consiglio di sorveglianza a dimostrazione della solidarietà con i lavoratori americani. Anche se l’UAW finì per accettare l’offerta, i rappresentanti sindacali americani reagirono dapprima con alcune riserve, anche perché il concetto di rappresentanza in stile tedesco, declinato in consiglio di sorveglianza e co-determinazione, era loro totalmente estraneo. Anche qui la questione venne gestita ai massimi livelli dell’organizzazione sindacale. In un primo momento, Stephen P. Yokich, presidente UAW, entrò nel consiglio. Successivamente, il ruolo fu assunto da Nate Gooden, vice presidente UAW con competenze generali per la Chrysler negli USA. A seguito della fusione, non furono solo i delegati dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza a ‘transnazionalizzarsi’. La composizione della delegazione del management nel consiglio di sorveglianza fu anch’essa modificata, con metà dei seggi assegnati a membri del consiglio della Chrysler: anch’essi furono inizialmente molto sospettosi nei riguardi del concetto di consiglio di sorveglianza. La loro principale preoccupazione era che la presenza dei rappresentanti dei lavoratori potesse precludere una discussione aperta e critica della politica aziendale, durante le assemblee del consiglio di sorveglianza. Per quanto riguarda la composizione del consiglio di sorveglianza dopo la fusione, esso comprendeva, come in precedenza per la Daimler Benz, 20 seggi, assegnati in linea con il principio di pari rappresentanza: 10 seggi ciascuno per il management e i lavoratori. Se la delegazione del management è composta da cinque americani e cinque tedeschi, la composizione della delegazione dei lavoratori è un po’ più complessa. Secondo la legge tedesca i 10 rappresentanti dei lavoratori che siedono nel consiglio di sorveglianza devono comprendere tre rappresentanti sindacali e sette lavoratori dell’azienda, occupati in Germania. In tal senso, l’unico modo per assegnare un seggio nel consiglio di sorveglianza a un rappresentante americano era che IG Metall lo offrisse volontariamente all’UAW. La delegazione dei lavoratori che siede nel consiglio di sorveglianza è quindi composta da sette dipendenti dell’azienda (la componente tedesca), due funzionari di IG Metall e un delegato UAW. Fu inoltre istituita una ‘commissione lavoro’, che comprendeva i rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza, più altri delegati 251 di UAW e CAW. L’idea di istituire la commissione lavoro fu concepita in risposta alla volontà espressa dai rappresentanti del management nordamericano nel consiglio di sorveglianza di tenere tra loro incontri preparatori alle riunioni del consiglio di sorveglianza, per potere così avere una discussione aperta sulle politiche aziendali e includere quei membri del consiglio di amministrazione della Chrysler senza un seggio nel consiglio di sorveglianza. Il management Daimler cercava un’intesa su questo punto con i rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza; questi ultimi concordarono su questa soluzione, perché permetteva loro di tenere incontri preparatori allargati a un numero maggiori di partecipanti. La commissione lavoro, che si riunisce da quattro a sei volte l’anno, ha accesso alle stesse informazioni che il consiglio di sorveglianza riceve dal management. Le funzioni principali della commissione sono: in primo luogo, garantire che i delegati dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza parlino con una voce sola; in secondo luogo, garantire la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori nordamericani in tutte le decisioni del management, che interessano le maestranze nordamericane, offrendo loro accesso diretto alle informazioni del management centrale nel consiglio di sorveglianza. Strutture globali di rappresentanza L’iniziativa d’istituire un sistema di rappresentanza globale dei lavoratori fu avviata nel 1998 dal comitato aziendale centrale in Germania, che prese contatti con la direzione centrale, sostenendo che questo passo era necessario a seguito del ‘balzo verso la transnazionalizzazione’ rappresentato dalla fusione. Sebbene il management riconoscesse la legittimità della richiesta, si rifiutò di chiamare questo istituto ‘comitato aziendale’. Le due parti concordarono invece di istituire un Gruppo di lavoro Internazionale per l’Automotive su base informale e per un periodo di prova di quattro anni. Dopo la scadenza del periodo di prova nel luglio del 2002, il Gruppo fu formalizzato ufficialmente con un accordo scritto sotto forma di una Commissione Mondiale dei Lavoratori (WEC), senza modifiche sostanziale alla sua composizione, funzioni e attività. L’accordo WEC applica il modello dell’intesa per i Comitati Aziendali Europei della DaimlerChrysler (EWC/CAE) – concluso originariamente nel 1996 – ed è una versione annacquata di quest’ultimo. In base all’accordo, l’obiettivo generale della WEC consiste nel promuovere una cultura collaborativa delle relazioni industriali e facilitare il processo d’integrazione, permettendo ai rappresentanti dei lavoratori di tutte le unità dell’azienda nel 252 mondo di scambiarsi informazioni e opinioni e promuovendo il dialogo con il management centrale su temi economici e sociali di portata globale. L’intesa prevede un’assemblea annuale tra WEC e management del gruppo. Tutti i costi necessari alla gestione della WEC e del consiglio esecutivo sono coperti da DaimlerChrysler AG. Le spese di viaggio e pernottamento, insieme alle compensazioni per il mancato guadagno dei membri WEC sono coperti dalle varie società del gruppo. Nei costi coperti è prevista anche la traduzione nelle diverse lingue. La WEC è un organismo informativo e consultivo istituito per la promozione del dialogo con il management aziendale su temi economici e sociali di importanza globale, nonché per l’intensificazione degli scambi di opinioni ed esperienze tra i rappresentanti delle unità operative in tutto il mondo. Attualmente la WEC è composta da 13 membri, sei dalla Germania, tre dagli USA e uno ciascuno da Canada, Brasile, Sudafrica e Spagna. Il numero limitato di delegati, in particolare rispetto al CAE, che ha 30 membri, riflette da un lato la volontà del management di mantenere i costi della WEC entro limiti ragionevoli e, dall’altro, la scelta dei rappresentanti dei lavoratori tedeschi di creare un organismo snello ed efficiente. È importante osservare che non tutti i siti della DaimlerChrysler nel mondo hanno trovato rappresentanza nella WEC. L’accordo non contiene né una formula per l’assegnazione dei seggi, né criteri specifici di inclusione. In pratica, la selezione dei paesi da rappresentare nella commissione tiene conto di due considerazioni fondamentali: la prima è che i paesi rappresentati contino su una forza lavoro numerosa; la seconda che nel paese siano presenti strutture ‘accettabili’ di rappresentanza dei lavoratori. Di conseguenza, tanti paesi, quali l’Argentina, l’Indonesia, il Messico, la Turchia e il Giappone non sono rappresentati. Ogni quattro anni, la WEC elegge un consiglio esecutivo con un presidente e un vicepresidente, che serve da primo punto di contatto per il management, nell’eventualità che emergano rilevanti problematiche globali nel periodo che intercorre tra un’assemblea e l’altra. Attualmente a ricoprire l’incarico di presidente della WEC è Erich Klemm, che è anche presidente del CAE, del comitato aziendale centrale tedesco e del comitato aziendale del maggiore impianto produttivo tedesco della DaimlerChrysler a Sindelfingen. Nate Gooden, vice-presidente di UAW, è vice presidente della WEC. Klemm e Gooden, oltre al ruolo che svolgono nel contesto nazionale delle relazioni industriali, siedono anche nel consiglio di sorveglianza e sono figure centrali della rappresentanza dei lavoratori alla DaimlerChrysler. In contrasto con l’intesa per il CAE, l’accordo WEC non contiene alcun riferimento alla 253 possibilità che esperti esterni, quali ad esempio funzionari sindacali dell’International Metalworkers’ Federation (IMF), partecipino agli incontri. Di conseguenza, IMF partecipa solo quando è ritenuto necessario, ad esempio, per stabilire contatti con i rappresentanti di paesi senza delegati ammessi alla WEC. Sebbene l’intesa WEC specifichi solo un elenco alquanto generale dei temi da affrontare durante le normali assemblee (struttura aziendale, situazione economico-finanziaria dell’azienda, prospettive di sviluppo, produzione e vendite, sviluppo della situazione occupazionale), la condivisione delle informazioni è la stessa del CAE. Ciò significa che i membri del consiglio di gestione partecipano alle riunioni della WEC e condividono apertamente ed esaurientemente le informazioni. Al momento, l’interazione tra la WEC e il management centrale e tra i delegati WEC si limita soprattutto allo scambio di pareri e informazioni. Con la definizione dei ‘principi di responsabilità sociale delle DaimlerChrysler’ nel settembre 2002, che furono negoziati parallelamente all’intesa WEC, quest’ultima compì un passo importante verso l’ampliamento del suo ruolo al di là della funzione informativa stipulata nell’accordo, trasformandosi così in un organismo di negoziazione. Gli attori principali della rappresentganza dei lavoratori tedeschi considerano la conclusione dell’accordo sui principi sociali una ‘fortunata coincidenza’ per la WEC, perché i principi rappresentano uno strumento concreto grazie al quale la WEC si poneva come controparte collettiva nei confronti del management. Accordo sui principi della responsabilità sociale L’accordo sui ‘principi di responsabilità sociale della DaimlerChrysler’ era stato avviato dai responsabili della rappresentanza dei lavoratori tedeschi, senza consultare la WEC. La ragione dell’iniziativa era l’annuncio di una strategia globale per le risorse umane a favore del personale direttivo, da parte del consiglio di gestione. La controparte dei lavoratori la considerò un’opportunità per chiedere analoghi principi standardizzati a livello globale per tutti i lavoratori e le loro strutture di rappresentanza. La prima bozza fu formulata da un alto delegato tedesco sulla base del modello IMF di ‘accordo quadro internazionale’, adattato alle circostanze specifiche della DaimlerChrysler. La prima bozza fornì la struttura di base per le negoziazioni tra i rappresentanti dei lavoratori e il management. Quando, durante le trattative, fu reso pubblico che il presidente del consiglio di amministrazione dell’azienda aveva firmato il Global Compact delle 254 Nazioni Unite, un’iniziativa in base alla quale le aziende sottoscrivono di rispettare una serie di diritti umani e del lavoro fondamentali e principi ambientali, esso venne immediatamente assunto dai delegati dei lavoratori e integrato nell’intesa. Il preambolo dell’accordo fa riferimento al Global Compact: ‘DaimlerChrysler riconosce la propria responsabilità sociale e i nove principi che stanno alla base del Global Compact. Per raggiungere questi obiettivi condivisi, la DaimlerChrysler ha concordare di attenersi ai suddetti principi con i rappresentanti internazionali dei lavoratori’. La conclusione di questa intesa si è rivelata controversa per i delegati dei lavoratori. Se i delegati sudamericani erano a favore, i loro colleghi statunitensi erano più scettici. Temevano che un accordo di questo genere potesse avere effetti deleteri per la loro posizione ngli USA, dato che la voce dell’accordo a sostegno della libertà d’associazione poteva essere utilizzata come grimaldello per scardinare il controllo di alcune sigle sindacali in alcuni settori industriali (closed shop). Alla fine, l’accordo siglato affermava che ‘organizzazioni sindacali e azienda adotteranno i principi democratici basilari e faranno sì che i lavoratori possano esprimere le loro scelte liberamente’. L’opposizione iniziale dei delegati nordamericani fu superata e si costituì un gruppo di lavoro comprendente un delegato ciascuno per Brasile, Germania e USA, per gestire le negoziazioni con il management. Il processo negoziale durato nove mesi, che è servito anche a istituire la WEC, fu completato nel luglio del 2002. Nell’intesa, DaimlerChrysler riconosce la propria responsabilità sociale e i nove principi che stanno alla base dell’iniziativa ONU Global Compact, nei cui confronti si era impegnata nel 2001. I principi specifici concordati nell’intesa vanno nella direzione delle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) ed esprimono l’impegno della DaimlerChrysler a: rispettare i diritti umani; condannare tutte le forme di lavoro forzato e infantile; sostenere pari opportunità; astenersi da ogni forma di discriminazione contro i lavoratori. Oltre a questi impegni di carattere generale, presenti in gran parte degli accordi globali di questo genere, i principi sociali della DaimlerChrysler contengono anche una serie di elementi che riguardano nello specifico problematiche relative alle relazioni industriali: · la DaimlerChrysler rispetta il principio di pari salario per lavoro di pari valore (entro i limiti della legislazione nazionale); · l’azienda riconosce il principio di libertà di associazione, il che significa che durante le campagne dei sindacati l’azienda e i suoi dirigenti si manterranno neutrali; 255 · DaimlerChrysler rispetta il diritto alla contrattazione collettiva: l’applicazione di questo diritto umano è soggetta alle normative statutarie nazionali e agli accordi già in vigore; · la collaborazione con i dipendenti, i rappresentanti dei lavoratori e le organizzazioni sindacali sarà costruttiva per garantire un ‘giusto equilibrio tra gli interessi commerciali dell’azienda e gli interessi dei lavoratori’; · la salute e la sicurezza del posto di lavoro saranno garantiti a un livello non inferiore a quanto previsto dalla legislazione nazionale e l’azienda sostiene il miglioramento continuo delle condizioni di lavoro; · l’azienda onora il diritto a una ‘compensazione ragionevole’, a un livello non inferiore al salario minimo stabilito per legge e pagato sul mercato del lavoro locale; · provvedimenti e accordi nazionali riguardanti gli orari di lavoro e le ferie regolarmente retribuite saranno rispettati. L’accordo contiene anche un’affermazione dell’intenzione della DaimlerChrysler di sostenere e incoraggiare i propri fornitori ‘a introdurre e implementare principi equivalenti nelle loro aziende. DaimlerChrysler si aspetta che i fornitori incoraggino questi principi come base per le relazioni con DaimlerChrysler’. Le trattative sono andate avanti senza apparenti ostacoli. L’aspetto più conflittuale riguardava le norme che estendevano i principi dell’intesa ai fornitori; da parte loro i delegati dei lavoratori non sono riusciti a inserire regole più severe per la compliance. Alla fine, dato che il management è riuscito a convincere i rappresentanti dei lavoratori che era impossibile monitorare tutti i fornitori, le due parti hanno concordato una formulazione aperta: ‘DaimlerChrysler sostiene e incoraggia i suoi fornitori a introdurre e implementare principi equivalenti nelle proprie aziende’. Data l’assenza di una procedura stringente di monitoraggio all’interno dell’accordo, i rappresentanti dei lavoratori hanno previsto di affidare a consulenti esterni il compito di rilevare e scoprire eventuali violazioni dei principi. Sperano di ottenere un sostegno in questo senso dall’IMF e dalle sue affiliate da un lato, e dall’altro da organizzazioni non governative (ONG) e dalla cittadinanza. Anche se siamo agli inizi di queste nuove forme di rappresentanza globale dei lavoratori alla DaimlerChrysler, la pratica sembra suggerire che una relazione tra le strutture transnazionali di rappresentanza dei lavoratori e un contesto normativo internazionale, che si rafforzano vicendevolmente (in altre parole, attraverso i principi concordati di responsabilità sociale) ha 256 contribuito a migliorare la cooperazione internazionale tra i rappresentanti dei lavoratori, che va ben aldilà di un semplice scambio di informazioni. 3 Raffronto dei casi Si osservano differenze significative nella funzione e nella pratica dei due comitati aziendali mondiali, collegate a contesti aziendali differenziati per lo sviluppo di strutture globali; inoltre, emergono differenze associate alle ragioni che hanno spinto la leadership dei comitati aziendali tedeschi, in entrambi i casi esaminati, a riconoscere l’esigenza d’intervenire in questo settore . Entrambi gli organismi sono forum informativi e consultivi che hanno accesso a informazioni esaurienti sui programmi strategici del gruppo. Oltre a ciò, una distinzione chiave risiede nel ruolo strategico che questo organismi hanno ricoperto per la regolamentazione transnazionale del conflitto. Laddove nel caso di DaimlerChrysler, il ridotto livello di competizione diretta tra gli impianti significava che non c’era l’esigenza di ricorrere alla WEC per questo scopo, la funzione centrale di WGC della VW, dal punto di vista sia dei funzionari dei comitati aziendali tedeschi che del management del gruppo, risiede nell’estendere la pratica attuale di risoluzione collaborativa del conflitto, praticata dalla Volkswagen in Germania (e ora anche in Europa) a un livello internazionale. In vista della competizione interna al gruppo, a seguito della transnazionalizzazione, si ricorre deliberatamente al WGC per creare una serie di regole utili agli scambi reciproci sia tra i membri del WGC che tra i rappresentanti dei lavoratori e il management, per tutte le unità operative del gruppo distribuite globalmente. In considerazione dei diversi interessi dei lavoratori in ciascuna realtà, in merito alle funzioni e alle attività degli organismi, si riscontrano differenze sostanziali per quanto riguarda le funzioni interne alla rete nei due casi. Se la WEC alla DaimlerChrysler è orientata verso lo scambio di informazioni ed esperienze tra i rappresentanti dei lavoratori, in linea con l’esigenza della leadership del comitato aziendale tedesco di mantenere il controllo e ridurre l’incertezza, alla Volkswagen invece traspariva fin dall’inizio un evidente interesse da parte della leadership dei comitati aziendali a sviluppare procedure e posizioni comuni, per riuscire a parlare in maniera univoca al management, nel contesto di un approccio collaborativo per la risoluzione del conflitto. Di conseguenza, le relazioni sia formali che informali della rete dei rappresentanti dei lavoratori della Volkswagen sono molto più sviluppate 257 rispetto alla DaimlerChrysler. Questo è dimostrato dal fatto che, a differenza della DaimlerChrysler, la leadership dei comitati aziendali della Volkswagen partecipa direttamente al processo di risoluzione del conflitto. Anche se il WGC della VW non partecipa direttamente, svolge comunque un ruolo importante nella necessaria costruzione di fiducia tra i delegati. Sono inoltre presenti seminari e programmi di scambio per i rappresentanti dei lavoratori di diverse regioni, allo scopo di migliorare le relazioni della rete. Poiché la competizione tra le unità operative all’interno del gruppo si traduce nella maggiore importanza assegnata al coordinamento da parte dei rappresentanti dei lavoratori alla Volkswagen rispetto alla DaimlerChrysler, assicurarsi che il WGC fosse il più rappresentativo possibile era essenziale per la leadership del comitato aziendale tedesco. Se nel caso della DaimlerChrysler diversi paesi non sono rappresentati nel WGC a causa delle condizioni restrittive imposte dal comitato aziendale tedesco, in quello della Volkswagen sono rappresentanti tutti i paesi in cui l’azienda è presente. Il raffronto tra WGC in Volkswagen e WEC in DaimlerChrysler evidenzia il carattere divergente dei due organismi in relazione alla loro funzione partecipativa e di rete, il che a sua volta riflette il contesto specifico all’interno di ciascun gruppo e gli interessi conseguenti della leadership del comitato aziendale tedesco in entrambi i casi. Se fin dall’inizio il WGC tendeva ad ampliare il ruolo strategico del Comitato Aziendale Europeo del gruppo VW sul piano internazionale, la leadership del comitato aziendale in DaimlerChrysler non aveva recepito l’esigenza di sviluppare il ruolo partecipativo della WEC. Tuttavia, anche alla DaimlerChrysler, la conclusione di un accordo sui principi sociali, oltre alla richieste sollevate successivamente dai rappresentanti dei lavoratori, esterni alla casa madre, suggerisce che questa struttura abbia sviluppato una sua dinamica propria, al di là delle funzioni previste di scambio di informazioni e di esperienze. Gli accordi globali per garantire standard sociali minimi in Volkswagen e DaimlerChrysler, che sono pressoché identici, sono importanti per almeno quattro ragioni. La prima è che essi contribuiscono allo sviluppo dei comitati aziendali mondiali, perché avviano un processo di impegno e comprensione reciproci sia sul piano interno, che su quello esterno, anche grazie al fatto che fin dall’inizio si sono connotati come ‘attori’ importanti. La seconda è che hanno generato processi interni per le due componenti aziendali: il management e la rappresentanza dei lavoratori. Da un lato, ciò ha comportato l’adozione di misure e processi per implementare l’accordo: 258 per il management, ciò significa, ad esempio, nominare propri rappresentanti, introdurre criteri sociali negli audit aziendali, discussioni sui nuovi meccanismi contrattuali con i fornitori, indagini da parte dei direttori del personale del gruppo sull’aderenza all’accordo da parte del personale locale delle risorse umane; per i lavoratori, significa lo sviluppo di strategie per comunicare la sostanza dell’accordo ai rappresentanti locali e alle maestranze, indagini svolte dal comitato aziendale tedesco sull’aderenza all’accordo, indagini presso le ONG su possibili sviluppi e cooperazioni. Dall’altro, il cambiamento culturale insito in questi processi di discussione, che si è venuto a concretizzare, insieme a misure effettive, ha significato che i provvedimenti sociali hanno acquisito una maggiore importanza nell’azienda e influenzato l’interazione tra management e rappresentanti dei lavoratori. La terza è che gli accordi hanno assunto un’importanza pratica in diverse aree: l’accordo della DaimlerChrysler, per esempio, a seguito del ritiro del management dal tavolo delle trattative in un impianto brasiliano (con riferimento alla clausola dell’intesa che, nel caso di disaccordo, ‘l’obiettivo sarà sempre quello di elaborare una soluzione che permetta la collaborazione costruttiva a lungo termine: cfr. lo studio di caso della DaimlerChrysler); l’intesa Volkswagen a seguito della conclusione degli accordi con i sindacati pro-azienda di un fornitore messicano (con riferimento alla garanzia di libertà di associazione nell’accordo). La quarta è che contribuiscono direttamente o indirettamente alla definizione degli accordi globali in altre aziende e da qui alla diffusione di questo strumento per la rappresentanza globale dei lavoratori. Gli accordi globali alla Volkswagen e alla DaimlerChrysler hanno rappresentato importanti precedenti nell’industria tedesca. Nel caso delle aziende che riforniscono la DaimlerChrysler o la Volkswagen, gli accordi hanno una rilevanza molto diretta, che può comportare un esito positivo sia per il management che per i comitati aziendali. Per questa ragione, i fornitori dell’automotive sono un target prioritario per il sindacato IG Metall nei suoi sforzi per siglare altri accordi globali. 4 Conclusioni Le circostanze aziendali specifiche, le coalizioni di interessi e le valutazioni di utilità da parte degli attori delle relazioni industriali a livello di gruppo non sono soltanto cruciali nel determinare se i comitati aziendali mondiali debbano essere istituiti, ma servono anche a plasmarli e ne influenzano lo 259 sviluppo nella pratica. Per necessità, i comitati aziendali mondiali sono strumenti di cooperazione, o piuttosto della ‘risoluzione collaborativa del conflitto’, per citare l’accordo VW. Il loro sviluppo e progresso può avvenire soltanto in presenza di un accordo comune, che può essere rescisso in qualsiasi momento. Nondimeno, l’interazione tra i diritti consolidati di partecipazione e di accesso alle risorse per la costruzione delle reti sta a significa che i comitati aziendali mondiali godono di una considerevole rilevanza pratica. In particolare, garantiscono accesso al top management per i rappresentanti dei lavoratori di unità operative non europee e migliorano il livello delle informazioni messe a disposizione. Come nel caso dei CAE/EWC, i comitati aziendali mondiali possono ampliare il proprio ambito di partecipazione verso procedure consultive più formalmente regolate e per la conclusione di accordi con il management del gruppo. Le capacità di negoziazione dei comitati aziendali mondiale alla Volkswagen e alla DaimlerChrysler sono già state riconosciute formalmente dal management del gruppo, con la definizione degli accordi globali sugli standard sociali minimi. I limiti dello strumento degli accordi globali risiedono anch’essi nella loro base volontaria. Non si possono concludere senza l’assenso del management. La sostanza degli accordi rispecchia il fatto che le negoziazioni sono iniziate e si sono concluse su una base puramente volontaria. Essi definiscono standard minimi molto al di sotto degli standard occupazionali e sociali dell’Europa occidentale. Ne consegue che gli accordi globali non sono uno strumento per ridurre la competitività tra i lavoratori nelle unità produttive sia centrali che periferiche, pur delineando alcuni limiti assoluti ai tagli sociali. Ciò si applica anche agli accordi globali della Volkswagen e della DaimlerChrysler. Essi però si differenziano dalla maggior parte delle altre aziende che hanno siglato accordi di questo tipo per una caratteristica fondamentale: in entrambi i casi, c’era una struttura globale preesistente per la rappresentanza dei lavoratori, sotto forma di comitati aziendali mondiali. Gli accordi sono stati sì concepiti e utilizzati come strumenti per far conoscere i dispositivi di rappresentanza esistenti a tutta la forza lavoro nel mondo e quindi legittimarli, ma anche e principalmente per ampliare e consolidare gli ambiti e il raggio d’azione dell’istituzione stessa. 260 5 Altri riferimenti Haipeter T., Interessenvertretung bei Volkswagen – Mitbestimmung im Strukturwandel, Wolfsburg, IG Metallverwaltungsstelle, 2001. Lecher W. …[et al.], The Establishment of European Works Councils – From Information Committee to Social Actor, Aldershot, 1999 Lecher W., …[et al.], European Works Councils – Developments, Types and Networking, Aldershot, Ashgate, 2001. Lecher W., …[et al.], European Works Councils: Negotiated Europeanisation – Between Statutory Framework and Social Dynamics, Aldershot, Ashgate, 2002. Liedtke R., Wem gehört die Republik? Die Konzerne und ihre Verflechtungen. Namen, Zahlen, Fakten 2004, Francoforte sul Meno, Eichborn, 2003. 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Processi di ristrutturazione e regolazione sociale - il caso tedesco Volker Telljohann 1 Introduzione Partendo dall’analisi della nuova generazione dei patti per l’occupazione e la competitività vorremmo, con questo contributo, approfondire le riflessioni sull’impatto di queste tendenze di decentramento della contrattazione collettiva sulle relazioni industriali a livello locale e centrale in Germania. Il 2004 è stato l’anno in cui si è accesa la discussione sul presunto crollo di competitività della Germania. Le imprese e le loro associazioni sostengono che l’orario di lavoro settimanale e i livelli di retribuzione minano la competitività della Germania come luogo di produzione. Inoltre, viene criticata la rigidità del sistema di contrattazione collettiva perché secondo le imprese non dà sufficientemente spazio a soluzioni flessibili che tengano conto delle specifiche esigenze delle singole realtà produttive. I gruppi multinazionali minacciano sempre più spesso di delocalizzare parte delle loro attività o di spostare investimenti futuri in paesi con un minore costo del lavoro. In molti casi queste minacce portano alla stipula di accordi caratterizzati sia da concessioni da parte dei consigli di azienda, sia da garanzie del management rispetto al mantenimento dei siti produttivi per un determinato periodo di tempo. Per i dipendenti questi accordi spesso implicano un deterioramento delle condizioni di lavoro e dei livelli retributivi. Il sindacato tedesco guarda con sospetto la crescente tendenza con cui le aziende ricorrono a questo tipo di accordi perché in sempre più casi i compromessi fra management e rappresentanti dei lavoratori implicano deroghe agli standard definiti dal contratto collettivo di categoria. Ormai la crescente decentralizzazione della contrattazione collettiva in Germania sta portando anche a adeguamenti a livello dei contratti collettivi di categoria come dimostra il contratto collettivo di categoria dell’industria metalmeccanica del 2004. 263 2 I patti per l’occupazione e la competitività 1 Il livello centrale: il contratto collettivo di categoria dell’industria metalmeccanica tedesca A livello centrale il contratto collettivo di categoria dell’industria metalmeccanica firmato a febbraio 2004 ha allargato ulteriormente le possibilità di utilizzo delle cosiddette clausole di apertura e, ha portato inoltre ad un’ ulteriore flessibilizzazione delle regolazioni in materia di orario di lavoro. Viene fra l’altro stabilito che al fine di migliorare in modo durevole lo sviluppo dell’occupazione le parti contrattanti potranno derogare, temporaneamente, agli standard minimi contrattuali. Successivamente questa clausola ha portato numerose aziende ad avanzare le loro richieste di deroga. L’interesse delle imprese riguarda soprattutto l’allungamento dell’orario di lavoro, la variabilità delle retribuzioni e l’abbassamento del salario. È comunque importante che l’impiego delle clausole di apertura presupponga l’approvazione del sindacato. Inoltre, il sindacato chiede la possibilità di verificare e controllare l’applicazione degli accordi. 2 Il livello locale: l’ultima generazione dei patti per l’occupazione e la competitività È interessante osservare che proprio l’anno che ha visto sancire l’allargamento dell’Unione europea è stato caratterizzato da una nuova ondata dei cosiddetti patti per l’occupazione e la competitività. Sono gli accordi stipulati da gruppi multinazionali come Siemens, DaimlerChrysler, Volkswagen, Bosch, General Motors, Karstadt, Philips, Braun Melsungen, BASF e Deutsche Bahn (Ferrovie tedesche) che hanno fatto discutere maggiormente anche a livello europeo. Per la maggior parte si tratta di gruppi altamente redditizi che minacciano processi di delocalizzazione in caso non si riuscisse a ridurre in modo significativo il costo del lavoro. A giugno 2004 alla Siemens è stato firmato un accordo in cui si prevede che in due stabilimenti tedeschi l’orario di lavoro settimanale passi per due anni da 35 ore contrattuali a 40 senza aumento di salario. La tredicesima e la quattordicesima vengono sostituite da un bonus legato all’andamento aziendale. Attraverso queste misure il reddito lordo dei dipendenti si riduce di circa il 14 %. In seguito a questo accordo il gruppo ha rinunciato alla 264 delocalizzazione della produzione in Ungheria. L’accordo ha quindi permesso il mantenimento di circa 4.000 posti di lavoro in due stabilimenti di produzione finale di telefoni cellulari e di telefoni cordless. L’azienda rinuncia per 2 anni a licenziamenti per motivi aziendali. Secondo l’IG Metall si tratta di una regolazione speciale e temporanea provocata dai problemi economici che caratterizzano attualmente questo tipo business. Questa soluzione mirata non dovrebbe danneggiare altre imprese concorrenti poiché la Siemens è l’unica azienda con produzione finale profondamente radicata in Germania. L’occupazione non dovrebbe essere assicurata solo per la durata dell’accordo integrativo visto che sono state garantite misure di investimento per circa 30 milioni di Euro nella produzione di telefonia mobile in Germania fissate nello stesso accordo. Inoltre è previsto lo sviluppo di capacità aggiuntive per la nuova generazione di cellulari (UMTS). Dal punto di vista dell’occupazione viene concordato l’insourcing di prestazioni consulenziali esterne. Nel marzo del 2005 la Siemens-VDO, una delle aziende leader a livello mondiale nell’ambito della fornitura di elettronica per autovetture, ha messo in discussione il futuro dello stabilimento di Würzburg (Baviera) con 1.600 dipendenti. Lo stabilimento di Würzburg è uno dei 14 stabilimenti tedeschi della Siemens-VDO che occupa complessivamente 44.000 dipendenti, di cui 19.000 in Germania. La motivazione per la minaccia del management sarebbe il bisogno di ridurre i costi di produzione e di aumentare in questo modo la redditività. Per raggiungere quest’obiettivo sono stati sviluppati due scenari di cui il primo prevederebbe la chiusura dello stabilimento di Würzburg e lo spostamento dell’intera produzione ad Ostrava nella Repubblica Ceca entro il 2007. Nel secondo scenario lo stabilimento di Würzburg subirebbe tagli occupazionali del 50 %. I rimanenti 800 dipendenti dovrebbero inoltre accettare concessioni rilevanti a livello delle retribuzioni e dell’orario di lavoro per poter raggiungere l’obiettivo di risparmiare 50 milioni Euro. In particolare, l’azienda mira anche in questo caso ad un allungamento della orario di lavoro da 35 a 40 ore senza conguaglio. Per quanto riguarda le retribuzioni la Siemens chiede ai dipendenti di rinunciare per cinque anni ad aumenti salariali. L’azienda chiede inoltre di non dover più pagare una maggiorazione per gli straordinari. Verrebbero abolite inoltre le pause rimunerate. Misure di questo genere significherebbero una deroga agli standard definiti dal contratto collettivo di categoria. Al contrario delle aziende che operano nell’industria della telefonia mobile l’azienda di fornitura dell’industria automobilistica di Würzburg è redditizia al punto da corrispondere agli 265 obiettivi prefissi dal gruppo stesso che chiede rendite fra il 5 e 6 %. Nel 2004 Siemens-VDO ha prodotto infatti utili per 562 milioni Euro che corrisponde ad una rendita di 6,2 %. Oltre allo stabilimento di Würzburg anche lo stabilimento di Karben (Assia) con 1.900 dipendenti sarà esaminato dal management centrale. L’obiettivo sarebbe sempre l’aumento della redditività attraverso la riduzione del costo del lavoro e l’allungamento del orario di lavoro. Solo nell’ottobre del 2004 era stato firmato un accordo aziendale per lo stabilimento di Karben che prevedeva la flessibilizzazione dell’orario di lavoro. Secondo il management Siemens-VDO è esposta alle pressioni dell’industria automobilistica che chiede ai fornitori riduzioni dei prezzi fino a 15 %. Per poter mantenere allo stesso tempo la propria redditività la Siemens-VDO sarebbe costretta a ridurre i propri costi di produzione. Anche nel settore automobilistico sono stati firmati vari patti per l’occupazione e la competitività. Nel 2004 la Volkswagen dichiarò di voler indirizzare futuri investimenti verso altri paesi se non fosse stato possibile ridurre in modo significativo il costo del lavoro in Germania. Il calo di vendite che ha colpito il gruppo Volkswagen nel corso del 2004, dovuto ad un erroneo sviluppo di nuovi modelli, ha determinato una riduzione degli utili del 12 % rispetto al 2003. L’accordo raggiunto per i 103.000 dipendenti in Germania è caratterizzato da uno scambio che prevede da un lato il congelamento dei salari per 28 mesi – dal 1 ottobre 2004 al 31 gennaio 2007 – e dall’altro lato la rinuncia a licenziamenti per motivi aziendali fino al 2011. Inoltre è stato definito un piano dettagliato di investimenti per le sei fabbriche tedesche sulla base del quale dovrebbe essere garantita la sicurezza dei posti di lavoro in futuro. È comunque da sottolineare che l’accordo include anche una clausola di revisione con la quale le garanzie occupazionali vengono relativizzate. Inoltre, la garanzia occupazionale è legata alla possibilità di ricorrere alla mobilità interna. Per quanto riguarda lo sviluppo retributivo è prevista l’erogazione di un bonus una tantum da 1.000 € a marzo 2005, che corrisponde ad un aumento del 1,35 %. È inoltre previsto che a partire dal 1 gennaio 2005 le retribuzioni dei nuovi assunti ed apprendisti si possono orientare ai livelli del contratto collettivo di categoria, inferiori del 10 al 20 % rispetto al precedente contratto collettivo del gruppo Volkswagen. Con questa clausola viene quindi introdotta una differenziazione rispetto ai trattamenti economici dei dipendenti e, di conseguenza, una segmentazione del mercato del lavoro interno. In compenso il gruppo si impegna a creare 185 nuovi posti per apprendisti. 266 L’accordo stipulato prevede inoltre che a partire dal 2006 l’erogazione di una parte della tredicesima sarà collegata all’andamento dei risultati aziendali. Mentre in passato la tredicesima veniva erogata in forma di una somma fissa che superava i 2.000 € a partire dal 2006 la parte fissa sarà ridotta a 1.191 €. Essendo composta da una parte fissa e una parte variabile ci saranno due momenti di erogazione, ovvero novembre e maggio dell’anno successivo. La somma complessiva rimarrà comunque sotto il livello precedente di 2.000 €. In materia di orario di lavoro è stata definita una maggiore flessibilità poiché il corridoio viene raddoppiato da 400 a 800 ore annue. Questo raddoppiamento rende più flessibile la gestione degli straordinari e allo stesso tempo contribuisce ad una riduzione del costo del lavoro. L’accordo introduce poi per 4.200 dipendenti la possibilità di avvicinarsi alla pensione attraverso il tempo parziale. Infine, l’accordo raggiunto definisce un nuovo strumento a livello di codeterminazione che funge da strumento di controllo di applicazione dell’intesa. Nel 2004 anche la DaimlerChrysler aveva minacciato di spostare la produzione dallo stabilimento principale di Sindelfingen in Sudafrica o ad un altro stabilimento tedesco più economico se non fosse stato possibile ridurre il costo del lavoro pari a 500 milioni di euro annuali a partire dal 2006. La minaccia di spostamento della produzione riguardava circa 6.000 posti di lavoro. Anche la DaimlerChrysler nel 2004 ha subito una riduzione degli utili rispetto al 2003, imputabile soprattutto alle perdite della Mercedes Car Group che ha dovuto affrontare problemi sostanziali di qualità di prodotto. L’accordo raggiunto prevede una riduzione del 2,79% della retribuzione extracontrattuale e fa esplicitamente riferimento al contratto collettivo di categoria che aveva esteso le possibilità di introduzione di clausole di apertura. Tale riduzione dovrebbe consentire di avvicinare i livelli retributivi della DaimlerChrysler agli standard definiti dal contratto collettivo di categoria. Nella divisione ricerca e sviluppo si potrà lavorare volontariamente e con conguaglio fino a 40 ore la settimana. Per alcune attività di servizio, ad esempio la mensa, verrà applicato un contratto collettivo integrativo che prevede un allungamento graduale dell’orario fino a 39 ore, in questo caso senza conguaglio. Infine, una parte delle pause sarà convertita in un giorno supplementare di aggiornamento professionale. Il management, da parte sua, rinuncia a licenziamenti per motivi aziendali fino al 2012 e garantisce investimenti adeguati sia per il comparto dell’auto, sia per il comparto dei veicoli commerciali. Viene stipulata inoltre la rinuncia a processi di outsourcing nell’ambito dei servizi. Il management garantisce 267 inoltre che fino al 2012 tutti gli apprendisti saranno assunti al termine del loro periodo di apprendistato. Viene concordato inoltre che per altri 3.800 dipendenti ci sarà la possibilità di avvicinamento alla pensione attraverso il tempo parziale. L’accordo del luglio 2004 è il risultato di un negoziato particolarmente duro fra management e consiglio di azienda. Ha avuto luogo, fra l’altro, una giornata di protesta organizzata a livello nazionale dal coordinamento di gruppo alla quale hanno partecipato 60.000 dipendenti. È interessante osservare che nel caso della DaimlerChrysler ci sono state delle divergenze anche all’interno delle strutture di rappresentanza, e in particolare fra il coordinamento del consiglio di azienda (Gesamtbetriebsrat) e la direzione regionale dell’IG Metall, da un lato, ed i consigli di azienda locali e le loro maestranze, dall’altro. Le tensioni fra il livello centrale e il livello periferico si sono manifestate anche durante le azioni di protesta; in questa occasione né il coordinamento di gruppo, né la direzione regionale del IG Metall sono riusciti a controllare e a canalizzare la protesta. I consigli di azienda locali infatti hanno favorito una certa radicalizzazione della protesta entrando in questo modo in conflitto sia con il coordinamento del consiglio di azienda, sia con la direzione regionale dell’IG Metall. Il dissenso riguardava non solo i risultati del negoziato ma anche la mancanza di procedure democratiche di coinvolgimento delle strutture di rappresentanza a livello decentrale durante la negoziazione. Per quanto riguarda la General Motors Europe, la situazione è caratterizzata da perdite continue dal 1999. Nel 2003 le perdite ammontavano a 384 milioni di Euro per aumentare nel 2004 a circa 600 milioni di Euro. Di fronte a questa crisi di competitività il gruppo ha presentato un programma di ristrutturazione che prevede una riduzione dei costi del lavoro di 500 milioni di Euro all’anno. Il piano iniziale prevedeva processi di delocalizzazione con la chiusura di almeno un sito produttivo, la riduzione dei livelli occupazionali e la riduzione dei livelli retributivi. Per massimizzare i risultati del piano di ristrutturazione il gruppo ha cercato di mettere in competizione vari stabilimenti fra di loro. Come già avvenuto nel 2000 e 2001 attraverso la cooperazione fra il Comitato aziendale europeo (Cae) della General Motors e la Federazione europea dei metalmeccanici (Fem) viene organizzata una giornata di azioni a livello europeo per contrastare la strategia aziendale. La giornata di protesta alla quale hanno aderito gli stabilimenti situati in Germania, Svezia, Gran 268 Bretagna, Belgio, Polonia e Spagna ha contribuito a dimostrare una certa compattezza delle strutture di rappresentanza a livello europeo. La dimostrazione di solidarietà fra i vari stabilimenti e il ruolo di coordinamento assunto dalla Fem hanno costretto il management ad accettare un negoziato con i rappresentanti dei lavoratori a livello europeo. Questo negoziato ha portato l’8 dicembre 2004 alla stipula di un accordo quadro fra il management centrale della GM Europe e il Cae che prevede la rinuncia a chiusure di stabilimenti ed a licenziamenti per motivi aziendali. Il numero dei dipendenti negli stabilimenti tedeschi, che si aggira intorno a 35.000 persone viene ridotto di 6.000 invece dei 10.000 previsti inizialmente. La riduzione dei livelli occupazionali che dovrebbe costare al gruppo circa 750 milioni Euro prevede l’applicazione di diversi strumenti, fra cui il pagamento di liquidazioni per una parte dei lavoratori e per gli altri il passaggio a cosiddette società occupazionali che prevedono la riqualificazione del personale uscito dalla Opel per 12 mesi. Inoltre è previsto l’avvicinamento alla pensione per 3.000 dipendenti attraverso il tempo parziale o il passaggio a joint-ventures o spin-offs, vale a dire ad attività di cooperazione con altre aziende. Fra i vari casi del settore automobilistico la GM Europe rappresenta l’unico caso in cui vengono effettuati tagli occupazionali. L’accordo quadro firmato dal Cae doveva poi costituire la base per i negoziati più dettagliati a livello nazionale. Il 4 marzo 2005 è stato firmato il cosiddetto ‘contratto per il futuro’ per gli stabilimenti tedeschi a Rüsselsheim, Bochum e Kaiserslautern. Punto centrale dell’accordo è la garanzia di attività per tutti gli stabilimenti europei fino al 2010. Vengono quindi evitate chiusure di stabilimenti; inoltre si rinuncia fino al 2010 a licenziamenti per motivi aziendali. Da parte dei dipendenti viene concessa una riduzione dei livelli salariali che finora superavano gli standard del contratto collettivo di categoria per il 18 %. L’obiettivo è un successivo avvicinamento ai livelli salariali definiti dal contratto collettivo. Per questo motivo viene concordata una rinuncia ad aumenti salariali fino al 2005. In seguito fino al 2010, gli aumenti alla Opel dovrebbero essere inferiore di 1 % rispetto agli aumenti stabiliti dal contratto collettivo. È prevista inoltre una riduzione della tredicesima dal 130 % al 70 % a partire dal 2006. In caso di pareggio o utile è prevista un’erogazione del 100 %. Per quanto riguarda l’orario di lavoro viene concordata una flessibilizzazione attraverso un allargamento del “corridoio” sulla base del quale la settimana lavorativa può oscillare fra le 30 e le 40 ore. Sarà consentito inoltre il lavoro al sabato con un limite di 15 volte all’anno. 269 Infine, nel ‘contratto per il futuro’ vengono definiti anche gli investimenti e l’assegnazione dei nuovi modelli ai vari stabilimenti. Allo stabilimento di Rüsselsheim viene assegnato lo sviluppo della nuova classe media di Opel (Vectra) e Saab (9-3), a partire dal 2008, ed il nuovo modello Astra. Inoltre viene confermato il ruolo del centro di ricerca e sviluppo dello stabilimento di Rüsselsheim nell’ambito del gruppo. Alla Saab di Trollhättan, che era in competizione con Rüsselsheim per la produzione della classe media, dal 2006 saranno prodotti da 8.000 a 10.000 esemplari della Cadillac BLS così come altri modelli della Saab come per esempio la 9-3 station wagon. Allo stabilimento di Bochum viene invece assegnata a partire dal 2006 la produzione del modello Astra a cinque porte. Inoltre sono previsti degli investimenti per 20 milioni di dollari. Complessivamente c’è da constatare che il ‘contratto per il futuro’ non implica un’erosione del contratto collettivo di categoria ma solo un avvicinamento agli standard definiti dal contratto collettivo. Quanto sia difficile sviluppare una strategia e raggiungere accordi condivisi a livello europeo lo dimostrano le proteste dei rappresentanti dei lavoratori in Gran Bretagna ed in Belgio che nella fase finale del negoziato hanno formalmente protestato presso la Federazione europea dei metalmeccanici denunciando la violazione del principio di trasparenza da parte dei loro colleghi tedeschi dello stabilimento di Bochum. Come già menzionato, anche nel caso della General Motors il negoziato era accompagnato da scioperi ed azioni di protesta. Visto che in Germania i consigli di azienda non hanno il diritto di indire degli scioperi, le attività di protesta contro i licenziamenti previsti dal management sono state dichiarate delle “iniziative di informazione” per i dipendenti. In particolar modo a Bochum, dove la lotta si era più radicalizzata e dove lo sciopero è durato più giorni c’era bisogno di ricorrere alle “iniziative di informazione” per giustificare l’astensione dal lavoro. Quanto alle dinamiche interne né l’IG Metall, né il consiglio di azienda sono mai riusciti a controllare del tutto il movimento di protesta. A Bochum si sono infatti manifestati orientamenti divergenti all’interno del sindacato, del consiglio di azienda e delle maestranze. Da un lato c’era la posizione che condivideva le concessioni per rendere più sicuro il futuro dello stabilimento di Bochum, dall’altro c’era invece il rifiuto di una politica delle concessioni. Queste contraddizioni si sono manifestate anche durante la fase di consultazione sull’accordo raggiunto con il management. Il corpo dei 270 fiduciari, cioè la struttura aziendale dell’IG Metall, si è espresso infatti negativamente sull’accordo e ha consigliato di non approvarlo visto che l’accordo non dà una prospettiva per lo stabilimento di Bochum per il periodo successivo al 2010. Con questa posizione il corpo dei fiduciari si è messo in opposizione sia rispetto alla maggioranza del consiglio di azienda dello stabilimento di Bochum, che alle strutture locali e regionali dell’IG Metall. Anche il presidente del Cae, che è anche il presidente del consiglio dell’azienda di Rüsselsheim, ha condannato la posizione del corpo dei fiduciari di Bochum come un atto irresponsabile, visto che in caso di non approvazione il futuro dello stabilimento di Bochum sarebbe fortemente messo a rischio. L’accentuata conflittualità e la disapprovazione dell’accordo da parte dei fiduciari dimostrano probabilmente che anche i patti per l’occupazione e la competitività che del resto vengono firmati ad intervalli sempre più brevi, non riescono più a dare la necessaria fiducia ai dipendenti. Esiste quindi anche il rischio che la mancanza di credibilità si trasformi in una crisi di legittimità delle strutture di rappresentanza. 3 Le motivazioni, le caratteristiche ed i contenuti dei patti per l’occupazione e la competitività Alla base di tutti questi casi sta la minaccia di trasferire la produzione e/o di indirizzare investimenti futuri verso paesi con un minore costo del lavoro. In alcuni casi si tratta di una competizione con stabilimenti all’interno dell’Ue 15, nella maggior parte, comunque, con stabilimenti situati nei nuovi Stati membri o fuori dall’Europa. A prendere l’iniziativa è sempre il management che richiede un abbassamento dei costi per migliorare o riacquisire la sua competitività a livello internazionale. Questo è l’argomento non solo di gruppi come la General Motors Europe che devono affrontare una situazione di perdite sostanziali nel corso degli anni recenti ma anche di gruppi come la Audi e la Porsche che nel 2004 hanno realizzato risultati decisamente positivi. La stessa Siemens nel 2004 ha occupato in Germania il primo posto nella classifica delle imprese con i maggiori utili. Al protagonismo del management che si trova in una posizione di forza potendo utilizzare in modo offensivo una politica di benchmarking a livello globale corrisponde una posizione difensiva del sindacato e dei consigli di azienda che in genere cercano di limitare gli effetti negativi della globalizzazione della competizione. 271 Gli accordi firmati possono riguardare singoli stabilimenti, l’insieme degli stabilimenti di un gruppo in un paese così come nel caso della General Motors tutta la parte europea del gruppo. A seconda del livello di contrattazione anche gli attori cambiano. Mentre in imprese di minore dimensioni gli accordi possono essere firmati dal consiglio di azienda nel caso dei grandi gruppi gli accordi possono essere firmati dal coordinamento di gruppo a livello nazionale o anche dal sindacato come nel caso della Volkswagen. Solo nel caso della General Motors abbiamo anche il coinvolgimento degli attori europei, sia da parte del gruppo, sia da parte dei dipendenti. Dal punto di vista del contenuto, per quanto riguarda le misure che dovrebbero contribuire ad un miglioramento della competitività troviamo · la flessibilizzazione e l’allungamento dell’orario di lavoro, · la riduzione dei livelli salariali, · la riduzione dei bonus annuali, il legamento del loro calcolo a parametri aziendali e la flessibilizzazione delle modalità della loro erogazione, · la riduzione dei livelli occupazionali. Il risultato di queste misure consiste in un aumento della produttività del lavoro che per il singolo lavoratore significa in genere un peggioramento sia delle condizioni di lavoro, sia della sua situazione economica. E’ da evidenziare inoltre che queste misure spesso portano ad una differenziazione dei trattamenti all’interno delle maestranze e quindi ad un processo di segmentazione del mercato del lavoro interno. Come contropartita il management può concedere · delle garanzie per i siti e i livelli occupazionali, · degli investimenti e l’assegnazione di futuri ordini di produzione, · la rinuncia a processi di outsourcing. Per quanto riguarda le garanzie dei livelli occupazionali che vengono date anche per 5–7 anni è comunque da tener presente che le imprese in genere si riservano la possibilità di rinegoziare gli accordi in caso di andamento di mercato negativo. Le stesse garanzie dei livelli occupazionali vengono quindi concesse utilizzando clausole di revisione. Visto la durata delle garanzie occupazionali che può arrivare anche a sette anni è piuttosto probabile che le imprese facciano ricorso alle possibilità di rinegoziare gli accordi. In questo 272 caso l’effetto di un’ulteriore perdita di credibilità della politica delle ‘alleanze aziendali’ sarebbe inevitabile. Questa tendenza implica, di fatto, un nuovo tipo di scambio. Si può sostenere che è vero che avviene tuttora uno scambio fra il management e le strutture di rappresentanza, ma è anche vero che in genere non si tratta di scambi equi. Con l’orientamento prevalente all’incremento della competitività delle imprese vengono concordati delle concessioni da parte dei dipendenti che hanno un carattere definitivo. Abbiamo quindi, da un lato, concessioni chiaramente definite per quanto riguarda i livelli remunerativi, la flessibilizzazione e l’allungamento dell’orario di lavoro che hanno un impatto concreto sugli aspetti organizzativi ed economici delle condizioni di vita e di lavoro, dall’altro lato invece, i dipendenti ottengono garanzie e diritti meno tangibili, meno certi e di conseguenza anche meno esigibili. Si può quindi avanzare la tesi che questi accordi aziendali sono caratterizzati da un carattere iniquo dello scambio. Alla certezza della perdita di posizioni, da un lato, corrisponde l’incertezza delle conquiste, dall’altro. Di fronte a questo quadro non sorprende che da parte dei lavoratori diminuisce la convinzione che i patti per l’occupazione e la competitività possano rappresentare uno strumento adatto per garantire in prospettiva la sicurezza dei posti di lavoro. Infine, diminuisce la fiducia reciproca fra gli attori a livello aziendale che in passato era una delle caratteristiche della politica di ‘modernizzazione cooperativa’. Dal punto di vista dei dipendenti tutti gli attori a livello aziendale tendono a perdere di credibilità. Il risultato spesso consiste in un aumento di conflittualità che da parte sua indica un peggioramento generale delle relazioni industriali. Per quanto riguarda il sindacato la perdita di credibilità si può leggere nell’andamento di sindacalizzazione. Da un lato, i sindacati perdono fra gli iscritti tradizionali che non si sentono più tutelati dal sindacato; dall’altro lato, il sindacato fatica sempre di più a sindacalizzare i neoassunti. Anche questo non sorprende poiché sono proprio i neoassunti che spesso pagano il prezzo maggiore quando vengono negoziati i patti per l’occupazione e la competitività come dimostra per esempio l’accordo firmato alla Volkswagen. In questo contesto caratterizzato da una ridotta legittimità diventa sempre più difficile per il sindacato, ma soprattutto per i consigli di azienda, creare un consenso sul quale si possano reggere le ‘alleanze aziendali’ 273 4 Partecipazione e conflitto 1 Il coinvolgimento nei processi di ristrutturazione Per migliorare l’efficienza della gestione dei processi di ristrutturazione si cerca di favorire il coinvolgimento dei sindacati e delle strutture di rappresentanza a livello aziendale per poter arrivare a soluzioni consensuali. Il dialogo sociale rappresenta quindi uno strumento strategico nell’ambito delle politiche occupazionali. Il fatto che in molti casi le strutture di rappresentanza dei lavoratori abbiano subito una perdita di potere negoziale e siano, quindi, costrette ad accettare degli scambi iniqui per poter difendere i livelli occupazionali, non significa necessariamente che anche il loro ruolo istituzionale si sia indebolito. Il coinvolgimento delle strutture di rappresentanza nelle strategie aziendali di ristrutturazione può, al contrario, portare ad un consolidamento del loro ruolo istituzionale. Dal punto di vista del management le strutture di rappresentanza servono per garantire la legittimità delle strategie di ristrutturazione e per organizzare il consenso fra i dipendenti. Se, da un lato, questo tipo di approccio può implicare un’estensione delle esperienze di partecipazione, dall’altro, deve essere chiaro che il coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori avviene di solito in una situazione di crisi aziendale, dove si trovano in una posizione difensiva e dove la loro rappresentatività e quindi la capacità di organizzare il consenso diventa un fattore importante per la qualità del risultato del loro coinvolgimento. La capacità di difesa delle posizioni conquistate nel passato è stata, infatti, superiore nel settore automobilistico, caratterizzato da elevati livelli di sindacalizzazione e da una forte capacità di mobilitazione, piuttosto che alla Siemens dove il sindacato e le strutture di rappresentanza a livello aziendale sono relativamente deboli. L’accordo molto discusso della Siemens sembra confermare che, per ottenere accordi complessivamente accettabili serve, oltre alle capacità di partecipazione e negoziazione, anche una consolidata capacità di mobilitazione. In sintesi la logica che sta alla base dei patti per l’occupazione e la competitività consiste nella necessità di una concertazione efficace per poter gestire i processi di ristrutturazione. Attraverso il coinvolgimento delle strutture sindacali il management riconosce i limiti delle regole del mercato ‘puro’. Se per il sindacato il suo coinvolgimento rappresenta da un lato una 274 fonte di riconoscimento, dall’altro implica la sfida di dover confrontarsi con le ragioni del management. Dal punto di vista delle rappresentanze dei lavoratori diventa quindi decisivo saper interpretare e valutare i progetti manageriali. Esistono anche dei casi di crisi aziendali in cui i patti per l’occupazione e la competitività dopo periodi relativamente brevi non sono più in grado di garantire l’adeguamento dell’impresa al contesto di competizione in rapido mutamento, e vi è la necessità di ridefinirne i contenuti. Se, in generale, tali patti sono anche una garanzia di legittimità sia per i rappresentanti dei lavoratori che per il management, è evidente che la necessità di un riadeguamento e quindi di ulteriori concessioni può avere solo conseguenze negative per la credibilità degli attori aziendali che, talvolta, si trasformano in una crisi di legittimazione. 2 Il ruolo del conflitto industriale L’analisi dei processi di ristrutturazione mostra come le minacce di delocalizzazione e le richieste di riduzione dei livelli retributivi portino ad un aumento di conflittualità. Per quanto riguarda le case automobilistiche è necessario sottolineare che in molti casi gli accordi sono stati raggiunti dopo significative attività di sciopero. Ma anche nei casi Philips, Bosch, Siemens e Deutsche Bahn i processi di negoziazione sono stati accompagnati da attività di protesta e/o sciopero. Analizzando più dettagliatamente gli scioperi si nota che essi sono, innanzitutto, il risultato del conflitto fra dipendenti e management; ma in alcuni casi essi sono anche segno di orientamenti divergenti del sindacato, da un lato, e le strutture di rappresentanza, dall’altro. Per quanto riguarda le divergenze fra il sindacato e la sua base, alcuni scioperi, per esempio quello alla Opel o alla DaimlerChrysler sembrano dimostrare non solo l’insoddisfazione nei confronti di una strategia sindacale di tipo cooperativo che implica, a livello aziendale, una contrattazione orientata a concessioni sostanziali per quanto riguarda i livelli di retribuzione e le condizioni di lavoro, ma anche il crescente dissenso rispetto alla mancanza di adeguate forme di democrazia sindacale. Più in generale, l’incremento delle attività di sciopero sembra indicare una crescente insofferenza dei dipendenti nei confronti di una strategia delle `alleanze aziendali´. 275 L’aumento della conflittualità sembrerebbe indicare che oggi i patti per l’occupazione e la competitività siano meno accettati di quanto non lo fossero negli anni novanta. Questa tendenza si può notare soprattutto nei casi in cui vengono stipulati diversi patti a breve distanza di tempo. In questi casi i patti, più che rappresentare uno strumento eccezionale per superare una crisi aziendale, vengono utilizzati sistematicamente come strumento del management nella competizione fra stabilimenti all’interno dei gruppi transnazionali per decidere dove indirizzare gli investimenti futuri. Sempre più spesso i gruppi transnazionali decidono gli investimenti sulla base dei risultati dei loro processi di benchmarking a livello internazionale o legano le loro decisioni di investimento a procedure di competizione interna. In un tale contesto le `alleanze aziendali´ servono a migliorare la competitività del singolo stabilimento puntando sulla riduzione del costo del lavoro e sull’estensione delle varie forme di flessibilità per garantire in questo modo un ulteriore incremento della produttività del lavoro. Il risultato è che vengono richieste sempre più concessioni in intervalli sempre più brevi. Si può quindi sostenere che i patti per l’occupazione e la competitività non sono più solo uno strumento per superare situazioni di crisi aziendali, ma si stanno trasformando sempre più spesso in uno strumento strategico nelle mani del management, orientato a migliorare la redditività e la competitività attraverso l’aumento della flessibilità e la riduzione del costo del lavoro. Tali politiche manageriali possono anche implicare la richiesta di una riduzione del costo del lavoro in aziende altamente redditizie, come abbiamo visto nel caso della Siemens-VDO. Un tale approccio diventa sempre meno condivisibile per i dipendenti e le loro strutture di rappresentanza e rischia di accentuare ulteriormente la conflittualità. 5 Le ripercussioni dei patti per l’occupazione e la competitività sulla contrattazione collettiva a livello locale e centrale Per quanto riguarda il sistema di contrattazione collettiva è noto che in Germania, dove formalmente non esiste un secondo livello di contrattazione collettiva, è comunque in atto ormai da anni un processo di decentramento della contrattazione. Anche se solo nel 2004 con gli accordi firmati alla Siemens e alla DaimlerChrysler questa tendenza è stata portata a conoscenza di un più vasto pubblico, è da notare che già nel 2003, sono stati siglati accordi simili in 250 aziende e nel 2004 in altre 390. Sembrerebbe, quindi, 276 che il sistema di contrattazione collettiva, considerato così rigido da parte delle associazioni imprenditoriali sia abbastanza elastico da permettere di tener conto delle specifiche situazioni delle aziende. Per l’IG Metall le regolazioni deroganti dal contratto collettivo di categoria, che formalmente sono state rese possibili con la stipulazione del contratto del febbraio 2004, possono essere accettate se il contributo dato dai lavoratori su base negoziale temporanea sia posto nel quadro di un progetto complessivo sostenibile e se la deroga è inevitabile per scongiurare il pericolo di insolvenza. Per quanto riguarda l’impresa, IG Metall chiede in questi casi di fornire garanzie in merito all’occupazione, assicurare il mantenimento durevole dello stabilimento e pianificare un adeguato volume di investimenti per il futuro da poter garantire sia l’innovazione e lo sviluppo dei prodotti, che il miglioramento della produttività del lavoro. Diversa è invece ormai la posizione delle associazioni imprenditoriali. Il loro interesse, infatti, non è quello di poter negoziare deroghe agli standard contrattuali in caso di crisi aziendali. Il loro vero obiettivo è il superamento del concetto di standard minimo definito dal contratto collettivo di categoria. In quest’ottica il contratto collettivo dovrebbe assumere il carattere di un accordo quadro che prevede dei margini entro i quali le aziende si possono orientare in modo da trovare la soluzione più adatta dal punto di vista del miglioramento della loro competitività. L’idea sarebbe di legare gli standard contrattuali all’andamento dei costi o degli utili della singola azienda e renderli in questo modo variabili. Allo stesso tempo questo processo dovrebbe essere combinato ad un abbassamento generale degli standard minimi in vigore fino ad ora. Questo tipo di meccanismo è stato introdotto per esempio negli accordi firmati alla Volkswagen nel 2004 e alla Opel nel 2005 dove l’erogazione dei bonus è collegata per la prima volta a parametri aziendali e dove anche nel caso più favorevole il bonus massimo rimarrà comunque al disotto del livello dei bonus precedenti. Se poi aggiungiamo che i patti per l’occupazione e la competitività con deroghe agli standard contrattuali sono stati firmati anche in imprese per le quali non si poneva il pericolo di insolvenza si può concludere che il processo di decentramento della contrattazione collettiva stia avvenendo più sotto il segno dell’erosione sistematica degli standard contrattuali che non secondo la posizione del sindacato che vorrebbe accettare questi accordi aziendali solo in casi di crisi e quindi come fenomeni eccezionali e temporanei. È piuttosto probabile che le aziende cerchino sempre più 277 sistematicamente a derogare agli standard contrattuali per ridurre i costi e migliorare la loro competitività. Dal punto di vista sindacale i patti per l’occupazione e la competitività rappresentano un approccio difensivo alla contrattazione; non esiste più il legame tradizionale fra contrattazione collettiva e miglioramento della posizione dei lavoratori. La geometria dei contratti collettivi è mutata profondamente in quanto i patti per l’occupazione e la competitività sono fondamentalmente caratterizzati da concessioni più o meno unilaterali. In questo contesto la strategia sindacale si definisce sempre più in una logica difensiva, orientata a limitare le deroghe agli standard contrattuali. Secondo un’indagine dell’associazione imprenditoriale del settore metalmeccanico, Gesamtmetall, fino all’inizio del 2005, 125 aziende avrebbero fatto richiesta di negoziare delle deroghe agli standard contrattuali e in 113 casi il sindacato, l’IG Metall, avrebbe acconsentito. Qui troviamo oltre ai già menzionati 41 casi di allungamento dell’orario di lavoro senza conguaglio anche 39 casi in cui viene ridotta la tredicesima, 9 casi in cui viene ridotta la retribuzione mensile e 6 casi in cui viene eliminata la parte extracontrattuale della retribuzione. Come contropartita in 59 casi le aziende rinunciano a licenziamenti per motivi aziendali, solo in 11 casi vengono assicurati futuri investimenti, in 7 casi vengono fornite garanzie di mantenimento di stabilimenti ed in 6 casi vengono garantiti dei livelli occupazionali. Il dato più indicativo è comunque che in 47 casi le aziende non forniscono risposte rispetto ad una eventuale contropartita. La mancanza di una risposta indica probabilmente l’assenza di una contropartita che significherebbe che in più di un terzo dei casi registrati ci troviamo di fronte a concessioni unilaterali. Il 2004 sarà ricordato come un anno in cui è avvenuto un salto qualitativo per quanto riguarda l’erosione degli standard stabiliti dai contratti collettivi di categoria, in particolar modo rispetto all’orario di lavoro e ai livelli di retribuzione. Di fronte a questa situazione l’autorevole settimanale Die Zeit (47/2004) scrive che i lavoratori stanno assistendo ad un “esautorazione epocale” del sindacato, mai stato così debole dal dopoguerra ad oggi. Se da un lato è vero che la globalizzazione della competizione e le conseguenti minacce di delocalizzazione di siti produttivi hanno portato ad una erosione del contratto collettivo di categoria attraverso un processo di decentramento e di flessibilizzazione della contrattazione collettiva, dall’altro lato, c’è comunque anche la necessità di fare delle differenziazioni. 278 Nella valutazione dei patti per l’occupazione e la competitività è, infatti necessario distinguere i casi in cui vengono stabilite delle deroghe agli standard del contratto collettivo di categoria e i casi nei quali vengono concordati deterioramenti dei livelli retributivi e delle condizioni di lavoro, senza tuttavia mettere in discussione gli standard minimi stabiliti dal contratto collettivo di categoria. Contrariamente rispetto ai risultati dell’accordo raggiunto alla Siemens, per quanto riguarda ad esempio le case automobilistiche, i patti per l’occupazione e la competitività non implicano in genere un’erosione del contratto collettivo ma solo un avvicinamento agli standard definiti dal contratto collettivo di categoria. Il fatto che i risultati siano tendenzialmente più positivi nel caso delle case automobilistiche è probabilmente dovuto anche all’alto livello di sindacalizzazione e alla capacità di mobilitazione. Viceversa troviamo i patti per l’occupazione e la competitività meno favorevoli per i dipendenti: spesso infatti contengono deroghe agli standard dei contratti collettivi in realtà aziendali con minor tasso di sindacalizzazione. Particolarmente difficile è la situazione nelle piccole e medie imprese, in cui gli accordi possono essere anche caratterizzati da concessioni senza nessun tipo di contropartita da parte del management. La qualità dei patti per l’occupazione e per la competitività sembra quindi dipendere non solo dalla situazione economica dell’impresa ma anche dai rapporti di forza esistenti nelle rispettive imprese. Anche differenziando fra i diversi tipi di patti aziendali rimane comunque il fatto che si tratta di accordi firmati dai sindacati che si trovano in una posizione difensiva, posizione che permette poco spazio di azione. Il consiglio di azienda della Siemens ha infatti parlato di trattative sotto ricatto indicando, con quest’affermazione, lo spostamento dei rapporti di forza a favore della multinazionale. In un tale contesto in cui imprese altamente redditizie riescono attraverso minacce di delocalizzazione a costringere il sindacato a fare concessioni e accettare deroghe agli standard contrattuali collettivi minimi diventa sempre più discutibile parlare ancora di un processo di “decentramento controllato” in quanto una parte, ovvero i consigli di azienda ed i sindacati, è esposta in modo arbitrario alle minacce della controparte. Diventa quindi difficile per il sindacato circoscrivere l’utilizzo di deroghe agli standard minimi ai casi effettivamente di emergenza. Di conseguenza si pongono ormai seri dubbi rispetto alla stabilità del sistema di contrattazione collettiva tedesco. 279 I consigli di azienda sono infatti ben consapevoli che la loro forza dipende anche dalla qualità e dalla vincolabilità dei contratti collettivi di categoria. Di conseguenza, i consigli di azienda sono piuttosto scettici rispetto ad un ulteriore decentramento della contrattazione collettiva. In un sondaggio dell’Istituto di scienza economica e sociale della Fondazione Hans Böckler l’80 % dei consigli di azienda considerano un ulteriore decentramento della contrattazione collettiva in modo ambivalente o genericamente problematico. Come sostiene anche Bispinck, la politica del “decentramento controllato” non sembra affatto adatta a stabilizzare il sistema di contrattazione collettiva tedesco. Un tale approccio implica invece il rischio di muoversi sempre di più nella direzione di una contrattazione competitiva fra gruppi dello stesso settore o anche fra stabilimenti dello stesso gruppo. Ai tempi di un’Unione europea allargata una tale tendenza sembra particolarmente pericolosa. Come abbiamo visto alla base dei patti per l’occupazione e la competitività sta la minaccia di trasferire la produzione e/o di indirizzare investimenti futuri verso paesi con un minore costo del lavoro. Il management mette quindi i vari stabilimenti di un gruppo in diretta competizione fra di loro. Visto che la riduzione dei costi ottenuta grazie al patto per l’occupazione e la competitività porta ad un vantaggio competitivo nei confronti delle altre imprese del rispettivo settore alla fine anche queste imprese saranno costrette a ridurre i loro costi. Esiste quindi il rischio che in questo modo si metta in moto uno spiraglio verso il basso. Nell’industria automobilistica solo nel 2004/05 ci sono stati i casi della DaimlerChrysler, della Volkswagen e poi della General Motors. Poi, in primavera del 2005 si è aggiunto il patto per l’occupazione e la competitività firmato all’Audi che aveva chiuso il 2004 con risultati ancora migliori di quelli del 2003. La prossima richiesta di riduzione dei costi del lavoro da parte di un'altra casa automobilistica sembra solo una questione di tempo. La tendenza sempre più sfrenata verso il dumping sociale implica che il contratto collettivo di categoria perde sempre di più la sua funzione di solidarietà fra i lavoratori e di garantire una competizione leale fra le aziende dello stesso settore. A livello macroeconomico le deroghe agli standard retributivi contribuiscono alla tendenza che gli incrementi salariali reali percepiti dai lavoratori sono mediamente più bassi di quelli contrattati dai sindacati. Questo fenomeno mina ovviamente i tentativi delle federazioni sindacali europei di coordinare la politica contrattuale a livello europeo in 280 modo da evitare una competizione fra le economie nazionali basata sul dumping contrattuale. Questo significa che esiste il rischio che il contratto collettivo perda la sua funzione di stabilire degli standard minimi per tutti i lavoratori di una determinata categoria. Si potrebbe ipotizzare che questo problema sia di più difficile soluzione in sistemi di rappresentanza a canale doppio dove le rappresentanze dei lavoratori godono di una più elevata autonomia rispetto al sindacato esterno che non in sistemi a canale unico dove siamo di fronte ad una più forte integrazione fra rappresentanze aziendali ed organizzazioni sindacali. I patti per l’occupazione e la competitività possono quindi minare norme e standard definiti dai contratti collettivi e contribuire, più in generale, ad una pressione crescente che ha come obiettivo il cambiamento dei sistemi di regolazione trasferendo più competenze di regolazione a livello aziendale. 6 Le ripercussioni del decentramento contrattazione collettiva sulle relazioni industriali della La crescente tendenza verso il decentramento della contrattazione implica, dal punto di vista sindacale, altre sfide ancora. La prima riguarda l’identificazione dei titolari della contrattazione aziendale. Visto che i consigli di azienda che non sono una struttura sindacale hanno una funzione nel sistema di rappresentanza e di codeterminazione, ma non nel sistema di contrattazione collettiva si pone la domanda su quale sarà il ruolo del sindacato rispetto alla contrattazione aziendale e come sarà organizzata in prospettiva la cooperazione fra strutture sindacali e consigli di azienda. Sicuramente il sindacato non vorrà lasciare il ruolo di contrattazione a livello aziendale solamente ai consigli di azienda, visto che queste strutture teoricamente possono anche essere composte esclusivamente da non iscritti al sindacato. Per il sindacato, il decentramento della contrattazione significa, quindi, dover ridefinire il suo ruolo ed il suo rapporto con le strutture di rappresentanza a livello aziendale. In generale, il decentramento della contrattazione significa un nuovo compito per il sindacato e, quindi, anche la necessità di dedicare più risorse all’attività sindacale a livello aziendale così come alla formazione dei membri dei consigli di azienda. Se si dovesse arrivare ad una formalizzazione di un secondo livello di contrattazione, il vero nodo da sciogliere riguarderebbe il diritto di sciopero. 281 Oggi il consiglio di azienda, che viene costituito sulla base della legge sulla costituzione aziendale, non rappresenta una struttura sindacale e formalmente non avrebbe nessun ruolo di contrattazione collettiva. Di conseguenza, i consigli di azienda non possono indire scioperi, anzi, la legge richiede sia dai consigli di azienda, sia dal management un atteggiamento cooperativo. Dal punto di vista della regolazione della contrattazione collettiva l’obbligo di pace sociale dopo la stipula di un contratto collettivo di categoria vieta gli scioperi fino alla scadenza di questo contratto. Sarebbe vietato quindi anche indire degli scioperi a livello decentrato per motivi aziendali. Per questo motivo nel caso dell’Opel gli scioperi sono stati giustificati come “partecipazione ad assemblee di informazione”. L’IG Metall stessa ha annunciato che di fronte a queste tendenze di decentramento intende rafforzare la sua posizione a livello aziendale e sviluppare un potere contrattuale a livello decentrato. L’associazione imprenditoriale del settore metalmeccanico, Gesamtmetall, considera il decentramento della contrattazione collettiva un fenomeno ambivalente. Da un lato, ci si auspica il decentramento per trovare risposte nell’ambito della contrattazione collettiva che tengano conto delle specifiche situazioni aziendali; dall’altro lato, si avverte il rischio che un decentramento troppo accentuato possa significare mettere a rischio la pace sociale a livello aziendale. Visto che la funzione di contrattazione è necessariamente legata anche al diritto di sciopero, il presidente di Gesamtmetall, Kannegiesser, prevede che se i consigli di azienda assumano il ruolo di contrattazione a livello aziendale essi perdono la loro classica funzione di partecipare alla ricerca di compromessi e, quindi, il carattere partecipativo delle relazioni industriali verrebbe messo a rischio. Kannegiesser si pronuncia quindi contro una trasformazione del ruolo dei consigli di azienda e di conseguenza anche contro un trasferimento troppo esteso di competenze contrattuali alle strutture di rappresentanza a livello aziendale. L’introduzione formale di un secondo livello di contrattazione potrebbe anche implicare la nascita di sindacati aziendali e quindi la frammentazione delle organizzazioni di rappresentanza. Per evitare un tale scenario secondo Kannegiesser il contratto collettivo di categoria dovrebbe mantenere la sua funzione guida e dovrebbe essere applicabile da tutte le aziende della categoria. Solo l’adattamento alle peculiarità aziendali dovrebbe secondo il parere di Kannegiesser essere materia di una contrattazione a livello aziendale. Il presidente di Gesamtmetall si pronuncia quindi chiaramente contro una 282 troppa accentuata aziendalizzazione della contrattazione per evitare tendenze di aziendalismo e di conflitto non controllabili. 7 La competizione fra stabilimenti dello stesso gruppo e il ruolo dei Comitati aziendali europei (Cae) Già negli anni novanta si sono verificati casi di ristrutturazione a livello europeo che hanno visto, almeno formalmente, il coinvolgimento delle strutture di rappresentanza dei lavoratori. Rispetto al contesto italiano uno dei casi più noti riguarda il processo di ristrutturazione alla Electrolux alla fine degli anni novanta. In questo caso il management centrale aveva messo in competizione fra di loro i vari stabilimenti europei e anche i rispettivi delegati presenti nel Cae. Di fronte a questa sfida lanciata dal management centrale il Cae non riusciva a sviluppare una strategia alternativa e condivisa e, di conseguenza, non era in grado di influenzare le decisioni del management centrale: i problemi principali, infatti, riguardavano sia l’insufficiente coesione interna del Cae, sia il mancato coordinamento fra il Cae e le organizzazioni sindacali a livello europeo. Nei patti per l’occupazione e la competitività firmati recentemente si nota che solo nel caso della General Motors è stato coinvolto il Comitato aziendale europeo. Tutti gli altri casi sono stati gestiti esclusivamente a livello nazionale. Il Cae che già a partire dal 2000 aveva assunto un ruolo di negoziazione anche nel processo di ristrutturazione del 2004/05 ha firmato un accordo quadro che rappresentava un punto di riferimento comune per i seguenti processi di negoziazione a livello nazionale. Il caso della General Motors ha dimostrato che per poter sviluppare una strategia basata su una solidarietà a livello europeo è indispensabile una stretta cooperazione fra le federazioni sindacali ed i comitati aziendali europei così come un’integrazione fra le strutture di rappresentanza a livello europeo, nazionale ed aziendale. L’esperienza positiva del Cae della General Motors è dovuta anche al grado di coesione interna raggiunto. Secondo il presidente del Cae della General Motors all’interno della struttura di rappresentanza europea si sono consolidati nel corso degli anni principi di lavoro che sono la trasparenza, la franchezza e la lealtà. Per quanto riguarda la cooperazione con la Federazione europea dei metalmeccanici (Fem) è da notare che per la prima volta un gruppo di monitoraggio è stato costituito presso la Fem con il compito di accompagnare il processo di ristrutturazione. Secondo il 283 presidente del Cae il lavoro di questo gruppo ha migliorato notevolmente la cooperazione fra Cae e Fem. Nel caso della General Motors le attività di protesta e di sciopero hanno riguardato vari paesi europei. Dal punto di vista sindacale gli scioperi e le azioni di protesta avevano soprattutto la funzione di dimostrare l’esistenza di una solidarietà fra le maestranze, sia a livello nazionale, sia a livello europeo. Nel caso della Volkswagen siamo invece di fronte ad una strategia nazionale che proprio dal punto di vista del bisogno di un coordinamento a livello europeo potrebbe essere considerata inadeguata. È, infatti, probabile che l’accordo abbia delle ripercussioni anche al di fuori della Germania e quindi secondo gli orientamenti della Fem sarebbe stata auspicabile almeno una discussione preventiva a livello europeo. Il tentativo di trovare soluzioni isolate a livello di singolo stabilimento o a livello nazionale favorisce infine tendenze di competizione fra singole realtà produttive o fra i vari contesti nazionali come successe per esempio nel sopramenzionato caso della Electrolux. Il Teamworking nel settore automobilistico negli U.S.A.: strategie ed effetti sulle prestazioni produttive e sui risultati dei lavoratori William Cooke, David Meyer, Christopher Huxley Negli ultimi trent’anni, negli Stati Uniti l’industria automobilistica e della fornitura di componentistica ha attraversato un profondo cambiamento strutturale in un situazione di fondo su scala mondiale caratterizzata da una sovrabbondanza di capacità e da un cambiamento nei modelli di investimenti diretti esteri (FDI). In risposta ad un mercato internazionale sempre più competitivo e incerto, i fornitori di componenti continuano a trasformare e adattare le loro strategie di lavoro e commerciali. Il presente studio verte principalmente sul ruolo del teamworking (lavoro di squadra) nell’ambito di queste strategie di lavoro e commerciali in fase di trasformazione, soprattutto in termini di scelte strategiche, degli effetti sulle prestazioni aziendali e sul grado di percezione delle ricadute positive per i lavoratori. In seguito ad un’indagine effettuata sulle società statunitensi, esamineremo innanzitutto le scelte strategiche da esse effettuate riguardanti l’ambiente di lavoro e il lavoro di squadra concernente il personale addetto alla produzione perseguite nel quadro più ampio delle strategie aziendali. Successivamente analizzeremo gli effetti del teamworking dal punto di vista dei datori di lavoro sia sulla performance sia sul grado d’impegno dei lavoratori verso il raggiungimento degli obiettivi aziendali. Poiché precedenti analisi sulle società statunitensi hanno rilevato diverse differenze fra gli effetti del teamworking sulla performance, desideriamo qui esaminare gli effetti differenziali del teamworking fra le aziende sindacalizzate e quelle non sindacalizzate. In terzo luogo, in base ai dati derivanti da un’indagine fra i lavoratori di tutte le otto le aziende sindacalizzate, analizzeremo gli effetti del teamworking prevalentemente basato sulle mansioni e dell’empowerment dei lavoratori secondo le percezioni degli stessi sulla loro disponibilità a impegnarsi a fare di più. 285 1 Il settore della fornitura automobilistica in prospettiva di componentistica Il settore della fornitura di componentistica automobilistica è composto da diciassette principali industrie produttrici (es., airbag, alternatori, freni, frizioni, apparecchiature elettroniche, componenti di motori, sistemi di scarico, sterzo, sedili e trasmissioni). Negli U.S.A., questo settore è stato a lungo caratterizzato da un alto grado di mobilità di lavoratori, storicamente il risultato della natura ciclica e altalenante della domanda e della produzione di autoveicoli. Più recentemente, il settore automobilistico e della fornitura di componenti per auto è stato contraddistinto da una delocalizzazione costante verso paesi a basso costo di manodopera, quali il Messico e l’America Latina. L’effetto netto di questi spostamenti d’investimenti all’estero nel periodo 1989-1998 è stato un calo dell’occupazione totale del 16 percento (equivalente a una perdita di circa 164.000 posti di lavoro) in tutte le attività delle società multinazionali degli U.S.A. Nonostante un’impennata senza precedenti degli investimenti diretti esteri negli U.S.A. nel periodo 1987-1997, che ha contribuito a controbilanciare le perdite di posti di lavoro nelle società di proprietà U.S.A. (con un aumento netto di 140.000 posti di lavoro), le operazioni di fusione ed acquisizione da parte di società statunitensi hanno comportato in generale una forte delocalizzazione di manodopera. Il che vuol dire che per ogni posto di lavoro in più creato grazie a nuovi investimenti diretti esteri negli U.S.A., un altro posto di lavoro va perso a causa della vendita o della liquidazione di società di proprietà estera con sede negli U.S.A. Inoltre, la sostituzione di manodopera con capitale da parte delle multinazionali sembra essere enormemente aumentata nel corso dell’ultimo decennio. Anzi, verso la fine degli anni 1980 e nel corso degli anni 1990, si è verificata una diminuzione di circa il 50 per cento nel numero dei lavoratori assunti per ogni miliardo di dollari U.S.A. investito sia in società statunitensi sia in società di proprietà estera con sede negli U.S.A. operanti nel settore della produzione e della fornitura automobilistica (vedere Cooke, Huxley, e Meyer, 2002, per ulteriori dettagli.) Tenendo conto di queste caratteristiche proprie del settore automobilistico e della componentistica per auto, desideriamo esaminare le strategie di organizzazione del lavoro messe in atto dai fornitori di componenti nel loro tentativo di ottenere un vantaggio competitivo e di massimizzare la 286 redditività in un mercato globale caratterizzato da una forte ciclicità, ristrutturazioni e intensificazione di capitale. Prima di illustrare tali strategie, intendiamo descrivere i dati raccolti che sono alla base delle analisi effettuate. 2 Raccolta dati Il nostro campione di società fornitrici di componenti per auto è stato inizialmente selezionato nell’aambito di un elenco di 909 aziende individuate da ELM Internazionale, una società di consulenza e indagini di mercato, specializzata nel settore della fornitura di componenti per automobili negli U.S.A. Sono state effettuate delle indagini telefoniche presso tutte le società cmprese nell’elenco per verificare gli indirizzi di posta e per ottenere i nomi degli alti dirigenti a cui spedire i questionari. Alla fine siamo stati in grado d’individuare e localizzare un totale di 808 aziende ancora operanti nel settore al momento del nostro primo mailing (a fine gennaio 2001) a 356 società con tre o più stabilimenti produttivi. Per quel che concerne questo gruppo di società più grandi, abbiamo inviato dei questionari agli alti dirigenti. Il questionario relativo alla Strategia Commerciale è stato indirizzato all’Amministratore Delegato (CEO) o al Presidente, il questionario relativo alla Strategia Operativa è stato indirizzato al Vice-Presidente o ad altri alti dirigenti responsabili delle varie attività, mentre il questionario relativo alla Strategia per lo Sviluppo delle Risorse Umane (SRU) è stato indirizzato al Vice-Presidente o ad altri alti dirigenti responsabili del personale. Per quanto riguarda le altre aziende con solo uno o due stabilimenti produttivi, abbiamo inviato tutti e tre i questionari all’Amministratore Delegato (CEO) o al Presidente, chiedendo di completare anche il questionario relativo alla Strategia Commerciale e di chiedere agli altri alti dirigenti responsabili del personale e delle altre attività di completare rispettivamente i questionari relativi alla Strategia per lo Sviluppo delle Risorse Umane e alla Strategia Operativa. Dopo ripetute richieste di follow-up inviate ai non-rispondenti, entro il mese di ottobre 2001 avevamo ricevuto le risposte da parte dei dirigenti delle 175 società ad uno o più dei tre questionari inviati. In particolare, abbiamo ricevuto 130 risposte relativamente alla nostra indagine sulla Strategia Commerciale, 128 risposte relativamente a quella sulla Strategia Operativa e 108 risposte relativamente a quella sulla Strategia per lo Sviluppo delle Risorse Umane. Oltre alla ricerca nazionale rivolta ai dirigenti di aziende operanti nel settore della fornitura di componenti per automobili, abbiamo condotto l’indagine 287 anche fra i dirigenti aziendali e sindacali riguardo le proprie rispettive strategie commerciali e di organizzazione del lavoro in un gruppo selezionato di 15 imprese sindacalizzate ubicate nella parte sudorientale del Michigan. All’interno di queste 15 imprese, abbiamo anche intervistato gli addetti alla produzione di 8 stabilimenti, ottenendo risposta da parte di 888 lavoratori. Tuttavia, il questionario rivolto agli addetti non era ideato specificatamente per analizzare il tema del lavoro in squadra in quanto tale, ma piuttosto per delineare un quadro più ampio delle esperienze degli addetti alla produzione relativamente ad un ampio spettro di strategie di organizzazione del lavoro e di sviluppo delle risorse umane adottate all’interno dell’impresa. Nonostante i limiti dell’indagine, siamo stati comunque in grado di esaminare gli effetti netti del lavoro in squadra basato sulle mansioni e dell’empowerment psicologico sullo sforzo e l’impegno a fare di più da parte dei lavoratori, tenendo conto anche di tutta una serie di altre variabili fondamentali per l’analisi del tema del teamworking. 3 Strategie di organizzazione del lavoro Spinti dal desiderio di ottimizzare i profitti, i dirigenti aziendali cercano di elaborare ed attuare strategie atte a raggiungere tale obiettivo a vantaggio dell’impresa nell’ambito del mercato in cui si trovano ad operare. Secondo tale impostazione, il nostro modello relativo alle strategie commerciali e di organizzazione del lavoro è in linea con la teoria dei costi di transazione. Come sostenuto da Williamson (1991), il presupposto principale alla base della teoria dei costi di transazione è che la strategia commerciale può essere considerata come un atto volto ad allineare le transazioni con le strutture di governance nel modo più efficace rispetto ai costi. Conseguentemente, la performance aziendale dipende dalla capacità dei dirigenti di elaborare il calcolo del rapporto costo-benefici percepito sia (1) delle varie transazioni sia (2) dell’allineamento di tali transazioni. Come proposto da altri autori (Cooke, Huxley e Meyer, 2002), innanzitutto le imprese prendono numerose decisioni fondamentali riguardo all’importanza strategica da attribuire (1) al posizionamento di mercato, principalmente al fine di tutelare ed ampliare le proprie quote di mercato e di sviluppare nuovi sbocchi di mercato, (2) alla performance, ossia rispetto al controllo dei costi, al controllo qualità e alla fornitura di prodotti e servizi innovativi, (3) alla portata e alla configurazione delle operazioni e (4) al mix e alla gamma dei prodotti offerti e dei clienti serviti. 288 Una volta prese tali decisioni strategiche fondamentali, i dirigenti dovranno decidere quali strategie di organizzazione del lavoro adottare, in maniera tale da massimizzare gli obiettivi strategici principali nel modo più efficace e conveniente. Come illustrato nella presente relazione, le strategie di organizzazione del lavoro comprendono varie politiche e pratiche alla base sia dei sistemi tecnologici che dei sistemi di gestione delle risorse umane in tutte le fasi produttive dell’impresa. Quindi, nel formulare delle strategie di organizzazione del lavoro, le imprese devono decidere l’enfasi da attribuire a: (1) applicazione di nuovi processi tecnici, tecnologie e apparecchiature, (2) soluzioni ingegneristiche e altre applicazioni correlate di R&S e (3) miglioramento delle pratiche di gestione delle risorse umane. In base all’enfasi scelta da ogni luogo di lavoro, saranno poi messe a punto le diverse strategie di organizzazione del lavoro. Rispetto alla categorizzazione delle imprese in base all’enfasi scelta da ogni luogo di lavoro, i rispondenti all’Inchiesta sulla Strategia Operativa sono stati invitati ad assegnare un totale di 10 punti alle diverse scelte che riflettessero le priorità seguite dalla propria società nel corso degli ultimi 5 anni. In particolare, ai rispondenti è stato chiesto: “Senza usare frazioni, si prega di assegnare un totale di 10 punti per indicare le priorità seguite dalla vostra azienda nel corso degli ultimi 5 anni relativamente ai seguenti obiettivi”: 1. applicazione di nuovi processi tecnici, tecnologie e apparecchiature; 2. miglioramento delle pratiche di gestione delle risorse umane; 3. soluzioni ingegneristiche e altre applicazioni R&S tese al miglioramento di prodotti e servizi. In base agli obiettivi che hanno ricevuto il punteggio più alto, le imprese sono state categorizzate per priorità di enfasi. La maggioranza (39%) ha dato priorità all’applicazione di nuovi processi tecnici, tecnologie e apparecchiature, il 26% ha privilegiato soluzioni ingegneristiche e altre applicazioni correlate di R&S, e il 19% ha inece optato per il miglioramento delle pratiche di gestione delle risorse umane. Il restante 16% delle imprese ha posto la stessa enfasi su due delle tre attività, essendo così categorizzate come aziende che perseguivano obiettivi con una “duplice” enfasi. 4 Enfasi e differenze di pratiche adottate dai diversi luoghi di lavoro Ai fini di una migliore comprensione dei quattro tipi di enfasi individuati sui diversi luoghi di lavoro che si differenziano per le pratiche effettive di 289 gestione delle risorse umane e degli attributi tecnologici, qui di seguito presenteremo un confronto fra le diverse enfasi attribuite dai diversi luoghi di lavoro in base alle differenze di lavoro in squadra e relative attività, retribuzioni, formazione e tecnologie. Come illustrato nella Tabella 1, esistono differenze sostanziali fra questi diversi attributi e pratiche in tutte e quattro le enfasi poste dai diversi luoghi di lavoro. Prima di passare all’analisi dettagliata del teamworking, intendiamo prima riassumere il modo in cui tali enfasi sono generalmente differenziate dai diversi luoghi di lavoro. Per quanto concerne altri tipi di enfasi, come ad esempio quella riguardante la gestione delle risorse umane, un’enfasi relativamente alta è posta sulle attività fondate sul lavoro di squadra, sulla rotazione, sulla condivisione delle informazioni, e sulle retribuzioni commisurate ai risultati; un’enfasi relativamente moderata è posta sulle opportunità di percepire alte retribuzioni, di formazione e di diffusione di tecnologie. La proporzione relativamente alta degli addetti partecipanti a squadre di lavoro (una media del 67%) e l’uso diffuso di retribuzioni commisurate ai risultati (riguardante il 69% delle imprese) fra le aziende che avevano posto una particolare enfasi sulla gestione delle risorse umane sono delle caratteristiche tipiche di questo tipo di enfasi posta su questo luogo di lavoro. D’altra parte, per quel che concerne l’enfasi posta sugli aspetti ingegneristici, questa è caratterizzata da un’enfasi relativamente bassa posta sulle attività fondate sul lavoro di squadra, sulla rotazione, sulla condivisione delle informazioni, e sulle retribuzioni commisurate ai risultati; ma da un’enfasi relativamente alta posta sulle opportunità di percepire alte retribuzioni, di formazione e di diffusione di tecnologie. Rispetto ad altri tipi di enfasi attribuite dai diversi luoghi di lavoro, gli attributi che caratterizzano l’enfasi posta sugli aspetti ingegneristici sono le retribuzioni orarie potenziali molto più elevate offerte (ad una media leggermente superiore a U.S.$ 14 l’ora) e gli investimenti in formazione di gran lunga maggiori per gli addetti alla produzione (con una media di 96 ore l’anno). L’enfasi posta sugli aspetti tecnici è caratterizzata da un’enfasi relativamente alta posta sulla rotazione e sulla diffusione di tecnologie; un’enfasi relativamente moderata posta sulle attività fondate sul lavoro di squadra, sulla rotazione, sulla condivisione delle informazioni, e sulle retribuzioni commisurate ai risultati. Sulla base degli attributi tecnologici e delle pratiche di gestione delle risorse umane illustrati nella Tabella 1, l’enfasi posta sugli aspetti tecnici non appare avere delle particolari caratteristiche distintive. Infine, per quel che concerne l’enfasi duplice, 290 questa è caratterizzata da un’enfasi relativamente bassa posta sulle opportunità di percepire alte retribuzioni, sulla formazione, rotazione e diffusione tecnologica; un’enfasi relativamente moderata posta sulle attività fondate sul lavoro di squadra; e da un’enfasi relativamente alta posta sulle retribuzioni commisurate ai risultati e sulla condivisione informazioni. Ciò che contraddistingue in particolare l’enfasi duplice dagli altri tipi di enfasi è l’entità relativamente bassa di investimenti realizzati in nuove tecnologie e formazione. Nell’indagine nazionale sulle imprese, è stato inoltre chiesto ai vari dirigenti: Qual è la percentuale di addetti alla produzione facente parte di squadre di lavoro, circoli di qualità o di altri tipi di gruppi partecipativi? In generale, è stato riscontrato che in media il 47% degli addetti alla produzione fa parte di squadre di lavoro. Le imprese che pongono una particolare enfasi sulla gestione delle risorse umane sono quelle con la più alta proporzione di addetti alla produzione organizzati in squadre di lavoro (con una media del 67%), mentre le imprese che pongono una particolare enfasi sugli aspetti tecnologici sono quelle con la più bassa proporzione di squadre di lavoro (38%). La dimensione media delle squadre di lavoro del campione è di otto lavoratori. Solo le imprese che attribuiscono un’enfasi duplice nei diversi contesti lavorativi hanno delle squadre sostanzialmente più numerose, che comprendono in media 12 lavoratori per squadra. In media, le squadre si riuniscono in azienda circa due volte al mese; con una maggiore frequenza nelle imprese che pongono una particolare enfasi sugli aspetti tecnologici e con una minore frequenza nelle imprese che pongono una particolare enfasi sugli aspetti tecnici e sulla gestione delle risorse umane. Infine, i lavoratori partecipanti al lavoro in squadra hanno ricevuto, in media, solo circa 12 ore di formazione relativamente al lavoro in squadra. Solo le imprese che attribuiscono un’enfasi particolare alla gestione delle risorse umane hanno erogato una maggiore formazione, in media di 17 ore. Per riassumere, dal confronto dei quattro tipi diversi di enfasi poste dai diversi luoghi di lavoro relativamente soltanto agli attributi tecnologici e alle pratiche di gestione delle risorse umane, emerge che le strategie di organizzazione del lavoro alla base dei quattro tipi di enfasi analizzati hanno caratteristiche distintive. Inoltre, poiché le semplici misure delle varie pratiche di gestione delle risorse umane e degli attributi tecnologici dedotti dai questionari non possono solo rilevare le vere differenze fra i quattro tipi di enfasi, le differenze tenderanno ad essere più accentuate rispetto a quelle rilevate dalle nostre misurazioni. Benché vi siano delle differenze evidenti fra i vari tipi di enfasi attribuiti alle diverse pratiche di gestione delle risorse 291 umane, come sopra descritto, nessuna enfasi strategica preclude, tuttavia, l’uso di una determinata pratica di gestione delle risorse umane individuata. Invece, a prescindere dalle diverse enfasi vigenti nei diversi contesti lavorativi, esistono delle imprese all’interno di ogni classificazione che utilizzano, ad esempio, le squadre di lavoro, la rotazione, le retribuzioni commisurate ai risultati ecc. In altre parole, le strategie di organizzazione del lavoro sono alla fin fine prettamente una questione di enfasi. 5 Enfasi, strategie e performance aziendale 1 Effetti dei vari gradi di enfasi attribuiti alle prestazioni Date le differenze fra le pratiche di gestione delle risorse umane e gli attributi tecnologici nei diversi tipi di enfasi dei diversi luoghi di lavoro, di cui sopra, (oltre alle differenze non rilevate in termini di empowerment, controllo del lavoro, ambiente lavorativo, ecc.), quali sono i tipi di enfasi posti dai diversi contesti lavorativo che hanno portato alle prestazioni più elevate? Abbiamo effettuato un confronto approssimativo delle diverse risposte date alle numerose domande relative ai risultati di performance da parte dei dirigenti responsabili di varie aree nell’ambito dell’Indagine sulla Strategia Operativa. In particolare, è stata posta la seguente domanda ai dirigenti: “Rispetto ad altre aziende che realizzano prodotti simili, quali sono le prestazioni della vostra azienda rispetto a … produttività del lavoro … qualità del prodotto … valore aggiunto per addetto?” In base a una scala da 1 a 5 punti (a partire dal punteggio più basso fino a quello più elevato), pochissimi rispondenti ritenevano di aver raggiunto delle prestazioni inferiori rispetto ai concorrenti. D’altra parte, solo pochi erano dell’opinione che le prestazioni raggiunte erano “molto” migliori. In media, il 55% dei rispondenti ha risposto di aver raggiunto una maggiore produttività del lavoro rispetto ai concorrenti. Mentre il 66% delle imprese la cui enfasi è posta sugli aspetti tecnici ha risposto di aver raggiunto una maggiore produttività, e solo il 43% delle imprese caratterizzata da un’enfasi duplice ha risposto di aver raggiunto una maggiore produttività rispetto ai propri concorrenti. In media, circa l’80% dei rispondenti delle imprese caratterizzate da un’enfasi posta sugli aspetti tecnici e tecnologici ha risposto di aver raggiunto una maggiore qualità del prodotto rispetto ai propri concorrenti, mentre solo il 65% circa dei rispondenti d’imprese caratterizzate da un’enfasi posta sulla gestione delle risorse umane e da un’enfasi duplice ha risposto di aver raggiunto una maggiore qualità. Per 292 quanto riguarda il valore aggiunto per addetto, le imprese caratterizzate da un’enfasi posta sugli aspetti tecnici e ingegneristici sono quelle che in generale hanno risposto di aver ottenuto un maggiore valore aggiunto (54% e 50%, rispettivamente) rispetto alle imprese caratterizzate da un’enfasi posta sulla gestione delle risorse umane (40%). In netto contrasto, solo il 15% delle imprese che persegue una duplice enfasi sul luogo di lavoro ha risposto di aver ottenuto un maggiore valore aggiunto per addetto rispetto ai propri concorrenti. Al fine di esaminare più in profondità gli effetti differenziali dei quattro tipi di enfasi sulla performance, sono state valutate delle equazioni probit ordinate per ognuno dei tre risultati di performance. Non è stata ottenuta nessuna stima statisticamente significativa indicante che la produttività dei lavoratori o la qualità del prodotto fosse relativamente più alta o più bassa fra i vari gradi di enfasi poste dai diversi luoghi di lavoro. Tuttavia, sono state rilevate alcune differenze statisticamente significative in termini di enfasi rispetto alla percezione del valore aggiunto per addetto. In quest’ultima stima, la variabile dipendente è stata fissata a 0 se il valore aggiunto dell’azienda era percepito essere lo stesso o inferiore (come ha risposto il 56% del campione), fissata a 1 se percepito maggiore (il 37% del campione), e fissata a 2 se percepito essere molto più alto (il 7% del campione). Utilizzando queste tre risposte categoriche ordinate come variabili dipendenti, è stata poi stimata l’associazione indipendente dell’enfasi posta su aspetti tecnici, ingegneristici e di gestione delle risorse umane (fissata a 0-1 variabili) sul valore aggiunto per addetto percepito. L’analisi probit ordinata ha dato i seguenti risultati: Relativa Valore aggiunto = Intercept + Aspetti Tecnici +Ingegneristici + Gestione delle risorse umane + Mu(2) (1.09***) (1.07**) (1.12**) (.92*) (1.37***) Rispetto alle imprese che perseguono un’Enfasi duplice (il punto di riferimento omesso o la categoria di riferimento), tutti gli altri tipi di enfasi scelti dai diversi luoghi di lavoro sono associati ad una performance significativamente migliore (ancora una volta, secondo la percezione dei dirigenti delle varie aree). Valutate in media, le stime di probabilità di raggiungere un valore aggiunto per addetto “più alto” o “molto più alto” rispetto ai concorrenti sono molto più ampie (e fondamentalmente identiche) per quelle imprese che perseguono un’enfasi posta sugli aspetti tecnici o 293 ingegneristici. Queste stime di probabilità, tuttavia, sono solo poco più alte rispetto a quelle ottenute per le imprese che attribuiscono maggiore enfasi alla gestione delle risorse umane sul luogo di lavoro. Riepilogando, gli effetti differenziali fra le imprese che pongono un’enfasi su aspetti tecnici, R&S/ingegneristici e sulla gestione delle risorse umane nel migliore dei casi sono abbastanza modesti. D’altra parte, non sembra che le prospettive per le imprese che optano per una duplice enfasi siano promettenti. Ci sono buone ragioni che ci inducono a concludere, dunque, che l’enfasi sugli aspetti tecnici, R&S/ingegneristici e sulla gestione delle risorse umane posta dalle imprese fornitrici di componenti sia relativamente stabile e possa coesistere con altre strategie alternative e competitive di organizzazione del lavoro in un mercato globale competitivo e incerto. 2 Effetti delle pratiche aziendali sulla performance e sull’impegno dei lavoratori nel raggiungimento degli obiettivi aziendali Teoria e ipotesi: Nel tentativo di massimizzare i risultati nonché la performance produttiva, i fornitori automobilistici effettuano delle scelte di costi delle transazioni fra tutta una serie di opzioni di gestione delle risorse umane che potenzialmente possono ottimizzare i livelli di partecipazione e qualificazione delle competenze dei lavoratori. Ai fini di questa inchiesta, l’analisi degli effetti delle differenze di attività fondate sul lavoro di squadra, retribuzioni e investimenti di formazione sulla performance riveste un particolare interesse. Poiché circa la metà delle imprese del campione è sindacalizzata, una speciale attenzione è stataa attribuita all’esame degli effetti d’interazione fra lo stato di sindacalizzazione e le opzioni di gestione delle risorse umane. Come illustrato da Cooke (1994), vi sono molti casi studio che dimostrano che la condizione di sindacalizzazione fa la differenza. La logica alla base degli effetti potenziali delle attività fondate sul lavoro di squadra e delle retribuzioni commisurate ai risultati esaminati nella presente relazione è ora ampiamente illustrata nella letteratura scientifica statunitense (es., vedere Cooke, 1992 e 1994; Arthur, 1994; Appelbaum e Batt, 1994; Huselid, 1995; MacDuffie, 1995; Becker e Gerhart, 1996; Youndt et al., 1996; Ichniowski et al., 1997; Sprietzer et al., 1999). Tuttavia, ad eccezione di Cooke, la letteratura scientifica statunitense in materia ha tutto fuorché ignorato gli effetti potenziali d’interazione fra lo stato di sindacalizzazione e le attività incentrate sul lavoro di squadra e le retribuzioni commisurate ai risultati sulla performance aziendale. Facendo riferimento a quanto 294 illustrato da Cooke (1994), saranno ora analizzati in breve gli effetti ipotizzati di tali effetti d’interazione. Per quel che concerne le attività fondate sul lavoro di squadra, vi sono diverse “voci collettive” che dimostrano perché il teamworking ha un effetto positivo più forte sulle prestazioni di un’impresa sindacalizzata rispetto a un’altra che non lo è. Innanzitutto, rispetto alle imprese non sindacalizzate, quelle sindacalizzate offrono molte più opportunità ai lavoratori che desiderano partecipare alle attività di progettazione e ai processi di governance imperniati sul lavoro di squadra, o direttamente attraverso la partecipazione o indirettamente mediante le trattative contrattuali. In secondo luogo, i lavoratori sindacalizzati avranno maggiori risposte rispetto a quelli non sindacalizzati relativamente alle informazioni necessarie per la soluzione di problemi da parte dei supervisori o avranno più potere per mettere in discussione delle decisioni prese dalla direzione che potrebbero essere incoerenti con le politiche e la filosofia concordate che animano le attività fondate sul lavoro di squadra. In terzo luogo, i sindacati possono contribuire a creare degli ambienti di lavoro migliori incentrati sul lavoro di squadra, ponendo l’accento su un equilibrio più accettabile fra il miglioramento della qualità della vita sul posto di lavoro e il miglioramento della performance. I sindacati, d’altra parte, possono avere degli effetti restrittivi sul teamworking, limitando o impedendo il problem-solving nell’ambito dei gruppi di lavoro. Innanzitutto, a meno che i sindacati non siano disposti a lasciare maggiore libertà di negoziazione alle squadre per eliminare regole di lavoro restrittive, i dirigenti sindacali tenderanno probabilmente ad insistere sulla necessità che le decisioni prese nell’ambito dei gruppi di lavoro non entrino in contraddizione con il linguaggio contrattuale esistente. In secondo luogo, i sindacati tenderanno a rendere la partecipazione ad attività incentrate sul lavoro di squadra esclusivamente di tipo volontaristico, il che potrebbe ridurre la partecipazione stessa, scoraggiare i processi di lavoro in squadra, e demoralizzare i membri attivi delle squadre. In terzo luogo, potrebbe essere più difficile creare o mantenere uno spirito di fiducia e collaborazione fra lavoratori e datori di lavoro in contesti sindacalizzati rispetto a quelli non sindacalizzati, data la tipica natura conflittuale insita nelle contrattazioni e nel rispetto delle condizioni contrattuali e nelle elezioni di dirigenti sindacali locali. In particolare, i leader sindacali potrebbero tenere “in ostaggio” le attività fondate sul lavoro di squadra finché le altre controversie fra lavoratori e direzione o le altre vertenze sindacali non saranno risolte. Inoltre, i dirigenti sindacali, minacciati o privati di qualsiasi 295 diritto di voto e rappresentanza in un contesto di cooperazione fra lavoratori e direzione, che è essenziale allo svolgimento di attività efficaci basate sul lavoro di squadra, potrebbero essere tentati di minare, se non distruggere, la possibilità di effettuare delle attività fondate sul lavoro di squadra. Per quel che concerne gli effetti delle retribuzioni commisurate ai risultati sulla performance aziendale, lo stato di sindacalizzazione potrebbe avere un’influenza positiva o negativa. Per quanto riguarda gli effetti positivi, poiché i sindacati hanno il potere negoziale relativo ai modelli retributivi (oggetto di contrattazione fondato sulla buona fede legalmente riconosciuto negli U.S.A.), i leader sindacali hanno un interesse politico a far sì che tali prerogative siano riconosciute e fatte rispettare. Dunque, i dirigenti sindacali sono incentivati ad incoraggiare i lavoratori a contribuire al miglioramento della performance aziendale. Dato il ruolo svlto dai sindacati nelle trattative e nell’amministrazione quotidiana dei piani retributivi legati ai risultati, i temi della formazione, della comunicazione e del valore simbolico derivanti da tali piani possono essere maggiori in imprese sindacalizzate rispetto a quelle non sindacalizzate. Per quanto riguardo l’aspetto negativo, vi sono motivi per credere che la rappresentanza sindacale ridurrà gli effetti degli incentivi collegati alle retribuzioni in base alla performance, dove, a tutti gli effetti, tali piani sono soprattutto il risultato di una contrattazione. In primo luogo, sarà meno probabile che gli incentivi commisurati alle retribuzioni fondate sulla performance inducano al controllo e al sanzionamento dei colleghi in imprese sindacalizzate rispetto a ciò che ci si aspetterebbe nelle imprese non sindacalizzate. Preoccupati della potenziale divisione che potrebbe nascere fra gli addetti alla contrattazione rispetto ad altri lavoratori meno responsabili e più scansafatiche o delle eventuali disuguaglianze d'incentivi riconosciuti ai diversi addetti, i dirigenti sindacali tendono a scoraggiare fortemente gli iscritti dal tentare di sanzionare o disciplinare altri colleghi. Conseguentemente, gli effetti degli incentivi finanziari collegati ai piani retributivi basati sulla performance sui comportamenti dei lavoratori saranno meno forti rispetto ai contesti non sindacalizzati. Inoltre, dati i livelli retributivi generalmente più elevati nelle imprese sindacalizzate rispetto a quelle non sindacalizzate, il rapporto fra gli introiti variabili derivanti da bonus e gli introiti fissi derivanti dai salari sarà generalmente inferiore nelle imprese sindacalizzate. Conseguentemente, l’effetto incentivante delle retribuzioni commisurate ai risultati tenderà ad essere inferiore nelle imprese sindacalizzate rispetto a quelle non sindacalizzate. 296 Per riassumere, si prevede generalmente che le attività imperniate sul lavoro di squadra e le retribuzioni commisurate ai risultati avranno degli effetti positivi sulla performance. Qualsiasi differenza nei guadagni netti inerenti alle attività fondate sul lavoro di squadra e le retribuzioni commisurate ai risultati fra imprese sindacalizzate e non dipende, tuttavia, dal fatto se la rappresentanza sindacale ha un maggiore effetto in termini di una voce collettiva positiva o un maggiore effetto negativo restrittivo sul comportamento dei lavoratori. Sulla base dei dati presentati da Cooke (1994), possiamo ipotizzare che, alla fine dei conti, i sindacati hanno un effetto positivo in termini di una voce collettiva sulle attività fondate sul lavoro di squadra commisurate alla performance, ma d’altro canto hanno un effetto negativo restrittivo sui piani retributivi legati alla performance. Un ruolo fondamentale nell’ottimizzare l’impegno dei lavoratori e la loro capacità di miglioramento continuo delle proprie prestazioni è svolto dalla formazione del personale, sia in aula che sul lavoro, al fine di innalzare le competenze tecniche e di risoluzione dei problemi degli addetti. Dal punto di vista dei costi di transazione, quanto più alti saranno gli investimenti in formazione da parte delle imprese, tanto più il ritorno netto percepito su tali investimenti sarà elevato, e viceversa. Il ritorno netto sugli investimenti di formazione non deriva soltanto da una maggiore capacità ma anche da un maggiore coinvolgimento degli addetti. Ossia, più gli addetti percepiranno tale maggiore investimento su di essi come segnale anche di un maggiore impegno da parte dell’azienda nei loro confronti, tanto più essi saranno motivati e impegnati nel raggiungimento degli obiettivi di performance fissati dall’impresa. Si può, dunque, ipotizzare che quanto più forti saranno gli investimenti in formazione, tanto maggiore sarà la performance. Inoltre, anche le retribuzioni rivestono una fondamentale importanza nel migliorare le capacità e nel determinare un maggiore coinvolgimento degli addetti. Tenendo conto delle leggi della domanda e dell’offerta del mercato del lavoro locale, le imprese tendono a offrire dei livelli di retribuzioni non più alti del necessario per attrarre e ritenere il giusto livello quantitativo e qualitativo di lavoratori ricercati. Le imprese che utilizzano più o (meno) tecnologie e processi tecnici sofisticati, avranno più o (meno) bisogno di competenze tecniche da parte degli addetti alla produzione, che saranno assunti e retribuiti di conseguenza. Date le condizioni estremamente competitive del settore automobilistico e la necessità di miglioramento continuo delle prestazioni dei lavoratori, le industrie del settore dovranno, inoltre, far fronte a una crescente necessità di attrarre addetti con elevate 297 capacità per continuare a migliorare la propria produttività e per adattarsi tempestivamente all’introduzione di nuovi processi tecnici e di nuove tecnologie informatiche. Conseguentemente, i datori di lavoro saranno disposti a offrire maggiori opportunità retributive a quegli addetti alla produzione che dimostrano capacità e impegno a migliorare continuamente la propria produttività. Si può, quindi, ipotizzare che le imprese disposte ad offrire agli addetti alla produzione la potenzialità di guadagnare dei salari relativamente più elevati nel tempo saranno quelle che riusciranno ad attrarre e ritenere dei lavoratori produttivi, in grado, dunque, di raggiungere dei livelli di prestazione più elevati. Inoltre, la performance aziendale è una funzione del livello di sofisticazione tecnica dell’attività produttiva. Presumibilmente, le imprese che ricorrono all’utilizzo delle più recenti tecnologie e dei più sofisticati processi tecnici, raggiungeranno dei livelli di prestazione più elevati rispetto a quelle che non seguono questa opzione. Tuttavia, l’introduzione di nuove tecnologie comporta una potenziale interruzione nel processo produttivo, in quanto le imprese devono predisporre degli adattamenti tecnici e di gestione delle risorse umane in linea con le nuove tecnologie introdotte. Anzi, per utilizzare al meglio il vantaggio potenziale derivante dalle tecnologie più innovative e dai processi tecnici più sofisticati, le imprese dovranno idealmente cercare di riequilibrare i livelli retributivi, gli interventi formativi e le attività fondate sul lavoro di squadra. Dunque, la performance potrebbe subirne le conseguenze, se non altro finché i necessari aggiustamenti non si saranno assestati. Le imprese che hanno introdotto delle nuove tecnologie (ma su scala più limitata) potranno ritrovarsi ad una certa fase di sperimentazione e di adattamento precoce alle nuove tecnologie. Tali imprese, conseguentemente, potranno temporaneamente soffrire di una perdita di performance. Le imprese con precedenti esperienze d’introduzione e adattamento di nuove tecnologie, d’altra parte, saranno probabilmente quelle che soffriranno meno di eventuali perdite di performance. Descrizione e Valutazione del Modello: Per descrivere nel dettaglio il modello, sono state necessariamente messe insieme più risposte date al questionario relativo all’Indagine sulla Strategia Operativa e a quella sulla gestione delle risorse umane. Dopo aver effettuato la corrispondenza fra le risposte delle aziende e dopo aver eliminato le osservazioni con dati non completi, è stato ottenuto un sotto-campione di 72 imprese fornitrici. Come misura della performance produttiva, ancora una volta è stato utilizzato il valore aggiunto relativo percepito per addetto, misura utilizzata nella precedente analisi. Per misurare l’impegno dei lavoratori sono state 298 utilizzate le percezioni dei dirigenti delle varie aree relativamente alla domanda: “In generale, in che misura gli addetti alla produzione sono impegnati a raggiungere gli obiettivi di performance aziendale?” Data la scala ordinale delle risposte (ancora una volta, facendo riferimento a una scala da 1 a 5), l’analisi ha richiesto l’utilizzo di uno stimatore probit ordinato. L’analisi fondata sull’utilizzo di uno stimatore probit ordinato, tuttavia, non ha prodotto delle equazioni statisticamente significative, apparentemente a causa delle percentuali relativamente basse d’imprese che riportano delle percezioni di valore aggiunto e impegno “più basse” o “molto più alte”, nonché a causa del numero relativamente basso di osservazioni per poter successivamente analizzare le equazioni. Dunque, per valutare il modello, le risposte sono state raggruppate in due categorie per costruire delle variabili dipendenti dicotome 0-1, dove 0 = “più basso” e “circa lo stesso” e 1 = “più alto” e “molto più alto” (con 1 corrispondente al 38% delle risposte rispetto al valore aggiunto percepito e il 56% delle risposte rispetto all’impegno percepito). Costruito in questa maniera, il modello è stato specificato per valutare l’associazione della gestione delle risorse umane e delle variabili tecniche con la probabilità di rientrare nelle categorie di risultati 0 e 1. Inoltre, il piccolo sotto-campione di osservazione così ricavato richiedeva da parte nostra un atteggiamento molto cauto per quanto riguarda sia il numero sia la costruzione delle variabili indipendenti, per assicurare che fossero create delle celle sufficientemente ampie per la stima. Tenendo conto di tale limite, sono poi state descritte le misure delle diverse variabili di gestione delle risorse umane e tecniche. Per provare le ipotesi secondo cui gli effetti delle attività fondate sul lavoro di squadra sull’impegno e la performance sono maggiori nelle imprese sindacalizzate rispetto a quelle non sindacalizzate (a causa del contribuito dato dalla “voce collettiva”), è stata prima fatta una distinzione fra imprese sindacalizzate e non, con attività fondate sul lavoro di squadra relativamente estese, e quelle prive di attività fondate sul lavoro di squadra relativamente estese. La misura delle attività fondate sul lavoro di squadra relativamente estese prevede (1) che oltre il 50% degli addetti alla produzione “faccia parte di squadre di lavoro, circoli di qualità o altri tipi di gruppi di partecipazione dei lavoratori” e (2) che vi sia una regolare rotazione degli addetti fra le diverse mansioni. In base a tali criteri, sono poi state create delle variabili dummy 0-1 per fare distinzione fra le imprese sindacalizzate con attività fondate sul lavoro di squadra relativamente estese (Attività di Squadra Estese *Sindacalizzate) e 299 imprese non sindacalizzate con attività fondate sul lavoro di squadra relativamente estese (Attività di Squadra Estese *Non Sindacalizzate). Analogamente, per provare le ipotesi secondo cui gli effetti delle retribuzioni commisurate ai risultati sull’impegno e la performance sono minori, in media, nelle imprese sindacalizzate rispetto a quelle non sindacalizzate (in seguito all’effetto della “limitazione sindacale”), abbiamo prima distinto fra imprese sindacalizzate e non, con divisione degli utili, divisione dei guadagni o dei piani retributivi legati al merito concernenti gli addetti alla produzione (Retribuzioni commisurate ai risultati* Sindacalizzate e Retribuzioni commisurate ai risultati* Non Sindacalizzate). Per provare l’ipotesi secondo cui l’impegno e la performance dei lavoratori saranno tanto maggiori, quanto maggiori saranno i salari potenziali che gli addetti potranno percepire nel tempo, sono stati stimati gli effetti del più alto livello retributivo offerto agli addetti alla produzione (il più alto livello retributivo offerto) sulle variabili dipendenti. Per provare le ipotesi secondo cui le imprese che investono relativamente di più in formazione ottengono un maggiore impegno e una più elevata performance, sono state utilizzate due misure degli investimenti in formazione: (1) le ore totali di “orientamento e formazione formale erogate normalmente all’ingresso degli addetti alla produzione neoassunti” (Ore di Formazione all’ingresso) e (2) le ore totali di formazione formale e sul lavoro erogate a tutti i lavoratori addetti alla produzione in media “in un anno” (Ore Annuali di Formazione). Per provare l’ipotesi che l’impegno e la performance saranno tanto migliori quanto maggiore sarà la condivisione delle informazioni di performance da parte della direzione con gli addetti alla produzione, è stata fatta una distinzione fra le imprese che condividono le informazioni “frequentemente” e le imprese che lo fanno solo occasionalmente o raramente (condivisione frequente delle informazioni di performance). Per provare l’ipotesi della differenza nella diffusione dei processi tecnici e delle tecnologie sull’impegno e la performance, sono state incluse nelle stime due variabili proxy. La prima misura è la percentuale di macchine di produzione che hanno meno di cinque anni o che sono state sostanzialmente migliorate negli ultimi cinque anni (% Nuove attrezzature negli ultimi cinque anni). Nel tentativo di dimostrare, se non altro in parte, le conseguenze negative potenziali e temporanee derivanti dall’adozione di nuove tecnologie, sono stati stimati gli effetti derivanti dall’adozione di nuove e più sofisticate tecnologie in forma quadratica. La prova che il valore aggiunto per addetto decresce con una crescente adozione di nuove tecnologie fino a un certo livello di soglia per riprendere poi a salire successivamente all’introduzione 300 serve da supporto alla nostra ipotesi di base. La seconda misura si riferisce alla percentuale delle maestranze che utilizza un computer almeno una volta la settimana. In questo caso, è statto effettuato un confronto fra le imprese con almeno un 25% di maestranze che utilizza un computer almeno una volta la settimana rispetto a quelle in cui meno del 25% delle maestranze utilizza il computer settimanalmente (> 25% utilizzo settimanale del computer). Risultati: I risultati della stima delle equazioni secondo un modello probit sono illustrate nella Tabella 2. Nonostante la piccola dimensione del campione, sono stati ottenuti dei risultati statistici molto significativi. In conformità ai precedenti risultati ottenuti da Cooke (1994), lo stato di sindacalizzazione ha degli effetti predittivi sulle attività fondate sul lavoro di squadra e sulle retribuzioni commisurate ai risultati. Innanzitutto, si può dedurre dalle stime che la presenza di sindacati ha avuto come effetto (netto) una voce collettiva positiva che ha influenzato le attività fondate sul lavoro di squadra legate alla performance, ma ha avuto un effetto negativo in termini di limitazione sindacale sulle retribuzioni commisurate alla performance. In questo caso, bisogna tuttavia sottolineare che solo un piccolo sottogruppo d’imprese sindacalizzate ha avviato un’attività estesa fondata sul lavoro di squadra. E’ presumibile, dunque, che in questo numero limitato d’imprese i lavoratori e la direzione sono riusciti a stabilire delle relazioni altamente cooperative. Conseguentemente, le relazioni estremamente positive osservate relativamente alle attività fondate sul lavoro di squadra e alla performance potrebbero essere attribuibili, in parte, alla più ampia capacità comune di risoluzione dei problemi elaborata dalle parti. In secondo luogo, nel complesso, le attività fondate sul lavoro di squadra in contesti non sindacalizzati non sembrano avere un effetto significativo sulla performance. Invece, appare che le retribuzioni commisurate ai risultati comportano un aumento significativo della performance nelle imprese non sindacalizzate nel settore automobilistico. Tuttavia, per quanto riguarda i livelli percepiti d’impegno dei lavoratori, i dati osservati suggeriscono che sia le attività fondate sul lavoro di squadra che le retribuzioni commisurate ai risultati hanno un effetto positivo in imprese non sindacalizzate, ma non in quelle sindacalizzate. Dunque, se nelle imprese non sindacalizzate, gli incentivi retributivi legati ai risultati portano apparentemente ad un incremento sia dell’impegno sia della performance, il maggiore impegno dei lavoratori che deriva dalle attività fondate sul lavoro di squadra non sembra aver generato un maggiore valore aggiunto per addetto. Invece, nelle imprese sindacalizzate, le attività fondate sul lavoro di squadra non sembrano aver 301 generato un aumento dell’impegno dei lavoratori, bensì un aumento del valore aggiunto per addetto. Per quanto riguarda le retribuzioni, i dati raccolti mettono in luce delle associazioni statisticamente significative fra il più alto livello retributivo offerto e l’impegno e il valore aggiunto per addetto, ma solo in casi estremi. Ossia, in forma lineare, sono state ottenute delle relazioni positive ma non significative in entrambe le equazioni. Ma quando il più alto livello retributivo offerto supera i $15 l’ora (offerto solo da poco più del 15% del nostro campione d’imprese), le imprese ottengono un impegno e un valore aggiunto per addetto relativamente più elevato rispetto ad altre imprese che non offrono tale opportunità di maggiore guadagno. Sono stati raccolti ulteriori dati che comprovano che maggiori investimenti in formazione hanno degli effetti positivi sull’impegno e sul valore aggiunto dei lavoratori. Se un maggiore numero di ore di formazione d’ingresso per i nuovi assunti addetti alla produzione appare comportare un maggiore impegno, non è stato rilevato nessun rapporto statisticamente significativo fra questo dato e il valore aggiunto per addetto. Mentre dei maggiori investimenti annui in formazione per tutti i lavoratori addetti alla produzione non sembra innescare un maggiore impegno, un aumento degli investimenti in formazione è significativamente associato ad un maggiore valore aggiunto per addetto. Tuttavia, tale deduzione si basa sul confronto fra le imprese che erogano in media oltre 62 ore annue di formazione rispetto ad altre che erogano un numero inferiore di ore di formazione. Non sono state, tuttavia, raccolte prove che dimostrano che le ore di formazione sono correlate in maniera lineare alla performance. E’ stata ottenuta un’elevata stima statisticamente significativa che suggerisce che le imprese che condividono frequentemente informazioni sulla performance con i lavoratori addetti alla produzione (come nel caso di circa l’80% del nostro campione) registrano un aumento significativo dell’impegno dei lavoratori nel perseguire gli obiettivi aziendali di performance. D’altro canto, però, non sono state raccolte prove a dimostrazione del fatto che le imprese che condividono frequentemente informazioni sulla performance con gli addetti alla produzione hanno raggiunto un valore aggiunto relativamente più elevato rispetto alle imprese che non lo fanno. Per quanto riguarda l’utilizzo di nuovi processi tecnici e tecnologie, si potrebbe dedurre dall’osservazione dei fatti che ad eccezione delle imprese che hanno maturato una forte esperienza nell’adattarsi all’introduzione di nuove tecnologie (% Nuove attrezzature negli ultimi cinque anni), si registra 302 un calo del valore aggiunto per addetto corrispondente all’introduzione di nuove tecnologie. Facendo riferimento alle stime del punto del termine quadratico, il punto in cui le imprese fornitrici hanno iniziato a godere i benefici derivanti da aumenti significativi di performance in seguito all’introduzione di nuove tecnologie si verifica quando è sostituito o ammodernato il 75% dei macchinari di produzione nel corso degli ultimi cinque anni. Tuttavia, l'impegno dei lavoratori appare aumentare, anche se a un ritmo più rallentato rispetto alle imprese che sostituiscono o modernizzano le proprie attrezzature di produzione. Secondariamente, dai dati raccolti si potrebbe dedurre che nelle imprese in cui almeno il 25% delle maestranze utilizza regolarmente il computer per lo svolgimento del proprio lavoro, sia l’impegno dei lavoratori sia il valore aggiunto per addetto sono significativamente più elevati rispetto al caso in cui meno del 25% degli addetti utilizza il computer. Riassumendo, i dati raccolti indicano che le differenze nelle pratiche di gestione delle risorse umane e gli attributi tecnologici fanno chiaramente la differenza nell’ottenere un valore aggiunto per addetto e un impegno dei lavoratori relativamente più alto o più basso nel settore della fornitura automobilistica. Come summenzionato, le imprese attribuiscono diversi tipi di enfasi nei diversi luoghi di lavoro e, conseguentemente, pongono un’enfasi diversa sulle pratiche di gestione delle risorse umane e sugli attributi tecnologici esaminati in questo capitolo. Indipendentemente dal tipo di enfasi posta nei diversi luoghi di lavoro, vi sono tuttavia alcune imprese che adottano alcune delle pratiche e degli attributi esaminati in questo capitolo. Purtroppo, dato il piccolo campione d’imprese esaminate non ci permette di esaminare come potrebbero essere moderati in media gli effetti delle varie pratiche nei diversi luoghi di lavoro e dei vari attributi sulla performance e sull’impegno dalle diverse enfasi adottate dai diversi contesti lavorativi. Le deduzioni derivanti dai dati raccolti e ivi illustrati si riferiscono, dunque, agli effetti medi delle differenze delle pratiche e degli attributi nei diversi luoghi di lavoro attributi alla performance e all’impegno all’interno dell’intero campione d’imprese. Infine, bisogna sottolineare che gli effetti positivi o negativi delle pratiche di gestione delle risorse umane e degli attributi tecnologici sulla performance e sull’impegno studiati sono altamente condizionali. In altre parole, sembrano esservi varie soglie e condizioni che devono essere tenute in considerazione per raggiungere gli effetti positivi derivanti da varie pratiche di gestione delle risorse umane e di attributi tecnologici sulla performance. In base alle nostre stime, tali soglie appaiono come segue: per quel che concerne opportunità 303 retributive potenziali, > $15; per la formazione, oltre 62 ore; per la condivisione delle informazioni sulla performance, “frequentemente”; per l’adozione di nuove apparecchiature, > 75% di sostituzione; e per l’uso di computer in fabbrica, > 25% della forza lavoro. I dati raccolti indicano, inoltre, che gli effetti potenzialmente positivi di attività estese basate sul lavoro di squadra sulla performance sono stati raggiunti in imprese sindacalizzate e non in quelle non sindacalizzate; mentre, gli effetti potenzialmente positivi delle retribuzioni commisurate ai risultati sono stati raggiunti in imprese non sindacalizzate e non in quelle sindacalizzate. 6 Teamworking, Lavoratori Empowerment e Risultati dei Dopo aver esaminato gli effetti netti delle attività fondate sul lavoro di squadra sulla performance e sull’impegno a raggiungere gli obiettivi aziendali, saranno esaminati gli effetti del teamworking sugli addetti. La letteratura ha da molto tempo riconosciuto l’esistenza di potenziali costi e benefici derivanti per gli addetti in associazione al loro coinvolgimento, partecipazione, e teamworking. (Vedere Cooke, 1990, capitolo 1, riepilogo dei potenziali costi e benefici.) Vi è una letteratura emergente che analizza gli effetti del teamworking sui costi e benefici dei lavoratori e il ruolo dell’empowerment. Una questione ancora aperta in letteratura è l’effetto del teamworking e di un maggiore empowerment sull’intensificazione del lavoro. Come indicato successivamente, vi sono buoni motivi per credere che sia il teamworking che l’empowerment (indipendentemente e in combinazione) possono avere degli effetti negativi o positivi sull’intensificazione del lavoro ed anche sulla tensione e sull’impegno dei lavoratori. Date le previsioni teoriche ambigue del teamworking e dell’empowerment sull’intensificazione del lavoro e date le conseguenze per gli addetti, saranno analizzati gli effetti del teamworking e le differenze d’empowerment sullo stress da lavoro e sulla disponibilità di ogni singolo lavoratore a fare di più. L’analisi di questi effetti sarà effettuata sulla base di dati raccolti nel corso d’inchieste in loco fra i lavoratori addetti alla produzione di otto stabilimenti produttivi automobilistici. Prima di entrare nel dettaglio del modello, sarà delineato un quadro generale di riferimento relativo a tali stabilimenti e del tipo di teamworking adottato. 304 7 Breve panoramica degli otto stabilimenti Gli otto stabilimenti in cui è stata condotta l’indagine sui risultati dei lavoratori erano associati al Labor-Management Council for Economic Renewal (LMCER) (Consiglio Bilaterale Lavoratori-Direzione per il Rinnovamento Economico) con sede nella zona sud-orientale del Michigan, nel cuore dell’industria automobilistica degli U.S.A. Il Consiglio è stato costituito nel 1990 per aumentare la “competitività e migliorare la sicurezza dei posti di lavoro e la qualità della vita per tutti gli addetti del settore mediante la cooperazione interaziendale, relazioni costruttive fra lavoratori e datori di lavoro e l’empowerment dei lavoratori affinché facessero sentire la propria voce nelle decisioni importanti aventi dei risvolti sulla loro vita (l’affermazione della mission del Consiglio). La direzione dello stabilimento e i sindacati locali hanno accettato di partecipare all’indagine sui lavoratori, con il benestare del LMCER. Si tratta di stabilimenti tutti relativamente piccoli (da 57 a 368 addetti), che producono una vasta gamma di prodotti (schiume per i sedili e componenti, tettucci, guarnizioni per motori, pannelli di rivestimento interni, vernici, pezzi di trasmissione e montanti). Tre di questi stabilimenti sono di proprietà di multinazionali estere, tre sono di proprietà di grandi società pubbliche statunitensi e due sono piccole imprese a conduzione familiare, Inoltre, gli addetti alla produzione in tutti gli stabilimenti sono rappresentati da vari sindacati locali aderenti al United Automobile Workers (UAW). I lavoratori sono stati intervistati sul posto durante il normale orario di lavoro e fra i turni di lavoro se necessario. I tassi di risposta sono stati fra il 55% e l’86% in tutti gli otto stabilimenti, con un tasso di risposta totale pari al 69% e un totale di 888 questionari compilati. L’età media dei lavoratori era di 37 anni e la media degli anni di anzianità era poco al di sotto degli 8 anni. Solo circa il 4% dei lavoratori aveva un diploma inferiore a quello della scuola superiore e il 48% aveva un ulteriore titolo oltre a quello della scuola superiore. Circa il 35% dei lavoratori era composto da donne e il 38% era costituito da non bianchi. Le retribuzioni orarie andavano da un minimo di U.S.$7 ad un massimo di $21, con una media di $12.77 l’ora nel 2000. Rispetto al campione nazionale in cui circa 1 impresa su 4 ha attribuito una particolare enfasi agli aspetti ingegneristici sul luogo di lavoro, 6 degli 8 stabilimenti hanno posto una particolare enfasi sugli aspetti ingegneristici sul luogo di lavoro e uno ha posto una particolare enfasi sugli aspetti tecnici. 305 In linea con questo approccio più prettamente tecnico nell’intero campione delle otto imprese, è stato adottato un modello di teamworking “basato sulle mansioni” (Rees, 1999), in quanto le mansioni di routine sono assegnate a gruppi di addetti, o (1) nella stessa area o cella e responsabili del funzionamento di una o più macchine similari o (2) assegnati a determinate stazioni lungo la linea di produzione. In nessuno degli stabilimenti le squadre potrebbero essere definite come circoli di controllo qualità (QC) o squadre TQM, o squadre di lavoro autodirette, o in maniera più ampia, come delle squadre di problem-solving. Invece, i lavoratori sono organizzati in squadre per renderle più flessibili nell’esecuzione di mansioni di routine e per responsabilizzarle ai fini del miglioramento della loro performance nello svolgimento di determinate routine. Come illustrato precedentemente, questa forma limitata di teamworking negli otto stabilimenti presi in esame potrebbe riflettere l’enfasi strategica adottata sul luogo di lavoro. Tuttavia, questa forma limitata di teamworking potrebbe anche riflettere o essere il prodotto del desiderio dei dirigenti sindacali locali, in quanto il teamworking negli U.S.A. è un tema obbligatorio di contrattazione collettiva. Infatti, nella misura in cui gli effetti restrittivi sindacali entrano in gioco, il grado di potere discrezionale relativamente alla mansione e al problem-solving riconosciuto ai lavoratori sarà limitato. Che sia principalmente motivata dalla direzione o dai vertici sindacali (o entrambi), le caratteristiche di questa forma limitata di teamworking di questi otto stabilimenti sembrerebbero essere di gran lunga inadeguate rispetto alla mission del LMCER a cui aderivano queste imprese e i sindacati locali … prima che il Consiglio LMCER fosse sciolto nel 2002. Infine, vale la pena notare che rispetto al campione nazionale, in cui la maggioranza delle imprese utilizzava una forma o un’altra di retribuzioni commisurate ai risultati, nessuno degli otto stabilimenti in cui è stata condotta l’inchiesta utilizzava un modello di retribuzioni commisurate ai risultati. 1 Descrizione del Modello Come summenzionato, vi sono ragioni per credere che il teamworking e l’empowerment possono ridurre o esacerbare l’intensificazione del lavoro. Le supposizioni o ipotesi alla base di questo ragionamento che portano a delle previsioni ambigue sono ben riassunte da Sewell e Wilkinson (1992), Rinehart, Huxley, Robertson (1997), Rees (1999), Korukonda, Watson, Rajkumar (1999), e Godard (2001). Se analizzato da un’angolazione positiva, il teamworking potrebbe essere visto come un modo per soddisfare 306 i bisogni socio-psicologici dei lavoratori, accentuando un sentimento di appartenenza e identificazione, il riconoscimento intrinseco mediante la partecipazione e il coinvolgimento, la dignità, l’autostima e l’orgoglio di svolgere il proprio lavoro e migliorare le condizioni di lavoro. Inoltre, il teamworking potenzialmente aumenta l’empowerment psicologico, al punto tale che esso non solo potenzia l’empowerment psicologico, ma offre anche la possibilità ai lavoratori di trarre molti vantaggi aggiuntivi, compresi, fra gli altri, un maggiore coinvolgimento e motivazione sul lavoro, un incremento delle competenze e della qualificazione, l’autodeterminazione, il controllo del lavoro e un maggiore impatto sulle pratiche e i risultati ottenuti sul posto di lavoro (Spreitzer, 1995). Questi effetti positivi potenziali derivanti dal teamworking combinati fra loro possono presumibilmente rafforzare l’impegno dei lavoratori a migliorare le proprie prestazioni. Da un’angolazione negativa, il teamworking può essere invece inteso essenzialmente come un modo per sfruttare i lavoratori, nel senso che la direzione interviene limitando il potere discrezionale delle squadre, con un’intensificazione del processo di lavoro e un aumento della sorveglianza (compreso il ricorso al controllo e alle sanzioni da parte dei colleghi). Facendo riferimento alle tesi di Faucault sul controllo, la sorveglianza, la disciplina e l’obbedienza, Sewell e Wilkinson (1992) sostengono che i principi della qualità totale richiedono il decentramento o la delega di responsabilità tattica ai lavoratori organizzati in squadre di lavoro, e allo stesso tempo prevedono la centralizzazione del controllo strategico da parte della direzione per monitorare e far rispettare le istruzioni impartite alle squadre. In una ricerca successiva sui cosiddetti sistemi di produzione “snelli”, Rinehart, Huxley e Robertson (1997) e Godard (2001) hanno sostenuto che il teamworking potrebbe rivelarsi come un dispositivo volto all’intensificazione del lavoro e al taglio dei costi, che sono tipici dei cambiamenti limitati che sono avvenuti nella linea di comando o nei contenuti effettivi del lavoro, in quanto le imprese sono passate da un’organizzazione del lavoro tradizionale a sistemi fondati sul teamworking. Nel collegare l’empowerment dei lavoratori al teamworking, Rees (1999) sostiene, inoltre, che esso è abbastanza limitato in quegli ambiti dove la direzione assegna degli obiettivi rigidamente definiti e limitati che devono essere perseguiti dalle squadre di lavoro, che a loro volta sono guidati e controllati dalla direzione per raggiungere un miglioramento della propria performance. Analogamente, Korukoda et al. (1999) suggeriscono che l’empowerment in molti casi reali finisce con l’essere poco più di una delega 307 di ulteriori compiti e doveri come mezzo per ottenere maggiori risultati con un numero inferiore di lavoratori e supervisori. Nella misura in cui sia il teamworking sia i livelli maggiori di empowerment portano ai benefici potenziali sopra descritti, allora ciò si tradurrà in un minore grado di stress, tensione ed esaurimento da parte dei lavoratori e in un maggiore livello dell’impegno o della disponibilità dei lavoratori a compiere maggiori sforzi per raggiungere gli obiettivi aziendali. D’altra parte, nella misura in cui sia il teamworking sia i livelli maggiori di empowerment portano ai costi potenziali, sopra descritti, allora ciò si tradurrà in un aumento del grado di stress, tensione ed esaurimento da parte dei lavoratori e in una diminuzione dell’impegno o della disponibilità dei lavoratori a compiere maggiori sforzi per raggiungere gli obiettivi aziendali. Inoltre, il teamworking e l’empowerment possono avere anche degli effetti che si controbilanciano, nel senso che possono comportare delle conseguenze negative o positive per i lavoratori. Sia nel caso in cui il teamworking e l’empowerment combinati fra di loro abbiano o meno delle conseguenze negative o positive per i lavoratori, come risultato finale, ciò dipende sia dall’interazione degli effetti combinati del teamworking e dell’empowerment sia dalla loro singola influenza. Per stimare questi effetti netti, sono stati definiti e sperimentati dei modelli di regressione le cui variabili dipendenti intendono valutare il grado di “tensione” sul posto di lavoro e, alternativamente, il grado di disponibilità dei lavoratori a compiere maggiori sforzi. Per misurare queste variabili latenti dipendenti (così come le numerose variabili latenti indipendenti), abbiamo creato delle variabili derivanti da una serie di affermazioni (item) in cui le risposte erano basate su una scala Likert a sette punti, in cui estremi sono un forte disaccordo a un forte consenso. Gli item che costituiscono ogni costrutto erano soggetti a un’analisi fattoriale di validazione (utilizzando una stima di probabilità massima) per verificare che gli item riflettessero i concetti elaborati abbastanza unici nel loro genere. Le analisi fattoriali fornivano il sostegno ad ogni costrutto e le scale erano calcolate di conseguenza sulla base di un’equa ponderazione degli item. In allegato sono illustrati gli item alla base di ogni costrutto, le statistiche alfa di Cronbach e le distribuzioni sulla gamma di risposte. Per misurare la tensione accusata dagli addetti alla produzione, è stata formulata una serie di domande per analizzare il grado di stanchezza, fatica e dolore sul lavoro. L’analisi fattoriale delle risposte formulate a fronte di dette domande ha prodotto un costrutto a 3 punti con statistiche alfa di Cronbach di 0,66. In base ai riscontri rilevati dalla scala elaborata a partire 308 da detto costrutto, è emerso che il 45% circa dei rispondenti riferisce di sentirsi spesso esausto, teso o distrutto alla fine della giornata e di accusare anche dolori. Questo malessere è stato non di rado denunciato dai rispondenti all’indagine. Ad esempio, un addetto all’assemblaggio dei sedili scrive: “Qui niente è facile …. Mi fa male ogni muscolo del corpo. Il mio corpo è sottoposto a un vero e proprio inferno che prima o poi pagherò.” Un altro addetto alla preparazione delle vernici per gli interni delle automobili, accusava un forte stress mentale: “La nostra è un’azienda che continua a spingere al limite, che col tempo finisce con il ripercuotersi sulla salute mentale dei lavoratori.” Un’altra dipendente di una ditta fornitrice di schiume per sedili ha espresso il suo giudizio conciso: “sovraccarica, sottopagata e molto stressata, è così che mi sento ogni giorno.” La nostra scala della “Disponibilità a compiere maggiori sforzi” si fonda su quattro item alla base del costrutto variabile latente in questione. Il costrutto è elaborato per cogliere ed analizzare la disponibilità degli addetti a compiere maggiori sforzi e comunque fare del proprio meglio per migliorare la performance lavorativa. Nell’ambito del nostro campione di addetti, abbiamo riscontrato che circa un terzo ritiene di aver profuso più sforzi del dovuto e di essere disponibile a compiere ulteriori sforzi. Tuttavia, un ulteriore terzo ha espresso incertezza riguardo all’opportunità di profondersi in maggiori sforzi e circa un quarto dei lavoratori dice di non essere disposto a devolvere sforzi ulteriori. In base a queste due variabili dipendenti, sono stati poi valutati diversi modelli di regressione per calcolare gli effetti netti medi di teamworking e empowerment, è stata, inoltre, verificata tutta un’altra serie di fattori contestuali che potrebbero influenzare le variabili dipendenti. Il Teamworking è misurato semplicemente sulla base dell’inserimento di un addetto in una squadra di lavoro (In una squadra), com’è il caso di circa la metà dei rispondenti in tutti gli otto stabilimenti; e come descritto precedentemente, soprattutto in squadre basate sulla mansione. La misurazione dell’empowerment psicologico si basa sugli studi di Spreitzer, Noble, Mishra e Cooke (1999), in cui gli autori utilizzano un costrutto ridotto a 9 item applicato ad uno stabilimento specializzato nella fornitura di componenti automobilistici. Tale costrutto (Empowerment) si basa sulle opinioni dei lavoratori riguardo alla capacità di svolgere il lavoro (autoefficacia) nonché alla significatività e all’importanza (impatto) del proprio lavoro sulla performance. (Come sarà rilevato più avanti, le questioni dell’autodeterminazione e della dimensione del controllo del lavoro e dell’empowerment sono trattate in maniera distinta.) Sulla scorta di detta 309 misura tridimensionale, il 75% dei rispondenti si è espressa positivamente e solo il 5% negativamente riguardo al proprio livello di autoresponsabilizzazione (empowerment). Al fine di acclarare gli effetti d’interazione e indipendenti di lavoro di squadra ed empowerment, è stata inizialmente definita un’equazione nella quale gli addetti sono classificati in componenti di una squadra o non, e aventi un livello relativamente più alto o più basso di Empowerment (equazione 1). A scopo semplificativo, gli addetti sono ulteriormente suddivisi tra coloro aventi un livello relativamente più alto (o più basso) di Empowerment nel caso in cui il punteggio di Empowerment ricada nel quadrante superiore (o inferiore) di distribuzione. Unitamente all’appartenenza o meno alla Squadra, sono state introdotte quattro variabili: (1) In squadra*Maggiore Empowerment, (2) In squadra*Minore Empowerment, (3) Non in Squadra*Maggiore Empowerment, e (4) Non in Squadra*Minore Empowerment. (L’ultima categoria funge da referente omesso rispetto al quale sono ricavati i coefficienti stimati delle prime tre categorie). In una seconda equazione, l’Empowerment è stato anche inserito come variabile continua indipendente insieme alle variabili d’interazione sopra descritte. Nell’equazione 3, sono stati soppesati gli effetti medi indipendenti dell’Appartenenza alla squadra e dell’Empowerment, tralasciando i termini d’interazione. Nel valutare gli effetti del teamworking e dell’empowerment sulla Tensione e sulla Disponibilità a Fare di Più, è importante tenere in considerazione l’intensità di lavoro degli addetti, nonché il grado di libertà degli addetti nel decidere come svolgere il lavoro loro assegnato. Mantenendo delle differenze costanti lungo tali assi fra gli addetti, è possibile meglio valutare il grado in cui il lavoro di squadra di per sé e il nostro costrutto di empowerment psicologico in quanto tale aumentano o riducono la percezione di tensione e la propensione a compiere maggiori sforzi. In questo caso, s’intende verificare il ritmo lavorativo rispetto alla scala a 7 punti di Likert con riferimento all’affermazione secondo cui “il ritmo lavorativo è spesso troppo accelerato” (ritmo troppo accelerato). Le risposte a questa affermazione sono risultate equamente distribuite fra i soggetti che concordano e coloro che dissentono. Agli estremi della distribuzione, il 24% ha espresso consenso o forte convinzione e il 28% ha dissentito o fortemente dissentito dalla stessa. La correlazione di prim’ordine fra il Ritmo troppo accelerato e l’Appartenenza alla squadra risulta positiva (0.03), ma non statisticamente 310 significativa. La correlazione di prim’ordine fra il Ritmo troppo accelerato e l’Empowerment risulta invece negativa (–0.11) e altamente significativa. E’ stato, inoltre, monitorato il “Controllo del lavoro”, un costrutto a 3 punti, volto a cogliere il grado di autonomia e libertà decisionale dei lavoratori nello svolgimento del proprio lavoro (Controllo del lavoro). In questa sede, la metà circa dei rispondenti ha convenuto di esercitare un notevole controllo o potere discrezionale in ordine all’esecuzione del lavoro assegnato. All’altra estremità dello spettro, il 30% circa ha dichiarato di esercitare un limitato controllo sul proprio lavoro. Il controllo del lavoro è correlato in misura positiva ma non significativa all’Appartenenza alla squadra. D’altra parte, esso è fortemente correlato all’Empowerment (0.37 e altamente significativo). Questa forte correlazione è intuitiva, in quanto il Controllo del lavoro (autodeterminazione) è generalmente considerato la quarta dimensione dell’empowerment (Spreitzer, 1995). Dato l’accento posto dall’inchiesta sulla possibile intensificazione del lavoro in un contesto di squadra, il Controllo del lavoro è stato considerato un costrutto a sé. Per verificare ulteriori fattori suscettibili di influire sulla Tensione e sulla Disponibilità a Fare di Più, nonché di essere altrimenti correlati all’Appartenenza alla squadra e all’Empowerment, nei modelli sono stati accorpati fattori contestuali e climatici. In primo luogo, si è osservato l’avvicendamento mansionale, in cui circa tre su quattro lavoratori ruotavano su due o più lavori (Avvicendamento sul lavoro). In secondo luogo, è stata analizzata la soddisfazione generale dei lavoratori relativamente alle loro opportunità di formazione e istruzione. In questo caso, si è istituita una variabile latente incentrata su sette punti relativi alle opportunità di professionalizzazione percepite dal singolo sul proprio posto di lavoro (Opportunità di professionalizzazione). All’interno del campione, una cospicua maggioranza di addetti riteneva di godere e di poter continuare a fruire di eccellenti opportunità di formazione e qualificazione (con un 20% circa che esprimeva consenso più o meno accentuato e un ulteriore 40% che era parzialmente d’accordo). D’altra parte, il 20% circa degli addetti riteneva di non godere né di fruire di buone opportunità professionalizzanti. Sono state, inoltre, ulteriormente analizzate le differenze relative alle tecnologie. La prima analisi è incentrata su una domanda relativa all’installazione di nuove attrezzature nell’area di lavoro immediatamente attigua alla propria nel corso degli ultimi cinque anni (Nuove attrezzature). Oltre il 70% dei lavoratori afferma di aver assistito a all’introduzione di nuove attrezzature in una certa misura nell’impresa nel suo insieme e in grande quantità nell’area di lavoro immediatamente attigua alla propria. La 311 nostra seconda analisi consiste nel verificare se i lavoratori usavano o meno il computer per lo svolgimento del proprio lavoro (Uso del Computer), con una percentuale del 40% che ha risposto affermativamente. Inoltre, diversi fattori climatici e ambientali sul posto di lavoro possono influenzare la Tensione e la Disponibilità a Fare di Più. Queste variabili di controllo comprendono anhe l’eventualità in cui i lavoratori sono trattati in maniera equa, ricevono un feedback e lavorano in condizioni sanitarie e ambientali sicure. La verifica del trattamento equo lo si evince dalle risposte fornite dai lavoratori, come ad esempio: “sono trattato equamente” (Trattamento equo). Appena più di un terzo è d’accordo o fortemente d’accordo nel dichiarare di essere trattato equamente, mentre il 25% ha espresso disaccordo o forte disaccordo a riguardo. La variabile del Feedback si basa su un costrutto a 3 punti che indaga sull’effettiva capacità di ottenere un significativo Feedback sulla propria performance (vedere appendice). Mentre più di tre su quattro lavoratori hanno riferito di essere consapevoli del proprio rendimento sul lavoro, e solo uno su cinque circa si è detto d’accordo o fortemente d’accordo sul fatto di ricevere o meno un significativo Feedback in ambito lavorativo. Infine, la maggioranza dei lavoratori ha riferito indecisione o parziale accordo o disaccordo con l’affermazione secondo la quale i datori di lavoro predisponevano un ambiente di lavoro sano e sicuro (Ambiente sicuro). Agli estremi della scala, circa il 30% riteneva di lavorare in un contesto sano e sicuro, diversamente dal restante 23%. Infine, sono state analizzate le tariffe retributive orarie, che corrispondevano in media U.S.$ 12.77 nell’intero campione. Nei diversi stabilimenti, le retribuzioni medie andavano da un minimo di $10.79 a un massimo di $16.19. Interrogata circa il proprio livello complessivo di soddisfazione riguardo alla retribuzione, la maggioranza dei rispondenti (56%) si è dichiarata insoddisfatta e il 41% altamente insoddisfatta. Soltanto una piccola quota (12%) si è detta d’accordo o fortemente d’accordo circa il ritenersi soddisfatta della retribuzione percepita. 8 Risultati La Tabella 3 riporta i risultati delle nostre stime OLS (Occupational Safety and Health – Salute e Sicurezza sul Posto di Lavoro) , che risultano essere particolarmente affidabili sotto il profilo statistico. In generale, i risultati indicano che il teamworking nel campione d’imprese esaminate ha indotto maggiori livelli di Tensione ma praticamente nessun effetto tangibile sulla 312 Disponibilità a Fare di Più. Per contro, l’empowerment ha sortito un modestissimo effetto sulla Tensione e uno sostanziale sulla Disponibilità a Fare di Più. Come si vedrà più avanti, i dati raccolti suggeriscono anche che la maggior parte delle variabili di controllo ha un atteso e significativo effetto su entrambe le variabili dipendenti. Nessun riscontro, invece, è stato acquisito circa l’influenza sulla Tensione o sulla Disponibilità a Fare di Più dell’Avvicendamento sul lavoro, dell’Uso del Computer, del Feedback, o dei tassi retributivi. Tensione: Relativamente alla Tensione, si rileva innanzitutto che quando l’Empowerment non è controllato come una variabile indipendente (equazione 1), gli effetti del teamworking risultano positivi e altamente significativi. Le stime indicano, inoltre, che gli effetti del teamworking sulla Tensione sono gli stessi a prescindere dal grado di coinvolgimento attivo dei lavoratori. Se si considera che l’Empowerment abbia effetti indipendenti lineari ed in interazione con il teamworking (equazione 2), i risultati saranno influenzati solo marginalmente. Ossia, gli addetti che lavorano in squadra che hanno un maggiore empowerment (In Squadra*Maggiore Empowerment) sembrano accusare dei livelli di Tensione relativamente più alti, come indicato dal coefficiente stimato equivalente a 1.57, rispetto agli addetti che lavorano in squadra e che hanno un minore empowerment (In Squadra*Minore Empowerment), come indicato dal coefficiente stimato equivalente a 1.28. Tralasciando i termini d’interazione (equazione 3), i risultati indicano che il teamworking è correlato in misura indipendente e altamente significativa alla Tensione, mentre l’Empowerment non mostra una correlazione indipendente rispetto alla stessa. Sulla scorta delle stime formulate nelle tre equazioni, sarebbe ragionevole dedurre che a maggiori livelli di empowerment corrisponde soltanto un modesto incremento della Tensione. In netto contrasto, gli addetti che lavorano in squadra sembrano accusare livelli di Tensione significativamente superiori rispetto a coloro che non lavorano in squadra. I suddetti effetti del teamworking e dell’empowerment perdurano a fronte di un Controllo e di un ritmo di lavoro costanti. Benché un maggior Controllo del lavoro sia negativamente associato alla Tensione (come da previsioni), nello specifico non lo è. Ma i fatti dimostrano che quanto più gli addetti ritengono di essere sottoposti a un ritmo di lavoro eccessivamente rapido (Ritmo troppo accelerato), tanto più il grado di Tensione ne risulta aumentato. La portata delle stime nelle tre equazioni indica un sostanziale effetto del ritmo di lavoro sulla Tensione. In estrema sintesi, se ne evince che 313 gli addetti che lavorano in squadra (indipendentemente dal rispettivo livello di empowerment, controllo del lavoro e ritmo) accusano maggiore Tensione rispetto a coloro che non operano in squadra. Una serie di ulteriori variabili di controllo sembra essere associata con la percezione che i singoli addetti hanno della Tensione. I lavoratori con maggiori opportunità di professionalizzazione sono trattati più equamente e operano in ambienti di lavoro più sani e sicuri, accusando meno Tensione, a parità di altre condizioni. In ultimo, gli addetti che abbiano dovuto adattarsi all’introduzione di nuove attrezzature nella propria impresa, denunciano una maggiore Tensione. Le stime relative alle Nuove attrezzature mostrano tuttavia un livello di confidenza significativo solo a <0.10. Disponibilità a Fare di Più: Relativamente a questo parametro, si è innanzitutto verificato il caso in cui l’Empowerment non è controllato come una variabile indipendente (equazione 1), gli effetti dello stesso sono positivi. Questi ultimi, inoltre, non sembrano risentire del lavoro in squadra o meno degli addetti. Se si considera che l’Empowerment abbia effetti indipendenti lineari ed in interazione con il teamworking (equazione 2), esso è linearmente e significativamente correlato alla Disponibilità a Fare di Più. Si potrebbe dedurre dalle stime poco significative associate ai termini d’interazione che il teamworking nel contesto allo studio non eserciti nessuna osservabile influenza sulla Disponibilità a Fare di Più. Il dato è ulteriormente suffragato in caso di esclusione dei termini d’interazione (equazione 3). In tal caso, la stima sul Lavoro In Squadra non risulta significativa, mentre quella sull’Empowerment lo è e la portata dei suoi effetti resta pressoché invariata. Da una stima trasversale delle tre equazioni, si può dedurre che (in media) il teamworking non ha nessun effetto tangibile sulla Disponibilità a Fare di Più. Per contro, l’Empowerment maggiormente percepito ha un notevole effetto positivo sulla disponibilità del soggetto a compiere maggiori sforzi tesi al miglioramento della performance. Parimenti suffragata è l’attesa che un maggiore Controllo del lavoro (una dimensione di empowerment psicologico) abbia un effetto positivo sulla Disponibilità a Fare di Più. In tutte e tre le equazioni, il Controllo del lavoro è un dato positivo e acquisisce significatività a un livello equivalente a <0.10 (e appena al di sotto di <0.05 livello), utilizzando prove di significatività ai due estremi. Molte altre variabili di controllo sembrano parimenti associate alla Disponibilità a Fare di Più. In primo luogo, quanto maggiore sarà la convinzione che il ritmo di lavoro sia eccessivamente serrato (Ritmo troppo accelerato), tanto minore sarà da parte degli addetti la Disponibilità a Fare 314 di Più. Inoltre, coloro che godono di maggiori Opportunità professionalizzanti e che operano in un ambiente di lavoro più sano e sicuro sono maggiormente predisposti ad operare più alacremente in vista di un più alto rendimento aziendale. 9 Riepilogo e conclusioni A fronte di un mercato altalenante e sempre più globalizzato e competitivo, l’industria automobilistica statunitense ha incentrato le proprie strategie operative e di organizzazione del lavoro su una maggiore intensificazione di capitale, privilegiando così gli aspetti tecnici e ingegneristici al fine di migliorare la performance produttiva. A latere di tale impostazione aziendale, si coglie un diffuso ricorso al lavoro di squadra, a modelli retributivi commisurati ai risultati, nonché a un avvicendamento del lavoro e a una condivisione frequente delle informazioni relative alla performance e alla formazione. Alla data del 2001, circa il 50 per cento degli addetti alla produzione dell’industria automobilistica negli U.S.A. operava in squadre di lavoro, circoli di qualità, o altre forme partecipative. A un esame più attento, il teamworking risulta generalmente ed essenzialmente limitato a strutture e processi imperniati su singoli mansioni e, in cui gli addetti hanno sviluppato maggiore flessibilità nell’esecuzione di mansioni e lavori e sono stati maggiormente responsabilizzati a migliorare la propria performance a fronte di una routine lavorativa ideata e controllata dalla direzione. Il presente contributo ha cercato di valutare gli effetti del teamworking imperniato su singoli mansioni sulla performance aziendale e sull’impegno dei lavoratori a perseguire gli obiettivi aziendali, nonché sulla tensione e disponibilità degli stessi a compiere maggiori sforzi. A scanso di equivoci, non è desiderio degli autori amplificare la portata dei risultati oltre i limiti imposti dall’osservazione dei fatti in sede d’indagine, relativamente ai dati raccolti e ai modelli testati. Ne consegue, quindi, che le risultanze e le ipotesi formulate nella presente relazione hanno uno scopo più orientativo che definitivo. In base a un riscontro oggettivo, un più diffuso teamworking (e associata rotazione) hanno, in media, effetti limitati sulla performance aziendale, salvo che in imprese sindacalizzate, ove gli effetti risultano sostanziali. Il dato è in linea con precedenti modelli analoghi, nei quali l’autore ha utilizzato effettivi calcoli di valore aggiunto per addetto nell’intero spettro delle industrie manifatturiere (Cooke, 1994). Analogamente all’analisi 315 proposta da Cooke, di cui sopra, si rileva che le retribuzioni commisurate ai risultati (utilizzate in generale in concomitanza con il lavoro di squadra) sono positivamente associate a un valore aggiunto relativo in contesti non sindacalizzati e negativamente associate allo stesso in contesti sindacalizzati. Si rileva, altresì che l’attività di squadra estesa e le retribuzioni commisurate ai risultati sono positivamente correlate all’impegno profuso dai lavoratori per il conseguimento degli obiettivi aziendali (come fra l’altro percepito dai dirigenti delle varie aree), ma unicamente in imprese non sindacalizzate. Ancora più eloquenti circa la modellizzazione della performance aziendale e dell’impegno profuso dai lavoratori per il conseguimento degli obiettivi aziendali sono gli effetti indipendenti della diffusione di nuove tecnologie e dei concomitanti fabbisogni formativi. Qui si riscontrano diffusi effetti altamente significativi sia sul valore aggiunto per addetto sia sull’impegno dello stesso in imprese sindacalizzate e non. I risultati indicano che una maggiore enfasi posta sull’intensificazione di capitale e sulle soluzioni tecniche ed ingegneristiche (oltre che sulla necessaria riqualificazione del personale) ai fini di un continuo miglioramento della performance giustifica la validità della scelta di obiettivi di performance alla base delle strategie più vaste di organizzazione del lavoro e aziendali perseguite dalle imprese in risposta a una sempre più agguerrita concorrenza nel comparto. Un esame degli effetti del teamworking e dell’empowerment sulla Tensione e sulla Disponibilità a Fare di Più degli addetti mostra come coloro che operano in squadre di lavoro accusano, in media, una tensione maggiore rispetto agli altri (controllo dell’empowerment e del ritmo del lavoro). Inoltre, emerge che il teamworking di per sé non ha ingenerato una accresciuta disponibilità a compiere maggiori sforzi, vantaggio spesso attribuito al teamworking. Tuttavia, benché causa di maggiore tensione, il teamworking non sembra incidere negativamente sulla disponibilità dei soggetti a sforzarsi di più. Benché alcuni autori abbiano obiettato che l’empowerment possa tradursi in un espediente per accelerare il ritmo lavorativo e, conseguentemente, la tensione, non sussistono prove che suffraghino questa tesi, come ivi illustrato. Inoltre, a una verifica del lavoro di squadra, l’empowerment risulta essere positivamente e fortemente associato alla Disponibilità a Fare di Più. In conclusione, si direbbe che l’industria automobilistica statunitense faccia essenzialmente leva sull’infusione di capitali e sull’introduzione di applicazioni ingegneristiche e tecniche per aggiudicarsi un vantaggio competitivo. Ne consegue che il teamworking venga a giocare un ruolo 316 limitato e di secondo piano nel conseguimento degli attesi risultati di performance e diventi sempre più imperniato sulle singole mansioni, a scapito del potere discrezionale dei lavoratori. Considerato da questa angolazione, è lecito attendersi che il teamworking abbia un impatto più contenuto sulla performance, ingeneri meno empowerment e amplifichi l’intensità del lavoro. Questa forma limitata di teamworking non sembra, comunque, ripercuotersi negativamente sull’impegno dei lavoratori a conseguire gli obiettivi aziendali o sulla disponibilità degli stessi a compiere maggiori sforzi, malgrado un accresciuto carico di tensione. Questi riscontri, nel complesso, potrebbero rivelare che è esattamente ciò che tutte le industrie del settore automobilistico statunitense (così come tutti i vertici sindacali) auspicano. Conseguentemente, il teamworking potrebbe non essere più considerato come l’opzione privilegiata per aggiudicarsi un vantaggio competitivo e per migliorare la qualità della vita lavorativa, ma piuttosto come una pratica di gestione delle risorse umane a corredo di più avanzate strategie di organizzazione del lavoro perseguite dal settore. 317 10 Bibliografia Appelbaum E., Batt R., The New American Workplace: Transforming Work Systems in the United States. Ithaca, N.Y.: ILR Press, 1994. Arthur J.B., Effects of human resource systems on manufacturing performance and turnover, “Academy of Management Journal”, 37, 1994, pp. 670-687. Becker B., Gerhart B., The impact of human resource management on organizational performance: progress and prospects, “Academy of Management Journal”, 39, 1996, pp. 779-801. Cooke W., Employee participation programs, group-based incentives, and company performance: A union-nonunion comparison, “Industrial and Labor Relations Review”, 48, 1994, pp. 594-609. 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MacDuffie J.P., Human resource bundles and manufacturing performance: Organizational logic and flexible production systems in the world auto industry, “Industrial and Labor Relations Review”, 48, 1995, pp. 197-221. 319 Rees C., Teamworking and service quality: The limits of employee involvement, “Personnel Review”, 28, 1999, pp. 455-73. Rinehart J., Huxley C., Robertson D., Just Another Car Factory? Lean Production and Its Discontents, Ithaca, NY: ILR/Cornell University Press, 1997. Sewell G., Wilkinson B., Someone to watch over me: Surveillance, discipline and the just-in-time labour process, “Sociology”, 26, 1992, pp. 271-89. Spreitzer G., Psychological empowerment in the workplace: Dimensions, measurement, and validation, “Academy of Management Journal”, 38, 1995, pp. 1442-65. Spreitzer G., Noble D., Mishra A., Cooke W., Predicting process improvement and team performance in an automotive firm: Explicating the roles of trust and empowerment, in Mannix E., Neale M. 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Youndt M.A., Snell S.A., Dean J.W., Lepak D.P., Human resource management manufacturing strategy and firm performance, “Academy of Management Journal, 39, 1996, pp. 836-866. 320 Tab. 1 - Gestione delle risorse umane e attributi tecnologici selezionati per diversi tipi di enfasi posti nei vari luoghi di lavoro negli U.S.A. - Il settore automobilistico (2001) Enfasi posta nei diversi luoghi di lavoro Campione Tecnico Ingegneristico Gestione delle risorse umane Duale 47% 46% 38% 67% 43% 8 7 8 9 12 Ogni quante settimane si riuniscono le squadre? 2.2 2.05 1.7 2.6 2.1 Ore di Formazione destinate alle squadre 12 11 11 17 10 Avvicendamento mansionale? 71% 77% 60% 77% 63% Frequenza della condivisione delle informazioni sulla performance? 80% 84% 60% 92% 100% Retribuzioni commisurate ai risultati? 55% 53% 45% 69% 62% Attributo Media % in Squadre di lavoro Dimensione della Squadra Ore of Formazione Media totale annua 62 49 96 54 37 Formale 21 19 29 17 19 Sul posto di lavoro 41 31 68 37 18 19 22 15 24 14 Retribuzioni massime offerte $12.82 $12.32 $14.03 $12.77 $11.82 % Nuove attrezzature acquistate negli ultimi 5 anni 38% 38% 44% 37% 22% Uso del computer settimanale? 49% 52% 55% 39% 38% % d’imprese sindacalizzate 51% 42% 62% 43% 71% % di lavoratori sindacalizzati 33% 30% 42% 25% 34% Per nuovi assunti 321 Tab. 2 – Stime probit degli effetti di gestione delle risorse umane e attributi tecnologici sul valore aggiunto relativo percepito per addetto e impegno dei lavoratori Valore aggiunto Coef. (s.e.) 3.09 Variabile Estesa attività di squadra * Imprese sindacalizzate Media/% 12.5% Coef. (s.e.) –.11 *** Estesa attività di squadra * Imprese non sindacalizzate 18.1% Retribuzioni commisurate ai risultati* Imprese sindacalizzate 19.4% Retribuzioni commisurate ai risultati* Imprese non sindacalizzate Retribuzioni Massime Offerte (>$15) 36.1% Ore di Formazione d’ingresso 5.3 Ore Annuali di Formazione (> 62) 19.4% Condivisione Frequente d’Informazioni sulla Performance 79.2% % Nuove attrezzature acquistate negli ultimi 5 anni 37.5% (.94) 12.59 (.50) 15.2% (% Nuove attrezzature acquistate negli ultimi 5 anni)² > 25% Uso del computer settimanale Impegno 48.6% *** (.58) –1.73** (.83) .79 * (.43) .94 * (.57) .780 (.59) 1.36 *** (.49) 1.11** (.57) .0003 (.002) 1.51** (.69) –.55 (.59) 1.07 * (.63) .03 ** (.01) –.38 (.55) 1.64 *** (.59) –.08** (.04) .001** (.0005) 1.34 .09 *** (.03) –.001 *** (.0003) .93 ** 322 Intercept N = 72 χ2 (11 d.f.) (.46) –.15 (.84) –4.21 *** (1.09) (.42) 37.29 36.97 *** *** Tab. 3 - Valutazioni OLS di Teamworking e Empowerment su Tensione e Disponibilità a Fare di Più da parte dei Lavoratori Variabile In squadra*Maggiore Empowerment Media/% (s.d.) 0.25 Tensione Coef. (s.e) –1 –2 1.23** 1.57*** (.48) (.60) Disponibilità a Fare di Più Coef. (s.e) –3 –1 –2 –3 ––– 1.63*** 0.57 ––– (.47) (.59) 1.23** 1.28*** (.48) (.50) ––– 0.69 (.47) 0.44 (.48) ––– In squadra*Minore Empowerment 0.20 Non in Squadra* Maggiore Empowerment 0.21 0.64 (.50) 0.95 (.62) ––– 1.68*** (.49) 0.57 (.60) ––– In squadra 0.48 ––– ––– .93*** (.34) ––– ––– 0.20 (.33) Empowerment 51.50 (7.40) ––– –0.03 (.03) 0.00 (.03) ––– (.03) Controllo del lavoro 13.80 (4.40) –0.03 (.04) –0.01 (.04) –0.01 (.04) .08* (.04) 4.00 .92*** .87*** .87*** –.16* (1.90) (.09) (.09) (.09) (.05) (.05) (.05) 0.74 0.17 (.42) 0.08 (.42) 0.07 (.42) –0.19 (.41) –0.18 (.41) –0.19 (.41) –.06** –.06*** –.06*** (.02) (.02) (.02) .18*** (.02) Ritmo troppo accelerato Avvicendamento sul lavoro Opportunità Professionalizzanti 27.30 (8.60) .09*** .10*** (.02) .08* (.04) .08* (.04) –.19** –.19** .17*** .17*** (.02) (.02) 323 Nuove Attrezzature 0.93 (.69) .46* (.25) .43* (.25) .42* (.25) 0.31 (.24) 0.31 (.25) 0.31 (.25) Uso del Computer 0.38 –0.53 (.37) –0.60 (.37) –0.55 (.37) –0.21 (.36) –0.18 (.36) –0.15 (.36) 4.20 –.49*** –.50*** –.51*** (2.00) (.10) (.11) (.11) 12.70 0.03 0.03 0.04 (4.30) (.05) (.05) (.05) 0.04 (.10) 0.06 (.05) 0.02 (.10) 0.08 (.05) 0.02 (.10) .09* (.05) Trattamento equo Feedback Ambiente sicuro 4.20 (1.80) –.19* (.11) –.19* (.11) –.18* (.11) .42*** (.10) Retribuzioni 12.77 (2.97) 0.00 (.06) –0.01 (.06) 0.00 (.06) –.10* (.06) .37*** .37*** (.11) (.11) –0.08 (.06) –0.08 (.06) Intercept 13.13** 14.94** 13.81** 10.88*** 7.28*** 6.65** * * * * (1.17) (1.9) (1.62) (1.15) (1.86) (1.58) F–Ratio 16.15** 14.50** 16.70** 29.91*** * * * Ad. R2 N 1 0.28 0.27 0.27 0.347 516.00 501.00 501.00 513.00 19.77** 23.04* * ** 0.346 0.374 498.00 498.00 324 Appendice. Variabili dei Risultati degli Addetti: Item del Costrutto, Alfa di Cronbach, e Distribuzione Approssimativa delle Risposte I. Intensità del lavoro (Alfa di Cronbach: .656) A. Item · Mi sento spesso esausto alla fine del mio turno. · Sento spesso dolore a causa del lavoro che svolgo. · Mi sento spesso teso e nervoso alla fine del mio turno. B. Distribuzione Approssimativa dei Punteggi per Categoria di Risposte · Leggermente in disaccordo, in disaccordo, in forte disaccordo: 32% · Indecisi: 24% · Più o meno d’accordo: 23% · D’accordo, fortemente d’accordo: 21% II. Disponibilità a compiere maggiori sforzi (Alfa di Cronbach: .600) A. Item 1. Compio più sforzi di quanto dovuto. 2. La mia azienda mi motiva per svolgere il mio lavoro al meglio. 3. Sono disposto a compiere più sforzi di quanto non faccia finora. 4. Sono disposto a compiere più sforzi oggi nello svolgere il mio lavoro al meglio rispetto a 5 anni fa. B. Distribuzione Approssimativa dei Punteggi per Categoria di Risposte · Leggermente in disaccordo, in disaccordo, in forte disaccordo: 26% · Indecisi: 32% · Più o meno d’accordo: 28% · D’accordo, fortemente d’accordo: 14% III. Empowerment (Alfa di Cronbach: .742) A. Item 1. Il lavoro che svolgo per me è importante. 325 2. Sono sicuro riguardo alle mie capacità di svolgere il mio lavoro principale. 3. Per me è importante svolgere bene il mio lavoro. 4. Le principali mansioni lavorative da me svolte sono per me significative a livello personale. 5. Sono in grado di svolgere diverse mansioni lavorative che mi sono state assegnate. 6. Il lavoro che svolgo è personalmente soddisfacente. 7. E’ importante per me svolgere bene il mio lavoro ai fini del successo della mia area lavorativa. 8. Non ho la padronanza delle competenze necessarie per svolgere il mio lavoro (codificato alla rovescia). 9. Posso influenzare significativamente il successo della mia area lavorativa. B. Distribuzione Approssimativa dei Punteggi per Categoria di Risposte · Leggermente in disaccordo, in disaccordo, in forte disaccordo: 5% · Indecisi: 20% · Più o meno d’accordo: 38% · D’accordo, fortemente d’accordo: 37% IV. Controllo del lavoro (Alfa di Cronbach: .705) A. Item 1. Sono in grado di decidere come fare al meglio il mio lavoro. 2. Ho notevoli opportunità di autonomia e libertà decisionale relativamente alla modalità di svolgimento del mio lavoro. 3. Sono in grado di decidere autonomamente la modalità migliore per lo svolgimento del mio lavoro. B. Distribuzione Approssimativa dei Punteggi per Categoria di Risposte · Leggermente in disaccordo, in disaccordo, in forte disaccordo: 29% · Indecisi: 20% · Più o meno d’accordo: 27% · D’accordo, fortemente d’accordo: 24% 326 V. Opportunità di professionalizzazione (Alfa di Cronbach: .815) A. Item 1. Sono soddisfatto della formazione che ho ricevuto in questa azienda. 2. Ho ottime opportunità di migliorare le mie competenze in questa azienda. 3. La mia azienda mi offre ottime opportunità formative ulteriori. 4. Mi aspetto di ricevere ulteriore formazione in futuro. 5. Le opportunità di migliorare le mie competenze sono migliori oggi rispetto a 5 anni fa. 6. Le opportunità di trovare un lavoro migliore in futuro sono migliori oggi rispetto a 5 anni fa. 7. Ha partecipato a un incontro orientativo al momento dell’assunzione? Se sì, è stato utile? B. Distribuzione Approssimativa dei Punteggi per Categoria di Risposte · Leggermente in disaccordo, in disaccordo, in forte disaccordo: 19% · Indecisi: 22% · Più o meno d’accordo: 40% · D’accordo, fortemente d’accordo: 19% VI. Feedback (Alfa di Cronbach: .544) A. Item 1. Ricevo un Feedback significativo sul modo in cui procedo mentre svolgo il mio lavoro. 2. Mi rendo conto se sto lavorando bene o male. 3. Posso scoprire se sto lavorando bene e in che misura. B. Distribuzione Approssimativa dei Punteggi per Categoria di Risposte · Leggermente in disaccordo, in disaccordo, in forte disaccordo: 20% 327 · · Indecisi: 47% Più o meno d’accordo, d’accordo, fortemente d’accordo: 33% Scenari di sviluppo del settore auto L’auto, la mobilità, il lavoro Francesco Garibaldo È noto il ruolo essenziale che l’industria automobilistica, comprendendo tutta la filiera e non solo i produttori finali, gioca in Europa sia dal punto di vista dell’occupazione e della creazione di ricchezza. Meno enfasi c’è sul ruolo di frontiera tecnologica che tale settore ha svolto e svolge, non solo e non tanto, almeno adesso, per quanto riguarda il processo produttivo ma specialmente per lo sviluppo e l’innovazione di prodotto. Se questo è vero, spingendoci a porci il problema di una continuità e sviluppo di tale settore in Europa, è altrettanto evidente che siamo in una situazione critica. Di che tipo di crisi si tratta? In primo luogo, se guardiamo alle cose dal punto di vista delle aziende, non di una crisi generalizzata dato che vi sono aziende che patiscono in termini di redditività e quote di mercato ed altre che invece godono di ottima salute. Se, viceversa, assumiamo il punto di vista del settore come un tutto, la crisi è evidentemente, prima di tutto una crisi derivante da un eccesso di capacità produttiva installata in Europa; vi sono, in sostanza, troppi produttori e/o troppi impianti. Troppi evidentemente rispetto al mercato disponibile per i produttori europei, che devono scontare la presenza Giapponese e l’emergere di possibili ulteriori significative capacità produttive in Asia ( in Cina nel 2004 si sono prodotte più di 2 milioni di auto). Ma la capacità produttiva è in eccesso non solo relativamente e comparativamente tra Europa ed altre aree del mondo ma come dato assoluto, dato che il gap tra esigenza di mobilità e reddito disponibile è ancora molto alto in tutta l’Asia, il Sud America e l’Africa, insomma per una larga parte dell’umanità. Si dice quindi che la capacità produttiva inutilizzata potrebbe a breve trovare un utilizzo man mano che tali aree del mondo miglioreranno il loro standard di vita. Naturalmente nessuno è in grado di fare previsioni attendibili dato che proprio in quelle aree del mondo lo sviluppo ha assunto caratteristiche spiccatamente classiste, cioè di uno squilibrio crescente tra un’area minoritaria di quelle società, che si distribuisce quasi esclusivamente i benefici di un forte sviluppo economico, e la larga maggioranza che ne è esclusa; occorre inoltre considerare che l’Asia sempre di più sarà non solo un consumatore ma un produttore. Le conseguenze sociali, dal lato del Lavoro, dell’esistenza stessa di una sovra-capacità produttiva sono altresì gravi ed evidenti; essa infatti spinge 330 ad una concorrenza feroce tra le imprese, tale concorrenza viene in primo luogo giocata sulle condizioni operative, quindi sulla condizione lavorativa. Tale pressione si sviluppa attraverso la crescita delle delocalizzazioni, che vanno distinte dagli investimenti diretti esteri il cui scopo principale è la presenza diretta su un nuovo mercato, ma anche su un peggioramento complessivo delle condizioni di lavoro nell’Unione Europea che nella configurazione a 25 corre il rischio di sperimentare un doppio regime lavorativo invece che una progressiva convergenza degli standard. Il doppio regime nell’Unione Europea e le delocalizzazioni premono sulle condizioni di lavoro complessive abbassando gli standard. La pressione inoltre si sviluppa lungo tutta la catena della sub-fornitura le cui condizioni sociali sono solo parzialmente note e, da quel poco che si sa, fortemente sperequate tra le aziende e tra tutte queste e gli assemblatori finali. La concorrenza viene poi giocata sulla capacità di sviluppo e innovazione dei prodotti con la messa in discussione della precedente divisione del lavoro tra le imprese, basata sulla copertura specializzata di determinati segmenti del mercato; tutti puntano a fare tutto, alla ricerca di un decente utilizzo degli impianti, il cui punto di pareggio viaggia ormai oltre il 70%. Come già detto, vi sono aziende con grande capacità di sviluppo ed innovazione dei prodotti, e sono quelle che vanno meglio, ed altre che arrancano; si può quindi migliorare la situazione media di tutta l’industria europea, sotto questo profilo, ma la cruda domanda da farsi è: se anche tutti si situassero all’altezza degli esempi di eccellenza ciò farebbe sparire il problema dell’eccesso di capacità produttiva? Pare certamente improbabile.. La ragione sta in molteplici fattori. I più ovvi sono il fatto che l’industria dell’auto, considerando l’intera filiera, è ancora un industria ad alta intensità di mano d’opera e con un buon moltiplicatore tra posti diretti ed indiretti creati da un investimento base, che la barriere all’entrata si sono allentate, ecc. Nasce quindi un interesse di tutti i paesi che stanno sviluppando un industria di medio - alto livello ad avere una propria capacità produttiva e comunque impianti direttamente presenti nei loro confini; di qui l’importanza attribuita dai produttori europei di successo, più che di delocalizzazioni per abbassare il costo del lavoro, a investimenti diretti esteri nei nuovi mercati. Le delocalizzazioni per produrre auto che vengono poi vedute sui mercati europei più ricchi vengono attuate come misura difensiva per essere in grado di affrontare la guerra sui prezzi. Strategia pericolosa poiché si può innestare un circuito vizioso sia sul piano sociale, perché per questa via si liquidano precedenti equilibri sociali, ostacolando la crescita di nuovi; sia sul piano strategico, come dimostra il caso Fiat, perché la tentazione di seguire 331 la via facile del taglio dei costi e della razionalizzazione dei processi con un basso livello di sviluppo dei prodotti e la quasi assenza di capacità innovativa diventa molto forte. Né è pensabile che, come negli anni ’70, la chiave stia tutta nei modelli organizzativi e nel mercato del lavoro; essi naturalmente restano importanti ma il punto ormai è la dinamica di base dell’industria automobilistica ed il suo posizionamento internazionale. Ecco quindi, il secondo gruppo di fattori; essi riguardano una contraddizione tra l’esigenza sociale crescente, quasi un diritto, alla mobilità e la crescente inadeguatezza del modello attuale di automobile a fornire una risposta sostenibile socialmente ed ambientalmente. Sino agli anni ’80 mobilità ed auto coincidevano in larga misura; l’auto aveva assorbito una larga parte della domanda di mobilità prima coperta da mezzi collettivi. Ormai, specialmente in Asia, appare chiaro alle stesse autorità pubbliche che se i loro cittadini sviluppassero una modello di mobilità ricalcato sul nostro si aprirebbe un problema immediato di sostenibilità non solo ambientale ma sanitaria. Situazione che noi già sperimentiamo nelle nostre città, grandi e piccole, per non parlare della aree metropolitane che vivono contemporaneamente un inquinamento aggressivo e un traffico con velocità comparabili a quello della bicicletta ed esposto a continue imprevedibili interruzioni, una situazione cioè socialmente ed economicamente sempre meno sostenibile. Sembrerebbe insomma che la parabola di crescita dell’auto e quindi della sua industria abbia raggiunto un punto limite; non è questa la nostra convinzione, noi pensiamo che questo modello di industria automobilistica sia ad un punto limite e che si apra una fase che non è solo di ristrutturazione ma di re-invenzione. Occorre aggiungere infatti che si è aperta una guerra crescente sulla disponibilità del petrolio; guerra che se le cifre sull’Asia dovessero dimostrarsi credibili diventerà una guerra feroce tra 10 – 15 anni. Saremmo quindi di fronte a palesi insanabili contraddizioni. Per fare vivere le aziende e quindi tutta l’occupazione e la relativa ricchezza prodotta. si dovrebbe aumentare la dimensione del mercato in generale e specificatamente le quote relative dell’industria europea, ma ciò è reso difficile da una distribuzione iniqua della ricchezza, se però tale iniquità fosse superata si aprirebbe un baratro ambientale e sanitario, baratro in via di realizzazione nelle nostre società europee. Quindi si dovrebbe diminuire non solo l’uso dell’auto ma il loro numero assoluto. A queste contraddizioni se ne somma una di fondo dato che la domanda di mobilità, nei centri urbani in particolar modo, non trova soddisfazione in modo economicamente e socialmente accettabile; vi sarebbe quindi un divorzio crescente tra domanda 332 di mobilità ed auto; insomma l’auto e la sua industria prederebbe parte del loro valore d’uso. Di qui quindi alcuni interrogativi cui vorremmo fornire elementi positivi di risposta. Come gestire la contraddizione tra domanda di mobilità e limiti del valore d’uso dell’auto? È inevitabile il circuito vizioso tratteggiato? Se così fosse, sarebbe una guerra di tutti contro tutti non essendo nessuno disposto a pagare il prezzo sociale ed economico di un fallimento. Tuttavia, se solo il mercato dovesse decidere allora tutto ciò sarebbe inevitabile. La deriva che si è messa in moto non si arresterà perché le forze di fondo che la sostengono sono imponenti. Da un lato abbiamo una parte consistente dell’umanità che vuole soddisfare una imprescindibile esigenza di mobilità, dall’altra una risposta inadeguata ma sperimentata, inoltre abbiamo importanti interessi economici e sociali che spingono per la difesa di quel modello. Si apre uno spazio importante a politiche pubbliche, a strategie degli attori sociali fondamentali, Capitale e Lavoro, che guardino ad obiettivi a medio – lungo termine anche attraverso originali alleanze con forze ambientaliste e dei consumatori. Il punto di partenza è quello di uscire dalla deriva attuale, il che significa in primo luogo ripartire dalla mobilità come il vero prodotto e riportare l’auto, in una strategia di mobilità sostenibile, ad un valore d’uso ragionevolmente adeguato alla domanda di mobilità. Se la mobilità è il vero prodotto allora una strategia di mobilità deve essere in grado di offrire piattaforme integrate di mobilità. Non si tratta più della vecchia contrapposizione tra trasporto collettivo ed individuale, ma di una offerta di servizi e mezzi che consentano, in modo sostenibile, sia singolarmente che collettivamente, di avere una risposta alla esigenza di mobilità. Progettare, costruire, realizzare e gestire tali piattaforme è un filone di attività economica a cavallo tra la manifattura ed i servizi, è un modello possibile di un futuro per la manifattura nei paesi ricchi. Piattaforme di mobilità vuol dire modelli di offerta differenziata a seconda delle caratteristiche demografiche ed ambientali, una cosa infatti è la mobilità in una zona rurale o montana ed un'altra quella in un grande centro urbano, vuol dire modelli integrati di pianificazione urbanistica, arredo urbano e strumenti per la mobilità – dagli ascensori, alle scale mobili, ecc -, vuol dire la elaborazione di mezzi di trasporto adatti a diverse tipologie di 333 mobilità individuale e collettiva ed anche affrontare il problema di modelli di gestione del traffico, ecc. Tutto ciò presuppone che l’insieme dei mezzi offerti, auto inclusa, risolvano o si avviino su una strada che porta alla risoluzione di due problemi strategici per l’Europa, ma anche per le altre aree economiche, l’inquinamento da emissioni e la dipendenza energetica dal petrolio. Si tratta quindi di una grande innovazione e sviluppo del prodotto automobile che parte dalla progressiva eliminazione del motore a scoppio a favore di quello a cella combustibile e lungo la strada dall’uso di motori a combustione a bassa emissione. Se si scegliesse questa strada il problema della sovra-capacità produttiva e della guerra sui costi verrebbe totalmente ridimensionato, si aprirebbero inoltre possibilità di una collaborazione con l’Asia sia in termini produttivi che di ricerca. Muoversi lungo questa strada in fretta significa forzare la situazione attraverso politiche pubbliche che siano un mix calibrato di politiche dell’offerta e della domanda, di restrizioni ed incentivi. Dentro questo quadro si potrebbero curare anche i malati d’Europa come la Fiat, che, malgrado i recenti positivi risultati dovuti al nuovo management, rimane in una situazione di strategica incertezza. Fuori da questo quadro c’è una guerra senza regole e senza limiti la cui prima vittima sarebbe il Lavoro, la seconda l’ambiente. Il Capitale è notoriamente senza patria, ma solo nella sua figura astratta, poi vi sono i capitali e quelli alla lunga hanno una territorialità se non una nazionalità; nel medio periodo i capitali europei, lungo l’attuale deriva, corrono il rischio di perdere il loro carattere industriale e vi sono sempre più dubbi, anche nella Commissione Europea, come dimostra il progetto Manufuture, che questo sia un bene, almeno per l’Europa; in ogni caso è bene sapere che gli USA hanno scelto per sé di rimanere un agende potenza industriale.