All`inizio del 1808 la nebbia trasformava Londra in una città da

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All`inizio del 1808 la nebbia trasformava Londra in una città da
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La società è ora un’orda raffinata, formata da due potenti tribù, chi
fa annoiare e chi è annoiato.
Lord Byron, Don Juan
Estratto da
M.C. Beaton, Jane la bruttina
Titolo originale dell’opera
Plain Jane
Traduzione dall’inglese
di Simona Garavelli
© 1986 by Marion Chesney
© 2014 astoria srl, corso C. Colombo 11 – 20144 Milano
Prima edizione: novembre 2014
ISBN 978-88-96919-92-7
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
All’inizio del 1808 la nebbia trasformava Londra in una
città da incubo. Non che la nebbia fosse una rarità, a Londra. La cosa strana, tetra e deprimente era che durasse così
tanto.
Una soffocante coltre giallo-grigia si stendeva sulla metropoli, trasformando il giorno in notte. I tedofori non erano mai stati così richiesti; facevano strada ai mezzi attraverso la nebbia opprimente illuminando la via con le loro
torce accese ridotte a niente di più che rossi fanalini luminosi nell’oscurità circostante.
Persino le vie eleganti del West End avevano perso il loro
aspetto vivace e arioso, con le carrozze che si trascinavano
come bestie preistoriche attraverso la palude grigia e le figure che guizzavano avanti e indietro come fantasmi.
I passanti si allontanavano nervosi dai due imponenti
segugi di ferro incatenati sulla soglia di 67 Clarges Street: la
nebbia in lento ma continuo mutamento li faceva sembrare
veri.
All’interno del numero 67 i domestici avevano l’impressione che la nebbia gli fosse penetrata fin nell’anima, tanto
grigia e miserabile appariva loro l’esistenza, al momento.
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Il terzo inquilino, un gentiluomo scozzese, Mr Roderick
Sinclair, e la sua pupilla, Fiona, che aveva fatto passare per
propria figlia, erano stati generosi con il personale; sembrava che finalmente la fortuna fosse tornata ad arridere alla
casa. Ma Fiona Sinclair aveva sposato il conte di Harrington ed era partita per la luna di miele. I due erano spariti
senza lasciare traccia, e si temeva fossero morti.
Così, per l’ennesima volta, sui giornali comparve un annuncio che metteva in affitto la casa.
L’anno nuovo era cominciato, e un’altra Stagione era alle
porte. Ma la sfortuna che aveva perseguitato la casa di
Clarges Street non accennava a svanire, e pareva proprio
che non avrebbero trovato nuovi inquilini, il che significava
niente mance per aumentare la miserevole paga.
La casa era proprietà del decimo duca di Pelham, un
giovanotto proprietario di tanti di quegli immobili, tra cui
un’imponente residenza in Grosvenor Square, da ricordarsi
a malapena di quella dimora. La gestione della casa, dell’affitto e degli stipendi del personale era affidata al suo agente,
Mr Jonas Palmer, imbroglione, prepotente e bugiardo.
Gli eserciti di Napoleone tenevano tutta l’Europa in una
morsa di ferro e minacciavano la sicurezza della Gran Bretagna. I tempi erano duri. Senza referenze, un domestico
non aveva speranza di trovare un nuovo impiego. Palmer
aveva detto che non avrebbe mai dato referenze alla servitù del numero 67; non solo: avrebbe messo in cattiva
luce chiunque avesse manifestato l’intenzione di andarsene. Questo gli permetteva di continuare a corrispondere al
personale un salario da fame, ma di percepire dal padrone
l’ammontare dovuto e di mettersi in tasca la differenza.
L’unica speranza dei domestici era un buon affittuario.
Un inquilino generoso avrebbe fatto lievitare il loro salario
per la durata del contratto, e magari dato loro le tanto agognate referenze. Ma le speranze di vedere un nuovo inquilino erano quanto mai esigue.
Il numero 67 era bollato come “iellato”.
Era proprio lì che il nono duca si era impiccato. L’anno
dopo, la prima famiglia che aveva affittato la casa per la
Stagione aveva perso tutte le sue fortune nel gioco d’azzardo del figlio; la famiglia successiva aveva perso invece la vita
della bella figlia Clara.
Con ottanta sterline era possibile affittare una casa in
una zona decente della città per un intero anno. Ma a
Mayfair, dove ci si poteva aspettare di pagare anche mille
sterline all’anno per una casa non ammobiliata e priva di
personale, quella stessa cifra per i pochi mesi della Stagione era molto modesta. Gran parte delle madri speranzose
arrivava a Londra qualche tempo prima dell’inizio della
Stagione per preparare il terreno in vista del debutto delle
figlie. Quindi tutto il ton sapeva che l’affitto di una casa per
la Stagione comprendeva i due mesi precedenti e almeno
quello successivo.
La Stagione cominciava alla fine di aprile e durava fino
alla fine di giugno, quando buona parte dell’alta società,
esausta, seguiva il principe di Galles a Brighton.
Mr John Rainbird, maggiordomo del numero 67, sta-
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Affittasi casa per la Stagione
Dimora signorile
67 Clarges Street, Mayfair
Casa arredata. Personale qualificato. Affitto: 80 sterline
Inviare richieste a: Mr Palmer, 25, Holborn
zionava sulla soglia e osservava sconfortato lo scenario infernale. Solo la Stagione prima la vita gli era sembrata così
promettente. La generosità degli inquilini era stata tale che
aveva deciso di comprare una piccola locanda a Highgate
e di portare con sé la sua “famiglia”, cioè il resto del personale. Ma mentre erano via da casa, al matrimonio di Fiona
Sinclair, il denaro gli era stato rubato. Tutti sospettavano di
Jonas Palmer, anche se non c’erano prove. Così, invece di
godersi una splendida, indipendente libertà, ora si ritrovavano ancora prigionieri di quella dimora cittadina, incatenati come i cani di ferro sulla soglia ai piedi di Rainbird.
Le lunghe guerre contro Napoleone imperversavano;
una pagnotta di poco più di un chilo costava uno scellino
e nove pence, e ogni giorno i poveri morivano di fame per
le strade. I domestici, il cui salario bastava per rimanere al
limite della sopravvivenza, tiravano a campare come potevano. Solo quel mattino Angus MacGregor, il cuoco delle
Highlands, era uscito di casa diretto nella campagna fuori
Kensington in cerca di legna da ardere; Mrs Middleton,
la governante, l’istruita figlia di un curato, aveva chiamato
a raccolta il coraggio ed era andata a Covent Garden per
racimolare un po’ di verdura; e Lizzie, la sguattera che lavorava nel retrocucina così come ai piani superiori, era dal
panettiere in cerca di una pagnotta di pane raffermo da
comprare.
La cameriera, Jenny, e la domestica, Alice, erano in casa,
sconsolatamente occupate a pulire e lucidare le stanze vuote; Jonas Palmer amava infatti le visite a sorpresa, durante
le quali si spostava da una stanza all’altra indossando un
paio di guanti bianchi di cotone che faceva passare su ogni
piano orizzontale per assicurarsi che non ci fosse neppure
un granello di polvere.
Rainbird sospirò e rabbrividì. Joseph, l’alto valletto, salì
i gradini ancheggiando e gli si mise accanto. I due uomini
osservavano silenziosi la nebbia in perpetuo movimento.
Joseph era alto, biondo e di bell’aspetto, con tondi occhi
azzurri frangiati da chiare ciglia corte e rade che erano
la sua disperazione segreta. Rainbird era molto più basso
di Joseph, con un muscoloso corpo da acrobata e un viso
da attore comico. Gli occhi erano grigi, scintillanti e dallo
sguardo intelligente, solitamente splendenti di buonumore;
tuttavia negli ultimi tempi erano cupi e tristi, proprio come
il cielo.
Un grosso fiocco di neve scese a spirale e atterrò sul naso
di Joseph. Lui se lo pulì via. “Accidenti a ’sto tempaccio,”
disse con voce acuta e affettata. “Ti fa scendere il morale
giù in cantina.”
“Forse non ti sentiresti tanto giù se ti mettessi a fare qualcosa,” replicò brusco Rainbird. “Hai lucidato gli argenti?”
“No,” rispose Joseph immusonito. “Son stufo marcio di
pulire quella dannata roba.”
“Allora va’ a farlo subito,” disse Rainbird irritato. “Ricorda che se Palmer dovesse prenderci in antipatia, rispetto
agli altri noi due siamo nella posizione peggiore.”
Entrambi erano stati licenziati da dimore altolocate per
crimini che non avevano commesso. Ma si erano dichiarati
colpevoli, e Palmer li minacciava costantemente di rendere
note le loro malefatte nel caso in cui non fossero scattati
sull’attenti a ogni suo comando, il che significava che nessuno dei due aveva più speranza di trovare un altro impiego.
Probabilmente era questa comune sventura a spingere
Rainbird a tollerare il valletto effeminato e spesso petulante.
Inoltre Rainbird era forse l’unico capace di vedere la creatura sensibile e impaurita sotto quelle affettazioni.
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“Ma però anche Dave non sta facendo niente,” piagnucolò Joseph.
“Dave sta pulendo le canne fumarie.”
“È a lui che gli tocca,” sghignazzò Joseph con aria di
superiorità, “visto che è l’unico mestiere che sa fare.”
Un tempo Dave faceva lo spazzacamino, ed era stato
salvato da Rainbird da un padrone violento. Palmer era
all’oscuro della sua esistenza. In via ufficiosa, Dave era lo
sguattero.
“Va’ dentro. Hai il potere di sfinirmi, Joseph,” disse
Rainbird.
Joseph si allontanò stizzito, e Rainbird riportò lo sguardo
sulla nebbia vorticante.
Correndo a piccoli passi e producendo un clic-clac di
zoccoli sulla pietra, Lizzie emerse dal grigiore. Portava
qualcosa avvolto in uno scialle.
Con gran sorpresa di Rainbird, ignorò il suo saluto e si
precipitò giù per le scale di servizio come un animale che
corre a rintanarsi.
Lui la seguì svelto. Lizzie entrò in casa diretta alla stanza dei domestici, con qualunque cosa ci fosse nello scialle
stretto al seno come un neonato.
“Cos’hai lì?” chiese Rainbird.
La nebbia aleggiava in filacce nella stanza fiocamente
illuminata da una puzzolente candela di sego al centro del
tavolo. Senza parlare, Lizzie disfece l’involto ed estrasse una
grossa pagnotta dalla crosta spessa, che posò sul tavolo. Poi
sedette a capo chino.
Rainbird si avvicinò e prese la pagnotta. “Questa è appena sfornata, Lizzie,” disse. “E tu avevi solo un penny per
un po’ di pane raffermo. Come te la sei procurata?”
Gli occhi di Lizzie, enormi sul viso smunto, fissavano
addolorati il maggiordomo. Due grosse lacrime tracimarono lasciando tracce chiare sulle guance sporche del grigio
dell’aria.
Un pensiero improvviso e orrendo balenò in testa a
Rainbird. “Non l’avrai fatto, Lizzie? Voglio dire, non sarai
andata con qualche uomo…?”
“Peggio,” rispose Lizzie tremante.
Rainbird sedette. Alice e Jenny entrarono in cucina, volevano sapere cos’era successo, e Dave fece sobbalzare tutti
sbucando dal camino completamente coperto di fuliggine.
“Mi sa che ne ho tre sacchi pieni, Mr Rainbird,” annunciò allegramente. “Oggi pomeriggio vado a vendere fuliggine. Cos’ha la nostra Liz?”
“Ha quello che abbiamo tutti quanti,” disse Joseph con
voce strascicata. “Fame.”
“Su, Lizzie,” la sollecitò Rainbird. “Racconta.”
La sguattera si asciugò le lacrime con la mano. “Sono
andata da Partridge,” disse.
Indispettito, Rainbird fece schioccare la lingua. “E cosa
ci sei andata a fare? È il panettiere più caro di Mayfair.”
“Al mercato, di pane raffermo Brown non ne aveva più.
Ho pensato che un panettiere di lusso forse ce l’ha, ma che
magari alla gente non viene in mente di chiederglielo. È per
questo che ci sono andata.”
“E?” chiese Jenny, la cameriera.
“E c’era questa gran dama con le sue due figlie.”
“Oh già,” disse Dave. “Le gran dame non vanno in giro
per negozi a comprarsi il pane.”
“Stavano facendo una specie di gioco,” spiegò Lizzie.
“‘Vedete, mie care,’ diceva l’elegantona, ‘non dovete lasciare che sia sempre la servitù a fare la spesa. Ogni tanto
dobbiamo andarci anche noi per controllare che i prezzi si-
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ano gli stessi di quelli segnati sui registri della governante.’
Una delle figlie mi ha fissato e ha detto: ‘Ma mamma, nei
negozi si incontra gente rozza come questa servetta’. ‘Non
sta bene neppure notare questo genere di persone,’ ha risposto la madre. Tutte avevano dei cestini che sembravano
cappelli di paglia di Firenze, piatti, aperti e decorati con
fiori di seta. Da Partridge una pagnotta grande costa due
scellini e tre pence, e loro ne hanno comprate sei,” riferì
Lizzie; il ricordo di tanto sbalordimento le aveva prosciugato le lacrime.
“Poi mi sono passate davanti. ‘Scansati, contadinella,’
dice la madre, e mentre mi superano questa pagnotta cade
dal loro stupido cestino. Allora io l’acchiappo veloce come
il fulmine prima che tocca terra. Ma loro non hanno aspettato. Gli sono corsa dietro mentre salivano in carrozza e gli
ho detto: ‘Tenete, signora, vi è caduta la pagnotta’.
“‘Oh, mamma,’ dice una delle ragazze, ‘non toccarla.
Capace che la ragazza ha i pidocchi.’
“‘In tal caso la daremo alla servitù,’ ha detto la madre, e
si è sporta dal finestrino della carrozza per prenderla.
“Mi sono ritrovata a gridare: ‘Allora me la tengo io,’ e
l’ho avvolta nello scialle e mi sono messa a correre più veloce che potevo. Loro hanno urlato: ‘Ferma, al ladro!’ e
ho sentito delle mani afferrarmi nella nebbia, ma mi sono
tuffata in un androne e me ne sono stata nascosta finché le
voci hanno smesso di gridare. E ora eccomi qui,” concluse
con aria infelice.
Rainbird fece un lungo sospiro. “Lizzie, se ti avessero
presa ti avrebbero impiccata, o nel migliore dei casi portata
alle colonie.”
“Ho fatto peccato mortale,” sussurrò Lizzie.
“Difatti,” gongolò Joseph. “Il tuo papa ti condannerà
all’inferno.” Poi boccheggiò: Jenny gli aveva piantato un
gomito puntuto nel plesso solare.
“Io credo che Dio ti perdonerà,” disse Rainbird, “mentre è da vedere se perdonerà quella donna e le sue figlie.
Asciugati le lacrime, Lizzie. E non fare mai più una cosa
del genere.”
L’alta e giunonica Alice fece lentamente il giro del tavolo; tutto ciò che faceva Alice era lento e languido. Circondò
Lizzie con le braccia e disse: “Non piangere. Tu sei una
brava ragazza”.
Rainbird sospirò. A quali bassezze stavano mai sprofondando tutti loro se una persona come la piccola Lizzie si
trasformava in ladra?
Dei passi lenti e pesanti sulle scale annunciarono l’arrivo della governante, Mrs Middleton, una donna stanca e
ansiosa di età incerta e con la faccia da coniglio impaurito.
Aprì la capace borsa a cordoncino e con aria trionfante
posò sul tavolo un grosso cavolo che sembrava mangiucchiato dalle tarme.
“Quanto?” chiese Rainbird.
“Niente,” rispose raggiante Mrs Middleton.
“Siete stata anche voi in giro a rubare?” domandò Dave.
“Tornatene su per il camino e bada a come parli,” lo
redarguì Rainbird severo. “Ditemi, Mrs Middleton, cos’è
successo?”
“A Covent Garden c’era un facchino,” sorrise Mrs
Middleton nel togliersi l’enorme cuffia che ricordava un
secchio per il carbone. “L’ha fatto cadere, allora l’ho raccolto e sono andata da lui. ‘Ecco, buon uomo’, gli ho detto.
‘Ehi, tu, chi ti credi d’essere per chiamarmi in ’sto modo?’
mi apostrofa. ‘Puoi prendere questo cavolo e…’ Le guance
di Mrs Middleton si colorirono. “Non ho capito il resto di
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quel che ha detto, ma sembrava così violento che gli ho risposto: ‘Grazie’, e ho infilato il cavolo nella borsa. Cosa intendeva dire Dave quando ha chiesto se sono stata anch’io
in giro a rubare?”
Joseph aprì la bocca, ma la richiuse non appena vide
l’occhiataccia di Rainbird.
“Spicciati a finire quei camini,” ordinò Rainbird a Dave.
“Angus MacGregor è andato in campagna a far legna, perciò forse stasera avremo un po’ di calore.”
“C’è fuliggine dappertutto!” strillò Mrs Middleton. “Alice, cosa ci fai abbracciata a quella sciocchina d’una sguattera? Lizzie, comincia a pulire per bene questa stanza, e
quando hai finito va’ a lavorare in cucina.”
“Ecco, sta arrivando MacGregor,” ridacchiò Joseph. “Fa
tanto di quel rumore che sembra il seguito del principe Carlo quando se ne va da Derby.”
Marciarono tutti in cucina, dove il cuoco scozzese si stava togliendo dalla spalla un grosso sacco.
“Nevica forte,” grugnì.
“Sangue!” gridò Jenny la mora. “Dal sacco sta colando
del sangue!”
“Cos’hai lì?” chiese Rainbird.
“Un cervo,” rispose il cuoco in tono disinvolto. “Un cucciolo. Stasera cacciagione.”
“Sei andato a cacciare di frodo nella proprietà di qualche lord,” lo accusò Rainbird.
“No,” rispose laconico il cuoco dai capelli rossi tirando
con uno strattone il laccio che teneva chiuso il sacco. “È un
piccolo. L’ho preso a Green Park.”
“I cervi del re,” articolò Rainbird sottovoce. “Razza di
idiota. Ci impiccheranno tutti.”
“Era lì, bastava prenderlo,” fu la risposta del cuoco im-
penitente. “Ero stanco di trasportare il sacco pieno di legna,
allora l’ho messo giù per riposarmi, la camminata per tornare era lunga, e qualche mascalzone me l’ha portato via
ed è sparito di corsa nella nebbia.” Quando aveva sentito
Angus MacGregor arrivare, Rainbird gli era andato incontro con una candela di sego. Nel fioco alone di luce dorata,
le facce dei domestici erano bianche come lenzuoli. “Non
fate quella faccia spaventata,” proseguì contrariato il cuoco. “Mentre tornavo attraverso il parco ho trovato questo
cerbiatto con una zampa rotta e quasi morto di freddo. Ho
preso il pugnale e gli ho tagliato la gola. Mi ero portato un
sacco in più, così l’ho preso e sono venuto qui di corsa.”
Inclinò la testa per sentire meglio, e tutti si irrigidirono:
un passo pesante di piedi in marcia risuonava di sopra, in
Clarges Street.
“Lasciando colare sangue per tutta la strada,” aggiunse
Rainbird, preso dal panico, “ci hai tirato addosso l’intera
milizia. I volontari si addestrano nel parco tutti i giorni…”
“Legatemelo sulla schiena,” disse Dave. “Svelti!”
“Perché…?” fece per dire Rainbird.
“Legatemelo,” strillò Dave. Ora il rumore di passi pesanti scendeva le scale. Mentre Angus MacGregor legava svelto
il cervo alla schiena dello sguattero, e con movimenti frenetici Alice e Jenny ripulivano il pavimento dalle macchie di
sangue, ci fu un imperativo bussare alla porta.
“Aprite, in nome del re!” esclamò una voce autoritaria.
Dave scavalcò in fretta e furia la grata del camino spento
della cucina con il cervo sulla schiena. Si afferrò al primo
dei pioli di ferro fissati all’interno della canna fumaria per la
salita degli spazzacamini. “Spingetemi su,” sussurrò a denti
stretti rivolgendosi a MacGregor.
Spesso Mrs Middleton si era lamentata dell’ampia ca-
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miniera vecchio stile con la grande canna fumaria, ma ora
ringraziò febbrilmente il cielo per la parsimonia di Jonas
Palmer.
Rainbird aprì la porta. Un alto capitano con la neve che
luccicava sulla divisa rossa del reggimento fece il suo ingresso in cucina. Assieme a lui entrarono un sergente, un
soldato e un gendarme.
“State fuori, voi altri, finché non vi chiamo,” gridò il
capitano da sopra la spalla.
“Cosa posso fare per voi?” chiese Rainbird.
“Dov’è il vostro padrone?” chiese il capitano.
“Il mio padrone,” rispose Rainbird, “è il duca di Pelham.
È all’Università di Oxford. In sua assenza sono io il responsabile, qui.”
“Nome?”
“Mr John Rainbird.”
Il capitano fece un brusco cenno del capo, e il sergente
alzò una lanterna a illuminare la faccia del maggiordomo,
che il capitano studiò da cima a fondo. Rainbird indossava
la livrea acquistata dal precedente inquilino: giacca nera a
code, panciotto bianco, pantaloni neri di seta al ginocchio,
calze bianche e scarpe con la fibbia.
“Si tratta di questo,” esordì il capitano, ora con una riluttante vena di rispetto nella voce. “Una donna riferisce di
aver visto un uomo uccidere un cervo a Green Park. Quel
che è certo è che sulla neve c’era del sangue. Abbiamo seguito la pista di sangue, e ci ha guidato dritti fin qui. Ragion per
cui dobbiamo perlustrare la casa dalla soffitta alla cantina.”
“Scandaloso,” sbuffò Rainbird. “Io non sono un ladro,
signore mio.”
“Forse. Ma uno di voi lo è. Come spiegate la traccia di
sangue?”
“Non ne ho idea,” rispose Rainbird rigidamente formale.
Dall’interno della canna fumaria giunse una debole imprecazione.
“Chi c’è?” lo interrogò brusco il capitano.
“È solo lo spazzacamino,” rispose MacGregor.
“Siete scozzese, eh?” disse il capitano con aria sospettosa. Eccezion fatta per chi apparteneva alle classi alte, gli
scozzesi venivano ancora guardati con diffidenza e spesso
insultati per strada. Non erano forse selvaggi stranieri calati
al Sud in orde per togliere posti di lavoro agli onesti inglesi?
Abbassò lo sguardo sulle scarpe di MacGregor, e ridusse gli
occhi a due fessure nel vedere tracce di fango e neve sciolta.
“Darò un’occhiata a quella canna fumaria,” disse.
“Aiuto!” Giunse una voce dal retro cucina. “Oh… sto
morendo.”
“È Lizzie!” esclamò Rainbird. Mosse in direzione del
retrocucina, ma la porta si spalancò e Lizzie oltrepassò la
soglia barcollando. Sangue vivo zampillava dalla vena del
polso, e gli occhi erano dilatati dalla paura.
“Dio del cielo!” esclamò l’ufficiale.
Rainbird si levò rapido di tasca il fazzoletto, afferrò un
cucchiaio di legno e improvvisò un laccio emostatico attorno al braccio di Lizzie. “Cosa ti sei fatta, ragazza?” domandò, reso immemore da questa nuova paura del pericolo che
correvano.
“Ero a Green Park,” sussurrò Lizzie con labbra esangui.
“Sono scivolata, sono caduta nella neve e mi sono tagliata
il polso con i cocci di una bottiglia di vino.”
“Dobbiamo portarla al St George’s Hospital,” intervenne Alice, facendosi avanti nell’alone di luce. “Voi ci aiuterete, capitano.” Era una dichiarazione, non una richiesta. Il
capitano guardò le ali dorate dei capelli di Alice che brilla-
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vano sotto la cuffietta inamidata, il sollevarsi e l’abbassarsi
del bel seno, la pelle lattea del viso e l’enorme azzurro degli
occhi.
Il cervo fu dimenticato. Vi fu uno sbraitare di ordini. Un
fiacre fu condotto davanti alla porta. Rainbird sollevò tra
le braccia il fragile corpo di Lizzie, imprecando sommessamente mentre la portava su per le scale.
Seguiva Joseph, le mani sprofondate nelle tasche della
livrea. Ne estrasse un fazzoletto di pizzo e cambrì, e lo osservò con struggimento. Era il suo tesoro più prezioso. Poi
si chinò sopra a Lizzie, reclinata in un angolo del fiacre, e
glielo porse. “Prendi, Lizzie,” disse in tono sommesso. Si
abbassò per baciare la guancia scarna e pallida.
Va detto che Lizzie nutriva un amore segreto per l’alto
valletto fin dal primo giorno in cui aveva preso servizio al
numero 67. “Grazie, Mr Joseph,” bisbigliò prendendo il
fazzoletto e infilandoselo in seno.
Tempo dopo il capitano avrebbe detto di non aver mai
visto una servetta così coraggiosa. Mentre un chirurgo del
St George’s Hospital le suturava la ferita, Lizzie sorrideva
estatica. Era talmente trasfigurata dalla felicità che un’anziana signora presente in ospedale era caduta in ginocchio
colta da timore reverenziale, credendo che Lizzie fosse una
piccola moribonda sulla soglia del paradiso.
Mentre mettevano a letto Lizzie nella più bella camera
del piano superiore, la neve cadeva fitta e rapida. Con un
tempo del genere Palmer non si sarebbe avventurato fuori
casa, e Lizzie, che si era tagliata il polso per salvare tutti
loro, meritava il meglio.
Poi un terrorizzato Dave, che non aveva la più pallida
idea di ciò che era successo, dovette essere recuperato dalla
canna fumaria. Singhiozzava per lo sfinimento: aveva do-
vuto restare appeso ai pioli con il peso dell’animale morto
sulla schiena per ben due ore.
“Dovresti vergognarti di te, Angus,” disse Rainbird con
severità rivolgendosi al cuoco. “Due ragazzini quasi morti
a causa della tua follia.”
“Ah sì, eh? Beh, scommetto che stasera il ritornello sarà
un altro, quando avremo tutti un po’ di selvaggina arrosto
nella pancia,” replicò il cuoco impenitente, slegando il cervo dalla schiena di Dave.
“Lizzie ci ha salvati tutti,” intervenne Mrs Middleton.
“Che Dio la benedica.”
Rainbird sospirò stancamente mentre la neve vorticava
contro le finestre del seminterrato, incassate in alto sulla
parete. “Fa un tale freddo,” disse. “Non abbiamo niente per
fare fuoco, Angus. Non ti aspetterai che ce la mangiamo
cruda, quella bestia?”
“Non posso pensare a tutto,” rispose il cuoco imbronciato.
“Oggi alla porta qui di fianco hanno consegnato il carbone,” annunciò Dave, già ripresosi dai traumi della giornata con la solita capacità di recupero. “Sacchi e sacchi
di carbone buttati dritti nella carbonaia, in grossi blocchi
lucenti.”
Lo sguardo di Rainbird si fece più penetrante. “Lizzie
ha bisogno di calore,” disse. “Noi abbiamo bisogno di calore.” Restò seduto qualche istante in un silenzio meditativo.
Fece correre lo sguardo sui domestici che, a eccezione di
Lizzie, erano tutti seduti lì attorno, resi abulici dal freddo
intenso.
“Nessuno dovrà mai più rubare,” dichiarò, “ma a prendere in prestito non c’è niente di male. Ora, mentre tornavamo dall’ospedale avrete notato che lord Charteris della
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porta accanto era in partenza per la campagna con tutto il
personale. Il che vuol dire che la casa è vuota.”
“Giusto,” disse Joseph scoccando un’occhiata di curiosità al maggiordomo. “A me l’altro giorno Luke mi ha detto
che stavano per partirsene tutti.” Luke era il primo valletto
dei Charteris.
“Giù in cantina,” proseguì Rainbird con aria assente,
“ci sono una pala e un piccone.” Si alzò; un lento sorriso gli
fece incurvare gli angoli della bocca espressiva. “Spogliati,
Joseph, ragazzo mio. Stasera si va a estrarre carbone!”
“Le mie mani!” gemette Joseph, regredendo alla piagnucolante nota cockney solitamente nascosta sotto un leggero
strato di manierata affettazione.
“E mettiti i guanti, damerino,” disse Rainbird. “Al lavoro!”
Nella camera da letto al piano superiore Lizzie scivolava
dentro e fuori dal sonno. A un certo punto, sentendo delle
gran martellate e dei gran colpi riecheggiare per casa, si divincolò nel tentativo di scendere dal letto: credeva che fosse
tornata la milizia. Ma era troppo sfinita per compiere uno
sforzo del genere, e presto ripiombò in un sonno agitato.
Si svegliò che era sera. Un fuoco scoppiettava nel camino, irradiando un bagliore rosato e guizzante fin sul soffitto.
Mentre il calore le penetrava nel corpo, si chiese sognante
dove avessero trovato il carbone. Poi, tutt’a un tratto, ecco
Joseph chinarsi su di lei, nudo fino alla cintola e nero di
polvere di carbone.
“Hai ancora il mio fazzoletto, Lizzie?” bisbigliò.
“Sì, Joseph,” rispose con voce appannata. “Non me ne
separerò mai.”
Joseph spalancò la bocca per lo stupore. “Per te sono Mr
Joseph, sfacciatella,” bofonchiò, caracollando via.
Raggiunse il resto della servitù annerita e stanca nel locale domestici.
“E questo cosa sarebbe?” gemette. “Solo pane e acqua?”
“Più tardi mangerai qualcosa,” disse MacGregor. “Farò
friggere il fegato. Prima però bisogna appendere la bestia.”
Rainbird fece correre lo sguardo attorno al tavolo, sulle
facce stanche e avvilite. “Su col morale,” li esortò. “Non
credo che il buon Dio su in cielo intenda farci crepare di
fame a Mayfair. Da qualche parte, in questo preciso istante,
qualcuno sta per affittare questa casa. Lo so. Lo sento.”
Ma la piega sardonica della bocca e lo sconforto negli
occhi tristi smascheravano il suo ottimismo.
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