Misurazione del livello di internazionalizzazione delle Regioni italiane
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Misurazione del livello di internazionalizzazione delle Regioni italiane
Misurazione del livello di internazionalizzazione delle Regioni italiane FRANK BRADLEY* GIUSEPPE TARDIVO** MILENA VIASSONE*** Abstract La tematica dell’internazionalizzazione dei sistemi territoriali ha assunto un ruolo di primo piano nel recente dibattito economico internazionale. Tuttavia, la letteratura relativa alla costituzione di un indicatore sintetico di internazionalizzazione regionale rilevante, accessibile e trasferibile ad altre applicazioni risulta pressoché inesistente. Il paper contribuisce a colmare tali lacune, fornendo altresì una spiegazione al contributo apportato da ogni fattore al livello di internazionalizzazione regionale. Il paper si pone un triplice obiettivo: effettuare una review esaustiva dei contributi dottrinali esistenti, creare un indice sintetico di internazionalizzazione regionale e applicarlo alle regioni italiane. La metodologia utilizzata consiste in un’analisi sistematica e comparativa delle metodologie presenti in letteratura e nella validazione dei risultati attraverso la costituzione di 3 focus group costituiti da 35 stakeholder di diversa provenienza (metodo Delphi). I risultati della ricerca mostrano come il livello regionale di internazionalizzazione dipenda da driver relativi a diverse dimensioni di internazionalizzazione: commerciale, produttiva, finanziaria, tecnologica, imprenditoriale, turistica e socio-culturale. I limiti di questo paper riguardano il livello di esaustività di driver e indici, scelti attraverso criteri soggettivi. I risultati di questo lavoro offrono spunti per ulteriori applicazioni ad altri livelli di analisi. Parole chiave: internazionalizzazione regionale, sistemi internazionalizzazione, metodologia delphi, research paper locali, misure di The degree of internationalisation of a particular territory has been extensively studied over the last ten years. However, literature concerning the creation of a relevant, accessible and transferable synthetic index of regional internationalisation is almost inexistent. This paper contributes to bridge these lacks, explaining how each factor of internationalisation can contribute to regional degree of internationalisation. This paper has a threefold aim: * ** *** Past President Institute of International Trade of Ireland e-mail: [email protected] All’Autore va attribuito il paragrafo 2 (sottoparagrafi 2.1. e 2.2) Ordinario di Economia e Direzione delle Imprese - Università di Torino e-mail:[email protected] All’Autore vanno attribuiti i paragrafi 1, 3 e 7 Ricercatore di Economia e Direzione delle Imprese - Università di Torino e-mail: [email protected] All’Autore vanno attribuiti i paragrafi 4, 5 e 6. sinergie n. 83/10 160 LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE reviewing the doctrinal contributions concerning the measure of the level of regional internationalisation, creating a composite regional index of internationalisation and applying this index to Regional Italian local systems. The methodology used in this paper consists both of a systematic and comparative analysis of the concepts and methodologies published in literature and of testing these results by means of three focus groups involving 35 stakeholders of different origins (Delphi methodology). The research findings would show how regional level of internationalisation depends on drivers of different nature reflecting different dimensions of internationalisation: commercial, productive, financial, technological, entrepreneurial, touristic and socio-cultural internationalisation. Main limits of this research involve the level of exhaustiveness of drivers and relative indices, chosen throughout subjective criteria. The paper offers scope for further application to other level of analysis. Key words: regional internationalisation, local systems, measures of internationalisation, delphi methodology, research paper 1. Introduzione Il tema del livello di internazionalizzazione dei sistemi territoriali ha assunto un ruolo di rilievo nel dibattito economico internazionale dell’ultimo decennio. I contributi dottrinali apportati da Golinelli (2010), Metallo e Pencarelli (1995), Rullani (2006) e Zucchella et al. (2008) hanno dimostrato come i sistemi territoriali non presentino lo stesso livello di internazionalizzazione e la stessa capacità di affrontare le sfide che il nuovo scenario globale quotidianamente propone. Mentre numerosi studiosi (Tardivo e Viassone, 2009), hanno contribuito ad arricchire il bagaglio conoscitivo in tema di internazionalizzazione di impresa, la letteratura relativa alla costituzione di un indicatore sintetico di internazionalizzazione territoriale rilevante, accessibile e trasferibile ad altre applicazioni è pressoché inesistente. Gli sporadici tentativi di misura - offerti prevalentemente da Enti Pubblici e Centri di ricerca - non si focalizzano peraltro sul contributo apportato dai singoli driver al livello di internazionalizzazione complessivo. Questo paper si propone di colmare queste lacune, favorendo in tal modo la possibile implementazione del potenziale regionale di internazionalizzazione. Il paper si pone un triplice obiettivo: - effettuare una review esaustiva dei contributi dottrinali esistenti in tema di driver e differenti dimensioni del livello di internazionalizzazione dei sistemi regionali e delle principali problematiche concernenti la loro misurazione; - creare un indice sintetico di internazionalizzazione regionale basato sulla ponderazione delle differenti dimensioni di internazionalizzazione; l’ottenimento di un unico numero che sintetizzi una tematica così ricca di sfaccettature, in grado di facilitare i confronti territoriali con altre regioni e di verificarne l’andamento nel tempo, è infatti considerato un raggiungimento strettamente necessario. La costruzione dell’indice è basata su quattro pilastri: ufficialità dei dati, ripetibilità nel tempo, possibilità di comparazione e semplicità; - applicare l’indice ai sistemi regionali italiani a fini comparativi, consentendo così la costruzione di un ranking degli stessi in base al loro livello di FRANK BRADLEY - GIUSEPPE TARDIVO - MILENA VIASSONE 161 internazionalizzazione ed esprimendo il loro contributo al livello di internazionalizzazione nazionale. L’indice permette di identificare una sorta di benchmarking tra le regioni italiane e può risultare di particolare importanza sia per i policy makers sia per i potenziali soggetti interessati ad investire in queste regioni. 2. Apporti teorici 2.1 L’internazionalizzazione regionale Nell’attuale contesto competitivo i Paesi e le regioni di successo raggiungono rapidi incrementi di produttività, di output e di esportazioni incrementando il loro bagaglio conoscitivo e concentrandosi su prodotti avanzati e sofisticati. Molte di queste regioni beneficiano anche di una popolazione numerosa e consumatori partecipativi su cui testare il mercato dei loro prodotti prima di commercializzarli all’estero. Il vantaggio competitivo a livello di impresa, basato su asset fisici e tecnologici, è diventato tangibile negli ultimi anni grazie all’ingresso di moltissime nuove imprese provenienti da Paesi ad economia emergente che competono con le stesse o con simili tecnologie (Pfeffer, 2002). La dominanza dei costi di transazione, inclusi i costi di vendita e di negoziazione, sul totale dei costi destinati alla commercializzazione all’estero, costituisce inoltre una minaccia per molte imprese e regioni. Sebbene le risorse contribuiscano al vantaggio comparato, è la posizione di mercato di un’impresa a creare il vantaggio competitivo. Il mix di capacità personali possedute dai manager, all’origine di certi stili di management, rappresenta un’occasione unica per la creazione di vantaggio competitivo (Bradley, 2010). Alcuni stili sono più adatti di altri ad una competizione internazionale di successo. Alcune tendenze costringono regioni e Paesi ad esaminare come le capacità personali dei manager, la tecnologia avanzata, lo sfruttamento di risorse e le conoscenze locali, sviluppate attraverso politiche commerciali e industriali creative, possano promuovere il benessere economico delle loro regioni. Sempre più frequentemente il punto critico per molte regioni consiste nel cercare l’effettiva partecipazione dei governi regionali e nazionali alla definizione del contesto competitivo in cui competono le loro imprese. Creando un vantaggio di risorse comparato nella produzione e nello scambio, i governi cercano di promuovere vantaggi competitivi basati sul coinvolgimento di una specifica nazione in aree come l’ingegneria elettronica o la biotecnologia. Molti Paesi e governi sostengono attivamente la creazione di un vantaggio competitivo per le imprese collocate entro i confini (Bradley, 1985). Alcuni lo fanno in maniera esplicita: Giappone, Corea, Taiwan, Singapore, Irlanda e Portogallo ne sono importanti esempi. Un principio economico fondamentale è che ogni standard di vita nazionale o regionale dipende quasi interamente dalle sue performance economiche interne e non da come gli stessi 162 LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE sistemi territoriali competono tra di loro. L’incapacità di valutare questo aspetto conduce a delle vere e proprie guerre commerciali. I Paesi e le regioni, comunque, non competono tra di loro allo stesso modo con cui Toyota compete con Volkswagen. Questa distinzione comporta la necessità di separare due importanti concetti che sono spesso oggetto di confusione - vantaggio comparato, inerente alle nazioni e vantaggio competitivo, relativo alle imprese (Bradley, 2005). Germania e Giappone esperimentano vantaggi comparati, laddove Volkswagen e Toyota cercano vantaggi competitivi. Concentrandosi sul miglioramento di produttività nazionale/regionale e fornendo R&D, la nazione riduce il prezzo delle importazioni che può indirettamente alimentare il vantaggio competitivo delle imprese. Il vantaggio comparato si focalizza sull’efficienza della produzione nazionale, laddove il vantaggio competitivo enfatizza l’efficienza delle imprese. Mentre il vantaggio comparato si concentra sulla riduzione di costi e prezzi, il vantaggio competitivo mette alla prova le politiche di management mirate a fornire ai consumatori i prodotti e i servizi richiesti (Samli e Jacobs, 1995). Il punto critico per le imprese è la necessità di cercare congruenza tra le politiche di scambio e investimento dei governi nazionali e regionali e le strategie imprenditoriali e settoriali. La competitività per l’impresa si riferisce alla sua capacità di aumentare i guadagni espandendo le vendite e/o i margini di profitto nel mercato in cui compete, in modo da difendere la posizione di mercato in un successivo round competitivo in cui i prodotti e i processi evolvono. La competitività in questo senso quasi coincide con il concetto delle performance di profitto a lungo termine delle imprese in relazione ai loro rivali. Un concetto analogo esiste a livello nazionale/regionale, ma è molto più complicato (Cohen et al., 1984). La competitività di una nazione/regione è il livello a cui essa può produrre beni e servizi che superano il test dei mercati internazionali espandendo simultaneamente il reddito reale della sua popolazione. La competitività internazionale a livello nazionale è basata su performance di produttività superiori e capacità dell’economia di indirizzarsi verso attività ad alta produttività, che possono a loro volta generare elevati livelli di salario reale. La competitività è associata con crescenti standard di vita, salute, opportunità di lavoro crescenti e la capacità di un paese di mantenere i propri obblighi internazionali. La considerazione chiave è la capacità di un paese di essere all’avanguardia dal punto di vista tecnologico e commerciale in quei prodotti-mercati in grado di costituire una quota maggiore del consumo mondiale e valore aggiunto nel futuro e non solo la capacità di vendere all’estero per mantenere un equilibrio di scambi. È stato riconosciuto dai governi che, per un ampio numero di imprese manifatturiere, il vantaggio competitivo può essere relativamente malleabile piuttosto che rigidamente predeterminato dai finanziamenti nazionali. I governi, attraverso un range di iniziative di politica pubblica, promuovono la crescita e la produttività a supporto dell’internazionalizzazione nelle loro giurisdizioni. La chiave per sviluppare il vantaggio competitivo nell’economia moderna consiste nel possedere un ambiente in grado di a) creare processi b) creare incentivi di mercato c) creare capacità di FRANK BRADLEY - GIUSEPPE TARDIVO - MILENA VIASSONE 163 innovare e migliorare. Secondo Enright (Enright, 1995) le tre condizioni sono tutte necessarie: processi e incentivi da soli portano a fallimenti competitivi; incentivi e capacità senza processi portano ad inefficienze mentre processi e capacità senza incentivi comportano movimenti di massa di persone ed emigrazioni. I Paesi che sono resource oriented tendono a vedere i mercati e la competizione guidati dalla mano invisibile come metodo più efficace per sviluppare quelle risorse. Al contrario, i paesi guidati dal mercato riconoscono un ruolo della mano invisibile del governo nell’inserimento delle forze di mercato. Questi Paesi forniscono incentivi per promuovere risparmi e investimenti in certi tipi di settori e scoraggiano il consumo attraverso pesanti tasse sui salari, promuovono la mobilità di risorse e modificano le relazioni rischio-rendimento. La promozione di esportazioni mostra come i governi intervengano per aggiustare la relazione rischio-rendimento in favore delle imprese locali. I policy maker dovrebbero comprendere che l’assistenza alle esportazioni ha un miglior impatto solo quando risponde alle necessità delle imprese. Per esempio, l’utilizzo dell’assistenza all’export che include la fornitura a) di rilevanti informazioni sui mercati esteri e sulla possibilità di accesso agli stessi, b) di consigli e servizi di consulenza riguardo ai prodotti e all’adattamento del marketing e c) di finanze per frequentare e partecipare a fiere, può contribuire in modo rilevante alle performance delle esportazioni dell’impresa (Sousa e Bradley, 2009). Molti Paesi orientati alle risorse promuovono anche attivamente lo stabilimento di nuove industrie e l’attrazione di industrie straniere attraverso stabili agenzie di investimento interno. Alcuni stati asiatici di successo come Taiwan, South Korea, Singapore e Hong Kong e Paesi occidentali come Finlandia, Irlanda e Nuova Zelanda hanno operato sul principio del vantaggio comparato dinamico, ovvero si sono focalizzate sulla mobilità dei fattori e sulla possibilità di declinare i costi di lungo termine basati sulla curva di apprendimento e le economie di scala. Questa è una visione dinamica del vantaggio comparato che si focalizza sull’opportunità di cambiamento nel tempo. Il significato di un vantaggio comparato dinamico è che la sfida competitiva proviene da imprese ben gestite situate in Paesi caratterizzati da una strategia di governo basata sullo sviluppo piuttosto che sul consumo (Scott, 1985). Seguendo i dettami della teoria dinamica del vantaggio comparato ogni regione ad economia crescente possiede considerevoli gradi di libertà per creare vantaggi comparati, anche se la libertà è vincolata dal bisogno di incontrare gli standard competitivi internazionali. Il criterio usato da paesi/regioni per sfruttare le possibilità di un vantaggio comparato dinamico nella selezione dei settori da promuovere è spesso descritto come maggior valore aggiunto. I pesanti interventi dei governi possono guidare verso una rapida crescita produttiva e una base industriale innovativa. Occorre però sottolineare due pressioni. In primo luogo esiste la pressione a continuare con politiche di consumo e investimento bilanciate, favorite da molti paesi orientati all’intervento diretto, in un tentativo di sfruttare il vantaggio comparato dinamico. In questi paesi la competizione internazionale si è spostata dall’essere prevalentemente dipendente da mercati/prodotti a bassa intensità tecnologica a quelli ad elevata intensità tecnologica. Politiche bilanciate di investimento e consumo conducono verso una situazione di investimenti e consumi 164 LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE elevati. Alternativamente, potrebbero esserci pressioni politiche e sociali per politiche dominate dal consumo. Queste ultime portano ad elevati consumi stagnanti e bassi investimenti. Inevitabilmente, un trade-off emerge tra situazioni che riflettono investimenti dinamici e politiche di basso investimento sulle altre. Sfortunatamente, i governi sono frequentemente incapaci di risolvere questo tradeoff. Riassumendo, il contesto competitivo internazionale è cambiato notevolmente negli ultimi decenni; di conseguenza, i governi e le imprese hanno dovuto adattare le loro politiche, oltre ad assicurare la sopravvivenza e la crescita attraverso l’internazionalizzazione. Le politiche industriali e commerciali dei governi normalmente influenzano l’allocazione di risorse in settori industriali così da ottenere cambiamenti strutturali nel mercato del capitale, del lavoro e dei prodotti e da aiutare i settori nazionali a rispondere alle sfide internazionali indirizzando questioni economiche e politiche. Esistono diverse politiche di governo: la mano invisibile opposta al ruolo fortemente interventista del governo. Riconoscere che il vantaggio competitivo è dinamico e può essere creato ha incoraggiato molti governi ad assumere un ruolo attivo nello sviluppo di regioni e di imprese locali. 2.2 Le dimensioni chiave di una strategia aziendale internazionale Una delle principali difficoltà incontrate dalle imprese nel processo di internazionalizzazione consiste nel fatto che esse devono rispondere ad un contesto internazionale complesso e sconosciuto per caso o per errore piuttosto che per scelta strategica di crescita. Nel formulare una strategia, l’impresa deve distinguere tra obiettivo, motivo della propria esistenza e limiti, individuando altresì cosa essa può fare al fine di sopravvivere. Più l’obiettivo è focalizzato e dettagliato, più sarà facile sviluppare una strategia vincente (Bradley, 2005). L’obiettivo dell’impresa definisce il prodotto o la tecnologia, il mercato di riferimento, il tipo di posizionamento e i valori guida dell’impresa. Un obiettivo ben definito dà una stabilità direzionale di lungo termine all’impresa senza forzarla verso una strategia non realistica. Il successo strategico dipende dall’abilità di comprendere la cultura e i competitor nel mercato estero, nonché il possesso di attitudini positive all’interno dell’impresa. Un approccio strategico implica l’esistenza di risorse impegnate o l’accesso della stessa a nuove risorse che possono essere dedicate all’internazionalizzazione. Esso comporta il possesso da parte del management delle capacità di predire il rischio e i ritorni economici con sufficiente accuratezza e affidabilità per giustificare l’impiego di queste risorse (Mitchell e Bradley, 1986). Nel formulare una strategia internazionale l’impresa dovrebbe individuare una serie di motivi o driver di internazionalizzazione: mercato domestico ridotto o saturo o migliori opportunità all’estero, accorciamento del ciclo di vita del prodotto e tecnologico, capacità e risorse in eccesso o competenze uniche dell’impresa, desiderio di seguire i competitor o i consumatori all’estero, crescita delle aspirazioni e orientamento internazionale dell’impresa, risposta opportunistica alle richieste provenienti dall’esterno, background o integrazione forward al fine di ridurre i costi FRANK BRADLEY - GIUSEPPE TARDIVO - MILENA VIASSONE 165 e incrementare il controllo. Indipendentemente delle relative motivazioni, l’impresa può usare una varietà di meccanismi di entrata nei mercati, così offuscando la distinzione tra il capitale di rischio e le forme contrattuali delle transazioni internazionali (Bradley, Gannon, 2000). È importante in questo contesto esaminare le attività di vendita associate con le altre modalità di trasferimento di risorse così come leasing, joint ventures e altre forme di alleanza strategica e investimenti diretti esteri. Le imprese che operano con successo nei mercati domestici come US e Germania frequentemente utilizzano la stessa strategia di entrata nei mercati esteri. Altre imprese modificano la strategia o utilizzano un approccio differente. La scelta della strategia di marketing internazionale tende ad essere condizionata dalla distanza psichica del manager dai mercati esteri (Sousa e Bradley, 2005). Seguire la stessa strategia nazionale anche all’estero è più facile quando l’impresa opera con basse unità di costo, avendo raggiunto economie di scala nel mercato domestico. Di conseguenza è desiderabile un approccio standardizzato poiché le vendite possono essere maggiori a causa di una consistente immagine di prodotto tra i differenti mercati geografici. Inoltre, i costi possono essere ridotti da un amalgamarsi delle attività produttive, passando a location a basso costo senza sacrificare la qualità e ottenendo economie associate con la formulazione e l’implementazione di un singolo piano di marketing standardizzato (Walters, 1986). Secondo i sostenitori della standardizzazione le imprese globali conducono al ribasso i costi unitari, penetrando così i mercati sul lato del prezzo e contribuendo all’uscita dei competitor non global dal mercato. “The global corporation operates with resolute constancy, at low relative cost, as if the entire world, or major regions of it, were a single entity; it sells the same things in the same way everywhere” (Levitt, 1983). La scuola di pensiero a favore della differenziazione sostiene che, poiché molti mercati sono completamente diversi, è necessario adattare il marketing mix per assicurare l’esistenza di una sufficiente “customizzazione” per soddisfare i bisogni degli acquirenti in ogni mercato (Quelch e Hoff, 1986). L’idea che lo stesso prodotto possa essere venduto ovunque con le stesse modalità ha perso credibilità. Le imprese di prodotti a largo consumo sfruttano le differenze nazionali. Persino in una categoria di prodotti come la birra, i gusti locali prevengono la globalizzazione dei brand dominanti. Per esempio la belga Interbrew Company si definisce “the world’s local brewer” ed è risaputo che la birra è uno degli ultimi beni di consumo di massa: nove lattine su dieci di Budweiser sono già consumate in US; circa il 60% di Heineken e il 70% di Carlsberg sono gustate nell’UE. Inoltre, i brand noti come Coca-Cola e McDonald’s, fanno concessioni ai gusti locali al fine di avere successo nei mercati internazionali. La Coca-Cola ormai non considera più il mercato mondiale delle bibite analcoliche come unicamente frizzanti. Anche quelli che un tempo erano incalliti standardiser del mercato dei brand di larga scala riconoscono ora il valore della differenziazione. L’impresa ha introdotto un range di drink non frizzanti, inclusi i the, per soddisfare i bisogni dei consumatori nelle diverse parti del mondo, specialmente in China e India. 166 LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE Gli hamburger di McDonald’s sono serviti con salsa teriyaki in Giappone, con chili in Messico, con la birra in Portogallo e il the è una caratteristica del portafoglio di prodotti dell’impresa in Francia e ad Hong Kong. Nonostante alcuni bisogni e interessi dei consumatori siano diventati più omogenei, non è chiaramente dimostrata l’esistenza di un trend universale. Inoltre la tempistica di entrata sul mercato e le barriere di mercato consentono ai politici di sviluppare brand locali forti che a volte formano un antidoto al fascino dei brand internazionali fortemente aggressivi. Ovviamente esistono differenze tra i mercati; i mercati ad elevata tecnologia sono altamente standardizzati, specialmente per prodotti quali le automobili e l’elettronica di consumo (es. le auto e macchinari in Germania, le macchine fotografiche e le attrezzature scientifiche in Giappone e i cellulari in Finlandia). L’abbigliamento dei teenagers e la musica sono altamente standardizzati mentre il cibo e le bevande in generale sono fortemente legate alla cultura e non standardizzati, anche se i brand del cibo e delle bevande tendono anch’essi ad assumere una forma di standardizzazione. La specificità locale in questi prodotti è altamente desiderata nei mercati esteri. L’assunto che i consumatori nel mondo siano disposti a sacrificare le loro preferenze in termini di caratteristiche di prodotto, funzioni e design in cambio di prezzi più bassi e maggior qualità è messa in discussione dai dati disponibili. Esiste un numero di mercati “price sensitive”, ma la differenziazione rimane una potente strategia di marketing (es. la moda spagnola elevata ed accessibile, il cibo italiano e il profumo francese). L’impatto della cultura è una considerazione speciale nei mercati internazionali e sfida i benefici di scala che l’impresa può attendersi. Questo può condurre le imprese a considerare la relazione tra scala e cultura nei loro mercati di prodotto. In alcuni business, come quello del divertimento, gli effetti di scala e cultura sono alti mentre in alcuni servizi ingegneristici e medici entrambi gli effetti sono bassi. Nell’elettronica di consumo e nei personal computer l’impatto della cultura è basso ma gli effetti di scala sono significativi. Al contrario, nel cibo e nei servizi medici legati alla riproduzione umana gli effetti culturali sono forti ma gli effetti di scala deboli. La strategia di marketing appropriata per ognuna di queste circostanze è quindi molto diversa così come ognuna richiede una diversa comprensione dei bisogni dei consumatori di differente nazionalità e cultura. La difficoltà cresce, in ogni caso, quando sia gli effetti di scala, sia quelli culturali sono alti. La tentazione per alcune imprese è di comprendere gli effetti di scala e ignorare gli effetti culturali- decisione alquanto rischiosa. Una collegata ma distinta dimensione di business internazionale si riferisce all’integrazione. Due tipi di integrazione -semplice e complessa- devono essere considerati. Nella semplice integrazione, alcune imprese tengono molte delle loro operations più sofisticate in casa ma destinano altra produzione ai Paesi a basso costo. Le multinazionali più piccole sembrano favorire questa strategia: lo sviluppo di prodotti e il marketing sono realizzati in casa mentre la produzione è collocata in numerose consociate estere, la cui locazione dipende spesso dai tassi salariali. Le imprese di FRANK BRADLEY - GIUSEPPE TARDIVO - MILENA VIASSONE 167 grandi dimensioni collocano le loro attività produttive secondo i dettami del mercato. Il decision making è disperso all’interno dell’impresa e la gestione della conoscenza è complessa, ma l’integrazione di attività sulla base di informazioni tra i diversi Paesi è un compito stimolante. Molte imprese, specialmente quelle con un brand molto noto, tentano una complessa integrazione di mercato centralizzando le decisioni organizzative nelle sedi principali e standardizzando le strategie di marketing. Nestlé è una ben nota esponente di questo approccio. Per concludere, le imprese internazionalizzano per superare la competizione locale e sfruttare i loro vantaggi competitivi in nuovi mercati esteri. Al fine di avere successo esse adottano strategie competitive multidimensionali idonee alle complessità del contesto competitivo internazionale. Nel tentativo di migliorare le performance internazionali l’impresa utilizza una combinazione di strategie basate sullo sviluppo di prodotti e di mercati e di modalità di entrata in nuovi mercati al fine di migliorare vendite e profitti. La maggior parte delle imprese internazionali opera con strategie di business internazionali differenziate: il punto chiave per l’impresa consiste nell’ottenere e mantenere un vantaggio competitivo nei mercati in cui opera. 3. I principali indicatori di internazionalizzazione Nonostante la copiosa letteratura esistente in tema di internazionalizzazione delle imprese, meno numerosi sono gli studi sull’internazionalizzazione che trovano applicazione nei sistemi territoriali, in particolar modo con riferimento all’ambito regionale. Inoltre, addirittura più rari risultano i contributi relativi alla misura del livello di internazionalizzazione regionale in grado di riflettere il contributo delle singole province alla determinazione della sua competitività. In particolar modo la mancanza di un modello complesso di misura dell’internazionalizzazione è considerato uno dei principali ostacoli al tentativo di misurare il potenziale di internazionalizzazione di una regione e sperimentare nuovi metodi per incrementare il livello di internazionalizzazione. Un’analisi dettagliata dei differenti problemi inerenti la misura del grado di internazionalizzazione mostrano come esso non possa essere completamente definito attraverso uno o pochi indicatori. Tra i principali indicatori di internazionalizzazione esistenti - con una differente composizione - è utile effettuare alcune distinzioni. Con riferimento al grado di internazionalizzazione di un’impresa molti autori hanno utilizzato semplici indicatori di misura per la spiegazione di un fenomeno così complesso fallendo nel tentativo di fornire una perfetta comprensione della capacità dell’impresa di operare nel contesto internazionale (Cavusgil 1984; Sullivan, 1994). Sullivan (1994) ha più volte ricordato come l’utilizzo arbitrario delle misure costituisca una delle cause principali dei risultati contraddittori emersi in tema di sviluppo del processo di internazionalizzazione. Soltanto tre diversi indicatori compositi possono essere identificati in letteratura su tale argomento: il 168 LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE transnationality index utilizzato da UNCTAD, creato “... to capture fully the extent of involvement of TNCs (Transnational Corporations, CD) in the world economy” (UNCTAD, 1995); il transnational activity spread index, proposto da Ietto-Gillies (1998) e combinazione di due indici: l’indice UNCTAD pesato dal network spread index1; il degree of internationalization scale, proposto da Sullivan (1994, 1996) e sviluppato con un processo bottom-up utilizzando i dati pubblici disponibili. Sullivan inizia con l’identificazione di nove indicatori relativi a tematiche strutturali, di performance ed attitudinali; successivamente, utilizzando la item-total analysis su un campione di 74 MNCs, individua cinque buoni indicatori i quali, attraverso un’opportuna ponderazione, formano il degree of internationalization scale. Numerosi sono i sostenitori della tesi che sostiene come una comprensione crescente del livello di internazionalizzazione implichi la costruzione di un framework multidimensionale o di misure compositi. Vi è inoltre un proliferare di indicatori di internazionalizzazione riferiti unicamente ad aspetti particolari. Tra questi occorre ricordare: - DWI (Degree of Workplace Internationalization), un indice multi-criterio per misurare il livello di internazionalizzazione nei luoghi di lavoro Canadesi costituito da due parti: una componente di misura osservata e una componente self reported. La prima è la risultante di due rapporti: vendite estere sul totale vendite e proprietà estere sul totale proprietà. La seconda componente è invece il risultato di due scale di misura: l’importanza della competizione internazionale e dell’espansione in nuovi mercati geografici. L’indice è sviluppato in tre diversi stadi: nel primo si cerca di assicurare la validità della misura, il secondo esamina l’affidabilità dell’indice, il terzo scompone l’indice nelle sue componenti (Walsworth, 2007); - indice di internazionalizzazione delle Università, che consente di assegnare un livello di internazionalizzazione ad ogni Istituzione consentendone una categorizzazione in base al livello di attività. Attraverso questo indice si procede ad una riesamina dei dati per misurare l’internazionalizzazione sulla base di sei dimensioni chiave (impegno, offerta accademica, infrastrutture organizzative, finanziamenti esterni, investimenti istituzionali in facoltà, programmi e studenti internazionali) e infine è possibile distinguere tra Università molto attive e università poco attive. Con riferimento all’internazionalizzazione dei sistemi territoriali due indicatori recenti devono essere evidenziati: l’indice di internazionalizzazione dei distretti italiani del “Tessile e abbigliamento”, in cui il valore dell’indice è il rapporto tra l’occupazione nazionale e la cosiddetta “occupazione prodotta da stranieri” del distretto (Coro’ e Volpe, 2004); l’indice sintetico di internazionalizzazione del 1 L’indice è la media dei seguenti indici: vendite estere sul totale vendite, asset esteri sul totale asset, occupazione straniera sul total occupazione, il tutto moltiplicato per il numero di paesi stranieri in cui un’impresa è presente come proporzione del numero totale di paesi dove si sono concentrati i FDI, meno uno (il paese di origine). FRANK BRADLEY - GIUSEPPE TARDIVO - MILENA VIASSONE 169 Piemonte: questo indice si compone di due sottocategorie e di sei indici elementari: l’indice di internazionalizzazione economica, composto a sua volta da propensione al commercio internazionale di merci e servizi (calcolato come somma delle importazioni ed esportazioni di beni e servizi rapportati), grado di attrattività degli investimenti esteri e lavoro straniero, sia autonomo, sia dipendente; l’indice di internazionalizzazione sociale, anch’esso suddiviso in presenza di popolazione straniera, turismo internazionale, formazione internazionale. Questi sporadici tentativi di misura - offerti prevalentemente da Enti Pubblici e Centri di ricerca - risultano quindi molto sovente parziali, riferiti ad ambiti particolari o costruiti ad hoc per particolari contesti geografici; essi non si focalizzano peraltro sul contributo apportato dai singoli driver al livello di internazionalizzazione complessivo. Questo paper si propone di colmare queste lacune, favorendo in tal modo la possibile implementazione del potenziale regionale di internazionalizzazione. 4. Research model Considerata l’importanza assunta nel dibattito economico internazionale dell’ultimo decennio dal tema del livello di internazionalizzazione dei sistemi territoriali e le lacune presenti in letteratura, in particolar modo con riferimento al livello regionale, il paper vuole rispondere a un importante interrogativo: D1: Com’è possibile misurare esaustivamente il livello di internazionalizzazione regionale, evidenziando il contributo apportato da ogni fattore? La metodologia utilizzata consiste sia in un’analisi sistematica e comparativa dei concetti e delle metodologie presenti in letteratura, sia nella validazione dei risultati attraverso la costituzione di tre focus group costituiti da 35 stakeholder di diversa provenienza (Costruttori di indici di internazionalizzazione, Centri per il Commercio Estero, Enti pubblici, Accademici e Imprenditori) in tre diverse fasi (validazione dei driver, validazione degli indici e costruzione di una misura globale del grado di internazionalizzazione regionale) (metodologia Delphi). Il modello ottenuto attraverso queste due fasi (review di letteratura e validazione da parte degli stakeholder) ha evidenziato sette tipologie di variabili in grado di contribuire al livello di internazionalizzazione di una regione: commerciali, produttive, finanziarie, tecnologiche, imprenditoriali, turistiche e socio-culturali, a loro volta scomponibili in diverse sub-variabili. Non è stato rilevato nessun dato mancante e, in ogni caso, esso sarebbe stato escluso dall’analisi. Il processo di misurazione può essere suddiviso nelle seguenti fasi: 1. analisi dei driver esistenti in letteratura e degli indicatori di internazionalizzazione adottati a livello europeo ed extraeuropeo; 2. validazione di un primo framework di driver e indicatori regionali di internazionalizzazione da parte di stakeholder privilegiati e selezione di un set di indici basati su tre criteri: rilevanza (livello a cui le statistiche incontrano i bisogni attuali o potenziali dei consumatori), accessibilità (facilità con cui i dati LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE 170 risultano accessibili) e trasferibilità (possibilità di trasferire i risultati ad altri contesti); 3. ponderazione dei driver per mezzo degli stakeholder privilegiati, i quali sono chiamati a valutare, su 100 punti, la ripartizione ponderata di ciascun driver basandosi sulla loro esperienza personale. Dato che la somma dei punti deve corrispondere a 100, si ottiene il contributo personale di ciascun fattore al livello di internazionalizzazione regionale; 4. formulazione di una opportuna metodologia al fine di assegnare il corretto peso ad ogni indicatore. Il punteggio assegnato ad ogni driver deve essere ripartito dagli stakeholder intervistati tra ogni singolo sub-driver. Attraverso l’utilizzo di SPSS, i sub-driver sono segmentati in 4 classi contenenti la medesima porzione di popolazione. In questo modo è assegnato un grado di importanza e un punteggio differente ai sub-driver in base al fatto che il loro valore appartenga alla classe 1, 2, 3 o 4 (il numero maggiore di punti è assegnato alla classe 4). Sommando gli indici di ogni singolo sub-driver si ottengono sette indici parziali che riflettono la misura delle diverse dimensioni di internazionalizzazione. La somma di questi indici corrisponde all’indicatore del grado di internazionalizzazione regionale (I.G.I.R.) che varia da 0 a 100 (0-meno internazionalizzato; 100-maggiormente internazionalizzato); (1) I.G.I.R= PC+PP+PF+PT+PI+PTU+PSC dove: PC= Punteggio variabili commerciali PP= Punteggio variabili produttive PF= Punteggio variabili finanziarie PT= Punteggio variabili tecnologiche PI= Punteggio variabili imprenditoriali PTU=Punteggio variabili turistiche PSC=Punteggio variabili socioculturali Tab. 1: Suddivisione per classi del livello di internazionalizzazione Punteggio totale I.G.I.R. 0-20 20-40 41-60 61-80 81-100 Livello internazionalizzazione Scarso Moderato Discreto Buono Ottimo Fonte: elaborazione personale 5. applicazione del sistema di misura e dell’I.G.I.R. ai sistemi regionali italiani utilizzando i dati forniti dai database regionali e nazionali. Le principali banche dati utilizzate sono UnionCamere, ICE, Istat. FRANK BRADLEY - GIUSEPPE TARDIVO - MILENA VIASSONE 171 5. Analisi dei risultati L’indagine mostra come gli stakeholder abbiano confermato le variabili identificate dalla letteratura introducendone delle nuove ed apportando così un importante contributo al modello. Il modello finale risulta dunque costituito da sette macrovariabili comprendenti a loro volta un numero di sub-variabili compreso tra due e quattro. Gli stakeholder hanno attribuito un punteggio pressoché identico ad ogni tipologia di variabile attribuendo un numero di punti leggermente maggiore (15) unicamente nel caso delle variabili commerciali e produttive. Il punteggio di ogni singola variabile è successivamente stato ripartito equamente tra le diverse subvariabili. Tab. 2: Ripartizione punteggio tra variabili e sub-variabili Variabili Commerciali Quota import Punteggio assegnato 15 3,75 Classi 1=0,9375 2=1,875 3=2,8125 4= 3,75 1=0,9375 2=1,875 3=2,8125 4= 3,75 1=0,9375 2=1,875 3=2,8125 4= 3,75 1=0,9375 2=1,875 3=2,8125 4= 3,75 Quota import-settore viaggi 3,75 Quota export 3,75 Quota export-settore viaggi 3,75 Produttive IDE netti (media 2004-2008) in Italia (per regione) IDE netti italiani all’estero (media 2004-2008) (per regione) Finanziarie Crediti per esportazioni di servizi Debiti per importazioni di servizi Tecnologiche Incassi della BPT Pagamenti della BPT Imprenditoriali % imprenditori stranieri su totale imprenditori Addetti delle imprese italiane con partecipazioni estere Operatori all’esportazione Turistiche Turismo in entrata e viaggi internazionali Quota di mercato regionale sul totale nazionale Socio-culturali % extracomunitari % stranieri Permessi di soggiorno Alunni con cittadinanza non italiana 15 7,5 1=1,875 2=3,75 3=5,625 4=7,5 7,5 1=1,875 2=3,75 3=5,625 4=7,5 Fonte: elaborazione personale 14 7 7 14 7 7 14 5 4,5 1=1,75 2=3,5 3=5,25 4=7 1=1,75 2=3,5 3=5,25 4=7 1=1,75 2=3,5 3=5,25 4=7 1=1,75 2=3,5 3=5,25 4=7 1=1,25 2=2,50 3=3,75 4=5 1=1,125 2=2,25 3=3,375 4=4,5 4,5 14 7 7 1=1,125 2=2,25 3=3,375 4=4,5 1=1,75 2=3,5 3=5,25 4=7 1=1,75 2=3,5 3=5,25 4=7 14 3,5 3,5 3,5 3,5 1=0,875 2=1,75 3=2,625 4=3,5 1=0,875 2=1,75 3=2,625 4=3,5 1=0,875 2=1,75 3=2,625 4=3,5 1=0,875 2=1,75 3=2,625 4=3,5 172 LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE Dall’elaborazione dei dati con l’utilizzo di SPSS si evidenzia la presenza di un’unica regione con un ottimo livello di internazionalizzazione (Lombardia, con 98,75 punti) e di una sola regione con un livello “moderato” (Lazio, con 67,31 punti). Seguono Veneto (con 50,94 punti) e Toscana con un discreto livello di internazionalizzazione (42,25 punti), mentre le restanti 16 regioni presentano un moderato livello di internazionalizzazione. I valori più ridotti (25 punti) sono registrati dalle due isole (Sicilia e Sardegna), dalla Puglia e dalla Basilicata. Tab. 3: Indicatore del grado di internazionalizzazione regionale Regione Lombardia Lazio Veneto Toscana Piemonte Emilia Romagna Trentino A.A. Campania Abruzzo Friuli Ven. Giu. Liguria Marche Umbria Calabria Molise Valle d’Aosta Basilicata Puglia Sardegna Sicilia IGIR 98,75 67,31 50,94 42,25 38,56 37,50 31,94 29,44 28,75 28,75 27,50 27,50 27,50 26,25 26,25 26,25 25,00 25,00 25,00 25,00 Fonte: elaborazione personale Con riferimento alle sette macro-variabili prese in considerazione è possibile osservare come la Lombardia si posizioni sempre in vetta alla classifica, seguita a ruota dal Lazio, che occupa la seconda posizione in tutti i casi tranne che con riferimento alle variabili imprenditoriali, in cui è preceduta anche dalla Toscana. La classifica regionale inerente le variabili commerciali indica quali regioni maggiormente performanti Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Lazio. Le variabili produttive e quelle tecnologiche mostrano un sorpasso del Piemonte che, normalmente relegato ad una quinta posizione nella classifica generale, supera in questi casi Veneto e Toscana collocandosi al terzo posto. La stessa regione occupa invece la quarta posizione nella classifica delle variabili finanziarie preceduta soltanto da Lombardia, Lazio e Veneto. Una classifica FRANK BRADLEY - GIUSEPPE TARDIVO - MILENA VIASSONE 173 decisamente modificata rispetto a quella finale si presenta con riferimento alle variabili imprenditoriali; in questo caso la Lombardia è seguita a ruota da Toscana, Abruzzo e Friuli, mentre il Lazio occupa solamente una quinta posizione, seguito a sua volta da Piemonte e Veneto. Con riferimento alle variabili turistiche, dopo l’incontrastata posizione della Lombardia, la seconda posizione è ricoperta a pari merito da Lazio e Veneto, mentre soltanto al terzo posto si può trovare la Toscana. Anche l’internazionalizzazione dal punto di vista socio-culturale presenta alcuni aspetti di originalità: in questo caso la seconda posizione è occupata da ben cinque regioni: Lazio, Veneto, Toscana, Emilia Romagna e Piemonte. 6. Discussione dei risultati I risultati della ricerca dimostrano come il livello regionale di internazionalizzazione dipenda da driver di differente natura, riflettendo le diverse dimensioni di internazionalizzazione. Dal lavoro emerge inoltre come il sistema di misurazione del livello di internazionalizzazione di una regione risulti prevalentemente basato su sette principali dimensioni e possa essere modificato anche senza cambiamenti dei propri driver di internazionalizzazione ma unicamente attraverso variazioni dei driver di internazionalizzazione delle altre regioni. Questo paper sottolinea una forte divergenza tra le diverse regioni italiane in termini di internazionalizzazione, con la predominanza assoluta di una sola regione sempre in vetta alla classifica per tutte le variabili analizzate: la Lombardia, seguita per quasi tutte le variabili dal Lazio. Alcune considerazioni devono invece essere avanzate con riferimento alle due regioni che registrano un discreto livello di internazionalizzazione: Veneto e Toscana. Mentre la prima, caratterizzata dalla presenza di poli turistici di rilevanza internazionale, quali Venezia e Verona, si colloca nella classe più elevata con riferimento alle singole variabili turistiche, la seconda occupa la posizione più alta per quanto concerne la percentuale di imprenditori stranieri sul totale imprenditori. Quest’ultima è stata caratterizzata da un indebolimento nel 2008 che ha di fatto provocato una riduzione della quota regionale sui flussi delle merci in uscita a livello nazionale, colpendo particolarmente i settori del tessile e delle calzature. Le rimanenti regioni classificabili come regioni a moderato livello di internazionalizzazione possono a loro volta essere classificate in cinque diversi gruppi in base alle peculiarità che le contraddistinguono: - Regioni caratterizzate da un elevato livello di internazionalizzazione imprenditoriale e un buon grado di internazionalizzazione commerciale e socioeconomico, in contrapposizione ad una scarsa internazionalizzazione di tipo finanziario: Piemonte ed Emilia Romagna. Queste due regioni, unitamente a Lombardia, Lazio, Veneto e Toscana ospitano circa il 70% degli imprenditori stranieri presenti sul territorio italiano. Con riferimento all’aspetto commerciale occorre rilevare come le esportazioni piemontesi si concentrino in particolare su 174 LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE prodotti trasformati e manufatti e mezzi di trasporto, con alcuni elementi di difficoltà presentati dal settore tessile, dagli articoli in gomma e dal settore degli strumenti di precisione mentre l’Emilia Romagna presenta un export elevato, in particolare nei settori dell’abbigliamento, alimentare e manifatturiero. Questa regione ha mantenuto un tasso di crescita delle esportazioni positivo, sostenendo un vantaggio comparato superiore alla media italiana nel settore delle lavorazione di minerali non metalliferi. In particolare è possibile rilevare come in questa regione sia, in particolare, il distretto delle piastrelle di Sassuolo a presentare una forte propensione verso i mercati internazionali. - Regioni ad elevata internazionalizzazione imprenditoriale (con livello “buono”=3): Abruzzo (con prevalenza di imprenditori svizzeri) e Friuli Venezia Giulia. In particolar modo occorre sottolineare come l’attrazione di capitali esteri per la prima sia concentrata prevalentemente nel settore automobilistico e in quello della carta. - Regioni discretamente (classe 2) internazionalizzate unicamente in termini di variabili imprenditoriali: Liguria, Marche, Umbria, Calabria, Molise e Valle d’Aosta. - Regioni discretamente internazionalizzate dal punto di vista turistico e commerciale (solo con riferimento ad import-export di servizi), con valori insignificanti nelle restanti variabili: Trentino Alto Adige e Campania. In entrambe le regioni il dato positivo registrato nell’erogazione di servizi è giustificato dal contributo fornito dal turismo. - Regioni poco internazionalizzate: Basilicata, Puglia. La prima fornisce, in termini di internazionalizzazione, un contributo al fatturato complessivo delle imprese estere partecipate quasi inesistente, a conferma di una limitata attività nelle operazioni di fusione ed acquisizione. Anche con riferimento al livello di attrattività la regione presenta valori al di sotto della media nazionale. Particolarmente colpite sono state le esportazioni regionali nel settore dell’automotive rivolte verso la Germania, il Regno Unito e la Spagna; su questo risultato ha inciso pesantemente la strategia di Fiat (che detiene uno dei principali poli produttivi proprio in questa regione) di delocalizzare una parte del processo industriale nei paesi dell’Est (es. Polonia). Anche il ruolo della Puglia in termini di internazionalizzazione rimane molto limitato, nonostante si sia registrato un incremento del contributo regionale al numero di addetti in imprese a partecipazione estera operanti in particolar modo nel settore dell’automotive, della gomma e delle materie plastiche. Le due isole presentano invece un grado di internazionalizzazione alquanto modesto su tutte le sette dimensioni, fatta eccezione per le importazioni e le esportazioni nelle quali registrano valori discreti. Dai dati precedentemente proposti emerge dunque una forte eterogeneità tra le regioni italiane; questo dimostra come il grado di internazionalizzazione nazionale dipenda da pochi sistemi regionali in grado di trainare quelli meno internazionalizzati. FRANK BRADLEY - GIUSEPPE TARDIVO - MILENA VIASSONE 175 7. Riflessioni conclusive Il paper contribuisce ad arricchire la scarsa letteratura in tema di “misura del livello regionale di internazionalizzazione” non limitandosi a fornire una semplice misurazione, bensì fornendo una spiegazione al contributo apportato da ogni fattore al livello di internazionalizzazione regionale. Questo paper fornisce un set di variabili e misure di internazionalizzazione regionale e mostra una forte eterogeneità presente tra le regioni italiane evidenziando come il livello di internazionalizzazione nazionale sia trainato da pochi sistemi regionali, quali la Lombardia e il Lazio. Alla luce delle precedenti considerazioni le possibili aree di cambiamento su cui dovrebbero convergere le strategie di azione delle imprese e i possibili interventi esterni possono essere così riassunte: - superamento degli ostacoli inerenti la dimensione ridotta delle imprese italiane, al fine di poter competere con successo sullo scenario internazionale; - consolidamento dei mercati tradizionali ed analisi approfondita delle economie emergenti, in particolar modo quelle dell’area BRIC (Brasile, Russia, Cina e India), al fine di una -eventualmente parziale- riconversione produttiva mirata alla green economy; - una più intensa attività di informazione, di indirizzo e di assistenza nella fase di start up rivolta all’imprenditoria straniera nelle regioni italiane, spesso ostacolata dalla difficoltà nel riconoscimento dei titoli di studio ottenuti all’estero e nella scarsa conoscenza della legislazione italiana inerente il mercato del lavoro; - sviluppo della capacità di attrarre nuove imprese, nuovi capitali e rendere le regioni italiane affidabili agli occhi dei grandi investitori internazionali; - sviluppo di dotazioni e competenze legate alle ICT, al fine di acquisire quel bagaglio minimo di capacità informatica anche da parte delle imprese di dimensioni più ridotte, consentendo così la realizzazione di network e piattaforme digitali, presupposto fondamentale per lo sviluppo di filiere estese su base internazionale; - sviluppo dei rapporti tra il sistema finanziario e le PMI, con un più semplice accesso al credito e una maggiore trasparenza nel rapporto tra imprese e mercati finanziari al fine di facilitare strategie di internazionalizzazione che sovente richiedono ingenti investimenti; - implementazione delle infrastrutture logistiche, con particolare riferimento a quelle inerenti il trasporto sui flussi da e per la regione, strettamente connesse alla logistica di approvvigionamento e di distribuzione e a quelle relative alla gestione attiva delle scorte nei flussi interni alla regione, legata alla logistica industriale; - individuazione di strategie di contenimento dei costi di produzione, motivazione sempre più sovente sottostante al ruolo crescente rivestito dai piccoli investitori nella diffusione degli investimenti italiani all’estero; - integrazione delle politiche regionali con quelle nazionali, in particolar modo per mezzo della condivisione di azioni di sistema. 176 LIVELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE REGIONI ITALIANE I risultati di questo studio devono essere analizzati alla luce di due importanti limiti: - con riferimento alla scelta delle dimensioni dell’internazionalizzazione regionale un maggior numero degli stessi avrebbe potuto essere oggetto di analisi ma sono stati privilegiati quelli sostenuti dalla letteratura e dall’opinione degli esperti; - con riferimento alla scelta dei sub-driver, non sempre sono stati selezionati i migliori indicatori e non tutti i suggerimenti degli stakeholder sono stati presi in considerazione poiché soltanto quelli rispondenti ai criteri di rilevanza, trasferibilità e accessibilità sono stati inseriti nel modello, al fine di evitare la costruzione di un indice di internazionalizzazione regionale non facilmente comparabile con altri sistemi territoriali. Nonostante le precedenti considerazioni i risultati di questo lavoro offrono spunti per ulteriori ricerche: l’indice di internazionalizzazione creato può infatti trovare applicazione, con alcuni aggiustamenti, ad altri livelli di analisi (provinciale, urbano, distrettuale, sovranazionale). Bibliografia BRADLEY F., SOUSA C.M.P., GAO Y., “The forgotten ingredient in global marketing strategy - the manager’s personal values”, Working Paper, UCD Michael Smurfit Graduate School of Business, 2010. BRADLEY F., International Marketing Strategy, Prentice Hall, Harlow, 2005. BRADLEY F., “Key factors influencing international competitiveness”, Journal of Irish Business and Administrative Research, vol. 7, n. 2, 1985. BRADLEY F., GANNON M., “Does the Firm’s Technology and Marketing Profile Affect Foreign Market Entry?”, Journal of International Marketing, vol. 8, n. 4, 2000. 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