Misurazione del livello di internazionalizzazione delle Regioni italiane

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Misurazione del livello di internazionalizzazione delle Regioni italiane
Misurazione del livello di internazionalizzazione
delle Regioni italiane
FRANK BRADLEY* GIUSEPPE TARDIVO** MILENA VIASSONE***
Abstract
La tematica dell’internazionalizzazione dei sistemi territoriali ha assunto un ruolo di
primo piano nel recente dibattito economico internazionale. Tuttavia, la letteratura relativa
alla costituzione di un indicatore sintetico di internazionalizzazione regionale rilevante,
accessibile e trasferibile ad altre applicazioni risulta pressoché inesistente. Il paper
contribuisce a colmare tali lacune, fornendo altresì una spiegazione al contributo apportato
da ogni fattore al livello di internazionalizzazione regionale. Il paper si pone un triplice
obiettivo: effettuare una review esaustiva dei contributi dottrinali esistenti, creare un indice
sintetico di internazionalizzazione regionale e applicarlo alle regioni italiane. La
metodologia utilizzata consiste in un’analisi sistematica e comparativa delle metodologie
presenti in letteratura e nella validazione dei risultati attraverso la costituzione di 3 focus
group costituiti da 35 stakeholder di diversa provenienza (metodo Delphi). I risultati della
ricerca mostrano come il livello regionale di internazionalizzazione dipenda da driver relativi
a diverse dimensioni di internazionalizzazione: commerciale, produttiva, finanziaria,
tecnologica, imprenditoriale, turistica e socio-culturale. I limiti di questo paper riguardano il
livello di esaustività di driver e indici, scelti attraverso criteri soggettivi. I risultati di questo
lavoro offrono spunti per ulteriori applicazioni ad altri livelli di analisi.
Parole chiave: internazionalizzazione regionale, sistemi
internazionalizzazione, metodologia delphi, research paper
locali,
misure
di
The degree of internationalisation of a particular territory has been extensively studied
over the last ten years. However, literature concerning the creation of a relevant, accessible
and transferable synthetic index of regional internationalisation is almost inexistent. This
paper contributes to bridge these lacks, explaining how each factor of internationalisation
can contribute to regional degree of internationalisation. This paper has a threefold aim:
*
**
***
Past President Institute of International Trade of Ireland
e-mail: [email protected]
All’Autore va attribuito il paragrafo 2 (sottoparagrafi 2.1. e 2.2)
Ordinario di Economia e Direzione delle Imprese - Università di Torino
e-mail:[email protected]
All’Autore vanno attribuiti i paragrafi 1, 3 e 7
Ricercatore di Economia e Direzione delle Imprese - Università di Torino
e-mail: [email protected]
All’Autore vanno attribuiti i paragrafi 4, 5 e 6.
sinergie n. 83/10
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LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE
reviewing the doctrinal contributions concerning the measure of the level of regional
internationalisation, creating a composite regional index of internationalisation and applying
this index to Regional Italian local systems. The methodology used in this paper consists both
of a systematic and comparative analysis of the concepts and methodologies published in
literature and of testing these results by means of three focus groups involving 35
stakeholders of different origins (Delphi methodology). The research findings would show
how regional level of internationalisation depends on drivers of different nature reflecting
different dimensions of internationalisation: commercial, productive, financial, technological,
entrepreneurial, touristic and socio-cultural internationalisation. Main limits of this research
involve the level of exhaustiveness of drivers and relative indices, chosen throughout
subjective criteria. The paper offers scope for further application to other level of analysis.
Key words: regional internationalisation, local systems, measures of internationalisation,
delphi methodology, research paper
1. Introduzione
Il tema del livello di internazionalizzazione dei sistemi territoriali ha assunto un
ruolo di rilievo nel dibattito economico internazionale dell’ultimo decennio. I
contributi dottrinali apportati da Golinelli (2010), Metallo e Pencarelli (1995),
Rullani (2006) e Zucchella et al. (2008) hanno dimostrato come i sistemi territoriali
non presentino lo stesso livello di internazionalizzazione e la stessa capacità di
affrontare le sfide che il nuovo scenario globale quotidianamente propone. Mentre
numerosi studiosi (Tardivo e Viassone, 2009), hanno contribuito ad arricchire il
bagaglio conoscitivo in tema di internazionalizzazione di impresa, la letteratura
relativa alla costituzione di un indicatore sintetico di internazionalizzazione
territoriale rilevante, accessibile e trasferibile ad altre applicazioni è pressoché
inesistente. Gli sporadici tentativi di misura - offerti prevalentemente da Enti
Pubblici e Centri di ricerca - non si focalizzano peraltro sul contributo apportato dai
singoli driver al livello di internazionalizzazione complessivo. Questo paper si
propone di colmare queste lacune, favorendo in tal modo la possibile
implementazione del potenziale regionale di internazionalizzazione. Il paper si pone
un triplice obiettivo:
- effettuare una review esaustiva dei contributi dottrinali esistenti in tema di driver
e differenti dimensioni del livello di internazionalizzazione dei sistemi regionali
e delle principali problematiche concernenti la loro misurazione;
- creare un indice sintetico di internazionalizzazione regionale basato sulla
ponderazione delle differenti dimensioni di internazionalizzazione; l’ottenimento
di un unico numero che sintetizzi una tematica così ricca di sfaccettature, in
grado di facilitare i confronti territoriali con altre regioni e di verificarne
l’andamento nel tempo, è infatti considerato un raggiungimento strettamente
necessario. La costruzione dell’indice è basata su quattro pilastri: ufficialità dei
dati, ripetibilità nel tempo, possibilità di comparazione e semplicità;
- applicare l’indice ai sistemi regionali italiani a fini comparativi, consentendo così
la costruzione di un ranking degli stessi in base al loro livello di
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internazionalizzazione ed esprimendo il loro contributo al livello di
internazionalizzazione nazionale. L’indice permette di identificare una sorta di
benchmarking tra le regioni italiane e può risultare di particolare importanza sia
per i policy makers sia per i potenziali soggetti interessati ad investire in queste
regioni.
2. Apporti teorici
2.1 L’internazionalizzazione regionale
Nell’attuale contesto competitivo i Paesi e le regioni di successo raggiungono
rapidi incrementi di produttività, di output e di esportazioni incrementando il loro
bagaglio conoscitivo e concentrandosi su prodotti avanzati e sofisticati. Molte di
queste regioni beneficiano anche di una popolazione numerosa e consumatori
partecipativi su cui testare il mercato dei loro prodotti prima di commercializzarli
all’estero.
Il vantaggio competitivo a livello di impresa, basato su asset fisici e tecnologici,
è diventato tangibile negli ultimi anni grazie all’ingresso di moltissime nuove
imprese provenienti da Paesi ad economia emergente che competono con le stesse o
con simili tecnologie (Pfeffer, 2002). La dominanza dei costi di transazione, inclusi i
costi di vendita e di negoziazione, sul totale dei costi destinati alla
commercializzazione all’estero, costituisce inoltre una minaccia per molte imprese e
regioni. Sebbene le risorse contribuiscano al vantaggio comparato, è la posizione di
mercato di un’impresa a creare il vantaggio competitivo. Il mix di capacità personali
possedute dai manager, all’origine di certi stili di management, rappresenta
un’occasione unica per la creazione di vantaggio competitivo (Bradley, 2010).
Alcuni stili sono più adatti di altri ad una competizione internazionale di
successo. Alcune tendenze costringono regioni e Paesi ad esaminare come le
capacità personali dei manager, la tecnologia avanzata, lo sfruttamento di risorse e le
conoscenze locali, sviluppate attraverso politiche commerciali e industriali creative,
possano promuovere il benessere economico delle loro regioni. Sempre più
frequentemente il punto critico per molte regioni consiste nel cercare l’effettiva
partecipazione dei governi regionali e nazionali alla definizione del contesto
competitivo in cui competono le loro imprese. Creando un vantaggio di risorse
comparato nella produzione e nello scambio, i governi cercano di promuovere
vantaggi competitivi basati sul coinvolgimento di una specifica nazione in aree
come l’ingegneria elettronica o la biotecnologia. Molti Paesi e governi sostengono
attivamente la creazione di un vantaggio competitivo per le imprese collocate entro i
confini (Bradley, 1985).
Alcuni lo fanno in maniera esplicita: Giappone, Corea, Taiwan, Singapore,
Irlanda e Portogallo ne sono importanti esempi. Un principio economico
fondamentale è che ogni standard di vita nazionale o regionale dipende quasi
interamente dalle sue performance economiche interne e non da come gli stessi
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LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE
sistemi territoriali competono tra di loro. L’incapacità di valutare questo aspetto
conduce a delle vere e proprie guerre commerciali. I Paesi e le regioni, comunque,
non competono tra di loro allo stesso modo con cui Toyota compete con
Volkswagen. Questa distinzione comporta la necessità di separare due importanti
concetti che sono spesso oggetto di confusione - vantaggio comparato, inerente alle
nazioni e vantaggio competitivo, relativo alle imprese (Bradley, 2005).
Germania e Giappone esperimentano vantaggi comparati, laddove Volkswagen e
Toyota cercano vantaggi competitivi. Concentrandosi sul miglioramento di
produttività nazionale/regionale e fornendo R&D, la nazione riduce il prezzo delle
importazioni che può indirettamente alimentare il vantaggio competitivo delle
imprese. Il vantaggio comparato si focalizza sull’efficienza della produzione
nazionale, laddove il vantaggio competitivo enfatizza l’efficienza delle imprese.
Mentre il vantaggio comparato si concentra sulla riduzione di costi e prezzi, il
vantaggio competitivo mette alla prova le politiche di management mirate a fornire
ai consumatori i prodotti e i servizi richiesti (Samli e Jacobs, 1995).
Il punto critico per le imprese è la necessità di cercare congruenza tra le politiche
di scambio e investimento dei governi nazionali e regionali e le strategie
imprenditoriali e settoriali. La competitività per l’impresa si riferisce alla sua
capacità di aumentare i guadagni espandendo le vendite e/o i margini di profitto nel
mercato in cui compete, in modo da difendere la posizione di mercato in un
successivo round competitivo in cui i prodotti e i processi evolvono. La
competitività in questo senso quasi coincide con il concetto delle performance di
profitto a lungo termine delle imprese in relazione ai loro rivali. Un concetto
analogo esiste a livello nazionale/regionale, ma è molto più complicato (Cohen et
al., 1984).
La competitività di una nazione/regione è il livello a cui essa può produrre beni e
servizi che superano il test dei mercati internazionali espandendo simultaneamente il
reddito reale della sua popolazione. La competitività internazionale a livello
nazionale è basata su performance di produttività superiori e capacità dell’economia
di indirizzarsi verso attività ad alta produttività, che possono a loro volta generare
elevati livelli di salario reale. La competitività è associata con crescenti standard di
vita, salute, opportunità di lavoro crescenti e la capacità di un paese di mantenere i
propri obblighi internazionali.
La considerazione chiave è la capacità di un paese di essere all’avanguardia dal
punto di vista tecnologico e commerciale in quei prodotti-mercati in grado di
costituire una quota maggiore del consumo mondiale e valore aggiunto nel futuro e
non solo la capacità di vendere all’estero per mantenere un equilibrio di scambi. È
stato riconosciuto dai governi che, per un ampio numero di imprese manifatturiere, il
vantaggio competitivo può essere relativamente malleabile piuttosto che rigidamente
predeterminato dai finanziamenti nazionali. I governi, attraverso un range di
iniziative di politica pubblica, promuovono la crescita e la produttività a supporto
dell’internazionalizzazione nelle loro giurisdizioni. La chiave per sviluppare il
vantaggio competitivo nell’economia moderna consiste nel possedere un ambiente
in grado di a) creare processi b) creare incentivi di mercato c) creare capacità di
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innovare e migliorare. Secondo Enright (Enright, 1995) le tre condizioni sono tutte
necessarie: processi e incentivi da soli portano a fallimenti competitivi; incentivi e
capacità senza processi portano ad inefficienze mentre processi e capacità senza
incentivi comportano movimenti di massa di persone ed emigrazioni. I Paesi che
sono resource oriented tendono a vedere i mercati e la competizione guidati dalla
mano invisibile come metodo più efficace per sviluppare quelle risorse. Al contrario,
i paesi guidati dal mercato riconoscono un ruolo della mano invisibile del governo
nell’inserimento delle forze di mercato. Questi Paesi forniscono incentivi per
promuovere risparmi e investimenti in certi tipi di settori e scoraggiano il consumo
attraverso pesanti tasse sui salari, promuovono la mobilità di risorse e modificano le
relazioni rischio-rendimento. La promozione di esportazioni mostra come i governi
intervengano per aggiustare la relazione rischio-rendimento in favore delle imprese
locali. I policy maker dovrebbero comprendere che l’assistenza alle esportazioni ha
un miglior impatto solo quando risponde alle necessità delle imprese. Per esempio,
l’utilizzo dell’assistenza all’export che include la fornitura a) di rilevanti
informazioni sui mercati esteri e sulla possibilità di accesso agli stessi, b) di consigli
e servizi di consulenza riguardo ai prodotti e all’adattamento del marketing e c) di
finanze per frequentare e partecipare a fiere, può contribuire in modo rilevante alle
performance delle esportazioni dell’impresa (Sousa e Bradley, 2009).
Molti Paesi orientati alle risorse promuovono anche attivamente lo stabilimento
di nuove industrie e l’attrazione di industrie straniere attraverso stabili agenzie di
investimento interno. Alcuni stati asiatici di successo come Taiwan, South Korea,
Singapore e Hong Kong e Paesi occidentali come Finlandia, Irlanda e Nuova
Zelanda hanno operato sul principio del vantaggio comparato dinamico, ovvero si
sono focalizzate sulla mobilità dei fattori e sulla possibilità di declinare i costi di
lungo termine basati sulla curva di apprendimento e le economie di scala. Questa è
una visione dinamica del vantaggio comparato che si focalizza sull’opportunità di
cambiamento nel tempo. Il significato di un vantaggio comparato dinamico è che la
sfida competitiva proviene da imprese ben gestite situate in Paesi caratterizzati da
una strategia di governo basata sullo sviluppo piuttosto che sul consumo (Scott,
1985). Seguendo i dettami della teoria dinamica del vantaggio comparato ogni
regione ad economia crescente possiede considerevoli gradi di libertà per creare
vantaggi comparati, anche se la libertà è vincolata dal bisogno di incontrare gli
standard competitivi internazionali. Il criterio usato da paesi/regioni per sfruttare le
possibilità di un vantaggio comparato dinamico nella selezione dei settori da
promuovere è spesso descritto come maggior valore aggiunto. I pesanti interventi
dei governi possono guidare verso una rapida crescita produttiva e una base
industriale innovativa. Occorre però sottolineare due pressioni. In primo luogo esiste
la pressione a continuare con politiche di consumo e investimento bilanciate,
favorite da molti paesi orientati all’intervento diretto, in un tentativo di sfruttare il
vantaggio comparato dinamico. In questi paesi la competizione internazionale si è
spostata dall’essere prevalentemente dipendente da mercati/prodotti a bassa intensità
tecnologica a quelli ad elevata intensità tecnologica. Politiche bilanciate di
investimento e consumo conducono verso una situazione di investimenti e consumi
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elevati. Alternativamente, potrebbero esserci pressioni politiche e sociali per
politiche dominate dal consumo. Queste ultime portano ad elevati consumi stagnanti
e bassi investimenti. Inevitabilmente, un trade-off emerge tra situazioni che
riflettono investimenti dinamici e politiche di basso investimento sulle altre.
Sfortunatamente, i governi sono frequentemente incapaci di risolvere questo tradeoff. Riassumendo, il contesto competitivo internazionale è cambiato notevolmente
negli ultimi decenni; di conseguenza, i governi e le imprese hanno dovuto adattare le
loro politiche, oltre ad assicurare la sopravvivenza e la crescita attraverso
l’internazionalizzazione. Le politiche industriali e commerciali dei governi
normalmente influenzano l’allocazione di risorse in settori industriali così da
ottenere cambiamenti strutturali nel mercato del capitale, del lavoro e dei prodotti e
da aiutare i settori nazionali a rispondere alle sfide internazionali indirizzando
questioni economiche e politiche. Esistono diverse politiche di governo: la mano
invisibile opposta al ruolo fortemente interventista del governo. Riconoscere che il
vantaggio competitivo è dinamico e può essere creato ha incoraggiato molti governi
ad assumere un ruolo attivo nello sviluppo di regioni e di imprese locali.
2.2 Le dimensioni chiave di una strategia aziendale internazionale
Una delle principali difficoltà incontrate dalle imprese nel processo di
internazionalizzazione consiste nel fatto che esse devono rispondere ad un contesto
internazionale complesso e sconosciuto per caso o per errore piuttosto che per scelta
strategica di crescita. Nel formulare una strategia, l’impresa deve distinguere tra
obiettivo, motivo della propria esistenza e limiti, individuando altresì cosa essa può
fare al fine di sopravvivere. Più l’obiettivo è focalizzato e dettagliato, più sarà facile
sviluppare una strategia vincente (Bradley, 2005).
L’obiettivo dell’impresa definisce il prodotto o la tecnologia, il mercato di
riferimento, il tipo di posizionamento e i valori guida dell’impresa. Un obiettivo ben
definito dà una stabilità direzionale di lungo termine all’impresa senza forzarla verso
una strategia non realistica. Il successo strategico dipende dall’abilità di
comprendere la cultura e i competitor nel mercato estero, nonché il possesso di
attitudini positive all’interno dell’impresa. Un approccio strategico implica
l’esistenza di risorse impegnate o l’accesso della stessa a nuove risorse che possono
essere dedicate all’internazionalizzazione. Esso comporta il possesso da parte del
management delle capacità di predire il rischio e i ritorni economici con sufficiente
accuratezza e affidabilità per giustificare l’impiego di queste risorse (Mitchell e
Bradley, 1986).
Nel formulare una strategia internazionale l’impresa dovrebbe individuare una
serie di motivi o driver di internazionalizzazione: mercato domestico ridotto o saturo
o migliori opportunità all’estero, accorciamento del ciclo di vita del prodotto e
tecnologico, capacità e risorse in eccesso o competenze uniche dell’impresa,
desiderio di seguire i competitor o i consumatori all’estero, crescita delle aspirazioni
e orientamento internazionale dell’impresa, risposta opportunistica alle richieste
provenienti dall’esterno, background o integrazione forward al fine di ridurre i costi
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e incrementare il controllo. Indipendentemente delle relative motivazioni, l’impresa
può usare una varietà di meccanismi di entrata nei mercati, così offuscando la
distinzione tra il capitale di rischio e le forme contrattuali delle transazioni
internazionali (Bradley, Gannon, 2000). È importante in questo contesto esaminare
le attività di vendita associate con le altre modalità di trasferimento di risorse così
come leasing, joint ventures e altre forme di alleanza strategica e investimenti diretti
esteri. Le imprese che operano con successo nei mercati domestici come US e
Germania frequentemente utilizzano la stessa strategia di entrata nei mercati esteri.
Altre imprese modificano la strategia o utilizzano un approccio differente. La scelta
della strategia di marketing internazionale tende ad essere condizionata dalla
distanza psichica del manager dai mercati esteri (Sousa e Bradley, 2005).
Seguire la stessa strategia nazionale anche all’estero è più facile quando
l’impresa opera con basse unità di costo, avendo raggiunto economie di scala nel
mercato domestico. Di conseguenza è desiderabile un approccio standardizzato
poiché le vendite possono essere maggiori a causa di una consistente immagine di
prodotto tra i differenti mercati geografici. Inoltre, i costi possono essere ridotti da
un amalgamarsi delle attività produttive, passando a location a basso costo senza
sacrificare la qualità e ottenendo economie associate con la formulazione e
l’implementazione di un singolo piano di marketing standardizzato (Walters, 1986).
Secondo i sostenitori della standardizzazione le imprese globali conducono al
ribasso i costi unitari, penetrando così i mercati sul lato del prezzo e contribuendo
all’uscita dei competitor non global dal mercato. “The global corporation operates
with resolute constancy, at low relative cost, as if the entire world, or major regions
of it, were a single entity; it sells the same things in the same way everywhere”
(Levitt, 1983). La scuola di pensiero a favore della differenziazione sostiene che,
poiché molti mercati sono completamente diversi, è necessario adattare il marketing
mix per assicurare l’esistenza di una sufficiente “customizzazione” per soddisfare i
bisogni degli acquirenti in ogni mercato (Quelch e Hoff, 1986).
L’idea che lo stesso prodotto possa essere venduto ovunque con le stesse
modalità ha perso credibilità. Le imprese di prodotti a largo consumo sfruttano le
differenze nazionali. Persino in una categoria di prodotti come la birra, i gusti locali
prevengono la globalizzazione dei brand dominanti.
Per esempio la belga Interbrew Company si definisce “the world’s local brewer”
ed è risaputo che la birra è uno degli ultimi beni di consumo di massa: nove lattine
su dieci di Budweiser sono già consumate in US; circa il 60% di Heineken e il 70%
di Carlsberg sono gustate nell’UE. Inoltre, i brand noti come Coca-Cola e
McDonald’s, fanno concessioni ai gusti locali al fine di avere successo nei mercati
internazionali.
La Coca-Cola ormai non considera più il mercato mondiale delle bibite
analcoliche come unicamente frizzanti. Anche quelli che un tempo erano incalliti
standardiser del mercato dei brand di larga scala riconoscono ora il valore della
differenziazione. L’impresa ha introdotto un range di drink non frizzanti, inclusi i
the, per soddisfare i bisogni dei consumatori nelle diverse parti del mondo,
specialmente in China e India.
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Gli hamburger di McDonald’s sono serviti con salsa teriyaki in Giappone, con
chili in Messico, con la birra in Portogallo e il the è una caratteristica del portafoglio
di prodotti dell’impresa in Francia e ad Hong Kong. Nonostante alcuni bisogni e
interessi dei consumatori siano diventati più omogenei, non è chiaramente
dimostrata l’esistenza di un trend universale. Inoltre la tempistica di entrata sul
mercato e le barriere di mercato consentono ai politici di sviluppare brand locali
forti che a volte formano un antidoto al fascino dei brand internazionali fortemente
aggressivi.
Ovviamente esistono differenze tra i mercati; i mercati ad elevata tecnologia
sono altamente standardizzati, specialmente per prodotti quali le automobili e
l’elettronica di consumo (es. le auto e macchinari in Germania, le macchine
fotografiche e le attrezzature scientifiche in Giappone e i cellulari in Finlandia).
L’abbigliamento dei teenagers e la musica sono altamente standardizzati mentre il
cibo e le bevande in generale sono fortemente legate alla cultura e non
standardizzati, anche se i brand del cibo e delle bevande tendono anch’essi ad
assumere una forma di standardizzazione.
La specificità locale in questi prodotti è altamente desiderata nei mercati esteri.
L’assunto che i consumatori nel mondo siano disposti a sacrificare le loro preferenze
in termini di caratteristiche di prodotto, funzioni e design in cambio di prezzi più
bassi e maggior qualità è messa in discussione dai dati disponibili. Esiste un numero
di mercati “price sensitive”, ma la differenziazione rimane una potente strategia di
marketing (es. la moda spagnola elevata ed accessibile, il cibo italiano e il profumo
francese).
L’impatto della cultura è una considerazione speciale nei mercati internazionali e
sfida i benefici di scala che l’impresa può attendersi. Questo può condurre le
imprese a considerare la relazione tra scala e cultura nei loro mercati di prodotto. In
alcuni business, come quello del divertimento, gli effetti di scala e cultura sono alti
mentre in alcuni servizi ingegneristici e medici entrambi gli effetti sono bassi.
Nell’elettronica di consumo e nei personal computer l’impatto della cultura è basso
ma gli effetti di scala sono significativi. Al contrario, nel cibo e nei servizi medici
legati alla riproduzione umana gli effetti culturali sono forti ma gli effetti di scala
deboli. La strategia di marketing appropriata per ognuna di queste circostanze è
quindi molto diversa così come ognuna richiede una diversa comprensione dei
bisogni dei consumatori di differente nazionalità e cultura.
La difficoltà cresce, in ogni caso, quando sia gli effetti di scala, sia quelli
culturali sono alti. La tentazione per alcune imprese è di comprendere gli effetti di
scala e ignorare gli effetti culturali- decisione alquanto rischiosa. Una collegata ma
distinta dimensione di business internazionale si riferisce all’integrazione. Due tipi
di integrazione -semplice e complessa- devono essere considerati.
Nella semplice integrazione, alcune imprese tengono molte delle loro operations
più sofisticate in casa ma destinano altra produzione ai Paesi a basso costo. Le
multinazionali più piccole sembrano favorire questa strategia: lo sviluppo di prodotti
e il marketing sono realizzati in casa mentre la produzione è collocata in numerose
consociate estere, la cui locazione dipende spesso dai tassi salariali. Le imprese di
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grandi dimensioni collocano le loro attività produttive secondo i dettami del
mercato.
Il decision making è disperso all’interno dell’impresa e la gestione della
conoscenza è complessa, ma l’integrazione di attività sulla base di informazioni tra i
diversi Paesi è un compito stimolante. Molte imprese, specialmente quelle con un
brand molto noto, tentano una complessa integrazione di mercato centralizzando le
decisioni organizzative nelle sedi principali e standardizzando le strategie di
marketing. Nestlé è una ben nota esponente di questo approccio.
Per concludere, le imprese internazionalizzano per superare la competizione
locale e sfruttare i loro vantaggi competitivi in nuovi mercati esteri. Al fine di avere
successo esse adottano strategie competitive multidimensionali idonee alle
complessità del contesto competitivo internazionale.
Nel tentativo di migliorare le performance internazionali l’impresa utilizza una
combinazione di strategie basate sullo sviluppo di prodotti e di mercati e di modalità
di entrata in nuovi mercati al fine di migliorare vendite e profitti. La maggior parte
delle imprese internazionali opera con strategie di business internazionali
differenziate: il punto chiave per l’impresa consiste nell’ottenere e mantenere un
vantaggio competitivo nei mercati in cui opera.
3. I principali indicatori di internazionalizzazione
Nonostante la copiosa letteratura esistente in tema di internazionalizzazione delle
imprese, meno numerosi sono gli studi sull’internazionalizzazione che trovano
applicazione nei sistemi territoriali, in particolar modo con riferimento all’ambito
regionale. Inoltre, addirittura più rari risultano i contributi relativi alla misura del
livello di internazionalizzazione regionale in grado di riflettere il contributo delle
singole province alla determinazione della sua competitività.
In particolar modo la mancanza di un modello complesso di misura
dell’internazionalizzazione è considerato uno dei principali ostacoli al tentativo di
misurare il potenziale di internazionalizzazione di una regione e sperimentare nuovi
metodi per incrementare il livello di internazionalizzazione. Un’analisi dettagliata
dei differenti problemi inerenti la misura del grado di internazionalizzazione
mostrano come esso non possa essere completamente definito attraverso uno o pochi
indicatori. Tra i principali indicatori di internazionalizzazione esistenti - con una
differente composizione - è utile effettuare alcune distinzioni. Con riferimento al
grado di internazionalizzazione di un’impresa molti autori hanno utilizzato semplici
indicatori di misura per la spiegazione di un fenomeno così complesso fallendo nel
tentativo di fornire una perfetta comprensione della capacità dell’impresa di operare
nel contesto internazionale (Cavusgil 1984; Sullivan, 1994).
Sullivan (1994) ha più volte ricordato come l’utilizzo arbitrario delle misure
costituisca una delle cause principali dei risultati contraddittori emersi in tema di
sviluppo del processo di internazionalizzazione. Soltanto tre diversi indicatori
compositi possono essere identificati in letteratura su tale argomento: il
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LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE
transnationality index utilizzato da UNCTAD, creato “... to capture fully the extent
of involvement of TNCs (Transnational Corporations, CD) in the world economy”
(UNCTAD, 1995); il transnational activity spread index, proposto da Ietto-Gillies
(1998) e combinazione di due indici: l’indice UNCTAD pesato dal network spread
index1; il degree of internationalization scale, proposto da Sullivan (1994, 1996) e
sviluppato con un processo bottom-up utilizzando i dati pubblici disponibili.
Sullivan inizia con l’identificazione di nove indicatori relativi a tematiche
strutturali, di performance ed attitudinali; successivamente, utilizzando la item-total
analysis su un campione di 74 MNCs, individua cinque buoni indicatori i quali,
attraverso un’opportuna ponderazione, formano il degree of internationalization
scale.
Numerosi sono i sostenitori della tesi che sostiene come una comprensione
crescente del livello di internazionalizzazione implichi la costruzione di un
framework multidimensionale o di misure compositi. Vi è inoltre un proliferare di
indicatori di internazionalizzazione riferiti unicamente ad aspetti particolari. Tra
questi occorre ricordare:
- DWI (Degree of Workplace Internationalization), un indice multi-criterio per
misurare il livello di internazionalizzazione nei luoghi di lavoro Canadesi
costituito da due parti: una componente di misura osservata e una componente
self reported. La prima è la risultante di due rapporti: vendite estere sul totale
vendite e proprietà estere sul totale proprietà. La seconda componente è invece il
risultato di due scale di misura: l’importanza della competizione internazionale e
dell’espansione in nuovi mercati geografici. L’indice è sviluppato in tre diversi
stadi: nel primo si cerca di assicurare la validità della misura, il secondo esamina
l’affidabilità dell’indice, il terzo scompone l’indice nelle sue componenti
(Walsworth, 2007);
- indice di internazionalizzazione delle Università, che consente di assegnare un
livello di internazionalizzazione ad ogni Istituzione consentendone una
categorizzazione in base al livello di attività. Attraverso questo indice si procede
ad una riesamina dei dati per misurare l’internazionalizzazione sulla base di sei
dimensioni chiave (impegno, offerta accademica, infrastrutture organizzative,
finanziamenti esterni, investimenti istituzionali in facoltà, programmi e studenti
internazionali) e infine è possibile distinguere tra Università molto attive e
università poco attive.
Con riferimento all’internazionalizzazione dei sistemi territoriali due indicatori
recenti devono essere evidenziati: l’indice di internazionalizzazione dei distretti
italiani del “Tessile e abbigliamento”, in cui il valore dell’indice è il rapporto tra
l’occupazione nazionale e la cosiddetta “occupazione prodotta da stranieri” del
distretto (Coro’ e Volpe, 2004); l’indice sintetico di internazionalizzazione del
1
L’indice è la media dei seguenti indici: vendite estere sul totale vendite, asset esteri sul
totale asset, occupazione straniera sul total occupazione, il tutto moltiplicato per il numero
di paesi stranieri in cui un’impresa è presente come proporzione del numero totale di paesi
dove si sono concentrati i FDI, meno uno (il paese di origine).
FRANK BRADLEY - GIUSEPPE TARDIVO - MILENA VIASSONE
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Piemonte: questo indice si compone di due sottocategorie e di sei indici elementari:
l’indice di internazionalizzazione economica, composto a sua volta da propensione
al commercio internazionale di merci e servizi (calcolato come somma delle
importazioni ed esportazioni di beni e servizi rapportati), grado di attrattività degli
investimenti esteri e lavoro straniero, sia autonomo, sia dipendente; l’indice di
internazionalizzazione sociale, anch’esso suddiviso in presenza di popolazione
straniera, turismo internazionale, formazione internazionale.
Questi sporadici tentativi di misura - offerti prevalentemente da Enti Pubblici e
Centri di ricerca - risultano quindi molto sovente parziali, riferiti ad ambiti
particolari o costruiti ad hoc per particolari contesti geografici; essi non si
focalizzano peraltro sul contributo apportato dai singoli driver al livello di
internazionalizzazione complessivo. Questo paper si propone di colmare queste
lacune, favorendo in tal modo la possibile implementazione del potenziale regionale
di internazionalizzazione.
4. Research model
Considerata l’importanza assunta nel dibattito economico internazionale
dell’ultimo decennio dal tema del livello di internazionalizzazione dei sistemi
territoriali e le lacune presenti in letteratura, in particolar modo con riferimento al
livello regionale, il paper vuole rispondere a un importante interrogativo:
D1: Com’è possibile misurare esaustivamente il livello di internazionalizzazione
regionale, evidenziando il contributo apportato da ogni fattore?
La metodologia utilizzata consiste sia in un’analisi sistematica e comparativa dei
concetti e delle metodologie presenti in letteratura, sia nella validazione dei risultati
attraverso la costituzione di tre focus group costituiti da 35 stakeholder di diversa
provenienza (Costruttori di indici di internazionalizzazione, Centri per il Commercio
Estero, Enti pubblici, Accademici e Imprenditori) in tre diverse fasi (validazione dei
driver, validazione degli indici e costruzione di una misura globale del grado di
internazionalizzazione regionale) (metodologia Delphi). Il modello ottenuto
attraverso queste due fasi (review di letteratura e validazione da parte degli
stakeholder) ha evidenziato sette tipologie di variabili in grado di contribuire al
livello di internazionalizzazione di una regione: commerciali, produttive, finanziarie,
tecnologiche, imprenditoriali, turistiche e socio-culturali, a loro volta scomponibili
in diverse sub-variabili. Non è stato rilevato nessun dato mancante e, in ogni caso,
esso sarebbe stato escluso dall’analisi. Il processo di misurazione può essere
suddiviso nelle seguenti fasi:
1. analisi dei driver esistenti in letteratura e degli indicatori di
internazionalizzazione adottati a livello europeo ed extraeuropeo;
2. validazione di un primo framework di driver e indicatori regionali di
internazionalizzazione da parte di stakeholder privilegiati e selezione di un set di
indici basati su tre criteri: rilevanza (livello a cui le statistiche incontrano i
bisogni attuali o potenziali dei consumatori), accessibilità (facilità con cui i dati
LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE
170
risultano accessibili) e trasferibilità (possibilità di trasferire i risultati ad altri
contesti);
3. ponderazione dei driver per mezzo degli stakeholder privilegiati, i quali sono
chiamati a valutare, su 100 punti, la ripartizione ponderata di ciascun driver
basandosi sulla loro esperienza personale. Dato che la somma dei punti deve
corrispondere a 100, si ottiene il contributo personale di ciascun fattore al livello
di internazionalizzazione regionale;
4. formulazione di una opportuna metodologia al fine di assegnare il corretto peso
ad ogni indicatore. Il punteggio assegnato ad ogni driver deve essere ripartito
dagli stakeholder intervistati tra ogni singolo sub-driver. Attraverso l’utilizzo di
SPSS, i sub-driver sono segmentati in 4 classi contenenti la medesima porzione
di popolazione. In questo modo è assegnato un grado di importanza e un
punteggio differente ai sub-driver in base al fatto che il loro valore appartenga
alla classe 1, 2, 3 o 4 (il numero maggiore di punti è assegnato alla classe 4).
Sommando gli indici di ogni singolo sub-driver si ottengono sette indici parziali
che riflettono la misura delle diverse dimensioni di internazionalizzazione. La
somma di questi indici corrisponde all’indicatore del grado di
internazionalizzazione regionale (I.G.I.R.) che varia da 0 a 100 (0-meno
internazionalizzato; 100-maggiormente internazionalizzato);
(1) I.G.I.R= PC+PP+PF+PT+PI+PTU+PSC
dove:
PC= Punteggio variabili commerciali
PP= Punteggio variabili produttive
PF= Punteggio variabili finanziarie
PT= Punteggio variabili tecnologiche
PI= Punteggio variabili imprenditoriali
PTU=Punteggio variabili turistiche
PSC=Punteggio
variabili
socioculturali
Tab. 1: Suddivisione per classi del livello di internazionalizzazione
Punteggio totale I.G.I.R.
0-20
20-40
41-60
61-80
81-100
Livello internazionalizzazione
Scarso
Moderato
Discreto
Buono
Ottimo
Fonte: elaborazione personale
5. applicazione del sistema di misura e dell’I.G.I.R. ai sistemi regionali italiani
utilizzando i dati forniti dai database regionali e nazionali.
Le principali banche dati utilizzate sono UnionCamere, ICE, Istat.
FRANK BRADLEY - GIUSEPPE TARDIVO - MILENA VIASSONE
171
5. Analisi dei risultati
L’indagine mostra come gli stakeholder abbiano confermato le variabili
identificate dalla letteratura introducendone delle nuove ed apportando così un
importante contributo al modello. Il modello finale risulta dunque costituito da sette
macrovariabili comprendenti a loro volta un numero di sub-variabili compreso tra
due e quattro. Gli stakeholder hanno attribuito un punteggio pressoché identico ad
ogni tipologia di variabile attribuendo un numero di punti leggermente maggiore
(15) unicamente nel caso delle variabili commerciali e produttive. Il punteggio di
ogni singola variabile è successivamente stato ripartito equamente tra le diverse subvariabili.
Tab. 2: Ripartizione punteggio tra variabili e sub-variabili
Variabili
Commerciali
Quota import
Punteggio
assegnato
15
3,75
Classi
1=0,9375 2=1,875 3=2,8125 4=
3,75
1=0,9375 2=1,875 3=2,8125 4=
3,75
1=0,9375 2=1,875 3=2,8125 4=
3,75
1=0,9375 2=1,875 3=2,8125 4=
3,75
Quota import-settore viaggi
3,75
Quota export
3,75
Quota export-settore viaggi
3,75
Produttive
IDE netti (media 2004-2008) in Italia (per
regione)
IDE netti italiani all’estero (media 2004-2008)
(per regione)
Finanziarie
Crediti per esportazioni di servizi
Debiti per importazioni di servizi
Tecnologiche
Incassi della BPT
Pagamenti della BPT
Imprenditoriali
% imprenditori stranieri su totale imprenditori
Addetti delle imprese italiane con
partecipazioni estere
Operatori all’esportazione
Turistiche
Turismo in entrata e viaggi internazionali
Quota di mercato regionale sul totale
nazionale
Socio-culturali
% extracomunitari
% stranieri
Permessi di soggiorno
Alunni con cittadinanza non italiana
15
7,5
1=1,875 2=3,75 3=5,625 4=7,5
7,5
1=1,875 2=3,75 3=5,625 4=7,5
Fonte: elaborazione personale
14
7
7
14
7
7
14
5
4,5
1=1,75 2=3,5 3=5,25 4=7
1=1,75 2=3,5 3=5,25 4=7
1=1,75 2=3,5 3=5,25 4=7
1=1,75 2=3,5 3=5,25 4=7
1=1,25 2=2,50 3=3,75 4=5
1=1,125 2=2,25 3=3,375 4=4,5
4,5
14
7
7
1=1,125 2=2,25 3=3,375 4=4,5
1=1,75 2=3,5 3=5,25 4=7
1=1,75 2=3,5 3=5,25 4=7
14
3,5
3,5
3,5
3,5
1=0,875 2=1,75 3=2,625 4=3,5
1=0,875 2=1,75 3=2,625 4=3,5
1=0,875 2=1,75 3=2,625 4=3,5
1=0,875 2=1,75 3=2,625 4=3,5
172
LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE
Dall’elaborazione dei dati con l’utilizzo di SPSS si evidenzia la presenza di
un’unica regione con un ottimo livello di internazionalizzazione (Lombardia, con
98,75 punti) e di una sola regione con un livello “moderato” (Lazio, con 67,31
punti). Seguono Veneto (con 50,94 punti) e Toscana con un discreto livello di
internazionalizzazione (42,25 punti), mentre le restanti 16 regioni presentano un
moderato livello di internazionalizzazione. I valori più ridotti (25 punti) sono
registrati dalle due isole (Sicilia e Sardegna), dalla Puglia e dalla Basilicata.
Tab. 3: Indicatore del grado di internazionalizzazione regionale
Regione
Lombardia
Lazio
Veneto
Toscana
Piemonte
Emilia Romagna
Trentino A.A.
Campania
Abruzzo
Friuli Ven. Giu.
Liguria
Marche
Umbria
Calabria
Molise
Valle d’Aosta
Basilicata
Puglia
Sardegna
Sicilia
IGIR
98,75
67,31
50,94
42,25
38,56
37,50
31,94
29,44
28,75
28,75
27,50
27,50
27,50
26,25
26,25
26,25
25,00
25,00
25,00
25,00
Fonte: elaborazione personale
Con riferimento alle sette macro-variabili prese in considerazione è possibile
osservare come la Lombardia si posizioni sempre in vetta alla classifica, seguita a
ruota dal Lazio, che occupa la seconda posizione in tutti i casi tranne che con
riferimento alle variabili imprenditoriali, in cui è preceduta anche dalla Toscana.
La classifica regionale inerente le variabili commerciali indica quali regioni
maggiormente performanti Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Lazio.
Le variabili produttive e quelle tecnologiche mostrano un sorpasso del Piemonte
che, normalmente relegato ad una quinta posizione nella classifica generale, supera
in questi casi Veneto e Toscana collocandosi al terzo posto.
La stessa regione occupa invece la quarta posizione nella classifica delle variabili
finanziarie preceduta soltanto da Lombardia, Lazio e Veneto. Una classifica
FRANK BRADLEY - GIUSEPPE TARDIVO - MILENA VIASSONE
173
decisamente modificata rispetto a quella finale si presenta con riferimento alle
variabili imprenditoriali; in questo caso la Lombardia è seguita a ruota da Toscana,
Abruzzo e Friuli, mentre il Lazio occupa solamente una quinta posizione, seguito a
sua volta da Piemonte e Veneto.
Con riferimento alle variabili turistiche, dopo l’incontrastata posizione della
Lombardia, la seconda posizione è ricoperta a pari merito da Lazio e Veneto, mentre
soltanto al terzo posto si può trovare la Toscana. Anche l’internazionalizzazione dal
punto di vista socio-culturale presenta alcuni aspetti di originalità: in questo caso la
seconda posizione è occupata da ben cinque regioni: Lazio, Veneto, Toscana, Emilia
Romagna e Piemonte.
6. Discussione dei risultati
I risultati della ricerca dimostrano come il livello regionale di
internazionalizzazione dipenda da driver di differente natura, riflettendo le diverse
dimensioni di internazionalizzazione. Dal lavoro emerge inoltre come il sistema di
misurazione del livello di internazionalizzazione di una regione risulti
prevalentemente basato su sette principali dimensioni e possa essere modificato
anche senza cambiamenti dei propri driver di internazionalizzazione ma unicamente
attraverso variazioni dei driver di internazionalizzazione delle altre regioni. Questo
paper sottolinea una forte divergenza tra le diverse regioni italiane in termini di
internazionalizzazione, con la predominanza assoluta di una sola regione sempre in
vetta alla classifica per tutte le variabili analizzate: la Lombardia, seguita per quasi
tutte le variabili dal Lazio.
Alcune considerazioni devono invece essere avanzate con riferimento alle due
regioni che registrano un discreto livello di internazionalizzazione: Veneto e
Toscana. Mentre la prima, caratterizzata dalla presenza di poli turistici di rilevanza
internazionale, quali Venezia e Verona, si colloca nella classe più elevata con
riferimento alle singole variabili turistiche, la seconda occupa la posizione più alta
per quanto concerne la percentuale di imprenditori stranieri sul totale imprenditori.
Quest’ultima è stata caratterizzata da un indebolimento nel 2008 che ha di fatto
provocato una riduzione della quota regionale sui flussi delle merci in uscita a
livello nazionale, colpendo particolarmente i settori del tessile e delle calzature. Le
rimanenti regioni classificabili come regioni a moderato livello di
internazionalizzazione possono a loro volta essere classificate in cinque diversi
gruppi in base alle peculiarità che le contraddistinguono:
- Regioni caratterizzate da un elevato livello di internazionalizzazione
imprenditoriale e un buon grado di internazionalizzazione commerciale e socioeconomico, in contrapposizione ad una scarsa internazionalizzazione di tipo
finanziario: Piemonte ed Emilia Romagna. Queste due regioni, unitamente a
Lombardia, Lazio, Veneto e Toscana ospitano circa il 70% degli imprenditori
stranieri presenti sul territorio italiano. Con riferimento all’aspetto commerciale
occorre rilevare come le esportazioni piemontesi si concentrino in particolare su
174
LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE
prodotti trasformati e manufatti e mezzi di trasporto, con alcuni elementi di
difficoltà presentati dal settore tessile, dagli articoli in gomma e dal settore degli
strumenti di precisione mentre l’Emilia Romagna presenta un export elevato, in
particolare nei settori dell’abbigliamento, alimentare e manifatturiero. Questa
regione ha mantenuto un tasso di crescita delle esportazioni positivo, sostenendo
un vantaggio comparato superiore alla media italiana nel settore delle
lavorazione di minerali non metalliferi. In particolare è possibile rilevare come in
questa regione sia, in particolare, il distretto delle piastrelle di Sassuolo a
presentare una forte propensione verso i mercati internazionali.
- Regioni ad elevata internazionalizzazione imprenditoriale (con livello
“buono”=3): Abruzzo (con prevalenza di imprenditori svizzeri) e Friuli Venezia
Giulia. In particolar modo occorre sottolineare come l’attrazione di capitali esteri
per la prima sia concentrata prevalentemente nel settore automobilistico e in
quello della carta.
- Regioni discretamente (classe 2) internazionalizzate unicamente in termini di
variabili imprenditoriali: Liguria, Marche, Umbria, Calabria, Molise e Valle
d’Aosta.
- Regioni discretamente internazionalizzate dal punto di vista turistico e
commerciale (solo con riferimento ad import-export di servizi), con valori
insignificanti nelle restanti variabili: Trentino Alto Adige e Campania. In
entrambe le regioni il dato positivo registrato nell’erogazione di servizi è
giustificato dal contributo fornito dal turismo.
- Regioni poco internazionalizzate: Basilicata, Puglia. La prima fornisce, in
termini di internazionalizzazione, un contributo al fatturato complessivo delle
imprese estere partecipate quasi inesistente, a conferma di una limitata attività
nelle operazioni di fusione ed acquisizione. Anche con riferimento al livello di
attrattività la regione presenta valori al di sotto della media nazionale.
Particolarmente colpite sono state le esportazioni regionali nel settore
dell’automotive rivolte verso la Germania, il Regno Unito e la Spagna; su questo
risultato ha inciso pesantemente la strategia di Fiat (che detiene uno dei
principali poli produttivi proprio in questa regione) di delocalizzare una parte del
processo industriale nei paesi dell’Est (es. Polonia). Anche il ruolo della Puglia
in termini di internazionalizzazione rimane molto limitato, nonostante si sia
registrato un incremento del contributo regionale al numero di addetti in imprese
a partecipazione estera operanti in particolar modo nel settore dell’automotive,
della gomma e delle materie plastiche.
Le due isole presentano invece un grado di internazionalizzazione alquanto
modesto su tutte le sette dimensioni, fatta eccezione per le importazioni e le
esportazioni nelle quali registrano valori discreti.
Dai dati precedentemente proposti emerge dunque una forte eterogeneità tra le
regioni italiane; questo dimostra come il grado di internazionalizzazione nazionale
dipenda da pochi sistemi regionali in grado di trainare quelli meno
internazionalizzati.
FRANK BRADLEY - GIUSEPPE TARDIVO - MILENA VIASSONE
175
7. Riflessioni conclusive
Il paper contribuisce ad arricchire la scarsa letteratura in tema di “misura del
livello regionale di internazionalizzazione” non limitandosi a fornire una semplice
misurazione, bensì fornendo una spiegazione al contributo apportato da ogni fattore
al livello di internazionalizzazione regionale.
Questo paper fornisce un set di variabili e misure di internazionalizzazione
regionale e mostra una forte eterogeneità presente tra le regioni italiane
evidenziando come il livello di internazionalizzazione nazionale sia trainato da
pochi sistemi regionali, quali la Lombardia e il Lazio. Alla luce delle precedenti
considerazioni le possibili aree di cambiamento su cui dovrebbero convergere le
strategie di azione delle imprese e i possibili interventi esterni possono essere così
riassunte:
- superamento degli ostacoli inerenti la dimensione ridotta delle imprese italiane,
al fine di poter competere con successo sullo scenario internazionale;
- consolidamento dei mercati tradizionali ed analisi approfondita delle economie
emergenti, in particolar modo quelle dell’area BRIC (Brasile, Russia, Cina e
India), al fine di una -eventualmente parziale- riconversione produttiva mirata
alla green economy;
- una più intensa attività di informazione, di indirizzo e di assistenza nella fase di
start up rivolta all’imprenditoria straniera nelle regioni italiane, spesso ostacolata
dalla difficoltà nel riconoscimento dei titoli di studio ottenuti all’estero e nella
scarsa conoscenza della legislazione italiana inerente il mercato del lavoro;
- sviluppo della capacità di attrarre nuove imprese, nuovi capitali e rendere le
regioni italiane affidabili agli occhi dei grandi investitori internazionali;
- sviluppo di dotazioni e competenze legate alle ICT, al fine di acquisire quel
bagaglio minimo di capacità informatica anche da parte delle imprese di
dimensioni più ridotte, consentendo così la realizzazione di network e
piattaforme digitali, presupposto fondamentale per lo sviluppo di filiere estese su
base internazionale;
- sviluppo dei rapporti tra il sistema finanziario e le PMI, con un più semplice
accesso al credito e una maggiore trasparenza nel rapporto tra imprese e mercati
finanziari al fine di facilitare strategie di internazionalizzazione che sovente
richiedono ingenti investimenti;
- implementazione delle infrastrutture logistiche, con particolare riferimento a
quelle inerenti il trasporto sui flussi da e per la regione, strettamente connesse
alla logistica di approvvigionamento e di distribuzione e a quelle relative alla
gestione attiva delle scorte nei flussi interni alla regione, legata alla logistica
industriale;
- individuazione di strategie di contenimento dei costi di produzione, motivazione
sempre più sovente sottostante al ruolo crescente rivestito dai piccoli investitori
nella diffusione degli investimenti italiani all’estero;
- integrazione delle politiche regionali con quelle nazionali, in particolar modo
per mezzo della condivisione di azioni di sistema.
176
LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE
I risultati di questo studio devono essere analizzati alla luce di due importanti
limiti:
- con riferimento alla scelta delle dimensioni dell’internazionalizzazione regionale
un maggior numero degli stessi avrebbe potuto essere oggetto di analisi ma sono
stati privilegiati quelli sostenuti dalla letteratura e dall’opinione degli esperti;
- con riferimento alla scelta dei sub-driver, non sempre sono stati selezionati i
migliori indicatori e non tutti i suggerimenti degli stakeholder sono stati presi in
considerazione poiché soltanto quelli rispondenti ai criteri di rilevanza,
trasferibilità e accessibilità sono stati inseriti nel modello, al fine di evitare la
costruzione di un indice di internazionalizzazione regionale non facilmente
comparabile con altri sistemi territoriali.
Nonostante le precedenti considerazioni i risultati di questo lavoro offrono spunti
per ulteriori ricerche: l’indice di internazionalizzazione creato può infatti trovare
applicazione, con alcuni aggiustamenti, ad altri livelli di analisi (provinciale, urbano,
distrettuale, sovranazionale).
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LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE