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Prologo
Mr Glowry soleva dire che la sua casa non era meglio di uno spazioso canile, poiché tutti coloro che ci abitavano facevano una vita
da cani.
Thomas Love Peacock, L’abbazia degli incubi
Estratto da
M.C. Beaton, L’avaro di Mayfair
Titolo originale dell’opera
The Miser of Mayfair
Traduzione dall’inglese
di Simona Garavelli
© 1986 by Marion Chesney
© 2014 astoria srl, corso C. Colombo 11 – 20144 Milano
Prima edizione: giugno 2014
ISBN 978-88-96919-84-2
Progetto grafico: zevilhéritier
Stampato nel mese di maggio 2014
da Press Grafica srl, Gravellona Toce (VB)
www.astoriaedizioni.it
Era stato un lungo inverno, e la primavera del 1807 sembrava non dovesse mai arrivare. Le giornate erano fredde e
ventose, il cielo basso e plumbeo.
Ma nel cuore di Mayfair, a Londra, c’erano segni che la
primavera tentava di farsi faticosamente strada attraverso il
grigiore. I narcisi ondeggiavano al vento tra i ciuffi d’erba di
Hyde Park, e un ciliegio all’angolo di South Audley Street
levava verso il cielo minaccioso i suoi rami carichi di fiori
rosa.
All’esterno delle case, da Grosvenor Square a St James’s
Square, gli ottoni venivano energicamente lucidati, gli infissi delle finestre riverniciati e i gradini tirati a lustro in
preparazione alla Stagione.
In realtà, nonostante il freddo c’erano rumore e trambusto ovunque, dai merli che cantavano in cima ai tetti ai domestici frettolosi nelle strade sottostanti: con indosso le nuove livree, aspettavano impazienti la Stagione con tutte le sue
promesse di cibo in abbondanza ed entrate supplementari.
Dappertutto, cioè, tranne al numero 67 di Clarges Street.
A una prima occhiata, il numero 67 sembrava in lutto. Le
imposte erano chiuse, e la facciata nera e stretta guardava la
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via alla moda come un cupo impresario di pompe funebri.
Sull’ampia soglia erano incatenati due segugi di ferro che
si guardavano le zampe con l’aria di chi avesse perso da
tempo ogni speranza di libertà. Benché durante ogni Stagione londinese fosse in voga prendere una casa a Mayfair
a un affitto sproporzionatamente esoso per avere talvolta
un alloggio estremamente scadente, il numero 67 rimaneva
vuoto e, a giudicare dall’aspetto, sarebbe rimasto tale nonostante l’affitto ragionevole e le buone condizioni dell’edificio.
La cosa triste era che in un’epoca in cui la febbre del
gioco d’azzardo era alle stelle e tutti quanti, dai lord alle
sguattere, erano superstiziosi, il numero 67 era stato bollato
come “iellato”. E nessuna mamma speranzosa di trovare
un buon partito per la figlia avrebbe rischiato di incorrere
nell’ira di quegli dèi pagani che osservano dall’alto l’esclusivo mondo dei diecimila in cima alla scala sociale.
Poiché il nono duca di Pelham si era impiccato proprio lì
in Clarges Street, ora la casa apparteneva al decimo duca,
un giovanotto. Ma il suicidio del nono duca non era l’unico
motivo per cui era rimasta sfitta per due Stagioni e probabilmente lo sarebbe rimasta anche per la terza. Una famiglia che l’aveva affittata per la Stagione dopo la morte del
duca aveva perso tutte le proprie fortune nel gioco d’azzardo del figlio. Alla famiglia successiva era stato riservato un
destino ancora peggiore: Clara, la figlia giovane e bella, era
stata trovata morta in pieno Green Park senza neppure un
segno sul corpo a indicare la causa del decesso.
Benché l’agente dell’attuale duca la mettesse sul mercato a un affitto sempre più modesto, la casa continuava a
rimanere sfitta. Il giovane duca frequentava l’università a
Oxford e non sembrava preoccuparsene troppo, non essen-
do che una delle sue molte proprietà; inoltre aveva una sua
residenza privata in Grosvenor Square.
Il personale era stato assunto per uno stipendio da fame
ai tempi del vecchio duca, e nulla era stato fatto per cambiare quello stato di cose perché il duca, che aveva affidato
la gestione di tutto al suo agente, non sapeva neppure che
il 67 avesse del personale fisso. Benché i domestici riuscissero a malapena a sfamarsi con quello che guadagnavano,
quando all’inizio la casa veniva affittata erano riusciti a
integrare la loro dieta e le loro entrate grazie ai molti ricevimenti che vi si tenevano. Sul tavolo della servitù comparivano montagne di cibo avanzato, e nelle tasche delle
livree e dei grembiuli tintinnavano le mance dei facoltosi
invitati a cena. Ma, senza un inquilino, non c’era modo di
alleviare quella triste situazione. Così, la servitù del numero 67 se ne stava sconfortata a osservare i più fortunati colleghi delle dimore vicine andare incontro a un’ennesima,
remunerativa Stagione.
L’agente responsabile delle assunzioni del personale era
un uomo senza scrupoli, tale Mr Jonas Palmer. Palmer registrava gli stipendi dei domestici sui libri contabili del padrone gonfiando le cifre, ma li pagava una miseria. Finora
il giovane duca non aveva mai chiesto di vedere i libri, ma
Palmer sapeva che quel giorno sarebbe arrivato, ed era
pronto ad affrontarlo.
E non uno dei domestici avrebbe potuto andarsene e
trovare un altro lavoro. Palmer, infatti, li teneva in pugno, e
voleva che continuassero a restargli in pugno, così da poter
continuare a truffare il padrone. Nelle numerose serie di
registri, tenuti accortamente sotto chiave in un posto dove
il giovane duca non li avrebbe mai trovati, annotava con
precisione le effettive retribuzioni del personale e le infor-
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mazioni sul passato di ciascuno, meticolosamente raccolte
prima di assumerlo.
Mr John Rainbird, il maggiordomo, era stato capovalletto nella residenza di lord Trumpington. Era stato trovato nel letto di lady Trumpington, e licenziato. Malgrado al
momento della scoperta sua signoria sembrasse divertirsi
immensamente, Rainbird era stato sollevato dall’incarico e
buttato fuori con pessime referenze. Quando Palmer gli aveva offerto il posto di maggiordomo, gli era sembrato troppo
bello per essere vero. Lo stipendio era da fame e il vecchio
duca un taccagno, ma durante la Stagione e la Piccola Stagione si poteva racimolare qualche soldo, considerato che
il vecchio duca non riceveva gli ospiti in Grosvenor Square
ma usava la casa di Clarges Street. Per il timore morboso
che i suoi ospiti fossero dei ladri, preferiva invitarli in una
casa dove il mobilio e gli objets d’art non fossero di particolare
valore. Dopo la morte del duca, Rainbird si era ritrovato lo
stipendio decurtato all’osso. Era perciò andato da Palmer ad
annunciare le proprie dimissioni. Palmer gli aveva detto che,
se se ne fosse andato, allora lui, Palmer, avrebbe fatto uscire
un annuncio sui giornali per mettere in guardia tutti i potenziali datori di lavoro sulla sua natura di donnaiolo. Così
Rainbird era rimasto. Era un uomo snello e aitante di quarant’anni, con un viso intelligente da attore comico, olivastro
ed espressivo, la mascella forte e scintillanti occhi grigi.
Il cuoco, Angus MacGregor, che allo scoppio della Rivoluzione francese era sous-chef nella nobile dimora di un
milord a Parigi, era fuggito in Inghilterra dopo essere stato
testimone della decapitazione del suo padrone. In cucina
era un genio, ma il suo impetuoso temperamento celtico gli
aveva fatto perdere un posto di lavoro dopo l’altro. Sapeva
che non ne avrebbe mai trovato uno nuovo, proprio come
sapeva di desiderare con tutto se stesso di poter affondare
una mannaia nel collo grasso di Palmer. Nell’ultimo posto
di lavoro aveva lanciato una coscia di montone a lady Blessop dopo che quest’ultima aveva mandato a dire in cucina
che non era cotta a puntino e che lo chef non faceva il suo
dovere.
La governante, Mrs Middleton – l’appellativo “Mrs”
non era che un titolo di cortesia – era figlia di un curato,
raffinata, istruita e imbattutasi in tempi duri. Costretta ad
affrontare il mondo alla morte del padre, aveva disperato
di trovare un lavoro adatto a una signora, e aveva accolto
il posto di governante al numero 67 come una manna dal
cielo. Ora, per quanto desiderasse andarsene, sapeva che
senza referenze non l’avrebbe assunta nessuno.
Il valletto Joseph, alto e di bell’aspetto, era stato cacciato
per furto dal palazzo del vescovo di Burnham; benché tutti,
sotto sotto, sapessero che il furto era il risultato della propensione della moglie del vescovo ad alleggerire gli ospiti
del palazzo di tutto quello di cui si incapricciava, era necessario proteggerne la reputazione; per questo il vescovo
aveva detto a Joseph che poteva considerarsi fortunato per
non essere finito in prigione. Joseph era effeminato e andava pazzo per la livrea che era in uso indossare ai tempi del
primo impiego in Clarges Street. Avrebbe potuto andarsene e trovarsi un lavoro manuale, ma era enormemente
orgoglioso delle sue mani bianche, e diceva che avrebbe
preferito “morire di fame”, cosa che ora stava quasi per
accadere.
Jenny, la cameriera piccola, svelta e mora, era al suo primo impiego nella casa a più piani, e senza buone referenze
non ne avrebbe mai trovato un altro. Lo stesso valeva per
Alice, la domestica alta e giunonica, e per Lizzie, la sciat-
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toncella che lavorava nel retrocucina così come ai piani superiori.
Lo sguattero, Dave, era un acquisto recente. Era fuggito dal padrone, uno spazzacamino. Non riceveva salario
in quanto era stato Rainbird a impietosirsi per il fanciullo tremante quando lo aveva trovato a mendicare; Palmer
era all’oscuro dell’esistenza di Dave. Il personale di Clarges
Street era diventato la sua famiglia putativa, e lui non si
sarebbe mai sognato di abbandonarla.
In una fredda notte di primavera erano tutti seduti nella
sala dei domestici, intenti a consumare un frugale pasto di
minestra allungata e pane raffermo. In tempi più fortunati,
Rainbird e Mrs Middleton si sarebbero ritirati nel salottino
della governante, a metà delle scale di servizio, per bere un
po’ di vino. Ora, invece, mangiavano quel che c’era assieme
agli altri domestici. Sopra le loro teste la casa si accovacciava
vuota e silenziosa, le stanze piene di mobili coperti da teli.
Di norma la servitù faceva fronte comune, accomunata
dall’intenso risentimento nei confronti di Palmer, l’agente.
Ma quella sera i guai cominciarono quando Joseph, il valletto, entrò in casa con passo effeminato e lasciandosi cadere su una sedia si mise a tavola con aria imbronciata.
“Gli venisse il vaiolo, a quei monelli di strada,” disse sollevando una gamba ben tornita rivestita dalla calza di seta
bianca con la baghetta nera.
“Che cos’hanno fatto?” chiese MacGregor, il cuoco delle
Highlands, versando minestra acquosa in una scodella.
“Mi hanno ficcato uno spillo nei polpacci per vedere se
erano per davvero i miei.” Era costume di molti valletti portare rinforzi di legno nel caso in cui la natura non li avesse
forniti dell’appropriata muscolatura delle gambe, considerata de rigueur per la categoria.
“E lo sono? I tuoi, intendo,” domandò il cuoco sbattendo con mala grazia il piatto sul tavolo davanti a Joseph.
“Certo che sì, brutto essere peloso. Chiamati fortunato che non fai mica il valletto. Perché dovresti infilarci dei
tronchi di quercia per ingrassare quei due stecchini che
hai per gambe,” ridacchiò Joseph. Poi prese il cucchiaio.
“Puah! Cos’è ’sta sbroda?”
“Mr MacGregor ha trovato un gatto nei dintorni,” sghignazzò Jenny, la cameriera.
“Occhio che non mi faccio offendere,” disse il cuoco
scozzese. Afferrò uno spiedo e mosse verso Joseph.
“Basta così,” lì ammonì Rainbird brusco. “Va’ fuori a
mettere la testa sotto la pompa, Angus. Quanto a te, Joseph,
parla ancora in modo irrispettoso e ti mettiamo la sottana.”
“Damerino,” sogghignò MacGregor.
“Solo perché c’ho una certa eleganza, un certo je ne sais
quoi, non è un buon motivo per prendermi in giro.” Joseph
tirò fuori una boccetta di muschio e se la portò con delicatezza al naso.
Mrs Middleton la afferrò. Si rovesciò sul tavolo, e l’odore
pungente del muschio andò a mescolarsi con quello penetrante di montone vecchio della minestra.
“Dove te lo sei procurato?” chiese Mrs Middleton. “Si
presume che i pochi soldi che abbiamo servano per il cibo.”
Dave, lo sguattero, mise un dito sudicio nella pozza di profumo, si inumidì dietro le orecchie e cominciò ad ancheggiare avanti e indietro. “Guardatemi,” disse appoggiandosi una
mano sul fianco ossuto. “Sono Harriette Wilson.” Harriette
Wilson era la cortigiana più in vista di Londra, ribattezzata
da tutti senza eccezione alcuna “La Regina delle Prostitute”.
“Siediti,” disse Alice scrollando la testa. “Ti prenderò a
bacchettate, Dave, vedrai se scherzo.”
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“I soldi servono solo ed esclusivamente per comprare da
mangiare,” dichiarò Rainbird con severità.
“È stato più forte di me,” gemette Joseph mentre la voce
gli si tingeva di una piagnucolante nota cockney. “Avevo
bisogno di qualcosa per tirarmi su di morale. C’è quel valletto della porta accanto, Luke. Stanno aspettando l’arrivo
di lord e lady Charteris, cioè a dire raduni mondani, ricevimenti e un mucchio di extra. E poi c’hanno fatto pure una
nuova livrea. Assomiglia a uno di quei damerini di Bond
Street, e gliel’ho detto. Odio tutto quanto. Questa cucina
tremenda, questo cibo tremendo, niente divertimento. Tanto voi altri mica potete capire.”
“Non sai far altro che piagnucolare,” disse MacGregor,
che non gli aveva ancora perdonato l’insulto alle gambe.
“Passi tutto il giorno a pavoneggiarti mentre io sono in giro
a elemosinare nella speranza di trovare qualcosa da mettere
sotto i denti. E la mia arte, allora? Sono il miglior chef di
Londra, e non posso dimostrarlo. Detesto tutti i vos…” Passò
al gaelico, e per quanto nessuno riuscisse a capire cosa dicesse, suonò ancor più offensivo che se l’avesse detto in inglese.
La piccola Lizzie scoppiò a piangere, e si gettò il grembiule sopra la testa. Rainbird sospirò. Lizzie era un tale
straccetto. Tutti quanti la guardavano dall’alto in basso,
eppure, ognuno a suo modo, le era affezionato.
MacGregor smise di imprecare e si tolse la calotta di lino
bianco sotto cui aveva nascosto un pezzo di carne, e senza
dir nulla lo spinse attraverso il tavolo verso la singhiozzante
Lizzie.
Joseph mise il tappo alla boccetta di muschio. “Tieni,
Lizzie,” le disse. “Non piangere.”
“Ora finitela di questionare,” li redarguì Rainbird severo. “Siamo tutti di pessimo umore,” aggiunse poi in tono
più gentile mentre Lizzie si abbandonava afflitta ai singhiozzi e tirava giù il grembiule.
“Non ci siamo mai detti cose del genere, prima,” disse Lizzie con voce rotta dal pianto. “Il nostro destino non
cambierà mai?”
“Improbabile,” dichiarò Jenny la cameriera.
“Potremmo pregare,” propose Lizzie.
“Bambina sciocca,” sospirò Rainbird. “Sono sicuro che
l’abbiamo già fatto tutti quanti.”
“No, come si deve,” precisò Lizzie asciugandosi gli occhi
con il grembiule. “Cioè, in una chiesa vera.”
“Se ti riferisci alla Chiesa cattolica,” replicò Joseph in
tono duro, “tu sei l’unica qui, di quella fede. Tutti noi altri
siamo troppo raffinati.”
Ma a Lizzie era ormai entrata in testa l’idea di pregare
in chiesa, e in qualche modo sembrava averla rincuorata.
Giunse le mani. “Oh, Mr Rainbird, potrei andare in chiesa,
stasera?”
“Cosa?! E lasciare i piatti a me?” chiese MacGregor.
“Per favore, Mr Rainbird.”
“Da lavare ci sono solo poche scodelle, Angus,” rispose
Rainbird. “Sarà meglio che porti con te Joseph, Lizzie. Non
va bene che una ragazza giri da sola per le strade.”
“Non io,” si affrettò a rispondere Joseph. “Mica sono un
papista, io. E se qualcuno degli altri valletti mi vede entrare?”
“Ci andrò da sola,” disse Lizzie. “E pregherò come si
deve. La nostra fortuna cambierà. Vedrete.” E sgambettò
fuori dalla stanza dei domestici facendo un gran baccano
con gli zoccoli.
Mrs Middleton scrollò la testa. “Povera piccola illusa,”
disse. “Il mio caro babbo, che Dio l’abbia in gloria, diceva
sempre che dobbiamo accettare ciò che Dio ci manda.”
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“Be’, è un peccato che ci abbia mandato Palmer,” ribatté
brusco Rainbird.
Con la testa avvolta nello scialle, Lizzie si affrettava per
le vie buie con l’ombra rapida che danzava prima davanti e
poi dietro di lei alla flebile luce dei lampioni. Presto si lasciò
alle spalle la Londra alla moda, e le vie si fecero più squallide e buie. Fermandosi solo per acquattarsi nell’ombra di un
androne quando sentiva avvicinarsi un damerino ubriaco,
Lizzie procedeva spedita, gli zoccoli che risuonavano sul
marciapiede. Svoltò in Soho Square, lasciando andare un
lieve sospiro di sollievo nel vedere con occhi grati la mole
della chiesa di St Patrick. Nella mano stringeva un prezioso
penny, sufficiente a pagare una candela.
Pur desiderando con tutto il cuore chiedere a Dio che
facesse sì che Joseph si accorgesse di lei, Lizzie pensò a tutti
i domestici di Clarges Street e decise che avrebbe pregato
per il loro benessere futuro senza chiedere nulla per sé.
Eccezion fatta per qualche esule francese, la chiesa era
deserta. Camminando piano per paura che gli zoccoli facessero troppo rumore, Lizzie lasciò un penny per la candela e si diresse verso la statua della Vergine Maria a lato
dell’altare. Accese la candela, si inginocchiò e pregò con
tutto il cuore che la maledizione venisse tolta dal numero 67 di Clarges Street, e che anche da loro arrivasse un
inquilino per la Stagione. Pregò per un’ora intera, scacciando con determinazione dalla testa i pensieri su Joseph
ogni qualvolta l’alta figura del valletto le si insinuava nella
mente.
Infine si alzò, si fece il segno della croce e si incamminò
nel vento freddo e burrascoso che sferzava le vie anguste. In
alto, sopra i comignoli fuligginosi, una piccola stella brillò
in cielo. All’improvviso Lizzie si sentì felice. Seppe che era
un buon presagio. Dio aveva ascoltato le sue preghiere. Ora
non doveva far altro che aspettare.
Camminando a testa alta, tornò dritta filata in Clarges
Street, senza più nascondersi negli androni. La piccola Lizzie si sentiva in preda a un’esaltazione mai provata prima.
Quando scese la buia scala di servizio diretta nel seminterrato, per un istante pensò emozionata che Dio avesse già
esaudito le sue preghiere. Dalla sala dei domestici giungeva
un rumore di baldoria. Spalancò la porta ed entrò.
Tutti i domestici avevano in mano un bicchiere di brandy. Stavano applaudendo con entusiasmo il cuoco che aveva
incrociato sul tavolo due spiedi e, tenendo il lungo grembiule sollevato, eseguiva una qualche bizzarra danza delle
Highlands mostrando come le scarpe con la fibbia non toccassero mai né l’uno né l’altro degli spiedi malgrado tutti i
salti e i guizzi che faceva.
“Entra, ragazza,” la esortò Rainbird. “Il nostro Angus
stava rovistando in fondo alla cantina e ha notato alcuni
mattoni sconnessi nel muro. Dietro ci ha trovato due bottiglie di ottimo brandy francese. Prendi un bicchiere e unisciti a noi. Le tue preghiere sono state esaudite.”
“Non pregherei mai per una cosa come il brandy,” rispose Lizzie alquanto sconvolta. “Ma non preoccupatevi, Mr
Rainbird, io e Dio abbiamo pensato noi a tutto.”
Rainbird ammiccò a Mrs Middleton e si toccò la fronte.
Mrs Middleton sorrise e annuì, la voluminosa cuffia bianca
che ballonzolava avanti e indietro. “Povera piccola,” sussurrò. “Ci crede davvero.”
“Che ci creda pure,” disse Rainbird. “Uno di noi ha pur
diritto di nutrire ancora qualche speranza. Ma quella che
ci aspetta sarà un’altra Stagione lunga, vuota e noiosa. Non
cambierà niente.”
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