Per tornare a investire sulla maternità
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Per tornare a investire sulla maternità
PER TORNARE A INVESTIRE SULLA MATERNITÀ Giulia Paola Di Nicola 1. Maternità sotto accusa L’ambivalenza del tema “maternità” è legata al suo essere allo stesso tempo un fatto di natura e un valore-simbolo dell’amore gratuito e altruistico, valido per l’essere umano in quanto tale. La sua debolezza pratica sta nel confermare la donna in bilico tra il potere informale della Madre (tutto legato alle radici affettive e morali) e la subordinazione di fatto e di diritto. Dopo la crisi di un concetto di uguaglianza che si è rivelato controproducente, se inteso come assimilazione all’uomo (è una sottile ideologia quella di voler tutti uguali ad un modello considerato prevalente), sia il femminismo cristiano che quello ateo, pur partendo da opposte sponde, si sono messi alla ricerca dei contenuti della differenza. Infatti, contrariamente agli obiettivi del femminismo “prima fase”, gli anni Ottanta, con la ripresa di un femminismo “seconda fase”, è stato recuperato il valore degli affetti, della famiglia, della maternità (celebre l'espressione della B. Friedan: “La nuova frontiera dell'uguaglianza è la maternità»1), ma il tema maternità continua a prestare il fianco a tentazioni strumentalizzanti specie dal punto di vista di una tecnica con delirio di onnipotenza (non è questo l’oggetto del presente intervento) sia a tentazioni conservatrici che aprono la strada a nuovi e più sofisticati tentativi di riduzione della donna a madre. Di qui la necessità di un lavoro di rifondazione del femminile, invocato da Giovanni Paolo II: «È urgente sviluppare… “una considerazione più penetrante e accurata dei fondamenti antropologici della condizione maschile e femminile”, cercando di “precisare l’identità personale propria della donna nel suo rapporto di diversità e di reciproca complementarietà con l’uomo, non solo per quanto riguarda i ruoli da tenere e le funzioni da svolgere, ma anche e più profondamente per quanto riguarda la sua struttura e il suo significato personale»2. È ciò che ha fatto il cardinale Ratzinger, con la sua lettera ai vescovi centrata non tanto sulla donna soltanto quanto sul rapporto uomo donna, per un’interpretazione antropologica a due voci. La maternità ripropone tutta la difficoltà di risolvere problemi del tipo: se è giustificato riferirsi alla donna subordinando la persona alla madre; come far convivere sessualità e persona, natura e trascendenza; come salvare insieme uguaglianza e differenza, senza che un aspetto mutili l’altro; quale senso attribuire al concetto di reciprocità; come conservare ed universalizzare il senso analogico della femminilità simbolica e sapienziale della rivelazione. L’utilizzo ermeneutico del concetto di persona rappresenta la categoria chiave per concepire sessualità e trascendenza, identità e reciprocità, uguaglianza e differenza, maschilità e femminilità, senza che un aspetto prevarichi e soffochi l’altro. Dal punto di vista della persona il concetto di maternità esprime un tratto umano universale, legato alla fecondità dell'amore, laddove si colloca anche una paternità redenta dal maschilismo. 2. Retorica e realtà Se per retorica della maternità intendiamo quell’alone indescrivibile di sublime mistero che circonda la maternità, la realtà è invece quella in cui incappano spesso le donne madri, con il duro 1 Cf. B. FRIEDAN,La mistica della femminilità, Milano 1970; ID., La seconda fase, Milano 1982. Mi permetto di rimandare su questi temi ai miei lavori: Uguaglianza e differenza. La reciprocità uomo-donna, Città Nuova, Roma 1988; Il linguaggio della madre, Città Nuova, Roma 1994; Lei & Lui. Comunicazione e reciprocità (con A. Danese), Effatà, Torino 2001. 2 Giovanni Paolo II, Mulieris Dignitatem, n.50. 1 carico di problemi psicologici, familiari, sociali e politici. Il futuro della maternità si gioca sulla possibilità di tradurre quell’utopia in realtà o anche sulla capacità di sollevare questa all’altezza di quella. Uno sguardo sul mondo mostra che i problemi, pur così sentiti delle madri d’Occidente, sono insignificanti agli occhi del mondo cosiddetto sottosviluppato, nel quale sono numerose le bambine che rischiano una maternità precoce: Save the Children ha individuato 50 nazioni in cui il rischio maternità precoce è più alto e devastante sia per le mamme che per i bimbi. Sul totale dei paesi, i primi nove appartengono all’Africa subsahariana con Nigeria, Liberia e Mali in cima alla classifica. In queste aree più di 1 ragazza su 6, tra i 15 e i 19 anni, mette al mondo un bimbo ogni anno ma quasi 1 su 7 dei neonati muore entro il primo anno di età. Le puerpere-adolescenti inoltre hanno il doppio delle possibilità di morire per complicazioni legate al parto rispetto alle donne più grandi e se sotto i 14 anni corrono un rischio ancora maggiore. È stato ripetutamente osservato che le ragazze che ricevono un’educazione di base vivono meglio in gravidanza, hanno un parto più sicuro e anche i loro bambini stanno meglio. Risulta più probabile che queste mamme cerchino adeguata assistenza per se stesse e i propri piccoli, che mandino i loro bambini a scuola, distanzino le gravidanze, fruiscano di personale qualificato al momento del parto, con maggiori probabilità di sopravvivenza e salute del bambino. In Svezia, che è al primo posto della graduatoria dei paesi circa la maternità sicura, più del 99% delle donne ha un’istruzione. Al contrario, in Nigeria, solo il 9% delle donne è andato a scuola. Di conseguenza una mamma etiope ha 38 possibilità in più di veder morire il proprio bambino entro il primo anno di vita rispetto ad una madre svedese. Impossibile, inoltre, calcolare quante sono le maternità subìte, per violenza esterna e interna alla famiglia, anche nelle famiglie che appaiono “normali”. A ciò si aggiungono altre numerose piaghe della maternità: gli aborti in seguito alle percosse, le mutilazioni genitali, l’incitamento a generare un figlio maschio e il conseguente rifiuto del partner della femmina e della madre colpevole di averla partorita… Fa riflettere lo stridente contrasto tra il vissuto materno di donne sfruttate nel lavoro e nel sesso, rispetto al racconto evangelico della maternità di Maria, frutto del suo consenso libero alla domanda del Creatore. Nei paesi occidentali la crescita zero ha motivazioni diverse e in media più legate ad aspetti psico-relazionali che possono apparire secondari, ma che alla fine risultano decisivi nella scelta di rimandare, ridurre, rinunciare alla gravidanza. Di certo suona retorico tutto ciò che è invito a generare figli, senza restituire gli strumenti della fiducia nella possibilità di vivere la genitorialità in modo qualitativamente più umano. C'è un cambiamento epocale dall'avere figli come ricchezza e benedizione, al temerli come impegno troppo pesante. Di fatto le giovani donne ormai non mettono più il figlio in cima alle loro aspirazioni: prima si assicurano il lavoro, l'armonia della vita coniugale, i rapporti sociali, un minimo di sicurezza economica. La pubblicistica sulle difficoltà del vissuto materno risale alle prime denunce del femminismo ed è rimasta sostanzialmente immutata anche quando dal rifiuto della maternità si è rivendicata la libera scelta di maternità socialmente sostenute. Nonostante i progressi ottenuti sul piano sanitario e giuridico (leggi di tutela della lavoratrice madre, nuovo diritto di famiglia, istituzione dei consultori, asili nido…), le ragazze oggi nella società complessa continuano a guardare con timore alla maternità e si prospettano problemi psicologici, di coppia, culturali, familiari, sociali, strutturali. Tale affievolirsi del gusto della maternità reclama un rinnovato impegno nel cercare di sollevare la qualità della vita delle donne, delle coppie e di conseguenza dei nascituri e della società tutta. 3. L’ansia di un figlio in arrivo A livello psicologico si è diffusa l'angoscia del figlio in arrivo, parallela a quella circa il matrimonio, a causa delle condizioni difficili nelle quali si imbattono le giovani coppie. Il timore ha 2 sostituito la gratificazione delle donne di un tempo, soddisfatte del loro valore personale misurato sui figli (anche proporzionalmente al numero, in taluni ambienti). Si è perciò capovolto il criterio di prestigio sociale: nel mondo occidentale generare più di due figli provoca emarginazione sociale. Le ragazze in procinto di diventare madri affrontano all'interno della loro psiche un terremoto esteriormente solo in parte percepibile. Esse si domandano se l’inizio della gravidanza segnerà la fine della loro vita sociale (lavoro, carriera, partecipazione) della bellezza, della salute, se quella rivoluzione del corpo segnerà anche la perdita della identità, costretta a riformularsi dietro la spinta di tutto quanto di inesprimibile c’è in quella trasformazione del corpo che appare anche come disfacimento, annuncio di sofferenza, avanzare di qualcuno che crescendo sembra espropriare. È inevitabile mettere in questione le categorie mentali dominanti ereditate dal processo di inculturazione e quella cultura popolare (proverbi, canti, filastrocche, racconti) e intellettuale (antropologia, filosofia, teologia) che trasmette pensieri sulla maternità formulati sulle donne. L'unità della coppia viene scossa: lei vive ora un’esperienza che non può delegare, a cui è chiamata in prima persona, perché si svolge nel proprio corpo, ma che non le è possibile dominare; lui avverte la presenza di un bimbo come un terzo che s’intromette nell’intesa a due e apre una distanza. Sia la maternità che la paternità comportano l’esperienza del distacco, della solitudine, dell’incertezza, ma la paternità si percepisce ancor più estranea di fronte all’evento che si viene svolgendo nella donna. L’uomo non può che prendere atto, da spettatore, contemplando quanto di misterioso sta avvenendo in lei. Nel migliore dei casi, egli si dispone ad apprendere la sua paternità vivendola con e attraverso la madre. Secondo Giovanni Paolo: «Bisogna che l’uomo sia pienamente consapevole di contrarre... uno speciale debito verso la donna. Nessun programma di “parità di diritti” delle donne e degli uomini è valido, se non si tiene presente questo in un modo del tutto essenziale... L’uomo — sia pure con tutta la sua partecipazione all’essere genitore — si trova sempre “all'esterno” del processo della gravidanza e della nascita del bambino, e deve per tanti aspetti imparare dalla madre la sua propria “paternità”»3. Una madre può risentire del senso di oppressione di una certa mentalità vittimistica tradizionale (maternità come castigo cui è inchiodata la donnai) e nell'altrettanto vincolante retorica dell’oblatività femminile, infiorata di sentimentalismo. Due direzioni parimenti improponibili oggi. Troppo poco è stato fatto per tentare di leggere, in termini non freudiani e non androcentrici, il significato dei travagli interiori che molto prima del parto e a vari livelli si collegano all’esperienza della maternità e che vanno decifrati nella loro ambivalenza. Quando la maternità diviene un peso troppo gravoso, subentra la tentazione di cancellarla per poter partecipare “alla pari” alla vita sociale e politica. Di questo “peso” approfittano quanti mirano a liberare le donne dal peso della maternità, per consentire loro di lavorare e partecipare senza preclusioni alla vita sociale. L’aumento delle sindromi post-partum fa emergere una più profonda esigenza di qualità del rapporto madre-figlio. Sono, infatti, le donne stesse a mettere in luce le ombre della loro “voglia di maternità”, prendendo coscienza dell'ambiguità nascosta nelle pieghe dei sentimenti apparentemente troppo nobili per essere soggetti alle cadute egocentriche, più o meno mascherate. La maternità appare molto più come un processo che reclama i suoi ritmi di apprendimento che come un dato di natura. Ci si domanda: si può chiamare amore materno la ricerca di gratificazione sociale, di appagamento del bisogno di affermazione del proprio io, di sicurezza familiare nel privato che compensi la mancanza di potere nell'ambito pubblico?ii. Un figlio può essere soltanto la rivincita rispetto ad una educazione fallimentare ricevuta nella famiglia ascritta, il desiderio di ringiovanire, dimostrare la propria fertilità, sentirsi “realizzate”, tenere unita la famiglia (magari in crisi) attirando l'interesse su una nuova nascita, ricucire un rapporto interrotto col partner, riempire il vuoto dei figli grandi che ormai abbandonano la casa? Ciascuno potrebbe domandarsi quanta parte hanno avuto nella propria nascita tali pseudo-motivazioni edonistiche, opportunistiche interessate, anche quando gioisce di essere al mondo. 3 Giovanni Paolo II, Mulieris Dignitatem, n.18. 3 Molte volte scoprirsi madri è semplicemente lo sbocco naturale e imprevisto di un rapporto, magari vissuto in termini edonistici, di ricatto affettivo (ossia subìto per conformità, pseudomoralità, paura di perdere il compagno e restare sole), se non è addirittura frutto di violenza fisica (anche nel matrimonio) o di stupro. Ad un tale intreccio di giochi psicanalitici, psicologici e sociali, non si sottraggono neanche i più generosi impulsi, che concorrono a delineare i meandri nascosti della maternità. Per avere un quadro più realistico di tali motivazioni, sarebbe da verificare la percentuale di donne che confessa di avere faticato ad accettare una maternità non desiderata. In realtà il mix di spinte altruistiche ed egocentriche costringe a demitizzarne la maternità e ad esaminare caso per caso i suoi tratti concreti e i suoi significati psicologici e simbolici4. Oggi, nell’epoca del disincanto ideologico, sappiamo che spesso l’idealizzazione oblativa della maternità ha coperto di onori lo sfruttamento sessuale, economico, politico, giuridico di tante donneiii. Queste ultime, con inconsapevole complicità, hanno chiamato rinunzie e dimenticanza di sé, ciò che nasceva da una acquiescenza culturale alla maternità meta della femminilità, quando spesso il sé non era nemmeno formato. 4. Difficili relazioni nella coppia genitoriale Se la donna è spesso contro la moglie e la madre, è perché maternità e persona le appaiono aut-aut. Sono in causa anche variabili politiche, storiche, religiose. Non si può non tenere conto di una cultura che ha distribuito i pesi della famiglia in maniera diseguale. Le difficoltà nascono spesso sin dall’annuncio della gravidanza. La reazione di lui é la cartina al tornasole dello stato di salute del rapporto coniugale. Sono i momenti delicati della vita di tutti i giorni infatti quelli in cui la sposa verifica nei fatti la dichiarazione d’amore: se il marito è presente, come ha promesso, o continua la sua vita da scapolo (con qualche benevola concessione), se vive i rapporti nella tenerezza o nella pretesa di ciò che crede dovuto, se si prende cura delle incombenze familiari o ritiene normale godere per sé del tempo libero (le donne risultano ancora penalizzate nel tempo libero e nella possibilità di prendersi una vacanza), se riserva a sé il compito di progredire nel lavoro e nella carriera e considera la maternità della moglie la giustificazione morale del suo vincolo domestico e dell’accantonamento del suo titolo di studio. I dati che si hanno su questi aspetti confermano la difficoltà nel superare gli stereotipi trasmessi dal processo di inculturazione e ormai ben radicati nella personalità di base degli uomini e delle donne, anche quando a parole essi sono partigiani di un rapporto paritario. Nella vissuto feriale si gioca il futuro della famiglia, in gran parte deciso dalle donne. Sono esse a chiedere maggiormente la separazione. È significativamente calata la loro aspirazione al matrimonio come alla realizzazione del loro percorso vitale. È noto che, secondo gli ultimi dati disponibili5, dal 1972 il numero dei matrimoni è in continua diminuzione, essendo passato da 419.000 a 250.000 nel 2005. Al contrario, sono sempre più numerose le coppie, ormai oltre 500.000 ogni anno, che scelgono di formare una famiglia al di fuori del vincolo del matrimonio. Il fenomeno, che non è così marcato come negli altri Paesi europei, è comunque in rapida espansione, se si pensa che solo 10 anni fa tali coppie erano meno della metà. Inoltre le convivenze prematrimoniali e le unioni alternative al matrimonio sono sempre più accettate a livello sociale; ciò incide anche sul numero dei nati al di fuori del matrimonio, che attualmente è del 15%, quasi il doppio rispetto a 10 anni fa. Quanto ai divorzi, Finché vita non ci separi, la ricerca Eures 2006, ha rilevato che ogni 4 minuti, in Italia, una coppia divorzia. Dal 1995 al 2004 si è verificata una crescita costante sia delle separazioni (+59%) che dei divorzi (+66.8%) e il fenomeno riguarda soprattutto il Sud (+74,7% 4 E. Mounier ha studiato le molteplici facce della maternità nel suo trattato del carattere. Su questo approfondimento del tema in chiave personalista cf G. P. Di Nicola, Uomo e donna nel personalismo di Mounier, in La questione personalista, Città Nuova, Roma 1986, pp. 150-167. 5 ISTAT, Il matrimonio in Italia: un'istituzione in mutamento, 2007. 4 contro il +61,3% del Nord) forse anche perché è più elevato il numero dei matrimoni. La maggior parte dei divorzi avviene tra il terzo e il quinto anno. Spesso dopo la prima esperienza fallita si riprova con un altro partner, dato che la ricerca evidenzia un notevole aumento dei secondi matrimoni, che passano dal 2,9% del totale nel 1975 al 7,1% nel 2003. Ciononostante, è cambiata la percezione del divorzio che negli anni Settanta appariva come il toccasana dell’infelicità coniugale. Oggi appare semplicistica l’idea che il divorzio metta fine ad una sofferenza e restituisca la libertà, giacché è accertato dal punto di vista empirico che la fine di una vita matrimoniale è sempre connessa a un più intenso pericolo di insorgenza di disturbi psichici. Che sia provocata dalla morte del consorte o dallo scioglimento del matrimonio, la fine di una relazione provoca dolore e sia lei che lui ne pagano le conseguenze. Benché il matrimonio resista ancora nell’immaginario collettivo come una tappa importante e ambita dell’esistenza, si assiste nel contempo all’aumento di fidanzati che dilazionano all’infinito il matrimonio fino a rinunciarvi definitivamente. Oltre alle ben note ragioni legate a problemi strutturali del lavoro e delle insufficienti politiche sociali, non pochi giovani si lasciano sopraffare dalle esperienze negative di amici separati, divorziati, delusi dal partner. Il matrimonio provoca una folla di domande: come si potranno affrontare i problemi della “doppia presenza”, senza l’aiuto della grande famiglia o del paese; chi starà dietro al bambino? I nonni sono troppo condiscendenti o invadenti; l’asilo nido suscita problemi di personale, di lontananza geografica, di orari; la babysitter costa e non sempre dà fiducia... Sarà possibile vivere in maniera meno traumatica il passaggio dall’adolescenza paritaria, tessuta di studio, contatti, viaggi, tempo libero, aggiornamento, al vincolo di un bimbo, che si accompagna non di rado con lavoro precario, isolamento, difficoltà nel muoversi da casa, mancanza del tempo minimo per partecipare? Non è il caso di forzare i giovani al matrimonio, attenuando le difficoltà. Si tratta di portarli a scegliere dapprima tra il vivere alla giornata, magari sognando una vittoria al gioco, fortuna e successo risolutivi di tutti i problemi, e l’assunzione della responsabilità personale, e poi tra il vecchio stereotipo “matrimonio tomba dell’amore” e la fiducia nella possibilità di costruire un piccolo mondo d’amore, in accordo con l’ispirazione biblica che vuole l'uomo e la donna creati l’uno per l’altro. 5. Matrimonio, genitorialità e felicità È fondamentale per i giovani darsi una risposta alle domande: meno matrimoni, più divorzi, significano più felicità? Meno figli equivalgono a maggiore ricchezza? I figli sono un inciampo, un freno al buon vivere di una coppia? Sono un lusso riservato solo a chi può permetterseli? Saranno un peso per la coppia deve sostenerli fino ai 35-40 anni (facendo da agenzia ricerca lavoro, banca per mutuo, assicurazione…)? Sono domande che una coppia responsabile legittimamente si pone ma che non dovrebbero portare ad una pianificazione incapace di prendere in considerazione le infinte variabili che interverranno nella vita dei singoli e della famiglia. Eventi, mutamenti vocazioni sono imprevedibili e richiedono investimenti di fiducia che si sottraggono alle ferree logiche mercantili. Si pensi a quanto è diverso oggi lo scenario rispetto alla metà degli anni Settanta e al neomaltusianismo di Stanford, con le previsioni di milioni di persone morte di fame. Oggi si contesta apertamente il terrorismo psicologico per la sovrappopolazione e si possono giudicare con ironia e non scientifiche, come fa Ettore Gotti Tedeschi, economista dello IOR, le teorie demografiche dei neomaltusiani, perché nessuna previsione catastrofica si è avverata, di quelle che credevano che essendo il PIL un rapporto tra i beni prodotti e il numero della popolazione, diminuendo la popolazione crescesse la ricchezza. È un assioma valido solo a breve termine ed è stato smentito dalla storia. Troppo spesso, affidandosi alla razionalità e alla programmazione, si dimentica che l’uomo ha una fantasia e una creatività impensate per risolvere i problemi. È l’essere umano la ricchezza prima: proprio il crollo della natalità in Europa e Giappone ha generato la crisi economica 5 e l’impoverimento dell’Occidente mentre la Cina ha generato tanta ricchezza da tenere in mano il debito USA6. Anche l’Italia rischia l’impoverimento per denatalità. Si è calcolato (21.11.2009) che gli under 15 anni si sono ridotti di un terzo in trent’anni. Studiosi come Golini hanno focalizzato due cause: innanzitutto il tasso di fecondità è - come quello tedesco - uno dei più bassi in Europa (il numero medio di figli per donna nel 2008 è stato di 1,41 contro il 2,01 irlandese). Sebbene si registri una tendenziale risalita dal 1995 in poi, alla fine il saldo tra morti e nati resta negativo. Inoltre i figli si fanno sempre più tardi (anche per questo se ne fanno di meno). L’Italia ha il primato dell’età più elevata della donna al parto: 31,1 anni contro una media dell’UE (a 27) di 29,5. A fine 2008 la popolazione ha superato quota 60 milioni grazie alla presenza di immigrati, che rappresentano ormai il 6,5% della popolazione. Inevitabile l’aumento della popolazione anziana: secondo l’ISTAT il 21% della popolazione è oltre i sessantacinque anni e l’Italia é la seconda nazione europea dopo la Germania, nel mondo dopo il Giappone. Nel 1979 il 22,6% aveva fino a 14 anni; a fine 2008 solo il 14% (15,4 nel mezzogiorno). I diciottenni sono solo l’1,009% mentre gli ultra sessantacinquenni sono passati dal 13,1% al 20% (17,7% al Sud). Di questi il 5,5% ha superato gli 80 anni. Nel frattempo la vita media degli uomini cresce (78,6 anni) e quella delle donne resta elevata (84)7. La “terza età” si è spostata oltre i 70 anni. Le coppie oggi sanno che con l’avanzare dell’età e il crescere dei figli non potranno contare su di essi, come si faceva un tempo, per l’assistenza e la vita in comune. È un problema pressante, anche se è elevato il numero di persone anziane ancora vitali, che non si concentrano su dentiere e pannoloni, ma muovono il marketing della salute, dello sport, dei viaggi8. La mobilità geografica soprattutto dei figli che scelgono la residenza in base al posto di lavoro rende difficile prospettare scene di convivenza di più generazioni come nelle famiglie patriarcali di un tempo. Una coppia di genitori deve aiutare a tempo indeterminato i figli e non può contare su di essi come “bastone della vecchia”. La solidarietà intergenerazionale è difficile si realizzi e si richiede una solidarietà intergenerazionale, quando un pensionato può aiutare un anziano non più autosufficiente. Eppure i figli donano ai genitori una forza di lottare, sperare, produrre, risparmiare che è incalcolabile. Anche se lontani, essi sono preziosi donatori di senso a chi non ha più orizzonti personali da raggiungere. Se i figli hanno meno oneri dal punto di vista pratico, in termini di convivenza e di assistenza, essi però devono lavorare di più a più a lungo per sostenere il peso di una popolazione anziana in crescita. L’età media di pensionamento è 60 anni e pagare le pensioni è sempre più oneroso: se un sessantenne in pensione arriva agli 80 anni, la sua pensione dura 20 anni, ma se sua moglie 77enne la raccoglie con la reversibilità, può durare ancora 10-15 anni. In Italia tra i 55 e i 65 anni di età lavora solo il 33% della popolazione, il che contrasta rispetto al 70% della Svezia. Bisogna tenere conto, inoltre, che dopo i 55 anni di età, oltre la metà della popolazione fa uso di farmaci, il che non è a costo zero. Quando i costi per gli anziani aumentano, non si potranno diminuire le tasse, si freneranno lo sviluppo, gli investimenti e i risparmi. La crisi è legata anche a questi costi: per compensare s’inventa una finanza ossia si favorisce la crescita del debito e le famiglie anticipano i consumi. Quando poi non possono più pagare salta tutto. Sulla base delle attuali considerazioni sulle risorse famiglia e natalità e delle previsioni statistiche, oggi gli economisti sono d’accordo nel sostenere che meno famiglie e meno figli significano meno capitale umano, che è quello fondamentale per la ricchezza di una nazione. È 6 Anche per questo Benedetto XVI ha detto che all’origine della crisi c’è una negazione della vita. Si tratta di distribuire la ricchezza equamente. Non è solo carità, è una legge economica naturale: se uno ha i soldi e gli altri no, a chi si vende? Con buona pace di Max Weber, l’economia di mercato non l’hanno inventata i protestanti, ma i francescani, i domenicani, i gesuiti. 7 Nel mondo solo la Svezia per i maschi e la Francia e la Spagna per le femmine hanno condizioni di sopravvivenza migliori. 8 Ancora pochi gli anziani che si servono di internet: solo il 9,9% degli ultra 65enni e solo il 2,4 tra gli ultra 75enni. 6 divenuto palese che i problemi della politica d’oggi hanno non si risolvono senza passare per la famiglia: eutanasia, droga, assistenza, sovrappopolazione, ecologia, violenza, patologie conseguenti ai nuovi stili di vita (stress, solitudine, sovraccarico di impegni, nevrosi, depressioni…). Investire sulla famiglia significa anche alimentare qui piccoli mondi misura umana che arginano le derive della massa (aggregazione funzionale) e del coacervo di individui (frammentazione). Sulle famiglie si può contare per quel terreno di coltura di educazione alla tolleranza e al rispetto (tra i generi, le generazioni, le idee e le fedi) che è alla base delle virtù civiche (seminarium civitatis). Infine e soprattutto il matrimonio fa bene alla persona. Una autorevole conferma è venuta il 15 dicembre 2009 quando è stato reso noto dall’università di Otago, in Nuova Zelanda, lo studio su quasi 34.500 persone, un vasto campione di 15 paesi, in base al quale il matrimonio risulta far bene alla salute. Allontanerebbe infatti il rischio di malattie, pronte invece a manifestarsi quando si spezza la relazione coniugale. Lo studio, guidato dalla psicologa clinica Kate Scott e pubblicato sul British Journal of Psychological Medicine, si basa su sondaggi condotti dall’Organizzazione mondiale della sanità nel corso degli ultimi dieci anni. Si dimostra che le nozze mantengono in salute entrambi i sessi, mentre la fine di un matrimonio, in seguito a separazione, divorzio o decesso del coniuge, è correlata al maggior rischio di disturbi di salute mentale. Si è infatti indagato sulla salute mentale nel matrimonio, sia a confronto con chi non si é mai sposato, sia con i casi in cui il matrimonio è finito. Le donne manifestano una maggiore probabilità di ricorrere all'abuso di alcool o droghe, mentre gli uomini sono maggiormente a rischio di depressione e ansia. L’impatto del matrimonio sulla salute sarebbe paragonabile addirittura allo smettere di fumare. È stato effettuato un test del sangue su 1.715 volontari tra i 57 e gli 85 anni. I ricercatori statunitensi hanno misurato il livello di una proteina, la C-reattiva (Crp), una sostanza che viene prodotta in risposta alle infiammazioni e sembra legata anche al rischio di diverse malattie cardiovascolari. Gli uomini sposati esaminati avevano un livello di proteina più basso rispetto ai celibi. Viene a supportare questa rinnovata fiducia nel matrimonio e nella famiglia, una ricerca realizzata dall’Ufficio Statistico Nazionale della Gran Bretagna9, pubblicata a fine 2007, che rivela che i bambini nati in una famiglia tradizionale hanno circa il 20% di probabilità in più, rispetto ai coetanei figli di conviventi, di rendere meglio a scuola e di completare gli studi universitari. Questo si aggiunge al fatto che le madri single e i vedovi godono di condizioni di salute peggiori, con una maggiore possibilità di contrarre malattie croniche ed acute rispetto a coloro che hanno ancora accanto la propria “metà”. I figli dei divorziati risentono non solo psicologicamente ma anche fisicamente della separazione dei genitori. Sembra inoltre che il matrimonio allunghi la vita, per lo meno per gli uomini; il tasso di mortalità fra gli uomini single al di sotto dei 34 anni è infatti circa due volte e mezzo superiore a quello dei coetanei sposati. I benefici di un’unione stabile si riflettono anche sui parenti, in particolare sui genitori anziani e sui suoceri. Infatti, il 16% dei membri di una famiglia tradizionale trascorre almeno un’ora la settimana coi parenti bisognosi, contro il 9% dei componenti di una coppia di conviventi. Anche quando, come nel caso di Mike Murphy, uno degli autori dello studio, la condizione economica spiega molti vantaggi del matrimonio - le persone più agiate non solo tendono a sposarsi di più, ma sono in grado più facilmente di affrontare problematiche pratiche all’interno della famiglia - si può legittimamente concludere che nel matrimonio “sembra esserci qualcosa di positivo in sé”. La ricerca scientifica, dopo anni di terrore demografico e inneggi alla liberazione del divorzio, oggi conferma quanto si legge nella Sacra Scrittura: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2, 18). 9 la Gran Bretagna è un Paese in cui le coppie non sposate sono cresciute del 65% negli ultimi 10 anni per cui le famiglie conviventi o quelle formate da un solo genitore potrebbero presto superare quelle tradizionali. Oggi i nuclei familiari tradizionali sono oltre 12 milioni, quelli cosiddetti "nuovi" circa 5 milioni e in previsione, entro il 2031 cresceranno infatti del 250%. 7 Questi risultati sono di grande aiuto all’investimento di fiducia nel matrimonio anche se nulla tolgono alla complessità delle sfide della politica futura. Si tratta di ripensare in positivo la politica verso la genitorialità e verso la famiglia, dal punto di vista della priorità della persona nel suo vissuto sociale. È il futuro stesso dello Stato sociale che esige (se non altro dietro la spinta di suoi fallimenti interni) questo ripensamento del modo di intervenire nella vita dei singoli e delle collettività, per evitare il più possibile i due estremi dell'indifferenza e dell'invadenza. i Tipico esempio critico di questo modello interpretativo della maternità è stata l'immagine di copertina proposta dal settimanale «Panorama», immagine che a suo tempo ha suscitato non poco scalpore, perché presentava una donna incinta crocifissa. ii Cf. le testimonianze riportate al Convegno sulla donna (gruppo «Maternità: destino o libera scelta») della Cittadella di Assisi (1975), riportate da R. FOSSATI e I. MAZZONIS, La maternità come destino, in AA.VV., Donna, cultura e tradizione, Milano 1976, pp. 67-76. iii Significativo lo studio di E. Shorter sui resoconti e diari di medici e levatrici e su statistiche ospedaliere che esaminano il modo di vivere la sessualità di contadine e operaie tedesche di fine Ottocento. Se ne deduce che le donne erano subordinate nei rapporti coniugali al diritto unilaterale degli uomini; che esse avevano famiglie numerose che assorbivano tutte le loro energie; che avevano un tasso più alto di mortalità a causa di numerose malattie ginecologiche poco conosciute. Ciò che per gli uomini era diritto e piacere, per le donne era «un dovere da sopportare con rassegnazione per tutta la vita. La forza fisica maschile, il potere delle leggi e l'influsso della morale, che considerava il rifiuto del rapporto coniugale come peccato, portavano a superare forzatamente il pudore e il timore di nuove maternità» (cf. E. SHORTER, Storia del corpo femminile, Milano 1984). 8