Per tornare a investire sulla maternità

Transcript

Per tornare a investire sulla maternità
PER TORNARE A INVESTIRE SULLA MATERNITÀ
Giulia Paola Di Nicola
1. Maternità sotto accusa
L’ambivalenza del tema “maternità” è legata al suo essere allo stesso tempo un fatto di natura
e un valore-simbolo dell’amore gratuito e altruistico, valido per l’essere umano in quanto tale. La
sua debolezza pratica sta nel confermare la donna in bilico tra il potere informale della Madre (tutto
legato alle radici affettive e morali) e la subordinazione di fatto e di diritto. Dopo la crisi di un
concetto di uguaglianza che si è rivelato controproducente, se inteso come assimilazione all’uomo
(è una sottile ideologia quella di voler tutti uguali ad un modello considerato prevalente), sia il
femminismo cristiano che quello ateo, pur partendo da opposte sponde, si sono messi alla ricerca
dei contenuti della differenza. Infatti, contrariamente agli obiettivi del femminismo “prima fase”, gli
anni Ottanta, con la ripresa di un femminismo “seconda fase”, è stato recuperato il valore degli
affetti, della famiglia, della maternità (celebre l'espressione della B. Friedan: “La nuova frontiera
dell'uguaglianza è la maternità»1), ma il tema maternità continua a prestare il fianco a tentazioni
strumentalizzanti specie dal punto di vista di una tecnica con delirio di onnipotenza (non è questo
l’oggetto del presente intervento) sia a tentazioni conservatrici che aprono la strada a nuovi e più
sofisticati tentativi di riduzione della donna a madre.
Di qui la necessità di un lavoro di rifondazione del femminile, invocato da Giovanni Paolo II:
«È urgente sviluppare… “una considerazione più penetrante e accurata dei fondamenti
antropologici della condizione maschile e femminile”, cercando di “precisare l’identità personale
propria della donna nel suo rapporto di diversità e di reciproca complementarietà con l’uomo, non
solo per quanto riguarda i ruoli da tenere e le funzioni da svolgere, ma anche e più profondamente
per quanto riguarda la sua struttura e il suo significato personale»2. È ciò che ha fatto il cardinale
Ratzinger, con la sua lettera ai vescovi centrata non tanto sulla donna soltanto quanto sul rapporto
uomo donna, per un’interpretazione antropologica a due voci.
La maternità ripropone tutta la difficoltà di risolvere problemi del tipo: se è giustificato
riferirsi alla donna subordinando la persona alla madre; come far convivere sessualità e persona,
natura e trascendenza; come salvare insieme uguaglianza e differenza, senza che un aspetto mutili
l’altro; quale senso attribuire al concetto di reciprocità; come conservare ed universalizzare il senso
analogico della femminilità simbolica e sapienziale della rivelazione.
L’utilizzo ermeneutico del concetto di persona rappresenta la categoria chiave per concepire
sessualità e trascendenza, identità e reciprocità, uguaglianza e differenza, maschilità e femminilità,
senza che un aspetto prevarichi e soffochi l’altro. Dal punto di vista della persona il concetto di
maternità esprime un tratto umano universale, legato alla fecondità dell'amore, laddove si colloca
anche una paternità redenta dal maschilismo.
2. Retorica e realtà
Se per retorica della maternità intendiamo quell’alone indescrivibile di sublime mistero che
circonda la maternità, la realtà è invece quella in cui incappano spesso le donne madri, con il duro
1
Cf. B. FRIEDAN,La mistica della femminilità, Milano 1970; ID., La seconda fase, Milano 1982. Mi permetto di
rimandare su questi temi ai miei lavori: Uguaglianza e differenza. La reciprocità uomo-donna, Città Nuova, Roma
1988; Il linguaggio della madre, Città Nuova, Roma 1994; Lei & Lui. Comunicazione e reciprocità (con A. Danese),
Effatà, Torino 2001.
2
Giovanni Paolo II, Mulieris Dignitatem, n.50.
1
carico di problemi psicologici, familiari, sociali e politici. Il futuro della maternità si gioca sulla
possibilità di tradurre quell’utopia in realtà o anche sulla capacità di sollevare questa all’altezza di
quella.
Uno sguardo sul mondo mostra che i problemi, pur così sentiti delle madri d’Occidente, sono
insignificanti agli occhi del mondo cosiddetto sottosviluppato, nel quale sono numerose le bambine
che rischiano una maternità precoce: Save the Children ha individuato 50 nazioni in cui il rischio
maternità precoce è più alto e devastante sia per le mamme che per i bimbi. Sul totale dei paesi, i
primi nove appartengono all’Africa subsahariana con Nigeria, Liberia e Mali in cima alla classifica.
In queste aree più di 1 ragazza su 6, tra i 15 e i 19 anni, mette al mondo un bimbo ogni anno ma
quasi 1 su 7 dei neonati muore entro il primo anno di età. Le puerpere-adolescenti inoltre hanno il
doppio delle possibilità di morire per complicazioni legate al parto rispetto alle donne più grandi e
se sotto i 14 anni corrono un rischio ancora maggiore.
È stato ripetutamente osservato che le ragazze che ricevono un’educazione di base vivono
meglio in gravidanza, hanno un parto più sicuro e anche i loro bambini stanno meglio. Risulta più
probabile che queste mamme cerchino adeguata assistenza per se stesse e i propri piccoli, che
mandino i loro bambini a scuola, distanzino le gravidanze, fruiscano di personale qualificato al
momento del parto, con maggiori probabilità di sopravvivenza e salute del bambino. In Svezia, che
è al primo posto della graduatoria dei paesi circa la maternità sicura, più del 99% delle donne ha
un’istruzione. Al contrario, in Nigeria, solo il 9% delle donne è andato a scuola. Di conseguenza
una mamma etiope ha 38 possibilità in più di veder morire il proprio bambino entro il primo anno di
vita rispetto ad una madre svedese.
Impossibile, inoltre, calcolare quante sono le maternità subìte, per violenza esterna e interna
alla famiglia, anche nelle famiglie che appaiono “normali”. A ciò si aggiungono altre numerose
piaghe della maternità: gli aborti in seguito alle percosse, le mutilazioni genitali, l’incitamento a
generare un figlio maschio e il conseguente rifiuto del partner della femmina e della madre
colpevole di averla partorita…
Fa riflettere lo stridente contrasto tra il vissuto materno di donne sfruttate nel lavoro e nel
sesso, rispetto al racconto evangelico della maternità di Maria, frutto del suo consenso libero alla
domanda del Creatore.
Nei paesi occidentali la crescita zero ha motivazioni diverse e in media più legate ad aspetti
psico-relazionali che possono apparire secondari, ma che alla fine risultano decisivi nella scelta di
rimandare, ridurre, rinunciare alla gravidanza. Di certo suona retorico tutto ciò che è invito a
generare figli, senza restituire gli strumenti della fiducia nella possibilità di vivere la genitorialità in
modo qualitativamente più umano. C'è un cambiamento epocale dall'avere figli come ricchezza e
benedizione, al temerli come impegno troppo pesante. Di fatto le giovani donne ormai non mettono
più il figlio in cima alle loro aspirazioni: prima si assicurano il lavoro, l'armonia della vita
coniugale, i rapporti sociali, un minimo di sicurezza economica.
La pubblicistica sulle difficoltà del vissuto materno risale alle prime denunce del femminismo
ed è rimasta sostanzialmente immutata anche quando dal rifiuto della maternità si è rivendicata la
libera scelta di maternità socialmente sostenute. Nonostante i progressi ottenuti sul piano sanitario e
giuridico (leggi di tutela della lavoratrice madre, nuovo diritto di famiglia, istituzione dei consultori,
asili nido…), le ragazze oggi nella società complessa continuano a guardare con timore alla
maternità e si prospettano problemi psicologici, di coppia, culturali, familiari, sociali, strutturali.
Tale affievolirsi del gusto della maternità reclama un rinnovato impegno nel cercare di sollevare la
qualità della vita delle donne, delle coppie e di conseguenza dei nascituri e della società tutta.
3. L’ansia di un figlio in arrivo
A livello psicologico si è diffusa l'angoscia del figlio in arrivo, parallela a quella circa il
matrimonio, a causa delle condizioni difficili nelle quali si imbattono le giovani coppie. Il timore ha
2
sostituito la gratificazione delle donne di un tempo, soddisfatte del loro valore personale misurato
sui figli (anche proporzionalmente al numero, in taluni ambienti). Si è perciò capovolto il criterio di
prestigio sociale: nel mondo occidentale generare più di due figli provoca emarginazione sociale.
Le ragazze in procinto di diventare madri affrontano all'interno della loro psiche un terremoto
esteriormente solo in parte percepibile. Esse si domandano se l’inizio della gravidanza segnerà la
fine della loro vita sociale (lavoro, carriera, partecipazione) della bellezza, della salute, se quella
rivoluzione del corpo segnerà anche la perdita della identità, costretta a riformularsi dietro la spinta
di tutto quanto di inesprimibile c’è in quella trasformazione del corpo che appare anche come
disfacimento, annuncio di sofferenza, avanzare di qualcuno che crescendo sembra espropriare. È
inevitabile mettere in questione le categorie mentali dominanti ereditate dal processo di
inculturazione e quella cultura popolare (proverbi, canti, filastrocche, racconti) e intellettuale
(antropologia, filosofia, teologia) che trasmette pensieri sulla maternità formulati sulle donne.
L'unità della coppia viene scossa: lei vive ora un’esperienza che non può delegare, a cui è
chiamata in prima persona, perché si svolge nel proprio corpo, ma che non le è possibile dominare;
lui avverte la presenza di un bimbo come un terzo che s’intromette nell’intesa a due e apre una
distanza. Sia la maternità che la paternità comportano l’esperienza del distacco, della solitudine,
dell’incertezza, ma la paternità si percepisce ancor più estranea di fronte all’evento che si viene
svolgendo nella donna. L’uomo non può che prendere atto, da spettatore, contemplando quanto di
misterioso sta avvenendo in lei. Nel migliore dei casi, egli si dispone ad apprendere la sua paternità
vivendola con e attraverso la madre. Secondo Giovanni Paolo: «Bisogna che l’uomo sia pienamente
consapevole di contrarre... uno speciale debito verso la donna. Nessun programma di “parità di
diritti” delle donne e degli uomini è valido, se non si tiene presente questo in un modo del tutto
essenziale... L’uomo — sia pure con tutta la sua partecipazione all’essere genitore — si trova
sempre “all'esterno” del processo della gravidanza e della nascita del bambino, e deve per tanti
aspetti imparare dalla madre la sua propria “paternità”»3.
Una madre può risentire del senso di oppressione di una certa mentalità vittimistica
tradizionale (maternità come castigo cui è inchiodata la donnai) e nell'altrettanto vincolante retorica
dell’oblatività femminile, infiorata di sentimentalismo. Due direzioni parimenti improponibili oggi.
Troppo poco è stato fatto per tentare di leggere, in termini non freudiani e non androcentrici, il
significato dei travagli interiori che molto prima del parto e a vari livelli si collegano all’esperienza
della maternità e che vanno decifrati nella loro ambivalenza.
Quando la maternità diviene un peso troppo gravoso, subentra la tentazione di cancellarla per
poter partecipare “alla pari” alla vita sociale e politica. Di questo “peso” approfittano quanti mirano
a liberare le donne dal peso della maternità, per consentire loro di lavorare e partecipare senza
preclusioni alla vita sociale.
L’aumento delle sindromi post-partum fa emergere una più profonda esigenza di qualità del
rapporto madre-figlio. Sono, infatti, le donne stesse a mettere in luce le ombre della loro “voglia di
maternità”, prendendo coscienza dell'ambiguità nascosta nelle pieghe dei sentimenti
apparentemente troppo nobili per essere soggetti alle cadute egocentriche, più o meno mascherate.
La maternità appare molto più come un processo che reclama i suoi ritmi di apprendimento
che come un dato di natura. Ci si domanda: si può chiamare amore materno la ricerca di
gratificazione sociale, di appagamento del bisogno di affermazione del proprio io, di sicurezza
familiare nel privato che compensi la mancanza di potere nell'ambito pubblico?ii. Un figlio può
essere soltanto la rivincita rispetto ad una educazione fallimentare ricevuta nella famiglia ascritta, il
desiderio di ringiovanire, dimostrare la propria fertilità, sentirsi “realizzate”, tenere unita la famiglia
(magari in crisi) attirando l'interesse su una nuova nascita, ricucire un rapporto interrotto col
partner, riempire il vuoto dei figli grandi che ormai abbandonano la casa? Ciascuno potrebbe
domandarsi quanta parte hanno avuto nella propria nascita tali pseudo-motivazioni edonistiche,
opportunistiche interessate, anche quando gioisce di essere al mondo.
3
Giovanni Paolo II, Mulieris Dignitatem, n.18.
3
Molte volte scoprirsi madri è semplicemente lo sbocco naturale e imprevisto di un rapporto,
magari vissuto in termini edonistici, di ricatto affettivo (ossia subìto per conformità, pseudomoralità, paura di perdere il compagno e restare sole), se non è addirittura frutto di violenza fisica
(anche nel matrimonio) o di stupro. Ad un tale intreccio di giochi psicanalitici, psicologici e sociali,
non si sottraggono neanche i più generosi impulsi, che concorrono a delineare i meandri nascosti
della maternità. Per avere un quadro più realistico di tali motivazioni, sarebbe da verificare la
percentuale di donne che confessa di avere faticato ad accettare una maternità non desiderata.
In realtà il mix di spinte altruistiche ed egocentriche costringe a demitizzarne la maternità e ad
esaminare caso per caso i suoi tratti concreti e i suoi significati psicologici e simbolici4. Oggi,
nell’epoca del disincanto ideologico, sappiamo che spesso l’idealizzazione oblativa della maternità
ha coperto di onori lo sfruttamento sessuale, economico, politico, giuridico di tante donneiii. Queste
ultime, con inconsapevole complicità, hanno chiamato rinunzie e dimenticanza di sé, ciò che
nasceva da una acquiescenza culturale alla maternità meta della femminilità, quando spesso il sé
non era nemmeno formato.
4. Difficili relazioni nella coppia genitoriale
Se la donna è spesso contro la moglie e la madre, è perché maternità e persona le appaiono
aut-aut. Sono in causa anche variabili politiche, storiche, religiose. Non si può non tenere conto di
una cultura che ha distribuito i pesi della famiglia in maniera diseguale. Le difficoltà nascono
spesso sin dall’annuncio della gravidanza. La reazione di lui é la cartina al tornasole dello stato di
salute del rapporto coniugale. Sono i momenti delicati della vita di tutti i giorni infatti quelli in cui
la sposa verifica nei fatti la dichiarazione d’amore: se il marito è presente, come ha promesso, o
continua la sua vita da scapolo (con qualche benevola concessione), se vive i rapporti nella
tenerezza o nella pretesa di ciò che crede dovuto, se si prende cura delle incombenze familiari o
ritiene normale godere per sé del tempo libero (le donne risultano ancora penalizzate nel tempo
libero e nella possibilità di prendersi una vacanza), se riserva a sé il compito di progredire nel
lavoro e nella carriera e considera la maternità della moglie la giustificazione morale del suo
vincolo domestico e dell’accantonamento del suo titolo di studio. I dati che si hanno su questi
aspetti confermano la difficoltà nel superare gli stereotipi trasmessi dal processo di inculturazione e
ormai ben radicati nella personalità di base degli uomini e delle donne, anche quando a parole essi
sono partigiani di un rapporto paritario.
Nella vissuto feriale si gioca il futuro della famiglia, in gran parte deciso dalle donne. Sono
esse a chiedere maggiormente la separazione. È significativamente calata la loro aspirazione al
matrimonio come alla realizzazione del loro percorso vitale. È noto che, secondo gli ultimi dati
disponibili5, dal 1972 il numero dei matrimoni è in continua diminuzione, essendo passato da
419.000 a 250.000 nel 2005. Al contrario, sono sempre più numerose le coppie, ormai oltre 500.000
ogni anno, che scelgono di formare una famiglia al di fuori del vincolo del matrimonio. Il
fenomeno, che non è così marcato come negli altri Paesi europei, è comunque in rapida espansione,
se si pensa che solo 10 anni fa tali coppie erano meno della metà. Inoltre le convivenze
prematrimoniali e le unioni alternative al matrimonio sono sempre più accettate a livello sociale; ciò
incide anche sul numero dei nati al di fuori del matrimonio, che attualmente è del 15%, quasi il
doppio rispetto a 10 anni fa.
Quanto ai divorzi, Finché vita non ci separi, la ricerca Eures 2006, ha rilevato che ogni 4
minuti, in Italia, una coppia divorzia. Dal 1995 al 2004 si è verificata una crescita costante sia delle
separazioni (+59%) che dei divorzi (+66.8%) e il fenomeno riguarda soprattutto il Sud (+74,7%
4
E. Mounier ha studiato le molteplici facce della maternità nel suo trattato del carattere. Su questo approfondimento del
tema in chiave personalista cf G. P. Di Nicola, Uomo e donna nel personalismo di Mounier, in La questione
personalista, Città Nuova, Roma 1986, pp. 150-167.
5
ISTAT, Il matrimonio in Italia: un'istituzione in mutamento, 2007.
4
contro il +61,3% del Nord) forse anche perché è più elevato il numero dei matrimoni. La maggior
parte dei divorzi avviene tra il terzo e il quinto anno. Spesso dopo la prima esperienza fallita si
riprova con un altro partner, dato che la ricerca evidenzia un notevole aumento dei secondi
matrimoni, che passano dal 2,9% del totale nel 1975 al 7,1% nel 2003.
Ciononostante, è cambiata la percezione del divorzio che negli anni Settanta appariva come il
toccasana dell’infelicità coniugale. Oggi appare semplicistica l’idea che il divorzio metta fine ad
una sofferenza e restituisca la libertà, giacché è accertato dal punto di vista empirico che la fine di
una vita matrimoniale è sempre connessa a un più intenso pericolo di insorgenza di disturbi psichici.
Che sia provocata dalla morte del consorte o dallo scioglimento del matrimonio, la fine di una
relazione provoca dolore e sia lei che lui ne pagano le conseguenze.
Benché il matrimonio resista ancora nell’immaginario collettivo come una tappa importante e
ambita dell’esistenza, si assiste nel contempo all’aumento di fidanzati che dilazionano all’infinito il
matrimonio fino a rinunciarvi definitivamente. Oltre alle ben note ragioni legate a problemi
strutturali del lavoro e delle insufficienti politiche sociali, non pochi giovani si lasciano sopraffare
dalle esperienze negative di amici separati, divorziati, delusi dal partner. Il matrimonio provoca una
folla di domande: come si potranno affrontare i problemi della “doppia presenza”, senza l’aiuto
della grande famiglia o del paese; chi starà dietro al bambino? I nonni sono troppo condiscendenti o
invadenti; l’asilo nido suscita problemi di personale, di lontananza geografica, di orari; la babysitter costa e non sempre dà fiducia... Sarà possibile vivere in maniera meno traumatica il passaggio
dall’adolescenza paritaria, tessuta di studio, contatti, viaggi, tempo libero, aggiornamento, al
vincolo di un bimbo, che si accompagna non di rado con lavoro precario, isolamento, difficoltà nel
muoversi da casa, mancanza del tempo minimo per partecipare?
Non è il caso di forzare i giovani al matrimonio, attenuando le difficoltà. Si tratta di portarli a
scegliere dapprima tra il vivere alla giornata, magari sognando una vittoria al gioco, fortuna e
successo risolutivi di tutti i problemi, e l’assunzione della responsabilità personale, e poi tra il
vecchio stereotipo “matrimonio tomba dell’amore” e la fiducia nella possibilità di costruire un
piccolo mondo d’amore, in accordo con l’ispirazione biblica che vuole l'uomo e la donna creati
l’uno per l’altro.
5. Matrimonio, genitorialità e felicità
È fondamentale per i giovani darsi una risposta alle domande: meno matrimoni, più divorzi,
significano più felicità? Meno figli equivalgono a maggiore ricchezza? I figli sono un inciampo, un
freno al buon vivere di una coppia? Sono un lusso riservato solo a chi può permetterseli? Saranno
un peso per la coppia deve sostenerli fino ai 35-40 anni (facendo da agenzia ricerca lavoro, banca
per mutuo, assicurazione…)?
Sono domande che una coppia responsabile legittimamente si pone ma che non dovrebbero
portare ad una pianificazione incapace di prendere in considerazione le infinte variabili che
interverranno nella vita dei singoli e della famiglia. Eventi, mutamenti vocazioni sono imprevedibili
e richiedono investimenti di fiducia che si sottraggono alle ferree logiche mercantili. Si pensi a
quanto è diverso oggi lo scenario rispetto alla metà degli anni Settanta e al neomaltusianismo di
Stanford, con le previsioni di milioni di persone morte di fame. Oggi si contesta apertamente il
terrorismo psicologico per la sovrappopolazione e si possono giudicare con ironia e non
scientifiche, come fa Ettore Gotti Tedeschi, economista dello IOR, le teorie demografiche dei
neomaltusiani, perché nessuna previsione catastrofica si è avverata, di quelle che credevano che
essendo il PIL un rapporto tra i beni prodotti e il numero della popolazione, diminuendo la
popolazione crescesse la ricchezza. È un assioma valido solo a breve termine ed è stato smentito
dalla storia. Troppo spesso, affidandosi alla razionalità e alla programmazione, si dimentica che
l’uomo ha una fantasia e una creatività impensate per risolvere i problemi. È l’essere umano la
ricchezza prima: proprio il crollo della natalità in Europa e Giappone ha generato la crisi economica
5
e l’impoverimento dell’Occidente mentre la Cina ha generato tanta ricchezza da tenere in mano il
debito USA6.
Anche l’Italia rischia l’impoverimento per denatalità. Si è calcolato (21.11.2009) che gli under
15 anni si sono ridotti di un terzo in trent’anni. Studiosi come Golini hanno focalizzato due cause:
innanzitutto il tasso di fecondità è - come quello tedesco - uno dei più bassi in Europa (il numero
medio di figli per donna nel 2008 è stato di 1,41 contro il 2,01 irlandese). Sebbene si registri una
tendenziale risalita dal 1995 in poi, alla fine il saldo tra morti e nati resta negativo.
Inoltre i figli si fanno sempre più tardi (anche per questo se ne fanno di meno). L’Italia ha il
primato dell’età più elevata della donna al parto: 31,1 anni contro una media dell’UE (a 27) di 29,5.
A fine 2008 la popolazione ha superato quota 60 milioni grazie alla presenza di immigrati, che
rappresentano ormai il 6,5% della popolazione.
Inevitabile l’aumento della popolazione anziana: secondo l’ISTAT il 21% della popolazione è
oltre i sessantacinque anni e l’Italia é la seconda nazione europea dopo la Germania, nel mondo
dopo il Giappone. Nel 1979 il 22,6% aveva fino a 14 anni; a fine 2008 solo il 14% (15,4 nel
mezzogiorno). I diciottenni sono solo l’1,009% mentre gli ultra sessantacinquenni sono passati dal
13,1% al 20% (17,7% al Sud). Di questi il 5,5% ha superato gli 80 anni. Nel frattempo la vita media
degli uomini cresce (78,6 anni) e quella delle donne resta elevata (84)7. La “terza età” si è spostata
oltre i 70 anni.
Le coppie oggi sanno che con l’avanzare dell’età e il crescere dei figli non potranno contare su
di essi, come si faceva un tempo, per l’assistenza e la vita in comune. È un problema pressante,
anche se è elevato il numero di persone anziane ancora vitali, che non si concentrano su dentiere e
pannoloni, ma muovono il marketing della salute, dello sport, dei viaggi8.
La mobilità geografica soprattutto dei figli che scelgono la residenza in base al posto di lavoro
rende difficile prospettare scene di convivenza di più generazioni come nelle famiglie patriarcali di
un tempo. Una coppia di genitori deve aiutare a tempo indeterminato i figli e non può contare su di
essi come “bastone della vecchia”. La solidarietà intergenerazionale è difficile si realizzi e si
richiede una solidarietà intergenerazionale, quando un pensionato può aiutare un anziano non più
autosufficiente. Eppure i figli donano ai genitori una forza di lottare, sperare, produrre, risparmiare
che è incalcolabile. Anche se lontani, essi sono preziosi donatori di senso a chi non ha più orizzonti
personali da raggiungere.
Se i figli hanno meno oneri dal punto di vista pratico, in termini di convivenza e di assistenza,
essi però devono lavorare di più a più a lungo per sostenere il peso di una popolazione anziana in
crescita. L’età media di pensionamento è 60 anni e pagare le pensioni è sempre più oneroso: se un
sessantenne in pensione arriva agli 80 anni, la sua pensione dura 20 anni, ma se sua moglie 77enne
la raccoglie con la reversibilità, può durare ancora 10-15 anni. In Italia tra i 55 e i 65 anni di età
lavora solo il 33% della popolazione, il che contrasta rispetto al 70% della Svezia. Bisogna tenere
conto, inoltre, che dopo i 55 anni di età, oltre la metà della popolazione fa uso di farmaci, il che non
è a costo zero. Quando i costi per gli anziani aumentano, non si potranno diminuire le tasse, si
freneranno lo sviluppo, gli investimenti e i risparmi. La crisi è legata anche a questi costi: per
compensare s’inventa una finanza ossia si favorisce la crescita del debito e le famiglie anticipano i
consumi. Quando poi non possono più pagare salta tutto.
Sulla base delle attuali considerazioni sulle risorse famiglia e natalità e delle previsioni
statistiche, oggi gli economisti sono d’accordo nel sostenere che meno famiglie e meno figli
significano meno capitale umano, che è quello fondamentale per la ricchezza di una nazione. È
6
Anche per questo Benedetto XVI ha detto che all’origine della crisi c’è una negazione della vita. Si tratta di distribuire
la ricchezza equamente. Non è solo carità, è una legge economica naturale: se uno ha i soldi e gli altri no, a chi si
vende? Con buona pace di Max Weber, l’economia di mercato non l’hanno inventata i protestanti, ma i francescani, i
domenicani, i gesuiti.
7
Nel mondo solo la Svezia per i maschi e la Francia e la Spagna per le femmine hanno condizioni di sopravvivenza
migliori.
8
Ancora pochi gli anziani che si servono di internet: solo il 9,9% degli ultra 65enni e solo il 2,4 tra gli ultra 75enni.
6
divenuto palese che i problemi della politica d’oggi hanno non si risolvono senza passare per la
famiglia: eutanasia, droga, assistenza, sovrappopolazione, ecologia, violenza, patologie conseguenti
ai nuovi stili di vita (stress, solitudine, sovraccarico di impegni, nevrosi, depressioni…).
Investire sulla famiglia significa anche alimentare qui piccoli mondi misura umana che
arginano le derive della massa (aggregazione funzionale) e del coacervo di individui
(frammentazione). Sulle famiglie si può contare per quel terreno di coltura di educazione alla
tolleranza e al rispetto (tra i generi, le generazioni, le idee e le fedi) che è alla base delle virtù
civiche (seminarium civitatis).
Infine e soprattutto il matrimonio fa bene alla persona. Una autorevole conferma è venuta il 15
dicembre 2009 quando è stato reso noto dall’università di Otago, in Nuova Zelanda, lo studio su
quasi 34.500 persone, un vasto campione di 15 paesi, in base al quale il matrimonio risulta far bene
alla salute. Allontanerebbe infatti il rischio di malattie, pronte invece a manifestarsi quando si
spezza la relazione coniugale. Lo studio, guidato dalla psicologa clinica Kate Scott e pubblicato sul
British Journal of Psychological Medicine, si basa su sondaggi condotti dall’Organizzazione
mondiale della sanità nel corso degli ultimi dieci anni. Si dimostra che le nozze mantengono in
salute entrambi i sessi, mentre la fine di un matrimonio, in seguito a separazione, divorzio o decesso
del coniuge, è correlata al maggior rischio di disturbi di salute mentale. Si è infatti indagato sulla
salute mentale nel matrimonio, sia a confronto con chi non si é mai sposato, sia con i casi in cui il
matrimonio è finito. Le donne manifestano una maggiore probabilità di ricorrere all'abuso di alcool
o droghe, mentre gli uomini sono maggiormente a rischio di depressione e ansia.
L’impatto del matrimonio sulla salute sarebbe paragonabile addirittura allo smettere di
fumare. È stato effettuato un test del sangue su 1.715 volontari tra i 57 e gli 85 anni. I ricercatori
statunitensi hanno misurato il livello di una proteina, la C-reattiva (Crp), una sostanza che viene
prodotta in risposta alle infiammazioni e sembra legata anche al rischio di diverse malattie
cardiovascolari. Gli uomini sposati esaminati avevano un livello di proteina più basso rispetto ai
celibi.
Viene a supportare questa rinnovata fiducia nel matrimonio e nella famiglia, una ricerca
realizzata dall’Ufficio Statistico Nazionale della Gran Bretagna9, pubblicata a fine 2007, che rivela
che i bambini nati in una famiglia tradizionale hanno circa il 20% di probabilità in più, rispetto ai
coetanei figli di conviventi, di rendere meglio a scuola e di completare gli studi universitari. Questo
si aggiunge al fatto che le madri single e i vedovi godono di condizioni di salute peggiori, con una
maggiore possibilità di contrarre malattie croniche ed acute rispetto a coloro che hanno ancora
accanto la propria “metà”. I figli dei divorziati risentono non solo psicologicamente ma anche
fisicamente della separazione dei genitori. Sembra inoltre che il matrimonio allunghi la vita, per lo
meno per gli uomini; il tasso di mortalità fra gli uomini single al di sotto dei 34 anni è infatti circa
due volte e mezzo superiore a quello dei coetanei sposati. I benefici di un’unione stabile si riflettono
anche sui parenti, in particolare sui genitori anziani e sui suoceri. Infatti, il 16% dei membri di una
famiglia tradizionale trascorre almeno un’ora la settimana coi parenti bisognosi, contro il 9% dei
componenti di una coppia di conviventi.
Anche quando, come nel caso di Mike Murphy, uno degli autori dello studio, la condizione
economica spiega molti vantaggi del matrimonio - le persone più agiate non solo tendono a sposarsi
di più, ma sono in grado più facilmente di affrontare problematiche pratiche all’interno della
famiglia - si può legittimamente concludere che nel matrimonio “sembra esserci qualcosa di
positivo in sé”.
La ricerca scientifica, dopo anni di terrore demografico e inneggi alla liberazione del divorzio,
oggi conferma quanto si legge nella Sacra Scrittura: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2, 18).
9
la Gran Bretagna è un Paese in cui le coppie non sposate sono cresciute del 65% negli ultimi 10 anni per cui le
famiglie conviventi o quelle formate da un solo genitore potrebbero presto superare quelle tradizionali. Oggi i nuclei
familiari tradizionali sono oltre 12 milioni, quelli cosiddetti "nuovi" circa 5 milioni e in previsione, entro il 2031
cresceranno infatti del 250%.
7
Questi risultati sono di grande aiuto all’investimento di fiducia nel matrimonio anche se nulla
tolgono alla complessità delle sfide della politica futura. Si tratta di ripensare in positivo la politica
verso la genitorialità e verso la famiglia, dal punto di vista della priorità della persona nel suo
vissuto sociale. È il futuro stesso dello Stato sociale che esige (se non altro dietro la spinta di suoi
fallimenti interni) questo ripensamento del modo di intervenire nella vita dei singoli e delle
collettività, per evitare il più possibile i due estremi dell'indifferenza e dell'invadenza.
i
Tipico esempio critico di questo modello interpretativo della maternità è stata l'immagine di copertina proposta dal
settimanale «Panorama», immagine che a suo tempo ha suscitato non poco scalpore, perché presentava una donna
incinta crocifissa.
ii
Cf. le testimonianze riportate al Convegno sulla donna (gruppo «Maternità: destino o libera scelta») della
Cittadella di Assisi (1975), riportate da R. FOSSATI e I. MAZZONIS, La maternità come destino, in AA.VV., Donna,
cultura e tradizione, Milano 1976, pp. 67-76.
iii
Significativo lo studio di E. Shorter sui resoconti e diari di medici e levatrici e su statistiche ospedaliere che
esaminano il modo di vivere la sessualità di contadine e operaie tedesche di fine Ottocento. Se ne deduce che le donne
erano subordinate nei rapporti coniugali al diritto unilaterale degli uomini; che esse avevano famiglie numerose che
assorbivano tutte le loro energie; che avevano un tasso più alto di mortalità a causa di numerose malattie ginecologiche
poco conosciute. Ciò che per gli uomini era diritto e piacere, per le donne era «un dovere da sopportare con
rassegnazione per tutta la vita. La forza fisica maschile, il potere delle leggi e l'influsso della morale, che considerava il
rifiuto del rapporto coniugale come peccato, portavano a superare forzatamente il pudore e il timore di nuove
maternità» (cf. E. SHORTER, Storia del corpo femminile, Milano 1984).
8