In Viaggio - Associazione Periti Industriali Minerari

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In Viaggio - Associazione Periti Industriali Minerari
In Viaggio
“Spesso mi capita di riprendere tra le mani il mio vecchio diario. E' come se mi chiamasse
all'improvviso per ricordarmi la sua presenza lassù, tra i tanti libri disposti casualmente nella
libreria. Ed io ogni volta non riesco a oppormi a quell'istinto che mi spinge a sfogliarlo mentre i
ricordi di quel viaggio riemergono vividi nella mente. Decisi di partire appena compii i vent'anni.
Pagai il biglietto del treno con i pochi soldi che avevo ricavato grazie alla vendita di uova e di
ortaggi provenienti dall'orto di famiglia. Ricordo ancora la sensazione di incertezza e allo stesso
tempo di curiosità che mi assalì quando sollevai la valigia riempita di poveri indumenti, e quel
groppo alla gola che provai mentre salutavo mia madre prima di prendere il treno alla stazione di
Agordo. Era il 21 settembre 1951. Sistemato le mie cose, presi posto in terza classe, lo
scompartimento riservato a coloro che partivano in cerca di fortuna, esattamente come fece mio
padre qualche anno prima. Mio padre, quell'uomo che aveva lasciato la famiglia per guadagnare
qualche Franco in Belgio lavorando come minatore, quell'uomo che tanto mi mancava e che non
vedevo l'ora di rivedere. Quel giorno incontrai tanti uomini che avevano preso la sua stessa
decisione. Durante il viaggio percepii tutta la malinconia e la nostalgia che li accumunava. Le
condizioni in cui viaggiamo furono disastrose: il treno non era abbastanza grande per contenere
tutti i passeggeri, per questo fummo costretti alla vicinanza con persone totalmente estranee.
Dopo poche ore l'aria fu appesantita dall'odore di vino e sudore, esattamente come se ci
trovassimo in un'osteria. Quando arrivammo a Milano, fui sollevata nel poter lasciare quel vagone
per alcune ore. La procedura era sempre la stessa: arrivo a Milano, visite mediche per ottenere la
certificazione di salute e di idoneità al lavoro nelle miniere, ripartenza per il Belgio con breve sosta
in Svizzera. Il tutto richiedeva circa tre giorni. Appena scesi dal treno, respirai profondamente.
Decisi di aspettare di ripartire su una panchina della stazione. Stetti lì seduta per ore a osservare
quel numero infinito di uomini che attendeva l'incontro con il dottore che avrebbe deciso se farli
continuare o meno il viaggio verso il Limburgo, la regione belga in cui ero diretta. Presi dalla valigia
il mio diario che conteneva tutto ciò che mio padre mi aveva spedito dal Belgio. Rileggendo quelle
lunghe lettere, che conservo tutt'ora con gelosia, immaginai di averlo al mio fianco, esattamente
come se egli stesso mi stesse raccontando di quelle ore massacranti passate lavorando all'interno
della miniera, dei turni che sembravano essere infiniti, dei compagni che ormai erano diventati
buoni amici, di come a volte bastava una risata per sollevare il peso di nostalgia e di stanchezza.
Guardai le foto che spesso accompagnavano i suoi scritti. Sorrisi osservando quella comitiva di
ragazzi vestiti in giacca e cravatta che passava le poche ore libere dal lavoro visitando le città
limitrofe alla zona delle miniere. Pochi momenti di serenità che si intervallavano a lunghi periodi
passati a sudare nel sottosuolo aspettando con impazienza il suono della sirena che avrebbe
annunciato il cambio turno. Mi risvegliai da quei pensieri nel momento in cui sentii il macchinista
del treno richiamare i suoi passeggeri per proseguire il viaggio. Riposi all'interno della valigia le
lettere e le foto e corsi verso il treno. Appena salii, notai che il numero di emigranti si era ridotto,
molti infatti erano risultati non idonei al lavoro in miniera. Chiesi ad alcuni uomini che viaggiavano
vicino a me la causa di questa riduzione. Mi spiegarono che i controlli erano molto severi, che era
meglio essere rimandati a casa a questo punto del viaggio piuttosto che una volta arrivati in Belgio.
A molti emigranti infatti, veniva precluso l'ingresso in Belgio per non aver superato il test di
idoneità dopo essere arrivati a destinazione. Questa era la situazione peggiore. Gli sfortunati
costretti ad affrontare la perdita dell'unica possibile fonte di denaro per la propria famiglia,
diventavano vittime dello sconforto e della vergogna nel dover rientrare in Italia con un fallimento
sulle spalle. Il viaggio proseguì esattamente come prima, ma con molti meno passeggieri della
terza classe. Arrivammo in Belgio dopo altri due giorni. Appena scesi dal treno, seguii gli operai
verso un alloggio gestito da emigranti italiani conosciuto con il nome “La Cantina”. Questo edificio
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era una sorta di luogo di passaggio per tutti coloro che avevano deciso di lavorare nelle miniere, in
attesa di trovare una sistemazione migliore presso una famiglia belga che avrebbe ricevuto un
compenso dalla Società Carbonifera per la sua ospitalità. Alcuni operai, dopo aver trovato un
alloggio fisso, decidevano di avere accanto a sé il resto della famiglia, per questo facevano
trasferire moglie e figli in Belgio, i quali avrebbero contribuito a ricreare quell'ambiente famigliare
che forse era ciò che più mancava ai lavoratori emigrati. Trascorsi la notte presso “la Cantina”, le cui
stanze avevano una capienza massima di sei persone. Mentre cercavo di difendermi dal freddo che
attanagliava l’intero edificio, pensai all’incontro del giorno seguente con mio padre, al modo in cui
lo avrei salutato, a quale espressione sarebbe comparsa sul suo volto nel vedermi dopo tanto
tempo. Il mattino seguente mi svegliai con gli stessi pensieri nella mente. Prima di lasciare “La
Cantina” mi rivolsi all’albergatore per chiedere le informazioni necessarie su come raggiungere la
miniera di Houthalen, la miniera in cui lavorava mio padre, una delle sette che avevano sede nel
bacino Kempen del Limburgo. Mi rispose con aria perplessa, colpito nel vedere una ragazza sola, di
vent’anni, in quel luogo frequentato quasi in esclusiva da uomini. Dopo averlo ringraziato, mi
incamminai sola con la mia valigia. Ricordo ancora ogni singolo dettaglio su cui i miei occhi si
soffermarono in quella passeggiata: le case così diverse rispetto a quelle di Agordo, la chiesa in
pietra chiara, le donne in bicicletta dirette verso la ferrovia, gli alberi che ormai stavano perdendo
le loro foglie. Tutto ciò contribuiva ad accentuare la lontananza da casa. Chissà se avrei resistito, io,
in quel luogo così distante ed estraneo, costretta a vivere con la sensazione di perenne solitudine e
nostalgia destinata ad aumentare ogni giorno di più. Pensai ai minatori emigrati, a mio padre. Fu in
quel momento che mi resi veramente conto della situazione in cui stavano vivendo. Pensai ai loro
figli, costretti a crescere senza una figura maschile su cui appoggiarsi nei momenti di bisogno,
presente solo una volta all’anno per i più fortunati. Con questi pensieri, arrivai al campo della
miniera di carbone di Houthalen. Ciò che attirò immediatamente la mia attenzione furono i due
pozzi di ferro alti circa settanta metri che emergevano tra le baracche dei minatori. Il campo era
esattamente come mio padre lo aveva descritto nelle lettere: gli uffici amministrativi, la centrale
elettrica con le tre torri di raffreddamento, le case dei minatori. Decisi di avviarmi presso uno di
quegli edifici che fungevano da sede amministrativa per chiedere informazioni su mio padre.
Quando entrai, osservai in silenzio l’impiegato seduto alla scrivania concentrato sui documenti.
Esitai, non volevo distoglierlo dal suo lavoro ma necessitavo di informazioni. Avanzai verso di lui.
Sollevò la testa accorgendosi della mia presenza. Mi salutò nella sua lingua, l’olandese. Capì che
ero italiana nel momento in cui ricambiai il saluto nella mia lingua. Non ebbi difficoltà a farmi
comprendere dato che l’impiegato era abituato ad avere rapporti con minatori che provenivano da
tutta Europa. Chiesi di mio padre. Mi rispose che quello era il suo giorno di riposo, mi lasciò un
biglietto con l’indirizzo della famiglia che lo ospitava e mi spiegò come raggiungere l’abitazione. Fu
molto sbrigativo, non voleva essere disturbato oltre. Uscii dall’edificio leggendo quell’indirizzo che
mi separava da mio padre. Lasciai il campo di lavoro della miniera e mi rimisi in cammino. La casa
non era tanto distante dal luogo in cui mi trovavo. Ero emozionata e intimorita. Come avrebbe
reagito nel vedermi? Il suo aspetto sarebbe stato lo stesso dell’ultima volta? Cosa mi avrebbe
raccontato? Misi da parte le incertezze e facendomi coraggio, suonai alla porta di quella casa, la
nuova casa di mio padre. Mi aprii una signora di circa quarant’anni, i capelli biondi raccolti con un
fermaglio e un grazioso vestito a fiori. Mi guardò esattamente come si osserva uno sconosciuto.
Alzai la mano destra accennando un saluto e le mostrai la foto di mio padre che avevo in tasca.
Fece un sorriso e mi fece segno di aspettare. La porta si richiuse. Rimisi la foto in tasca e appoggiai
la valigia per terra. Mille dubbi mi assalirono. Avevo fatto la scelta giusta nel partire?
Improvvisamente la porta si aprì e apparve mio padre. Era esattamente come me lo ricordavo: alto,
con il fisico asciutto che tanti gli invidiavano, i capelli ricci e scuri e un accenno di barba sul viso.
Indossava una camicia bianca e una giacca elegante, era sul punto di uscire per godersi l’unico
giorno libero della settimana. Mi sorrise incredulo. Lo abbracciai come quando fui costretta a
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salutarlo il giorno della sua partenza per il Belgio. Erano passati tre anni da quell’ultimo contatto
con mio padre. La gioia di quel momento, nell’averlo lì, vicino a me, poterlo toccare, potergli
raccontare il mio viaggio, fu indescrivibile. I brividi sono sempre gli stessi, ogni volta che il mio
ricordo arriva a questo punto. Mi fece entrare in casa, mi presentò alla donna che mi aveva aperto
la porta, la signora Lemair, che scoprii essere la moglie del padrone di casa, un impiegato presso la
stessa miniera in cui lavorava mio padre. Lasciai la valigia nella sua stanza da letto, salutai la signora
e uscii con mio padre. Mi disse che stava per visitare Genk, una città belga a pochi chilometri da
Houthalen. Mi chiese se avessi voluto andare con lui. Una domanda retorica, conosceva già la mia
risposta. Prendemmo il treno per raggiungere Genk. Durante il viaggio gli raccontai della mia
decisione di partire, della “Cantina”, della notte trascorsa tra le incertezze, del freddo, della
passeggiata che mi aveva fatto riflettere sulle condizioni di vita dei migranti e dei loro cari,
dell’impiegato degli uffici della miniera, di quell’indirizzo che mi aveva portato a lui. Mi chiese della
mamma, di mio fratello Giuseppe, dell’orto, delle galline, del nonno. Era avido di conoscere ogni
dettaglio sul paese che aveva lasciato così a malincuore. Mi disse che conservava tutte le mie
lettere nella valigia, che ogni volta che arrivava una busta bianca dall’Italia non vedeva l’ora di
aprirla solo per annusare il profumo della nostra casa che proveniva dal foglio scritto. Mi confessò
che gli mancava la famiglia, che i suoi pensieri erano sempre diretti all’Italia, verso i suoi figli, alla
mamma. Mi abbracciò di nuovo. Quella fu l’unica volta che mio padre condivise con me le sue
emozioni, che mi fece partecipe di ciò che provava nell’essere così lontano da casa. Ora che non c’è
più mi piace ricordarlo sul quel treno intento a raccontarmi tutto questo. Quando arrivammo a
Genk ci sedemmo in un bar, ordinammo dei Wafels, un dolce tipico belga, e continuammo i nostri
discorsi. Ero curiosa di sapere tutto sul lavoro in miniera. Mi spiegò che quello era un lavoro molto
pesante, che l’inizio era sempre la parte più difficile, che molti si arrendevano dopo il primo giorno.
Mi disse che si arrivava nel sottosuolo con un ascensore in grado di trasportare circa una settantina
di minatori e che poi si prendeva un trenino elettrico fino al proprio posto di lavoro, che il carbone
estratto veniva portato in superficie con delle gabbie che potevano contenere dodici tonnellate di
carbone alla volta. Si soffermò sul caldo che si soffriva lavorando nella miniera, sui cunicoli poco
illuminati, sul rumore dei martelli pneumatici con cui si estraeva il carbone e su quello dei nastri
trasportatori, sul viso sporco a causa della polvere di carbone che veniva anche respirata e infine,
sulla sensazione di gioia nel ricevere il compenso che ripagava quelle fatiche. Purtroppo l’ora di
ripartire giunse in fretta. Mi accompagnò alla stazione per il rientro in Italia, mi salutò
promettendomi che sarebbe venuto a trovarci a casa il prima possibile e mi dette la lettera che ci
avrebbe spedito il giorno dopo. Salii sul treno mentre la nostalgia si impossessava già di me. Avrei
desiderato poter trascorrere altro tempo con lui. Lo guardai allontanarsi dal finestrino e aprii la
lettera che mi aveva lasciato poco prima.”
Quando ero una bimba la nonna mi raccontava spesso questa storia. Era il suo racconto preferito, e
anche il mio. Ogni volta che lo ascoltavo, tutto si materializzava nella mia mente. Sognavo di essere
io quella ragazza così coraggiosa da intraprendere un viaggio verso un paese sconosciuto. Vedevo i
minatori, gli alberi, le case, la signora Lemair prendere vita nei miei pensieri. Ed ora eccomi qui,
sessant’anni più tardi, pronta ad affrontare il viaggio che avevo tanto sognato da piccola, un
viaggio così distante ma allo stesso tempo così vicino a quello di mia nonna. Sto per partire per
l’America per completare gli studi, sono sola esattamente come lei. Mentre aspetto la chiamata per
l’imbarco ripenso con un sorriso a questo racconto. Gli uomini continuano a viaggiare, a spostarsi
da un posto all’altro del mondo nutrendo speranze, continuano a provare quel senso di attrazione
verso luoghi sconosciuti. E’ come se il viaggio fosse un sentiero infinito che accomuna le
generazioni nel corso della storia. I nostri migranti hanno intrapreso una scelta difficile che li ha
costretti ad affrontare molti disagi, ma ciò che più emerge dai loro racconti è la grande dignità, la
stessa che illuminava il loro sguardo.
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