La rappresentanza nei processi tributari

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La rappresentanza nei processi tributari
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FOGGIA
FACOLTÀ DI ECONOMIA
MASTER IN
DIRITTO TRIBUTARIO E CONSULENZA D’IMPRESADIRITTO PROCESSUALE TRIBUTARIO
LA RAPPRESENTANZA NEI
PROCESSI TRIBUTARI
Relatore:
CORSISTA
Chiar.mo Prof.re
Dott. Cesare Simone
Pietro BORIA
ANNO ACCADEMICO 2008 – 2009
INDICE
CAPITOLO I
PROFILI GENERALI DEI SOGGETTI PARTE NEL PROCESSO
TRIBUTARIO
Premessa
1. Il concetto di parte nel processo tributario.
2. L’art. 11 del d.lgs 546/92 “La capacità di stare in giudizio”.
3. Legitimatio ad processum e legitimatio ad causam.
4. La rappresentanza legale e volontaria.
5. La parte ricorrente.
6. La parte resistente.
CAPITOLO II
LA RAPPRESENTANZA E DIFESA DEL CONTRIBUENTE NEL
PROCESSO TRIBUTARIO E L’OBBLIGO DI DIFESA TECNICA
1. La rappresentanza della parte privata.
2. Ipotesi particolari di soggetti – parti nel processo tributario
2.1 Il contribuente deceduto.
2.2 L’imprenditore soggetto a fallimento.
2.3 Il sostituto d’imposta.
3. Il litisconsorzio.
4. L’obbligo di assistenza tecnica previsto dall’art. 11 del dlgs 546/92.
5. La mancata nomina del difensore.
6. Il ricorso proposto direttamente dalla parte.
2
CAPITOLO III
LA RAPPRESENTANZA DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE NEI
GIUDIZI DINANZI LE COMMISSIONI TRIBUTARIE
1. La rappresentanza della parte Pubblica.
2. Legittimazione e rappresentanza degli Uffici davanti alle Commissioni
Tributarie.
3. La circolare dell’Agenzia delle entrate del 30 luglio 2001 n. 71/E/2001
4. L’Avvocatura dello Stato e la legittimazione nel giudizio di Cassazione.
Bibliografia
3
Premessa.
Il contenzioso tributario, in precedenza disciplinato dal D.P.R. n. 636/72, è
stato significativamente rinnovato in seguito all’introduzione del d.lgs
546/92 «Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega del
Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n.413».
L’attuale processo tributario si avvicina al giudizio civile in quanto è
caratterizzato da tecnicità ed istituti similari a quelli esistenti in quest’ultimo;
infatti, le disposizioni contenute nel decreto trovano nel codice di procedura
civile il loro precedente e, quindi, il naturale riferimento sia per il corretto
inquadramento sia per la soluzione di eventuali problemi interpretativi.
D’altra parte, il d.lgs 546/92 contiene all’art. 1, comma 2, un espresso rinvio
alle norme del codice di procedura civile con la previsione per i giudici
tributari di applicare per quanto non disposto dalle norme contenute nel
decreto ed in quanto compatibili con quest’ultime le norme del rito
civilistico.
A questo punto è doveroso un breve richiamo alla riforma del processo
civile, nonché, alla delega al Governo per la riduzione e la semplificazione
dei procedimenti civili Legge n. 69 del 18 giugno 2009, pubblicata in G.U. n.
140 S.O. n. 95/L del 19 giugno 2009, entrata in vigore dal 4 luglio 2009.
L’art. 54 della nuova legge definitivamente approvata stabilisce che: il
Governo è delegato ad adottare, entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore
della suddetta legge, uno o più decreti legislativi in materia di riduzione e
semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano
nell’ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla
legislazione speciale, come appunto quella tributaria (D.Lgs. n. 546 del 31
dicembre 1992 e successive modifiche ed integrazioni);la riforma deve, in
ogni caso, realizzare il necessario ed equilibrato coordinamento con le altre
disposizioni vigenti.
In sostanza, la legge delega restituisce centralità ed importanza al codice di
procedura civile e mira ad agevolare l’attività degli operatori del diritto,
ponendo fine a numerose incertezze interpretative che sono state spesso
4
causa di lungaggini processuali, un esempio per tutti è stato l’incertezza sulla
competenza del giudice in tema di TIA.
Nell’esercizio della delega, il Governo deve attenersi ai seguenti principi e
criteri direttivi: 1) restano fermi per il momento i criteri di competenza
nonché i criteri di composizione dell’organo giudicante, previsti dalla
legislazione vigente;
2) i procedimenti civili di natura contenziosa, autonomamente regolati dalla
legislazione speciale, devono essere ricondotti ad uno dei seguenti modelli
processuali previsti dal codice di procedura civile:
1) i procedimenti in cui sono prevalenti caratteri di concentrazione
processuale, ovvero di officiosità dell’istruzione, sono ricondotti al rito
disciplinato dal libro secondo, titolo IV, capo I, del codice di procedura
civile (norme per le controversie in materia di lavoro);
2) i procedimenti, anche se in camera di consiglio, in cui sono prevalenti
caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa,
sono ricondotti al procedimento sommario di cognizione di cui al libro
quarto, titolo I, capo III-bis, del codice di procedura civile, come introdotto
dall’art. 51 della nuova legge, restando tuttavia esclusa per tali procedimenti
la possibilità di conversione nel rito ordinario;
3) tutti gli altri procedimenti sono ricondotti al rito ordinario di cui al libro
secondo, titolo I e III, ovvero titolo II, del codice di procedura civile (del
processo di cognizione).
A questo punto, a seguito delle suddette modifiche legislative, il processo
tributario, nei prossimi due anni, a partire dal 04 luglio 2009, dovrà essere
totalmente rivisitato e modificato per adeguarlo ai principi e criteri direttivi
sopra specificati, pur rimanendo le attuali Commissioni tributarie invariate
nella competenza dei “tributi” (Corte Costituzionale, sentenze n. 64 del 14
marzo 2008 e n. 130 del 14 maggio 2008; da ultimo, Corte di Cassazione,
sentenza n. 5298 del 05 marzo 2009) e nella composizione (D.Lgs. n. 545
del
31
dicembre
1992),
in
modo
da
completare
il
ciclo
di
processualizzazione del contenzioso tributario.
5
In conclusione, nei prossimi due anni il legislatore dovrà adottare un decreto
legislativo di modifica del processo tributario, che non sarà più un rito
speciale, con le attuali limitazioni che pregiudicano seriamente il diritto di
difesa, ma sarà, giustamente, incardinato nell’unico rito di cognizione
ordinario con lo scopo principale di mettere il cittadino-contribuente ed il
suo difensore, professionalmente e processualmente qualificato, sullo stesso
piano giuridico e processuale dell’Amministrazione finanziaria e dell’Ente
locale.
Chiusa questa parentesi, si riparte dall’argomento su cui verterà l’analisi
successiva che ha per oggetto il capo II del titolo I del d.lgs 546/92,
rubricato: «delle parti e della loro rappresentanza e assistenza in giudizio».
Le disposizioni del capo II, articoli da 10 a 17, contengono la disciplina non
solo delle parti, della loro rappresentanza ed assistenza in giudizio, del
litisconsorzio e dell’intervento in giudizio ma anche quella relativa alla
liquidazione delle spese, delle notifiche e comunicazioni.
L’esame dell’elaborato riguarderà i primi articoli del capo II ed in particolare
le parti, la capacità di stare in giudizio, l’assistenza tecnica e il litisconsorzio.
Il tema delle parti del processo tributario e della relativa assistenza e
rappresentanza è fra quelli che hanno sollevato maggiore interesse e
perplessità a seguito della riforma introdotta con il d.lgs. 546/92.
Interesse perché nella previgente disciplina del DPR 636/1972 non vi era
traccia di alcuna puntuale disposizione al riguardo, mentre adesso il
legislatore non solo vi ha dedicato un autonomo capo nel contesto del primo
titolo – recante le disposizioni generali sul contenzioso tributario -, ma ha
profondamente innovato il passato assetto attraverso l’introduzione di
precetti
precedentemente
non
contemplati,
fra
i
quali
spiccano
l’obbligatorietà dell’assistenza tecnica e la previsione del litisconsorzio,
dell’intervento e della chiamata in giudizio.
Perplessità sulle nuove disposizioni si rilevano, perché, in qualche
circostanza, risultano confuse come nel caso dell’art. 10 del d.lgs. 546/92 in
cui vengono impropriamente accomunate la nozione di parte e quella di
6
legittimato a resistere nel merito1, o formulate in termini tali da rendere
ardua la concreta e proficua applicazione ed il pensiero corre,
principalmente, all’art. 14 relativo al giudizio con pluralità di parti2.
1
In proposito, v. CASTALDI, Commento all’art. 10 del D.lgs. n. 546/1992, in AA.VV., Il
nuovo processo tributario, a cura di BAGLIONE, MENCHINI, MICCINESI, Milano, 1997,
p. 105 e RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, p. 473, i quali reputano che la
norma in parola abbracci la nozione di parte e quella di legittimazione ad agire ed a resistere
in giudizio.
2
In tal senso PISTOLESI, Le parti nel processo tributario, in Rivista di diritto finanziario e
scienza delle finanze, LXI, 1, I, 2002, p. 68.
7
CAPITOLO I
PROFILI GENERALI DEI SOGGETTI PARTE NEL PROCESSO
TRIBUTARIO
1. Il concetto di parte nel processo tributario.
In campo processualcivilistico il concetto di parte3 non ha una definizione,
anche se questo termine si ritrova in numerosissime disposizioni, e nello
stesso tempo non è univoco, in quanto, il legislatore ha usato la stessa parola
con significati diversi qualificando di volta in volta i meri soggetti degli atti
processuali, i soggetti degli effetti del processo ed i soggetti degli effetti
della sentenza4
Nel linguaggio comune la parola “parte” sta di solito ad indicare
l’assunzione di un particolare ruolo soggettivo coordinato con quello di altri
soggetti in vista di un risultato complessivo.
Nel settore giuridico il termine parte assume un più specifico riferimento al
ruolo soggettivo nelle situazioni giuridiche; mentre, nel linguaggio
processuale si riferisce a quei soggetti che, da un lato, danno vita alla
dinamica processuale e dall’altro subiscono gli effetti. Anche se nell’ambito
processualcivilistico all’idea di parte si ricollegano molteplici problemi in
merito a chi è la parte, quale è la giusta parte, chi può essere parte in
giudizio, chi può stare in giudizio come parte5.
Nel processo sono rispettivamente, parti, colui che propone la domanda e
colui nei cui confronti la domanda è proposta6. Si può pertanto affermare che
3
Sulla nozione di parte vedi GARBAGNATI, La sostituzione processuale, Milano, 1942 p.
243 ss; SEGNI, Parti, in Enciclopedia italiana, vol. XXVI, p. 418 ss.; COSTA, Parti, in
Nuovissimo Digesto italiano, XII, Torino, 1965, p. 499 ss.;
4
PROTO PISANI, voce Parte, in Enc. Dir., XXXI, Milano, 1995, p. 920.
5
E’ stato rilevato che il c.p.c. peraltro non risolve tutti questi problemi: esso considera
soltanto la parte nella sua soggettività, come persona cioè che, in quanto agisce nel processo
deve rivestire determinate qualità, deve essere rappresentata o assistita in un certo modo, ha
dei doveri e assume delle responsabilità. Tutte le altre questioni sono invece dinamicamente
considerate con riferimento all’azione ed al suo esercizio. SATTA-PUNZI, Diritto
processuale civile, Bologna, 1981, p. 104.
6
Su questa riconduzione della qualità di parte alla titolarità attiva e passiva della domanda
dottrina è pressoché unanime. Una posizione diversa è tuttavia assunta dal SATTA in
8
parti e quindi soggetti del processo e del rapporto processuale civile sono,
oltre al giudice che è chiamato ad emettere il provvedimento richiesto, i
contendenti, cioè le persone che hanno instaurato la controversia. Quindi, la
determinazione del soggetto-parte in un giudizio ha luogo sulla base della
domanda giudiziale, individuandosi da un lato colui che chiede al giudice di
provvedere in merito ad un determinato oggetto e, dall’altro lato, colui nei
cui confronti il provvedimento viene richiesto. Affinché si possa utilmente
assumere la qualità di parte nel processo, è necessario avere un interesse ad
agire, occorre cioè essere titolari del diritto che si vuol far valere.
Questo generale inquadramento processualcivilistico vale in via di principio
anche nell’ambito della disciplina del processo tributario. Se consideriamo la
legge delega la n. 413/1991 all’art. 10 non contiene una norma specifica per
quanto attiene l’individuazione delle parti nel processo tributario, ma alla
lettera g) dello stesso articolo prevede l’adeguamento delle norme del
processo tributario a quelle del processo civile.
Si deve porre attenzione sul fatto che la determinazione del concetto di parte
attiene alla statica del processo e quindi allo studio dei suoi elementi
costitutivi7.
Se l’attenzione, invece, si sposta dalla nozione di parte in quanto tale
all’attività di parte, si svolge un’indagine che involge la dinamica del
correlazione alla sua tendenza a negare la contrapposizione tra l’aspetto formale e l’aspetto
sostanziale dell’azione. Per questo autore la nozione di parte non può andare disgiunta da
quella della «giusta parte».
Sull’ampio argomento delle parti nel processo civile si rimanda alla più autorevole dottrina
sviluppatasi in tale campo, tra cui meritano di essere segnalati per completezza espositiva:
CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Napoli, 1936, p. 288;
ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, diretto da ALLORIO, II, Torino,
1973, p. 889.
Colloca su un piano puramente formale la nozione di parte del processo, intendendo par tale
colui che propone una domanda al giudice chiedendogli di emanare un certo provvedimento
(attore) e colui nei cui confronti la domanda viene proposta ed il provvedimento viene
domandato (convenuto) RUSSO, Processo tributario, in Enc. dir., Milano, 1997, p. 764.
In una prospettiva più ampia, per parti del processo si intendono quei soggetti, diversi dagli
organi giudiziari, che svolgono un ruolo nella dinamica di questo o attraverso la
proposizione di una domanda o in quanto destinatari di atti altrui ovvero perché intervenuti
spontaneamente oppure chiamati nel giudizio o comunque costretti a subirne gli effetti in
CARPI-COLESANTI-TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile,
Padova, 1994, p. 160.
7
ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, p. 375.
9
processo8. Sotto quest’ultimo profilo, si prende in esame lo svolgimento del
processo dal punto di vista delle parti, sia in quanto esse se ne servono per
ottenere la tutela giurisdizionale delle proprie situazioni soggettive, sia in
quanto esse servono al processo che trova nelle parti la propria origine e il
proprio sviluppo.
Il dlgs 546/92 all’art. 10, rubricato “Le parti” prevede che: «sono parti del
processo dinanzi alle commissioni tributarie oltre al ricorrente, l’ufficio del
Ministero delle finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di
riscossione che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto
richiesto ovvero, se l’ufficio è un centro servizio, l’ufficio delle entrate del
Ministero delle finanze al quale spettano le attribuzioni sul rapporto
controverso».
La disciplina contenuta nell’art. 10 rappresenta una novità rispetto a quanto
previsto nel D.P.R. 636/72 che, solo indirettamente, nell’elencare i requisiti
del ricorso all’art. 15 in qualche modo individuava le parti del giudizio in
quanto imponeva di indicare nel ricorso da un lato il ricorrente e dall’altro
l’ufficio tributario nei cui confronti lo stesso era proposto.
La norma sopraindicata, che disciplina le parti, contiene una disciplina
peculiare rispetto al codice di procedura civile, determinando così sul punto
una fondamentale differenza. Infatti, se la norma processualcivilistica non
enuncia direttamente un concetto di parte, in senso contrario, la norma del
processo tributario individua espressamente i soggetti che possono essere
parti. Questa differenza, secondo la dottrina maggioritaria, deriva dal fatto
che il processo tributario si configura come un processo avente ad oggetto
particolari rapporti che traggono origine da peculiari comportamenti, posti in
essere dall’Amministrazione finanziaria, e che incidono direttamente sulle
posizioni soggettive dei destinatari9.
8
Sulla distinzione fra statica e dinamica giuridica con riguardo al processo CARNELUTTI,
Istituzioni del nuovo processo civile italiano, IV ed., Roma, 1951, p. 130 ss.
9
TESAURO, Giurisprudenza sistemica di diritto tributario, Torino, 1999, p. 184.
10
2. L’art. 11 del d.lgs 546/92 “Capacità di stare in giudizio”.
L’articolo 11 del d.lgs 546/92 è rubricato ”Capacità di stare in giudizio” e
dovrebbe rappresentare l’attuazione dell’art. 30 lettera g) della legge delega
n. 413 del 31.12.1991 anche se non vi è completa corrispondenza fra le due
norme.
Il contenuto dell’art. 11 disciplina segnatamente al primo comma la
rappresentanza processuale volontaria delle parti private, al secondo la
partecipazione al processo dell’ufficio dell’amministrazione e, nell’ultimo, la
rappresentanza processuale degli enti locali limitandosi peraltro ad un rinvio
alle disposizioni legislative e regolamentari applicabili a ciascun Ente.
In considerazione di questi rilievi introduttivi, si osserva come la norma
non si occupa affatto della capacità di stare in giudizio delle parti nel
processo tributario a differenza di quanto si potrebbe rilevare dalla rubrica
dell’articolo.
Richiamando contenuti del diritto processuale civile, in particolare, l’art. 75
rubricato col titolo “capacità processuale”, al comma 1, prevede che:
«sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei
diritti che vi si fanno valere». Il legislatore utilizza la locuzione capacità
processuale per indicare la capacità di stare in giudizio del soggetto, rivolta
al perfezionamento degli atti processuali. Secondo un noto orientamento
della dottrina10, un requisito per la valida instaurazione del processo, in
quanto si manifesta in una condizione di decidibilità nel merito della
domanda rivolta al giudice11 e corrisponde, sul piano sostanziale, alla
capacità di agire ex art. 2 cod. civ.
Detta capacità è un presupposto processuale ed è strettamente collegata al
concetto di parte, nel senso che indica i requisiti che debbono sussistere in
capo all’attore o al convenuto per rivolgersi al giudice e per poter gestire
legittimamente il processo, indipendentemente dal fatto che spetti a loro la
titolarità dell’azione.
10
CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, vol. I, Padova, 1943-44, p.
179; SATTA, Capacità processuale civile, in Enc. dir., vol. VI, Milano, 1960.
11
CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, vol. II, Padova, 2006, pp. 34-35.
11
Con il testo dell’art. 75, comma 1, c.p.c. il legislatore ha inteso esprimere
con una sola nozione (la capacità processuale o capacità di stare in giudizio)
sia la capacità (come modo di essere psico-fisico del soggetto) e sia la
titolarità del potere di proporre una domanda e dei poteri successivi, che
consegue a tale capacità12. Il testo normativo è risultato una sovrapposizione
terminologica involontaria e concettualmente confusa, per eccesso di sintesi,
tra il concetto di capacità processuale e quello di legittimazione processuale.
L’intento del legislatore è sfociato, così, in una sovrapposizione e in un
reciproco offuscamento di concetti eterogenei.
La capacità processuale è una semplice qualità del soggetto giuridico, in altri
termini ha capacità processuale chi ha la capacità di agire sul piano
sostanziale.
Attraverso la disposizione normativa della capacità processuale è possibile
offrire anche una corretta interpretazione del concetto di parte in senso
processuale13. La parte processuale o capacità di essere parte, ossia
l’assunzione del ruolo di soggetto nel processo e di essere destinatario degli
atti processuali, è una qualificazione giuridica che presuppone soltanto
l’avvenuta proposizione della domanda. Detta proposizione è un elemento
necessario e sufficiente perché il soggetto che ha proposto la domanda e
quello nei cui confronti la domanda è proposta acquistano la qualità di parte
indipendentemente dalla loro titolarità, effettiva o asserita, della situazione
sostanziale dedotta in giudizio. Questa accezione mostra come la capacità di
essere parte nel processo è strettamente collegata al concetto di capacità
giuridica sul piano sostanziale, di cui all’art. 1 cod. civ.
Quindi, la parte è la sola qualità giuridica che non può mai mancare in un
processo e che sussiste per il solo fatto che è stata avanzata una domanda al
12
In realtà nel compiere questa sovrapposizione di concetti, il legislatore non fece che
recepire una certa tendenza della dottrina orientata a non distinguere tra capacità processuale
e legittimazione processuale. In questo senso, soprattutto CHIOVENDA, Istituzioni, II,
p. 239.
13
In relazione alla nozione di parte in senso processuale, COSTA, Parti, in Nuovissimo
Digesto Italiano, vol. XIII, Torino, 1957, pp. 499 ss; MANDRIOLI, Delle parti, in
Commentario del codice di procedura civile, a cura di ALLORIO, sub. Art. 75, vol. 2,
Torino, 1980, pp. 881 ss; MURRA, Parti e difensori, in D. disc. Priv. Sez. civ., vol. XIII,
Torino, 1995, pp. 262 ss..
12
giudice.
Ponendosi l’osservanza delle regole dettate in tema di capacità processuale si
deve affrontare il difetto di capacità di stare in giudizio. Stabilisce l’art. 75,
comma 2 del c.p.c. che: «Le persone che non hanno il libero esercizio dei
diritti non possono stare in giudizio se non rappresentate, assistite o
autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità», in mancanza di
tutto questo il processo risulterà nullo, con nullità rilevabile dal giudice,
anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio.
Inoltre, il difetto di capacità processuale per determinare la nullità dell’intero
processo deve consistere in un vizio dell’atto introduttivo dello stesso;
perché, il difetto in tale atto si estende a tutti gli atti processuali
che
successivamente possono o debbono essere compiuti14.
La rilevabilità del difetto di capacità processuale in ogni stato e grado del
giudizio trova, peraltro, un limite di ammissione nel giudicato che
esplicitamente o implicitamente si sia formato sul punto. Siffatta previsione
non trova una espressa enunciazione normativa, ma viene dedotta dalla
giurisprudenza15, sulla scorta del principio in base al quale il potere di
verificare la sussistenza o meno dei poteri richiesti per il valido esercizio
delle attività processuali in capo alle parti viene fatto rientrare nell’officium
iudicis, come in campo processuale civile appare confermato dall’art. 182
c.p.c..
Detto difetto può essere sanato, rilevando in tal modo l’esistenza di una
forma di nullità relativa, in ogni stato e grado del giudizio, e ciò con effetti
retroattivi, mediante costituzione in giudizio del titolare del potere di
rappresentanza legale ovvero della parte diventa nel frattempo capace;
14
Così Cass., 21.3.1970, n. 755, in FI, 1970, Procedimento civile, p. 63.
In quella della più recente Corte di Cassazione si vedano: 3.5.1990, n. 3666, in GCM,
1990, Procedimento civile – capacità processuale, p. 855; 5.2.1987, n. 38 in RGC, 1987,
Imposta complementare sul reddito, p. 17; 16.4.1981, n. 2286, in GCM, 1981, Riscossione
entrate patrimoniali, p. 865; 8.8.1979, n. 4606, e molte altre conformi in precedenza,
rilevandosi in particolare come il giudice non sia tenuto a compiere alcuna indagine se nulla
risulti dagli atti o in seguito a deduzioni delle parti, ovvero se il contraddittorio sia dalle
parti stato accettato senza opposizione in merito (Cass., 30.1.1992, n. 964 in GCM, 1992,
Imposta reddito persone fisiche, p. 116 e 20.2.1992, n. 2099, ibidem, Imposte in genere, p.
251).
15
13
soggetti, questi, che manifestano con il loro comportamento al volontà di
ratificare l’operato posto in essere precedentemente a tale costituzione, a
condizione che il difetto stesso non sia stato già rilevato dal giudice.
Al rilevo del difetto di capacità operato dal giudice segue, come ha in più
occasioni affermato la Corte di Cassazione16, la dichiarazione di
inammissibilità della domanda.
In considerazione dell’analisi fin qui svolta, ricordando che l’art. 11 del d.lgs
non disciplina la capacità di stare in giudizio, e che non è dato rintracciare
alcuna disciplina derogatoria nell’ambito delle leggi tributarie; di
conseguenza, sembra che debba valere per il processo tributario la disciplina
contenuta nel primo libro del codice di procedura civile.
3. Legitimatio ad processum e legitimatio ad causam.
Secondo la dottrina più autorevole17, si suole contrapporre la legitimatio ad
processum o legittimazione processuale, che costituisce un presupposto
processuale condizionante l’eventuale pronuncia di merito del giudice, alla
legitimatio ad causam o legittimazione ad agire, che riguarda, invece, la
titolarità dell’azione e, quindi, dei diritti che con essa si fanno valere18.
La legitimatio ad processum, riferita alla capacità delle parti di stare in
giudizio, in proprio o con la debita rappresentanza, assistenza o
autorizzazione, consiste in una condizione che attiene alla regolare
costituzione del rapporto processuale. Tanto è vero che l’accertamento circa
la sua sussistenza può essere effettuato in ogni stato e grado, con il solo
limite della formazione del giudicato interno. Inoltre, si distingue dalla
qualificazione soggettiva di parte, poiché mentre quest’ultima scaturisce dal
16
Si vedano, tra le tante in tal senso, le pronunce 16.10.1980, n. 5571, in GCM, 1980,
Procedimento civile – capacità processuale, p. 2347; 24.11.1980, n. 6229, ibidem, Mandato
e rappresentanza, p. 2582 e precedenti in senso conforme.
17
CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, vol. II, p.239. Al contrario,
FAZZALARI, Note in tema di diritto e processo, Milano, 1975 pp. 132 ss., il quale tende ad
attribuire ai due concetti lo stesso significato.
18
Per maggiori rilievi, TOMEI, Legittimazione ad agire, in Enc. dir., vol. XXIV, Milano,
1974, pp. 65 ss.; ATTARDI, Legittimazione ad agire, in D. disc. Priv. Sez. civ., vol. X,
Torino, 1993, pp. 524 ss.
14
momento della proposizione della domanda, la legittimazione processuale,
come presupposto condizionante dell’azione, sussiste anche prima e
indipendentemente dalla proposizione della domanda.
La legitimatio ad causam è sempre un presupposto processuale
condizionante la decisione di merito, ma consiste nella pretesa di esercitare
in giudizio in nome proprio un diritto proprio. Essa è, dunque, la
correlazione tra il soggetto agente, che si afferma titolare del diritto vantato,
e il soggetto resistente, nei cui confronti è richiesta la tutela19.
In sintesi la legittimazione processuale è la posizione soggettiva di colui che
è titolare dei poteri il cui esercizio realizza lo stare in giudizio e che, altresì,
è titolare della serie ulteriore di poteri processuali, il primo dei quali è il
potere di agire. Si differenzia dalla legittimazione ad agire, perché viene a
prescindere dal riferimento alla situazione sostanziale che fonda le
condizioni dell’azione e, quindi, la titolarità dell’azione stessa.
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte la legittimazione ad agire
attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere o del dovere di
promuovere o subire un giudizio in ordine ad un determinato rapporto
sostanziale20.
Nel processo tributario la legittimazione ad agire spetta ai soggetti indicati
nell’art. 10 del d.lgs 546/92, in funzione del loro interesse ad essere parti nel
rapporto giuridico processuale.
Il concetto di legittimazione ad agire è configurato dalla giurisprudenza
come una condizione dell’azione, intesa come diritto potestativo di chiedere
ed ottenere una decisione di merito in ordine al rapporto dedotto in giudizio.
19
PICARDI, Manuale del processo civile, Milano, 2005, p. 156, il quale come il termine
legitimatio ad causam si sia generato dall’esigenza di distinzione dall’altra terminologia di
legitimatio ad processum.
20
Così la sentenza 27.2.1995, n. 2243, in GCM, 1995, Cassazione civile, rinunzia al
ricorso, 459, mentre ancora in termini di condizione dell’azione parlano, riferendosi sempre
alla legittimazione ad agire, le sentenze 13.1.1995, n. 377, ibidem, Procedimento civile –
legittimazione attiva e passiva, 69 e 3.2.1995, n. 1321, ibidem, Procedimento civile –
legittimazione attiva e passiva, 287.
15
4. La rappresentanza legale e volontaria.
L’art. 11 del d.lgs 546/1992 si occupa al primo comma della forma in cui la
parte privata, ossia la parte diversa dall’Amministrazione finanziaria, può
stare in giudizio prevedendo in proposito l’istituto della rappresentanza
processuale volontaria.
Come già nel paragrafo precedente si è rilevato, coloro che non hanno il
libero esercizio dei propri diritti non possono stare in giudizio se non
rappresentati, assistiti o autorizzati secondo le norme che regolano la loro
capacità; quindi, in tutti questi casi la persona incapace21 nel processo starà
in giudizio per mezzo del proprio rappresentante. Nel campo sostanziale il
problema, del tutto analogo, di come si esercitano i diritti di coloro che non
sono capaci di agire è risolto dal legislatore con lo strumento della
rappresentanza legale.
Accanto a questa ipotesi è prevista una diversa forma di rappresentanza, la
cosiddetta rappresentanza volontaria, esercitatile da una persona capace che
comunque decide di conferire ad altri il potere di rappresentarla nel processo.
Evidentemente, si tratta di una questione diversa da quella della capacità di
stare in giudizio dal momento che chi decide di farsi rappresentare è
pienamente capace di partecipare lui stesso al processo anche se preferisce
non farlo.
Il testo dell’art. 11 tratta, al 1 comma, solo della rappresentanza volontaria,
mentre per la rappresentanza legale è necessario supplire con le norme del
c.p.c..
E’ bene precisare fin d’ora che la figura del rappresentante non ha nulla a
che vedere con quella del difensore, il cui obbligo di nomina è previsto
21
Come è noto, l’incapacità di agire consegue allo stato di interdizione (sul quale v.
SCARDULLA, Interdizione (dir. Civ.), in Enciclopedia del diritto, XXI, Milano, 1971, p.
932 e ss.; POGGESCHI, Interdizione e inabilitazione, in Nuovissimo Dig. It., VIII, Torino,
1962, p. 809 e ss.) e alla minore età. A quest’ultimo riguardo va tenuta presente la l.
8.3.1975, n. 39, che, come è noto, ha abbassato a 18 anni il limite della minore età,
modificando in tal senso l’art. 2 cod. civ.
Indipendentemente dalla generale incapacità di agire che consegue allo stato di interdizione
(come anche alla semicapacità che consegue allo stato di inabilitazione) un’incapacità di
agire limitata a determinate categorie di atti da stabilirsi di volta in volta, è prevista ora dai
nuovi artt. 404 e 405 cc. (come riformulati dalla l. 9.1.2004, n. 6) in occasione della
designazione dell’amministratore di sostegno.
16
dall’art. 12 del d.lgs 546/92. Si tratta di istituti del tutto differenti, poiché il
rappresentante regolarmente nominato svolgerà nell’ambito del giudizio i
compiti che spettano alla parte senza peraltro assumerne la veste che
continua ad essere ricoperta dal rappresentato; mentre, il difensore in ragione
delle proprie competenze professionali, avrà il compito di assisterlo
tecnicamente.
L’istituto della rappresentanza volontaria è disciplinato nel codice di
procedura civile all’art. 77 che ne dispone le condizioni di forma ed i limiti
sostanziali. Il legislatore nell’art. 77 si serve della tecnica imperniata sul
conferimento della legittimazione processuale a quel soggetto che già nel
campo sostanziale riveste la qualità di rappresentante. Si deve rilevare che
l’uso di questa tecnica nella rappresentanza volontaria, non coincide con
l’applicazione che viene operata per la rappresentanza legale. Questo si
verifica perché nel caso della rappresentanza legale si ha una pura e semplice
attribuzione automatica da parte della legge della legittimazione processuale
a colui che è rappresentante nel campo sostanziale; mentre, nel caso della
rappresentanza volontaria si richiede per la legittimazione processuale
un’attribuzione
autonoma
e
specifica
in
via
negoziale
da
parte
dell’interessato. Quindi, la qualità di rappresentante nel campo sostanziale
non
è
sufficiente
perché
sussista
la
legittimazione
processuale
rappresentativa, occorrendo ancora che questa sia fatta oggetto di espresso
conferimento22.
Va tuttavia sottolineato che in ambito processuale se la qualità di
rappresentante nel campo sostanziale non è sufficiente, è comunque
necessaria, nel senso che non si può conferire la legittimazione processuale
22
Su questo punto non esistono dubbi in dottrina ed in giurisprudenza. V. comunque Cass.
19.11.1971, n. 3333, e la Cass. 10.7.1975, n. 2720. Il conferimento della legittimazione
processuale rappresentativa potrà essere contestuale al conferimento dei poteri
rappresentativi sostanziali, ma nulla impedisce che sia compiuto, in via autonoma; né
esistono altri requisiti formali all’infuori dello scritto. L’onere della documentazione va
posto in relazione col potere (degli altri soggetti del processo) di ottenere la giustificazione
dei poteri da parte del rappresentante (art. 1393 cod. civ.) provocando la verifica e l’invito di
cui all’art. 182, 1 comma cpc con la conseguenza che se nessuno esercita questo potere, la
produzione del documento può anche mancare (Cass. Sez. n. 14.12.1999, n. 894/SU) o
avvenire in appello (Cass. 8.4.1995, n. 4073), sempre che, naturalmente, il rappresentante
abbia inequivocabilmente compiuto la contemplatio domini (Cass. 19.1.1987, n. 428).
17
rappresentativa ad un soggetto che già non rivesta la qualità di
rappresentante anche nel campo sostanziale. Questa conclusione si desume,
secondo l’interpretazione prevalente, del dettato dell’art. 77 che richiede
l’espresso conferimento del potere rappresentativo processuale non ad un
qualsiasi destinatario ma soltanto «il procuratore generale e quello preposto a
determinati affari»23. Inoltre, anche lo strumento della rappresentanza
processuale volontaria, come quello della rappresentanza legale, troverà
applicazione soltanto se il potere rappresentativo oltre ad esistere, sia
adeguatamente manifestato attraverso la contemplatio domini, ossia
attraverso, la dichiarazione del rappresentante di agire in nome del
rappresentato24.
23
Occorre precisare che l’opinione espressa è ferma soltanto in dottrina ( v. per tutti
MANDRIOLI, La rappresentanza, Torino, p. 179; SATTA, Commentario, I, p. 265;
ANDRIOLI, Dir. Proc. Civ., I, p. 568; né mancano autori secondo i quali l’opinione in
discorso sarebbe addirittura imposta dai principi: così ad es. CARNELUTTI, La
rappresentanza processuale volontaria, p. 636 e ss. La giurisprudenza riconoscendo che la
rappresentazione sostanziale può risultare anche implicitamente: v. ad es. Cass. 3.12.2001,
n. 15270; Cass. 8.5.1998, n. 4666; Cass. 22.02.1997, n. 1622 è stata per qualche tempo
contrastante e per lo più propensa ad ammettere la conferibilità della rappresentanza
processuale anche a persone prive di poteri rappresentativi negoziali. In questo senso ebbe a
pronunciarsi, con riguardo alla rappresentanza delle società. La Cass. 14.2.1977, n. 681, in
Foro it., 1977, I, p. 821. Questa sentenza, infatti, nel ribadire il costante insegnamento della
Cassazione secondo il quale l’organo investito della rappresentanza di una società di capitali
può (se lo statuto non contiene un espresso divieto), delegare il potere di rappresentare in
giudizio la società ad un altro soggetto, anche estraneo alla società, si è richiamata all’art. 77
cpc affermando che tale norma avrebbe solo la funzione di limitare i poteri del
rappresentante volontario, ossia di stabilire che l’espresso conferimento per iscritto del
potere di rappresentativo processuale è necessario; mentre, non avrebbe anche la portata di
stabilire che tale conferimento non è sufficiente. Nello stesso senso si è poi pronunciata la
Cass. 9.11.1982, n. 5877, in Giur. It., 1983, I, 1, p. 1506; ma poi, in senso decisamente
contrario, una serie di pronunce, tra cui la Cass. 14.02.1995, n. 1578 che evidenzia la
conseguente nullità rilevabile d’ufficio; poi ancora la Cass. 22.4.1997, n. 3463. La Cass.
3.11.1997, n. 10765 si è spinta fino a ritenere insufficiente una procura nella quale il
conferimento di poteri sostanziali appariva strumentale rispetto al conferimento dei poteri
processuali; più aperta, sotto quest’ultimo profilo, la Cass. 26.9.1998, n. 9669.
Altre pronunce, invece, precisano che la rappresentanza sostanziale debba, per consentire la
rappresentanza processuale, essere generale o almeno comprendere un gruppo omogeneo di
poteri: così Cass. 19.9.2003, n. 13898. E’ comunque evidente che siamo ormai al limite
della valutazione caso per caso, come ha bene rilevato l’annotatrice M. IOZZO al termine di
una puntuale esposizione delle vicende della giurisprudenza su questa delicata questione.
Va, d’altra parte, tenuto presente che la rappresentanza processuale, per il suo carattere
esterno, sopravvive all’estinzione della rappresentanza sostanziale Cass. 11.1.1999, n. 175.
24
Perciò se la delega al difensore è stata conferita dal rappresentante volontario, il
rappresentato non può agire in proprio nome nello stesso atto, v. Cass. 22.7.1999, n. 7888,
in Foro it., 2001, I, P. 291, mentre può costituirsi in proprio nel giudizio già instaurato dal
18
A completamento della rappresentanza nel processo civile si deve trattare del
soggetto che agisce in nome altrui ma privo del potere rappresentativo, ossia
del cosiddetto falsus procurator, con la conseguenza che gli atti posti in
essere non producono effetti in capo a colui che sembra essere rappresentato.
Nel processo tributario i limiti al conferimento della rappresentanza
processuale esaminati nell’ambito del processo civile non esistono,
considerato che l’art. 11 disciplina l’istituto della rappresentanza volontaria
in modo esaustivo ed autonomo rispetto alle norme del codice di procedura
civile. L’articolo si limita a stabilire che le parti possono stare in giudizio
anche mediante procuratore generale o speciale, senza alcun limite
rappresentato da un eventuale rapporto sostanziale a monte che debba
sussistere tra rappresentante e rappresentato. In considerazione di quanto
appena detto, né consegue che la procura speciale davanti al giudice
tributario può essere attribuita a qualunque soggetto sempre che quest’ultimo
abbia la capacità di agire.
La procura di regola deve essere conferita con atto pubblico o scrittura
privata, tuttavia, questo principio di carattere generale trova una deroga nel
secondo capoverso del 1 comma dell’art. 11. Infatti, la procura conferita dal
contribuente ai parenti ed affini fino al quarto grado, legittima quest’ultimi a
stare in giudizio per il ricorrente sulla base di una semplice scrittura privata
non autenticata. Tale disposizione pone il problema dei requisiti soggettivi
richiesti per godere della disposizione di favore quanto alla forma della
procura. In mancanza di una espressa previsione normativa sul punto si deve
ritenere che il giudice e la controparte possano richiedere una prova del
rapporto di parentela.
La procura conferita al familiare incontra una
limitazione sul piano oggettivo in considerazione del fatto che il procuratore
nominato con una mera scrittura privata
alla partecipazione all’udienza
pubblica; mentre, è escluso che il familiare possa rappresentare validamente
il ricorrente nell’udienza in camera di consiglio, né sostituirlo nelle altre
attività processuali tra cui quella di avanzare proposta di conciliazione
rappresentante, stante la natura secondaria del potere del rappresentante rispetto a quello del
rappresentato.
19
giudiziale della controversia ex art. 48 o rinunciare al ricorso25.
Come nel processo civile, anche in quello tributario si pone il problema della
sorte del processo condotto da o instaurato nei confronti di chi sia sprovvisto
della rappresentanza, ovvero di un cosiddetto falsusu procurator. La
disciplina sul processo tributario non si occupa espressamente di tale
eventualità, dovendosi di conseguenza applicare le norme di diritto comune e
precisamente l’art. 1399 del codice civile. Tale norma consente la ratifica
dell’operato del procuratore irrituale da parte del contribuente falsamente
rappresentato con effetto sanante ex tunc, fatti salvi gli eventuali diritti
acquisiti nel frattempo dai terzi. Come nel processo civile, dunque, si
dovrebbe ritenere che la ratifica possa avvenire in ogni stato e grado del
giudizio e con riferimento a tutti gli atti processuali, attraverso la
costituzione in giudizio delle parte o del legittimo rappresentante, i quali
manifestino la volontà di anche tacita di ratificare la condotta processuale
precedente. Tuttavia, tale conclusione è soltanto astrattamente valida, dal
momento che, come si è detto, la ratifica è suscettibile di produrre i suoi
effetti sananti soltanto a condizione che non si sia verificata, eventualità
tutt’altro che remota stante i brevi termini che caratterizzano il processo
tributario26. In particolare, qualora il difetto di rappresentanza si sia
verificato al momento dell’introduzione del giudizio, esso comporterà
l’inammissibilità del ricorso ovvero la nullità degli atti compiuti dal falsus
procurator, salvo la rarissima eventualità di una tempestiva ratifica27.
Al contrario, potrà essere sanato in corso di giudizio l’operato del
rappresentante nominato per specifici atti, ma senza il rispetto delle formalità
previste; ad esempio, pensiamo al caso della procura speciale ad actum per
25
Si veda Comm. Trib. Centr. 19.11.1987, n. 8394, in Comm. Trib. Centr., 87 I, p. 649,
secondo cui la procura conferita in modo informale dal ricorrente al proprio figlio non
legittima quest’ultimo a rinunciare al ricorso, inficiando di nullità la cessazione di materia
del contendere pronunciata sulla base di tale atto.
26
Comm. Trib. Centr. 3.12.1984, n. 10485, in Rass. Imp. 85, p. 838; Comm. Trib. Centr.
2.10.1990, n. 6218, in Comm. Trib. Centr. 90, I, p. 695; Cass. S.U. 11.10.1978, n. 4512.
27
Comm. Trib. Milano, Sez. XXVII, 12.5.1997, n. 84, in Riv. giur. trib. 97, p. 950, con nota
di GLENDI, che ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso sottoscritto dal procuratore non
ritualmente nominato; qualche perplessità su tale questione esprime OLIVA CORRADO,
Contenzioso tributario, parte I, in D. e prat. trib. 2000, II, p. 1023.
20
semplice scrittura privata, quando mancassero i requisiti soggettivi od
oggettivi in cui tale forma è ammessa.
5. La parte ricorrente.
La normativa considera quale parte del processo tributario il ricorrente che
rappresenta la parte attiva del giudizio, ed in quanto titolare del diritto
legittimato all’azione.
Il ricorrente non viene menzionato alla stessa stregua delle altre parti del
processo, ma l’espressione letterale «oltre al ricorrente», evidentemente,
indica quest’ultimo parte necessaria del contenzioso tributario. Infatti, il
ricorso può essere introdotto imprescindibilmente dal soggetto che ne abbia
diritto. Questa situazione comporta che non può instaurarsi un processo
tributario se non vi sia una parte ricorrente, e che il giudizio non può essere
proposto da una delle altre parti indicate dall’art. 10. Tutto questo determina
che se soggetto attivo del rapporto tributario è l’ente impositore, parte attiva
del processo è necessariamente il ricorrente.
Nella pratica il ricorrente si potrebbe identificare con colui nei cui confronti
si è verificato il presupposto di imposta, ma è da rilevare che il contribuente
potrà essere un soggetto cui indirettamente si potrà ricollegare una pretesa
contribuiva. Si pensi, ad esempio, al rappresentante legale di una società che
abbia ricevuto la notifica di un avviso di irrogazione di sanzioni nei propri
confronti per infrazioni commesse dalla società di appartenenza.
In via generale si può dunque ritenere che può essere parte ricorrente
chiunque risulti destinatario o notificatario di uno degli atti impugnabili
elencati nell’art. 19 o chiunque abbia prodotto una istanza in relazione alla
quale, pur sempre ai sensi dell’art. 19, si sia formato un silenzio-rifiuto
impugnabile.
Ne consegue che assumerà la veste di parte ricorrente nel processo tributario,
con l’esclusione di adire altra giurisdizione, anche colui che notificatario di
uno degli atti impugnabili, sostiene la propria estraneità alla pretesa fiscale;
21
si pensi al caso di un soggetto a cui è stato notificato un atto nella presunta
qualità di erede del contribuente deceduto e che voglia rilevare l’assenza
della presunta qualità di erede. Sono questi casi in cui il ricorrente vuole
provare che va escluso il presupposto di un proprio coinvolgimento nel
rapporto di imposta. Tuttavia il soggetto dovrà adire il giudice tributario, con
preclusione di altra giurisdizione, e sarà dunque parte ricorrente del giudizio
posto in essere.
Il ricorrente può essere sia una persona fisica che una persona giuridica come
per le società, enti o associazioni con o senza personalità giuridica.
L’art. 18 del d.lgs 546/92, nell’elencare i requisiti del ricorso, alla lettera b)
richiede l’indicazione sia del ricorrente che del suo legale rappresentante;
pertanto, in caso di rappresentanza legale di una persona fisica, va indicato
nel ricorso non solo il rappresentato, che è la parte ricorrente legittimata ad
causam, ma anche il rappresentante legale che, in forza del potere facente a
lui capo, è legittimato a proporre l’azione.
Nel caso il ricorrente sia un soggetto diverso dalla persona fisica, dove si
tratti di una società occorrerà indicare anche gli estremi del rappresentante
legale in base alle norme statutarie, degli atti costituivi o in base alla legge.
Per l’ipotesi in cui il ricorrente sia un’associazione non riconosciuta, e
quindi, priva di personalità giuridica, il problema della capacità di stare in
giudizio si sovrappone a quello della identificazione del soggetto titolare del
potere di proporre l’azione; problema che, in realtà, non attiene al tema della
capacità processuale, quanto piuttosto a quello dell’esistenza o meno di un
soggetto autonomamente imputabile di rapporti giuridici.
La giurisprudenza ritiene non applicabile in campo tributario i limiti di
corrispondenza tra potere di rappresentanza in ambito processuale e potere di
rappresentanza in ambito sostanziale, limiti invece in varie occasioni
affermati come regola generale per il processo ordinario della Suprema
Corte28.
Diversamente e con riguardo ad una struttura societaria, la stessa Corte si è
28
Tra le ultime Cass., 15.11.1988, n. 6109, in RGC, 1988, Lavoro (controversie
individuali), p. 188 e Cass. 9.11.1983, n. 6621, in FI, 1984, I, p. 1935.
22
espressa nel senso di attribuire all’organo investito della legale
rappresentanza della società il potere di nominare validamente un proprio
rappresentante al limitato fine di nominare a sua volta un procuratore legale
abilitato allo ius postulandi.
I giudici di legittimità hanno a tal proposito affermato, in altri termini, che il
legale rappresentante di una società può delegare ad altro soggetto il solo
potere di rappresentanza processuale della società medesima, con
conseguente conferimento a terzo della relativa legittimazione processuale29.
Infine, considerato che il ricorrente instaura il processo al fine di ottenere un
provvedimento contro l’amministrazione finanziaria, e nel ricorso richiede
l’annullamento di un atto o la contestazione dell’illegittimità di un
comportamento omissivo dell’amministrazione; si dibatte, da lungo tempo,
sulla possibilità di portare di fronte alle Commissioni tributarie alcuni tipi di
controversie tra privati. Seguendo questa possibilità verrebbe meno
l’impostazione del processo tributario che vede quale parte ricorrente il
privato e resistente l’amministrazione finanziaria.
Inoltre, l’accoglimento di una o dell’atra interpretazione comporterebbero
delle conseguenze sulla disciplina delle parti.
Si tratta di stabilire se siano riconducibili alla giurisdizione tributaria quelle
controversie tra privati, rispetto alle quali il rapporto impositivo si ponga
quale mero presupposto; risolto affermativamente tale preliminare quesito,
se debba comunque essere coinvolta la parte pubblica in veste di
litisconsorte necessario, oppure considerare un processo tributario totalmente
inter privatos.
Nonostante la dottrina sia in gran parte orientata a riservare il processo
tributario al contraddittorio con l’amministrazione finanziaria in ordine alla
legittimità di una pretesa impositiva da questa avanzata30, la giurisprudenza e
29
Così Cass., 20.4.1984, n. 2615, in RGC, 1984, Procedimento civile, p. 26 e Cass.,
9.11.1982, n. 5877, in GC, 1983, I, p. 2699.
30
ANNECHINO, Ritenuta versata ma non effettuata, quale giurisdizione?, in F. it. 06, I, p.
6480; TESAURO, In tema di giurisdizione e competenza per le controversie tra sostituto e
sostituito, in D. e prat. trib. 79, II, p. 320; POLITO, L’azione di accertamento di ripetizione
23
la stessa amministrazione finanziaria propendono per la tesi opposta31.
La giurisprudenza della Cassazione è tutt’altro che consolidata, come
dimostra la stessa frequenza di decisioni a sezioni unite sul punto; a favore
della competenza del giudice ordinario, almeno qualora non sia introdotta
alcuna pretesa nei confronti dell’amministrazione32.
La posizione su cui si è attesta la dottrina pare preferibile, anche alla luce di
problemi di ordine pratico che si pongono qualora si accettino le conclusioni
della giurisprudenza dominante. In particolare si dovrà decidere quale
posizione attribuire nel processo all’amministrazione finanziaria, l’art. 10 del
d.lgs 546/92 sembra imporne la partecipazione dando vita ad un processo
con pluralità di parti in litisconsorzio necessario. A tale conclusione è giunta
anche la Corte di Cassazione, con la sentenza a sezioni unite la numero
3843/90.
6. La parte resistente.
La parte resistente può individuarsi nell’autorità
che ha emanato l’atto
impugnato o ha tenuto il comportamento che il ricorrente assume come
lesivo.
In tema di legittimazione attiva e passiva nei giudizi in cui siano parti
amministrazioni dello Stato, pur essendo indubbia l’unicità del soggetto al
quale si riferisce l’azione di dette amministrazioni, al suo interno si
distinguono i vari settori e sfere di azione e le rispettive competenze, che
danno luogo a distinti centri di interesse, con la conseguenza che la
legittimazione a stare in giudizio spetta agli organi delle amministrazioni di
volta in volta istituzionalmente preposte a svolgere la singola attività di cui si
dell’indebito in materia tributaria, in Riv. dir. fin. 74, I, p. 125 ss.; contra RUSSO, Manuale
di diritto tributario, Milano, 2002, p. 454.
31
Cass. 23019/05, in F. it. 06, I, p. 3480; Cass. 2281/90, in Rass. Avv. Stato 91, p. 81 ss.;
Cass. S.U. 3843/90 in R. d. trib. 91, II, p. 160 ss.; Cass. S. U. 4311/90, in R. d. trib. 91, II, p.
160; Cass. S. U. 11.8.1990, n. 8178; Cass. S. U. 2050/91, in R. d. trib. 91, II, p. 202 ss., con
nota di PURI, Controversie tra sostituto e sostituito: continua l’equivoco della Cassazione.
32
Si sono pronunciate Cass. S. U. 7533/86, in Boll. trib. 87, p. 601; Cass. S. U. 657/89, in
Fisco 89, p. 5206.
24
tratta.
Ferme restando l’unicità e l’unitarietà della capacità giuridica dello Stato,
della cui attività giuridica i vari rami dell’Amministrazione rappresentano,
con la loro struttura burocratica specifiche settoriali estrinsecazioni
operative, e fermo il profilo per cui per competenza del ministero deve
intendersi, nel senso amministrativo del termine, l’attribuzione del potere di
stare in giudizio per lo Stato, in relazione a ciò che forma oggetto della
specifica materia del contendere, attiene alla problematica della capacità
processuale
o
legitimatio
ad
processum.
Quindi,
anche
per
le
amministrazioni statali si pone la necessità di accertare in sede di verifica
dei presupposti processuali la sussistenza nell’organo statuale convenuto o
resistente nel processo il potere di stare di stare in giudizio.
L’art. 11 del d.lgs 546/92 prende espressamente in considerazione, quali
parti pubbliche, con riferimento alla loro capacità di stare in giudizio, da un
lato l’Ufficio del Ministero delle finanze nei cui confronti è preposto il
ricorso, dall’altro lato l’ente locale impositore. La questione è diversa
rispetto a quella del primo comma dello stesso articolo, trattandosi, in questo
caso non della possibilità di nominare un rappresentante volontario, ma della
individuazione del soggetto persona fisica chiamato ad esercitare nel
processo i poteri di parte per un entità giuridica.
Per l’ufficio dell’amministrazione statale e nel caso di specie di quella
finanziaria, la norma prevede due modi distinti di stare in giudizio,
direttamente vale a dire nella persona del titolare individuato secondo le
norme regolamentari interne; oppure, attraverso l’ufficio del contenzioso
regionale o compartimentale, a norma del DPR 23.3.1992, n. 287, artt. 32
ss,, che pure agirà nella persona del titolare dell’ufficio o di altro funzionario
da quest’ultimo delegato33.
Le due posizioni sono tra loro alternative e non risulta dalla legge alcuna
indicazione che specifichi a quali requisiti l’opzione tra le due debba essere
33
TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, vol. I Parte generale, p. 321; GLENDI,
Legittimazione (attiva e passiva) e difesa in giudizio delle Agenzie fiscali, in Corr. trib. 01,
p. 2166.
25
subordinata; quindi, dovranno valere le disposizioni interne per le modalità
di decisione tra le due alternative34.
La ragione di questa scelta può risiedere nell’opportunità di lasciare
all’ufficio parte nel giudizio il compito di seguire il processo di primo grado,
o comunque i casi di routine, permettendo che la rappresentanza passi in
sede di appello alle direzioni regionali o compartimentali. In applicazione di
questo orientamento si sono indirizzate circolari interne sia dell’Agenzia
delle Dogane, che con circolare del 4.4.2002, n. 26 dell’Ufficio contenzioso
civile e penale ha prescritto agli Uffici periferici di informare
tempestivamente la competente direzione generale dell’avvenuta notifica di
ricorsi in materie particolarmente complesse e/o rilevanti, per consentire
l’esercizio della facoltà di avocazione.
Tuttavia, è bene ricordare che siamo in presenza di una rappresentanza
organica derivante dall’art. 16 del d.lgs 29/1993, ora T.U. 30.3.2001, n. 165
secondo il quale deve ritenersi attribuito ai dirigenti generali delle pubbliche
amministrazioni che promuovono e resistono alle liti il potere di conciliare o
transigere35. Inoltre, la piena rappresentanza comporta che al funzionario sia
riconosciuta la facoltà di rendere dichiarazioni di rinuncia rispetto alla
materia del contendere, anche in assenza di una specifica delega36.
34
BRUNO, La legittimazione ad agire e la rappresentanza in giudizio delle Agenzie fiscali,
in Rass. trib. 02, p. 1515.
35
Cass. 2099/92, che ha deciso che la sottoscrizione dell’atto di appello da parte di un
funzionario addetto al reparto contenzioso dell’ufficio delle imposte, ma non preposto al
reparto stesso non è valida, atteso che, negli atti a rilevanza esterna, il potere di manifestare
la volontà della pubblica amministrazione compete al titolare dell’ufficio oppure ad un
funzionario da lui delegato.
36
Cass. 5270/04 e Cass. 7082/04, in Fisco, I, 2004, p. 2790; contra Cass. 10215/03, secondo
la quale si dovrebbe applicare l’art. 88 disposizioni di attuazione del cpc, con conseguente
fissazione di una successiva udienza per la formazione del verbale di conciliazione tra le
parti munite di necessari poteri; in dottrina RUSSO, Rappresentanza legale
dell’amministrazione finanziaria, in Rivista della Scuola superiore dell’economia e delle
finanze.
26
CAPITOLO II
LA RAPPRESENTANZA E DIFESA DEL CONTRIBUENTE NEL
PROCESSO TRIBUTARIO E L’OBBLIGO DI DIFESA TECNICA
1. La rappresentanza della parte privata.
L’art. 10 del d.lgs. 31.12.1992, n. 546 individua i soggetti aventi la capacità
di essere parte nel processo tributario.
La figura del ricorrente coincide, il più delle volte, con quella del
contribuente, ossia con quel soggetto debitore del tributo, sia che egli agisca
contro un atto dell’Amministrazione Finanziaria o per il rimborso di somme
pagate senza che sia intervenuto un atto.
Ma è da rilevare che ricorrente potrà essere un soggetto cui indirettamente
sia ricollegabile una pretesa impositiva; si pensi al rappresentante legale di
una società che abbia ricevuto la notifica di un avviso di irrogazione di
sanzione nei propri confronti per infrazione commessa dalla società di
appartenenza.
Oppure, pensiamo, al sostituto di imposta che, pur essendo soggetto passivo
per obblighi propri, è tenuto a determinati adempimenti in relazione a
presupposti impositivi verificatisi nei confronti di altri soggetti e che, in tale
veste, risulti norificatatrio di una pretesa fiscale37.
La veste di ricorrente può essere assunta tanto da una persona fisica quanto
da una società, ente o associazione con o senza personalità giuridica. Nel
caso in cui il ricorrente sia un soggetto diverso da una persona fisica, sarà
ovviamente necessario che la società, ente o associazione siano rappresentati
da una persona fisica che ne abbia il potere a norma di statuto o di legge.
L’art. 11 del d.lgs 546/92, disciplina la capacità processuale per le parti
diverse dall’Ufficio del Ministero delle Finanze o dell’Ente locale.
37
Sul punto circolare ministeriale n. 98/E del 23.04.1996.
27
2.1 Il contribuente deceduto.
Notevoli problemi di natura processuale derivano dal decesso del
contribuente, anche se non si può prescindere, prima di esaminarli, dal
riprendere la disciplina che il codice civile detta in materia di successioni,
focalizzando, l’attenzione su quei principi strettamente collegati all’analisi
che si intende svolgere.
Si deve prima di tutto partire dall’apertura della successione che è
determinata dalla morte della persona, e l’art. 456 del cod. civ. stabilisce in
proposito che la successione si apre nel luogo dell’ultimo domicilio del
defunto.
La successione a causa di morte può essere a titolo universale o a titolo
particolare, quella a titolo universale che deriva dalla legge ovvero dal
testamento comporta il subentrare dell’erede nella titolarità della universalità
o di una quota di rapporti trasmissibili intestati al de cuis; mentre, la
successione a titolo particolare si configura in relazione al legato che
consiste in una attribuzione a causa di morte.
L’art. 459 del cod. civ. enuncia con chiarezza il principio che l’eredità si
acquista con l’accettazione, precisando, che l’effetto retroagisce al momento
dell’apertura della successione.
Il codice prevede un’accettazione espressa dell’eredità quando in un atto
pubblico o in una scrittura privata il chiamato all’eredità ha dichiarato di
accettarla oppure ha assunto il titolo di erede art. 475, comma 1; invece, è
tacita quando la volontà di accettare l’eredità non è espressa esplicitamente,
ma è implicita in un atto o in un comportamento che presuppone
necessariamente la volontà di accettare.
Nell’ambito tributario la complessa situazione a cui da origine il decesso di
un soggetto, che senz’altro si deve ritenere soggetto passivo di imposta,
attiene l’individuazione del nuovo soggetto su cui ricade l’obbligazione
tributaria che faceva capo al defunto. L’art. 65 del DPR n. 600/73 stabilisce
che: «gli eredi rispondono in solido delle obbligazioni tributarie il cui
presupposto si è verificato anteriormente alla morte del dante causa. Gli
28
eredi del contribuente devono comunicare all’ufficio delle imposte del
domicilio fiscale del dante causa le proprie generalità ed il proprio domicilio
fiscale». Dalla lettura di questa disposizione rileviamo alcune peculiarità
previste dal legislatore tributario rispetto alla disciplina del codice civile.
Infatti, l’art. 754 cod. civ. prevede che: « gli eredi sono tenuti verso i
creditori al pagamento dei debiti e pesi ereditari personalmente in
proporzione della loro quota ereditaria e ipotecariamente per l’intero».
L’adempimento della comunicazione delle generalità e del domicilio fiscale
degli eredi, si configura come una manifestazione della volontà di accettare
l’eredità, ossia da considerare come atto dal quale si desume un’accettazione
tacita dell’eredità. Inoltre, la disposizione prevede una responsabilità solidale
nel caso in cui vi siano una pluralità di eredi, ma senza individuare il
soggetto
onerato
alla
presentazione
della
comunicazione,
nonché,
l’indicazione delle generalità di tutti gli eredi o solo di quelli che hanno
accettato. Se consideriamo l’ipotesi più semplice, ossia l’accettazione
dell’eredità da parte di tutti gli eredi, colui che effettua la comunicazione
sopra indicata si pone nei confronti dell’Amministrazione quale destinatario
degli atti relativi all’accertamento delle imposte; inoltre, questa condizione
comporta che sia legittimato ad agire e capace di stare in giudizio dinanzi
alle Commissioni tributarie nel caso di un eventuale contenzioso relativo agli
atti in questione.
Il DPR 600/73 prevede al 4 comma, dell’art. 65 che: « può essere effettuata
agli eredi impersonalmente e collettivamente nell’ultimo domicilio dello
stesso ed è efficace nei confronti degli eredi, che almeno trenta giorni prima,
non abbiano effettuato la comunicazione di cui al secondo comma».
L’erede che ha presentato la comunicazione ha il diritto di ricevere una
notificazione personale degli atti posti in essere dall’Amministrazione,
quindi, la notifica effettuata ai sensi del comma 4 dell’art. 65 non è efficace
nei suo confronti.
Per quanto attiene gli altri eredi è necessario distinguere a seconda che
abbiano accettato o meno l’eredità. Questa situazione comporta nel primo
29
caso che l’atto impositivo assume rilevanza anche nei loro confronti in
quanto soggetti chiamati a rispondere solidalmente; mentre, nel caso in cui
gli eredi non hanno accettato l’eredità al fine di evitare l’escussione da parte
dell’Amministrazione finanziaria devono impugnare l’atto impositivo o
intervenire volontariamente in un giudizio già in corso, al fine di affermare
la nullità dell’atto nei loro confronti in quanto manca la qualità di erede.
Una ipotesi su cui dottrina e giurisprudenza non si sono occupate riguarda il
caso in cui vi siano una pluralità di eredi senza accettazione di alcuno, con la
conseguenza che nessuna comunicazione relativa alla generalità e domicilio
fiscale degli eredi arriverà al fisco. L’Amministrazione finanziaria
provvederà ad effettuare la notificazione degli atti impositivi in forma
impersonale e collettiva al domicilio del contribuente defunto. A questo
punto acquistando l’atto impositivo piene efficacia in mancanza di
impugnazione, gli eredi dovranno, necessariamente adire la Commissione
tributaria competente al fine di evitare il consolidamento dell’atto notificato.
Il 3 comma dell’art. 65 stabilisce che: «tutti i termini pendenti dalla data
della morte del contribuente o scadenti entro quattro mesi da essa, compresi
il termine per la presentazione della dichiarazione ed il termine per ricorrere
contro l’accertamento, sono prorogati di sei mesi in favore degli eredi».
Tuttavia si pone il problema di stabilire quale sia il dies a quo di decorrenza
del suddetto termine quando l’Amministrazione compie una duplice notifica
dell’atto impositivo sia all’erede che ha effettuato la comunicazione e sia
impersonalmente e collettivamente al domicilio del defunto. In dottrina38 si è
affermato di riconoscere l’esistenza di un duplice termine di decorrenza per
l’impugnazione, a seconda che si tratti o meno dell’erede che ha accettato
l’eredità ed ha effettuato la relativa comunicazione richiesta dal DPR 600/73.
38
AMBROSETTI, Il ricorso nel diritto tributario, Padova, 1999, p. 216, il quale rileva
come la questione non sia puramente teorica, ma abbia una portata pratica, in quanto
possono le notificazioni produrre effetti diversi riguardo al processo in base alle situazioni
giuridiche dei soggetti ai quali l’atto è stato notificato, relativamente alla successione
ereditaria del contribuente defunto.
30
La giurisprudenza civile e tributaria39 è univoca nel considerare la nullità
dell’accertamento nei confronti degli eredi virtuali quando la notifica sia
stata effettuata al solo nome del defunto e dell’erede autore della
comunicazione all’Amministrazione finanziaria. Decisamente, costituisce
vizio insanabile la notificazione effettata al solo nome e domicilio fiscale del
defunto.
Un aspetto processuale da considerare riguarda la trasmissibilità o meno, agli
eredi del contribuente defunto, delle obbligazioni tributarie derivanti da
sanzioni non penali. Il legislatore è intervenuto stabilendo, espressamente,
all’art. 8 del d.l. 472/1997 la non trasmissibilità delle sanzioni tributarie non
penali. Sul piano processuale, le conseguenze si traducono nell’applicazione
della regola secondo la quale gli eredi non sono soggetti passivi di atti
impositivi recanti sanzioni tributarie non penali; anche se, in un primo
momento, nel riconoscere40 alla sanzione tributaria non penale natura
soprattutto risarcitoria consentiva la trasmissibilità della stessa agli eredi del
contribuente defunto al quale era stata comminata.
2.2 L’imprenditore soggetto a fallimento.
L’art. 1 del RD 267/1942 stabilisce in linea di principio che le disposizioni
sul fallimento, concordato preventivo e sull’amministrazione controllata si
applicano solo agli imprenditori che esercitano un’attività commerciale41.
Il concetto di imprenditore è fissato dall’art. 2082 cod. civ., ed è
essenzialmente collegato al carattere professionale dell’attività economica
organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e di servizi.
Questo concetto è comune a tutti gli imprenditori agricoli e commerciali, ma
la commercialità risulta dall’art. 2195 del cod. civ. che stabilisce quali fra gli
imprenditori siano soggetti all’obbligo dell’iscrizione nel registro delle
39
Cass., I, 25.11.1995, n. 12210, in GCM, 1995, Imposte in genere – accertamento, 1940;
Comm. Trib. Centr., XII, 9.11.1990, n. 7289, in RGC,1991, Imposte in genere, 1444.
40
Comm. Trib. Centr., 25.10.1996, n. 5322, in RGC, 1997, Imposte in genere, 387.
41
E’ questa una costante tradizione dei nostri ordinamenti giuridici, in contrasto con altri.
31
imprese.
Ciò premesso, l’imprenditore commerciale può essere: una persona fisica o
una società. Per quel che riguarda la persona fisica, questa, per essere
considerata imprenditore, deve avere la capacità di esercitare l’attività
commerciale. Tale capacità coincide normalmente con la capacità di agire;
ma, può anche non coincidere, come nel caso in cui il minore emancipato o
l’inabilitato art. 425 cod. civ, abbia ottenuto dal Tribunale l’autorizzazione
all’esercizio o alla continuazione .
Per quel che riguarda le società, ricordiamo che nel nostro ordinamento si
distingue la società semplice, dalle società soggette a registrazione che
assumono una delle forme tipiche stabilite dalla legge.
Dalle società vanno invece tenute distinte le comunioni a scopo di
godimento art. 2248 cod. civ. e le associazioni in partecipazione art. 77 della
legge che non sono soggette alle procedure concorsuali.
L’art. 5 della legge fall. dispone che l’imprenditore che si trova in stato di
insolvenza è dichiarato fallito. Nel suo capoverso, l’art. 5 indica i segni con
cui l’insolvenza si manifesta: inadempimenti o altri fatti esteriori, i quali
dimostrano che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le
proprie obbligazioni.
L’insolvenza è definita come l’impotenza di soddisfare regolarmente le
proprie obbligazioni. Non è facile trovare un criterio obiettivo al quale si
possa riconoscere l’insolvenza (ad esempio non basta che il bilancio sia in
passivo). Ai fini della identificazione dell’insolvenza è da notare l’accenno
sulla “regolarità” dell’adempimento delle obbligazioni.
La dichiarazione di fallimento non è che la dichiarazione giudiziale dello
stato di insolvenza. La dichiarazione avviene con sentenza, che ha carattere
costitutivo rispetto all’apertura del concorso. Dall’art. 6 risulta che i
fallimento può essere dichiarato su richiesta del debitore, su ricorso di uno o
più creditori, su istanza del P.m. o d’uffico.
La dichiarazione di fallimento è demandata esclusivamente al Tribunale e
nel caso in cui il ricorso del creditore sia respinto, il reclamo alla Corte
32
d’Appello, ai sensi dell’art. 22, comporta in caso di accoglimento della
dichiarazione di fallimento si deve rinviare al Tribunale per l’emanazione
della sentenza.
L’art. 9 attribuisce la competenza al tribunale del luogo dove l’imprenditore
ha la sede principale dell’impresa ossia ai sensi dell’art. 2119 del cod. civ. è
la sede legale.
Il fallimento non richiede una condanna e un titolo esecutivo come
nell’esecuzione singolare, ma la dichiarazione dello stato di insolvenza. Ed è
una dichiarazione giurisdizionale, con sentenza, al punto che essa deve
esserci anche quando la successiva procedura si svolgerà sul piano
amministrativo, con la liquidazione coatta.
La sentenza accerta lo stato di insolvenza e costituisce uno stato giuridico
nuovo, agli effetti personali e patrimoniali42.
L’art. 16 stabilisce che la sentenza dichiarativa di fallimento è
provvisoriamente esecutiva.
La legge fallimentare al capo terzo titolato “degli effetti del fallimento” detta
una serie di norme, che molti autori ritengono di diritto sostanziale rispetto
alla disciplina strettamente processuale del fallimento, in ordine agli effetti
del fallimento per il fallito, per i creditori, sugli atti pregiudizievoli ai
creditori e infine sui rapporti giuridici preesistenti.
Il punto che interessa prettamente la nostra analisi attiene alla perdita della
42
V. in argomento VITALE, Milano 1968 e di PICARDI, Milano 1974, e lo scritto di
ROCCO, in Studi Asquini, 1965, pag. 1671. V. anche la scettica posizione di ANDRIOLI, p.
344 ss., secondo il quale è un «errore metodologico riferire alla sentenza dichiarativa
nozioni sistematiche, sorte in ambienti normativi diversi»; ma, in realtà, nell’ambito della
classificazione tradizionale delle sentenze l’unica collocazione possibile è quella proposta,
ed è anche collocazione doverosa, perché se è vero che la sentenza dichiarativa funge da
semplice presupposto per il ridursi di molti effetti – e quindi implica il procedimento
successivo – è anche vero che essa produce effetti suoi propri. Per l’inquadramento nella
inaccettabile categoria della giurisdizione di diritto obiettivo, MICHELI, Profilo della
sentenza dichiarativa di fallimento, in Banca, borsa, 1962, I, p. 67. Un ampia rassegna delle
opinioni in PROVINCIALI, p. 421 e ss. e, per quelle avanzate sotto il codice di commercio ,
D’AVACK, La natura giuridica del fallimento, cap. IV; più di recente, MAZZOCCA, p.
101 e BONSIGNORI, p. 546 ss.. Sull’argomento, ancora, BONGIORNO, Brevi annotazioni
critiche sul concetto sanzionatorio della dichiarazione di fallimento, in Dir. fall., 1978, I, p.
484; MAZZOCCA, Sulla natura della sentenza dichiarativa di fallimento, in Dir. fall. 1980,
II, p. 651; SIRABELLA, Natura giuridica ed effetti della sentenza dichiarativa di
fallimento, in Inform Pirola, 1981, p. 359.
33
legittimazione processuale del fallito. L’art. 43 dispone che nelle
controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del
fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore43.
E’ evidente che la sostituzione del debitore nell’amministrazione
dell’impresa non può non avere come logica conseguenza il trasferimento in
capo al curatore anche della legittimazione processuale in ordine ai rapporti
sui quali si esercita l’amministrazione.
Il legislatore pone in prima battuta attenzione a quelle situazioni patrimoniali
che sono oggetto di contestazione nel momento della dichiarazione di
fallimento. Rientrano nella disponibilità del curatore sia per promuovere che
per proseguire le azioni al fine di risolvere le contestazioni in favore del
fallimento e quelle contro.
Ulteriore problema è quello relativo all’interruzione del processo per effetto
del fallimento. Si discute se questa sia automatica o se debba essere
43
Sull’argomento v. l’importante scritto di VOCINO, Il fallito nel suo processo, in Dir. fall.
1972, I, p. 249 e quello di DE MARTINI, Attività negoziale e attività processuale del fallito
durante il fallimento, ivi 1971, I, p. 205; v. anche BORSELLI, La legittimazione
processuale del fallito, in Foro nap., 1968, III, p. 33; DE SEMO, Perdita della
legittimazione processuale del fallito e suoi limiti, in Riv. Dir. civ. 1960, I, p. 312.
Ovviamente è stata dichiarata manifestamente infondata la questione di costituzionalità della
norma: App. Lecce 27 aprile 1972, in Giust. civ. I, 2049; Cass. 2 marzo 1978 n. 1061, in
Dir. fall. 1978, II, 360; Cass. 4 luglio 1979 n. 3791, in Fallimento 1980, 297; Cass. 14
maggio 1981 n. 3172 in Giur. comm. 1982 II, p. 21. Corte Cost. (ord.) 30 dicembre 1993 n.
483, in Fall. 1994, p. 241; Dir. fall. 1994, II, p. 171, con nota di RAGUSA MAGGIORE.
Per quanto riguarda la pretesa disparità di trattamento con i creditori relativamente alla
possibilità che questi hanno, mentre al fallito è negata, di impugnare i crediti ammessi al
passivo fallimentare, la questione è stata parimenti ritenuta manifestamente infondata da
Cass. 21 gennaio 1985 n. 195, in Giust. civ. 1985, I, p. 1957. Su quest’ultimo aspetto v.
LUMIA, Sulla tutela giurisdizionale del fallito (art. 100 l. fall. e 24 Cost.), in Fallimento
1982, p. 1221 e SCALERA, Sulla legittimazione processuale del fallito, in Dir. fall. 1980,
II, p. 215. Allo scopo di garantire il diritto di difesa del fallito Cass. 14 settembre 1983 n.
7435, Fallimento 1984, p. 471, aveva ammesso una legittimazione processuale del fallito
concorrente con quella del curatore, stante la possibilità che dall’accertamento tributario
derivino effetti penali, ritenendo di conseguenza necessario che il curatore porti a
conoscenza del fallito gli accertamenti tributari. Ma già il Trib. Rimini aveva sollevato, sotto
simili profili, questione di costituzionalità (ord. 3 novembre 1981, in Giur. cost. 1982, II, p.
462), che la Corte Cost. n. 247 del 28 luglio 1983 ha risolto nel senso che è illegittimo
costituzionalmente l’art. 56 ult. Comma del DPR 29 settembre 1973 n. 600 nella parte in cui
comporta che l’accertamento dell’imposta, divenuto definitivo in conseguenza della
decisone di una commissione tributaria, vincoli il giudice penale nei confronti dell’imputato
che, come fallito, non abbia partecipato al giudizio tributario. Se ne trae che, per la Corte, il
fallito non è legittimato ad intervenire od agire, poiché nel giudizio penale l’accertamento
tributario non farà stato; potrà forse residuare la legittimazione in caso di inerzia e
disinteresse della curatela.
34
dichiarata nel processo. Secondo alcuni autori, in particolare SATTA, pare
che si tratta di cause per le quali è sottratta la legittimazione al fallito, quindi,
il processo non può proseguire se non è riassunto nei confronti del curatore.
La sostituzione del curatore nella legittimazione del fallito determina una
forma di successione, per cui il curatore assume il processo nello stato in cui
si trova44, e dall’altra parte il fallito, se perde la qualità di parte, non acquista
la qualità di terzo: onde egli non può intervenire nei giudizi, salvo, dice il
cpv. dell’art. 43, per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di
bancarotta a suo carico, o che l’intervento sia espressamente previsto dalla
legge45.
La perdita della capacità processuale è, come dice l’art. 43, limitata ai
rapporti patrimoniali compresi nel fallimento. Il fallito perciò conserva la sua
piena capacità di agire per tutti gli altri rapporti, e in particolare per quelli
derivanti dall’attività che abbia spiegato successivamente al fallimento senza
impegnare il suo patrimonio; non solo, ma la conserva anche per le azioni
che egli può spiegare in contrasto col curatore per far valere diritti propri nel
fallimento o contro il fallimento46: tipico il caso dell’opposizione alla
sentenza dichiarativa.
Capace è anche il fallito per limitati interventi che la legge gli consente di
fare nei processi instaurati dal curatore o promossi contro di lui. Come
abbiamo accennato, la legge ha abolito in linea di principio ogni potere di
intervento del fallito in questi processi: lo ha solo mantenuto, oltre i casi
espressamente indicati, per le cause quali può dipendere una imputazione di
44
Conf. Cass. 18.02.1972, n. 464 in Dir. fall., II, 565; un’applicazione del principio in Cass.
24.01.1966, n. 224, ivi 1966, II, 202, a proposito dell’opponibilità al curatore del giudicato
formatosi per nullità dell’appello proposto dal fallito prima della dichiarazione.
45
Per la tassatività delle ipotesi in cui è possibile l’intervento del fallito, Cass. 19 gennaio
1970 n. 100, cit.; App. Napoli 31 dicembre 1969, in Dir. e giur., 1970, p. 243. L’intervento
in giudizio ai sensi dell’art. 43, II° comma è stato ammesso anche per una società di capitali,
tramite necessariamente i suoi amministratori (Trib. Napoli 3 aprile 1981, in Dir. fall. 1981,
II, p. 307), ipotesi da non confondere con quella di un intervento in giudizio degli
amministratori in proprio, che sarebbe regolata invece dall’art. 105 cpc.
46
Si è ritenuto che il fallito sia legittimato a impugnare la sentenza di appello che riconosce
il credito in base al quale fu richiesto il fallimento, quando egli abbia proposto opposizione
alla sentenza dichiarativa (Cass. 31.03.1951, in Dir. fall., 112). Per ritenere esatta la
decisione occorrerebbe che l’esistenza del credito fosse decisiva ai fini della revoca, il che ci
sembra difficilmente realizzabile; occorre tener conto anche dell’art. 95, 3° comma.
35
bancarotta a suo carico art. 43 cpv.
In tutti gli altri casi, il controllo del fallito si esercita attraverso reclami
interni al fallimento che egli può fare al giudice delegato e al tribunale
fallimentare.
Esaminate le disposizioni dalla legge fallimentare sulla legittimazione
processuale del fallito, si tratta di esaminare la posizione di quest’ultimo nei
rapporti tributari.
Si afferma la permanenza della soggettività passiva del rapporto d’imposta in
capo al soggetto, pur se dichiarato fallito, che ha prodotto i relativi redditi;
da ciò discende che anche gli obblighi strumentali relativi ai tributi gravano
su di esso.
Il soggetto fallito, come già visto, perde la capacità di stare in giudizio47, che
viene trasferita al curatore fallimentare.
Il curatore in considerazione della sua funzione, di natura pubblicistica, non
può essere considerato né sostituto, né rappresentante del contribuente
fallito.
L’indirizzo prevalente della giurisprudenza48 ritiene che la perdita di
capacità processuale del fallito non sia assoluta, ma relativa, con riguardo
solo alla massa dei creditori. Di conseguenza49, lo stato di incapacità
processuale in cui si trova consente al fallito, senza autorizzazione del
curatore, di agire allo scopo di tutelare i suoi diritti strettamente personali o
patrimoniali di cui gli organi fallimentari si disinteressano50.
Pertanto, il fallito non perde la propria capacità di stare in giudizio dinanzi
alle Commissioni tributarie, conservando la possibilità di stare in giudizio
anche per la tutela di un diritto di pertinenza della massa fallimentare
47
Con riferimento all’art. 75 cpc, che attribuisce la capacità di stare in giudizio a coloro che
hanno il libero esercizio dei diritti che nel giudizio intendano far valere, TAR Toscana, ord.
30.02.1986, in RGC, 1986, Giustizia amministrativa, 720, ha negato che il fallito sia
legittimato a proporre ricorso innanzi agli organi della giurisdizione amministrativa.
48
Soprattutto della Corte di Cassazione: 7.12.1990, n. 11727, in GCM, 1990, Fallimento –
dichiarazione, 2003; 5.11.1990, n. 10612, ibidem, Cassazione civile – deposito di atti, 1835;
9.9.1986, n. 5496, ivi, 1986, ivi, 1967, Appello, 165.
49
Cass., II, 23.07.1994, n. 6873, in GCM, 1994, Impugnazioni civili, 994.
50
In senso analogo Cass., I, 27.10.1994, n. 8860, in GCM, 1994, Fallimento-dichiarazione,
1296.
36
nell’ipotesi di inerzia della curatela.
Laddove all’inerzia del curatore, il fallito agisca personalmente, la
controparte della relativa controversia non sarebbe legittimata a proporre
l’eccezione di difetto di legittimazione processuale, né d’ufficio il giudice.
Nel riportare quanto indicato dai giudici di legittimità51, il fallito conserva la
propria capacità processuale, sia rispetto ai beni ed ai diritti che non sono
acquisibili alla massa fallimentare, sia in relazione a quei rapporti di diritto
patrimoniale che, pur potendo essere compresi nel fallimento, di fatto in esso
rientrano solo per ragione del disinteresse manifestato dagli organi
fallimentari, i quali abbiano omesso di agire o di resistere in giudizio per una
loro tutela.
Contro tale presa di posizione da parte della Cassazione vi è chi ritiene52
l’orientamento seguito una forzatura, visto soprattutto come il tentativo di
introdurre nell’ordinamento una norma inesistente una sorta di 16 bis del
DPR 26.10.1972, n. 636 ovvero un nuovo art. 21 bis del dlgs 31.12.1992, n.
546.
In altri termini si può affermare che il soggetto fallito, nel caso in cui il
curatore fallimentare sia processualmente inerte, si vede riconosciute tanto la
legittimità ad agire, quanto quella processuale, essendosi espressamente
affermato che l’accertamento tributario, laddove si riferisca ad obbligazioni i
cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento
del contribuente, ovvero ad obbligazioni relative al periodo d’imposta
durante il quale tale dichiarazione è stata resa, deve essere notificato sia al
curatore, che all’imprenditore fallito53.
Il curatore può decidere di stare in giudizio ed in tale ipotesi è stata ritenuta
priva di fondamento54 giuridico la pretesa, da parte dell’Amministrazione
51
Nella sentenza n. 3321 del 20.03.1993, riportata anche in FINOCCHIARO A. –
FINOCCHIARO M., Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, 146, nt.
5.
52
FINOCCHIARO A. – FINOCCHIARO M., Commentario al nuovo contenzioso
tributario, Milano, 1996, 146, nt. 5.
53
Così espressamente Cass., 11.07.1995, n. 7561, in GC, 1995, I, 2941 e la più recente
Comm. Trib. Centr. 1.04.1998, n. 1816, in DPT, 1999, II, 1450.
54
Comm. Trib. Imperia, V, 4.06.1997, n. 232, in GN, 1998, 817 ss.
37
finanziaria, di inammissibilità del ricorso sottoscritto dal curatore senza
assistenza di un difensore abilitato ex art. 12 d,lgs 546/92. A questa
conclusione si è giunti ritenendo il curatore soggetto dotato dei requisiti per
poter stare personalmente in giudizio e compiere validamente da sé l’attività
processuale.
Il divieto imposto, dal 3° comma dell’art. 31 della l. fall., al curatore di
assumere la veste di difensore nei giudizi che interessano il fallimento, non
trova applicazione se il giudice delegato autorizza il curatore ad impugnare
un avviso di accertamento senza nominare altro difensore poiché manca
un’espressa previsione di legge in tal senso. Si ritiene, pertanto, che la
sottoscrizione del ricorso da parte del curatore fallimentare, che rientra in
una delle categorie professionali previste dall’art. 12 dlgs 546/92, non
comporta alcuna ipotesi di nullità secondo le norme del processo tributario.
Il curatore che ricorre in giudizio è dotato della legittimità ad agire e
processuale, anche se necessità dell’autorizzazione del giudice delegato55.
Il difetto di legittimazione è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado,
fermo il limite della formazione del giudicato sul punto, senza poter essere
sanato56.
A tal proposito nelle casi di accertamento per anni precedenti alla
dichiarazione di fallimento, la giurisprudenza tributaria si è espressa
affermando la necessità della notifica dell’accertamento non solo al curatore
ma anche al contribuente-imprenditore, successivamente, dichiarato fallito57.
Infatti, si deve rilevare che il fallito continua ad essere soggetto passivo del
55
Art. 25, n. 6, l. fall. (poteri del giudice delegato): «Il giudice delegato autorizza per iscritto
il curatore a stare in giudizio come attore o come convenuto (omissis) l’autorizzazione deve
essere sempre data per atti determinati e per i giudizi deve essere data per ogni grado».
Art. 31 l. fall. (Poteri del curatore): «Il curatore non può stare in giudizio senza
l’autorizzazione scritta del giudice delegato, salvo in materia di contestazioni e di tardive
denunzie di crediti e di diritti reali mobiliari»; autorizzazione, questa, che viene dalla
dottrina richiesta per ogni grado di giudizio ed il cui difetto produce il difetto di
legittimazione del curatore, indipendentemente dalla legittimità processuale assunta dal
curatore nei gradi precorsi MAFFEI ALBERTI, Commentario breve alla legge fallimentare,
Padova, 1991, p. 111.
56
Comm. Tib. I g Roma, 16.10.1989 e successivamente Comm. Trib. Centr., XI,
19.05.1993, n. 1920, in TESAURO, Il processo tributario, Torino, 1998, p. 190 ss.
57
Comm. Trib. Centr., XXIII, 26.4.1999, n. 3579, in GN, 2000, 383.
38
rapporto tributario e, quindi, colpito dagli effetti della pretesa fiscale.
Alla luce delle conclusioni cui è giunta la giurisprudenza58 si ritiene che il
soggetto
dichiarato fallito mantiene la capacità processuale per
l’impugnazione di una pretesa fiscale notificata al curatore che decide di non
impugnare.
La legittimazione del fallito trova riscontro nel principio costituzionale
dell’art. 24 sulla garanzia del diritto di difesa, in quanto, gli atti impositivi
non impugnati diventano definitivi ed in grado di produrre i propri effetti nei
confronti del fallito senza più alcuna possibilità di difesa da parte di
quest’ultimo.
La
valutazione
da
parte
del
curatore
fallimentare
sull’opportunità o meno di impugnare le pretese del Fisco è effettuata
nell’interesse dei creditori e non del fallito59.
2.3 Il sostituto d’imposta.
Il sostituto d’imposta, indirettamente definito dall’art. 64 del DPR 600/7360,
risulta essere colui che è tenuto all’adempimento della prestazione tributaria
i cui presupposti impositivi oggettivi e soggettivi si realizzano in capo ad un
diverso soggetto passivo.
Nel diritto tributario il termine sostituzione d’imposta non indica un
fenomeno di sostituzione così come avviene in altri settori del diritto, ma
consiste nella volontà del legislatore di addossare l’imposta su di un soggetto
58
Soprattutto le sentenze della Corte di Cassazione: 17.3.1995, n. 3094, in F, 1995 5108;
20.12.1994, n. 10957, in BT, 1995, 1272; Cass., 20.3.1993, n. 3321.
59
Rileva TESAURO, Il processo tributario, Torino, 1998, p. 190, come non sia ben chiaro il
motivo per cui il fallito, per poter impugnare l’atto emesso dall’Amministrazione finanziaria
nei suoi confronti, debba in ogni caso attendere la decisione del curatore, il quale peraltro
per poter stare in giudizio deve addirittura essere munito dell’autorizzazione scritta in tal
senso dal giudice delegato. Da parte sua poi BRIGHENTI, Legittimazione del fallito ad
impugnare i provvedimenti impositivi: un passo avanti ed uno indietro, in BT, 1995, 1274
lamenta come nessuno si sia preoccupato di spiegare cosa accade nell’ipotesi in cui il
curatore non coltivi l’impugnazione.
60
In cui è dato di leggere: «Chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di
imposte in luogo di altri, per fatti o situazioni a questi riferibili ed anche a titolo di acconto,
deve esercitare la rivalsa se non è diversamente stabilito in modo espresso», aggiungendo
poi che «il sostituto ha la facoltà di intervenire nel procedimento di accertamento di
imposta».
39
- sostituito - per poi trasferirla su di un altro - sostituto -61. Quindi, il
soggetto passivo non è colui nei cui confronti si realizzano i presupposti
impositivi, bensì un diverso soggetto direttamente investito dalla legge
dell’onere di adempiere all’obbligazione del sostituito. Il meccanismo si basa
sul fatto che, nella totalità dei casi, il sostituto è debitore verso il sostituito di
una somma di denaro che costituisce una componente di reddito per il
soggetto percettore; per tale motivo il legislatore ha imposto al sostituto
l’obbligo di trattenere parte di queste somme per poi versarle direttamente al
Fisco.
Alla luce di questa impostazione tra Amministrazione finanziaria e sostituto
si costituisce un rapporto d’imposta, mentre, si ritiene di far rientrare nei
normali rapporti di natura privatistica quello tra sostituto e sostituito.
La questione da sempre sollevata riguarda l’individuazione dell’autorità
competente a dirimere le controversie tra sostituto e sostituito62, tenuto conto
delle non poche discussioni affrontate soprattutto in sede giurisprudenziale.
Al fine di analizzare le problematiche sopra indicate è utile esaminare con
particolare attenzione il più recente intervento della Cassazione a Sezioni
Unite sul punto.
La Suprema Corte con la sentenza del 26 giugno 2009, n. 15031, ha
affermato che la controversia tra sostituto d’imposta e sostituito, relativa
all’esercizio del diritto di rivalsa delle ritenute alla fonte, appartiene alla
giurisdizione ordinaria.
Nel caso di specie, un libero professionista, ricorre per la cassazione della
sentenza con la quale il Giudice di Pace accoglie l’opposizione proposta
dall’Ente comunale avverso l’esecuzione forzata intrapresa dal legale del
ricorrente per ottenere il pagamento di un certo importo corrispondente alla
ritenuta IRPEF operata dal predetto Ente, in qualità di sostituto d’imposta,
61
Così MICHELI, Corso di diritto tributario, Torino, 1989, p. 76 ss.
In dottrina si sono occupati dell’argomento in parola, tra i molti: BRIGHENTI, Le
controversie tra Fisco, sostituto d’imposta e sostituito e la tesi del litisconsorzio necessario,
in RDF, 1990, p. 19; POTITO, L’azione di accertamento di ripetizione dell’indebito in
materia tributaria, ivi, 1974, p. 125 ss.; TESAURO, In tema di giurisdizione e competenza
per le controversie tra sostituto e sostituito, in DPT, 1979, II, p. 320.
62
40
sulla maggior somma dovuta (e corrispondente al netto della ritenuta stessa)
a titolo di onorario.
Il quesito formulato dal ricorrente, in merito alle problematiche
sopraindicate, è il seguente: « .. se la questione relativa alla legittimità della
ritenuta d’acconto esorbita dalla giurisdizione del Giudice ordinario e rientra
nella giurisdizione del Giudice tributario ».
Secondo la Corte il problema è mal posto, ma ritiene la questione di
particolare importanza.
Il legittimo e corretto esercizio del diritto di rivalsa che il sostituto applica
nei confronti del sostituito si svolge all’interno di un rapporto prettamente
privatistico, ed in quanto tale, rientra nell’ambito della competenza del
giudice ordinario. Considerata questa ricostruzione del rapporto si ritiene che
la previsione del diritto di rivalsa in capo al sostituto d’imposta, in base
all’art. 64 DPR 600/73, non deve indurre a collegare la natura tributaria della
norma ad un rapporto di tipo pubblicistico. A sostegno si deve rilevare che
nessuno dei due soggetti è investito di una “potestas impositiva”, e nello
stesso tempo non vi è un provvedimento adottato rispetto ad una autoritativa
pretesa. Il sostituto è tenuto ad osservare determinati obblighi tributari diretti
ad agevolare e garantire la riscossione, questi oneri rientrano sul versante
pubblico del rapporto (sostituto-fisco). Nelle controversie tra sostituto e
sostituito alla base vi è un interesse privato relativo all’esercizio del diritto di
rivalsa cui corrisponde un obbligazione ex lege.
Nel seguire questa analisi la Corte ritiene che solo i rapporti tributari, i quali
si caratterizzano per la presenza di una delle parti dotata di potestà
impositiva che si traduce in un atto impositivo, rientrano nella competenza
del giudice tributario. Tuttavia proprio il legislatore traccia questa
distinzione in base al combinato disposto dell’art. 2 con gli artt. 10 e 19 del
dlgs. 546/97. L’art. 10 rubricato “Parti” individua i soggetti aventi la
capacità di essere parte nel processo tributario. La figura del ricorrente
coincide, quasi sempre, con quella del contribuente, mentre, quella resistente
coincide con l’ente che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto
41
richiesto ma sempre espressione della potestà impositiva. Inoltre, l’art. 19
indica, anche se ormai si ritiene che l’elencazione non sia da considerare
perentoria, gli atti da impugnare dinanzi alle Commissioni. Dallo schema
normativo si rileva come la giurisdizione tributaria è finalizzata ad esaminare
le istanze del contribuente avverso le pretese dell’Amministrazione
finanziaria, e non a dirimere controversie di carattere privatistico anche se
traggono origine da norme tributarie. L’art. 2 del dlgs. così come novellato,
dall’art. 12 della l. 448/2001, estendendo la giurisdizione del giudice
tributario a tutte le controversie aventi ad oggetto tributi di ogni genere e
specie ha posto il problema sulla possibilità di ricorrere alle Commissioni
tributarie in assenza di un atto impositivo. Se però si pone in risalto il
carattere impugnatorio del contenzioso tributario secondo la Corte:
«l’eventuale eliminazione di tale limite non sarebbe senza conseguenze sul
piano della legittimità costituzionale, perché trasformerebbe indebitamente il
giudice speciale, con giurisdizione limitata alla legittimità degli atti
impositivi, in giudice dei tributi a competenza generalizzata (arg. ex Cort.
Cost. sent. 204/2004)». E’ proprio alla luce di tale convincimento il Collegio
ritiene che non possa essere supertata la struttura impugnatoria del processo
tributario rendendo necessaria la sussistenza di un atto impositivo. A
conforto di tale ricostruzione si osserva che la novella apportata all’art. 19
con l’inserimento di altre categorie di atti impugnabili, dimostra come il
legislatore non ha voluto eliminare le barriere poste da tale articolo.
Si afferma la centralità della giurisdizione ordinaria rilevando che il riparto
di giurisdizione non si può fare in base a “blocchi di materie”, senza
distinguere attività in cui si evince o meno l’esercizio di un potere per il
perseguimento di interessi pubblici.
Posto che nelle controversie tra sostituto e sostituito non vi è un
provvedimento di diniego emanato da un organo amministrativo ed una
domanda rivolta direttamente all’ente impositore, il sostituto che esercita la
rivalsa non è da considerare, pertanto, soggetto attivo del rapporto tributario.
Infatti, quale soggetto passivo è tenuto ad effettuare la dichiarazione IRPEF
42
quale sostituto ed a versare la ritenuta.
Pur riconoscendo la consolidata giurisprudenza di legittimità che rimette
alla giurisdizione tributaria le controversie tra sostituto e sostituito, il
Collegio ritiene che per aversi controversia tributaria non è sufficiente che
l’oggetto del giudizio riguardi una pretesa fiscale, ma è condizione
imprescindibile che la domanda sia rivolta all’ente impositore. Altresì, è da
segnalare che le prime pronunce della Cassazione si orientavano proprio in
questo senso63, anche se successivamente si è andato consolidando
l’orientamento secondo cui: la ritenuta rappresenta un obbligo strumentale
ed accessorio rispetto all’obbligazione d’imposta è, quindi, viene assorbita
dal più ampio rapporto obbligatorio64.
Ribadito che non tutte le questioni derivanti da norme tributarie comportano
ipso iure il ricorso alle Commissioni tributarie, lo stesso principio si riscontra
per alcune norme del cod. civ. che distribuiscono tra privati il carico fiscale.
Infatti, l’art. 964 del cod. civ. attribuisce a carico dell’enfiteuta le imposte
che gravano sul fondo (1008 cod. civ. in tema di usufrutto e l’art. 1025 per
quanto riguarda il diritto di uso ed abitazione). Anche se queste disposizioni
sono proiezioni di norme tributarie, ciò non comporta che le questioni
nascenti siano distratte dalla competenza del giudice ordinario.
In conclusione, la Cassazione afferma che: «le controversie tra sostituto e
sostituito, relative all’esercizio del diritto di rivalsa delle ritenute alla fonte,
versate direttamente dal sostituto volontariamente o coattivamente, non sono
attratte alla giurisdizione del giudice tributario, ma rientrano nella
giurisdizione del giudice ordinario».
3 Il litisconsorzio.
63
Cass. 5344/1987 conf. Cass. 2889/83.
Cass. 1200/1988, a tale indirizzo si è uniformato tutta la giurisprudenza successiva Cass.
5095/1997, 10456/1997, 12731/1997, 9074/2003, 23019/2005, 11650/2006, 418/2007,
17076/2007, 20546/2008 e 26013/2008.
64
43
Con la parola litisconsorzio65 si indica il fenomeno per il quale le parti nel
processo sono più di quelle due, attore e convenuto, che sono indispensabili
affinché sorga il processo.
La presenza di più parti nel giudizio dipende dal fatto che il rapporto
sostanziale fatto valere riguarda più di due soggetti; pertanto, l’eventuale
necessità della presenza di più parti nel processo non è che un corollario
della regola della legittimità ad agire.
La nozione letterale di litisconsorzio presuppone una controversia già
iniziata, un’unione di più persone che abbiano già assunto la veste di parte in
senso formale in un processo. Invece, la disciplina vigente si riferisce
prevalentemente alla necessità o alla possibilità che più persone agiscano o
siano convenute nello stesso processo. Gli artt. 102, comma 1, per il
litisconsorzio necessario e 103, comma 1, cpc per il litisconsorzio
facoltativo, definiscono «parti» soggetti che non hanno ancora agito o che
non sono ancora stati convenuti in giudizio, che non hanno ancora assunto la
veste di parte in un processo66.
Le nozioni letterali di litisconsorzio necessario e facoltativo e quelle
deducibili dagli artt. 102 e 103 cpc creano confusione, favorita dalla
collocazione della disposizione contenuta nell’art. 103, comma 2, che
prevede: «il giudice può disporre, nel corso della istruzione o nella
decisione, la separazione delle cause, se vi è istanza concorde di tutte le
parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o
renderebbe più gravoso il processo». La collocazione della norma induce
l’interprete a ritenere che, ogniqualvolta la partecipazione di più persone al
65
Litisconsorzio, sul piano semantico, indica l’unione di più persone in una controversia;
litisconsórcio (litis cum sors) evoca una lite già iniziata da (o nei confronti di) più persone,
le quali possono, congiuntamente, soccombere o riuscire vittoriose. Anche i termini
corrispondenti in altre lingue rimandano a fenomeni analoghi: tralasciando quelli con la
medesima origine (sul litisconsórcio nel diritto brasiliano, con un’approfondita analisi
comparatistica, v. BARBOSA MOREIRA, J., Litisconsórcio unitário, Rio de Janeiro, 1972).
66
Se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o
essere convenute nello stesso processo. Più parti possono agire o essere convenute nello
stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto o
per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione dipende, totalmente o
parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni, REDENTI, Il giudizio civile con
pluralità di parti, Milano, 1960.
44
processo è rimessa, in presenza di determinate condizioni, alla iniziativa
delle parti sia possibile disporre la separazione delle cause. Ma non è così,
perché non in tutte le ipotesi in cui la creazione del litisconsorzio è affidata
all’iniziativa di parte è possibile separare le cause. E, d’altro canto, non in
tutti i casi in cui il litisconsorzio è imposto dalla legge si costituisce fra le
parti presenti una inscindibile comunanza di sorti. Una prima importante
considerazione da fare, nell’affrontare la problematica del litisconsorzio –
necessario o facoltativo -, consiste nel tenere distinte le questioni relative
allo svolgimento dei giudizi con pluralità di parti da quelle relative alla
individuazione dei presupposti della necessità o della possibilità del
litisconsorzio67.
Il litisconsorzio necessario costituisce un limite alla libertà di agire in
giudizio, perché subordina l’emanazione della pronuncia sul merito alla
estensione della domanda ad altri soggetti diversi dall’attore e dal convenuto
originari e, cioè, alla sua proposizione nei confronti di soggetti non
individuati dal solo attore. In dottrina si è cercato di conciliare la disciplina
del litisconsorzio necessario con il principio della domanda tradizionalmente
inteso e con la libertà di agire, affermando che la partecipazione di più parti
nel processo è necessaria solo quando non sia citato alcuno dei soggetti nei
confronti dei quali si chiede sia emessa la decisione68.Questa interpretazione
non tiene conto dei poteri, riconosciuti al giudice dagli artt. 112, 113 e 183,
comma 2 cpc, di fornire la qualificazione del rapporto giuridico controverso,
senza limitarsi a quanto affermato nella domanda introduttiva69 anche se,
comunque, si tratta di una tesi disattesa dalla giurisprudenza70.
67
CHIOVENDA, Sul litisconsorzio necessario, in Saggi di diritto processuale civile, II,
Roma, 1931, p. 427.
68
In tal senso DENTI, Appunti sul litisconsorzio necessario, in Riv. dir. proc., 1959, p. 14;
PROTO PISANI, Opposizione di terzo ordinaria, Napoli, 1965, p. 608; PROTO PISANI,
Dell’esercizio dell’azione, in Comm. Allorio, I, 2, Torino, 1973, 1098.
69
COSTANTINO, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979;
CERINO CANOVA, La domanda giudiziale e il suo contenuto, in Comm. Allorio, II,
Torino, 1980, p. 7; COMOGLIO, Il principio di economia processuale, Padova, 1980, capp.
II e III.
70
Cass., 21 maggio 1980, n. 3339, in Foro it., 1980, I, 2798, che ha dedotto l’esistenza di un
soggetto, il quale avrebbe dovuto partecipare al processo quale litisconsorte necessario, da
45
L’opinione di gran lunga prevalente è quella che collega la necessità del
litisconsorzio alla esistenza di rapporti giuridici unici con pluralità di parti e,
quindi, alla necessaria coincidenza fra parti del rapporto sostanziale e parti
del processo71.
Altri interpretano la disposizione richiamando il principio del contraddittorio
o il concetto di connessione particolarmente intensa fra rapporti giuridici
bilaterali.
In realtà la ratio dell’istituto può consistere nell’esigenza di tutelare il diritto
alla difesa dei terzi sottoposti, pur senza partecipare al processo, agli effetti
della decisione, oppure in quella di fornire alle parti già presenti in causa non
un qualsivoglia provvedimento di merito, ma una sentenza idonea a regolare
compiutamente il rapporto giuridico controverso.
In considerazione dei limiti imposti alla libertà di agire, quindi occorre
verificare rispetta a ciascuna azione proposta gli effetti ad essa collegati
dall’ordinamento positivo ed individuare, rispetto a tali effetti, i soggetti che
debbono partecipare al processo, affinché essi si possano compiutamente
realizzare. In altre parole, la necessità del litisconsorzio non va affermata in
base alla causa pretendi, ossia agli elementi costitutivi della fattispecie da cui
deriva il diritto dedotto in giudizio, ma in base al petitum, ossia al risultato
giuridico perseguito in giudizio72.
Da un punto di vista processualcivilistico, che ritroviamo anche nel processo
tributario, in considerazione degli artt. 102, comma 2, 307, comma 3 e 310,
comma 1, cpc se la domanda non è proposta da – o nei confronti - di tutti i
litisconsorti necessari, il giudice dispone l’integrazione del contraddittorio e,
se le parti non ottemperano, il processo si estingue, con salvezza di
riproponibilità dell’azione73.
Inoltre, il problema che si pone consiste nell’individuare gli effetti
un riferimento contenuto nella comparsa conclusionale di primo grado ed ha
conseguentemente rimesso la causa al primo giudice.
71
TOMEI, Alcuni rilievi in tema di litisconsorzio necessario, in Riv. dir. proc., 1980, p. 669.
72
COSTANTINO, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979.
73
ANDRIOLI rilevava che «la legittimazione non può più essere considerata una
condizione dell’azione», in Commento al Codice di procedura civile, I, 1° ed., Napoli, 1941,
p. 256.
46
processuali e sostanziali della domanda proposta da – o nei confronti – di
alcuni dei litisconsorzi necessari. Parte della dottrina attribuisce diversi
effetti a tali domande, a seconda che la necessità del litisconsorzio sia
secundum tenorem rationis – cioè in ipotesi di contitolarità del rapporto
giuridico controverso – oppure propter opportunitatem – cioè in ipotesi
diverse dalla contitolarità del rapporto giuridico controverso74.
Poiché la disciplina processuale applicabile ai due gruppi di ipotesi è la
medesima ed implica comunque la continuazione del processo pur iniziato in
assenza di alcuni litisconsorzi e, posto che la ratio dell’istituto prescinde
dagli elementi costitutivi della fattispecie da cu deriva il diritto dedotto in
giudizio e va, collegata, invece, alla idoneità del provvedimento di merito a
realizzare tutti gli effetti previsti dall’ordinamento in relazione ad una data
domanda, si è ritenuto, sulla scia della giurisprudenza, che la domanda
proposta da – o nei confronti – di alcuni soltanto dei litisconsorzi necessari
sia idonea a determinare la pendenza del processo e, qualora il
contraddittorio sia successivamente integrato, ad impedire la decadenza ed
interrompere la prescrizione; mentre, non sia comunque idonea a produrre
quegli altri effetti processuali e sostanziali espressamente collegati dalla
legge alla notifica dell’atto introduttivo ovvero all’acquisto della qualità di
parte in senso formale75.
Analizzata l’ipotesi in cui vi è la necessità che più persone assumano la veste
di parte in un processo, con l’art. 103, comma 1, cpc si indicano, invece, le
condizioni in presenza delle quali è possibile che più persone agiscano o
siano convenute nel medesimo processo76.
Le condizioni consistono nella connessione fra le diverse domande proposte
74
PROTO PISANI, Litisconsorzio necessario e diritti anteriormente quesiti, in Riv. dir.
proc., 1966, p. 480, per il quale finché non è integrato il contraddittorio, la domanda è
inidonea a produrre qualsivoglia effetto; nello stesso senso VACARELLA, Inattività delle
parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975, p. 149; e, con esclusivo
riferimento alla litispendenza, FRANCHI, La litispendenza, Padova, 1963, p. 189.
75
COSTANTINO, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979.
76
FABBRINI, Litisconsorzio, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, p. 810.
47
dai più attori o nei confronti dei più convenuti o nella identità di questioni77.
Senza affrontare ulteriori punti in merito al litisconsorzio facoltativo,
comunque, si rileva che la ratio dell’istituto è comunemente ravvisata nella
esigenze di economia processuale e, in particolare, di impegnare un solo
giudice per più cause e di evitare la moltiplicazione di atti e di prove.
Una delle più importanti e considerevoli novità nel campo del contenzioso
tributario attiene senza dubbio alla normativa sul processo con pluralità di
parti disciplinato dall’art. 14 del d.lgs. 546/92.
Il legislatore nella previgente disciplina sul contenzioso tributario, contenuta
nel DPR 636/72, non aveva previsto una disposizione ad hoc che
regolamentasse giuridicamente il litisconsorzio nel processo tributario. Le
difficoltà applicative riscontrate dalle Commissioni tributarie volte a gestire
e regolare rapporti tributari plurisoggettivi rappresentavano la diretta
conseguenza di questo vuoto legislativo.
Molti studiosi di diritto tributario, infatti, si sono soffermati sul motivo per
cui il legislatore del ’92 abbia voluto disciplinare ex novo il litisconsorzio,
istituto allora estraneo al processo tributario.
La risposta a tale interrogativo risiede, con molta probabilità, nel fatto che il
legislatore volesse garantire nel processo tributario, in modo efficace,
principi di equità sostanziale tra le parti processuali in modo tale che più fatti
rilevanti ai fini tributari e riguardanti più contribuenti ai fini fiscali,
ricevessero un esame ed una omogenea valutazione.
La norma in esame costituisce l’attuazione del principio contenuto nella
legge delega n. 413/1991, lettera g), n. 2, che prevede: «la previsione o la
disciplina dell’intervento e della chiamata in giudizio di soggetti che hanno
lo stesso interesse, in quanto, insieme al ricorrente, destinatari dell’atto
impugnato o parti del rapporto tributario controverso».
Il legislatore del ’92, nella relazione ministeriale, pur ammettendo la natura
“embrionale” dell’istituto, cerca di mettere in luce gli aspetti più significativi
77
TARZIA, Il litisconsorzio facoltativo nel processo di primo grado, Milano, 1972;
LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, I, 4° ed., Milano, 1981, p. 94;
ANDRIOLI, Diritto processuale civile, 10° ed., a cura di C. Punzi, Padova, 1987, p. 155.
48
e caratteristici della normativa in vigore, utilizzando sì una terminologia
tipicamente processualcivilistica ma con la specifica finalità di rendere la
materia conforme ai rapporti meramente tributari.
L’art. 14, comma 1, così recita: «Se l’oggetto del ricorso riguarda
inscindibilmente più soggetti, questi devono essere tutti parte nello stesso
processo e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni di
essi».
Nel primo comma dell’art. 14, il legislatore ha voluto esplicitare
l’instaurazione di un processo complesso da un punto di vista soggettivo,
procedendo così alla definizione di litisconsorzio necessario. Questo ricorre
ogni qualvolta si deduce in giudizio un unico ed inscindibile rapporto
giuridico sostanziale che, riguardando contemporaneamente, più soggetti,
impone la presenza di tutti al fine di rendere effettiva ed efficace la tutela
giurisdizionale.
Per questo motivo, quando l’oggetto del ricorso riguarda più soggetti
necessariamente collegati, è richiesta la partecipazione obbligatoria di tutte
le parti al medesimo processo, in quanto la controversia non può essere
decisa limitatamente ad alcuni di essi.
Dalla lettura dell’art. 102 del cpc, emerge un’apparente somiglianza di
contenuti con l’art. 14 del d.lgs 546/92, ma la Corte di Cassazione a SS.UU.,
a tal proposito, con la sentenza n. 1052 del 2007 si è espressa nel ritenere
che: «il litisconsorzio necessario debba essere considerato come fattispecie
autonoma rispetto a quella contenuta e disciplinata nel codice di rito, di cui
all’art. 102, in quanto la norma che regolamenta la fattispecie litisconsortile
necessaria non può essere considerata, come quella processualcivilistica,
“una mera norma in bianco”, ma debba essere collegata a presupposti tipici
del processo tributario: l’inscindibilità della causa tra una pluralità di
soggetti specificata dall’oggetto del ricorso». Quindi, nel processo tributario
sarà la domanda giudiziale a determinare l’oggetto del processo e a costituire
riferimento funzionale per valutare l’inscindibilità della causa tra soggetti.
Non tutti gli esponenti della dottrina guardano positivamente alla figura del
49
litisconsorzio nel processo tributario, in quanto, viene considerato un
ostacolo alla ragionevole durata del processo.
Per contro, obiettano gli esponenti della dottrina maggioritaria, secondo i
quali la ragionevole durata del processo è funzionale nella misura in cui non
contrasti con i principi che trovano riconoscimento a livello costituzionale
artt. 3 e 53 della Costituzione. Infatti, è proprio il principio della capacità
contributiva a costituire il valore di riferimento che il litisconsorzio
necessario vuole garantire e tutelare; difatti, ogniqualvolta l’atto impositivo
include elementi comuni ad una pluralità di soggetti obbligati, è necessario
un unico accertamento giudiziale in quanto pronunce distinte e configgenti
sulla fattispecie costitutiva dell’obbligazione falsificherebbero in maniera
significativa
il
rapporto
tra
imposizione
e
capacità
contributiva
dell’obbligato.
Molte sono le titubanze in merito alla corretta individuazione dei casi
concreti di litisconsorzio necessario poiché alcuni studiosi attribuiscono alla
normativa in esame un “mero valore teorico”, sostenendo che nel processo
tributario non vi sono casi di litisconsorzio necessario; mentre, sono di
avviso contrario un’altra parte della dottrina e della giurisprudenza, in
quanto, pur con motivazioni discordanti tra loro, specifiche ipotesi di
litisconsorzio necessario nel contenzioso tributario.
La dottrina prevalente ha individuato tre ipotesi in cui si ravvisa la necessaria
presenza di più soggetti in giudizio:
1) nei casi in cui si rileva in giudizio un rapporto plurisoggettivo tale da
ritenere necessario ed obbligatoria la partecipazione nel processo di ciascun
soggetto titolare di tale rapporto (in queste ipotesi si parla di litisconsorzio
necessario per ragioni sostanziali);
2) nei casi in cui un terzo interviene in giudizio per far valere un diritto
altrui; in queste ipotesi tassativamente indicate dalla legge, accanto alla
legittimazione del terzo si rende necessaria anche la presenza del soggetto
titolare del diritto dedotto in giudizio (litisconsorzio necessario per motivi
processuali);
50
3) per le ipotesi in cui, pur non deducendosi in giudizio ragioni sostanziali o
processuali che impongono la necessaria partecipazione di più soggetti, il
giudice procede all’integrazione del contraddittorio per ragioni di mera
opportunità (litisconsorzio necessario propter opportunitatem).
Una tematica strettamente attinente all’istituto del litisconsorzio è quella
dell’integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorzi assenti.
In presenza di litisconsorzio necessario, quando il ricorso non viene proposto
da o nei confronti di tutti i soggetti, il giudice ordina l’integrazione del
l’integrazione del contraddittorio mediante la chiamata in causa dei
litisconsorti assenti, entro un determinato termine stabilito a pena di
decadenza. Secondo l’art. 14, comma 2, del d.lgs. 546/92, è previsto che:
«Se il ricorso non è stato proposto da o nei confronti di tutti i soggetti
indicati nel comma 1 è ordinata l’integrazione del contraddittorio mediante
la loro chiamata in causa entro un termine stabilito a pena di decadenza».
In considerazione della genericità di questa disposizione appare opportuno
effettuare una serie di precisazioni. Innanzitutto la vocativo in ius si
sostanzia, concretamente, in un invito a comparire nei confronti del
litisconsorte necessario assente in modo tale che questi possa essere messo
nella condizione di presentarsi in giudizio facendo valere le proprie ragioni
ed eccezioni. Il difetto di integrità del contraddittorio può essere rilevato
d’ufficio o su istanza di parte, in ogni stato e grado del processo e, quindi,
anche dal giudice di
legittimità, salvo che ciò non sia precluso da un
giudicato, esplicito o implicito, formatosi sul punto. Il vizio di mancata
integrazione del contraddittorio, che investe negativamente l’efficacia del
procedimento, può essere sanato o per l’iniziativa dello stesso litisconsorte
pretermesso che interviene spontaneamente nel processo notificando a tutte
le parti presenti in giudizio un atto di intervento da lui stesso sottoscritto,
oppure a seguito della rilevazione da parte del giudice. Se, invece, la
chiamata del litisconsorte assente è rilevata ex officio, sarà il giudice a
verificare se è necessario o meno l’integrazione del contraddittorio; per fare
tutto questo dovrà avere riguardo della domanda che costituisce oggetto della
51
controversia, in quanto è questa che ne delimita l’ambito e di conseguenza la
portata della pronunzia. Se, invece, la chiamata del litisconsorte pretermesso
è rilevata su istanza di parte, spetterà al richiedente dimostrare non solo quali
sono i soggetti che devono partecipare necessariamente al processo, in
quanto litisconsorti necessari, ma soprattutto quali sono i presupposti di fatto
che giustificano l’integrazione stessa del contraddittorio.
Il vizio di integrazione del contraddittorio può essere non sanato, oppure può
accadere che l’integrazione non sia rilavata dalla Commissione tributaria, né
eccepitola alcuna delle parti in causa, in tutti questi casi la sentenza emessa a
contraddittorio non integro si considera inutiliter data, ovverosia inefficace
non soltanto nei confronti dei litisconsorti pretermessi ma anche nei
confronti di coloro che hanno preso parte al giudizio. La Corte di
Cassazione, con sentenza del 18.1.2007, n. 1052, ha specificato che: «ogni
qual volta che per effetto della norma tributaria o per l’azione esercitata
dall’Amministrazione finanziaria l’atto impositivo debba essere o sia
unitario,
coinvolgendo
nella
unicità
della
fattispecie
costitutiva
dell’obbligazione una pluralità di soggetti e il ricorso prodotto da uno o più
obbligati abbia ad oggetto non la singola posizione debitoria del ricorrente
ma la posizione inscindibilmente comune a tutti i debitori rispetto
all’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato ricorre una ipotesi
di litisconsorzio necessario nel processo tributario ai sensi dell’art. 14,
comma 1, del d.lgs. 546/19992».
Successiva alla sent. 1052/2007 vi è un'
altra importante pronuncia della
Cassazione a SS.UU., sempre in materia di litisconsorzio necessario, la sent.
n. 14815 del 4.06.2008. La massima di quest’ultima sentenza prevede che:
«In materia tributaria, l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della
rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società
di persone e delle
associazioni di cui all’art. 5 del DPR 22.12.1986 n. 917 e dei soci delle
stesse e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio,
proporzionalmente
alla
quota
di
partecipazione
agli
utili
ed
indipendentemente dalla percezione degli stessi, comporta che il ricorso
52
tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci
o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci – salvo
il caso in cui questi prospettino questioni personali -, sicchè tutti questi
soggetti devono essere parte dello stesso procedimento e la controversia non
può essere decisa limitatamente ad alcuni soltanto di essi; siffatta
controversia, infatti, non ha ad oggetto una singola posizione debitoria del o
dei ricorrenti, bensì gli elementi comuni della fattispecie costitutiva
dell’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato, con conseguente
configurabilità di un caso di litisconsorzio necessario originario.
Conseguentemente, il ricorso proposto anche da uno soltanto dei soggetti
interessati impone l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 14
d.lgs. 546/92 (salva la possibilità di riunione ai sensi del successivo art. 29)
ed il giudizio celebrato senza la partecipazione si tutti i litisconsorti necessari
è affetto da nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento,
anche di ufficio». Sul piano processuale, la Suprema Corte, rileva che
l’unicità del rapporto sostanziale con pluralità di soggetti, in pratica si è
costantemente dissolta in una molteplicità di processi – tanti quanti sono i
soggetti privati del rapporto – instaurati su impugnazione dei singoli avvisi
di accertamento. In presenza di questa consolidata prassi la giurisprudenza si
preoccupa, anche, di prevenire possibili contrasti di giudicati. I rimedi
previsti dal legislatore sono due e consistono nella riunione e/o sospensione
del giudizio dipendente; mentre, accanto a queste due alternative, la prassi
giurisprudenziale registra il fenomeno della motivazione per relationem, che
però è legittima soltanto nel caso in cui si riferisca ad una sentenza che abbia
già valore di giudicato tra le parti, ovvero, riproduca la motivazione di
riferimento, autonomamente ed autosufficientemente recepita e vagliata nel
contesto della motivazione condizionata (Cass. 14814/2008 – 14816/2008).
Nell’affrontare il tema del litisconsorzio, soprattutto alla luce delle recenti
pronunce della Cassazione, si ritiene di richiamare la disciplina dettata
dall’art. 1306 cod. civ..
La suprema Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato che il principio
53
di cui al secondo comma dell’art. 1306 cod. civ. opera nella sola ipotesi in
cui coloro che invocano la sentenza più favorevole siano rimasti estranei al
giudizio. Per contro, i debitori che vi hanno partecipato se non hanno
impugnato la decisone a loro sfavorevole restano soggetti alle preclusioni del
giudicato formatosi nei loro confronti, anche quando la stessa sentenza
impugnata da uno degli altri, sia stata poi riformata78.
La Corte di Cassazione a SS.UU. con sentenza n. 7053 del 22.6.1991, ha
affermato che il debitore di un tributo che non abbia tempestivamente
impugnato un avviso di accertamento, a lui notificato, può giovarsi della
favorevole decisione intervenuta a favore di un condebitore in solido. Ha
così trovato soluzione il contrasto giurisprudenziale determinato da pronunce
che precludevano la possibilità da parte del soggetto di giovarsi del giudicato
favorevole.
Con la sentenza 7053/1991 la Cassazione ha enunciato una serie di principi,
a partire dal problema dell’estensibilità del
giudicato favorevole con
riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 1306 del cod. civ.. L’articolo
in questione, al primo comma, dispone che la sentenza pronunciata tra il
creditore e uno dei debitori in solido non ha effetto per gli altri debitori
postulando, quindi, una concezione delle obbligazioni solidali per cui esse
sono, di regola, autonome nel piano sostanziale e danno luogo a cause
scindibili. Ma il secondo comma, tuttavia, deroga tale principio
dell’autonomia e scindibilità consentendo che la sentenza sia utilizzata dagli
altri condebitori se favorevole. Pertanto, quest’ultimo comma, che non ha
valore sostanziale ma opera sul piano processuale, privilegia il momento
dell’unitarietà dell’obbligazione solidale derivante dallo stesso titolo
derogando, così, ai limiti soggettivi del giudicato. Quindi, l’inerzia del
debitore non è ostativa all’estensione del giudicato formatosi fra altri, purché
oggetto della lite sia un rapporto unitario.
La circostanza che il condebitore non abbia impugnato l’atto, rendendolo
definitivo nei suoi confronti, comporta che il debitore non può esercitare una
78
V. Cass. 29.10.1974, n. 3260; 14.4.1975, n. 1416; 5.7.1977, n. 2928; 19.10.1977, n. 4469;
29.4.1980, n. 2837. In tal senso Risoluzione Min. Fin. 6.6.1990, n. 350388.
54
immediata tutela della sua posizione sostanziale; mentre, non incide in alcun
modo la facoltà dello stesso di avvalersi dell’art. 1306, comma 2, cod. civ..
La preclusione processuale scaturente dalla res judicata è ostativa
all’applicabilità dell’art. 1036 cod. civ. per il condebitore nei cui confronti
sia intervenuto un giudicato diretto.
Infine, considerato che l’art. 1306, comma 2, cod. civ. disciplina le
obbligazioni solidali, né deriva che non può essere richiamato nelle ipotesi di
obbligazioni distinte aventi ad oggetto imposte diverse79.
In conclusione sul tema del litisconsorzio, come su altri aspetti del diritto
sostanziale tributario, vi è una forte trasformazione dovuta, soprattutto,
all’intervento della giurisprudenza di legittimità che attraverso le sue
pronunce porta a dei veri e propri spostamenti del sistema.
4. L’obbligo di assistenza tecnica previsto dall’art. 12 del dlgs 546/92.
Il nuovo contenzioso tributario si caratterizza per un elevato tecnicismo
processuale con la conseguente previsione del legislatore di stabilire
l’ obbligo, per il contribuente, di assistenza da parte di difensore abilitato.
In prima battuta ricordiamo che l’art. 30 della legge delega 413/90, alla
lettera h) disciplinava l’assistenza tecnica e prevedeva che: «delle parti
diverse dall’Amministrazione avanti gli organi della giustizia tributaria ad
opera di avvocati, procuratori legali, dottori commercialisti, ragionieri e
periti commerciali iscritti in apposito albo e, nelle materie di rispettiva
competenza, ad opera di altri esperti in materia tributaria iscritti in albi o
ruoli o elenchi istituiti presso l’Intendenza di finanza competente per
territorio;….omissis ».
Da questa impostazione discende la formulazione dell’art. 12 del d.lgs
546/92 che la circolare n. 98/E del 1996 definisce “una delle più importanti
innovazioni del nuovo processo tributario”.
Infatti, il previgente DPR 636/72 statuiva una difesa tecnica del tutto
79
V. Circolare Min. Fin. 28.11.1991, n. 11/5/6848.
55
facoltativa, in quanto, nei giudizi dinanzi alle Commissioni tributarie il
contribuente poteva agire personalmente o mediante procuratore generale o
speciale80. Il contribuente poteva, personalmente, proporre oltre il ricorso in
primo grado anche l’appello e ricorso alla Commissione Centrale. La
procura, invece, incontrava un limite poiché se conferita ad un parente o
un’affine entro il quarto grado consentiva a quest’ultimo di agire
personalmente; mentre, fuori da queste ipotesi vi era l’obbligo per il
procuratore di essere assistito da uno dei soggetti abilitati indicati dall’art.
30 del DPR81.
Questa struttura trovava le sue origini nella valutazione amministrativa che si
dava al contenzioso tributario.
Nel riprendere l’analisi dell’art. 12 del d.lgs. 546/92, dalla lettura del
comma 1 si rileva che devono essere obbligatoriamente muniti di assistenza
tecnica il ricorrente indipendentemente dalla veste giuridica, l’intervenuto in
giudizio e il chiamato in giudizio ed infine il concessionario della
riscossione.
L’assistenza tecnica è riservata ad un difensore abilitato, figura che riguarda
diverse categorie professionisti e la cui elencazione è sempre più aumentata.
Utilizzando la divisione operata dalla circolare ministeriale n. 98/E del 1996
si può distinguere una abilitazione generale attribuita ad avvocati,
procuratori legali, dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali,
purché iscritti nei relativi albi professionali; mentre, è attribuita
un’abilitazione limitata e specifica a numerosi soggetti, pur se con varie
limitazioni, esclusivamente per determinate materie.
Considerato che l’assistenza tecnica dinanzi alle Commissioni tributarie
investe numerosi soggetti, sempre se iscritti nei relativi albi di legge, alcune
problematiche si pongono in base a questa previsione normativa. In primo
luogo si pone la necessità di verificare se tutti i soggetti possono assumere
80
Per un ampia disamina delle problematiche e delle soluzioni adottate sull’argomento della
difesa tecnica della parte nel processo tributario del decreto n. 636/72, si rimanda a
GLENDI, Commentario delle leggi sul contenzioso tributario, Milano, 1980, p. 862.
81
In tali termini Comm. Trib. Centr., XXI, 1.06.1983, n. 1175, in CTC, 1983, I, p. 593.
56
oltre alla difesa anche la rappresentanza del contribuente. La questione si
può risolvere attraverso un collegamento tra le varie leggi professionali, dei
soggetti abilitati dinanzi alle Commissioni tributarie, e l’art. 12 del d.lgs.
546/92. Da questa analisi risulta che il regolamento dell’ordinamento della
professione forense82, RDL 1578/1933, disciplina espressamente l’attività di
rappresentanza e di difesa dinanzi ad ogni tipo di giurisdizione; mentre, né la
legge professionale dell’ordine dei ragionieri e dei periti commerciali, DPR
1068/1973, né quella dei dottori commercialisti, DPR 1067/1973, né quella
degli altri professionisti indicati nel comma 2 dell’art. 12 riportano alcun
riferimento di tale attività. La dottrina prevalente ritiene che l’art. 12 innova
i vari ordinamenti professionali con l’attribuzione ai relativi iscritti facoltà
che non erano originariamente previste.
Un secondo problema da esaminare attiene ai limiti di competenza
territoriale nel rispetto dei quali il professionista può validamente esercitare
la propria attività. In ambito processuale civile i procuratori legali possono
esercitare esclusivamente davanti a tutti gli uffici giudiziari del distretto in
cui è compreso l’ordine circondaliare presso il quale sono iscritti, nonché,
davanti al Tribunale amministrativo regionale che rientra nel distretto di
competenza83. Il problema in ambito tributario si risolve negando l’esistenza
di un limite territoriale, che troviamo in una norma di carattere generale, ma
non in quella tributaria - speciale – che trova applicazione in virtù dell’art.
82
In particolare l’art. 7 del citato regolamento, secondo cui «davanti a qualsiasi
giurisdizione speciale la rappresentanza, la difesa e l’assistenza possono essere assunte
soltanto da un avvocato ovvero da un procuratore assegnato ad uno dei tribunali del distretto
della Corte di Appello e sezioni distaccate nel quale ha sede la giurisdizione speciale».
A detta di FINOCCHIARO A.- FINOCCHIARO M., Commentario al nuovo contenzioso
tributario, Milano, 1996, p. 185, nt. 23 deve escludersi che detta disposizione sia stata
abrogata dal nuovo assetto del contenzioso tributario, atteso che l’ultimo comma dello stesso
articolo prevedeva che «nulla è innovato alle norme che disciplinano il procedimento
davanti ai conciliatori, a quelle che regolano la rappresentanza e la difesa delle
amministrazioni dello Stato e alle disposizioni particolari relative a determinati organi
giurisdizionali».
83
Così la puntuale previsione degli artt. 5 e 6 del RDL 1578/1933, nel testo modificato con
l. 406/1985.
57
14 delle disposizioni preliminari del codice civile84.
Per quanto attiene
l’ordinamento delle professioni di avvocato [e
procuratore], disciplinato dal RDL 1578/1933, l’art. 7 prevede che davanti
a qualsiasi giurisdizione speciale,
è consentita l’assunzione della
rappresentanza processuale, della difesa e dell’assistenza della parte soltanto
da un avvocato assegnato ad uno dei tribunali del distretto della Corte di
Appello e Sezioni distaccate, nel quale ha sede la giurisdizione speciale. Era
sorta questione in ordine alla valenza di siffatta limitazione territoriale anche
nell’ambito del processo tributario (per l’ammissibilità del ricorso
sottoscritto da un avvocato non iscritto all’albo presso il tribunale della
circoscrizione in cui ha sede la Commissione tributaria adita85). Il problema
era ulteriormente complicato dalla precedente distinzione (abrogata con l.
24.2.1997, n. 27) tra avvocati e procuratori86 e dalla sussistenza della norma
di cui all’art. 5 del Rdl 1578/1933, secondo cui i procuratori non potevano
esercitare la professione fuori distretto.87
La natura di norma speciale dell’art. 12 d.lgs. n. 546/1992 rispetto alle leggi
professionali, l’assenza di espresse limitazioni territoriali nello stesso d.lgs. e
84
Così BAFILE, Il nuovo processo tributario, Milano, 1994, p. 66, in cui espressamente si
afferma che ogni professionista può esercitare la sua opera di difensore in tutto il territorio
nazionale.
Per un’opinione contraria si vedano GILARDI-LOI-SCUFFI, Il nuovo processo tributario,
Milano, 1997, 56, secondo cui mentre l’avvocato potrà assumere la difesa ovunque, presso
qualsiasi Commissione tributaria dello Stato, il procuratore legale potrà farlo solo innanzi
alle Commissioni tributarie del distretto della Corte di Appello in cui l’ordine circondariale
di iscrizione è compreso.
In senso analogo anche BARTOLINI-REPREGOSI, Il codice del nuovo contenzioso
tributario, Piacenza, 1996, p. 89.
In giurisprudenza, in tal senso esplicitamente, Comm. Trib. Milano, 22.3.1994, n. 153; Id.,
2.12.1994, n. 769, nonché 21.3.1995, n. 279, tutte in BT, 1995, p. 935, con nota di
GIULIANI, Rappresentanza e difesa del contribuente nel processo tributario.
85
Vedi Comm. Trib. 1° grado Bolzano 18.11.1996, n. 192. In senso diametralmente
opposto, Comm. Trib. Prov. Trieste 7.1.1997, n. 746, Riv. d. trib. 97, II, p. 401, con
commento di RUSSO; GT 97, 273, con commento di GLENDI; Riv. d. fin. 97, II, p. 39, con
commento di TESAURO.
86
Per l’irrilevanza nell’ambito del processo tributario v. GLENDI, GT 00, 276;
MARINUCCI, Rass. trib. 96, p. 917.
87
Unanime la giurisprudenza di legittimità sull’operatività della limitazione territoriale
anche nel caso in cui la qualità di procuratore ed avvocato si cumulassero nella medesima
persona, non venendo meno siffatto divieto di esercizio dello ius postulandi extra districtum
a cagione del fatto che la professione di avvocato può da tale persona essere svolta in
qualsiasi distretto: C 99/944; C 94/3491; C92/8691.
58
l’inconfigurabilità di qualsivoglia criterio di ragionevolezza atto a supportare
una discriminazione tra avvocati da un lato e tutti gli altri difensori dall’altro,
non consente di enucleare in via interpretativa un limite di ordine territoriale
per le prefate categorie nell’esercizio dell’attività difensiva davanti alle
Commissioni tributarie.
La rilevata insussistenza di limiti territoriali nell’esercizio della difesa, porta
ad escludere l’applicabilità dell’art. 82, RD 37/1934 che impone ai
procuratori esercenti il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della
circoscrizione del tribunale al quale siano assegnati, di eleggere domicilio
nel luogo ove ha sede l’autorità giudiziaria adita. Alla circostanza che
nessuna norma del d.lgs. 546/1992 prevede un simile obbligo per il
ricorrente, si aggiunge la considerazione che ex artt. 17 e 18 neppure la
mancata elezione di domicilio nel territorio dello Stato vizia il ricorso,
legittimando
soltanto
l’effettuazione
delle
comunicazioni
e
delle
88
notificazioni presso la segreteria della Commissione tributaria . D’altro
canto, anche l’art. 82, al comma 2, stabilisce che «in mancanza della
elezione del domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della
stessa autorità giudiziaria».
Passando ora ad esaminare i soggetti dotati di abilitazione a carattere limitato
e specifico consideriamo, innanzitutto, i consulenti del lavoro per le materie
concernenti le ritenute alla fonte sui redditi di lavoro dipendente ed
assimilati e gli obblighi di sostituto d’imposta relativi alle ritenute
medesime.
Una abilitazione limitata viene attribuita ad ingegneri, architetti, geometri,
periti edili, dottori agronomi, agrotecnici e periti agrari per le materie che
attengono l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo
tra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella, la
consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e
l’attribuzione della rendita catastale. In materia di classamento e di
attribuzione della rendita catastale i ricorsi derivano da un provvedimento
88
GLENDI, GT 00, 279.
59
dell’Ufficio tecnico erariale, quindi, la relativa impugnazione deve
riguardare esclusivamente quel determinato oggetto.
I soggetti iscritti nei ruoli dei periti ed esperti tenuti dalle Camere di
commercio, industria, artigianato ed agricoltura89, iscrizione che deve
risultare alla data del 30.09.1993, i quali sono abilitati per la subcategoria
tributi, purché in possesso di diploma di laurea in giurisprudenza o in
economia e commercio o equipollenti o di diploma di ragioneria
limitatamente alle imposte di registro, di successone, i tributi locali, l’IVA,
l’ILOR, l’IRPEF e l’IRPEG. Una serie di perplessità sorgono con
riferimento a questi soggetti, ed in particolare al limite temporale del
30.09.1993. Infatti, l’iscrizione nei ruoli in parola, prima della data sopra
indicata, era priva di conseguenze pratiche ed in considerazione di ciò si
ritiene irrazionale non solo far derivare le conseguenze ora esaminate, ma
nello stesso tempo limitare tali conseguenze ai soli iscritti fino al 1993.
Infine, rientrano nell’elencazione i dipendenti delle associazioni di categoria
rappresentate nel CNEL90 e i dipendenti delle imprese e delle loro controllate
limitatamente alle controversie nelle quali sono parti, rispettivamente, gli
associati e le imprese e le loro controllate, purché si tratti di soggetti in
possesso del diploma di laurea in giurisprudenza o in economia e commercio
o equipollenti o di diploma di ragioneria e della relativa abilitazione
professionale. La forma di assistenza tecnica fornita da questi soggetti non si
può qualificare come professionale, poiché, non avviene il conferimento di
un incarico ad un professionista nell’ambito di un contratto d’opera91.
89
BAFILE, Il nuovo processo tributario, Milano, 1994, p. 67, per parte sua, qualifica tali
soggetti come una categoria, molto contestata, di paraprofessionisti, ritenendo che gli stessi
siano dotati di una abilitazione dichiarata oggettivamente limitata, ma che si estende alla
quasi totalità dei tributi soggetti alla giurisdizione delle Commissioni.
90
L. 30.12.1986, n. 936, recante norme sul Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro,
in particolare l’art. 2.
91
Art. 2222 c.c. (Contratto d’opera): «Quando una persona si obbliga a compiere verso un
corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincoli di
subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo
che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro quarto».
60
5. La mancata nomina del difensore.
Come esaminato già nel precedente paragrafo il nuovo contenzioso tributario,
ossia quello disciplinato dal d.lgs 546/92, prevede come principio generale
l’obbligo dell’assistenza tecnica in giudizio almeno per tutte le parti diverse
dall’Ufficio del Ministero delle Finanze e dall’Ente locale nei cui confronti è
stata proposto il ricorso.
Parti private obbligate a munirsi di difensore tecnico sono, oltre al
contribuente ricorrente, anche l’intervenuto e il chiamato in giudizio, in
quanto divengono parti del processo.
L’esclusione espressa dell’Ufficio del Ministero delle Finanze, rectius
Ufficio locale dell’Agenzia fiscale, e dell’Ente locale nei cui confronti sia
stato proposto il ricorso fa sì che il concessionario per la riscossione – anche
quale resistente – e lo stesso Ente locale in veste di ricorrente debbano
ritenersi assoggettati all’obbligo de quo.
Il difetto di assistenza tecnica, ad eccezione dei casi in cui vedremo non
essere obbligatoria, comporta l’inammissibilità del ricorso come si evince
dall’art. 18, comma 4, in relazione al comma 3 e come si argomenta
dall’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 12, senza possibilità di sanare il
vizio tramite conferimento dell’incarico nel corso del processo92.
Con sentenza 3.3.1999, n. 1781 la Suprema Corte aveva statuito che l’ambito
di applicazione dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. 546/1992, nella parte in cui
dispone la fissazione di un termine entro il quale la parte, costituita
personalmente in giudizio, è tenuta a pena di inammissibilità a conferire
l’incarico ad un difensore abilitato, non comprendesse le «controversie di
valore superiore a 2.582,28 euro, nelle quali l’eventuale costituzione
personale in giudizio della parte privata senza assistenza di difensore va
considerata tamquam non esset e non comporta alcun intervento correttivo o
sanante da parte dell’organo giudicante»93
92
Ex plurimis Cass. 7966/00.
Nello stesso senso, anche Comm. Trib. Prov. Genova 13.3.1997, n. 85, in GT 97, 687 e
Comm. Trib. Prov. Catanzaro 31.5.1997, n. 7, in GT 98, p. 362, entrambe con note di
riferimento di GLENDI; Comm. Trib. Prov. Novara 6.12.1999, in Boll. trib. 2000, p. 793.
93
61
All’opposto, la Corte Costituzionale nella sentenza interpretativa di rigetto
del 7.6.2000, n. 189, dichiarando non fondata la questione di legittimità
costituzionale del combinato disposto degli artt. 12, comma 5, e 18, comma 3
e 4, d.lgs. 546/1992, sollevata dalla Commissione tributaria di provinciale di
Novara con ordinanza del 10.10.1998, con riferimento agli artt. 3 e 24,
comma 1, della Costituzione, ha ritenuto che, nel caso in cui la parte abbia
sottoscritto personalmente il ricorso nonostante il valore della lite ecceda
l’importo di euro 2.582,28, l’inammissibilità dello stesso prevista dall’art. 18,
comma 4, «scatta – per scelta del legislatore tutt’altro che irragionevole –
solo a seguito di ordine ineseguito nei termini fissati e non per il semplice
fatto della mancata sottoscrizione del ricorso da parte di un professionista
abilitato». Il Giudice delle leggi ha interpretato il riferimento all’art. 12,
comma 5, contenuto nell’art. 18, comma 3, come «un richiamo complessivo
all’intero comma 5 e quindi anche al meccanismo dell’ordine da parte del
Presidente della Commissione o della Sezione o del Collegio di munirsi di
assistenza tecnica fissando un termine entro il quale la stessa “parte” è tenuta,
a pena di inammissibilità, a conferire l’incarico ad un difensore abilitato».
Aderendo a tale interpretazione, immediatamente definita da autorevole
dottrina come «un vero e proprio infortunio»94, l’inammissibilità del ricorso
sottoscritto personalmente dalla parte in casi non previsti dalla legge,
dovrebbe essere
dichiarata solo alla scadenza del termine concesso dal
giudice alla parte, al fine di della nomina di un difensore abilitato e in quanto
tale nomina non sia avvenuta.
La Corte di Cassazione con una pronuncia di poco successiva alla decisione
della Corte Costituzionale, ha confermato il proprio precedente orientamento,
ritenendo che «soltanto nel caso in cui la controversia abbia un valore
inferiore ai cinque milioni, il contribuente può stare in giudizio
personalmente». Dunque il ricorso tributario avente ad oggetto un atto in cui
viene manifestata una pretesa impositiva superiore a 2.582,28 euro, deve
94
RUSSO-FRANSONI, Il fisco 00/39, 12040; DE MITA, Il Sole-24 Ore, 8.7.2000;
CEPPARULO, GT 00, p. 960 ss.; FERRARA, G. it. 01, p. 1061; GLENDI, Dir. e prat. trib.,
00, p. 1756.
62
essere sottoscritto da un difensore abilitato, a pena di inammissibilità, a nulla
rilevando il fatto che il ricorrente prospetti la manifesta infondatezza o
abnormità della pretesa superiore ai cinque milioni: l’inammissibilità deriva
dalla legge e non è condizionata alla mancata osservanza dell’ordine del
giudice di munirsi di assistenza tecnica, previsto dall’art. 12, comma 5, d.lgs.
546/1992 e rimesso alla discrezionalità del giudice solo per le controversie di
valore inferiore alla soglia indicata95.
Pur tuttavia, la stessa sezione tributaria della Corte di Cassazione, nella
sentenza 12.6.2002, n. 8369, si è pronunciata in senso diametralmente
opposto, uniformandosi a quanto statuito dalla Consulta: sulla scorta di tale
decisone l’inammissibilità di un ricorso sottoscritto personalmente dalla
parte, scatta, non automaticamente, ma soltanto a seguito dell’inesecuzione
dell’ordine di munirsi di un difensore tecnico che il giudice tributario può
imporre al contribuente ex art. 12, 5° comma, del d.lgs. 546/199296. Con
ordinanza 27.2.2003, n. 3042, la medesima sezione tributaria della
Cassazione, rilevato il «chiaro contrasto» con quanto ritenuto dalla sentenza
n. 1100/02 e quanto deciso dalla stessa Sezione tributaria della Suprema
Corte, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente della Corte di Cassazione, ai
fini dell’eventuale rimessione alle Sezioni Unite civili.
Infine, la Corte di Cassazione si è pronunciata a Sezioni Unite con la
sentenza del 2.12.2004, n. 22601, ritenendo che il ricorso non sottoscritto da
difensore
abilitato
non
debba
essere
immediatamente
dichiarato
inammissibile, in pedissequa adesione alla pronuncia interpretativa di rigetto
della Corte Costituzionale.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte si sono limitate a «prendere atto
dell’interpretazione sulla quale il giudice delle leggi ha fondato la propria
decisione di rigetto e a condividerne il tenore, se non altro perché la diversa
95
Tale interpretazione delle norme di cui all’art. 12, 1° e 5° comma, e all’art. 18, 3° comma,
d.lgs. 546/1992 è stata ribadita e pregevolmente argomentata con sentenza 29.1.2002, n.
1100, in G. it. 01, p. 2275; GT 03, 405, con nota di GLENDI.
96
Nello stesso senso, Comm. Trib. Reg. Marche 13.3.2001, Boll. trib. 01, p. 1573; Comm.
Trib. Reg. Piemonte 6.10.2000; Comm. Trib. Prov. Perugia 12.10.2000, n. 132; Comm.
Trib. Reg. Puglia, sez. distaccata Lecce 26.2.2003, n. 4
63
interpretazione – accolta da alcune sentenze di questa Corte – condurrebbe
inevitabilmente ad una dichiarazione di incostituzionalità, ove la Corte
Costituzionale dovesse rilevare la formazione di un diritto vivente in tal
senso, espresso in una pronuncia delle Sezioni Unite».
6. Il ricorso proposto direttamente dalla parte.
L’obbligo dell’assistenza tecnica per le parti private non è un precetto
assoluto in quanto sono previste alcune importanti deroghe.
La violazione dell’obbligo dell’assistenza determina come conseguenze
processuali in base al comma 4 dell’art. 18 che: «il ricorso è inammissibile
se non è sottoscritto a norma del comma precedente», da cui si evince che:
«il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore del ricorrente e contenere
l’indicazione dell’incarico a norma dell’art. 12, terzo comma».
Le deroghe all’obbligatorietà dell’assistenza tecnica sono due e la prima
trova applicazione quando la controversia ha un valore inferiore ai cinque
milioni di lire97. L’art. 12 al quinto comma, definisce il valore della lite, e
secondo tale formulazione che riproduce sostanzialmente
quella dettata
dall’art. 2 quinques 4° comma, let. b) del d.l. 564/1994, convertito in l. n.
656/1994, si intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle
eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato; in caso di controversie
relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito
dalla somma di queste. La dottrina98 ha criticato questa impostazione, ossia
lo scorporo degli interessi e delle sanzioni dal valore della controversia,
poiché la ritiene contrastante con ogni esigenza di coerenza logica e
giuridica
Un caso particolare è stato affrontato dalla Commissione Provinciale di
97
Originariamente il valore era fissato in un milione di lire. Esso è stato elevato in un primo
momento a tre milioni ad opera dell’art. 69 del d.l. 30.08.1993, n. 331, convertito in l.
29.10.1993, n. 427; quindi portato al suo attuale importo di cinque milioni di lire con il d.l.
15.03.1996, n. 123, non convertito, ma reiterato con d.l. 16.05.1996, n. 259, d.l. 22.06.1996,
n. 329 e con d.l. 8.08.1996, n. 437, l’ultimo dei quali convertito in l. 24.10.1996, n. 556.
98
BLANDINI, Il nuovo processo tributario, Milano, 1996, p. 24.
64
Salerno. La questione sottoposta all’esame dei giudici, determinante per
stabilire se vi fosse obbligo di assistenza tecnica, riguardava un unico atto di
accertamento che inglobava più tributi che singolarmente non superavano il
limite dei cinquemilioni di lire. La Commissione è giunta alla conclusione
che in tali casi si deve tenere conto dell’ammontare dei singoli tributi e non
della somma degli stessi e, quindi, ha escluso che vi fosse l’obbligo per il
contribuente di nominare un difensore. Anche se la sentenza sia fondata sul
tenore letterale dell’art. 12 del d.lgs. 546/92 che fa riferimento al tributo e
non ai tributi, la conclusione raggiunta sembra andare contro l’obiettivo che
il legislatore ha inteso perseguire attraverso l’obbligo dell’assistenza
tecnica99. Inoltre, si deve rilevare che l’applicazione di questo principio
comporterebbe per il contribuente, esposto ad un carico tributario superiore
complessivamente ai cinquemilioni di lire, la possibilità di difendersi
personalmente evitando l’assistenza tecnica obbligatoria prevista per evitare
al contribuente di incorrere in errori procedurali tali da rendere la difesa
inefficace. A sostegno di una diversa soluzione della questione basta
considerare l’art. 10 del c.p.c., relativo alla competenza per valore, in cui
espressamente si stabilisce che: «le domande nello stesso processo contro la
medesima persona si sommano tra loro»100.
Sempre ai fini della determinazione del valore della lite, problematica, è
stata la questione relativa alla riduzione delle perdite d’esercizio dichiarate.
Il Ministero ha affrontato il problema con la circolare n. 291/E osservando
che in queste ipotesi spesso la rettifica operata dal Fisco non porta alla
determinazione di un imponibile ma solo alla riduzione della perdita
dichiarata. Quindi, in tali casi il valore della lite va determinato con
riferimento all’imposta virtuale o alla maggiore imposta effettiva relativa
alla differenza tra la perdita dichiarata e la minore perdita accertata
dall’Ufficio.
99
In tal senso TESAURO, Il processo tributario, Torino, 1998, p. 238.
Sul punto SILLA, Identikit più selettivo per i difensori, in Il Sole 24 ore, del 17.1.1997;
DULCAMARE, Valore della lite e obbligo di assistenza tecnica, in Corr. trib., 1997, p.
2803.
100
65
Pensiamo all’ipotesi in cui la pretesa tributaria riguardi un dato importo,
mentre il contribuente si limiti a contestare come non dovuto esclusivamente
un importo minore ma sempre nel limite dei cinquemilioni; in tale stato di
cose, applicando letteralmente l’art. 12, comma 5, sarebbe ammissibile un
ricorso presentato dalla parte personalmente senza assistenza101. Nel caso di
accoglimento parziale del ricorso in primo grado il contribuente che risulta
soccombente, per il pagamento di un tributo il cui importo sia inferiore al
limite dei cinque milioni, potrà proporre personalmente appello; mentre, nel
caso in cui l’appello sia proposto dall’ufficio finanziario per un importo
superiore alla soglia sopra indicata sarà indispensabile l’assistenza da parte
di un difensore abilitato102.
La seconda ipotesi che legittima il contribuente a stare in giudizio
personalmente è statuita con riferimento all’oggetto della controversia stessa,
ossia, nel caso di ricorso contro un ruolo formato dal Centro di servizi ai
sensi dell’art. 10 del DPR 787/1980103. Il motivo di questa eccezione rispetto
al principio dell’obbligatorietà dell’assistenza tecnica dinanzi agli organi di
giustizia tributaria viene dalla dottrina maggioritaria104 giustificato nel fatto
che normalmente si tratta di ricorsi semplici, basati su liquidazioni o
rimborsi che non comportano alcun potere accertativo e valutativo da parte
dell’Amministrazione. E’ comunque previsto che il Presidente della
Commissione o della sezione o il collegio possono ordinare alla parte di
munirsi di assistenza tecnica, fissando un termine entro il quale la stessa è
101
In tal senso BARTOLINI-REPREGOSI, Il codice del nuovo contenzioso tributario,
Piacenza, 1996, p. 101.
102
In questi termini FINOCCHIARO A.-FINOCCHIARO M., Commentario al nuovo
contenzioso tributario, Milano, 1996, p. 222-223.
103
Sul tema dei Centri di servizio, istituiti dall’art. 8 della l. 24.4.1980, n. 146, si segnalano
in dottrina: CONSALTER, I Centri di servizio tributari, in F.,1981, 12; NAPOLITANO, I
Centri di servizio: un nuovo strumento del sistema tributario, in BT, 1981, 55; RAI, I poteri
dei Centri di servizio, in F, 1986, 3882; DI CIACCIA, I Centri di servizio: ragione d’essere
e disfunzioni evitabili, in Tbt, 1987, 71; GIOVANNINI, Processo tributario: riflessioni sul
ricorso presentato al Centro di servizio, in RDF, 1991, 358.
104
Così, ad esempio, D’ANGELO A.-D’ANGELO B., Manuale del nuovo contenzioso
tributario con rassegna di giurisprudenza, Milano, 1994, p. 68, nonché BARTOLINIREPREGOSI, Il codice del nuovo contenzioso tributario, Piacenza, 1996, p. 102. Contra,
per la mancanza di una giustificazione logica della eccezione in esame, BLANDINI, Il
nuovo processo tributario, Milano, p. 24.
66
tenuta, a pena di inammissibilità, a conferire l’incarico ad un difensore
abilitato. Conseguenza della mancata osservanza del termine indicato dal
giudice tributario, che varia a seconda della fase in cui si trova la
controversia, è l’estinzione del giudizio per inattività delle parti.
L’ultima eccezione all’obbligo di assistenza tecnica riguarda quelle ipotesi in
cui convergono nella stessa persona la qualità di difensore abilitato e di
contribuente. Il comma 6, dell’art. 12 dispone che: «i soggetti in possesso dei
requisiti richiesti nel comma 2 possono stare in giudizio personalmente senza
l’assistenza di altri difensori». Da una interpretazione letterale del comma 6
si potrebbe ritenere di applicare a tutti coloro ai quali è riconosciuta
l’abilitazione all’assistenza tecnica, indipendentemente dalla distinzione tra
abilitazione generale o speciale, la possibilità di stare in giudizio
personalmente senza l’assistenza di altri difensori.
La conseguenza pratica di questa interpretazione consiste nell’ammettere la
difesa a soggetti che non possono esercitare, a causa di limiti oggettivi e
soggettivi, la difesa di terzi; pertanto, l’accoglimento di tale interpretazione
non appare del tutto coerente con le altre disposizioni del dlgs 546/92. A tal
proposito sembra più coerente, con quanto disposto dall’art. 12, ritenere che
coloro i quali hanno una abilitazione “limitata” potranno difendersi da soli
nei limiti di essa, dovendo invece far riferimento ad un difensore con
abilitazione generale tutte le volte in cui la materia del contendere dovesse
esulare dalla propria competenza.
67
CAPITOLO III
LA RAPPRESENTANZA DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE NEI
GIUDIZI DINANZI LE COMMISSIONI TRIBUTARIE
1. La rappresentanza della parte Pubblica.
Il processo tributario ha ad oggetto un rapporto d’imposta, pertanto, la parte
resistente non potrà che essere, necessariamente, l’ufficio tributario che ha
esercitato la pretesa.
L’art. 10 del d.lgs. 546/92, seguendo la tradizione del DPR 636/72105, ha
attribuito la capacità di essere parte del giudizio, anziché allo Stato, ai singoli
uffici del Ministero delle Finanze.
In questo modo si crea una frattura fra la parte sostanziale o materiale del
rapporto obbligatorio d’imposta che il sentire comune vede nello Stato, per il
tramite della propria struttura esponenziale del Ministero delle Finanze, e la
parte destinataria degli effetti derivanti dagli atti posti in essere nel processo
tributario.
Si
potrebbe,
erroneamente,
ritenere
che
l’Ufficio
abbia
solo
la
rappresentanza del Ministero delle Finanze, intesa come rappresentanza
tecnica o patrocinio in giudizio, alla stessa stregua dell’assistenza del
difensore della parte nel processo civile, cui fa riferimento l’art. 82 cpc.
Invece, l’Ufficio patrocina le ragioni dell’Erario ma, innanzitutto, è parte del
giudizio tributario in luogo del Ministero delle Finanze
Quindi, si riconosce la capacità di essere parte ad un organo che, di regola,
non dovrebbe averla, dal momento che l’ufficio periferico non è altro che
un’articolazione organica dello Stato e nel caso di specie del Ministero delle
Finanze. Infatti, l’art. 11, comma 1 del RD n. 1611, individua il Ministero
come l’entità che dovrebbe avere titolo per essere parte.
105
Nel contesto della previgente disciplina del DPR 636/72 non vi era una disposizione
puntualmente dedicata all’individuazione delle parti, sebbene vi fosse assoluta concordia nel
ritenere – in base alle disposizioni contenute nel DPR 636e, in specie , dell’art. 17 – che
fosse parte del giudizio l’Ufficio del Ministero delle Finanze che aveva emesso l’atto
impugnato o non aveva erogato il rimborso richiesto. Sul punto, e per tutti, v. RUSSO,
Processo tributario, in Enc. Dir., XXXVI, Milano, 1987, p. 764, nonché TESAURO,
Lineamenti del processo tributario, Rimini, 1991, p. 79.
68
Tale situazione comporta che lo Stato, titolare del rapporto tributario
sostanziale – dal lato attivo – non ha alcuna facoltà, poiché, viene attribuita
la capacità di essere parte all’Ufficio locale106.
La scelta operata nel giudizio tributario ha una propria logica in
considerazione del fatto che all’Ufficio periferico spettano tutte le
competenze in materia di controllo delle dichiarazioni d’imposta,
emanazione degli atti impositivi, erogazione di rimborsi, formazione dei
ruoli di riscossine e via enumerando.
Dall’elencazione di cui sopra si rileva come l’Ufficio periferico sia il titolare
dei poteri e degli obblighi afferenti l’attuazione del rapporto d’imposta e,
quindi, si può ben comprendere l’opzione del legislatore di individuarlo
quale parte del processo tributario.
La questione si complica alla luce della recente disciplina dettata dal d.lgs.
30 luglio 1999, n. 300, in merito all’entrata in funzione delle Agenzie
Fiscali.
A far data dall’1 gennaio 2001, ed in particolar modo per quanto riguarda il
contenzioso tributario, agli uffici dei Dipartimenti delle entrate del territorio
del Ministero delle Finanze sono subentrati gli uffici dell’Agenzia delle
entrate e dell’Agenzia del territorio. L’art. 57, comma 1 del d.lgs. 300/99
prevede che dette Agenzie sono istituite per la gestione delle funzioni finora
esercitate dai diversi Dipartimenti del Ministero delle Finanze e sono ad esse
trasferiti «i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze». All’art. 62,
comma 2, del sopra indicato decreto legislativo, si indica l’Agenzia delle
entrate competente a svolgere i servizi relativi al contenzioso di tutti i tributi
già di competenza del Dipartimento delle entrate del Ministero delle finanze.
Inoltre, l’art. 20, comma 3 del DPR 107/2001, ha ribadito che «le Agenzie
fiscali subentrano al Ministero nei rapporti giuridici, poteri, competenze e
controversie relative alle funzioni ad esse trasferite e al proprio personale».
106
In realtà, il giudizio tributario non è l’unico in cui viene riconosciuta la capacità di essere
parte e quella processuale ad un organo amministrativo periferico: si pensi, ad esempio, al
regime dettato dall’art. 23 della l. 24 novembre 1981, n. 689 per il giudizio di opposizione
all’ordinanza – ingiunzione in tema di sanzioni amministrative.
69
A conferma di questa statuizione si può osservare che non vi è nel d.lgs
300/99 alcun precetto che possa fondatamente far ritenere che al Ministero
delle finanze residuano poteri o facoltà che afferiscano alle vicende del
contenzioso tributario di fronte a qualsivoglia organo giurisdizionale.
Pertanto, a partire dell’1 gennaio 2001, sono parti del processo tributario gli
uffici periferici dell’Agenzia delle entrate107, tenuto conto del regolamento di
amministrazione, approvato dal comitato direttivo dell’Agenzia medesima
con deliberazione del 30 novembre 2009, all’art. 4, comma 1, dispone che le
funzioni operative dell’Agenzia sono svolte da detti uffici, i quali curano la
trattazione del contenzioso. Quindi, la capacità di essere parte che l’art. 10
del d.lgs 546/92 assegnava agli uffici del Ministero delle finanze, si deve
riconoscere, implicitamente, in considerazione della normativa suddetta agli
uffici locali dell’Agenzia delle entrate108. Lo stesso è da dirsi per gli uffici
locali dell’Agenzia del territorio, che in base agli artt. 4, comma 1, lett. L) e
13, comma 1 dello statuto si vedono attribuita la gestione del contenzioso.
Per i giudizi pendenti alla data dell’1 gennaio 2001, si è realizzata la
successione a titolo universale degli uffici delle Agenzie fiscali a quelli
dell’Amministrazione finanziaria dello Stato.
Si dovrebbe rendere applicabile l’art. 110 cpc, con la conseguente
interruzione del processo e riassunzione dello stesso ad opera o nei confronti
degli uffici delle Agenzie fiscali. Nel processo tributario, l’interruzione
prevista all’art. 40 del d.lgs. 546/92 interessa soltanto il venir meno delle
parti diverse dall’ufficio fiscale109; questa circostanza porta a considerare
107
Negli stessi termini, v. MULEO S. L’attivazione delle agenzie fiscali ed i connessi profili
in tema di legittimazione ad agire e processuale, in Rass. trib., 2001, p. 379 e ss., nonché la
circolare dell’Agenzia delle entrate n. 71 del 30 luglio 2001, in Guida normativa de Il Sole
-24 Ore, n. 143 del 7 agosto 2001, 7.
108
Anche MULEO S., L’attivazione, cit.,è dell’avviso che si sia realizzata una modifica
tacita dell’art. 10 del d.lgs. 546/92, che consente di attribuire la capacità di essere parti agli
organi periferici delle Agenzie fiscali.
109
Cfr., per tutti, FINOCCHIARO A. – FINOCCHIARO M., Commentario al nuovo
contenzioso tributario, Milano, 1996, p. 602 e ss.; BELLAGAMBA, Il contenzioso
tributario dopo il Decreto legge 16 maggio 1996, n. 259, Torino, 1996, p. 158; MULEO,
L’attivazione, cit., che segnala anche come l’art. 40 abbia riscontro nella disciplina del
processo amministrativo, nel contesto del quale si reputa che il trasferimento di competenze
fra enti pubblici non determini l’interruzione del giudizio.
70
inoperante il precetto generale dell’art. 110 cpc stante l’esistenza della
disposizione speciale di cui all’art. 40 del d.lgs. 546/92.
I nuovi Uffici che conservano le competenze funzionali e territoriali dei
preesistenti uffici del Ministero delle finanze110 sono i destinatari degli atti
introduttivi delle controversie tributarie di primo e secondo grado instaurate
a partire dal 1 gennaio 2001; mentre, per tutti i giudizi in corso prima di tale
data si considerano succeduti automaticamente agli organi che erano parti
delle liti pendenti111.
2.
Legittimazione
e
rappresentanza
degli
Uffici
davanti
alle
Commissioni Tributarie.
Come già anticipato nel paragrafo precedente con decreto del 28 dicembre
2000, il Ministero delle finanze, ai sensi dell’art. 73, comma 4, del d.lgs. 30
luglio 1999, n. 300, ha stabilito che le Agenzie fiscali esercitano, a decorrere
dal 1 gennaio 2001, tutte le attività e funzioni previste dalle norme e dagli
statuti subentrando nelle funzioni in precedenza svolte dagli Uffici centrali e
periferici dei Dipartimenti delle entrate, delle dogane e imposte indirette e
del territorio.
All’Agenzia delle entrate, ai sensi del più volte richiamato art. 62 del d.lgs.
110
L’art. 6, commi 3 e 4 del regolamento di amministrazione del 30 novembre 2001,
prevede che: a) la competenza territoriale e l’articolazione interna degli uffici locali
dell’Agenzia delle entrate “corrispondono a quelle dei preesistenti uffici delle entrate”; b)
fino alla data di attivazione dei nuovi uffici locali continuano ad operare – quali uffici
periferici dell’Agenzia – gli uffici distrettuali delle imposte dirette, gli uffici provinciali
dell’imposta sul valore aggiunto, gli uffici del registro e le sezioni staccate delle Direzioni
regionali. Per l’Agenzia del territorio, l’art. 13, comma 1 del menzionato statuto dispone che
“l’Agenzia è articolata in uffici centrale e periferici. Tale articolazione, durante il processo
di attuazione del regolamento di amministrazione, corrisponde a quella preesistente per le
strutture del Dipartimento del territorio, le cui funzioni, ai sensi dell’art. 57, comma 1 del
decreto istitutivo, sono trasferite all’Agenzia” e l’art. 9 del relativo regolamento di
amministrazione sancisce che “tutte le strutture, i ruoli e poteri e le procedure
precedentemente in essere nel Dipartimento del territorio alla data di entrata in vigore del
presente regolamento manterranno validità fino all’attivazione delle strutture specificate
attraverso le disposizioni di cui al precedente art. 8, comma 1”.
111
In senso conforme, v. pure MULEO, L’attivazione, cit., che riconosce come non vi sia
necessità di integrare il contraddittorio nei riguardi degli uffici locali delle Agenzie fiscali.
La successione nel processo di cui si discorre comporta che, nei confronti del successore,
permangono tutti gli effetti giuridici favorevoli e sfavorevoli che si sono prodotti nei
confronti del predecessore.
71
300/1999, sono trasferite le funzioni concernenti le entrate tributarie erariali
non assegnate specificatamente ad altre Agenzie, con la conseguente
titolarità sia delle funzioni pubbliche relative, che dei rapporti giuridici e
delle obbligazioni di pertinenza del Dipartimento delle entrate.
L’assetto giuridico dell’Agenzia delle entrate si distingue nettamente, a
seguito dell’intervento normativo, da quello attribuito alla precedente
struttura.
In questo contesto si pone la necessita di individuare in che modo si realizza
la rappresentanza dell’Agenzia in relazione agli interventi strutturali che
hanno interessato l’Amministrazione finanziaria.
L’Amministrazione finanziaria usufruiva ex lege, ai sensi del RD 1611/1933
(che disciplina la rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato), del regime
processuale di assistenza legale e di patrocinio previsto per le
Amministrazioni dello Stato.
Infatti, nella generalità dei casi la rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza
del fisco spettava all’Avvocatura dello Stato ed a questo organo legale, nella
persona del Ministro, dovevano essere notificate tutte le citazioni, i ricorsi,
qualsiasi atto di opposizione giudiziale e le sentenze.
L’art. 10 del d.lgs. 546/92 statuisce che è parte nel processo «l’Ufficio del
Ministero delle finanze…….che ha emanato l’atto impugnato o non ha
emanato l’atto richiesto»; mentre l’art. 11, comma 2, dello stesso decreto
dispone che «l’Ufficio del Ministero delle Finanze….omissis…sta in
giudizio direttamente o mediante l’Ufficio del contenzioso della direzione
regionale».
Il citato decreto all’art. 12, comma 4, introduce un ipotesi di assistenza
facoltativa dell’Organo legale stabilendo che:«l’ufficio del Ministero delle
Finanze, nel giudizi di secondo grado, può essere assistito dall’Avvocatura
dello Stato».
Infine, un limite all’autonomia processuale del Ministero delle Finanze è
stato fissato dall’art. 21 della l. 13 maggio 1999, n. 133, con la previsione
che le sentenze pronunciate nel secondo grado del giudizio, ai fini del
72
decorso del termine breve di cui all’art. 325, secondo comma, cpc, vanno
notificate all’Amministrazione finanziaria presso l’Avvocatura dello Stato.
Il venir meno dell’applicazione dell’art. 1 del RD 1611/1933, a decorrere dal
1 gennaio 2001, ha determinato che l’Agenzia delle entrate ha la facoltà di
richiedere l’assistenza dell’Avvocatura dello Stato.
3. La circolare dell’Agenzia delle entrate del 30 luglio 2001 n. 71/E/2001.
Con la circolare 71/E del 30 luglio 2001 l’Agenzia delle entrate – Direzione
centrale normativa e contenzioso – prende posizione sui problemi sollevati
dal d.lgs 300/99.
E’ bene prima di tutto sottolineare che i problemi derivanti dalla riforma
dell’Amministrazione finanziaria, non si riflettono esclusivamente sul
processo tributario ma interessano anche i rapporti ed i giudizi extra-fiscali
ad esempio le controversie dinanzi al giudice ordinario o amministrativo.
Per quanto attiene il processo tributario le questioni inerenti la legittimazione
e la difesa del Fisco riguardano112:
1) i giudizi davanti alle Commissioni tributarie e regionali; 2) la notifica
delle sentenze delle Commissioni tributarie regionali; 3) la proposizione del
ricorso per Cassazione contro le sentenze delle Commissioni tributarie
regionali.
Nei giudizi davanti alle Commissioni tributarie provinciali e regionali, la
legittimazione spetta agli Uffici locali delle Agenzie delle entrate, così come
avveniva in passato, in applicazione di quanto stabilito dagli artt. 10 e 11 del
d.lgs 546/92; mentre, nei giudizi di secondo grado, ma solo come ipotesi
eccezionale, si può riscontare l’assistenza nel giudizio da parte
dell’Avvocatura dello Stato ai sensi dell’art. 12, comma 4.
112
Questi problemi sono stati affrontati in dottrina e si segnalano, tra i primi autori che si
sono occupati ex professo dell’argomento, BERLIRI, Le Agenzie fiscali – Conseguenze e
problemi in ordine al contenzioso tributario, in Il fisco, n. 10/2001, p. 3841; MULEO,
L’attuazione delle Agenzie fiscali ed i connessi profili di legittimazione ad agire e
processuale, in Rass. trib. n. 2/2001, p. 377; PERRUCCI, L’entrata in funzione delle
Agenzie fiscali, in Boll. trib. n. 3/2001, p. 181.
73
Ne consegue che all’Ufficio locale dell’Agenzia dovranno essere notificate
le sentenze della Commissione tributaria regionale, in quanto, non trova
applicazione l’art. 11 del RD 1611/1933, tranne i casi di notifica presso
l’Avvocatura dello Stato per le controversie di secondo grado in cui si
verifica l’assistenza diretta da parte di questo organo.
Seguendo questa impostazione, saranno legittimati alla proposizione dei
ricorsi per Cassazione gli Uffici locali del Fisco, ancorché difesi
dall’Avvocatura dello Stato.
Inoltre, la circolare afferma un’applicazione uniforme, ai giudizi instaurati
prima e dopo il 1 gennaio 2001, senza considerare la possibilità di diverse
soluzioni; in quanto, si pone la problematica in merito all’applicazione di
una nuova disciplina ai rapporti e nei giudizi già pendenti prima della sua
entrata in vigore.
Le Agenzie fiscali delle entrate, delle dogane, del territorio e del demanio
sono dotate di personalità giuridica di diritto pubblico, nonché, di autonomia
regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e
finanziaria secondo quanto statuito dal d.lgs. 300/99 e dai rispettivi Statuti.
Proprio in ragione di questa autonomia regolamentare ed organizzativa il
decreto sopra citato nulla riporta sulla organizzazione interna delle singole
Agenzie fiscali, ad eccezione dell’indicazione all’art. 57, comma 1, nella
parte in cui prevede che: «alle Agenzie fiscali sono trasferiti i relativi
rapporti giuridici, poteri e competenze che vengono esercitate secondo la
disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna Agenzia».
Lo Statuto dell’Agenzia delle entrate all’art. 17 rubricato come “norma
transitoria” dispone che: «alla data stabilita con decreto del Ministro di cui
all’art. 73, comma 4, del decreto istitutivo, l’agenzia subentra al Ministero
delle Finanze nei rapporti giuridici, poteri e competenze relativi ai servizi ad
essa trasferiti o assegnati».
Tuttavia, nei vari atti normativi non si trova un espresso riferimento alle
disposizioni del d.lgs. 546/92, ed in particolare agli artt. 10, 11 e 12 con la
conseguenza di dubitare della vigenza di questi articoli, anche se si deve
74
prendere atto di una tacita sostituzione113 ex lege della nuova struttura
periferica interna delle Agenzie fiscali rispetto alla preesistente struttura
operante sul piano processuale. Quindi, ad ogni singolo Ufficio dell’Agenzia
spetta la qualità di parte e la capacità di stare in giudizio così come previsto
dagli art. 10, 11 e 12 del d.lgs. 546/92.
4. L’Avvocatura dello Stato e la legittimazione nel giudizio di
Cassazione.
La legittimazione della parte pubblica e la sua difesa nel terzo grado del
processo, prima dell’entrata in funzione delle Agenzie fiscali, spettava al
Ministero delle finanze in persona del Ministro in carica e la sua difesa era
obbligatoriamente affidata, ex lege, all’Avvocatura generale dello Stato114
113
Secondo MULEO, L’attuazione delle Agenzie fiscali ed i connessi profili di
legittimazione ad agire e processuale, in Rass. trib. n. 2/2001, p. 379, mentre «non v’è
dubbio che alle Agenzie fiscali vada riconosciuta in ambito processuale, per via
dell’anzidetta titolarità di diritti sostanziali, la legitimatio ad causam», è dubbio «se le
Agenzie fiscali siano anche dotate di legitimatio ad processum». L’autore propende
comunque per l’affermativa, riconoscendo al d.lgs. n. 300/1999 «la valenza di “modifica
tacita” del testo normativo del d.lgs. nn. 546/1992 e 300/1999 (lex posterior) possono,
peraltro, far concludere, quanto alla loro peculiarità, che ognuna di essa è speciale nel suo
proprio settore di intervento; allora, l’interpretazione abrogativa-integrativa avrebbe la
conseguenza ed il pregio di far corrispondere al ruolo sostanziale attribuito alle Agenzie
un’idonea attitudine processuale ed, al contempo, di rispettare la volontà del legislatore del
1992 di contemplare un rito nel quale l’organo che emette l’atto d’imposizione gode di
legittimazione processuale ed è facultato a stare in giudizio direttamente, ai sensi dell’art.
11»
114
La normativa che regge l’Istituto nella sua attuale configurazione si articola in due testi
legislativi fondamentali: il T.U. RD 30.11.1933, n. 1611 che segnò il culmine e la
sistematizzazione di una serie di riforme maturate fra le due guerre e la l. 3.04.1979, n. 103
che, a sua volta, sistematizzò, da un lato, le nuove funzioni che l’Istituto era andato ad
assumere nel nuovo assetto dello Stato repubblicano, accentuò, dall’altro, insieme alla
vocazione giusitiziale, quella tecnico-professionale dell’Avvocatura nel quadro di una
riforma che se pur parziale, ha valori di fondo ispirati a principi di efficienza e
democraticità. La posizione acquisita dall’Istituto nel sistema della Costituzione vigente,
certo esclude la sua immedesimazione con gli organi dell’amministrazione pubblica, nei cui
confronti esercita la funzione istituzionale, autonoma ed indipendente, di consulenza e di
difesa in giudizio. L’istituto è, infatti, attributario per legge, in via generale, del compito di
provvedere «alla tutela legale dei diritti e degli interessi dello Stato», di corrispondere alla
richiesta di consultazione di tutte le amministrazioni statali (tale richiesta può essere
avanzata, oltre che dal Ministro preposto al Dicastero, anche da Direzioni generali e da altri
uffici anche periferici dell’amministrazione), di «consigliare e dirigerle quando si tratti di
promuovere, contestare o abbandonare giudizi» (art. 13, RD 1611/1933). A tal fine (e per gli
altri compiti previsti dalla legge come l’esame di progetti di legge, regolamenti, capitolati,
transazioni, contratti, ecc.), corrisponde direttamente con dette amministrazioni, che sono
75
tenute a fornirgli i chiarimenti, le notizie e i documenti necessari per l’adempimento delle
sue attribuzioni (art. 35, RD 1611/1933). Tale disciplina concorre a chiarire la portata della
statuizione di legge secondo la quale «gli uffici dipendono dal Capo del Governo Primo
Ministro Segretario di Stato (oggi Presidente del Consiglio dei Ministri) e sono posti sotto
l’immediata direzione dell’Avvocato Generale» (art. 17, RD 1611/1933). Siffatta
dipendenza dal vertice del governo, espressamente riferita agli «Uffici», non può che
riguardare il sistema organizzatorio di questi, e così la provvista del personale e dei mezzi
finanziari e strumentali, la costituzione dei rapporti di servizio (le nomine sono disposte per
gli avvocati e procuratori, con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del
Presidente del Consiglio) e gli eventuali altri provvedimenti di stato giuridico nonché ogni
altra iniziativa connessa con la responsabilità politica del Presidente del Consiglio e inerente
l’organizzazione e alla rispondenza dell’attività dell’Istituto ai compiti di legge ai compiti
della legge o sulla base di essa affidatigli. Fuori discussione è invece l’indipendenza e
l’autonomia funzionale di ordine tecnico-professionale, vieppiù accentuata dalle innovazioni
portate dalla l. n. 103 del 1979. Le due fondamentali funzioni dell’Avvocatura dello Stato
sono la rappresentanza e difesa in giudizio, da un lato, e la consulenza legale, dall’altro. La
prima è ispirata ad una tendenziale universalità di patrocinio, di fronte «a tutte le
giurisdizioni» (art. 1 RD 30.10.1933, n. 1611). L’elencazione dai tradizionali giudizi civili,
penali, amministrativi e arbitrali ai più recentemente contemplati giudizi dinanzi alla Corte
Costituzionale ed ai Collegi comunitari ed internazionali sarebbe un fuor d’opera. Un primo
gruppo di deroghe, dettate dalla necessità di non gravare il troppo esiguo organico
dell’Avvocatura con una mole di cause di modesta importanza, è dato dai giudizi per
insinuazione tardiva di crediti in procedure fallimentari, procedure di ammortamento ex art.
2016 c.c., esecuzione forzata sui mobili e sugli immobili ai sensi del RD 14.4.1910, n. 639,
cause dell’Ente FF.SS. dinanzi a Pretori e Conciliatori e relative al contratto di trasporto e
dai giudizi dinanzi alle Commissioni tributarie nonché giudizi di opposizione davanti al
Pretore alla ordinanza-ingiunzione di pagamento o di confisca per contravvenzioni
depenalizzate ex l. 24.11.1981, n. 689. In tali giudizi la lite è gestita direttamente da
funzionari dell’Amministrazione, salva sempre la possibilità dell’Avvocatura di assumere,
eventualmente su richiesta dell’Amministrazione, il patrocinio. In taluni casi tale intervento
è prescritto dalla legge (ad esempio, opposizione ad insinuazione tardiva, opposizione nel
procedimento di ammortamento). Non costituisce, invece, come è ovvio, eccezione al
principio generale la facoltà che ha l’Avvocatura di rilasciare deleghe procuratorie ad
avvocati del libero foro ed a funzionari dell’Amministrazione (art. 2 RD 1611/1933). Un
secondo gruppo di deroghe è dato dalla particolare struttura del giudizio: dinanzi ai
Tribunali penali e militari ed alla Corte Costituzionale in composizione integrata per i
giudizi di accusa, non essendo prevista la costituzione di parte civile, è esclusa la
partecipazione dell’Avvocatura; lo stesso avviene nei giudizi di conto e responsabilità
dinanzi alla Corte dei Conti, in cui il Procuratore generale assume anche la tutela degli
interessi patrimoniali dello Stato. Una deroga ulteriore (art. 41 T.U. 1054/1924) prevede la
possibilità, per l’Amministrazione, di farsi difendere in giudizio davanti al Consiglio di
Stato da un dirigente dell’Amministrazione che ha emanato il provvedimento o da un
referendario del Consiglio di Stato. La norma è caduta in desuetudine in punto di fatto ed è
diffusa opinione che in punto di diritto debba considerarsi abrogata per incompatibilità con
il nuovo assetto del processo amministrativo introdotto con la l. 16.12.1971, n. 1034, dove
non si prevede una difesa sostitutiva dell’Avvocatura. L’abrogazione deve ritenersi pacifica
con riguardo all’ipotesi di delega a referendari del Consiglio di Stato, meno convincente è
per quanto riguarda i dirigenti dell’Amministrazione, specie in relazione a quanto osservato
sull’inadeguatezza di organico dell’Avvocatura. Strettamente connesse con la difesa in
giudizio sono le deroghe al comune diritto processuale in tema di rappresentanza (conferita
ex lege con la conseguente esenzione della necessità del mandato ad litem), di foro speciale
(foro dello Stato), di notifica, ecc. Per la notifica degli atti giudiziari l’art. 10 della l. n. 103
del 1979, innovando su di una regola pretoriamente introdotta dal Consiglio di Stato (C. St.,
Ad. plen., 15.1.1960, n. 1), ha infatti esteso a tutti i giudizi il principio della notifica presso
l’Avvocatura dello Stato competente di tutti gli atti processuali diretti a soggetti da essa
76
con sede in Roma, luogo in cui dovevano essere notificati i ricorsi.
Questa ricostruzione si basava sulla constatazione che gli artt. 10, 11 e 12 del
d.lgs. 546/92 riconoscevano agli Uffici fiscali la qualità di parte, nonché, la
loro capacità di stare in giudizio esclusivamente dinanzi alle Commissioni
tributarie; mentre, per i giudizi successivi si applicava la regola generale
prevista dall’art. 1 del RD n. 1611/1933, secondo cui: «la rappresentanza, il
patrocinio e l’assistenza in giudizio delle Amministrazioni dello Stato, anche
se organizzate ad ordinamento autonomo, spettano all’Avvocatura dello
Stato» e, dall’art. 11, comma 1, dello stesso RD, che prevede: «tutte le
citazioni, i ricorsi e qualsiasi atto di opposizione giudiziale, nonché le
opposizioni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di giudizi che si svolgono
innanzi alle giurisdizioni amministrative o speciali o dinanzi agli arbitri,
devono essere notificati alle Amministrazioni dello Stato nel cui distretto ha
sede l’autorità giudiziaria innanzi alla quale è pendente la causa, nella
persona del Ministro competente». Inoltre, l’art. 9 della legge 3 aprile 1979,
n. 103, contenente Modifiche dell’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato,
ulteriormente specificava che: «l’Avvocatura generale dello Stato provvede
alla rappresentanza e difesa delle Amministrazioni nei giudizi davanti alla
Corte Costituzionale, alla Corte di Cassazione, al Tribunale superiore delle
acque pubbliche, alle altre supreme giurisdizioni anche amministrative, ed ai
collegi arbitrali con sede in Roma, nonché nei procedimenti innanzi a collegi
internazionali o comunitari». In tal senso si era ritenuto che la disciplina del
giudizio per cassazione contro le sentenze delle Commissioni tributarie
regionali era essenzialmente dettata dal codice di procedura civile all’art.
144 che stabilisce: «per le Amministrazione dello Stato si osservano le
disposizioni delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso gli
patrocinati introdotto con l. 25.3.1958, n. 260. Letta in combinato disposto con il successivo
art. 14 della l. n. 103 del 1979 (che prevede l’obbligo per le cancellerie e segreterie di tutti i
giudici di mettere a disposizione dell’Avvocatura dello Stato, anche se non costituita, copia
di ogni ordinanza o sentenza emanata nei confronti di un soggetto pubblico da essa difeso)
la norma configura una estensione anticipativi dell’art. 170 cpc ed appare idonea a garantire
una maggiore funzionalità del patrocinio. Il vizio di notifica comporta una nullità sanabile
(C. Cost., 8.7.1967, n. 27) ex tunc salvi i diritti quesiti con la costituzione in giudizio.
77
Uffici dell’Avvocatura dello Stato».
Questa impostazione risulta profondamente modificata da quanto disposto
dal d.lgs. n. 300/1999.
In primo luogo, questo nuovo testo normativo ha conservato il Ministero
delle finanze e poi il Ministero dell’economia e delle finanze, da un lato,
istituendo a parte le Agenzie fiscali cui si riconosce la natura di persone
giuridiche di diritto pubblico ma non quella di Amministrazioni dello Stato,
che, come risulta inequivocabilmente dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n.
29/1993,
costituiscono
una
species
del
più
vasto
genus
delle
Amministrazioni pubbliche115.
La non espressa qualificazione delle Agenzie come Amministrazioni dello
Stato, sia pure ad ordinamento autonomo, che di per sé porta ad escludere
l’applicabilità ad esse degli artt. 1 ed 11 del RD 1611/1933, sta di fatto però
115
Il punto è stato particolarmente approfondito da MULEO, L’attuazione delle Agenzie
fiscali ed i connessi profili di legittimazione ad agire e processuale, in Rass. trib. n. 2/2001,
p. 391. L’autore propende per l’inquadramento delle Agenzie fiscali tra le Amministrazioni
dello Stato ad ordinamento autonomo, da ciò conseguentemente derivando che il ricorso per
cassazione dovrebbe essere proposto contro l’Agenzia delle entrate in persona del Ministro
delle finanze pro-tempore e notificato presso l’Avvocatura generale dello Stato, dando
soprattutto rilievo alla funzione pubblicistica, «peraltro rilevantissima ed anzi essenziale per
lo Stato», ad essa demandata, nonché al «collegamento tra Ministero delle finanze e
Agenzie, riscontrabile soprattutto per ciò che concerne la nomina degli organi delle
seconde», considerando, invece, la facoltatività della rappresentanza dell’Avvocatura dello
Stato risultante dal combinato disposto dall’art. 72 del d.lgs. n. 300/1999 e dall’art. 43 del
RD n. 1611/1933 non decisiva, posto che la rappresentanza dell’Avvocatura dello Stato
«appare come posterius necessario in conseguenza della natura dell’ente piuttosto che non
un elemento di per sé condizionante la natura stessa». Anche a voler astrattamente
condividere quest’affermazione di carattere generale, non sarebbe facile recepire lo
specifico assunto che nel caso la scelta operata dall’art. 72 del d.lgs. n. 300/1972, riferendosi
espressamente all’art. 43 del RD 1611/1933 e non agli artt. 1 e 11 dello stesso RD, non sia
propriamente basata sul presupposto che le Agenzie, pur essendo sicuramente enti dotati di
personalità giuridica di diritto pubblico, come, non a caso, ben specificato all’art. 61, non
siano invece qualificabili come Amministrazioni dello Stato, sia pure ad ordinamento
autonomo, posto che proprio su questa distinzione si basa la diversificazione di disciplina
espressa dal RD n. 1611/1933, e dato che, inoltre, non risulta in alcun modo dimostrato che
attraverso il richiamo fatto all’art. 43, anziché agli artt. 1 e 11 del citato RD, si sarebbe
voluto riconoscere a tali Enti «una maggiore specificità» ed una maggiore libertà di scelta
defensionale in deroga ai casi assolutamente eccezionali di cui all’art. 5 dello stesso RD.
Oltre a ciò, contrasta vistosamente con l’art. 68 del d.lgs. n. 300/1999, che riconosce al
Direttore la rappresentanza dell’Agenzia, la tesi per cui il ricorso dovrebbe essere indirizzato
all’Agenzia «in persona del Ministro delle finanze pro-tempore», in tal modo addossando al
Ministero un diretto coinvolgimento nell’esercizio delle funzioni e dei servizi assegnati
all’Agenzia, in aperto contrasto con la chiara voluntas legislativa di lasciare al Ministero
compiti lato sensu organizzativi e d’indirizzo, che nulla hanno a che vedere con le funzioni e
i compiti delle Agenzie.
78
che l’art. 72 del d.lgs. 300/1999, nel disciplinare la rappresentanza in
giudizio delle Agenzie, espressamente statuisce che: «le Agenzie fiscali
possono avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi
dell’art. 43 del T.U. approvato con RD n. 1611/1933 e successive
modificazioni», mentre, ancora da ultimo, il DPR n. 107/2001, all’art. 20,
comma 3, dispone «alle Agenzie si applica, in materia di patrocinio
dell’Avvocatura dello Stato, il dettato dell’art. 43 del RD 30 ottobre 1933, n.
1611». L’art. 43 non attiene alle Amministrazioni dello Stato, per le quali
ricordiamo è previsto il patrocinio obbligatorio ex artt. 1 e 11 dello stesso
RD, bensì alle «Amministrazioni pubbliche non statali ed enti sopranazionali
sottoposte a tutela ed anche sotto la vigilanza dello Stato», prevedendo che
per esse «l’Avvocatura dello Stato può assumere la rappresentanza e la
difesa nei giudizi attivi e passivi avanti alle autorità giudiziarie, i collegi
arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali», peraltro «sempre che ne
sia autorizzata da disposizioni di legge, di regolamento o di altro
provvedimento approvato con regio decreto», con l’ulteriore previsione che,
qualora sia intervenuta detta autorizzazione, la rappresentanza e la difesa nei
giudizi sopra citati sono assunte dall’Avvocatura dello Stato in via organica
ed esclusiva, salva la facoltà di non avvalersi della stessa Avvocatura, previa
adozione di apposita motivata delibera da sottoporre agli Organi di vigilanza.
Né consegue che viene meno la ricostruzione secondo cui si distingue,
nell’ambito del processo tributario, un primo livello dove gli Uffici del fisco
rappresentano l’Amministrazione finanziaria, e un secondo livello che
interessa solo il giudizio di Cassazione, in cui trova applicazione il principio
generale che riconosce all’Avvocatura dello Stato la tutela delle situazioni
giuridiche che fanno capo all’Amministrazione dello Stato in persona del
Ministro in carica.
Quindi, ai singoli Uffici periferici delle Agenzie fiscali si riconosce la qualità
di parte e la relativa capacità di stare in giudizio in tutti i gradi con la
conseguenza che i ricorsi per cassazione dovranno essere indirizzati e
notificati ai singoli Uffici locali, salva la facoltà di avvalersi della difesa
79
dell’Avvocatura dello Stato.
Per quanto attiene la struttura organizzativa dell’Agenzia delle entrate si
deve richiamare il Regolamento di amministrazione, approvato con delibera
del Comitato direttivo n. 4 del 30 novembre 2000, il cui testo è entrato in
vigore dal 1° gennaio 2009. L’art. 2, al comma 2 prevede che: «l’Agenzia si
articola in Uffici centrali e regionali, con funzioni prevalenti di
programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo, e in Uffici periferici,
con funzioni operative». Gli Uffici periferici svolgono funzioni operative e
secondo l’art. 5 del Regolamento si distinguono i seguenti tipi: a) direzioni
provinciali; b) centri di assistenza multicanale; c) centri operativi e d) centri
satellite. In particolare, l’art. 5, al comma 3 prevede che: «Le direzioni
provinciali curano l’attività di informazione e assistenza ai contribuenti, la
gestione di tributi, l’accertamento, la riscossione e la trattazione del
contenzioso. Sono strutturate, a seconda delle dimensioni della direzione
provinciale, in uno o più uffici territoriali, individuati con atto del Direttore
dell’Agenzia, e in un ufficio controlli. Gli uffici territoriali sono dedicati alle
attività di informazione e assistenza, alla gestione delle imposte dichiarate e
ai controlli formali, nonché ad altre tipologie di controlli individuate con atto
del Direttore dell’Agenzia. L’ufficio controlli è dedicato a tutte le funzioni di
controllo e accertamento, fatta eccezione per quelle affidate agli uffici
territoriali, nonché al contenzioso e alla riscossione; può articolarsi in più
aree, individuate in base alla numerosità e alle caratteristiche delle diverse
tipologie di contribuenti e ai differenti tipi di attività da svolgere».
A livello sistematico, la sottolineata maggiore unitarietà e continuità del
processo tributario nell’arco dei suoi vari gradi troverebbe concreto riscontro
in base a quanto stabilito dall’art. 62, comma 2, del d.lgs. 546/92, che
prevede: «al ricorso per cassazione ed al relativo procedimento si applicano
le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili con
quelle del presente decreto»116, rilevando, comunque, la compatibilità di
116
Sulla particolare rilevanza sistemica che tutto l’art. 62, comma 1 e 2, del d.lgs. n. 546/92
ha nell’evoluzione della disciplina del processo che ne occupa, tenuto anche conto
dell’istituzione dell’apposita sezione tributaria della Suprema Corte di Cassazione, si rinvia
80
questa norma con la necessità di affidare la difesa in cassazione ad avvocati
iscritti nell’apposito albo o all’Avvocatura Generale dello Stato117.
Una problematica strettamente connessa a quanto fin qui detto attiene la
notifica delle sentenze di secondo grado.
Secondo diverse critiche alla circolare dell’Agenzia delle entrate n. 71/E si è
sostenuto118 che l’art. 21 della l. 133/1999 sarebbe tuttora vigente e dovrebbe
essere integralmente applicabile per le notifiche delle sentenze delle
Commissioni tributarie regionali ai fini della decorrenza del termine breve
per ricorrere in Cassazione.
A sostegno si è innanzitutto affermato che non sussisterebbe nessuna
incompatibilità fra questa disposizione e quelle che disciplinano le Agenzie.
La legitimatio ad causam sarebbe pur sempre rimasta in capo
all’Amministrazione, posto che, nonostante l’intervenuto trasferimento di
alcune competenze dal Ministero alle Agenzie, secondo quanto stabilito dalla
prima parte dell’art. 57 del d.lgs. 300/1999, il trasferimento non avrebbe ad
oggetto i rapporti sostanziali tributari ed i poteri inerenti la loro disciplina
facenti capo al Ministero ma si attribuirebbe soltanto la fase di attuazione dei
tributi. Questa ricostruzione poggia sulla supposta permanenza in capo al
Ministero dell’Economia e delle finanze del potere impositivo e della
titolarità delle situazioni soggettive ad esso correlate; tuttavia, tale asserita
permanenza di poteri e rapporti è smentita dai dati normativi che hanno ben
a GLENDI, Verso l’unità della giurisdizione tributaria, in L’evoluzione dell’ordinamento
tributario italiano, Atti del Convegno I settanta anni di «Diritto e pratica tributaria»
(Genova 2-3 luglio 1999), Padova, 2000, p. 607.
117
Verrebbe, quindi, in sostanza normativamente realizzato quanto, discutibilmente, dedotto
in via interpretativa dalla precedente normativa, con la sentenza della Suprema Corte n.
1099/1999, che, mettendo in motivazione a confronto l’art. 1 del RD 1611/1933 (statuente
l’inderogabilità della difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato) con il sopravvenuto art. 12
del d.lgs. 546/92 (statuente una semplice “facoltà” di scelta della difesa erariale), si poneva
il «problema se tutto ciò non sia indifferente ai fini del ricorso per cassazione che nel
vecchio testo del DPR 636/1972 non era regolato, mentre l’art. 50 del nuovo contenzioso lo
richiama ed il successivo art. 62 dispone che al ricorso per cassazione e al relativo
procedimento si applicano le norme dettate dal cpc in quanto compatibili con quelle del
decreto medesimo», dalla stessa sentenza risolto ritenendo evidente «che una ragione
d’incompatibilità sia immanente al sistema che pone fuori gioco l’art. 1 del RD del 1933 e
quindi, necessariamente, l’art. 11 dello stesso RD, il quale potrà applicarsi solo se, dinanzi
alla Commissione regionale, l’Ufficio si sia fatto assistere dall’Avvocatura distrettuale».
118
P. RUSSO – G. FRANSONI, La notifica degli atti di parte e delle sentenze a seguito
dell’istituzione delle Agenzie fiscali, in Riv. dir. trib. n. 11/2001, I, p. 899.
81
differenziato le Agenzie dalle Amministrazioni statali e dai Dipartimenti
ministeriali119.
Infatti, l’art. 57 del d.lgs. 300/1999, non mantiene nessun riferimento
unitario in capo al Ministero con la conseguenza di rendere assolutamente
priva di giuridico riconoscimento la conservazione a suo nome di una
astratta titolarità di rapporti e funzioni.
Nel tentativo di sostenere l’applicabilità dell’art. 21 si è osservato che la
ratio di questa disposizione è quella di imporre la notifica della sentenza di
secondo grado al soggetto cui spetta il patrocinio dell’Ente dinanzi alla
Cassazione, in quanto, il termine breve – che decorre dalla data di notifica
della sentenza – sarebbe troppo ristretto per consentire una tempestiva
attuazione della decisione di ricorrere cassazione ove la notifica fosse stata
effettuata all’Ufficio periferico. Ma se la ratio fosse stata questa la legge
avrebbe dovuto indicare il luogo della notifica delle sentenze presso
l’avvocatura generale dello Stato, all’epoca solo ed esclusivo organo
legittimato a ricorrere in Cassazione per l’Amministrazione finanziaria120.
119
Come scrive BUTTUS, L’attuazione delle Agenzie fiscal: profili e problematiche di
natura processuale, in Riv. dir. trib. n. 9/2001, I, p. 879, confrontando l’ideale struttura
piramidale della preesistente organizzazione finanziaria ministeriale, può dirsi che l’Agenzia
abbia preso il posto del Ministero delle finanze, al quale ora sono attribuite funzioni diverse
ed estranee all’attuazione della norma fiscale, trasferite in toto – in unum con i mezzi ed il
personale prima inquadrato presso il Ministero delle finanze – alla prima. Pur tuttavia,
l’Agenzia dotata di propria soggettività non pare potersi considerare consentanea, omologa,
del pregresso dipartimento: quello era (ed è ancora) articolazione (centrale) del Ministero,
questa è autonomo soggetto di diritto pubblico, affatto differente da un’amministrazione
statale.
120
Non vi è dubbio, infatti, che, ove spettassero, come allora sicuramente spettavano,
all’Avvocatura generale dello Stato (sulla base, tra l’altro, anche dell’art. 9 della legge 3
aprile 1979, n. 103), la rappresentanza e la difesa delle Amministrazioni dello Stato secondo
quanto evidenziato da NUSSI, Notifica della sentenza della Commissione tributaria
regionale: un’interpretazione autentica di dubbia ragionevolezza, in Rass. trib., n.3/2000,
p. 963, sul punto specificamente richiamato da RUSSO – FRANSONI, La notifica degli atti
di parte e delle sentenze a seguito dell’istituzione delle Agenzie fiscali, in Riv. dir. trib. n.
11/2001, I, p. 901, sarebbe stata quella d’imporre la notificazione delle sentenze impugnabili
per cassazione all’Amministrazione finanziaria dello Stato presso l’Avvocatura generale
dello Stato, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnarle, come del resto
condivisamene ritenuto dalla Suprema Corte di Cassazione , Sez.I, con sentenza 17 giugno
1998, n. 6034, prima dell’erroneo slittamento interpretativo operato dalla stessa Suprema
Corte sulla scorta di altra dottrina verso al ritenuta notificabilità della sentenza di secondo
grado agli Uffici periferici, nell’assunto che il discrimen tra soggettività di tali Uffici
rispetto alla soggettività centralizzata fosse determinato dalla “notificazione”, anziché dalla
pubblicazione della sentenza stessa.
82
Il richiamo fatto dall’art. 21 della l. 133/1999 all’art. 11 del RD n. 1611/1933
non è un mero espediente per individuare la disciplina della notifica delle
sentenze;
ma
è
connesso
al
regime
obbligatorio
di
difesa
dell’Amministrazione finanziaria ex art. 1 del RD citato, che demandava
all’Avvocatura dello Stato il controllo generalizzato ex lege di tutto il
contenzioso riguardante l’Amministrazione stessa.
Nel sistema attuale in cui i vari Uffici periferici investono l’Avvocatura dello
Stato della difesa di singole vertenze, si può ritenere priva di ogni ragion
d’essere e di ogni residua funzionalità l’eccezionale disposizione di cui
all’art. 21, che deve pertanto ritenersi tacitamente abrogata o non più
applicabile alle sentenze delle Commissioni tributarie di secondo grado per i
processi iniziati dopo il 1° gennaio 2001121.
Non trova una conclusione il problema relativo alla determinazione dei
soggetti ai quali la notifica della sentenza deve essere fatta, se all’Agenzia
fiscale in persona del suo direttore presso la relativa sede legale122, o ai
singoli Uffici periferici della stessa.
Quest’ultima soluzione è in effetti quella preferibile considerato il
riconoscimento di una perdurante legittimazione degli Uffici periferici sino
all’esito del processo tributario unitariamente strutturato123.
Sul punto, GLENDI, Notificazione di sentenze della C.T.R.: contrastante orientamento della
Cassazione, in Corr. trib. n. 1/1999, 13; PISTOLESI, Sulla notifica del ricorso per
Cassazione proposto dal contribuente avverso le sentenze delle Commissioni tributarie
regionali, in Giur. it., 2000, p. 430; ROCCHITTA, Notifica di sentenza della C.T.R.
all’Avvocatura generale dello Stato o ai singoli Uffici?, in GT – Riv. giur. trib. n. 4/1999,
304.
121
In tal senso, GLENDI, Legittimazione e difesa in giudizio dell’Agenzia del territorio, in
Corr. trib. n. 7/2003, 583.
122
E’ questa la soluzione seguita da PISTOLESI, Le parti e la loro rappresentanza ed
assistenza in giudizio, in Quad. Cons.pres.giust. trib. 4/00 in stretta coerenza con l’opinione,
perfettamente condivisibile, che il limite della soggettività degli organi periferici termina
con la pubblicazione e in armonia con la ritenuta legittimazione di un organo centrale
riguardo al giudizio di terzo grado, senza peraltro tener conto che, se questa legittimazione
era sicuramente sostenibile in base all’assetto normativo anteriore all’istituzione delle
Agenzie, la stessa non è più viceversa accreditabile dopo quella nuova disciplina.
123
E’ questo un dato comune a tutta la giurisprudenza della Suprema Corte, fatta solo
eccezione per la sentenza 9 febbraio 1999, n. 1094, in Corr. trib. n. 31/1999, p. 2372, con
commento di GRIMALDI e in GT – Riv. giur. trib. n. 9/1999, p. 741, con il commento di
DE MITA, con la quale sentenza si era, infatti, ritenuto che, tanto le sentenze delle
Commissioni tributarie di secondo grado, quanto i ricorsi per cassazione dovessero essere
notificati agli Uffici periferici dell’Amministrazione finanziaria dello Stato, a tale
83
Se la circolare 71/E/2001 dell’Agenzia delle entrate delinea questa
soluzione, non altrettanto possiamo dire per la circolare 5/T del 2002
dell’Agenzia del territorio. Nella prima circolare, quella dell’Agenzia delle
entrate, è detto esplicitamente che il ricorso per cassazione deve essere
intestato e notificato all’Ufficio locale dell’Agenzia che era stata parte nel
giudizio di secondo grado; mentre, nella circolare 5/T del 2002 si dice
genericamente che il ricorso deve essere inoltrato all’Agenzia del territorio
senza specificare se l’intestazione e la notifica debba propriamente essere
fatta all’Agenzia del territorio presso la sede centrale in Roma ovvero presso
i suoi Uffici periferici che sono stati parti nel secondo grado di giudizio.
Al fine di chiarire queste diverse prese di posizione, è necessario partire
dalla sancita inapplicabilità degli artt. 1 e 11 del RD 1611/1933, a seguito di
quanto disposto dal d.lgs. 300/1999 ed in particolare dall’art. 72 che incide
su tutta la struttura organizzativa e sulla problematica della legittimazione e
della difesa della pars pubblica.
Come già anticipato, sulla base degli artt. 1 e 11 del RD 1611/1933 si era
sostenuto che la legittimazione attiva e passiva della pars pubblica spettava
conclusione giungendo proprio in base al già allora ritenuto superamento della distinzione
tra soggettività degli Uffici limitatamente ai primi due gradi e legittimazione esterna
dell’Amministrazione finanziaria per il terzo grado. In particolare, con questa sentenza,
mettendo in motivazione a confronto l’art. 1 del RD 1611/1933 (statuente l’inderogabilità
della difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato), la Corte si era appositamente posta «il
problema se tutto ciò non sia indifferente ai fini del ricorso per cassazione che nel vecchio
testo del DPR n. 636/1972 non era regolato, mentre l’art. 50 del nuovo contenzioso lo
richiama ed il successivo art. 62 dispone che al ricorso per cassazione e al relativo
procedimento si applicano le norme dettate dal cpc in quanto compatibili con quelle del
decreto medesimo» e questo problema aveva per l’appunto ritenuto di poter risolvere
osservando come «una ragione d’incompatibilità sia immanente al sistema che pone fuori
gioco l’art. 1 del RD del 1933 e quindi, necessariamente, l’art. 11 dello stesso RD, il quale
poteva applicarsi sol se, dinanzi alla Commissione regionale, l’Ufficio si sia fatto assistere
dall’Avvocatura distrettuale». Questa decisione era in effetti criticabile con riferimento alla
normativa all’epoca vigente, apparendo infatti azzardato ritenere l’intervenuta messa fuori
campo degli artt. 1 e 11 del RD 1611/1933 per il solo fatto della subentrata disposizione
dell’art. 12, comma 4, del d.lgs. 546/1992. Questa soluzione, all’epoca prematura, appare,
peraltro, in oggi la sola imposta proprio dalla riforma delle Agenzie, essendo venuta meno
l’Amministrazione finanziaria ed essendo stati gli artt. 1 ed 11 del RD 1611/1933
indiscutibilmente messi da parte anche per effetto dell’art. 72 del d.lgs. 300/1999, secondo
cui le Agenzie fiscali «possono» soltanto avvalersi dell’Avvocatura dello Stato «ai sensi
dell’art. 43» del RD 1611/1933, laddove l’Amministrazione finanziaria dello Stato era
obbligatoriamente rappresentata e difesa dall’Avvocatura dello Stato in base agli artt. 1 e 11
dello stesso RD 1611/1933.
84
all’Amministrazione finanziaria o al Ministero con il patrocinio obbligatorio
dell’Avvocatura dello Stato e che, a fronte di questa generale previsione, gli
artt. 10 e 11 del d.lgs. 546/1992, nel riconoscere la legittimazione agli Uffici
periferici
dell’Amministrazione
stessa,
rappresentavano
una
deroga
espressamente limitata ai due gradi, così che nel terzo grado tornava a valere
la regola generale anzidetta.
Il venir meno dell’applicabilità degli artt. 1 e 11 del RD, sia nei confronti
dell’Amministrazione delle finanze dello Stato o del Ministero competente, e
sia nei confronti delle Agenzie, fa sì che non trovi più applicazione la
precedente distinzione con la conseguenza che i dati normativi di riferimento
sono gli artt. 10, 11, 12 comma 4 e 62 comma 1 e 2, del d.lgs. 546/92.
Dagli artt. 10 e 11 risulta che sono parti abilitate a stare in giudizio, senza
obbligo di difensore, gli Uffici periferici delle Agenzie fiscali; tuttavia,
dall’art. 12, comma 4, risulta che detti Uffici possono essere assistiti
dall’Avvocatura dello Stato in secondo grado. Ai sensi dell’art. 62 del d.lgs.
546/92 il ricorso per cassazione contro le sentenze delle Commissioni
tributarie rientra nell’ambito di un processo tributario unitario così come
avviene nel campo processualcivilistico124.
In base al più volte richiamato d.lgs. 300/1999 – recante la riforma
dell’organizzazione del Governo – con gli artt. 57 e 74 viene strutturalmente
innovato il modello organizzativo del Ministero delle finanze che si
trasforma in Ministero dell’economia e delle finanze con la conseguenza che
specifiche attività, esercitate da alcuni Dipartimenti ed Uffici del preesistente
Ministero, sono attribuite alle Agenzie fiscali alle quali si riconosce lo status
di persone giuridiche di diritto pubblico. Per effetto dell’art. 68 dello stesso
decreto legislativo le Agenzie possono stare in giudizi a mezzo del direttore
che ne ha la rappresentanza, avvalendosi, eventualmente, del patrocinio
facoltativo dell’Avvocatura dello Stato. Inoltre, l’art. 73, comma 4, affidava
124
Sulla essenziale portata unificante dell’art. 62 del d.lgs. 546/1992, soprattutto dopo
l’introduzione della Sezione tributaria al vertice della Suprema Corte di Cassazione, vedi, in
particolare, GLENDI, Rapporto tra nuova disciplina del processo tributario e codice di
procedura civile, in Dir. prat. trib., 2000, I, p. 1760.
85
al Ministero delle finanze, il compito di stabilire la data a decorrere dalla
quale le funzioni svolte dallo stesso Ministero sarebbero dovute essere
affidate alle Agenzie fiscali. Tale termine viene espresso dal D.M. 28
dicembre 2000125 , il quale individuava il momento di attivazione delle
Agenzie alla data del 1° gennaio 2001, con la contestuale acquisizione della
titolarità di tutti i rapporti giuridici esistenti, già di pertinenza dei preesistenti
Dipartimenti del Ministero delle Finanze.
In questo contesto, il Comitato direttivo dell’Agenzia delle entrate, con
delibera del n. 9 del 10 gennaio 2001, stabiliva con riserva di addivenire ad
un assetto definitivo entro il 28 febbraio 2001, di avvalersi dell’Avvocatura
dello Stato per le controversi per le quali le competenti Direzioni Regionali o
Centrali avanzino richiesta di difesa, confermando, nel contempo gli
incarichi della stessa già assunti relativamente ai rapporti facenti capo agli
Uffici del Dipartimento del Ministero delle finanze.
Secondo quanto chiarito dalla circolare dell’Agenzia delle entrate 30 luglio
2001, n. 71/E, si deve ritenere che, non essendo attribuita all’organo legale le
rappresentanza
in
giudizio
ex
lege
dell’Agenzia,
la
posizione
dell’Avvocatura dello Stato, in base all’indirizzo assunto dalla Corte di
Cassazione126, assuma rilevanza esterna solo a seguito della costituzione nel
singolo rapporto. Tale affermazione, secondo quanto affermato dall’Agenzia,
si riflette sulla disciplina degli atti prodromici all’incardinamento della lite e,
in particolare, sulla notifica delle citazioni, dei ricorsi e di ogni altro atto di
opposizione giudiziale per i quali tornano applicabili non più le disposizioni
dell’art. 11, comma 1, del RD 1611/1933, che autorizza la notifica presso
l’Ufficio dell’Avvocatura dello Stato, bensì i principi generali in tema di
notificazioni degli atti alle parti processuali che, in applicazione degli artt.
137 e seguenti del c.p.c. prevedono la notifica presso l’Agenzia e, in
particolare, presso l’Ufficio locale dell’Agenzia individuato in base a
125
Decreto ministeriale concernente le «Disposizioni recanti le modalità di avvio delle
Agenzie fiscali e l’istituzione del ruolo provvisorio del personale dell’amministrazione
finanziaria a norma degli articoli 73 e 74 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 330».
126
Cass. SS.UU., 11 aprile 1995, n. 4149.
86
specifiche norme nelle singole materie e con riferimento alle singole
giurisdizioni.
87
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