Materiale letterario - Libera Università dell`Autobiografia

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Materiale letterario - Libera Università dell`Autobiografia
Al cuore del problema ambientale
Intervento di Anna Re al Convegno del 18 Maggio
“The favorite adjective of [the environmental] movement now seems to be planetary. This word is used, properly enough, to refer
to the interdependence of places, and to the recognition, which is
desirable and growing, that no place on the earth can be completely
healthy until all places are. Only love can bring intelligence out of
the institutions and organizations… Love is never abstract. It does
not adhere to the universe or the planet or the nation or the institution or the profession, but to the singular sparrows of the street, the
lilies of the field…” ( Wendell Berry, “Word and Flesh” )
“Questa strada ha un cuore? Se lo ha la strada è buona. Se non lo
ha non serve a niente. Entrambe le strade non portano da alcuna
parte, ma una ha un cuore e l’altra no. Una porta un viaggio lieto;
finché la segui sei una sola cosa con essa. L’altra ti farà maledire la
tua vita. Una ti rende forte; l’altra ti indebolisce”. ( Carlos Castaneda, Gli insegnamenti di don Juan )
Con sempre maggiore insistenza i media ci illustrano la crisi ambientale che stiamo vivendo. Se ne parla, legittimamente, in termini globali, ma da una tale prospettiva non si riesce a provocare un
coinvolgimento dei cittadini e si genera solamente un sentimento di
ansia astratta che non conduce a risultati e a prese di posizione concrete. La sensazione è che il problema sia lontano e ancora di più
indipendente da noi, che il singolo non possa incidere sugli equilibri planetari. Ma non è realmente così. Per comprendere quando
sia prossimo alla nostra quotidianità quello che sta accadendo è necessario ridurre il campo di azione e occuparci di chi ci è vicino, di
ciò che amiamo, di percorrere quel sentiero “con un cuore” indicato
dal Don Juan di Carlos Castaneda (Gli insegnamenti di don Juan,
1999). Occuparsi del “qui e ora”, dei “singular sparrows of the street”
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citati dallo scrittore e naturalista americano Wendell Berry è uno degli interessi maggiori della letteratura ambientale e del genere nature
writing che negli Stati Uniti hanno avuto una diffusione molto ampia
(Henry David Thoreau, John Muir, Aldo Leopold, Rachel Carson,
Edward Abbey, Annie Dillard, Terry Tempest, Barry Lopez, solo per
citare alcuni classici). Negli ultimi 15 anni le scienze cognitive sono
arrivate inoltre a sostenere che l’interazione di razionalità, esperienza
e affettività permetta all’uomo di avere una migliore percezione della
realtà perché in tal mondo vengono utilizzati due sistemi interattivi e
paralleli per elaborare le informazioni: quello razionale – rational system – e quello dell’esperienza – experiental system – che codifica la
realtà attraverso immagini, metafore e racconti associati a sentimenti
e affetti. Il punto è centrale perché evidenzia l’efficienza, la velocità e
la facilità con cui possiamo pervenire a una migliore percezione della
realtà tramite l’experiental system. La narrativa è emotivamente coinvolgente e rappresenta gli eventi in un modo simile a come vengono
sperimentati nella vita reale, includendo un luogo, un tempo, personaggi con un loro progetto, uno spiegarsi sequenziale. Il risultato è
che la narrativa è intrinsecamente attraente, diversamente da conferenze su argomenti astratti e documenti tecnici. Trovare una modalità di comunicazione che sappia interagire con l’experiental system
può contribuire a migliorare la percezione delle questioni ambientali.
La letteratura può essere in grado di veicolare tali contenuti poiché
usa un linguaggio emotional, in grado di trasmettere emozioni, motus. Per questa ragione la comunicazione e l’educazione all’ambiente
dovrebbero tenere in seria considerazione la narrativa per raggiungere un pubblico più ampio. Relazioni, interconnessione, positività,
energia, azione: la letteratura ambientale si delinea come un tentativo
riuscito di restituire all’uomo il senso profondo del suo essere, di riportarlo lungo quel sentiero che porta all’armonia e a una proficua e
gratificante relazione con l’ambiente naturale che ci circonda. La strada da percorrere è quella con “un cuore” come suggerisce il Don Juan
di Castaneda: “Questa strada ha un cuore? Se lo ha la strada è buona.
Se non lo ha non serve a niente. Entrambe le strade non portano da
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alcuna parte, ma una ha un cuore e l’altra no. Una porta un viaggio
lieto; finché la segui sei una sola cosa con essa. L’altra ti farà maledire
la tua vita. Una ti rende forte; l’altra ti indebolisce”.
ANNIE DILLARD
(1945-)
Annie Dillard è una delle voci che più si distinguono per la produzione di letteratura ambientale negli Stati Uniti. Il suo stile eclettico e ricco di energia riflette la sua convinzione che la vita abbracci un’ampia gamma di realtà, dal sublime all’assurdo. La Dillard si
descrive come a poet and a walzer1 ricordando in questo Thoreau,
a cui aggiunge la sua passione per la teologia. Nei suoi libri racconta della natura cercando di comprendere cosa significhi, che cosa si
provi a essere vivi a questo mondo, secondo la scrittrice infatti life is
literature. Ciò che le interessa è “Il paesaggio mentale [che] è ric­co e
vario come il paesaggio umano di Maine street e come il paesaggio
di fo­­re­ste delle colline. Tutto si mette in mostra. Tutto è interessante.
Bisogna indagare ogni luogo in profondità”.2
Pilgrim at Tinker Creek (1974), il primo libro in prosa pubblicato
dalla Dillard, ha vinto il premio Pulitzer nel 1975 nella sezione non
fiction ed è diventato uno dei lavori più importanti e imitati del nature writing contemporaneo. È il racconto di un anno, il 1972, trascorso
nella Roanoke Valley nelle Blue Ridge Mountains, in cui la scrittrice
esplora la natura della coscienza umana e la storia naturale locale. A
differenza di autori come Edward Abbey, lo scopo della Dillard non
è teorizzare una nuova etica ambientale, ma descrivere in tutti i suoi
1 Elder, John, Finch, Robert, a cura di, The Norton Book of Nature Writing, op. cit., p. 816.
2 Anderson, Lorraine, O’Grady, John P., Slovic, Scott, a cura di, Literature and the Environment. A Reader on Nature and Culture, New York,
Longman, 1999, p. 4: “The mental landscape [which] is as rich and various
as the human landscape on Main Street, and as the forest landscape on the
hillsides. It is all a parade. It is all interesting. Dig anywhere”.
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aspetti, anche i più misteriosi, l’essenza della vita.
L’apertura di Pilgrim at Tinker Creek è uno dei passi più famosi del
libro. Scrive la Dillard: I used to have a cat. L’autrice racconta della sua
abitudine di dormire nuda di fronte a una finestra aperta, e che il suo
gatto, tutte le notti, passava dalla finestra per entrare in casa dopo essere andato a caccia. Al mattino la Dillard si svegliava trovando il suo
corpo “ricoperto di impronte di zampe color sangue, sembrava che
fossi stata dipinta con le rose”.3 Questa frase introduce importanti idee
che vengono sviluppate nel libro. La Dillard presenta insistentemente
il mondo naturale come magnifico e cruento, come l’immagine delle
rose dipinte con il sangue. Questa visione è possibile attraverso una
sempre maggiore consapevolezza del mondo naturale che la Dillard
acquisisce attraverso un costante e profondo rapporto con la natura.
Selezioni dal volume sono frequentemente inserite in antologie e
utilizzate in corsi universitari perché molti critici hanno visto in Pilgrim una versione moderna di Walden, e in effetti i due libri hanno
dei punti in comune. Entrambi condensano nella scrittura anni di
esperienza in uno solo; sono organizzati in modo organico, basati sul
ciclo delle stagioni; entrambi predicano la simple life, a contatto con
i fatti essenziali della vita; entrambi utilizzano la scienza e la natural history per raccontare le storie della terra; e invocano uno studio
diretto della natura come mezzo migliore per conoscere il mondo.
Entrambi condividono uno stile unico e raffinato.
Ma la Dillard si allontana da Thoreau per due ragioni. La scrittrice è profondamente legata alla tradizione cristiana, Thoreau invece
abbandonò la fede nelle religioni rivelate abbracciando il trascendentalismo. La Dillard dichiara con convinzione di non essere una scienziata anche se usa dati derivati da studi scientifici. Thoreau si riteneva
uno scienziato e soprattutto credeva sinceramente nella potenzialità
della ricerca scientifica. Ma le somiglianze tra i due autori sono state
sufficienti per considerare la Dillard l’erede al femminile di Thoreau.
3 Dillard, Annie, Pilgrim at Tinker Creek, New York, HarperCollins, p.
4: “covered with paw prints in blood; I looked as though I’d been painted
with roses”.
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Dopo Pilgrim at Tinker Creek la scrittrice ha continuato a pubblicare. Tra i suoi lavori successivi ricordiamo: Tickets for a Prayer
Wheel (1974), Living by Fiction (1982), Teaching a Stone to Talk: Expeditions and Encounters (1982), An American Childhood (1987), The
Writing Life (1989), The Living: A Novel (1992), For the Time Being
(1999) e poi raccolte di poesie, saggi e critica. Vive a Middletown in
Connecticut e insegna alla Wesleyan University dal 1979.
Nel passo proposto la Dillard si sofferma a osservare un tramonto
con attenzione e meraviglia. Da notare l’accuratezza nelle scelte terminologiche e stilistiche e le immagini che la scrittura è in grado di
offrire ai lettori. L’autrice coglie bellezza e straordinarietà in eventi
consueti. Intuisce la pienezza dell’attimo, ne viene affascinata e travolta. E si chiede come abbia potuto ripetutamente perdere il contatto con il presente, con l’esaltante emozione che è in grado di regalare.
Da Pilgrim at Tinker Creek
1974
Il presente
PRENDILO SE PUOI.
È l’inizio di marzo. Sono stravolta da una lunga giornata trascorsa
guidando in autostrada per andare a casa, mi fermo alla stazione di
servizio, a “Nowhere”, Virginia, a nord di Lexington. Il ragazzo di
turno mi offre una tazza di caffè, gratis a ogni acquisto di carburante.
Parliamo in un ufficio con i muri di vetro mentre attendo che il caffè
si raffreddi abbastanza da poterlo bere. Mi dice, tra le altre cose, che
la stazione di servizio concorrente in fondo alla strada, che ha un
segnale con la scritta CAFFÈ GRATIS, visibile dall’autostrada, ti fa
pagare 15 centesimi se vuoi il caffè in una tazza di polistirolo, invece
che, suppongo, nelle mani nude.
Mentre parliamo, il cucciolo di beagle del ragazzo sta scivolando
nell’ufficio, annusando accuratamente le mie scarpe e i cestelli espo5
sitori di mappe arrotolate. L’al­le­gra conversazione mi sveglia, mi riporta, non a una consapevolezza normale, ma una sorta di prontezza
energetica. Esco e sono seguita dal cucciolo.
Sono totalmente sola. Non ci sono altri clienti. La strada è libera,
l’autostrada non si vede e non se ne sentono i rumori. Mi sono azzardata in un nuovo angolo del mondo, un posto sconosciuto, una
sorta di Brigadoon.4 Davanti a me si staglia una collina bassa che trema avvolta in un giallo spiga, e dietro la collina, si erge una catena
enorme di montagne, che riempie il cielo, coperta di foreste, viva, che
incute riverenza e da cui si schiudono luci brillanti. Non ho mai visto
nulla di così vibrante e vivo. Sopra, grandi strisce e squarci di nuvole
procedono velocemente verso nord-ovest in una corsa d’oro. Dietro
di me il sole sta tramontando, come ho potuto non notare prima che
il sole stava tramontando? La mia mente è stata una lastra di asfalto
nero per ore, ma ciò non ha fermato il selvaggio corso del sole. Metto
il caffè di fianco a me sul bordo del marciapiede, sento il profumo
della terra grassa, accarezzo il cucciolo, guardo la montagna.
La mia mano si muove automaticamente sulla pelliccia del cucciolo, seguo la linea del pelo dietro alle orecchie, sotto il collo, dentro le
zampe anteriori, lungo la pelle calda della pancia.
Le ombre se ne vanno lungo i fianchi irregolari della montagna,
si allungano come estremità di radice, come conche di acqua che si
riversano, sempre più velocemente. Un pigmento caldo color porpora si annida in ogni piega e increspatura della roccia; va sempre
più nel profondo e si sparge, scavando crepacci, canyon. Quando il
porpora forma una volta e si infila, agghinda la foresta spoglia e le
rocce rugose d’oro, con chiazze di luce dalle forme instabili. Queste
luci d’oro cambiano direzione e si ritirano, si frantumano e scivolano in una serie di schizzi abbaglianti, restringendosi, espandendosi,
esplodendo. I rosoni delle catene di monti e le collinette germogliano
sporgenti dalla sua parte, l’intera montagna appare chilometri più vi4 Brigadoon, nel film omonimo di Vincente Minnelli del 1954, è un villaggio che uno strano incantesimo fa apparire un solo giorno ogni cento
anni.
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cina, la luce scalda e si fa rossa, la foresta spoglia si chiude e si piega
come un protoplasma vivo davanti ai miei occhi, come il tracciato di
un grafico in movimento, un oscillografo ampiamente scribacchiato
sul momento presente. L’aria diventa fresca, la pelle del cucciolo è
calda. Sono più viva di tutto il mondo.
Questo è, penso, questo è, proprio ora, il presente, questa stazione di servizio vuota, qui, il vento da ovest, il gusto intenso di caffè
nella bocca, e io che sto accarezzando il cucciolo, che sto guardando
la montagna. In quel secondo, verbalizzo tale consapevolezza nella
mente, finisco di vedere la montagna e sentire il cucciolo. Sono opaca, asfalto nero. Ma nello stesso secondo, il secondo che so di aver
perso, mi rendo anche conto che il cucciolo sta ancora contorcendo
la schiena sotto la mia mano. Nulla è cambiato per lui. Abbassa le
zampe e tende talmente la pelle che riesce a sentire ogni tocco delle
punta delle dita lungo i suoi fianchi arcuati e ricoperti di peli e sulla
gola piegata indietro.
Sorseggio il caffè. Guardo la montagna, sta ancora giocherellando,
la guardo come un viso ancora bello di una persona che un tempo,
in un altro paese, fu il tuo amante: con affettuosa nostalgia e riconoscimento, ma nessun reale sentimento tranne il segreto stupore che
ora siete due sconosciuti. Grazie. Per i ricordi. Quale ironia […] la
cosa che tutte le religioni riconoscono come elemento che ci separa
dal creatore – l’autoconsapevolezza – è anche ciò che ci divide dalle
altre creature. È stato un brutto regalo di compleanno dell’evoluzione, isolarci dal creatore e dalle altre creature. Salgo in macchina e mi
dirigo verso casa.
Afferralo se puoi. Il presente è un elettrone invisibile, il suo percorso, come un fulmine tracciato lievemente su uno schermo annerito, è rapido, e vola, ed è andato.
Il fatto che la mia esperienza finì prematuramente – che fingevo di
non vedere tra me e la montagna e che avevo messo un guanto tra me
e il cucciolo – non è il solo punto. Dopo tutto, sarebbe finito comunque. Il tramonto o il vento che soffia su di me passano sempre. I santi
che levitano, alla fine ritornano a terra, e i loro piedi si caricano del
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peso reale. No, il punto è che non solo il tempo vola, e moriamo, ma
che noi continuiamo a vivere in questa condizione inconsapevole, e
ci è concesso, per la durata di certi momenti inspiegabili, di saperlo
GARY PAUL NABHAN
(1952-)
Americano-libanese di prima generazione, Nabhan è cresciuto a
Gary in Indiana. Scrittore, ecologista, etnobotanico, è direttore del
Center for Sustainable Environments alla Northern Arizona University. È stato direttore scientifico dell’Arizona-Sonora Desert Museum
e recentemente è diventato Research Social Scientist al South­west
Center della University of Arizona.
Insegna geografia, tiene corsi di scrittura creativa ed è impegnato
in progetti di reconcilation ecology research. Lavora ed è consulente di
molte associazioni no profit tra cui la Renewing America’s Food Traditions, ed è tra i fondatori della Ong Native Seeds/Search, un’organizzazione per la conservazione e la salvaguardia del territorio nata
a sostegno dei coltivatori nativi americani. La sua attività si svolge
principalmente del sud ovest degli Stati Uniti dove ha intrapreso numerosi studi sulle piante e le culture locali.
Per i suoi lavori di non-fiction e progetti di conservazione, Nabhan
ha ricevuto diversi riconoscimenti tra cui: la John Burroughs Medal per il nature writing, il Mac­Arthur Genius Award, assegnato per
la straordinaria originalità di progetti creativi; il Lannan Literary
Award, dato ad autori di poesia, fiction, non-fiction e attivisti nelle comunità native; il Pew Fellowship in Conservation and Environment,
attribuito a scienziati, giornalisti, attivisti, che in biologia affiancano la ricerca teorica a quella pratica; il Lifetime Achievement Award
from the Society for Conservation Biology, dato a studiosi e gruppi di
ricerca nel campo; e il Quivira Coalition Award per l’eccellenza nella
ricerca scientifica che contribuisce alla riforma sociale.
Il libri di Nabhan sono stati tradotti in diverse lingue e lo scrittore
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ha tenuto conferenze in tutto il mondo: in Messico, Libano, Perù,
Oman, Guatemala, Italia e anche all’Università degli Studi di Scienze
Gastronomiche promossa da Slow Food che si trova in Pollenzo,­in
provincia di Cuneo.
Tra i suoi volumi ricordiamo: The Desert Smells Like Rain: A Naturalist in Pap­ago (1982), Gathering the Desert (1985), Enduring Seeds:
Native American Agriculture and Wild Plant Conservation (1889),
Cultures of Habitat (1997), Cross-pollinations: The Marriage of Science
and Poetry (2004), Coming Home to Eat: The Pleasures and Politics of
Local Foods (2001); Why Some Like it Hot. Food, Genes, and Cultural
Diversity (2004), Arab/American: Landscape, Culture, and Cuisine in
Two Great Deserts (2008) e Where Our Food Comes from (2008).
In Nabhan si manifesta un aspetto centrale della letteratura ambientale e in particolare del nature writing, ossia il tentativo di unire
scienza e letteratura. È sbagliato ritenere che i testi che illustrano la
gravità dei disastri ambientali attraverso l’utilizzo di studi scientifici
debbano essere diretti solo a un pubblico di esperti. Nell’era della crisi ambientale la scienza deve aprirsi al mondo, deve far sentire la sua
voce, usando un linguaggio, uno stile, una forma che siano comunicativi e comprensibili e la letteratura può esserle di aiuto. Questo è un
compito che i moderni naturalisti devono assumersi, smettendo di
comunicare solo nei confini della comunità scientifica. Nell’Ottocento la scienza e la letteratura si aiutavano per intercettare il pubblico.
Darwin usava figure retoriche, la scrittura narrativa e non esitava a
citare scrittori noti per rendersi credibile. Nella separazione dei due
mondi, avvenuta con la specializzazione della scienza, la letteratura
ha perso parte della sua autorevolezza. La scienza ha assunto il ruolo
di portavoce della verità, una verità che però non sempre riesce a
comunicare efficacemente, ma nonostante ciò teme la possibilità di
utilizzare altri linguaggi. Una delle ragioni per cui gli scienziati si
sentono a disagio ad usare la narrazione è il fatto che le storie tendono a creare una “zona di tensione”,1 una dimensione caratterizzata
dall’ambiguità e dall’insicurezza, uno spazio di esplorazione e non
uno di verità certa. Gary Nabhan osserva però che spesso nella no9
stra esperienza quotidiana ci troviamo di fronte a quesiti per i quali
non vi è una semplice e unica soluzione e che ci obbligano ad accettare l’incertezza e a mantenere “una visione a prospettiva multipla”.2
Aggiunge inoltre: “Penso che quelle tensioni non possano essere necessariamente e interamente spiegate attraverso una logica lineare ed
espositoria.”.3 La divisione tra mondo delle scienze e delle humanities
non ha prodotto un vincitore, semmai ha diminuito l’influenza e la
completezza e correttezza di interpretazione della realtà di entrambi.
Nabahn ritiene che “la scienza ha bisogno di essere comunicata in
una varietà di generi a una varietà di pubblici. Un buono scienziato
di questi tempi deve essere in grado di fondere le sue conoscenze
scientifiche con altre discipline”.4
Nel volume da cui è tratto il primo passo riportato Nabhan descrive le sue visite agli indiani Papago, The Desert People. Racconta
dei suoi studi scientifici relativi alla struttura organizzativa e agricola
di questa popolazione, ma anche il loro folklore e la loro cultura. Di
seguito viene spiegato come anche il deserto può essere fonte di vita
e nutrimento per uomini e animali e come i Papago abbiano saputo
trarre il massimo da un territorio apparentemente ostile. Adattandosi alla terra e non cercando di forzarla artificialmente si possono
ottenere risultati straordinari.
Da The Desert Smells Like Rain:
A Naturalist in Papago Indian Country, 1982
Traduzione di Alberto Fornasier
La vita nel deserto
Lo scorso sabato prima del tramonto, i 114 gradi di calore estivo
precipitarono ai 79, nel giro di un’ora.5 Un vento furioso incominciò a
soffiare, attaccando le case con polvere, detriti e ghiaia. Quindi venne
un rovescio di pioggia, mentre una schiuma di nuvole purpuree si
gonfiava nel cielo. Quando scomparve l’ultimo raggio di sole, potemmo vedere la vetta del Baboquivari stagliarsi sul rosso orizzonte, con
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lampi che danzavano attorno alla sua cima.
Le piogge vennero quella notte – e cambiarono il mondo.
Completamente secco da aprile, il terreno del deserto si ammorbidì sotto la danza della pioggia. Vicino alla superficie segnata dalla
pioggia, centinaia di migliaia di germogli selvatici di amaranti dalle
radici color sangue si stanno schiudendo dai gusci dei loro semi e si
lanciano verso la luce. Zone brulle verranno presto ricoperte da un
sottile manto di verde.
Gli arroyo6 del deserto scorrono ancora in piena, con mulinelli di
acqua fangosa dopo un ammasso iniziale di schiuma, escrementi e
detriti. Dove le ondate di alluvione si raggruppano, riportano alla
luce animali sepolti, o schiudono nuove covate. All’alba, scure nuvole
a forma di uovo formate da formiche volanti si librano sopra il terreno, eccitate nella luce del primo mattino.
Negli stagni nuovamente popolati, rospi spadefoot si riuniscono
immediatamente. I maschi muggiscono. Cercano delle compagne,
quindi si attaccano ad esse con gli speciali cuscinetti nuziali delle
zampe. Le femmine rigettano masse di uova nella calda acqua fangosa. Per due notti, gli stagni dei rospi sono pieni di cantilene, mentre
l’odore di arachidi bruciate degli spadefoot del West impregna l’aria.
Una tartaruga gialla del fango striscia fuori dal fondo bagnato di
una cava di argilla dove era rimasta seppellita durante il periodo caldo e secco. Si trascina per un centinaio di metri verso il bacino di raccolta dell’acqua e vi si butta dentro. Non ricorda quanti giorni siano
passati dall’ultima volta che nuotò, ma il sapore dell’acqua – quello è
in qualche modo familiare.
Questo è il periodo in cui gli indiani Papago del deserto di Sonora
celebrano l’arrivo delle lune della stagione delle piogge, il Jujkiabig
Mamsad, e l’inizio di un nuo­vo anno.
Campi messi a maggese dopo la raccolta delle coltivazioni invernali sono ora pronti per un’altra semina. Se seminati entro un mese
dopo il solstizio d’estate, possono produrre in tempo per la raccolta
della Festa di San Francesco, il 4 ottobre.
Quando un lunedì passai dalla casa di Madrugada a Little Tuc11
son,7 la famiglia stava parlando con entusiasmo di seminare ancora
il terreno inondato. Alla fine di giugno, Julian non era ancora sicuro
se quest’anno avrebbe piantato il campo inondato – niente pioggia
ancora, troppo caldo per preparare il campo e pochissima acqua rimasta nel pozzo di raccolta del charco.8
Ora, un due settimane dopo, lo stagno è praticamente pieno fino
al bordo. Il deflusso era stato favorito tramite quattro piccoli sbocchi.
L’acqua dell’alluvione era scivolata sulla superficie del campo. Julian
immagina i grandi fiori gialli delle zucchine nel suo campo, giusto un
altro mese o giù di lì. Ciò gli fa venire l’acquolina in bocca.
Una volta chiesi ad un ragazzino Papago di che cosa, secondo lui,
odorasse il deserto. Mi rispose con un po’ di esitazione:
“Il deserto odora di pioggia.”
La sua risposta suona come una contraddizione nella mente della
maggior parte della gente. Come potrebbe il deserto odorare di pioggia, quando i deserti sono, per definizione, luoghi in cui non ci sono
piogge abbondanti?
La risposta del ragazzo era una specie di stenografia Papago.
Ascoltare un Papago può essere come gustare un frutto delizioso,
mentre ci si accorge che il sapore viene da un albero con radici troppo profonde da cercare.
La domanda gli fece riprovare un odore – cespugli di larrea tridentata9 dopo una tempesta – i loro olii aromatici sprigionati dalle
piogge. Il suo naso ricordava di essere fuori nel deserto, inebriato: il
deserto odora di pioggia.
Molti stranieri sono colpiti dall’apparente assenza di pioggia nei
deserti, percependo tali luoghi come privi di qualcosa di vitale. I
Papago, d’altro canto, sono affascinati più dall’imprevedibilità delle
precipitazioni che dalla loro scarsità – il loro è un mondo dinamico,
vivo, reattivo alla forza delle tempeste che possono arrivare in qualsiasi momento.
Un villaggio del deserto di Sonora può ricevere circa 12 centimetri di pioggia un anno e 40 il successivo. Una singola tempesta ne
può riversare su un campo 3, 4 centimetri nel giro di un’ora e saltare
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completamente un altro distante poche miglia. Periodi di siccità che
durano quattro mesi possono essere interrotti da un unico nubifragio torrenziale, quindi ricominciare per vari mesi ancora. Tempeste
fuori stagione e siccità durante le normali stagioni della pioggia sono
abbastanza frequenti da ridurre gli schemi al caos.
I Papago si sono adattati così bene a questa imprevedibilità che ciò
si riflette nel modo in cui parlano della pioggia. Si è anche radicata
profondamente nella struttura del loro linguaggio.
Il linguista William Pilcher ha osservato che i Papago parlano degli eventi nei termini della loro probabilità di accadere, evitando di
affermare che un evento accadrà sicuramente:
[…] è mia impressione che i Papago aborriscano l’idea di fare affermazioni definitive. Sono ancora in dubbio riguardo a quanto vicina deve essere una tempesta di pioggia prima che uno possa propriamente dire t’o tju: (“Sta per piovere su di noi”), piuttosto che tkìo
tju:ks (qualcosa come: “Sembra che forse può stare per piovere su di
noi”).
Poiché pochi Papago sono disposti a confermare che qualcosa
avverrà prima che avvenga, un elemento di sorpresa è insito praticamente in tutto. Niente è completamente certo. Quando le piogge
arrivano, esse sono un dono, una fortuna inaspettata, una felice opportunità.
Un anziano Papago mi ha spiegato che la pioggia è più di semplice
acqua. Ci sono vari modi in cui l’acqua arriva alle cose viventi e ciò
che porta con sé influenza il modo in cui esse crescono.
Remedio Cruz mi stava spiegando una volta perché lui aveva
piantata la vecchia varietà di frumento Bianca Sonora in un certo
momento. Aveva aspettato la prima pioggia di gennaio affinché bagnasse delicatamente il suo campo prima di seminare.
“Quel frumento Papago – è da piantare proprio in gennaio o nel
primo febbraio. Cresce bene solo con l’acqua piovana dal cielo. Non
verrebbe bene con l’acqua del terreno,10 questo è il motivo per cui noi
lo seminiamo quando quelle delicate piogge invernali vengono per
prendersi cura di lui.”
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Negli ultimi anni Cinquanta un ecologista del deserto di Sonora
cercò di simulare le gentili piogge invernali nel tentativo di fare germogliare il deserto. Lloyd Tevis estrasse da un pozzo l’acqua di una
falda inutilizzata, spargendola con un annaffiatoio, per incoraggiare
la germinazione di fiori selvatici su un pezzo di deserto apparentemente senza vita. Mentre Tevis faceva iniziare la germinazione di un
tipo di fiore selvatico del deserto con poco meno di 4 centimetri di
pioggia artificiale, niente germinava con meno di 2,5 centimetri. In
generale, la produzione di altri fiori selvatici richiedeva più di 7,5 o
10 centimetri di pioggia artificiale.
Tevis si sorprese quindi nel vedere cosa succedeva quando meno
di 2,5 centimetri di vera pioggia cadevano sul suo sito sperimentale
in gennaio. Notò nella vegetazione precedentemente rada “una incredibile nascita di piantine. La pioggia vera dimostrò una superiorità
straordinaria rispetto alla varietà artificiale nel produrre un alto tasso
di germinazione”. Per quanto riguarda un particolare tipo di fiore selvatico del deserto, le piantine erano cinquantasei volte più numerose
dopo circa 2,5 centimetri di pioggia vera di quanto fossero dopo la
più intensa annaffiatura artificiale.
Il potere stimolante della pioggia nel deserto non sta solo nell’umidità. Siano i nutrimenti rilasciati nella tempesta o la forza fisica
della pioggia, ci sono altri meccanismi stimolanti associati con l’acqua piovana. Ma anche se qualcuno riuscisse a fare una simulazione
migliore della pioggia, utilizzando una falda arricchita, sarebbe veramente utile per far germogliare il deserto?
Ne dubito. Remedio stesso si chiede quale sia il valore dell’acqua
sotterranea pompata per coltivare, perché l’acqua è qualcosa che lui
canta piuttosto che pompare nel suo campo. Ogni estate Remedio e
pochi vecchi compagni cantano per far incontrare le acque della terra
e del cielo. Remedio pensa che solo con questo incontro crescano i
suoi fagioli, il suo grano e le sue zucchine in estate. Un campo che si
basa solo sull’acqua della falda non avrebbe ciò di cui abbisogna. Ha
sentito dire che l’acqua del pozzo contiene una specie di “medicina”
(chimica) che non è buona per le coltivazioni. Inoltre crede che l’ac14
qua della falda pompata a circa 30 chilometri di lontananza danneggi
la disponibilità di umidità del suo campo.
Mi sono unito con altri scienziati in uno studio per comparare il
valore nutritivo dei fagioli tepary cresciuti nei campi alluvionati dei
Papago con quelli cresciuti nei vicini campi irrigati con l’acqua delle
falde con il moderno metodo anglo-americano. Il contenuto proteico
dei tepary cresciuti nel tradizionale ambiente alluvionale tendeva ad
essere maggiore rispetto a quello della stessa varietà di fagioli tepary
cresciuti con acqua pompata dal terreno. La produzione sembrava
essere migliore nei campi dei Papago – più calorie erano ottenute con
meno dispendio di energia nel lavoro e meno carburante speso. Nessuna meraviglia – è un modo di coltivare che attraverso generazioni
si è ben adattato alle condizioni locali.
Eccoli, Julian e Rimedio: fanno crescere cibo in un deserto troppo
duro per la maggior parte delle coltivazioni; usano accorgimenti che
pochi di noi noterebbero mai. Il loro capire come lavora il deserto
deriva da decadi di osservazioni quotidiane. Queste percezioni sono
state filtrate attraverso una tradizione culturale che è stata rifinita,
affilata e consegnata nel corso di secoli di vita in luoghi aridi.
Se altri desiderassero adattarsi alle peculiarità del deserto di Sonora, questa antica conoscenza può servire da guida. Perfino la guida
migliore ve lo dirà: ci sono certe cose che dovete imparare per conto
vostro. Il deserto è imprevedibile, enigmatico. Un minuto sentirete
odore di polvere. Il successivo, il deserto può odorare di pioggia.
La selezione che segue è tratta dal volume Why Some Like It Hot
che esplora i rapporti tra l’evoluzione delle comunità e i cibi che consuma. In particolare nel passo che segue vengono descritti in modo
ironico e divertante, ma a tratti amaro, i danni provocati dall’uso del
latte alle popolazioni indiane.
15
Da Why Some Like it Hot.
Food, Genes, and Cultural Diversity
(A qualcuno piace piccante.
Cibo, geni e diversità culturale), 2004
The Longhair
11
Iniziando questo viaggio insieme, voglio portarvi in un posto nel
deserto che mi ha spinto a imbarcarmi in questa avventura. Fu lì che
per la prima volta mi resi conto che l’inesorabile perdita delle tradizioni etniche alimentari, come un vecchio indiano Pima mi aveva
profeticamente rivelato, poteva fare perdere la salute a un intero popolo.
Fu un altro indiano Pima mio amico, un giardiniere di nome Gabriel, che per primo mi fece capire che le varie etnie rispondono in
modi radicalmente differenti agli stessi cibi e bevande. Solo in seguito
compresi il grado in cui tali risposte siano curiosi esiti di interazioni
tra i geni, gli ambienti e le culture, alcuni di questi sono tragici, alcuni protettivi e altri assolutamente divertenti. Gabriel è stato il primo
amico che ho perso a causa degli effetti negativi di queste interazioni,
è anche stato il primo a farmene conoscere il lato più leggero. Lo fece
modellando il suo comportamento su quello del trickster12 dei vecchi
tempi, il Coyote.
“Ehi, uomo bianco, puoi dedicarmi un po’ del tuo tempo rubandolo alla tua agenda sempre piena di impegni per aiutarmi a portare
un po’ di prodotti alimentari…”
“Certo, sarò il tuo ragazzo delle consegne. Cosa dobbiamo consegnare? Pizze italiane o pane fritto indiano?”
“Latte in polvere. Un bel po’. Aiutami a metterlo nel retro del tuo
pickup.”
[….]
Quando arrivammo al villaggio Ak-Chiñ, Gabriel mi indirizzò
verso un campo di baseball dove diversi giovani uomini e adolescenti si stavano esercitando per una gara imminente contro la squadra
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di un altro villaggio. Scese, si incamminò verso il campo e parlò con
uno degli uomini nella sua lingua nativa, poi tornò al pickup.
“Avanti, uomo bianco, è qui che dobbiamo lasciare le casse, mi
aiuti?”
Non capivo. “Intendi che distribuiamo qui il latte in modo che
questi ragazzi possano portarlo a casa alle loro famiglie? Perché non
facciamo semplicemente il giro e lasciamo le scatole fuori casa?”
Gabriel scoppiò a ridere. “Nooo. Hanno già ricevuto a casa un sacco di questa schifezza, molta di più di quanta ne possano utilizzare.
Rimane lì e va a male. Passano a prenderla al deposito, ma adesso ne
hanno bisogno un po’ per la partita di base­­ball di questa sera”.
“Distribuiscono latte alla partita di baseball?”
“No, uomo bianco. Usano il latte in polvere per segnare le linee
base così i giocatori sanno fino a dove il campo si estende! Servire
quella roba? Stai scherzando? Non possiamo bere il latte, nemmeno
quello in povere! Dammi del latte e mi gonfio come il Pillsbury Doughboy.13 Non sai queste cose, squat? Tutti gli indiani sono intolleranti
al lattosio.”
Ah, l’intolleranza da lattosio. Certo, avevo sentito che alcuni indiani ne soffrivano, ma non ricordavo che nessuno di loro ne avesse
parlato davanti a me. Anni dopo compresi che l’intolleranza al lattosio non era solo una limitazione dietetica per gli indiani Pima: più di
trenta milioni di americani – inclusi molti di discendenza africana e
asiatica recente – non riescono più a digerire con il passare del tempo,
il principale zucchero presente nel latte dopo che sono stati svezzati
con il latte materno. Infatti lo svezzamento della maggior parte dei
bambini allattati al seno può essere accelerato da un graduale declino
dell’attività della lattasi, un enzima in grado di scom­porre il lattosio
in glucosio e galattosio che sono più facilmente digeribili. Se non c’è
abbastanza lattasi per digerirlo, il lattosio si deposita semplicemente
nella pancia del bambino, assorbe acqua per osmosi e si espande fino
a formare un substrato per microbi che producono gas.
Mi resi conto che forse appartenevo a quella minoranza di residenti dell’Ari­zona che aveva mantenuto la tolleranza al lattosio in età
17
adulta. Nella famiglia degli indiani Papago e dei Pima di Gabriel, il
40% dei bambini di 4 anni, il 71% di quelli di 5, il 92% di quelli di
7 e il 100% della popolazione di 8 anni e oltre soffre di sindrome da
malassorbimento del lattosio. Anche un solo bicchiere di latte fresco
provoca ai bim­bi svezzati e adulti gonfiore, indigestione, e nei casi
più gravi, crampi intestinali e diarrea.
Tre decenni fa, il geografo culturale Frederick Simoons notò che
la distribuzione globale della tolleranza al lattosio estesa nel tempo
era fortemente correlata alla distribuzione delle antiche popolazioni
dedite alla pastorizia in Europa, Asia Minore, e Africa del nord, i
ragazzi e gli adulti residenti nella maggior parte del resto del mondo avevano un deficit dell’enzima lattasi. Circa 100.000 anni fa ci fu
una mutazione nel DNA di una popolazione isolata di nordeuropei
che permise loro di tollerare il latte e di beneficiarne come ricca risorsa nutritiva. Questa tolleranza al latte gradualmente si diffuse attraverso matrimoni con membri di altri gruppi etnici, ma potrebbe
essere emersa indipendentemente come una mutazione nel DNA di
altre popolazioni. In ogni caso, popolazioni di certe etnie portatrici
di questo gene con una bassa frequenza – e che poi di conseguenza
adottarono uno stile di vita pastorale e un consumo di latte culturale – scoprirono che l’attività della lattasi gradualmente si estendeva
nell’età adulta. Si suppone che la maggior parte di queste persone assunsero dapprima piccole quantità di latte in rituali o inizialmente
consumavano solo prodotti fermentati come lo yogurt e il formaggio,
nei quali i batteri avevano già convertito il lattosio in zuccheri digeribili. La piccola percentuale di individui che tolleravano il lattosio
in tutte le popolazioni fu rapidamente favorita quando queste ricche
risorse nutrizionali si diffusero, cosicché bastò che solo quindici generazioni mangiassero formaggio e yogurt, perché la frequenza di
tolleranza al lattosio aumentasse radicalmente.
[….]
Mi è capitato di scambiare idee su questo argomento con lo psicologo nutrizionista Paul Rozin, discutendo del suo lavoro pionieristico sul significato della selezione culturale per la tolleranza alla lattasi.
18
Incontrai Rozin a New York, durante un periodo di pausa dall’insegnamento all’Università della Pennsylvania, per dedicare un anno
intero alla ricerca presso la Russell Sage Foundation. Uomo di corporatura modesta, ma dalla presenza imponente, Rozin aveva studiato
le abitudini culturali culinarie in diversi continenti e aveva aiutato la
sua ex-moglie, Elisabeth Rozin, ad articolare la popolare teoria dei
“principi dei sapori etnici” che erano il fondamento della maggiori
cucine mondiali. Ma ciò di cui Rozin ed io parlammo quel giorno fu
il modo singolare nel quale la selezione culturale delle diete etniche
ha, in certi casi, oltrepassato le tolleranze biologiche interne per innescare l’adattamento genetico a nuovi cibi. In molti casi, pensiamo
che sia la biologia a imporre il sentiero che le preferenze alimentari
culturali seguono, cioè che la selezione naturale di certi tratti genetici
tenda ad oltrepassare i comportamenti culturali che non hanno sempre un immediato valore di sopravvivenza. Ma, Rozin ha affermato
in modo convincente che “la sequenza biologia-cultura può essere
invertita. Anche se non conosciamo i dettagli (storici) del percorso, il
prodotto finale – tolleranza al lattosio sotto controllo genetico – suggerisce che l’abitudine culturale di bere latte fresco e latticini faceva
pressione sulla selezione spingendo al cambiamento genetico. Per cui
è possibile il percorso da cultura a biologia” (P. Rozin, 1982).
Il significato rivoluzionario dell’interpretazione evolutiva di Rozin
sembra paradossale all’inizio, ma il suo significato ultimo non è andato perso. Nel best-seller Menome, lo scrittore di fantascienza Matt
Ridley spiegò il concetto in questo modo: “Le prove suggeriscono che
all’inizio quelle popolazioni intrapresero uno stile di vita pastorale e
che svilupparono un’abilità a digerire il latte in seguito, in risposta a
quello. […] Questa è una scoperta significativa. Fornisce un esempio
di cambiamento culturale che conduce a un cambiamento evolutivo
e biologico. I geni possono essere indotti al cambiamento da [diverse
generazioni di] azioni volontarie e consapevoli. Intraprendendo lo
stile di vita saggio dei pastori che producono latticini, gli esserti umani crearono una propria pressione evolutiva”14 (Ridley, 2000).
Le popolazioni che crearono le loro pressioni evolutive, nel caso in
19
questione, dovevano avere una bassa frequenza del gene della produzione di lattasi, all’inizio. Ma finché quel gene si poteva riscontrare in
quella popolazione, si riscontrava una crescita relativamente rapida
nella sua frequenza per il tempo in cui si consumava formaggio e yogurt e si acquisivano benefici riproduttivi e nutrizionali dall’aggiunta
di latticini nella propria dieta.
La ragione principale per cui Gabriel e la squadra di baseball AkChiñ erano inclini ad usare il latte in polvere per segnare i campi
invece che berlo sono profondamente sepolte nella storia genetica e
culturale delle loro popolazioni.
Fino a poco tempo fa, i loro corpi sono stati plasmati dalla caccia
e dalla vita in un ambiente desertico incerto e non dal pascolare il
bestiame o le pecore negli spazi aperti. L’intolleranza al lattosio è uno
dei fantasmi dell’evoluzione codificato (e poi nascosto) nei loro corpi.
Un altro fantasma, anche più spaventoso, è presente tra gli indiani
Pima, e Gabriel fu la persona che mi insegnò il lato oscuro della danza tra geni e alcol.15 Finché non fui sconvolto dalla morte prematura
di Gabriel, non avevo mai pensato molto a quanto il cibo e l’alcol
potessero influenzare in modo differente individui di ascendenza diversa dalla nostra. Gabriel era stato il primo nativo americano con
cui avevo lavorato, fianco a fianco, dalla mattina alla sera, per questa
ragione mi aveva molto addolorato la sua perdita. Dalla sua morte
in poi, è stato difficile per me bere o mangiare le cose che una volta
condividevamo senza che la sua immagine mi apparisse davanti agli
occhi: capelli lunghi, dritti, nero corvino, il viso rotondo e malizioso,
gli avambracci robusti e l’ampio torace.
note
(Endnotes)
1 Slovic, Scott e Satterfield, Tere, a cura di, What’s Nature Worth? Narrative Expressions of Environmental Values, Salt Lake City, The University of
Utah Press, 2004, p. 251: “zone of tension”.
2 Slovic, Scott e Satterfield, Tere, a cura di, What’s Nature Worth? Narra-
20
tive Expressions of Environmental Values, op. cit., p. 249: “multi-perspective
view”.
3 Ibidem: “I think that those tensions can’t necessarily be explained entirely by linear, expository logic. A story can keep a multi-sided domain
intact in our mind”.
4 Ibidem: “Science needs to be communicated in a variety of genres to
a variety of audiences. A good scientist these days has to be able to blend
scientific expertise with other disciplines”.
5 Da 45,5 a 26,1 °C [N.d.R.]
6 In spagnolo nel testo. L’arroyo è il letto di un torrente.
7 Una città in Arizona.
8 In spagnolo nel testo. Il charco è uno stagno, che si riempie con le
piogge e successivamente si asciuga.
9 Una varietà di cespugli sempreverdi.
10 In inglese water (“acqua”), se preceduta dalle due parole evidenziate
(rain e ground), significa rispettivamente la pioggia piovana e la falda freatica.
11 The Longhair si riferisce all’indiano tradizionalista descritto da N.
Scott Momaday in House Made of Dawn.
12 Nella cultura degli indiani d’America il trickster è una figura mitologica, può essere un uomo o un animale, è un giocherellone, è furbo e opportunista come il coyote e mette in discussione i valori dominanti della
società.
13 Buffo personaggio, tutto bianco e un po’ goffo, di una pubblicità molto
nota negli Stati Uniti.
14 Corsivo aggiunto da Nabhan.
15 Gli effetti devastanti dell’alcol sui nativi americani sono note. Introdotto solo con l’arrivo degli europei in America, ha creato non pochi problemi, non essendo una sostanza a cui gli organismi degli indiani erano abituati. Diversi studi scientifici hanno confermato che esiste una relazione
significativa tra l’uso di alcol e alcuni disturbi molto diffusi: problemi alla
vista e all’udito, problemi ai reni e alla vescica, infortuni di varia natura,
polmoniti e tubercolosi, problemi dentali, al fegato e pancreatite. Tra gli
indiani americani, cinque delle prime 10 cause di morte sono fortemente
connesse con l’uso di alcool: incidenti, l’alcolismo stesso, suicidi, omicidi e
la cirrosi.
21
BARBARA KINGSOLVER (1955-)
Barbara Kingsolver è nata ad Annapolis nel Maryland, ed è cresciuta nel Kentucky, uno stato perlopiù agricolo. Sin da piccola amava scrivere: all’età di 9 anni incominciò a tenere un diario e a scrivere
poesie e storie. Il suo primo lavoro pubblicato si intitola Why We
Need a New Elementary School, un racconto sullo stato delle scuo­le
elementari che include anche il resoconto di come una sua insegnante era stata ferita in seguito alla caduta di un pezzo di soffitto della
sua aula. Per questo lavoro, che dimostrava la sua precoce coscienza
civile, la Kingsolver vinse un premio di 25 dollari.
Dopo la scuola superiore lasciò il Kentucky per entrare alla DePauw University con una borsa di studio ottenuta grazie alle sue
abilità di pianista. Entrò così nella Music School, ma si trasferì ben
presto al College of Liberal Arts perché desiderava ampliare i suoi
studi e finì con il ricevere una laurea in Biologia. Alla fine degli anni
Settanta si trasferì in Europa e trascorse lunghi periodi in Grecia,
Francia e Inghilterra in cerca di fortuna, ma non riuscendo a costruirsi una carriera solida nel 1979, alla scadenza del suo visto, tornò
negli Stati Uniti. Si trasferì a Tucson in Arizona animata dal desiderio
di conoscere l’Ovest americano che era tanto diverso dalla sua terra
d’origine. A Tucson si iscrisse alla Graduate School in Evolutionary
Biology presso la University of Arizona. Terminati gli studi venne
assunta dalla University of Arizona come scientific writer e in seguito
diventò una giornalista freelance.
I racconti e le poesie della Kingsolver incominciarono a essere
pubblicati alla metà degli anni Ottanta, insieme ai suoi articoli che
apparvero in periodici nazionali e regionali. Il suo primo romanzo,
The Bean Trees, venne scritto interamente di notte, durante le ore di
insonnia che la sua prima gravidanza le aveva provocato. Completato
appena prima della nascita della figlia, nel marzo 1987, il romanzo
fu pubblicato dalla HarperCollins l’anno seguente con una tiratura
modesta.
Barbara Kingsolver è nata ad Annapolis nel Maryland, ed è cre22
sciuta nel Kentucky, uno stato perlopiù agricolo. Sin da piccola amava scrivere: all’età di 9 anni incominciò a tenere un diario e a scrivere
poesie e storie. Il suo primo lavoro pubblicato si intitola Why We
Need a New Elementary School, un racconto sullo stato delle scuo­le
elementari che include anche il resoconto di come una sua insegnante era stata ferita in seguito alla caduta di un pezzo di soffitto della
sua aula. Per questo lavoro, che dimostrava la sua precoce coscienza
civile, la Kingsolver vinse un premio di 25 dollari.
Dopo la scuola superiore lasciò il Kentucky per entrare alla DePauw University con una borsa di studio ottenuta grazie alle sue
abilità di pianista. Entrò così nella Music School, ma si trasferì ben
presto al College of Liberal Arts perché desiderava ampliare i suoi
studi e finì con il ricevere una laurea in Biologia. Alla fine degli anni
Settanta si trasferì in Europa e trascorse lunghi periodi in Grecia,
Francia e Inghilterra in cerca di fortuna, ma non riuscendo a costruirsi una carriera solida nel 1979, alla scadenza del suo visto, tornò
negli Stati Uniti. Si trasferì a Tucson in Arizona animata dal desiderio
di conoscere l’Ovest americano che era tanto diverso dalla sua terra
d’origine. A Tucson si iscrisse alla Graduate School in Evolutionary
Biology presso la University of Arizona. Terminati gli studi venne
assunta dalla University of Arizona come scientific writer e in seguito
diventò una giornalista freelance.
I racconti e le poesie della Kingsolver incominciarono a essere
pubblicati alla metà degli anni Ottanta, insieme ai suoi articoli che
apparvero in periodici nazionali e regionali. Il suo primo romanzo,
The Bean Trees, venne scritto interamente di notte, durante le ore di
insonnia che la sua prima gravidanza le aveva provocato. Completato
appena prima della nascita della figlia, nel marzo 1987, il romanzo
fu pubblicato dalla HarperCollins l’anno seguente con una tiratura
modesta. Ma il testo fu acclamato dalla critica e anche dal pubblico,
tanto che continua a essere ristampato da allora. The Bean Trees è
stato anche adottato in alcune scuole superiori e corsi universitari
in tutti gli Stati Uniti ed è stato tradotto in più di dieci lingue. Taylor
Greer è la protagonista del romanzo e anche la narratrice di gran par23
te della storia. Nata in Kentucky, lascia lo stato per sfuggire dalla vita
limitata e poco entusiasmante del suo piccolo paese. Come la madre
è molto fiera del suo sangue Cherokee che la porta naturalmente ad
avere uno stretto legame con la terra. Nel romanzo, infatti, la natura
è un personaggio centrale: viene raccontato come l’ambiente naturale
sia stato sconside­rata­mente usato e danneggiato, ma se ne descrive
anche la bellezza.
La Kingsolver ha scritto poi molti volumi, tra cui: i romanzi Animal
Dreams (1990), Pigs in Heaven (1993), The Poisonwood Bible (1998),
Prodigal Summer (2000), una raccolta di racconti, Homeland (1989),
una di poesie, Another America (1991) una oral history, Holding the
Line (1989), due raccolte di saggi, High Tide in Tucson (1995), Last
Stand (2002) e più di recente il primo testo di non-fiction, Animal,
Vegetable, Miracle (2007). Grazie ai suoi lavori ha vinto numerosi
premi in patria e all’estero e nel 2000 ha ricevuto la National Humanities Medal, tra i maggiori riconoscimenti nazionali assegnati per
l’eccellenza nelle arti.
Nel 1997 l’autrice ha istituito il Bellwether Prize (www.bellwetherprize.org), assegnato ogni due anni a un romanzo primo che si distingue per la qualità letteraria e per essere uno strumento utile al
cambiamento sociale. Come nel caso di altri nature writers americani contemporanei, con la Kingsolver siamo di fronte a un rigetto
dell’idea dell’arte for art’s sake. La letteratura assume un ruolo etico e
sociale. L’uso etico-ambientale dei testi letterari può così contribuire
a un’evoluzione del modo in cui ci orientiamo nel nostro rapporto
con il mondo non umano e “modificare” il mondo “concretamente”.
Barbara ha due figlie, Camille and Lily, ed è sposata con Steven
Hopp, un professore di scienze ambientali. Nel 2004, dopo aver trascorso più di 25 anni a Tucson, è ritornata nella parte del paese dove
è nata. Oggi vive con la sua famiglia nel sud-ovest della Virginia in
una grande fattoria dove alleva animali e dove ha anche creato un
giardino che ospita numerose specie vegetali.
Nel passo che segue la Kingsolver ci invita a ripensare il nostro
modo di guardare e di relazionarci con la natura. Vittime dei ritmi
24
frenetici a cui la società moderna ci ha condannato, non siamo più
in grado di cogliere la meraviglia che si cela in ogni attimo, e di osservare a lungo e con attenzione il mutare lento della natura. Ricordando il lavoro di naturalista e poeta di Thoreau, la scrittrice propone
il suo atteggiamento nei confronti della terra come modello per la
contemporaneità. Thoreau negli anni che seguirono la pubblicazione
di Walden si dedicò con costante impegno all’osservazione e allo studio sistematico dell’ambiente naturale intorno a Concord e pubblicò
anche saggi di notevole valore scientifico tra cui The Succession of Forest Trees (1860) che è ritenuto uno dei primi testi che si possono far
rientrare nella scienza dell’ecologia. Thoreau sottolineò l’importanza
del particolare, della spiegazione storicizzata e limitata, e ritenne che
questi elementi potessero apportare un contributo alla scienza. Per
lui come per la Kingsolver era cruciale conoscere il luogo in cui abitava e sviluppare un profondo sense of place che poteva contribuire
a incrementare il senso di appartenenza al proprio ambiente. Criticò
pertanto quella scienza che ricerca solo regole, leggi, affermando di
preferire la complessità, novità e varietà che spesso è difficile da schematizzare.
Da High Tide in Tucson.
Essays From Now or Never 1995
La foresta in un seme
Nella primavera dei miei 25 anni durante il mio primo anno come
dottoranda in ecologia, venni seriamente introdotta alla ricerca biologica sul campo. Il progetto al qua­le fui assegnata consisteva nello
starsene in un bosco di carrubi, nel sole del sud dell’Arizona a osservare una specie di lucertole locali che, molto francamente, non
facevano quasi niente. Per ore e ore, giorno dopo giorno. Ero stordita. Quando mi iscrissi come ricercatrice principiante del comportamento animale, pensavo alle oche di Konrad Lorenz che, curiosamente, a causa di un imprinting mal indirizzato, credevano che lui
25
fosse mamma oca e lo seguivano dappertutto; o la leggendaria Iwo, il
macaco genio, che inventò la spulatura del grano e la introdusse nel
suo branco. Visioni di gru delle dune danzavano nella mia mente. E
qui invece ero stata trasportata nella terra delle torpide lucertole. Ero
solo gratificata dal fatto che i miei soggetti almeno avevano un cuore
che batteva, e mi facevano pena quei colleghi che avevano preferenze
nella botanica e che continuavano a contare grani di polline sotto un
microscopio, o letteralmente guardavano l’erba crescere.
La natura non si muove in modo misterioso in realtà. Si muove
solo così lentamente che noi tendiamo a perdere la pazienza e smettere di osservarla prima che si arrivi alla rivelazione. Gli studiosi di
storia naturale del Diciannovesimo secolo lo sapevano, o comunque
non avevano ragione di aspettarsi campane e sirene, e avevano la fortuna di scrivere per un pubblico che dedicava loro attenzione a lungo.
In modo incantevole Charles Darwin suggeriva nell’introduzione al
volume On the Origin of Species: “Nel 1837 mi accorsi che forse si
poteva risolvere la questione [dell’origine delle specie] accumulando
pazientemente e riflettendo su tutte le tipologie di fatti che potevano
in qualche modo avere effetto sulla questione”. Ventidue anni dopo
aveva riflettuto su tutto, dalle formiche che facevano schiavi, alle balene della Groenlandia e messo tutto su carta, e per ogni lettore disposto a trascorrere una porzione della sua vita su quelle pagine, il
volume rimane un capolavoro per gli approfondimenti e la ricchezza
di dettagli.
Henry David Thoreau, contemporaneo di Darwin, condivideva
con quest’ultimo la propensione all’accumulazione di dati e alla riflessione, e anche se non scosse così profondamente come Darwin
il paradigma scientifico, portò nel suo lavoro la sensibilità poetica.
Come altri suoi moderni ammiratori, che hanno letto tutto ciò che
è stato pubblicato di Thoreau, sono stata felice quando Bradeley P.
Dean ha curato la raccolta di testi inediti Faith in a Seed, tratta dalla
consistente quantità di appunti scritti da Thoreau negli ultimi due
anni di vita. Il volume contiene trattati incompleti su frutti selvatici, erbacce ed erbe, e un testo sulla successione forestale. Ma una
26
parte fondamentale è costituita dall’ultimo manoscritto importante di Thoreau, The Dispersion of Seeds (la dispersione dei semi), nel
quale annotò meticolosamente i modi di maturazione e dispersione, germinazione e crescita di moltissime specie: pini, salici, ciliegi,
asclepiadi, otto tipi di trifoglio, e sostanzialmente ogni altro tipo conosciuto di pianta nei dintorni di Concord nel Massachusetts. Con
una minuziosità incondizionata simile a quella di Darwin, Thoreau
intendeva provare il principio – ancora in discussione allora – che le
piante nuove non vengono generate spontaneamente, ma piuttosto,
nascono sempre e solo dai semi.
[…]
Faith in Seeds è intriso della gioia di Thoreau, della sua curiosità
meticolosa e della sua pazienza ispirata. Nel silenzio di 125 anni, durante i quali siamo calati in un inaspettato eccesso di fretta, ci esorta
a rallentare e prendere nota, a imparare come guardare i semi diventare alberi. Questo è il genere di libro che gli studenti dovrebbero essere obbligati a studiare, anche contro la loro volontà probabilmente.
Quando ricordo le giornate passate a osservare le lucertole mi sento
di simpatizzare con la loro calma, ma desidero anche che tutti noi ci
salviamo dalla tirannia dell’impazienza. Come i personaggi dei cartoni animati, sembriamo correre all’impazzata attraverso l’aria, oltre
il ciglio del precipizio con le menti impegnate in altro. In Earth Balance, Al Gore discute in modo commovente e intenso questo distacco tra uomo e terra. Racconta che in un sondaggio del 1991 nel quale
si chiedeva agli americani quale ruolo come stato avremmo dovuto
giocare nel mondo, la percentuale incredibile del 93% sosteneva che
“Gli Stati Uniti avrebbero dovuto usare la loro posizione unendosi
con altri paesi per mettere in atto politiche capaci di combattere i
problemi ambientali”. Ma allo stesso tempo, scrive Gore: “Quasi tutti
i sondaggi mostravano che gli americani rifiutavano con decisione
tasse più alte sui combustibili fossili, anche se tale proposta è uno
dei logici primi passi per cambiare le nostre politiche, coerentemente
con un approccio più responsabile all’ambiente”. È possibile che non
siamo in grado di fermarci un momento e fare questo collegamento?
27
Recentemente, mentre tenevo una lezione in un’università sulla
scrittura e l’attivismo ambientale, uno studente mi ha chiesto: “Perché non possiamo insegnare queste cose alla gente con la pubblicità
in televisione?” La domanda era allo stesso tempo ingenua e astuta.
Come nazione non riconosceremo mai l’importanza del gufo chiazzato che è in pericolo di estinzione (dichiariamo solo una festa nazionale per lo scoiattolo, come suggeriva Thoreau) fino a quando non
saremo più istruiti. Ma le cose che dovremmo sapere – il funzionamento della catena alimentare, dell’habitat, della pressione alla selezione e adattamento, e le modalità per cui ogni specie dipende d’altra
– sono idee complesse che semplicemente non si adattano a uno spot
di trenta secondi.
Anche progetti educativi ben intenzionati come documentari sulla natura curati molto bene e il facile accesso ad animali esotici grazie
agli zoo sono cuciti sulla nostra impazienza. Ci fanno credere che la
natura sia tutta tempesta senza tregua. È un’abitudine pericolosa. Lo
scrittore di storia naturale Robert Michael Pyle si chiede: “Se possiamo guardare l’accoppiamento dei rinoceronti nei nostri salotti, chi
noterà lo scricciolo nel giardino dietro casa?”.
Il regno selvaggio è piccolo e bruno come lo scricciolo, monotono
come uno sco­iat­­to­lo che toglie le scaglie di una pigna per prendere i
suoi semi, tranquillo come un seme di asclepiade spostato dal vento
– la lunga, lenta calma, immobilità tra una mossa e l’altra. Questo,
penso, è il messaggio nella bottiglia di Thoreau, l’uomo che notò un
mucchietto di semi raccolti all’estremità della coda in movimento di
una mucca e si domandò con invidia quali scoperte si sarebbero presentate ai lavoratori della lana nelle fabbriche dei dintorni. “Non li
vedo”, scrisse, “ma i semi che sono maturati nel New England potrebbero deporsi in Pennsylvania. In ogni caso, mi interessa il successo o
meno di ogni avventura che ci manda l’autunno”.
Che vita dev’essere stata, cogliere il tempo con tutta questa meraviglia. Se solo potessimo recuperare la fede in un seme – e in tutte
le altre complicate meraviglie che non possono adattarsi a una breve
registrazione. Allora noi umani potremmo veramente conoscere la
28
gloria della conoscenza del luogo in cui viviamo.
TERRY TEMPEST WILLIAMS
(1955-)
La scrittura di Terry Tempest Williams, emozionante ed intensa,
rappresenta uno dei casi più riusciti di nature writing contemporanea. L’autrice ha affermato che le sue opere hanno origine dai luoghi
in cui è nata e vissuta, the Colorado Plateau and the Great Basin nello
stato dello Utah e dalla cultura dei mormoni trasmessa dalla sua famiglia e dalla sua comunità.
Nel 1991 “Newsweek” l’ha definita “una persona in grado di avere un impatto considerevole sulle questioni politiche, economiche,
ambientali che i paesi occidentali stanno affrontando in questo decennio”.1 Il suo impegno politico e sociale non è infatti mancato. La
Williams ha fatto parte del Governing Council of the Wilderness Society ed è stata membro del President’s Council for Sustainable Development. Attualmente è membro dell’Advisory Board della National Parks and Conservation Association e collabora con l’associazio­ne
The Nature Conservancy e la Southern Utah Wilderness Alliance.
Ha parlato al Con­gres­so americano in due occasioni su questioni riguardanti la salute delle donne e il cancro causato da inquinamento
ambientale. Ha ricevuto inoltre numerosi premi letterari e due lauree
honoris causa.
Il suo testo più noto è senz’altro Refuge: An Unnatural History of
Family and Place (1991) e in cui racconta la malattia della madre –
un cancro causato dalle piogge radioattive che devastarono Nevada
e Utah durante i test atomici – che si aggrava quando le acque del
Great Salt Lake si alzano provocando la migrazione degli uccelli che
abitano quella zona, chiamata Bear River Migratory Bird Refuge. Tra
le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: Pieces of White Shell: A
Journey to Navajoland (1984), Coyotes Canyon (1989), la raccolta di
saggi An Unspoken Hunger (1994), Desert Quartet: An Erotic Land29
scape (1995), The Open Space of Democracy (2004), una raccolta di
saggi usciti in origine su “Orion Magazine”; Red: Patience and Passion in the Desert (2001) sul suo amore per il deserto, Leap (2000),
Finding Beauty in a Broken World (2008). È anche autrici di libri per
bambini tra i quali The Secret Language of Snow (1984) e Between
Cattails (1985).
Il passo che segue è l’epilogo di Refuge, in cui la scrittrice evidenzia
con enfasi la drammaticità della condizione della madre e di tutte le
donne delle sua famiglia con un racconto crudo e commovente. Il
brano ci riporta agli esperimenti nucleari a cielo aperto che caratterizzano gli anni della Guerra fredda.2 A causa dei test il deserto
del Nevada, luogo virtualmente disabitato, fu bombardato ripetutamente. Oggi sappiamo che le piogge radioattive si diffusero nei territori circostanti provocando morte e malattie in particolare tra le
popolazioni che abitavano nello stato dello Utah. La Williams individua alcune donne della sua famiglia che si ammalarono di cancro
al seno in seguito ai fallout: la madre, le zie e lei stessa – the Clan of
One-Breasted Women. Il dolore e la sofferenza acquisiscono un nome
e cognome. La lettura del libro porta il lettore a conoscere i personaggi, i loro sentimenti, i loro sogni, i loro incubi e i luoghi che amano
e frequentano in dettaglio e con precisione. La personalizzazione e
l’uso di un linguaggio in grado di far leva sull’emotività rendono il
racconto estremamente trascinante e convincente. Va aggiunto che
la William può anche vantare conoscenze scientifiche di buon livello
avendo lavorato allo Utah Museum of Natural History, ed essendo
membro del Board of Round River Conservation Studies, un’organizzazione internazionale dedicata alla wildlife conservation e che ha
sede a Salt Lake City (UT). La preparazione scientifica unita alla capacità narrativa rendono il messaggio ancora più autorevole.
30
Da Refuge:
An Unnatural History of Family and Place, 1991
Il clan delle donne con un solo seno
Appartengo al clan delle donne con un solo seno. Mia madre, le
mie nonne e sei mie zie sono state tutte sottoposte a mastectomia.
Sette sono morte. Le due che sono sopravvissute hanno appena completato cicli di chemioterapia e radioterapia.
Anch’io ho avuto i miei problemi: due biopsie per cancro al seno
e un piccolo tumore tra due costole diagnosticato “al limite del maligno”.
Questa è la storia della mia famiglia.
La maggior parte delle statistiche ci dice che il cancro è di origine
genetica, ereditaria, con una percentuale crescente nel caso si segua
una dieta ricca di grassi, non si abbiano figli, o si abbiano gravidanze
dopo i trent’anni. Ciò che queste non dicono è che vivere nello Utah
può essere il rischio più grande di tutti.
Siamo una famiglia di Mormoni con radici nello Utah dal 1847.
La saggezza tradizionale nella mia famiglia ci ha uniti e indirizzati a
mantenere una sana alimentazione, a non far uso di caffè, tabacco o
alcol. Per la maggior parte, le nostre donne avevano terminato di aver
bambini arrivate ai trent’anni. E solo una affrontò il cancro al seno
prima del 1960. Tradizionalmente, come popolazione, i Mormoni si
ammalano raramente di cancro.
La nostra famiglia è un’anomalia culturale? La verità è che noi
non ci pensavamo. Quelli che lo facevano, di solito gli uomini, dicevano semplicemente: “Geni cattivi”. L’atteggiamento delle donne è
stato stoico. Il cancro era parte della vita. Il 16 febbraio 1971, vigilia
dell’intervento chirurgico di mia madre, accidentalmente alzai il telefono e la sentii chiedere a mia nonna cosa si potesse aspettare da
quella esperienza.
31
“Diane, questa è una delle esperienze spirituali più intense che vivrai.”
Riposi delicatamente il ricevitore.
Due giorni dopo mio padre portò me e i miei fratelli in ospedale
a farle visita. Ci venne incontro nell’atrio su una sedia a rotelle. Non
si vedeva nessuna fasciatura. Non dimenticherò mai la radiosità del
suo viso, il modo in cui stringeva a sé una vestaglia di velluto color
porpora e come ci riunì intorno a lei.
“Ragazzi, sto bene. Voglio che sappiate che ho sentito le braccia di
Dio intorno a me.”
Le credemmo. Mio padre piangeva. Nostra madre, sua moglie,
aveva trentotto anni.
Poco dopo un anno dalla morte della mamma, io e papà stavamo cenando insieme. Eravamo appena tornati da St. George dove la
Tempest Company stava completan­do le linee del gas che avrebbero
servito il sud dello Utah. Papà parlava del suo amore per quel territorio, i paesaggi di sabbia e sassi, brulli, spogli e bellissimi. Aveva appena terminato un’escursione per il Kolob trail nel Zion National Park.
Fummo travolti dalla nostalgia. Ricordammo con tenerezza la nostra
passeggiata all’Angel’s Landing per il suo cinquantesimo compleanno
e gli anni nei quali la nostra famiglia andava lì in vacanza.
Mentre stavamo prendendo un dolce, condivisi con lui un mio
sogno ricorrente. Dissi a mio padre che per anni, per tutto il tempo
che potevo ricordare, avevo visto in sogno un bagliore la notte nel
deserto – questa immagine mi aveva così pervaso che non riuscivo
ad avventurarmi verso sud senza vederla ancora, all’orizzonte, illuminare i ceppi degli alberi e le mesas.
“Tu l’hai vista.”
“Ho visto cosa?”
“La bomba. La nuvola. Stavamo andando a casa da Riverside in
California. Tu eri seduta in grembo a Diane. Era incinta. Infatti mi
ricordo il giorno, il 7 settembre 1957. Eravamo appena usciti dalla
stazione di servizio. Stavamo andando verso nord, dopo Las Vegas.
All’incirca un’ora prima dell’alba ci fu l’esplosione. Non solo la udim32
mo, la percepimmo sul nostro corpo. Pensai che il serbatoio della
benzina fosse scoppiato. Accostammo al bordo della strada e improvvisamente, dalla distesa del deserto, la vedemmo, questa nuvola
dorata, il fungo. Il cielo sembrò vibrare per un misterioso e spaventoso bagliore. Dopo pochi minuti, una cenere leggera e fine pioveva
sulla macchina”.
Fissai mio padre.
“Pensavo sapessi”, disse, “che erano eventi usuali negli anni Cinquanta”.
Fu in quel momento che mi resi conto dell’inganno nel quale ero
vissuta. Bambini cresciuti nel Sud-ovest americano bevendo latte
contaminato, proveniente da mucche contaminate, persino dai seni
contaminati delle loro madri, di mia madre, tutte appartenenti, anni
dopo, al clan delle donne con un solo seno.
È ampiamente nota la storia dei deserti del West, “il giorno in cui
bombardammo lo Utah” o più precisamente, gli anni in cui bombardammo lo Utah. Gli esperimenti a cielo aperto in Nevada ebbero
luogo dal 27 gennaio 1951 all’11 luglio 1962. I venti soffiavano a nord
coprendo di pioggia radioattiva territori marginalmente popolati lasciando greggi di pecore morte lungo il loro percorso. Gli Stati Uniti
degli anni Cinquanta erano rossi, bianchi e blu. La guerra di Corea
imperversava. Il maccarthismo dilagava. Ike3 governava. La guerra
fredda si infiammava. Se eri contro gli esperimen­ti nucleari, eri a favore del regime comunista.
È stato scritto molto sulla tragedia nucleare in America. La salute pubblica fu secondaria alla sicurezza nazionale. Il commissario
dell’energia atomica, Thomas Murray, disse: “Signori, nulla deve interferire con questa serie di esperimenti, nulla”.
Nonostante ustioni, piaghe e nausee, il governo ripetè alla popolazione americana: “È stato accertato che i test sono condotti con
adeguata sicurezza secondo condizioni accettate nei luoghi selezionati per gli esperimenti”. Placare le paure pubbliche era solo un atto
per salvare le apparenze, le relazioni pubbliche. “La scelta migliore
che potete fare”, si leggeva in un fascicolo della Commissione per l’e33
nergia atomica, “è non preoccuparvi della pioggia radioattiva”. Una
liberatoria tipica di quegli anni asseriva: “Non abbiamo prove certe
per concludere che le piogge radioattive abbiano causato danni agli
individui”.
Il 3 agosto 1979, durante la presidenza di Jimmy Carter, fu archiviata una causa: Irene Allen contro gli Stati Uniti d’America. Il caso
della signora Allen era il primo in ordine alfabetico di una lista di 24
presi come test, rappresentativi di quasi 1.200 cause per richiesta di
danni per cancro causato dagli esperimenti nucleari in Nevada contro il governo degli Stati Uniti.
Irene Allen viveva ad Hurricane nello Utah. Era madre di cinque
figli e vedova due volte. Il suo primo marito, con i suoi due figli maggiori, aveva osservato gli esperimenti dal tetto della scuola superiore
locale. Morì di leucemia nel 1956. Il suo secondo marito morì di cancro al pancreas nel 1978.
In una riunione cittadina condotta dal senatore dello Utah Orrin
Hatch, poco prima che la causa fosse archiviata, la signora Allen dichiarò: “Non sto accusando il governo americano, ma voglio che si
conosca questo caso, senatore Hatch. Ho pensato che se la mia testimonianza può aiutare in qualche modo a far si che ciò che è accaduto
non accada di nuovo a nessuna delle generazioni dopo di noi [...] io
sono contenta di essere venuta qui oggi con la mia testimonianza”.
Gente timorata di Dio. Questa è solo una storia in un’antologia di
migliaia.
Il 10 maggio 1984 il giudice Bruce S. Jenkins emise la sua sentenza. A dieci dei querelanti furono concessi i danni. Fu la prima volta
che una corte federale stabilì che gli esperimenti nucleari avevano
causato il cancro. Per i restanti 14 casi test le prove non furono sufficienti. Malgrado la spaccatura nella sentenza, questa fece storia. Ma
non per molto.
Nell’aprile del 1987 la Decima Corte d’appello itinerante invalidò
la sentenza del giudice Jenkins in base al fatto che gli Stati Uniti non
erano punibili in base alla dottrina giuridica dell’immunità sovrana,
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un’idea vecchia di secoli importata dall’In­ghil­ter­ra ai tempi in cui c’era ancora la monarchia assoluta.
Nel gennaio 1988, la Corte suprema si rifiutò di rivedere la decisione della Corte d’appello. Al nostro sistema giudiziario non importa se il governo degli Stati Uniti fu irresponsabile, se mentì ai suoi
cittadini, o persino se dei cittadini morirono a causa delle piogge radioattive in seguito ai test nucleari. Ciò che importa al nostro governo è mantenere l’immunità: “Il re non fa mai del male”.
Nella cultura dei Mormoni l’autorità è rispettata, l’obbedienza è
riverita, il pensiero indipendente no. Mi fu insegnato da ragazza a
non agitare le acque.
“Lascia perdere”, mamma avrebbe detto, “Tu sai come la pensi, è
questo che conta.”
Per molti anni, ho fatto solo questo ­– ascoltato, osservato e silenziosamente forma­to le mie opinioni, in una cultura che raramente
pone domande perché ha già tutte le risposte. Ma, una dopo l’altra,
ho visto le donne della mia famiglia andarsene in seguito a morti comuni ed eroiche. Sedevamo nelle sale d’attesa sperando di avere buone notizie, ma ne ricevevamo sempre di brutte. Mi occupai di loro,
lavai i loro corpi deturpati dalle cicatrici e mantenni i loro segreti.
Vidi donne attraenti diventare calve in seguito all’iniezione nelle loro
vene di Cytoxano, Cisplatino e Adriamicina. Sostenni la loro fronte
quando vomitavano bile verde e nera, iniettai loro morfina quando
il dolore diventava disumano. Alla fine fui testimone dei loro ultimi
pacifici respiri, accompagnando la rinascita delle loro anime.
Il prezzo dell’obbedienza era diventato troppo alto.
La paura e l’incapacità di contestare, di mettere in discussione
l’autorità che in definitiva aveva ucciso le comunità rurali dello stato
dello Utah durante i test delle armi atomiche è la stessa paura che ho
visto sul corpo di mia madre. Pecore. Pecore morte. Le prove sono
sepolte.
Non posso provare che mia madre, Diane Dixon Tempest, o le
mie nonne, Lettie Romney Dixon e Kathryn Blackett Tempest, insieme con le mie zie svilupparono il cancro a causa delle piogge nucleari
35
in Utah. Ma non posso provare il contrario.
Il ricordo di mio padre era corretto. L’esplosione del settembre
1957 a cui noi assistemmo era parte dell’operazione Plumbbob, una
delle più intense serie di test nucleari mai intraprese. Il bagliore la
notte nel deserto, che avevo sempre pensato essere un sogno, si trasformò in un incubo di famiglia. Ci vollero quattordici anni, dal 1957
al 1971, perché il cancro si manifestasse in mia madre: Howard L.
Andrews, un’autorità nello studio delle piogge radioattive presso il
National Institute of Health, dice che il cancro da radiazione richiede molto tempo per evidenziarsi. Più imparo riguardo a quello che
comporta aver vissuto “sotto vento”, più domande mi sommergono.
Quello che so, comunque, è che come donna mormona della
quinta generazione dei Latter-day Saints,4 devo mettere in discussione tutto, persino se questo significhi perdere la mia fede, persino se
questo significhi diventare membro di una tribù ai margini della mia
stessa gente. L’obbedienza cieca e tollerante nel nome del patriottismo o della religione alla fine si è impadronita della nostra vita.
Quando la commissione per l’energia atomica descrisse la regione
a nord dell’area selezionata per i test nucleari in Nevada come “un
territorio desertico virtualmente non abitato”, la mia famiglia e gli
uccelli del Great Salt Lake erano alcuni di quei “virtuali non abitanti”.
note
1 Anderson, Lorraine, “Terry Tempest Williams”, in American Nature
Writers, a cura di John Elder, vol. II, Charles Scribner’s Sons, New York,
1996, p. 974: “Someone likely to make a considerable impact on the political, economic, and environmental issues facing the western states this
decade”.
2 Verso la fine degli anni Quaranta gli Stati Uniti erano l’unica nazione
a possedere la bomba atomica, ma gli americani non davano troppo peso
a questo simbolo di status internazionale e di potere. Quando, nel 1949,
venne fatto il primo esperimento nucleare nell’Unione Sovietica, gli Stati
Uniti cominciarono a sentirsi meno sicuri e cominciò la corsa alle armi
nucleari. Alla fine del 1953 le due nazioni avevano condotto un totale di
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26 test. La maggior parte dei test atomici degli Stati Uniti furono condotti
nel Nevada e le risultanti nuvole di materiale radioattivo che fluttuavano
sopra aree popolate della nazione portarono a una crescente ansia da parte
della gente, nonostante le continue rassicurazioni da parte della Commissione per l’energia atomica. Nel giro di pochi anni i danni provocati dalla
pioggia radioattiva divennero noti, la gente capì che questo invisibile veleno poteva circondare il globo e minacciare la loro vita, circolando nell’aria
che respiravano e insinuandosi nelle ossa dei bambini.
Nel frattempo le tensioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica si acuirono e
nell’agosto del ’61 la Germania dell’Est cominciò a costruire il Muro di
Berlino. Il mondo nel 1962 fu testimone del più grande numero di esplosioni nucleari della storia. Le ostilità tra le due nazioni raggiunsero l’apice
con la crisi missilistica di Cuba nell’ottobre del ’62, e si temette l’inizio di
una guerra nucleare che avrebbe probabilmente portato alla fine della storia. Gli Stati Uniti già dal 1961 erano caduti in preda ad una sorta di isteria collettiva, una shelter mania (“mania della difesa”) tale che il governo
fu costretto a prendere provvedimenti e a firmare con l’Unione Sovietica
un trattato per limitare i test nucleari. Insomma, la fine della storia e la
guerra nucleare non erano più solo scomodi argomenti di conversazione,
ma erano minacce contro le quali i cittadini si stavano fisicamente preparando e le azioni del governo non erano di certo tese verso la prevenzione.
3 Diminutivo di Dwight David Eisenhower (1890-1969). Comandante
in capo delle forze alleate in Europa durante la seconda guerra mondiale
con il grado di generale di corpo d’armata, fu il trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America dal 1953 al 1961.
4 Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. La setta nacque
il 6 aprile 1830 come Chiesa di Gesù Cristo nella città di Fayette, nella
contea di Seneca. Joseph Smith divenne il loro leader spirituale e fu riconosciuto come “un veggente, un traduttore della parola di Dio, un profeta,
un apostolo di Gesù Cristo”. I suoi membri si spostarono ripetutamente
negli Stati Uniti e nel 1860 a Salt Lake City, nello Utah, una frangia del
gruppo costituì la Chiesa Riorganizzata di Gesù Cristo dei Santi dell’Ultimo Giorno. Questo gruppo respinge la poligamia ed ha altre importanti
differenze. Nel 1970 il movimento contava, complessivamente in tutto il
mondo, circa tre milioni e mezzo di membri, ma Salt Lake City resta ancora oggi il centro del più grande gruppo di mormoni.
37
RICK BASS (1958-)
Bass è un autore molto popolare ma anche acclamato dalla critica,
ha vinto molti premi ed è un attivista impegnato a lottare contro le
ingiustizie ambientali. È nato in Texas, figlio di un geologo, è a sua
volta geologo, nello specifico un petroleum geologist e alla sua prima
attività ha dedicato il volume Oil Notes (Taccuini di un cercatore di
petrolio, 1989), in cui racconta la sua esperienza nel mondo dell’industria petrolifera. Ha incominciato a scrivere racconti durante le
pause pranzo quando lavorava come geologo a Jackson nello stato
del Mississippi. Nel 1987, si è trasferito con la moglie, la pittrice Elizabeth Hughes, nella remota Yaak Valley vicino a Troy in Montana,
dove ha lavorato attivamente per proteggere la sua terra d’adozione
dal disboscamento e dalla costruzione incontrollata di case e strade.
È stato membro del Yaak Valley Forest Council e dell’associazione
Round River Conservation Studies.
È autore di più di venti libri scritti in varie forme: non-fiction nature writing, raccolte di saggi e racconti, romanzi, tra cui The Deer
Pasture (1985), Wild to the Heart (1987), Winter: Notes from Montana (Un inverno nel Montana, 1991), The Book of Yaak (1996), Fiber
(1998), The New Wolves (1998), Brown Dog of the Yaak: Essays on Art
and Activism (1999), The Hermit’s Story, e Colter: The True Story of
the Best Dog I Ever Had (2002), The Roadless Yaak: Reflections and
Observations About One of Our Last Great Wilderness Areas (2002),
Why I came West (2008).
Tra i premi che ha ricevuto si segnala il Pushcart Prize, un prestigioso riconoscimento conferito a volumi di poesia, racconti, saggi
pubblicati da piccole case editrici e l’O.Henry Award, un premio assegnato ogni anno a racconti di eccezionale merito.
Rick Bass è ricordato soprattutto per il suo impegno civile. Il naturalista moderno e il nature writer si distinguono per l’attivismo sociale e politico che mette in discussione le amministrazioni incapaci di
occuparsi delle risorse della terra. Questo tratto è già presente in parte in Thoreau, si manifesta pienamente in Muir con la battaglia per
preservare la valle di Yosemite, ed è vivo in quasi tutti i nature writers
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contemporanei, da Edward Abbey che lotta contro le istituzioni per
il mantenimento della wilderness del deserto, a Terry Tempest Williams che denuncia il governo americano per aver svolto gli esperimenti nucleari a cielo aperto, a Rick Bass, appunto, nel quale questa
tendenza si è amplificata. Bass arriva ad affermare che alcune volte
l’attivista e lo scrittore debbano sovrapporsi nel nature writer, e che
spesso l’attivista debba prevalere per poter approdare a degli effettivi
risultati pratici. Con l’aggravarsi della crisi ambientale il nature writer
non può limitarsi solo a comunicare e informare, deve anche agire.
Nella selezione Bass racconta del suo incontro con la Yaak Valley. Di come se ne sia innamorato e di come sia arrivato a sentire
l’esigenza di prendersene cura. Stagione dopo stagione, Bass vede il
mutare della sua terra, impara a conoscerne le bellezze e le debolezze,
si adatta a suoi ritmi: si sente a casa. E alla fine soffre profondamente
per le ferite che le vengono inflitte: ogni albero che cade è una perdita
immensa e contro questa distruzione perpetrata senza alcun controllo decide di battersi.
Da The Book of Yaak
1996
Il valore di un luogo
[….] Ho già scritto un libro in cui raccontavo di essermi innamorato di questa valle. Ho desiderato intensamente quell’innocenza e
remissività del cuore che conduce all’amore. Perdonatemi se ripeto
questa storia, di come mi sono imbattuto in questo posto, ma ciò che
era parte di quella vecchia storia – innamorarsi della valle e imparare ad adattarsi al luogo – è anche parte di questa nuova storia, che
riguarda, suppongo, la seconda parte del mio ciclo: la luna che deve
sempre rispondere al sole, il restituire dopo aver molto preso.
Volevamo essere degli artisti, mia moglie ed io. O meglio, lei era
un’artista e io ero un geologo e volevo invece diventare uno scrittore.
Sapevo che sarebbe stato difficile fare entrambe le cose, dividersi tra
39
la geologia e la scrittura, tra la scienza e l’arte.
Lasciammo il Mississippi quando avevamo 29 anni nel mio vecchio pickup con i nostri due cani, che erano cuccioli allora, e ci dirigemmo verso ovest, fummo spinti a ovest, un richiamo che sembra
essere una predisposizione genetica del nostro sangue, un messaggio
che ci dice di muoverci nel paese da destra a sinistra, sempre più
lontano da qualche eco d’Inghilterra, forse, o lontano da qualsiasi
cosa, qualcosa nel nostro sangue e forse nel paese sotto di noi che ci
sussurra sempre di ribellarci, anche in modo lieve. E quello è ciò che
facemmo, corremmo, sia per il brivido del volo, sia alla ricerca di un
posto per noi.
Attraversammo tutto l’Ovest – sapevamo di amare le montagne,
le rocce e il ghiaccio e le foreste e i ruscelli, amavamo il cielo e le
nuvole fumose – e viaggiammo attraverso i temporali di luglio e le
tempeste di neve di agosto finché un giorno arrivammo su un passo
e una valle apparve sotto di noi, un valle blu e verde nascosta sotto le
fitte nuvole, con del fumo che si alzava da un paio di camini lontani,
e un fiume pigro che serpeggiava al centro stretto della valle, e un
potere e un’immensità che ci costrinsero a fermarci. Era forse come
la sensazione che si prova navigando sull’ocea­no profondo trascinandosi l’ancora, con l’ancora trattenuta da qualcosa sul fondo. È stata la
gravità del luogo a catturare il mio cuore, a catturare i nostri cuori.
Ci volle parecchio tempo perché ci sistemassimo, perché ci adattassimo, ma non così tanto come quello che avremmo impiegato se ci
fossimo trasferiti in un’altra città, non credo. Il trasloco non fu facile,
per dire il meno – non avevo neanche un cappotto, o biancheria intima pesante, per esempio (vivendo nello stato del Mississippi!) – ma
ci furono dei punti di incontro, già dall’inizio. Morivo dalla voglia di
avere qualcosa, ma fino ad allora non avevo capito bene cosa fosse –
e anche quando lo scoprii, non ne sapevo il nome: era la pace – ma
sapevo che questa valle me la poteva dare, e me l’avrebbe offerta, mi
avrebbe deliziato come davanti a un buon pranzo. Era la somma di
certe strane combinazioni di rocce e foresta e fiume che parlavano
solo ai nostri cuori – anche se credo sia onesto dire che parla ai cuori
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di tutti coloro che si sono impegnati a vivere qui: a quel centinaio di
persone che abitano qui.
È troppo immaginare che il pulsare del nostro sangue e delle nostre emozioni segua il profilo ruvido dei giorni di luce in questa valle? Le brevi estati di lunghi giorni seguite dai lunghi inverni di giorni
brevi? Il gioco di luce in queste strane foreste, e perfino il rumore dei
suoi ruscelli, in qualche modo un luogo e un suono che è sempre esistito, che rispecchia i suoni, i ritmi dentro di noi? Non qualcosa che si
sovrappone direttamente alla vecchia vita, ma una predisposizione,
così che il nostro stabilirci nella valle non ci procurò tanto lavoro e
sforzo, ma sollievo, piacere e pace.
Esiste un posto del genere per ognuno di noi?
Quanti luoghi così sono rimasti al mondo, quanta diversità di luoghi esiste ancora? E per quella diversità che tolleranza abbiamo, che
affinità percepiamo?
Se un luogo è pacifico, può dispensare quella pace ai suoi abitanti?
E se è così, fino a che punto, come un sasso caduto in un laghetto, può
diffondersi quella pace?
Qual è il valore di un luogo?
Scrivevo ed Elizabeth dipingeva. Scrivevo in un posto che era per
metà una serra, per metà una cantina, per metà sommerso dalla ricca
terra nera, come un orso ibernato, che sognava; tuttavia ero anche
per metà immerso nella luce e circondato dal profumo e dal sapore delle cose che crescono. Elizabeth dipingeva all’aperto, alla luce
brillante del sole e al vento, dopo che il primo inverno fu passato:
dipingeva sciarpe di colori lucenti, e paesaggi altrettanto luminosi.
Prendevamo, e prendevamo, e prendevamo. Ci divertivamo.
Non so dirvi quando i paraocchi dell’arte, solo dell’arte, si alzarono: in quale preciso istante guardai oltre la reazione visiva immediata a ciò che si stava facendo alla valle – le incisioni chirurgiche del
disboscamento, della distruzione – e sentii il disagio, o il malessere,1
abbastanza nel profondo da incominciare ad agire, o cercare di agire,
contro tutto ciò. Non sono sicuro a che punto ho permesso alla pena
per ciò che accadeva di essere assorbita abbastanza intimamente, da
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non avere altra scelta se non quella di reagire. I tagli degli alberi non
erano mai stati un bello spettacolo, ma per almeno un anno o due
non mi avevano toccato, non mi avevano fatto male, non avevano
intaccato la mia pace, come facevano ora. E provavo la stessa pena
per la minaccia dei tagli che sarebbero avvenuti in futuro: quelli in
programma, e quelli che sarebbero venuti dopo.
Ma ci deve essere stata una svolta – un momento, un posto, dove
qualcosa in me è arrivato alla saturazione – che mi portò a non accettare più la vista e la conoscenza di ciò che le strade e il disboscamento
stavano facendo all’ecologia della valle e anche all’economia dell’uomo. Senza dubbio questo sentimento di sofferenza, di saturazione arrivò dopo che avevo trascorso un intero ciclo delle quattro stagioni,
forse dopo che ci ero passato per un paio di volte. Andai per i boschi,
passeggiando e cacciando, con la mente aperta, avevo sentito che i
disboscamenti erano talvolta benefici per la produzione dell’erba da
brucare per i caprioli (senza pensare che la popolazione dei caprioli
poteva così crescere oltre i limiti della loro media invernale). Sembrava esserci ancora molta biodiversità nelle foreste, e le zone non
ancora raggiunte dalle strade – i santuari – parevano ancora intatte.
Questo accadeva un decennio fa. Non sono sicuro di quando incominciai a rendermi conto che loro – le industrie del legno – volevano tutto: o se non tutto immediatamente, volevano l’accesso a tutto
per sempre. Perché tanto, come dichiarava un adesivo per automobili
che occasionalmente vedevo: Wilderness = Land of No Use.
Ogni stagione, miglioravo la sensazione e il gusto per i cicli. Il
mio sangue incominciò a imparare i nuovi ritmi. Il mio corpo diventò abile nel comprendere il linguaggio dei cicli: tagliare la legna
nelle fredde mattine, pulire un tetraone2 alla sera, il conforto e la cerimonia di togliere le piume. Notare dove l’alce si nutriva in estate e
in inverno. Osservare dove gli orsi mangiavano e cosa. Guardare lo
scorrere dei ruscelli e dello Yaak: sottile in autunno, gelato ma calmo
in inverno, selvaggio, gioioso ed enorme in primavera e poi regolare
e limpido in estate, con tricotteri3 ed efemere4 che si alzavano ogni
sera e l’abete bianco gigante e altri abeti che gli facevano ombra, te42
nendolo fresco e vivo […]
Piccoli cicli si irradiano in cicli più grandi. Continuai a seguirli
osservandone di nuovi ogni giorno e continuai ancora. Incominciai
a sentirmi più a mio agio nei boschi, infilandomi tra gli olmi, arrampicandomi sotto e sopra le straliciature abbattute di legno, attraversando ruscelletti su assi di cedro scivolose, arrampicandomi sulle
cime delle rocce, scendendo per le piste delle valanghe fino ai vecchi
larici disposti come in un parco: i loro aghi di un color oro brillante
in autunno, e lo stesso oro brillante sotto i piedi, che mi portava a
muovermi come attraverso una terra rivestita d’oro, e due centimetri
di terra nera sulla cima, le tracce di morena dei ghiacciai; certe volte
erano cinque centimetri, talvolta sette, ma poi lo strato di frammenti
di roccia e la terra era così sottile sotto i piedi che non dovevi essere
uno scienziato per capire che il poco che c’era era il massimo che per
grazia quel posto avrebbe mai avuto, che era stato portato da alcuni
di questi alberi, di queste foreste, che ci aveva messo cinquecento
anni per raggiungere quel livello, cinquecento anni e sette centimetri,
e che una volta lo si portava via, il terreno se ne andava con gli alberi,
e per molto tempo ci sarebbe stato solo il vuoto, invece della grazia,
che allora ci sarebbe stato solo l’eco della grazia.
Girovagavo, solo per guardare e ascoltare. Per chiarirmi le idee.
Notavo le differenze tra aree costruite e non. Non tutte le zone costruite avevano quella confusione di spirito o perdita di grazia; alcune avevano mantenuto, rimodellato, la grazia del bosco (o meglio, la
grazia del bosco si era modificata e ancora correva intorno e attraverso quelle aree in cui si era costruito con cura e rispetto).
Ma anche quelle aree non erano, in alcun modo, paragonabili a
quelle rimaste intonse – l’incredibile vitalità dei cicli ancora in corso
nei luoghi più remoti della valle – gli ultimi angoli intatti.
Mi resi conto che il momento in cui il male subito dalla valle incominciò a farmi soffrire nel profondo era quello in cui per la prima
volta avevo incominciato a sentire che mi stavo adattando ad essa:
che il paesaggio e io avevamo una relazione. Che io ero stato rimodellato, riorganizzato, per meglio adattarmi al luogo, nello spirito e
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nei desideri. Che non stavo lottando o resistendo al processo. Quando la valle diventò casa mia, le ferite che le erano inflitte e gli insulti
diventarono i miei.
note
(Endnotes)
1 In inglese Bass qui gioca sulla somiglianza dei due termini: unease e
dis-ease.
2 Grosso uccello simile al fagiano, diffuso nelle regioni fredde dell’Europa, dell’Asia e dell’Ame­ri­ca Settentrionale.
3 I tricotteri (trichoptera), appartenenti alla sottoclasse Pterygota e al
superordine Endopterygota, sono insetti a metamorfosi completa o Olometaboli che, nello stadio immaginale, hanno ali ricoperte da sottilissimi
peli da cui il nome trichoptera, dal greco thrix, “pelo”, e pterón “ala” = ali
pelose.
4 Le efemere sono insetti relativamente primitivi, affini alle libellule;
come queste ultime, hanno forme larvali strettamente acquatiche e presentano ali sostenute da una fitta rete di nervature (un tipico carattere di
primitività per gli insetti).
Letteratura, ambiente, comunicazione: Bibliografia di riferimento
Bibliografia primaria
Abbey, Edward, Deserto solitario: una stagione nei territori selvaggi,
Padova, F. Muzzio, 1993.
—, I sabotatori, Padova, Meridiano zero, 2001.
Bass, Rick, Fiber, Athens, Ga, University of Georgia Press, 1998.
—, The Book of Yaak, Boston, Mass, Houghton Mifflin, 1996.
Carson, Rachel, Primavera silenziosa, Milano, Feltrinelli, 1990.
Commoner, Barry, Il cerchio da chiudere, Milano, Garzanti, 1972.
—, La povertà del potere, Milano, Garzanti, 1976.
—, La politica dell’energia, Milano, Garzanti, 1979.
Darwin, Charles, On the Origin of Species by Means of Natural Selection, in
The Norton Book of Nature Writing, edited by Robert Finch e John Elder,
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