iniziamo a familiarizzare con lo strumento. e

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iniziamo a familiarizzare con lo strumento. e
INIZIAMO A FAMILIARIZZARE CON LO STRUMENTO.
Innanzi tutto, che chitarra scegliere? Classica, acustica, elettrica, solid body,
hollow body…
Le variabili che ci possono influenzare nella scelta sono molteplici e vanno dal
genere che c’interessa alla quantità di lira che vogliamo o possiamo investire nella
nuova passione e così via.
Premesso che è assodato il fatto che l’approccio tecnico che si usa con una
acustica è diverso da quello di una classica con le corde di nylon, così come da
quello usato con una elettrica (anche se non è corretto secondo me parlare di
strumenti “diversi”), ritengo che una buona scelta sia data, per il neofita, da una
chitarra classica con le corde di nylon e con misure regolari, e ciò per due motivi:
- 1) le misure del manico e le spaziature dei tasti, più ampi che in una acustica
con le corde di metallo (steel guitar), ci costringeranno all’inizio ad “aprire” la
mano, favorendo una impostazione molto corretta che assicurerà nel tempo
alti benefici;
- 2) l’action delle corde di nylon è sicuramente più morbida, consentendo da
subito di ottenere qualche suono e di “martoriare” un po’ meno i nostri timidi
polpastrelli, nonché di arrivare in breve tempo ad eseguire il famigerato ed
odiato “barrè” (ovvero quel movimento con cui l’indice preme simultaneamente
tutte o metà delle corde – azione che è la responsabile dell’ 80% degli
abbandoni sul campo da parte dei novelli guitar-hero).
Non appena saremo in grado di ottenere qualche suono intelligibile ed appresi
i primi rudimenti di tecnica, potremo serenamente passare ad altri strumenti quali
acustiche “steel strings”, sicuramente più gratificanti come suono in relazione ai
generi attuali, od alle elettriche.
E COME LA PRENDIAMO IN MANO?
Questo è a mio avviso un aspetto tutt’altro che banale, anche se spesso si
tende a trascurarlo. E’ opportuno, infatti, acquisire consapevolezza che ogni modo di
“prendere in mano” la chitarra ha i suoi vantaggi e svantaggi; ognuno poi potrà
scegliere la posizione che in ultima analisi gli risulterà più sciolta e naturale. Vediamo
ora come possiamo “indossare” lo strumento.
Esaminiamo in primis la posizione classica, che prevede
che la chitarra sia appoggiata tra le due gambe, con la fascia
inferiore dello strumento appoggiata sulla sinistra, quest’ultima
a sua volta sollevata da terra di una quindicina di centimetri
(esistono in commercio dei treppiedi appositi). L’avambraccio
destro andrà saldamente appoggiato alla fascia superiore,
curando che quest’ultima sia rivolta leggerissimamente in
avanti (sono sufficienti pochi gradi).
In questo modo la mano destra cadrà naturalmente all’altezza della buca, mentre il
manico della chitarra sarà rivolto verso l’alto, in modo che diteggiando nelle prime
posizioni (cioè verso il capotasto), la mano sinistra si troverà circa all’altezza della
spalla.
Questa impostazione consente grande fluidità di movimento e precisione di
suono. Per contro a volte può condizionare l’esecutore per la sua “seriosità”.
Rispetto alla precedente, risulta senz’altro più naturale la posizione a gambe
accavallate, ancorché la posizione del manico sarà per forza meno inclinata verso
l’alto e più parallela a terra. Attenzione, accavallare la gamba sinistra sulla destra
non è la stessa cosa che il contrario: nel primo caso il manico sarà indirizzato più in
alto, essendo un buon compromesso rispetto alla posizione classica; nel secondo il
manico sarà più parallelo a terra, favorendo quindi posizioni della mano sinistra
meno corrette. Per contro questa è la posizione più comoda e spontanea (non so voi,
ma io se devo accavallare le gambe, metto automaticamente la destra sopra la
sinistra; se devo fare il contrario ci devo “pensare su”….).
Ultima posizione che consideriamo è quella della chitarra semplicemente
appoggiata sulla gamba destra. E’ sicuramente la più naturale e spontanea ed è
usata per questo motivo dalla stragrande maggioranza dei chitarristi; gli svantaggi
sono dati dal fatto che la chitarra può tendere a scivolare in avanti; inoltre il braccio
sinistro tenderà ad appoggiarsi alla gamba sinistra, il che non è necessariamente un
male, ma neppure un bene.
Personalmente preferisco, suonando da seduti, tenere la chitarra sulle gambe
accavallate, scegliendo se appoggiare la chitarra sulla destra o sulla sinistra a
seconda del tipo di brano che devo eseguire (dx se un semplice accompagnamento
con il prettro, sx se suonando in fingerstyle o brani classici). La posizione classica,
sicuramente la migliore per qualità di suono ottenibile, la usa solamente studiando in
intimità, o se devo favorire la concentrazione, per esempio per registrare.
Suonando in piedi, il principale parametro è dato
dalla comodità; attenzione quindi all’altezza dello strumento,
regolando bene la lunghezza della tracolla; ad ogni modo,
attenzione all’inclinazione del manico rispetto a terra (si
veda al riguardo questa bella foto di Riccardo Poli,
nell’ultima tournee di Vasco Rossi).
COME METTIAMO LE MANI?
Mano sinistra - posizione classica:
Il pollice della sinistra andrà appoggiato al retro del
manico in senso perpendicolare (senza pertanto fuoriuscire
dal lato superiore), mentre le altre dita (che chiameremo
indice = 1; medio = 2; anulare =3; mignolo = 4) saranno
piegare a “martello”, mentre la base delle dita rimarrà
parallela al manico stesso.
I vantaggi di questa impostazione sono di far
“lavorare” tutte e quattro le dita; di favorire la pulizia e
l’omogeneità di suono ottenibile specialmente eseguendo scale o passaggi a note
singole, nonché di consentire di suonare accordi anche complessi su posizioni
ampie. Il principale svantaggio è invece correlato al fatto che in partenza la posizione
sembrerà innaturale, causando forti dolori al polso; l’impostazione altresì è poco
sciolta “prendendo” accordi tradizionali, o per particolari tecniche moderne
(bendings) che tratteremo più avanti.
Posizione alternativa (da rocker?):
Il palmo della mano sinistra andrà appoggiato al manico della
chitarra, facendo in modo che il pollice fuoriesca dal lato superiore.
E’ l’approccio più naturale e riposante, ottimo per suonare accordi
nelle prime posizioni, anche perché il pollice può prendere qualche
nota sul mi basso. Ottima se non indispensabile quando si tratta di
“tirare le corde” (bending) poiché la forza praticata sul manico è
molto più dosabile e controllabile. La posizione non è utilizzabile
ovviamente per il barrè; tende anche a “chiudere” la mano.
Mano destra - posizione classica:
Il polso va mantenuto alto, mentre il pollice (p), deputato
di norma a pizzicare le tre corde gravi (sesta = E; quinta = A;
quarta = D) andrà a indirizzarsi verso la tastiera. Le altre tre
dita (indice = i; medio = m; anulare = a), di norma deputate ai
tre cantini (i = G; m = B; a = E), saranno rivolte il più possibile
verso il ponticello. Il vantaggio è dato dal fatto che in questo
modo le unghie di i,m,a, potranno pizzicare i cantini in modo
perpendicolare, migliorando sensibilmente la qualità del suono
prodotto.
Anche in questo caso gli svantaggi sono dati dall’innaturalità della posizione in
partenza (il polso troverà più comodo andare ad appoggiarsi quasi alle corde od al
ponticello) e da una minore efficacia in alcune tecniche particolari (es. finger-picking
con bassi alternati).
Un’impostazione alternativa è quella usata appunto da molti “finger pickers”,
dove il palmo della mano viene appoggiato al ponticello, fornendo una solida base
per il movimento del pollice sulle corde basse che viene così favorito; per contro i
cantini “suoneranno” di meno.
Importante distinzione tra le due tecniche e data dal fatto che nel modo
classico, la lunghezza delle unghie, da tenersi sporgenti di almeno un millimetro dal
polpastrello, è decisiva per la pulizia e profondità del suono; nella seconda
impostazione si ottengono buoni risultati anche suonando con i polpastrelli.
USO DEL PLETTRO
Il plettro è quella stupida cosa di plastica o di celluloide che sparisce sempre
quando che ne hai bisogno, ha una innata tendenza ad infilarsi nella buca della
chitarra e che serve a pizzicare le corde con un volume senz’altro superiore a quello
che si può ottenere con le dita.
N’esistono di varie fogge e colori e di diversi spessori e durezze. Quest’ultimo
è un aspetto importante da considerare perché la durezza del plettro influenza
sicuramente il suono e la dinamica: plettri sottili, di norma utilizzati per
accompagnamenti a corde piene, forniscono un tappeto sonoro “rotolante”; i plettri
più duri, usati per note singole, power chords e non solo, consentono un maggiore
controllo della dinamica (= volume d’emissione).
Personalmente opto sicuramente per i plettri duri, anche se devo
accompagnare; ultimamente sull’elettrica ottengo ottimi risultati con monete da 10 o
50 cent di euro, che hanno il bordo zigrinato (Brian May & Billy Gibbons docet…)…
Esistono, sommariamente, tre modi di gestire la pennata:
1. di dita: polso appoggiato sul ponte, eventualmente anulare e mignolo
appoggiati sulla cassa, il movimento del plettro è assicurato dall’articolazione
di pollice ed indice, a volte sostenuti dal medio. Questa impostazione
consente grande accuratezza, ma non assicura una grande gestione della
dinamica, ed è un po’ scomodo nei cambi di corda;
2. di polso: avambraccio ancorato sulla cassa e dita che rimangono saldamente
ferme, il movimento e’ tutto incentrato sul polso. Buona accuratezza e migliore
gestione della dinamica;
3. di avambraccio: in movimento fa fulcro sul gomito, mentre polso e dita
rimangono salde. Tipico dello strumming (accompagnamento a corde piene),
è caratterizzato da precisione nulla e immense capacità dinamiche.
Quale scegliere? Che domande! Direi tutti e tre! Ogni tecnica emerge in un
particolare contesto ed è sicuramente vincente saperle gestire tutte al meglio. Alcuni
esempi operativi:
-
linee melodiche singole: pennata di dita;
fraseggio più o meno virtuosistico: pennata di polso;
-
accompagnamenti leggeri e precisi: penata di polto;
arpeggi : di dita o di polso;
accordi in risalto, ben evidenziati: pennata di avambraccio.
PRIMA DI INIZIARE A SUONARE…
Prima di iniziare a suonare, focalizziamo la nostra attenzione su alcuni aspetti
di carattere generale sulla musica, sulle sue regole e sui suoi elementi.
Immaginiamo di progettare o costruire una casa, sia essa una modesta
abitazione oppure la villa più pretenziosa. Pensiamo alle fondamenta, alle varie
stanze, alle finiture finali. In ogni caso, i nostri muri saranno composti di mattoni, del
tutto identici gli uni con gli altri.
Analogamente, anche la nostra musica è composta di varie ordinate “file di
mattoni”, che tenderanno a ripetersi nel corso della canzone. Queste “cellule”
prendono il nome di “Patterns”.
Ma l’analogia con l’architettura non si ferma qui: così come la raffigurazione
della nostra casa prevedrà sempre tre dimensioni (larghezza, altezza e profondità),
anche la nostra musica deve tenere conto di tre diversi aspetti fondamentali, pur
notevolmente interdipendenti tra loro:
Melodia
Armonia
Ritmo.
La melodia può essere definita come “un’emissione di note suonate (cantate)
una alla volta”. Immaginiamo il canto della voce umana, o il suono di un flauto, di un
violino, o anche della chitarra solista. Le frasi melodiche trovano origine ed
organizzazione nelle “scale”.
E’ assai difficile trovare composizioni musicali che si limitino alla sola melodia.
Quasi sempre ad una linea melodica è affiancato un accompagnamento di note che
“stanno bene insieme”, potremmo quasi dire che stanno in “armonia”. Queste note,
quando sono suonate insieme, prendono il nome di “accordi”; le relative sequenze di
accordi che continuano a ripetersi nel corso di un canzone si chiamano “giri
armonici”, o “progressioni armoniche”.
Note singole ed accordi significano ben poco se non sono ben ordinate nel
tempo; il modo in cui queste sono organizzate si chiama ritmo, che potremmo
paragonare alle fondamenta, o all’anima della nostra musica. Senza ritmo, il nostro
castello …crolla.
E’ importante, sin dall’inizio, imparare a riconoscere i “patterns”, siano essi
“melody patterns”, “harmony patterns” o “rhythmical patterns”. Questo ci aiuterà nella
lettura delle partiture, facilitando la memorizzazione delle varie parti. Inoltre il
possesso di un vasto vocabolario di patterns sarà indispensabile per consentire
un’interpretazione personale dei vari brani o per l’improvvisazione.
INIZIAMO A “SCOVARE” LE NOTE SULLA TASTIERA
Impariamo immediatamente un paio di cose sensazionali:
La prima corda (la più sottile) emette la nota
La seconda corda emette la nota
La terza corda emette la nota
La quarta corda emette la nota
La quinta corda emette la nota
La sesta corda (la più grossa) emette la nota
MI
SI
SOL
RE
LA
MI
E
B
G
D
A
E
Se premiamo la corda al primo tasto, aumenteremo l’intonazione della nota
emessa dalla corda a vuoto d’UN SEMITONO.
Se premiamo la corda al dodicesimo tasto, osserveremo che otterremo lo
stesso suono della corda a vuoto, solamente più acuto.
La notazione tradizionale in uso nell’occidente, prevede che in ogni ottava
(che sarebbe appunto l’intervallo intercorrente tra una nota e la sua medesima più
acuta) intercorrano appunto 12 SEMITONI.
La scala naturale prevede invece sette suoni (le famose sette note) cosi’
intervallati:
DO – RE
RE - MI
MI - FA
FA - SOL
SOL – LA
LA - SI
SI - DO
due semitoni (= un tono)
due semitoni (= un tono)
un semitono
due semitoni (= un tono)
due semitoni (= un tono)
due semitoni (= un tono)
un semitono
Per fornire un esempio visivo, possiamo affermare che queste sette note
rappresentano i tasti bianchi del pianoforte. E le note che si trovano a metà strada (i
tasti neri)?
Queste si chiamano “note alterate” e prendono il nome della nota
immediatamente precedente seguita dal simbolo
“DIESIS” (#) o della nota
immediatamente successiva seguita dal simbolo “BEMOLLE” (b).
Pertanto la nota tra il DO ed il RE prenderà il nome di DO# o di REb; la nota
tra il RE ed il MI diventerà RE# o Mib e così via.
A questo punto possiamo impostare una “mappa” dei suoni della chitarra:
O
E
B
G
D
A
E
O
1
F
C
G#
D#
A#
F
1
2
F#
C#
A
E
B
F#
2
3
G
D
A#
F
C
G
3
4
G#
D#
B
F#
C#
G#
4
5
A
E
C
G
D
A
5
6
A#
F
C#
G#
D#
A#
6
7
B
F#
D
A
E
B
7
8
C
G
D#
A#
F
C
8
9
C#
G#
E
B
F#
C#
9
10
D
A
F
C
G
D
10
11
D#
A#
F#
C#
G#
D#
11
12
E
B
G
D
A
E
12
13
F
C
G#
D#
A#
F
13
14
F#
C#
A
E
B
F#
14
15
G
D
A#
F
C
G
15
16
G#
D#
B
F#
C#
G#
16
17
A
E
C
G
D
A
17
15
G
D
Bb
F
C
G
15
16
Ab
Eb
B
Gb
Db
Ab
16
17
A
E
C
G
D
A
17
Impostiamo ora la stessa “mappa”, ma evidenziando i bemolle:
O
E
B
G
D
A
E
O
1
F
C
Ab
Eb
Bb
F
1
2
Gb
Db
A
E
B
Gb
2
3
G
D
Bb
F
C
G
3
4
Ab
Eb
B
Gb
Db
Ab
4
5
A
E
C
G
D
A
5
6
Bb
F
Db
Ab
Eb
Bb
6
7
B
Gb
D
A
E
B
7
8
C
G
Eb
Bb
F
C
8
9
Db
Ab
E
B
Gb
Db
9
10
D
A
F
C
G
D
10
11
Eb
Bb
Gb
Db
Ab
Eb
11
12
E
B
G
D
A
E
12
13
F
C
Ab
Eb
Bb
F
13
14
Gb
Db
A
E
B
Gb
14
TONALITA’ e MODI
Ogni scala (consideriamo per il momento unicamente le scale di sette note),
può iniziare da una qualsiasi delle dodici note. La nota di partenza definisce la
TONALITÀ della scala stessa.
La sequenza di toni e di semitoni che seguirà definisce invece il “MODO” della
scala. pertanto, ad esempio se trattiamo una scala in Do maggiore, stiamo parlando
di tonalità di Do e modo maggiore.
Il modo maggiore, presenta la seguente sequenza di note:
2 toni, 1 semitono, 3 toni, 1 semitono.
C
TONO
D
E
F
G
A
B
C
TONO SEMITONO TONO
TONO
TONO SEMITONO
Il modo minore invece è caratterizzato da:
1 tono, 1 semitono, 2 toni, 1 semitono, 2 toni.
A
TONO
B
C
D
E
F
G
A
SEMITONO TONO
TONO SEMITONO TONO
TONO
Osserviamo ora che le due scale sopra evidenziate utilizzano tutte le stesse
note, ancorché siano sviluppate su “modi” diversi. Tra le due scale esiste, infatti, una
forte correlazione, che ci porta a definire che:
“a ogni scala maggiore ne corrisponde una minore, che si colloca un tono e mezzo
sotto la relativa scala maggiore”.
Le SCALE dei MODI MAGGIORI
Tonalità di Do Maggiore:
C
D
E
F
G
A
B
C
TONO
TONO SEMITONO TONO
TONO
TONO SEMITONO
Proviamo ora a partire dalla nota SOL, usando le note della scala naturale:
G
A
B
C
D
E
F
G
TONO
TONO SEMITONO TONO
TONO
TONO SEMITONO
Osserviamo che tra le note evidenziate in rosso e gli intervalli evidenziati in
blu, esiste una discrepanza: infatti tra E e F l’intervallo esatto è di un semitono,
mentra tra F e G l’intervallo è di un tono. A questo punto arriva in nostro soccorso il
già citato Diesis (#), che sistema le cose:
Tonalità di Sol Maggiore:
G
A
B
C
D
E
F#
G
TONO
TONO SEMITONO TONO
TONO
TONO SEMITONO
Tra E e F# l’intervallo è, infatti, di un tono, così come tra F# e G l’intervallo è di
un semitono. Abbiamo pertanto dimostrato che la tonalità di SOL maggiore è
caratterizzata dalla presenza di un diesis (tecnicamente si dice “ha un diesis in
chiave”).
Ripetiamo l’esercizio partendo dalla nota RE:
D
TONO
E
TONO
F#
G
A
B
C
D
SEMITONO TONO
TONO
TONO SEMITONO
Ritroviamo la stessa situazione vista in precedenza, con un intervallo di un
semitono tra sesto e settimo grado della scala (anziché un tono), e di un tono tra
settimo ed ottavo (anziché un semitono), Per contro, la presenza dell’alterazione da
F a F# nel terzo grado della scala consente una giusta articolazione dei primi quattro
gradi. Per sistemare le cose, usiamo lo stesso “stratagemma” della volta precedente,
aggiungendo un diesis sul settimo grado della scala:
Tonalità di Re Maggiore:
D
E
F#
G
A
B
C#
D
TONO
TONO SEMITONO TONO
TONO
TONO SEMITONO
Osserviamo così che la tonalità di RE maggiore “ha due diesis in chiave” .
Vediamo che cosa succede con “tre diesis in chiave”:
Tonalità di La Maggiore:
A
B
C#
D
E
F#
G#
A
TONO
TONO SEMITONO TONO
TONO
TONO SEMITONO
Con “quattro diesis in chiave”:
Tonalità di Mi Maggiore:
E
F#
G#
A
B
C#
D#
E
TONO
TONO SEMITONO TONO
TONO
TONO SEMITONO
Proviamo ora a partire dalla nota FA, usando le note della scala naturale:
F
G
A
B
C
D
E
F
TONO TONO SEMITONO TONO TONO TONO SEMITONO
Notiamo ora che la discrepanza si trova tra il terzo ed il quarto grado della
scala. Infatti, tra A e B l’intervallo è di un tono; tra B e C è di un semitono, mentre
dovrebbe essere il contrario. Questa volta interviene in nostro aiuto il Bemolle (b):
Tonalità di Fa Maggiore:
F
G
A
Bb
C
D
E
F
TONO
TONO SEMITONO TONO
TONO
TONO SEMITONO
In questo caso affermeremo che la tonalità di Fa “ha un bemolle in chiave”
Vediamo che cosa succede con “due bemolle in chiave”:
Tonalità di Sib Maggiore:
Bb
C
D
Eb
F
G
A
Bb
TONO
TONO SEMITONO TONO
TONO
TONO SEMITONO
Con “tre bemolle in chiave”:
Tonalità di Mib Maggiore:
Eb
F
G
Ab
Bb
C
D
Eb
TONO
TONO SEMITONO TONO
TONO
TONO SEMITONO
Riepilogo delle scale più usate nelle tonalità maggiori:
Tonalità
Alterazioni
in chiave:
C
G
1#
D
2#
A
3#
E
4#
F
1b
Bb
2b
Eb
3b
Tono
Tono
Semitono
Tono
Tono
Tono
Semitono
C
D
E
F
G
A
B
C
G
A
B
C
D
E
F#
G
D
E
F#
G
A
B
C#
D
A
B
C#
D
E
F#
G#
A
E
F#
G#
A
B
C#
D#
E
F
G
A
Bb
C
D
E
F
Bb
C
D
Eb
F
G
A
B
Eb
F
G
Ab
Bb
C
D
E
Ed ora esercitiamoci.
Le SCALE dei MODI MINORI
Riprendiamo il concetto che “a ogni scala maggiore ne corrisponde una
minore, che si colloca un tono e mezzo sotto la relativa scala maggiore”. Vediamo,
con facilità che:
Alla tonalità di:
Do Maggiore
Sol Maggiore
Re Maggiore
La Maggiore
Mi Maggiore
Fa Maggiore
Sib Maggiore
Mib Maggiore
corrisponde quella
di:
La minore
Mi minore
Si minore
Fa#minore
Do#minore
Re minore
Sol minore
Do Minore
Riepiloghiamo così le scale nelle tonalità minori:
Tonalità
Alterazioni
in chiave:
Amin
Emin
1#
Bmin
2#
F#min
3#
C#min
4#
Dmin
1b
Gmin
2b
Cmin
3b
Tono
Semitono
Tono
Tono
Semitono
Tono
Tono
A
B
C
D
E
F
G
A
E
F#
G
A
B
C
D
E
B
C#
D
E
F#
G
A
B
F#
G#
A
B
C#
D
E
F#
C#
D#
E
F#
G#
A
B
C#
D
E
F
G
A
Bb
C
D
G
A
Bb
C
D
Eb
F
G
C
D
Eb
F
G
Ab
Bb
C
SCALE MINORI MELODICHE E SCALE MINORI NATURALI
Se proviamo a suonare le scale sopraindicate, noteremo che in senso
ascendente lasciano un “sapore” “statico”, contrariamente alle scale in maggiore, che
hanno un “sapore” ricco di tensione. Per contro, in senso discendente, la predetta
“staticità” delle scale minori conferisce un tocco di rilassatezza. In relazione a quanto
precede, sono state introdotte le scale minori “melodiche” che si sviluppano nella
prima parte come le scale minori naturali, ma presentano il sesto e settimo grado
alterati, in modo da creare la medesima “tensione risolutiva” verso la tonica all’ottava
superiore tipica delle scale maggiori. Negli esempi sulla tastiera, le scale minori sono
state evidenziate secondo il modo “Minore melodico” in senso ascendete, e minore
naturale in senso discendente.
Riepiloghiamo le scale”minori melodiche”
Tonalità
Tono
Semitono
Tono
Tono
Semitono
Tono
Tono
Amin
A
B
C
D
E
F#
G#
A
Esercitiamoci:
Emin
E
F#
G
A
B
C#
D#
E
Bmin
B
C#
D
E
F#
G#
A#
B
F#min
F#
G#
A
B
C#
D#
E#
F#
C#min
C#
D#
E
F#
G#
A#
B#
C#
Dmin
D
E
F
G
A
B
C#
D
Gmin
G
A
Bb
C
D
E
F#
G
Cmin
C
D
Eb
F
G
A
B
C
GLI ACCORDI (mettiamo le note insieme)
Nel capitolo precedente abbiamo imparato dove si collocano le note nella
tastiera della chitarra, oltre ai primi principi che regolano i modi più importanti
(maggiore e minore) e le tonalità più usate dai chitarristi.
Le scale che abbiamo iniziato a conoscere, e sulle quali mi auguro
continuerete ad esercitarvi, sono l’espressione di un’emissione di note
“monofonica”, quindi ad una voce sola, e rappresentano i “fondamentali” per
l’esposizione delle “melodie”. Per fare un paragone, un’espressione tipica della
melodia, quindi monofonica, è il canto della voce umana.
L’espressione di una emissione di più note, magari diverse, simultanee si
chiama “polifonica”, e, ancorché possa verificarsi in contesti melodici (es. una linea
di canto esposta insieme da una voce maschile e da una femminile in simultanea),
trova la massima applicazione nell’ “armonia”, che potremmo rappresentare come il
vestito, il contorno dell’oggetto principale (appunto il canto, sia esso esposto dalla
voce umana piuttosto che da altro strumento monofonico – chitarra, violino, sax,
flauto…..).
Il nome stesso di “armonia” ci porta a raffigurare un insieme di note che
“stanno bene insieme”, che ben si accompagnano, che, in pratica,
vanno…..”d’accordo”.
Infatti, prende il nome di accordo un insieme di note emesse simultaneamente
(o in breve sequenza tra loro, ed allora parleremo di “arpeggi”) e caratterizzate da
“intervalli” ben determinati.
Gli accordi possono essere “perfetti” o “consonanti”, se piacevoli all’udito, o
“imperfetti” o “dissonanti” se il loro ascolto risulta sgradevole.
L’armonia tonale, che caratterizza buona parte della musica dal 1600 sino ai
giorni nostri, prevede perlopiù l’uso d’ accordi consonanti, ancorché alcuni accordi
dissonanti siano talvolta usati per introdurre cambi di tonalità o particolari momenti di
tensione nei brani.
Gli intervalli
Per analizzare la struttura degli accordi, è indispensabile fornire qualche
cenno sugli intervalli.
Esaminiamo il nostro ormai familiare diagramma della scala maggiore e
scriviamo sotto l’intervallo che intercorre tra ogni nota e la tonica:
C
D
E
F
G
A
B
C
TONO
TONO SEMITONO TONO TONO
TONO SEMITONO
Seconda Terza
Quarta
Quinta
Sesta
Settima
Ottava
Maggiore
Giusta
Maggiore
Analogo ragionamento per la scala minore:
A
B
C
D
E
F
G
A
TONO SEMITONO TONO
TONO SEMITONO TONO
TONO
Seconda
Terza
Quarta Quinta
Sesta
Settima Ottava
Minore
Giusta
Minore
BICORDI – TRIADI – TETRADI
Abbiamo detto che gli accordi altro non sono che “insiemi di note”, legate tra di
loro da intervalli ben precisi. Assumono il nome di:
“bicordi” – quando sono formati da due note, generalmente nota fondamentale e
relativa terza, oppure nota fondamentale e relativa quinta;
“triadi” – formati da tre note: fondamentale, terza e quinta:
“tetradi” – formati da quattro note: fondamentale, terza, quinta e settima.
Ci occuperemo approfonditamente dei bicordi nel capitolo dedicato ai “power
chords”, ambito in cui trovano la loro principale applicazione. Ora analizziamo le
triadi e le tetradi.
Innanzi tutto, osservando anche i due diagrammi sopra riportati, appare subito
evidente il ruolo decisivo giocato dalle terze nella formazione degli accordi. Infatti,
l’uso della terza maggiore piuttosto che della terza minore arriva a cambiare
radicalmente il carattere degli accordi stessi, che sarà aperto e brillante nel caso
degli accordi con la terza maggiore (accordi maggiori) quanto cupo e chiuso nel caso
degli accordi con la terza minore (accordi minori).
Vediamo ora che tipo di triadi si riesce ad ottenere usando le sette note della
scala naturale.
Tonalità di DO
C
D
E
F
G
C
D
E
F
G
C
D
E
F
G
C
D
E
F
G
C
D
E
F
G
C
D
E
F
G
C
D
E
F
G
A
B
C
D
E
F
Do Maggiore
(N.F. – Terza Magg. – quinta)
G
A
B
C
A
G
A
B
C
G
A
B
C
A
G
A
B
C
A
G
A
B
C
G
A
B
C
G
A
B
C
B
C
D
E
F
Re Minore
(N.F. – Terza Minore – quinta)
A
B
C
D
E
F
Mi Minore
(N.F. – Terza Minore – quinta)
B
C
D
E
F
Fa Maggiore
(N.F. – Terza Magg. – quinta)
B
C
D
E
F
Sol Maggiore
(N.F. – Terza Magg. – quinta)
A
B
C
D
E
F
La Minore
(N.F. – Terza Minore – quinta)
A
B
C
D
E
F
Si ° (semidiminuito)
(N.F. – Terza Min – quinta dim.)
Osserviamo che le triadi costruite sulla scala naturale (ovviamente le
medesime triadi formate sulla scala di Do maggiore sono le stesse che ricaveremo
da quella di La minore naturale) sono essenzialmente di tre tipi:
maggiori (Do magg, Fa magg, Sol magg)
minori (Re min, Mi min, La min)
semidiminuite (Si°)
Quest’ultimo accordo differisce da un qualsiasi accordo minore per l’intervallo
di quinta, che dista tre toni dalla nota fondamentale (di seguito n.f.) (quinta diminuita)
anziché tre toni e mezzo, tipici di accordi minori e maggiori (quinta giusta).
Analizziamo ora le tetradi:
Tonalità di DO
C
D
E
F
C
D
E
F
C
D
E
F
C
D
E
F
C
D
E
F
C
D
E
F
C
D
E
F
G
A
G
B
C
D
E
F
Do Maj 7
(N.F. – Terza Magg. – quinta - settima)
G
A
B
C
A
B
C
D
E
F
G
Re Minore 7
(N.F. – Terza Minore – quinta – settima min.)
A
B
C
G
A
A
B
C
G
A
G
A
B
C
G
A
B
C
D
E
F
G
Sol Maggiore 7
(N.F. – Terza Magg. – quinta – settima min.)
A
B
C
G
A
A
B
C
G
A
A
B
C
B
C
D
E
F
G
Mi Minore 7
(N.F. – Terza Minore – quinta – settima min.)
B
C
D
E
F
Fa Maj 7
(N.F. – Terza Magg. – quinta - settima)
B
C
D
E
F
G
La Minore 7
(N.F. – Terza Minore – quinta – settima min.)
B
C
D
E
F
G
Si ° (semidiminuito)
(N.F. – Terza Min – quinta dim. – settima min.)
In questo caso è da rilevare che:
Gli accordi minori (Re min, Mi min, La min) e l’accordo semidiminuito (Si°) si
completano con la settima minore (cinque toni vs. n.f. o, più semplicemente, un
tono dall’ottava).
Gli accordi di Do maggiore e Fa maggiore si completano con la settima maggiore
(cinque toni e mezzo vs. n.f. o, più semplicemente, un semitono dall’ottava).
L’accordo di Sol Maggiore si completa con la settima minore (cinque toni vs. n.f.
o, più semplicemente, un tono dall’ottava). Questo è un aspetto da prendere in
attenta considerazione sin dall’inizio. Infatti, l’accordo di settima costruito sul
quinto grado della scala (nota di Sol in una scala di Do maggiore), o dominante,
prende il nome di “accordo di settima di dominante” ed ha influenzato in modo
esagerato la musica degli ultimi quarant’anni……
A questo punto i più pazienti di voi potranno esercitarsi a ricavare tutti gli
accordi che interessano le altre tonalità. I meno pazienti, se mi assicurano che i
concetti espressi sono stati assimilati, potranno invece consultare direttamente le
seguenti tabelle:
Tonalità di Sol maggiore / Mi minore – triadi
G
Amin
Bmin
Nome accordo:
Root (*)
G
A
B
Terza
B
C
D
Quinta
D
E
F#
C
C
E
G
D
D
F#
A
Emin
E
G
B
F#°
F#
A
C
Tonalità di Sol maggiore / Mi minore – tetradi
Nome accordo: Gmaj7 Amin7 Bmin7 Cmaj7
Root (*)
G
A
B
C
Terza
B
C
D
E
Quinta
D
E
F#
G
Settima
F#
G
A
B
D7
D
F#
A
C
Emin7
E
G
B
D
F#°
F#
A
C
E
Tonalità di Re maggiore / Si minore – tetradi
Nome accordo: Dmaj7 Emin7 F#min7 Gmaj7
Root (*)
D
E
F#
G
Terza
F#
G
A
B
Quinta
A
B
C#
D
Settima
C#
D
E
F#
A7
A
C#
E
G
Bmin7
B
D
F#
A
C#°
C#
E
G
B
Tonalità di La maggiore / Fa# minore – tetradi
Nome accordo: Amaj7 Bmin7 C#min7 Dmaj7
Root (*)
A
B
C#
D
Terza
C#
D
E
F#
Quinta
E
F#
G#
A
Settima
G#
A
B
C#
E7
E
G#
B
D
F#min7
F#
A
C#
E
G#°
G#
B
D
F#
Tonalità di Mi maggiore / Do# minore – tetradi
Nome accordo: Emaj7 F#min7 G#min7 Amaj7
Root (*)
E
F#
G#
A
Terza
G#
A
B
C#
Quinta
B
C#
D#
E
Settima
D#
E
F#
G#
B7
B
D#
F#
A
C#min7
C#
E
G#
B
D#°
D#
F#
A
C#
Tonalità di Fa maggiore / Re minore – tetradi
Nome accordo: Fmaj7 Gmin7 Amin7 Bbmaj7
Root (*)
F
G
A
Bb
Terza
A
Bb
C
D
Quinta
C
D
E
F
Settima
E
F
G
A
C7
C
E
G
Bb
Dmin7
D
F
A
C
E°
E
G
Bb
D
Tonalità di Sib maggiore / Sol minore – tetradi
Nome accordo: Bbmaj7 Cmin7 Dmin7 Ebmaj7
Root (*)
Bb
C
D
Eb
Terza
D
Eb
F
G
Quinta
F
G
A
Bb
Settima
A
Bb
C
D
F7
F
A
C
Eb
Gmin7
G
Bb
D
F
A°
A
C
Eb
G
(*) Root = Nota Fondamentale (N.F.) – dall’inglese “radice”.
Tonalità di Mib / Do minore – tetradi
Nome accordo: Ebmaj7 Fmin7 Gmin7
Root (*)
Eb
F
G
Terza
G
Ab
Bb
Quinta
Bb
C
D
Settima
D
Eb
F
Abmaj7
Ab
C
Eb
G
Bb7
Bb
D
F
Ab
Cmin7
C
Eb
G
Bb
D°
D
F
Ab
C
LE DITEGGIATURE DEGLI ACCORDI PIU’ USATI
C
• •
x
C
•
•
C
• •
III
•
•
•
• •
VII • •
• •
F
•
• •
•
Emin
x
III
(•) •
•
• •
• •
• •
x
•
•
•
IX
VII
Amin
• • •
x x
V
•
G
x
•
B°
•
•
B°
x x
• • •
•
•
•
•
•
Amin
VIII
•
•
•
•
• • •
• •
B°
•
•
F
x
• • •
• •
•
•
•
V •
•
II
G
•
•
Emin
x
•
•
VIII • •
Amin
• •
•
•
•
•
•
•
•
•
• •
F
•
• •
Amin
•
•
•
Dmin
x
• • •
G
•
x
X •
F
x
G
•
•
Emin
• •
• •
•
•
•
•
Dmin
V • •
•
• •
•
• •
Dmin
Emin
•
VIII •
• • •
Dmin
C
•
•
•
•
VII
•
•
•
•
Dall’esame degli accordi sopra riportati, vediamo la presenza ricorrente di tre
posizioni per il modo maggiore e tre per il modo minore, che differiscono per ogni
accordo unicamente per la “posizione di partenza”, determinata dal differente
capotasto da cui si “snoda l’accordo”. Nello schema riportato nella pagina
precedente, questi accordi sono evidenziati con il colore rosso.
F
Pertanto l’accordo di Fa maggiore indicato a lato, spostato di
due semitoni verso il ponticello, diventerà Sol Maggiore;
•
• •
spostato di un ulteriore semitono diventerà Sol# Maggiore (o
•
Lab maggiore), spostato di altri due semitoni diventerà Sib
• •
Maggiore e così via.
Abbiamo presto capito che in questo modo possiamo trovare
qualsiasi accordo maggiore o minore, spostando adeguatamente la mano lungo la
tastiera partendo da una delle tre posizioni principali. Di seguito, completiamo
l’evidenza degli accordi più’ usati, in particolare in prima posizione, oltre ai principali
accordi di settima (tetradi).
D
Eb
•
•
•
III
•
•
G
•
•
• •
•
III • •
• •
•
•
• •
Cmaj7
•
•
Dmaj7
• • •
III •
•
•
• •
•
•
•
D7
•
VI •
• • •
• •
•
C7
•
III • •
•
•
•
•
•
•
E7
•
•
Bbmin
C7
•
•
• •
Ebmin
x x
•
•
•
•
Bmin
• • •
Cmaj7
II
• •
• • •
• •
• •
• •
•
Gmin
• • •
• •
•
B
• • •
Bbmin
• • •
•
• •
• •
F#min
•
Bb
Fmin
•
F#
• •
• • •
Cmin
• •
•
•
A
•
•
E
•
E7
•
•
•
•
•
Fmaj7
• •
F7
•
•
•
•
•
Gmaj7
•
•
•
•
•
A7
•
•
• •
•
III •
x
x
•
G7
•
x
•
•
III •
Gmaj7
x
• •
•
•
x
•
•
•
•
•
III
x
D7
•
•
Dmin7
x
•
•
•
Amaj7
III
•
x
•
III
•
•
•
•
•
A7
Gmin7
x
x
III •
• • •
Amin7
• •
•
D7
•
•
•
•
•
D7
x
• • •
x
•
•
Bmin7
•
• •
•
x x
•
•
B7
•
•
A7
•
Bbmaj7
III
(•)
(•)
G7
•
Gmaj7
x x
III
•
•
•
•
•
•
•
UN SEMPLICE E DIVERTENTE GIOCHINO SUGLI ACCORDI:
Mettiamo sul lettore Cd una canzone qualsiasi, di quelle con una melodia che
tende a ripetersi.
Concentriamoci su un punto preciso della canzone, che ne so, l’inizio della
prima strofa (ma consideriamo proprio solo la prima misura, in altre parole il primo
“un-due-tre-quattro).
Proviamo a capire il “sapore” di quel particolare punto: è arioso ed aperto,
oppure è triste e cupo? Perché nel primo caso è assai probabile che ci troviamo di
fronte ad un accordo maggiore; nel secondo caso avremo quasi sicuramente un
accordo minore. Mettiamo che sia un momento gioioso, quindi avremo un accordo
maggiore.
Prendiamo ora in mano la chitarra e cerchiamo sulla prima corda una nota che
possa trovarsi a suo agio in quella situazione. Facciamo finta d’averla trovata nel la
suonato al quinto tasto.
Come abbiamo accennato poco sopra, per quella nota passano di sicuro tre
tipi di accordo maggiore:
D
V
A
• •
•
V •
• • •
• •
•
• •
VIII
F
x
•
•
•
•
•
Sicuramente troveremo che uno di questi tre accordi ben si adatta al nostro
contesto musicale.
Supponiamo, sempre al fine del nostro gioco, che l’accordo corrisponda al La
maggiore (A).
Prendiamo ora la misura successiva (un altro un-due-tre-quattro) e ripetiamo il
giochino: com’è il “flavor” di questa misura? Supponiamo che sia un po’ cupo, quindi
minore.
Troviamo anche qui una nota sulla prima corda che si adatti bene al contesto,
ad esempio un Fa# al secondo tasto. Per questa nota passano tre tipi di accordo
minore:
Bmin
II
• •
• •
F#min
•
•
II •
• • •
• •
D#min
x x
•
•
Troviamo anche qui l’accordo giusto, es. il F#min.
•
•
Riepiloghiamo:
A
/
/
/
F#min
/
/
/
Complimenti, abbiamo gettato i primi semi per la trascrizione del nostro primo
giro armonico…….
ANDIAMO A FARE UN GIRO (ARMONICO).
Nell’iniziare a parlare dei giri armonici, la memoria non può non ritornare, con
un pizzico di rimpianto, ai tempi di scuola, quando, con fare colpevole, ci passavamo
tra i banchi non solo qualche dritta sui compiti in classe, ma soprattutto fogliettini
spiegazzati con sopra indicate le sigle degli accordi delle canzoni più in voga del
momento. …
Questo ricordo, che sicuramente avrà fatto sorridere qualcuno di voi, ci porta
ora ad azzardare una definizione di giro armonico:
“Il giro armonico è una sequenza di accordi che si ripete nel corso della
canzone o del brano”.
Da quest’affermazione emergono subito un paio di osservazioni:
Quali accordi compongono questi giri?
Per quanto tempo devo suonare ogni accordo?
Ci occuperemo ora di dare risposte al primo interrogativo, rimandando il
secondo, che non è di minore importanza, ai prossimi capitoli, quando tratteremo la
ritmica e l’accompagnamento.
Riprendiamo ora un attimo la nostra amata scala maggiore naturale che
abbiamo visto in precedenza.
C
TONO
D
TONO
E
F
G
A
B
C
SEMITONO TONO
TONO
TONO SEMITONO
Ogni grado della scala, sul quale possiamo costruire i relativi accordi, assume
le seguenti definizioni:
C
D
E
F
G
A
B
Primo grado
Secondo grado
Terzo grado
Quarto grado
Quinto grado
Sesto grado
Settimo grado
Tonica
Sopratonica
Mediante o Caratteristica
Sottodominante
Dominante
Sopradominante
Sensibile
I
ii
iii
IV
V
vi
vii°
Le sigle esposte nell’ultima colonna, che ci troveremo ad usare spesso, vanno
così interpretate:
Numero romano maiuscolo: accordo maggiore
Numero romano minuscolo: accordo minore
Numero romano seguito dal simbolo “°”: accordo semidiminuito.
Da quanto abbiamo sopra esposto, possiamo intuire immediatamente che “gli
accordi che possono formare i nostri giri armonici sono quelli formati sulle note della
scala naturale”.
Quest’affermazione trova riscontro nell’analisi di buona parte della musica
colta ed extra colta, dal folk al pop, dalle canzoni più semplici a composizioni anche
complesse (attenzione: ho detto buona parte, non tutta!).
Ovviamente ciascun accordo ha un suo carattere ben preciso, che è
importante arrivare a conoscere: in pratica riusciamo a capire come suona ogni
accordo? Ci dà una sensazione di stabilità oppure ci fornisce un senso di movimento,
di tensione?
Proviamo a suonare una singola sequenza di tre accordi:
C
/
/
/
G
/
/
/
F
/
/
/
Il campione d’esame è sicuramente completo, tenuto conto che questi tre
accordi contengono al loro interno tutte le note della scala (C,E,G – G,B,D - F,A,C).
Analizziamo:
Primo grado - Do maggiore: notiamo subito che quest’accordo ci conferisce un
senso di stabilità, di arrivo (come essere in porto). Lo chiameremo “regione di
tonica”.
Quinto grado – Sol maggiore: la sensazione emanata è di forte instabilità;
sembra quasi reclamare con urgenza la risoluzione sulla tonica. Lo
chiameremo “regione di dominante”.
Quarto grado – Fa maggiore: accordo di movimento, o di transizione. Anche
questo reclama una risoluzione, anche se con meno enfasi del precedente,
perlopiù verso la dominante, ma non solo. Lo chiameremo “regione di
sottodominante”.
E’ impressionante comprendere quante canzoni sono state composte usando
questi semplici giri armonici:
DO – SOL (filastrocche, ninne nanne, marcette etc)
DO – FA – SOL (La bamba, Twist and shout, Wild Thing, Blowing in the wind.)
E gli altri accordi della scala? Abbiamo almeno altri tre minori e un
semidiminuito che attendono di essere usati! Anche questi hanno un loro carattere e
possono essere pertanto inseriti in una delle predette “regioni”:
Regione di tonica
Regione di sottodominante
Regione di dominante
Stabilità
Movimento
Tensione
I (C), vi (Amin), iii (E min)
IV (F), ii (Dmin)
V (G), vii° (B°)
Alcuni giri d’uso comune:
I-vi-IV-V: (“Every Breath You Take”, “One”)
I-vi-ii-V: (“Il cielo in una stanza”, “Sapore di sale”).
ACCOMPAGNAMOCI!
Nei capitoli precedenti abbiamo preso confidenza con la posizione delle note
sulla tastiera, fattore indispensabile per iniziare a riprodurre qualche melodia, e
conosciuto i primi fondamenti che regolano l’emissione simultanea di più note,
ovvero gli accordi, aspetto che è alla base della non meno importante materia
dell’armonia.
Ci appare subito evidente che una conoscenza anche approfondita di scale ed
accordi non è sufficiente per ottenere risultati apprezzabili su ciò che effettivamente
ci interessa: FARE MUSICA.
Ci manca la tessera finale del puzzle; ci manca la definizione di “quando” e
“quanto a lungo” dobbiamo far suonare queste note. Ci manca il RITMO.
Per capire che cos’è il ritmo e quale sia la sua importanza nella musica,
facciamo un breve paragone con la nostra vita di tutti i giorni.
Il ritmo è il nostro respiro, calmo e rilassato se siamo sereni, veloce se siamo eccitati,
breve ed affannato se siamo arrabbiati o preoccupati.
Il ritmo è il nostro passo, come quando camminiamo o iniziamo a correre, dipende
dove vogliamo andare, e perché.
Il ritmo è il dondolio del treno, che ci porta lontano dai problemi e verso nuove
speranze.
Il ritmo è la vita che pulsa intorno a noi; il ritmo è il battito stesso del nostro cuore.
APOLOGIA DELLA “CHITARRA RITMICA”
Parliamo ora della tanto bistrattata chitarra ritmica, o d’accompagnamento.
Personalmente non amo molto queste definizioni, che qui utilizzo unicamente per
introdurre l’argomento, preferendo sempre e in ogni caso considerare la tecnica
strumentale come un tutt’uno, al servizio della musica.
Se torno con la memoria ai primi approcci nel mondo della musica moderna,
sia come neo chitarrista sia come ascoltatore, mi affiorano chiaramente le
contrastanti sensazioni provate nel leggere avidamente i crediti degli amati vinili.
Allora si parlava di “Lead Guitar” (pollice alto) oppure di “Rhithm Guitar”
(pollice verso). Analogamente nei nostri primi sfigatissimi gruppi musicali c’era il
“chitarrista solista” (la star del gruppo) ed il “chitarrista ritmico” (poco più d’un essere
sub-normale; l’unica sua possibilità per trovare un po’ di considerazione era che
sapesse almeno cantare…). “Lead” o “solista” erano il sinonimo d’abilità e perizia
strumentale; “ritmica” di sgraziate zappate e subdoli pensieri “… almeno teniamogli il
volume basso”.
E’ vero, al cuor non si comanda, e tutti noi c’eccitavamo di più a sentire i lirismi
di Carlos Santana, piuttosto che i riffs di Keith Richards; ma un ascolto più attento e
maturo ci porta a riconsiderare e a rivalutare l’opera dei grandi accompagnatori.
Pensateci bene, il Rock‘n’roll sarebbe stato forse lo stesso senza i vari Keith
Richards, Pete Townshed o senza gli intrecci della coppia “Lennon/Harrison”?
ALLA RICERCA DEL “TEMPO” PERDUTO
Proviamo a ricordare la prima volta che siamo andati in discoteca. Al di là
dell’emozione dettata dall’ambiente nuovo, dell’invidia provata per quegli amici della
nostra compagnia che già al primo tentativo sembravano ballerini provetti (in quanto
in possesso del senso ritmico innato), certamente ricorderemo l’impaccio provato nel
tentare di muovere i nostri piedi seguendo il tempo della musica (e soprattutto
tentando di celare quanto eravamo imbranati…). Poi qualche anima pia, commossa
dal nostro disagio, ci prendeva per mano, e con sorriso a metà tra lo scherno e il
compiacimento ci faceva notare:“….Ascolta il battito e prova a seguirlo: uno,due, tre
e quattro – uno, due, tre e quattro” (e così via…)
Quest’esempio ci introduce un concetto importantissimo: “in molte canzoni,
ogni frase è divisa in cellule (tecnicamente misure o battute) contenenti ciascuna
quattro beats (battiti)”.
Ci riferiamo al famoso “u-no, du-e, tre-e, quat-tro”.
In questo caso affermeremo che la canzone ha un tempo di “quattro-quarti”.
Possiamo incontrare il caso di canzoni le cui misure contengono tre beats ciascuna.
In questo caso ci troveremo di fronte ad un tempo di “tre-quarti” (“un-due-tre / undue-tre); altre le cui misure contengono due battiti (un-due / un - due), ed allora
parleremo di tempo in “due quarti”.
Per assimilare bene questi concetti, che sono basilari, facciamo un piccolo
esercizio “metaforico”:
Proviamo a dire di seguito le seguenti parole di due sillabe ciascuna:
Ca-ne / gat-to / to-po / lu –po.
Possiamo identificare ogni parola con una misura di due/quarti; e le relative sillabe
con note di un quarto ciascuna.
Ripetiamo l’esempio con alcune parole di tre sillabe ciascuna:
Bron-to-lo / Mam–mo–lo / E–o–lo / Pi–so–lo.
Abbiamo figurato alcune misure di tre/quarti.
Vediamo ora alcune parole di quattro sillabe ciascuna:
To –po –li –no / Pa – pe – ri –no / Cla – ra – bel – la / Ba – set –to –ni.
Ecco infine il tempo di quattro/quarti.
Il tempo di due/quarti, con il suo carattere saltellante, è molto usato nelle marce, nel
fox-trot, nella polka. Il tempo ternario identifica invece molta musica da ballo,
mazurke e valzer; lo ritroveremo anche (nella versione 6/8 o 12/8) in alcune canzoni
di derivazione blues e soul. Infine il quattro/quarti è il tempo sicuramente più diffuso
nella musica moderna.
TECNICHE DI ACCOMPAGNAMENTO CON IL PLETTRO
LO STRUMMING
E’ la tradizionale tecnica di accompagnamento a corde piene, suonata con il
plettro, utilizzata con la chitarra acustica (non è che non si possa usare anche
l’elettrica; ma facciamolo con cautela e tarando bene timbri e volume….).
A dispetto della sua presunta semplicità, dovuta all’approccio senz’altro molto
naturale, questa tecnica può fornire alle nostre canzoni un “drive” invidiabile, che ci
farà alzare il c… dalla sedia e ballare con passione…
All’inizio del mio percorso di chitarrista, quando studiavo esclusivamente
chitarra classica, tendevo a snobbare questa tecnica (e relativi esecutori) ritenendola
grezza e poco elegante. Accadeva poi che quando qualche altro giovane chitarrista
(altrettanto grezzo e poco elegante) suonava di fronte ad altre persone (magari
anche qualche fanciulla) riscontrava gradimento ed interesse; quando suonava il
sottoscritto (colto e raffinato), gli ascoltatori, e soprattutto le fanciulle, si dileguavano.
E’ una certezza: un ottimo strumming di chitarra acustica conferisce carattere,
grinta e sostanza a qualsiasi nostra canzone. Riascoltiamoci, a conferma di ciò,
alcuni nomi a caso: Beatles, Rolling Stones, Who, Bruce Springsteen, U2, o magari
rivediamoci il recente concerto di Vasco Rossi a Catania, soffermando l’attenzione
sul lavoro dell’ottimo Riccardo Poli (è sufficiente?).
Nel tentare di recuperare il tempo perduto, mi scontrai poi con una terribile
realtà:
“il senso del ritmo, così come quello melodico (il famoso “orecchio”), è una qualità
innata”.
Pertanto esistono persone che senza alcun problema possono “strummare” da subito
con grand’efficacia; altre purtroppo che di primo acchito ottengono unicamente
risultati simili al suono della grattugia.
In considerazione del fatto che appartengo anch’io alla seconda categoria, mi
unisco alla schiera dei “rhythm-dummies” per rivedere alcuni consigli che ci possono
aiutare a migliorare la qualità del nostro accompagnamento.
Cominciamo a suonare una canzone molto semplice, ad esempio “La
Canzone del Sole” di Lucio Battisti, con i suoi classici tre accordi:
A
/
/
/
E
/
/
/
D
/
/
/
E
/
/
/
Dimentichiamoci immediatamente l’applicazione di figure ritmiche strane,
controtempi, raddoppi etc., che ci confondono solamente (è come per un cestista
palleggiare dietro la schiena o sotto le gambe….all’inizio può solamente perdere la
palla).
Appelliamoci invece al “less is more” e iniziamo a suonare “marcando”
semplicemente i quarti d’ogni singola misura.
La concezione ritmica tradizionale, tipica della musica “bianca”, prevede che gli
accenti (ovvero le nota suonate con maggiore enfasi) cadano sul primo beat d’ogni
misura, ed eventualmente sul terzo:
A
/
/
U-no
Du-e
Tre-e
>>
-
>
/
Quattro
-
E
/
/
U-no
Du-e
Tre-e
>>
-
>
/
Quattro
-
D
/
/
U-no
Du-e
Tre-e
>>
-
>
/
Quattro
-
E
/
/
U-no
Du-e
Tre-e
>>
-
>
/
Quattro
-
Proviamo un po’ a suonare in questo modo, cercando di tenere un tempo
regolare (l’ideale sarebbe avvalersi di un metronomo o meglio ancora una piccola
batteria elettronica; altrimenti procuriamoci il Cd o la cassetta e cerchiamo di
seguirla).
Osserveremo dopo un po’ che il nostro “playing” avrà un andamento piuttosto
statico, ed in verità un po’ noioso, come se fosse “ingabbiato”.
Per tentare di conferire un po’ di movimento al nostro brano, mutuando
un’idea tipica dalla musica “nera” (rhithm’n’blues, soul, etc), proviamo allora a
spostare gli accenti sul secondo e sul quarto beat:
A
/
/
U-no
Du-e
Tre-e
-
>>
-
/
Quattro
>
E
/
/
U-no
Du-e
Tre-e
-
>>
-
/
Quattro
>
D
/
/
U-no
Du-e
Tre-e
-
>>
-
/
Quattro
>
E
/
/
U-no
Du-e
Tre-e
-
>>
-
/
Quattro
>
Per ottenere qualcosa d’ascoltabile secondo questo “pronuncia”, consiglio di
evitare durante i primi approcci di suonare sui quarti “forti” (il primo ed il terzo),
“pennando” invece in senso discendente solo sul secondo ed il quarto.
Un successivo accorgimento per focalizzare meglio questo discorso, è di
ascoltare il suono della batteria in una qualsiasi canzone con tempo pari (il già citato
quattro/quarti). Di norma sui beats forti suona la grancassa (pum), mentre sui tempi
deboli suona il rullante (cià):
A
/
/
/
E
/
/
/
D
/
/
/
E
/
/
/
Pum Cià Pum Cià Pum Cià Pum Cià Pum Cià Pum Cià Pum Cià Pum Cià
Proviamo ora a suonare solamente su ogni colpo di rullante (sul “cià”).
Quando abbiamo acquisito scioltezza, aggiungiamo le pennate sul battito di
grancassa, sempre in senso discendente, ma è ammesso anche il senso ascendente
(dal basso all’alto), curando comunque che il volume (la forza impressa nella
pennata) sia inferiore a quello espresso suonando “sul rullante”.
Ci risulterà presto evidente che gli accenti sui quarti “deboli” conferiscono un
movimento completamente diverso al brano, come se ogni accento, specie quello sul
quarto beat, introducesse, o letteralmente ci “mettesse in mano” la nota o la misura
successiva, in un contesto molto dinamico. Un ottimo brano da ascoltare con
attenzione, con un superbo strumming di chitarra acustica, è “Anymore”, di Vasco
Rossi, dall’album “Buoni o cattivi”.
Man mano che aumenterà la nostra sicurezza, proviamo a controllare anche il
volume complessivo delle singole frasi, frenando la potenza della pennata nei
momenti calmi del brano (.. o mare nero o mare nero ….), e “picchiando” con
maggiore libertà, ma sempre ponendo grande attenzione agli accenti, nei momenti
più mossi (…e ti ricordi…). Forse cominceremo a dimenticare l’effetto “grattugia” che
tanto ci demoralizzava…
Ed ora il tocco finale: curiamo la qualità della nostra pennata.
L’approccio istintivo ci porta a colpire le corde in senso perpendicolare (flush stroke –
colpo pieno):
Questa è un’ottima modalità d’esecuzione se necessitiamo di particolare
precisione o controllo dinamico, ad esempio suonando note singole o power chords.
Per contro è interessante nello strumming colpire le corde in senso obliquo,
vale a dire con un’azione dal manico verso il ponte, o viceversa (brush stroke – colpo
di spazzola).
Alternando i due movimenti, e con loro l’angolo di pennata, otterremo delle
variazioni timbriche, lievi ma non trascurabili, che conferiscono carattere al nostro
accompagnamento.
Esercitiamoci ora a colpire le note obliquamente, limitandoci per il momento
unicamente a pennate in senso discendente. Curiamo che il movimento dal ponte al
manico evidenzi i beats forti della misura (1-3) e che l’azione contraria (manicoponte) marchi i beats deboli (2-4), magari accentandoli. Otterremo, graficamente, il
seguente movimento:
Non appena metabolizzata quest’azione, che a prima vista è piuttosto
innaturale, riscontreremo risultati notevoli, per fluidità d’esecuzione e definizione
timbrica. Il nostro “drive” sarà inarrestabile… sembreremo un treno in corsa….
Acquisita un po’ sicurezza, proviamo ad inserire anche le pennate ascendenti
(“di ritorno”), oppure a modificare gli accenti.
Infine, ma questo solo quando saremo diventati veramente imbattibili,
sperimenteremo la raffinatezza definitiva del nostro accompagnamento: “suonare
intorno al beat”, con impercettibili anticipi (“tirando indietro”) o impercettibili posticipi
(“tirando avanti” o “suonando in relax”).
Riepilogando:
“per un grande strumming curiamo nell’ordine: gli accenti, la dinamica, la qualità della
pennata”.
FLATPICKING
Continuiamo la nostra analisi sulle tecniche di accompagnamento
introducendo questo stile, che è tipico della musica folk nord-americana, ma che sta
trovando negli ultimi anni grande seguito, anche per opera di alcuni illuminati
chitarristi, primo tra tutti il mitico Beppe Gambetta., nel vecchio continente, sia in
contesti mediterranei che nella musica celtica.
Dicevamo che questo stile trae origine dalla musica folk nord-americana,
country e bluegrass e rappresenta un primo tentativo di porre in evidenza lo
strumento chitarra, fino ad allora relegato in una veste di puro e semplice
accompagnamento, rispetto agli altri strumenti delle “stings-orchestre” quali
mandolino, banjo e violino, ai quali era deputato lo sviluppo delle linee melodiche.
Primi esponenti furono i membri della “Carter-family”, “inventori” della tecnica
delle note singole sui bassi contrappuntate da accordi pieni. Il vero turning point si
riscontra nell’opera di Doc Watson, il primo a tradurre sulla chitarra le “fiddle-tunes”
con tutti i loro virtuosismi.
La tecnica, è sempre imperniata sull’uso del plettro (“flat”) e prevede che le
corde non siano suonate tutte assieme, come nello strumming, ma siano “colte”, o
“scelte” dal movimento del plettro stesso, sapientemente guidato dalla mano destra
(“picking”). Pertanto le progressioni d’accordi, o le frasi a note singole sono scelte
attentamente dall’esecutore momento per momento, sul “climax” del brano. Ad
esempio, il “primordiale” Carter-Style prevede l’alternanza di una nota singola sul
basso che “marca” il tempo forte, seguita da un accordo intero sul tempo debole (es.
1); oppure consideriamo l’esposizione di una misura di accordi introdotta da una
linea di bassi o con l’alternanza di note basse ed acute, con le prime in movimento
(walking bass – es - 2), o la realizzazione di velocissimi arpeggi tra più corde (tecnica
mutuata dal banjo che assume il nome di “cross-picking” – es. 3) e così via.
E’ veramente impensabile che cosa si può realizzare con il semplice uso del
plettro. L’unica cosa da fare è ascoltare, rimanendo piacevolmente stupiti, le
invenzioni di qualche grande maestro (il già citato Gambetta, oppure Tony Rice, Dan
Cry, o lo stesso Doc Watson).
“Carter Style”
Neil Young – Tell me Why (accordatura one step down dgcfad)
Una raffinatezza in “Cross Picking”: l’intro di “Mediterran Sundance” di Al Di Meola e Paco De
Lucia”
POWER CHORDS e “RIFFS”
Scaldiamo i motori e teniamoci pronti, perché l’argomento è di quelli
elettrizzanti. Non può esistere amante della musica leggera degli ultimi trent’anni che
non si sia emozionato o gasato sulla scia di quei potenti accordi di chitarra elettrica
distorta, che evocano immagini di corse in moto e vento nei capelli……
Tecnicamente, le forme usate sono essenzialmente due: i “Power chords”
(accordi “potenti”) ed i Riffs (difficile da tradurre; proviamo, anche se è brutto, con
“ostinati” od “obbligati”).
I primi differiscono dalle triadi e tetradi che abbiamo già esaminato nei
precedenti capitoli poiché sono di norma composti di due note (fondamentale e
quinta) e sono suonati sulle sole corde gravi, in dichiarato appoggio allo stesso
basso elettrico. Altra caratteristica è il timbro, che deve essere appunto potente.
Pensate ai seguenti aggettivi: grasso, gonfio, largo, tanto, profondo, ciccione. Con
questi in mente, smanettate sulla vostra chitarra o sul vostro ampli finchè otterrete un
suono che ricordi dette qualità. Per aiutarvi provate:
-
Chitarra con due pick up humbucker;
Magnete al manico, oppure entrambi i magneti assieme;
Volume della chitarra 8-10, toni se vogliamo un po’ attenutati (4 – 6);
Se avete una strato o una tele aiutate il segnale in uscita con un pedalino
overdrive;
Ampli: canale distorto (o anche quello pulito se usate un overdrive/distorsore
esterno), gain 7-10, master regolato sulla scorta dell’ambiente e dell’ampli
utilizzato (fermiamoci un momento prima del dolore fisico), bassi 4-8; medi 3-6;
acuti 5-9. Riverbero vedete un po’ voi, io non ne faccio uso.
Vediamo ora come sono composti questi “power chords”:
Prenderei in considerazione tre posizioni:
CMagg
FONDAMENTALE
QUINTA
III
•
•
CMagg
FONDAMENTALE
QUINTA
OTTAVA
III
•
• •
GMagg
QUINTA
OTTAVA
III
• •
La prima osservazione che ci viene spontanea è che questi accordi non
prevedono la terza (che come abbiamo già visto, determina il “modo” dell’accordo.
Questi accordi non sono, infatti, né maggiori, né minori, bensì sono “sospesi”, e
questa caratteristica, unita alla timbrica di cui abbiamo accennato prima, ben si
adatta a contesti “potenti”. Vedremo anzi che l’indeterminatezza del modo (maggiore
o minore) giocherà un ruolo determinante in particolari situazioni musicali (blues).
Non è detto che non possano esistere power chords muniti della terza, e
quindi ben definiti nel modo; altro che non sono consigliati in contesti “energetici”, se
non usati con parsimonia e gusto, pena il decadimento del senso di “potenza” tipico
di questo modo di suonare.
Le tre figure di accordo sopra riportate, ancorché siano nella sostanza decisamente
fungibili, trovano applicazione diversa a seconda dei contesti: la prima quando i
cambi d’accordo sono piuttosto mossi; la seconda quando necessitiamo di maggiore
potenza; la terza….riascoltiamoci l’intro di “Smoke in the water” dei Deep Purple…..
Per quanto attiene la mano destra, vediamo alcune considerazioni
interessanti:
Mentre nello strumming abbiamo focalizzato l’opportunità di evidenziare i battiti
“deboli” d’ogni misura (secondo e quarto), nei power chords il discorso cambia: gli
accordi vanno suonati sicuramente sui quarti forti (il primo ed il terzo), spesso se non
all’unisono, comunque d’intesa con il basso. Anzi, se ascoltate alcune recenti
produzioni, noterete che spesso i power chords vengono suonati sul primo beats
lasciando il compito di riempire la misura ad altri strumenti (perché non un ottimo
strumming con l’acustica? – cfr. “Hai mai” dal disco “Buoni o Cattivi” di Vasco Rossi).
Ciò amplifica la sensazione di forza e d’autorevolezza conferita dai battiti della
grancassa e del basso.
Alternativamente, i power chords vengono spesso usati per “marcare” ogni
ottavo della misura, contribuendo in questo caso a tenere alto il “tiro” del brano. In
questo caso può essere interessante smorzare il suono delle corde con il palmo della
mano destra (palm-muting), magari alternando sapientemente note suonate “piene”
con altre “in sordina”. (cfr. “C’è chi dice no”, sempre Vasco Rossi, nella versione
riarrangiata del Live “Rewind”).
Un’altra particolarità, che proverei a definire Chuck Berry-Style, vede uno
sviluppo della misura con coppie d’ottavi che alternano chords formati di
fondamentale e quinta, con chords di fondamentale e sesta (ricordate Johnny be
Goode?).
Vediamo un paio d’esempi:
N. due misure suonate ad “ottavi”
“Johnny Be Goode” – Style
I riffs invece sono delle piccole cellule melodiche, suonate di norma sui registri
gravi dello strumento, che tendono a ripetersi al’infinito, fornendo “groove”, grinta e
carattere alle nostre canzoni.
La prima caratteristica di un buon riff deve essere la facilità con cui ti entra in
testa (provate a canticchiare le prime note di “Satisfaction”). Poi deve essere breve, e
deve trasmettere una sensazione di potenza e di dinamica (altrimenti come può
essere la colonna sonora delle nostre corse in motocicletta “vento nei capelli”? –
attenzione, e con il casco come la mettiamo?).
Qui non servono molte parole, solo tanto esercizio. Fondamentale provare i
riffs con un metronomo o batteria elettronica, ma molto meglio se c’esercitiamo sul
disco (ops, sul CD).
Avanti quindi con gli esempi.
Led Zeppelin: Black Dog
Led Zeppelin: Heartbreaker
Led Zeppelin – Living loving maid
The Beatles – Day Tripper
Gary Moore – Walking by myself
The Beatles – Come together
TECNICHE DI ACCOMPAGNAMENTO CON LE DITA
Ebbene sì! Se vogliamo conferire al nostro playing un tocco di raffinata
eleganza, non possiamo prescindere dall’uso delle dita nell’accompagnamento.
Pensiamo ai sognanti brani acustici di Pat Metheny, oppure ascoltiamo qualche
finger-picker di razza (John Renbourne, Leo Kottke etc.) per capire che cosa intendo.
L’uso della chitarra pieno e polifonico, come se fosse un pianoforte, ha un fascino
sicuramente inimitabile.
Esistono, a mio modo di vedere due approcci al finger-style, che partono da
matrici completamente diverse, una classica, o Europea, ed una mutuata dalla
musica popolare nord-americana.
Nel primo caso gli accompagnamenti si snodano in arpeggi, vale a dire
accordi suonati una nota alla volta, dall’andamento melodico e lineare, ad ogni modo
sempre con funzioni d’accompagnamento ritmico.
Questa tecnica, molto semplice e dai risultati affascinanti, prevede
sommariamente due tipi di pattern:
Il primo prevede la nota bassa sonata con il pollice, a marcare il tempo forte, seguita
dalle altre note dell’accordo suonate una per volta da indice, medio e anulare in
senso ascendente o discendente. In questo caso il consiglio è di mantenere figure e
diteggiature le più possibili regolari, evitando di andare a seguire la melodia della
canzone, per il rischio di perdere efficacia ritmica.
Il secondo invece, molto usato nella musica sudamericana, prevede che il pollice
suoni la nota bassa, alternando sul levare accordi sulle tre corde più acute suonate
simultaneamente da indice, medio, anulare, strappati verso l’alto.
Vediamo un paio d’esempi.
Arpeggio in 4/4 (il movimento del pollice sul quarto beat introduce la misura
successiva)
Arpeggio in 6/8
Arpeggio in ¾ (Fabrizio de’ Andrè – La città vecchia – 1° verse)
Trova invece lontane radici nel folklore nord-americano e nel blues un ulteriore
approccio all’accompagnamento con le dita, il “Finger Picking”. Il verbo “to finger
pick” significa appunto “raccogliere con le dita” e esprime compiutamente la tipica
esposizione di questo stile, che prevede che il pollice vada a cogliere i bassi su corde
diverse, mentre le altre dita si occupano di accordi e melodia sul registro acuto.
Questo continuo pulsare del basso alternato suonato con regolarità dal pollice, in
origine andava ad imitare il movimento di basso suonato con la mano sinistra nel
pianoforte “Rag-time”.
Un utile accorgimento per suonare un convincente finger-picking è di
appoggiare il mignolo o l’anulare della mano destra sulla tavola armonica. In questo
modo si riesce a gestire meglio il movimento del pollice e a dosare con efficacia gli
accenti.
Vediamo di seguito un esempio della tecnica in finger-picking. La trascrizione
espone il primo verse dello standard jazz “Autumn Leaves”, nel raffinato
arrangiamento di Chet Atkins.
Notiamo il movimento del pollice sui bassi (cfr. note con il “gambo” verso il basso).
CHET ATKINS – AUTUMN LEAVES:
…….ON LEAD GUITAR: MR VILORENZ!!!!
Finalmente è arrivato il gran momento: ora parliamo di chitarra solista!
Oppure, se preferiamo, di lead guitar! Non credo esista appassionato di musica di
taglia “over forty”(come me) che a suo tempo sia rimasto immune dal fascino
magnetico di certe foto di copertina dei dischi (rigorosamente vinili) e dai relativi
crediti che dicevano: “Jimi Hendrix: lead guitar”; “Eric Clapton: lead guitar”; “Duane
Allman & Dickey Betts: lead guitar”; “Franco Mussida: chitarra solista, classica,
acustica, mandolino, mandoloncello…(ma questa è un’altra storia).
E che dire degli anni successivi, con sugli scudi un certo Eddy Van Halen, o tale
Randy Rhoads? E poi Steve Vai, Joe Satriani, Yngwie Malmsteen? O per rimanere in
Italia i Sigg. Maurizio Solieri, Andrea Braido o Steve Burns (che ormai consideriamo
italiano acquisito!)?
C’è poco da dire. E’ impossibile rimanere indifferenti di fronte a una linea
melodica suonata con gusto e trasporto, magari da uno strumento che urla al punto
giusto. E se la passione per la chitarra ci ha portato fin qui…allora è giunto il
momento di saperne qualcosa di più.
Se torno con la mente ai primi approcci con la chitarra solista, ricordo che
tendevamo a dividere i chitarristi in due insiemi, completamente opposti: chitarristi
puliti, e chitarristi sporchi. Tra i primi potevamo annoverare, ad esempio, Carlos
Santana, oppure David Gilmour; tra i secondi Richie Blackmoore e Jimmy Page. Era
una divisione arbitraria e che ora fa sorridere per la sua ingenuità. Infatti chi ha
dimestichezza con pick ups ed amplificatori, ben sa che per ottenere il suono di
Santana i settaggi sono tutt’altro che puliti; analogamente, un approfondito studio
dell’opera del grande Jimmy Page rivelava una raffinatezza tutt’altro che “sporca”.
Sicuramente la divisione tendeva a sottolineare nel primo caso più che il timbro della
chitarra, l’intelligibilità, o la facilità di comprensione delle linee melodiche, mentre nel
secondo caso, la definizione andava a riferirsi al contesto sonoro tipico dell’hard
rock, dove le forti distorsioni e l’uso di pattern ossessivi (power chords e riff)
potevano giustificare l’impietoso aggettivo.
Ho desiderato esporre questa lunga premessa per focalizzare
immediatamente alcuni aspetti molto importanti nell’approccio alla chitarra solista:
La cura dell’intelligibilità delle note suonate ovvero la pulizia del tocco, a
prescindere dal timbro utilizzato se suoniamo una chitarra elettrica;
La cura della qualità del suono, sia esso pulito o molto distorto.
Va sottolineato infatti che anche un suono “sporco” (sempre secondo i criteri
sopra accennati) può a prima vista sembrare semplice da ottenere, con risultati
roboanti; è sufficiente utilizzare volume e distorsione. Ma il vero approccio qualitativo
a generi con alto tasso d’energia, partendo cioè dal Blues elettrico per finire al Metal,
passando per il Rock più o meno Hard, richiede invece capacità tecniche non
indifferenti ed altrettanta attenzione al tocco ed al suono (altrimenti è solo rumore).
I chitarristi che ho nominato nell’esempio sopra riportato, sono tutti molto
interessanti da ascoltare per iniziare a suonare qualche linea solistica, ancorché
personalmente io sia più portato a suggerire inizialmente di concentrarsi su Santana
e Gilmour, lasciando gli altrettanto validi Blackmoore e Page per lo studio di giri
armonici e riffs (attenzione: anche i soli di questi due signori sono da manuale; ma
consiglio di avvicinarli in un secondo momento, non appena approfondita
l’esposizione sulle scale e sulle tecniche della mano sinistra che seguirà più avanti).
Bene! Iniziamo. Ascoltiamo più volte qualche semplice frase (un esempio per
tutte le stagioni: Sampa Pa Ti, del buon Carletto), cerchiamo di memorizzarla
mentalmente, e poi proviamo a “tirare fuori” le note dalla chitarra.
D’accordo – mi direte voi – ma come si fa? Esistono due modi. Il primo, molto
semplice ed usato da tutti, spesso con superbi risultati, prevede di trovare le note “ad
orecchio”, confrontando in pratica ogni singola nota suonata, con ogni nota della
canzone, magari canticchiando quest’ultima mentalmente (da qui la necessità di
memorizzare “il canto” delle frasi che vogliamo imparare).
Il secondo è un po’ più complicato, ma ci può portare lontano, perché ci
regala “consapevolezza”: innanzi tutto, troviamo il giro armonico della canzone,
magari sfruttando i consigli esposti sul capitolo dedicato agli accordi, e scopriamo
così la tonalità del nostro brano (l’accordo statico, in altre parole dove di norma la
frase termina, “si riposa”). Suoniamo ora una semplice scala maggiore (o la relativa
minore se tale è il “sapore” del brano), identificando bene le note che la
compongono. Ebbene, le note della frase melodica che vogliamo imitare saranno, di
norma, quelle che compongono la predetta scala.
Esempio: SAMBA PA TI
Giro armonico:
Am / / /
G
/
/
/
Bm
/
/
/
Em
/
/
/
Osserviamo, dall’ascolto, che in questa frase ci sono ben due momenti di
riposo, la seconda misura, in Sol, e la quarta, in Mi minore (che guarda caso sono
accordi “fratelli”).
Riesponiamo allora per un istante la scala di Sol maggiore:
G
A
B
C
D
E
F#
G
TONO
TONO SEMITONO TONO
TONO
TONO SEMITONO
Confrontiamola con la canzone:
ABCDEG
D
F# E
ABCDEG
D F# E
Notiamo che le note della frase della canzone sono tutte
comprese nella scala di Sol maggiore.
Mentre nei nostri primi tentativi ritmici il risultato sonoro emulava la grattugia,
ora è assai probabile che il timbro da noi ottenuto suoni pressappoco così: “stic,
stic,stic…”, cioè con note piuttosto sorde e slegate tra di loro. E’ un problema di
“dinamica” e di “tocco”.
Per quanto attiene la dinamica, iniziamo anche in questo caso a porre
attenzione al volume (inteso come forza impressa alla pennata suonando) ed agli
accenti, sperimentando varie soluzioni. Per quanto concerne invece il tocco, iniziamo
innanzi tutto a curare il modo in cui premiamo le corde con le dita della mano sinistra:
prestiamo attenzione di premere la corda immediatamente prima del tasto, non “sul”
tasto e neppure “nel bel mezzo” tra i due tasti. Il suono che esce dovrà essere bello
chiaro e privo di ogni smorzamento.
Una volta ottenuto questo semplice ma non banale risultato, possiamo
introdurre alcune tecniche che ci aiuteranno a rendere più espressivo il lavoro della
mano sinistra.
IL VIBRATO.
E’ un’azione tipica della mano sinistra, copiata pari dai violinisti, e si esplica,
ferma la posizione del polpastrello prima del tasto, nel movimento della mano
parallelo al manico (avanti ed indietro), oppure perpendicolare (su e giù). Il risultato è
duplice: da un lato l’azione di progressiva pressione e rilascio che si attua sulla
corda, nel punto in cui è premuta, si traduce in un prolungamento naturale del suono,
che decade più lentamente (sustain); dall’altro, dette vibrazioni conferiscono un
“colore” al suono ricco e appunto “vibrante”.
Si può attivare l’effetto lentamente, con movimenti ampi e regolari, o
velocemente, in modo secco e nervoso. Il risultato sarà ovviamente caratterizzato da
sfumature diverse, ma tutte assai efficaci.
Consiglio un uso estensivo della tecnica di vibrato quando fraseggiamo a note
singole. In particolare deve (ho scritto “deve”, non “può”), ripeto deve essere usata
ogniqualvolta ci troviamo di fronte a note appena prolungate (diciamo dal quarto –
semiminima – in su).
Entrare in possesso di un’ottima padronanza del vibrato ci farà aumentare in
modo esponenziale la nostra espressività sullo strumento.
HAMMER ON e PULL OFF
Ovvero legati ascendenti e discendenti. Ricordo ancora il panico e la
frustrazione provata da giovane studente di chitarra classica quando iniziai a studiare
il legato ascendente. Non sapevo ancora che mi trovavo di fronte ad una tecnica che
portava a risultati veramente gratificanti, soprattutto una volta trasposta sulla chitarra
elettrica.
Innanzi tutto premiamo un tasto con l’indice della mano destra; poi, prima che
la nota decada del tutto, percuotiamo a martelletto (da qui il nome di “hammer-on”) la
nota successiva, senza suonarla con la mano destra. Otterremo un suono
(attenzione, non al primo tentativo!) che sarà la diretta prosecuzione del precedente,
come se fosse appunto “legato”. Per fare un esempio, il risultato fonico sarà simile a
pronunciare “Va-o”, anziché “va-do”. Nel primo caso abbiamo una singola emissione
vocale, nel secondo una doppia.
Proviamo l’hammer-on prima su due tasti adiacenti, tenendo di base l’indice e
percuotendo con il medio. Poi proviamo su due note distanti un tono, fermo ancora
l’indice e giù con l’anulare. Poi su due note distanti un tono e mezzo (tre tasti) con un
movimento indice – mignolo (questo è difficile). Proviamo anche la distanza di mezzo
tono e di un tono tenendo come base il dito medio e percuotendo rispettivamente con
anulare e mignolo.
In questi esercizi va curata l’impostazione complessiva della mano sinistra,
che consiglio vivamente di tenere in modo classico (pollice dietro il manico, base
delle dita parallele al manico stesso, dita con l’ultima falange piegata “a martelletto”).
Per quanto concerne il legato discendente, il procedimento è sostanzialmente
il medesimo, ripetuto al contrario. Per un’ottima esecuzione conviene tenere premute
le dita di entrambi i tasti interessati, ad esempio indice e medio, pizzicare o pennare
la nota di cui al medio, “strappare” la corda con lo stesso, facendo in questo modo
risuonare la nota di cui all’indice.
Vediamo qualche esercizio:
Acquisita una certa scioltezza, diventa interessante provare a suonare i legati
su tre note per corda. L’azione richiede sicuramente molta coordinazione tra le due
mani, ma il risultato è eccellente.
Proviamo insieme questo lick in stile “neoclassico”:
L’ACCIACCATURA
Negli esempi sopra riportati, la nota legata viene suonata come un’entità ben
distinta dalla precedente. Esiste un altro tipo di legatura, di pura derivazione classica
e che prende il nome di “acciaccatura” o “appoggiatura”, che, pur tecnicamente
uguale nell’esecuzione (“martellata ascendente” o “strappo discendente”) è
completamente diversa nell’intenzione. In questo caso la nota legata sembra quasi la
nota principale, mentre la nota pizzicata, suonata pertanto immediatamente prima,
assume un sapore di pura introduzione.
Vediamo che cosa succede, ad esempio nell’intro di “Samba Pa Ti”
In questo caso l’hammer on tra il la ed il si e tra il si ed il do sulla terza corda
(prima battuta), serve ad introdurre appunto la nota successiva (rispettivamente il si
ed il do) come se fosse una nota sola. I benefici in termini di espressività sono
evidenti.
LO STRISCIATO (o GLISSATO)
Tecnica concettualmente assimilabile alle precedenti per il risultato finale, che
vede la produzione di più note con un solo tocco della mano destra, si realizza
spostando il dito da un tasto all’altro immediatamente dopo la pennata. Il movimento
può essere ascendente o discendente, o anche l’uno seguito immediatamente
dall’altro, e può interessare uno come più tasti. Questa tecnica è spesso usata da
Pat Metheny.
IL BENDING
Arriviamo infine al principe degli effetti suonati con la mano sinistra, il più
usato ed abusato, il più frizzante ed emozionante: il “bending” (letteralmente “tirare le
corde”).
L’effetto si ottiene in pratica tirando appunto la corda verso l’alto o verso il
basso immediatamente dopo la pennata o pizzicata. In questo modo si ottiene una
variazione d’intonazione della nota suonata, che può essere minima (microtonale) o
più ampia, arrivando a coprire un semitono od un tono e più.
I risultati espressivi sono importanti: si parte dall’imitazione della voce umana
(il lamento o l’urlo) per arrivare agli strumenti a fiato (pensate al suono di una
tromba); può essere suonato in modo nervoso e veloce, oppure lirico e disteso, come
l’acuto di un tenore. Qualsiasi assolo, senza la giusta dose di note tirate, è a mio
avviso qualcosa di monco, di orfano.
Per ottenere un buon bending, non ci sono scorciatoie; bisogna solamente
esercitarsi a lungo e con convinzione.
Tecnicamente, le corde vanno tirate di norma con il dito anulare, magari
sostenuto da indice e medio, mentre il pollice si pone sopra il bordo superiore del
manico, fungendo da fulcro per l’intera azione.
E’ indispensabile curare bene l’intonazione delle note ottenute tirando le
corde, che specie nei primi tempi tenderà ad essere calante (effetto che potrebbe
essere peraltro voluto, se abbiamo nel frattempo maturato un’anima da vero
“bluesman”).
Un ottimo consiglio è di esercitarsi nel bending con la chitarra acustica. Se
raggiungeremo risultati decenti con l’acustica, tireremo le corde meravigliosamente
con l’elettrica. E, soprattutto, ascoltiamo a lungo, tra gli altri, i seguenti chitarristi: Eric
Clapton, Carlos Santana, Gary Moore, Peter Green, Steve Lukater, Jeff Beck, Duane
Allman, Paul Kossof (forse uno dei più emozionanti; ascoltate peraltro come unisce
ai bendings più lirici una buona dose di vibrato) ed infine …Lorenzo Masenel lo!!???
Esercizio per casa:
Scegliamo una scala naturale a caso, poniamo il Sol maggiore, ed iniziamo a
suonare la prima nota, tirandola alla seconda, la seconda alla terza e così via fino
all’ottava. Facciamo anche l’esercizio di tirare la corda dal sol al la tornando al sol
(“reverse bending”), poi dal la al si e ritorno, si e do e ritorno. Okkio sempre
all’intonazione. Non appena vi faranno male le dita, rallegratevi, perché siete sulla
buona strada. Smettete solo quando il dolore fisico diventerà insopportabile (forse
anche un po’ prima). Il blues è sofferenza, ed un vero bluesman si riconosce da
come “tira” le corde…
IF YOU LOVE THESE BLUES PLAY ‘EM AS YOU PLEASE.
Pretendere di parlare di chitarra e relative tecniche senza un accenno al
BLUES, è come invitare qualcuno ad un giro in motocicletta, senza mettere benzina
nel serbatoio (dove vogliamo andare?).
L’influenza della “musica per neri”, con tutti i suoi derivati (boogie-woogie, ragtime, rhythm & blues) nel rock’n’roll ed in tutte le derivazioni che sono giunte sino ad
oggi (hard, metal, punk, grunge ….) è qualcosa di ingombrante ed imprescindibile.
Basti pensare, per rimanere in un ambito chitarristico, al significato del lavoro dei vari
Clapton, Green, Taylor, Beck, Page etc e quanto abbiano attinto a questa fonte
intere generazioni di chitarristi.
Vediamo subito il famoso “Giro di Blues”.
La progressione armonica tipica del blues si sviluppa generalmente su dodici
battute, così ripartite:
A7
D7
E7
/
/
/
/
/
/
/
/
/
A7
D7
D7
/
/
/
/
/
/
/
/
/
A7
A7
A7
/
/
/
/
/
(D7)
/
/
/
A7
A7
A7
/
/
/
/
/
E7
/
/
/
/
/
/
/
/
E7
/
/
/
E’ frequente imbattersi anche nella seguente variazione:
A7
D7
E7
/
/
/
/
/
/
/
/
/
D7
D7
D7
/
/
/
/
/
/
/
/
/
A7
A7
A7
/
/
/
/
/
(D7)
/
/
/
A7
A7
A7
Notiamo che sono usati in pratica solamente tre accordi di settima di
dominante:
PRIMO GRADO
QUARTO GRADO
QUINTO GRADO
(impariamo subito questo concetto che tutto sarà più semplice).
L’uso dell’accordo di settima di dominante (per intenderci con la settima
bemolle), conferisce da subito un carattere di tensione, d’instabilità. Questa
sensazione è confermata dalla “pronuncia ritmica”: se ascoltiamo qualsiasi brano
blues, noteremo che la scansione ritmica non è regolare, con i quattro quarti ben
delineati e tutti della stessa durata; in questo caso noteremo un andamento
saltellante, con i beat sul secondo e quarto movimento che perdono decisamente la
predetta simmetria. Vediamo in profondità quest’aspetto:
Prendiamo un classico movimento in quattro quarti:
Uno
Due
Tre
Quattro
Scomponiamolo ulteriormente in ottavi:
1
cià
2
cià
3
cià
4
cià
Bene, nel blues, così come nel jazz, il secondo ottavo della battuta tende ad
avvicinarsi al beat successivo, creando quel tipico movimento incalzante (swing o
shuffle).
Esercitandoci un po’ con le divisioni, potremmo affermare che in ogni quarto il
pimo beat dura 3/16 ed il secondo dura 1/16. Oppure, dividendo ogni quarto in tre
note (tempo di 12/8), il primo beat dura 2/8 (= una semiminima), il secondo 1/8.
Vediamo due esempi sul pentagramma:
Nei due esempi la prima misura è indicata “straight”, mentre le successive tre
tentano di rappresentare lo “swing”. Nel primo caso il secondo battito ritarda un po’ di
più rispetto al secondo. Nella pratica, salvo qualche brano che presenta una metrica
rigorosamente terminata (cioè in 6/8 o in 12/8), il confine tra il primo approccio ed il
secondo è assolutamente indeterminato e difficile da trascrivere.
Per questo motivo, spesso lo shuffle non viene proprio trascritto sulle partiture,
preferendo una semplice indicazione in testa alla parte da eseguire con questa
intenzione (appunto “shuffle”, oppure “swing”, oppure
= . ). Il compito di
interpretare adeguatamente la ritmica del brano viene in questo modo lasciato alla
sensibilità dell’esecutore.
IMPROVVISIAMO SULLE DODICI BATTUTE
LA SCALA PENTATONICA MINORE.
Proviamo ora a suonare qualche frase melodica utilizzando le scale maggiori
e minori che già conosciamo. Notiamo subito che “qualche cosa non quadra”. Infatti,
anche se il giro armonico presenta accordi maggiori (esistono anche blues “in
minore”, es. sugli accordi Cmin7, Fmin7, Gmin7, ma in una quantità marginale), la
scala maggiore naturale presenta qualche dissonanza con la ns. intenzione. Il blues
presenta, infatti, un linguaggio tutto suo, con delle scale tutte sue.
La scala principale del Blues è basata sulla “Pentatonica” minore, arricchita di
una nota “di passaggio” tra il IV ed il V grado:
A
I
C
Iii
D
IV
(D#)
Vb
E
V
G
Vii
A
VIII
Proviamo a suonarla. La prima volta che feci quest’esperienza, ancorché
conoscessi già discretamente le scale naturali per lo studio della chitarra classica,
rimasi folgorato. Era la scala che caratterizzava gran parte dei soli e dei riff della
musica rock e blues che tanto amavo!
Analizzando un attimo gli intervalli della scala. Notiamo subito alcune
particolarità rispetto all’accordo di settima di dominante (I,III,V,Vii) alla base del
brano:
-
“innanzi tutto, nella scala, il secondo step è costruito su una terza minore, mentre
sull’accordo è su una terza maggiore”.
Qui affrontiamo uno degli aspetti più caratteristici del blues: l’indeterminatezza
tonale di alcuni gradi della scala.
Nel blues il secondo step della scala (la terza) non sarebbe né maggiore, né
minore, ma si trova “circa “ alla metà (la famosa “Blue note”). Proviamo a suonare
una semplice sequenza A-C (intervallo di terza minore), suonando prima la nota
straight, poi una sequenza A-C# (terza maggiore), infine suonando nuovamente
A-C ma esercitando un piccolo bending, tirando in su o in giù leggermente la
corda, sul C. Capirete subito che cosa intendo dire.
-
“notiamo la presenza dell’intervallo di settima minore”.
La settima minore è presente anche nell’accordo, e conferisce grande carattere
sin dalla prima misura di un brano. In un normale contesto tonale, l’accordo di
tonica presenterebbe invece, al limite, una settima naturale (Amaj7), conferendo
un “gusto” del tutto diverso. Ciò viene confermato fraseggiando note singole; la
settima minore conferisce appunto un sapore “crudo” alle linee melodiche
decisamente irrinunciabile (e che sarà ripreso pienamente in ambiti rock).
Proviamo questo semplice lick (su un accordo di A7):
-
“la “nota di passaggio (intervallo di quarta aumentata o quinta diminuita) non
c’entra niente con gli accordi sottostanti”. Certamente vero, ma osserviamo
la sua valenza dinamica in questo riff:
Vediamo ora alcune diteggiature sulla tastiera:
Pentatonica di
La minore
Pentatonica di
La minore
• • •
•
•
•
V • • • • • •
Pentatonica di
La minore
•
V • • • • •
V • • • • • •
• • •
Pentatonica di
La minore
•
•
• •
•
• •
• •
XII
• • •
• •
•
• •
• •
Bene, questo per la pentatonica minore di La. E per le altre tonalità?
Ripassiamo un po’ i concetti appresi all’inizio: spostiamo il box avanti di un tono (due
tasti) ed otterremo la posizione per la scala di Si; di un tono indietro (sempre due
tasti) ed avremo il Sol; tre tasti in avanti (un tono e mezzo) ed ecco il Do e così via.
(Nei box ho volutamente omesso le note di passaggio).
LA SCALA PENTATONICA MAGGIORE
Prendiamo la scala pentatonica minore di La vista in precedenza (omettiamo
la nota di passaggio).
Pentatonica minore di La:
A
C
D
I
Iii
IV
E
V
G
Vii
A
VIII
Come ben sappiamo, ogni scala minore ha la sua relativa maggiore:
Pentatonica maggiore di Do:
C
D
E
G
A
C
I
II
III
V
VI
VIII
Osserviamo, infatti, che le due scale impiegano le stesse note. La pentatonica
maggiore è molto utilizzata anche in normali contesti tonali, per la sua semplicità. In
ambito blues viene talvolta usata alternata alla pentatonica minore, per sottolineare
diversamente alcuni passaggi, specie in uscita dal giro. In ciò sono maestri Robben
Ford e Dickey Betts della Allman Brothers Band.
Godiamoci ad esempio questo bel lick, tratto dal finale di “Revival”, appunto
della ABB:
Riepilogo delle scale pentatoniche minori più usate.
Tonalità
Alterazioni
in chiave:
Am
Em
1#
Bm
2#
F#
3#
C#
4#
Dm
1b
Gb
2b
Cm
3b
I
Iii
IV
V
Vii
A
C
D
E
G
A
E
G
A
B
D
E
B
D
E
F#
A
B
F#
A
B
C#
E
F#
C#
E
F#
G#
B
C#
D
F
G
A
C
D
G
Bb
C
D
F
G
C
Eb
F
G
Bb
C
Riepilogo delle scale pentatoniche maggiori più usate.
Tonalità
Alterazioni
in chiave:
C
G
1#
D
2#
A
3#
E
4#
F
1b
Bb
2b
Eb
3b
I
II
III
V
VI
C
D
E
G
A
C
G
A
B
D
E
G
D
E
F#
A
B
D
A
B
C#
E
F#
A
E
F#
G#
B
C#
E
F
G
A
C
D
F
Bb
C
D
F
G
Bb
Eb
F
G
Bb
C
Eb
DAL BLUES AL ROCK (…E RITORNO?)
Ho già avuto modo di accennare che tutta la musica moderna è fortemente
debitrice dell’influenza “nera”, che trova appunto radici nel blues.
La progressiva contaminazione di questi elementi con la tipica “forma
canzone” di derivazione folk, con i suoi giri armonici classici squisitamente tonali (I,
IV, V oppure I, vi, ii,V), sfocia a partire dagli anni ’60 in nuove sonorità (Pop) dove la
componente ritmica diventa elemento trainante di tutto il messaggio musicale.
Pensiamo a Beatles e Rolling Stones, ma anche a Who, Yardbirds, mentre nell’
“università del blues” di John Mayall con i suoi Bluesbreakers si scaldano le polveri
per un’esplosione di energia che deflagrerà di li a poco, con i Cream di Eric Clapton,
mentre attraversa l’Atlantico un tizio mezzo nero e mezzo indiano di nome Jimi…
Musicalmente il linguaggio rock (il roll lo abbiamo perso per strada), inizia a
indurirsi e a raffinarsi, proliferando in numerosi filoni diversi, a partire dall’Hard per
finire al jazz rock, attraverso psichedelica, progressive, fino all’epitaffio del punk.
In questa sede, è interessante approfondire come gli stilemi tipici del blues
che abbiamo già esaminato arrivano a connotare fortemente il rock’n’roll, soprattutto
nei suoi aspetti più duri e grintosi.
Innanzi tutto l’aspetto armonico tende a semplificarsi sia nello sviluppo delle
progressioni, che quasi invadono zone “modali”, sia nella struttura stessa degli
accordi, che si focalizzano nella forma del bicordo (power chord), quest’ultimo privo
della terza con relativa indeterminatezza del modo. La struttura delle canzoni
s’incentra pertanto nei riffs, che diventano il vero fulcro del linguaggio.
Quando possiamo ancora parlare di giri armonici, oltre alle classiche 12
battute blues, troviamo spesso un paio di strutture che vale la pena di analizzare:
Tonica
Settima minore
E
D
(es. Satisfaction – Rolling Stones)
Quarta
A
Tonica
Terza minore
E
G
(es. Highway Star- Deep Purple)
Quarta
A
Seconda minore Quinta
Amin
D
(es. Oye Como Va / Evil Ways – Santana)
Sotto l’aspetto melodico, in entrambi i casi il linguaggio parte dalle
pentatoniche ma si arricchisce anche di altre componenti, che comunque sempre
mettono in evidenza la presenza della settima minore, con il suo carattere “ruvido”.
Approfondendo quest’aspetto, analizziamo di seguito un tipo di scala
maggiore, (modo misolidio), ed uno di scala minore (modo dorico).
Ipotizziamo di improvvisare su uno dei giri di accordi sopra evidenziati, che
sono comunque incentrati su una tonalità (se possiamo definirla tale) maggiore; che
ne so, il finale di Freebird dei Lynyrd Skynyrd – G – Bb – C.
Proviamo innanzi tutto con delle belle pentatoniche, sia maggiori che minori e
vediamo come “stanno agli accordi”:
Pentatonica maggiore:
G
A
B
Pentatonica minore:
G
Bb
C
D
E
D
F
Composizione della triade:
G
Bb
C
G/B/D
Bb/D/F
C/E/G
Possiamo notare che entrambe le scale siano comodamente utilizzabili in
questa situazione, in quanto non esistono note particolarmente dissonanti
(attenzione, l’uso di una scala piuttosto che un’altra avrà comunque un “sapore”
diverso): infatti il B contenuto nella scala maggiore è il terzo grado dell’accordo di
tonica, mentre il Bb della scala minore è la fondamentale del secondo accordo, che
presenta come dominante il F (la nostra imprescindibile settima minore).
Vediamo che cosa succede se usiamo le scale naturali di sette note:
Scala maggiore naturale:
G
A
B
C
Scala minore naturale:
G
A
Bb
C
D
E
F#
D
Eb
F
Composizione della triade:
G
Bb
C
G/B/D
Bb/D/F
C/E/G
La scala maggiore presenta la sensibile (settimo grado della scala) dissonante
rispetto alla dominante (quinta) del secondo accordo (il famoso FA). Quella minore
presenta un problema simile sul sesto grado, dove il Eb risulta dissonante rispetto
alla caratteristica (terza) del terzo accordo (il E). Accettiamo invece in entrambe le
scale le terze (B piuttosto che Bb) analogamente a quanto visto per la pentatonica.
Con l’aiuto di qualche alterazione, proviamo a “correggere” le scale:
Scala misolidia:
G
A
B
Scala dorica:
G
A
Bb
C
D
E
F
C
D
E
F
Composizione della triade:
G
Bb
C
G/B/D
Bb/D/F
C/E/G
In buona sostanza, la scala misolidia è simile alla scala maggiore, con l’unica
differenza della presenza della settima minore; la scala dorica è invece simile a
quella minore naturale, con il sesto grado alterato di un semitono verso l’alto (sesta
eccedente).
Entrambe trovano ottima applicazione qualora desideriamo improvvisare sulle
progressioni anzidette, quando le pentatoniche “iniziano a starci strette”….
Proviamo ora ad utilizzare la scala dorica sulla tipica progressione di Carletto
Santana (Amin/D)…
ARRANGIAMOCI…
Dopo un po’ di tempo che si suona, scopriremo che gli accordi studiati negli
scorsi capitoli, sono , di per sè, piuttosto statici, o poveri musicalmente. Le cose
migliorano se impariamo ad usare correttamente le tetradi, cioè aggiungendo ad ogni
accordo la settima.
Esistono alcuni altri tipi d’accordo che, se usati propriamente, aiutano ad
arricchire notevolmente la resa armonica del nostro discorso musicale, conferendo
qualità ed autorevolezza al nostro accompagnamento.
Accordi di quarta “sospesi”:
Sono formati da tonica, quarta e quinta (eventualmente settima). Si chiamano
“sospesi” perché manca la terza, nota che, come già sappiamo, è fondamentale per
definire il modo di un brano. E’ un accordo dal sapore “interlocutorio”, spesso usato
intercalato all’accordo di tonica (classico Dsus4 - D). Vediamo la sua posizione nella
tastiera, nelle tonalità più usate (poi al solito basta trasporre).
Dsus4
•
Asus4
•
x
•
•
•
x
x
•
II • •
•
•
•
•
•
Bsus 7/4
II • •
•
Gsus4
x
x
•
• •
Esus7/4
Csus7/4
• • •
Bsus/4
• • •
Asus7/4
•
Csus4
• •
• •
• •
Dsus7/4
Esus4
•
•
•
•
Gsus7/4
X
•
•
•
•
•
•
Accordi di nona:
Per ricavare gli accordi di nona, è sufficiente aggiungere alle tetradi che
abbiamo imparato la nota che troviamo sull’intervallo di nona (attenzione, che
secondo la posizione sulla scala naturale, possiamo avere una nona maggiore o
minore). Vediamo lo schema sotto riportato:
Tonalità di DO
C
D
E
F
G
A
B
C
D
E
F
G
Do Maj 7/9
(N.F. – Terza Magg. – quinta – settima - nona)
A
B
C
F
G
A
A
B
C
F
G
A
B
C
D
E
F
G
A
Mi Minore 7/9b
(N.F. – Terza Minore – quinta – settima min – nona min)
B
C
C
D
E
B
C
D
E
F
G
Re Minore 7/9
(N.F. – Terza Minore – quinta – settima min. - nona)
C
D
E
C
D
E
F
G
A
A
B
C
C
D
E
F
G
A
A
B
C
C
D
E
F
G
A
A
B
C
B
C
D
E
F
G
Fa Maj 7/9
(N.F. – Terza Magg. – quinta – settima - nona)
B
C
D
E
F
G
Sol Maggiore 7/9
(N.F. – Terza Magg. – quinta – settima min. - nona)
B
C
D
E
F
G
La Minore 7/9
(N.F. – Terza Minore – quinta – settima min.- nona)
L’aggiunta della nona su qualsiasi accordo della scala maggiore (escluso
l’accordo sulla sensibile, che comunque può benissimo essere sostituito dall’accordo
di dominante), ha la caratteristica di “aprire” l’accordo stesso, e risulta molto utile per
introdurre, con gran dinamica, l’accordo successivo in qualsiasi progressione tonale.
In ambito blues, l’accordo di nona è molto usato sull’accordo di settima di
dominante (es. A7 - D7/9 – A7 – E7 – D7/9 – A7 – E7/9#). Ma che cos’è quello
strano accordo che chiude il giro sopra esposto? Un accordo di settima/nona
aumentata?
E’ una figura molto usata nel blues sull’accordo di dominante, per il suo
sapore dissonante (infatti, la nona aumentata, altro non è che una terza minore; per
contro l’accordo aveva già “in corpo” una terza maggiore; la nona aumentata, in
questo caso un G, trova giustificazione essendo il settimo grado dell’accordo di
tonica). L’accordo è chiamato anche “alla Hendrix”, dal nome di chi l’ha introdotto…
Vediamo alcune posizioni:
C7/9
•
•
Cmaj 7/9
• •
•
Emin9
•
•
• •
Gmaj7/9
•
•
• •
•
•
•
•
•
•
G7/9
• •
IV
•
• •
D9
•
• •
•
•
•
A9
•
•
Bb9
•
•
Amin9
•
•
Emin7/9
•
III
A9
•
•
•
E7/9#
• •
•
•
•
VII
•
•
•
•
•
Divertiamoci ora con le prime battute di una canzone che prevede un uso
estensivo di accordi di nona:
Police – “Every breath you take”
Accordi diminuiti
E’ una famiglia di accordi un po’ strana, in quanto ogni nota è distanziata dalla
precedente di un tono e mezzo. E’ l’accordo instabile per eccellenza, ed è ottimo per
introdurre/sostituire qualsiasi accordo formato sulla tonica un semitono sopra o un
semitono sotto.
Assume anche il nome di “accordo simmetrico”, in quanto ben quattro
posizioni sulla scala hanno le stesse note sull’accordo. Vediamo com’è composto:
I
Iii
Vdim
VI
Cdim
C
Eb
Gb
A
Ebdim
Eb
Gb
A
C
Gbdim
Gb
A
C
Eb
Adim
A
C
Eb
Gb
I
Iii
Vdim
VI
C#dim
C#
E
G
Bb
Edim
E
G
Bb
C#
Gdim
G
Bb
C#
E
Bbdim
Bb
C#
E
G
I
iii
Vdim
VI
Ddim
D
F
Ab
B
Fdim
F
Ab
B
D
Abdim
Ab
B
D
F
Bdim
B
D
F
Ab
x
Cdim
•
x
•
•
•
Cdim
x x
IV
•
•
•
•
...UN TOCCO DI RAFFINATEZZA IN PIÙ.
Ora che abbiamo imparato un gran numero di posizioni sulla tastiera, e, mi
auguro, appreso il metodo per ricavare le giuste note per qualsiasi accordo,
cominceremo a trovare un po’ “pesante” il suonare linee di accordi pieni in
“strumming”, magari normalissime triadi. Ciò soprattutto se ci cimentiamo alla chitarra
elettrica, in gruppo con basso/batteria, e, al caso, con un tastierista.
Se lo strumming, infatti, trova una sua ampia giustificazione in determinate
situazioni, soprattutto in chiave ritmica, succede per contro che suonando in un
ensemble con altri musicisti, le frequenze prodotte dalla nostra chitarra si possono
scontrare con quelle prodotte da altri musicisti.
Ipotizziamo di suonare una qualsiasi canzone in Mi maggiore, in un normale
tempo di 4/4.
Il basso andrà sicuramente ad appoggiare le toniche degli accordi, magari sui
tempi forti (1 e 3); coadiuvato dalla cassa della batteria (ulteriori frequenze basse).
Se noi suoniamo il tradizionale Mi maggiore in prima posizione, aggiungeremo al mix
le seguenti note: mi,si,mi,sol#,si,mi.
Giacché le toniche saranno già ben tracciate, in modo
perentorio, dal basso, non vi sembra un poco eccessivo
E
aggiungerne ulteriori tre, in altrettante ottave diverse?
Con un po’ d’esperienza, scopriremo invece che per noi
•
• •
chitarristi diventa invece interessante, accompagnando, “coprire
i buchi” lasciati da questi ingombranti strumenti
ritmici, suonando sui movimenti deboli (in levare) ed evitando così gli accordi pieni,
che possono essere sostituiti da qualche movimento di note singole (non
necessariamente riffs distorti ma anche semplici figure suonate con un timbro pulito),
oppure accordi giocati sui tre cantini. Interessante a questo punto omettere la tonica
dagli accordi, evidenziando invece la caratteristica, ossia la terza (visto che la tonica
è suonata dal basso, qualcuno deve pur fare capire in che “modo” ci si sta
movendo..) ed altre note di arricchimento, appunto quarte (se vogliamo conferire un
senso di “sospensione”), oppure none (per aprire gli accordi ed introdurre i
successivi).
Provare per credere…
ACCORDATURE APERTE ED ALTERNATIVE
Esaminiamo ora le possibilità che si possono usufruire accordando la chitarra
in modo diverso dal tradizionale EADGBE.
Innanzi tutto esistono alcune accordature che, una volta impostate, formano
un accordo preciso, maggiore o minore che sia, suonando tutte le corde a vuoto. Le
più usate sono SOL aperto (DGDGBD) – ottenuta, partendo dall’accordatura
standard, abbassando la sesta, quinta e prima corda di un tono; e RE aperto
(DADF#AD), che potrà essere ottenuta abbassando la sesta e la prima e la seconda
corda di un tono, e la terza di mezzo tono.
L’uso di queste accordature trova radici in diverse espressioni della musica
popolare, anche se forse uno dei motivi più importanti è dato dal fatto che le stesse si
prestano particolarmente bene ad essere usate nel blues con la tecnica del
“bottleneck slide”, il famigerato tubo di vetro o metallo usato per simulare il suono
della chitarra “lap steel” o “hawayiana”. Un maestro di questa tecnica è senz’altro il
compianto Duane Allman, che accordava la chitarra in Mi aperto (EBEG#BE, in
pratica un re aperto impostato un tono sopra), utilizzava lo slide infilato nell’anulare
(una bottiglietta vuota di Coricidin), pizzicando in fingerpicking con pollice, indice e
medio muniti di thumb-pick (speciali plettri metallici).
Sono molto usate anche nel country e nel folk europeo, musica celtica ed
altro. Si ascoltino al riguardo la canadese Joni Mitchell (Circe Game) oppure John
Renbourne (English dance) o, perché no, i Led Zeppelin in “That’s the way” o in
“Going to California” (tutti questi brani sono in “open G”, anche se talvolta trasposto
con un capotasto mobile o abbassando di mezzo tono o più). Un bell’esempio di
open E è l’acustica Little Martha, suonata da Duane Allman e Dicky Betts nel mitico
“Eat a Peach” della Allman Brothers Band.
Trovo molto interessante provare e sperimentare in queste accordature,
perché si trovano facilmente combinazioni diverse dalle tradizionali, in cui le corde a
vuoto, “sintonizzate” su ben determinati gradi della scala, conferiscono colori molto
musicali.
Passando alle accordature alternative, queste, pur non formando un accordo
completo quando suonate libere, consentono per contro di muoversi con una certa
agilità su posizioni standard sfruttando nello stesso tempo le note basse a mo’ di
bordone.
E’ il caso della “Dropped D”, in pratica una standard con il mi basso portato a
re, accordatura usatissima e fortemente consigliata quando dobbiamo
accompagnare brani appunto nella tonalità di Re (interessante, con un po’ di
attenzione, anche in Sol); oppure la “Double Dropped D”, (DADGBD), meravigliosa
per suonare in Re in un contesto di accordi sospesi o indeterminati (Cfr. “Don’t let me
bring you down” di Neil Young o la mitica “Black Queen” di Steve Stills).
Merita un discorso più approfondito l’accordatura DADGAD, che ho scoperto
essere molto diffusa presso i flat & fingerpickers. Per quanto ho avuto modo di
sperimentare, questa consente interessanti combinazioni tenuto conto che consente
di suonare “bordoni” su corde a vuoto in tutte le note fondamentali del giro di blues
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(D,G,A); inoltre, la posizione “stretta “ tra la terza e la seconda corda, che distano
solo di un tono, aiutano la formazione facile di accordi di nona, che come già detto,
“aprono” l’accordo. Un bell’esempio dell’uso di questa accordatura è “Black Mountain
Side” dei Led Zeppelin, dal loro primo album.
Il discorso sulle accordature alternative è praticamente appena cominciato; le
possibilità sono praticamente infinite, si pensi che circola una leggenda secondo la
quale Joni Mitchell, nella sua lunga ed onorata carriera, ha usato una cinquantina di
accordature diverse; per non parlare di David Crosby, o di Nick Drake o, per
rimanere vicino a noi, a Roberto Dalla Vecchia, che nel suo ultimo “Sit Back” ha dato
un vero saggio dell’uso di accordature alternative, con risultati eccellenti (visitate il
suo sito internet www.robertodallavecchia.com per saggiare qualche Mp3 o qualche
sua trascrizione).
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