Psichiatria centrata sulla persona, applicazione delle
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Psichiatria centrata sulla persona, applicazione delle
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006 Psichiatria centrata sulla persona, applicazione delle condizioni necessarie e sufficienti Alberto Stimolo Psichiatria e approccio centrato sulla persona sembrano essere mondi antitetici ed inconciliabili. Basti pensare alla lotta di C. Rogers contro la psichiatria dominante, ai suoi tempi, reificante l'uomo, considerato un malato, alienato ed incapace, da curare e, spesso, isolare dalla società. In realtà ancora oggi, anche nell'Italia post legge 180, ai servizi psichiatrici esistenti nel territorio, è delegato un' implicito, subdolo e non dichiarato, ruolo di controllo sociale e di gestione di ogni comportamento umano turbative e disfunzionale rispetto alle comuni dinamiche di produttività, normatività, perbenismo. Tuttavia la sfida di pensare una psichiatria reale "sufficientemente buona" e centrata sulla persona è tutt'altro che da rigettare nonostante i limiti, anche legali, del mandato e dei mezzi a disposizione. Questo articolo nasce dall'esperienza da me maturata in S.P.D.C, applicando alle specifiche condizioni dell'assistenza psichiatrica pubblica nelle strutture sanitarie post-riforma quanto in me è derivato dalla formazione secondo l'approccio centrato sulla persona e quindi si propone di costituire una riflessione, su base empirica, dell'apprendimento ricavato dalla specifica esperienza di frontiera del lavoro in setting istituzionale con pazienti psichiatrici acuti, prevalentemente schizofrenici, degenti per periodi di trattamento variabili dalla settimana al mese, al massimo, con terapie prevalentemente farmacologiche. L'obiettivo, nello specifico di questo scritto, non è di parlare dell'applicazione della psicoterapia propriamente detta nel setting improprio 1 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006 e spurio di un reparto di psichiatria per ricoverati gravi ed acuti né di articolare considerazioni estese ed esaustive su relazionalità ed alleanza terapeutica nel reparto ospedaliero. Non è neanche di valutare scientificamente l'applicazione di trattamenti ad orientamento centrato sulla persona nel contesto suddetto o, in generale, nel lavoro con psicotici. Unico obiettivo invece è di esporre alcune riflessioni, appunto sulla base empirica dell'esperienza acquisita e di qualche riscontro rinvenuto in letteratura, sull'estensione dei concetti di empatia, congruenza, accettazione, all'intervento con psicotici gravi, valutando risvolti peculiari che le tre condizioni necessarie e sufficienti definite da C. Rogers possono rivestire nello specifico di un lavoro in acuto ed in strutture sanitarie improntate alla continua emergenza, alla genericità e globalità delle problematiche affrontate, alla complessità dell'intervento con variabili di ogni tipo tra loro interagenti. Considerato tale obiettivo articolerò l'intervento su tre domande, cercando di formulare le risposte, continuando a sottolineare che ciò, naturalmente, vuole essere ben lontano dall'inquadrare con compiutezza un argomento vastissimo quale la relazionalità terapeutica nel contesto dei reparti psichiatrici per acuti secondo l'operatività delle strutture sanitarie a ciò deputate dalla legge 180. Le tre domande: • Quali le specificità dell'accettazione positiva incondizionata se rivolta alla persona psicotica? • La congruenza può essere difficilmente gestibile nei confronti dello psicotico? • L'empatia, verso lo psicotico, necessita nel terapeuta specifiche capacità? Naturalmente le tre domande ne sottendono una, ad esse soggiacente, che merita qualche breve considerazione: esistono gli psicotici? Chi sono? A rigore la nostra impostazione teoretica ha fondamento nell'approccio adiagnostico: è ben vero che le persone, nella multiformeità proteiforme dell'essere al mondo sono tutte diverse l'una dall'altra. Non esistono le persone malate distinte da quelle mentalmente sane. Le espressioni del disagio personale, inscrivibili nell'ambito delle manifestazioni abnormi e patologiche del comportamento umano, si presentano lungo un continuum fenomenico dell'espressività che deve tener conto delle specificità individuali. Tutti coloro che possiamo definire psicotici o schizofrenici sono diversi l'uno dall'altro così come le persone che non diagnostichiamo in questi ambiti. Una persona che chiamiamo psicotico è diverso ogni giorno e ogni momento della sua vita tanto è vero che la stessa persona solitamente fruisce di diagnosi diverse se osservato e valutato da diversi psichiatri e, anche se seguita sempre dallo stesso operatore, nel corso della vita per la multiforme cangiabilità del suo modo di essere. Soggetti inquadrati come borderline vengono in seguito diagnosticati come schizofrenici o, qualche anno dopo, come maniacali e così via. Questa è un' ineludibile realtà nota a tutti i clinici. Allo stesso modo non si può negare la patomorfosi dei cosiddetti disturbi mentali nel tempo e nello spazio col variare delle culture umane di appartenenza. Ciò nonostante, e continuando a tenere tali considerazioni nello sfondo, non si può eludere il problema della struttura della personalità e non è possibile sottrarsi ad una funzione diagnostica che, invece, è importante per 2 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006 la clinica in quanto supportante la possibilità di trattamento ed è inoltre obbligatoria per legge in ospedale Nel modello rogersiano la persona, che ha dovuto esistenzialmente irrigidire la rappresentazione delle varie componenti esperenziali, non può ascrivere al sé una gran parte di esperienze organismiche, essendo le stesse incongruenti con un rigido concetto di sé, strutturato in un contesto di ridottissima accettazione. L'incongruenza estrema tra concetto di sé ed esperienza percettiva comporta una necessaria distorsione della rappresentazione simbolica dell'esperienza con manifestazioni deliranti dei vissuti personali in base ai parametri sociali di condivisione della realtà che socialmente accomunano nella cultura d'appartenenza. Il modo di presentarsi pervicacemente e costantemente a questo punto è tale da definire il modo di essere psicotico, pur senza voler abbracciare rigidamente ed acriticamente un riconoscimento ed un' adozione di criteri diagnostici dei vari manuali statistici e diagnostici delle associazioni psichiatriche, talmente discutibili quanto lo è la velleità che, nel corso dello scorso secolo soprattutto, ha contraddistinto la storia della psichiatria nel suo vano e sbagliato sforzo di ricostruire tassonomicamente l'elenco delle malattie della cosiddetta mente e delle storie naturali di esse. Il grande gruppo delle sofferenze "psicotiche" esiste globalmente, genericamente, comprende tutte quelle condizioni in cui la disfunzionalità mentale è grossolanamente alterata rispetto ai parametri cognitivi condivisi dalla popolazione di riferimento. Bisogna riconoscere nel delirio il modo di essere al mondo specifico degli psicotici, distaccati drammaticamente dal sentire condiviso nella comunità e dalla possibilità di condividere efficacemente elementi semplici o complessi della comunicazione umana. Le tre domande: • Quali le specificità dell'accettazione positiva incondizionata se rivolta alla persona psicotica? La persona che struttura una condizione di funzionamento mentale psicotico è una persona in grave stato di vunerabilità, rispetto alla propria vita. La psicosi è una soluzione, disfunzionale rispetto alle dinamiche di funzionamento sociale, di integrazione di una persona nella collettività di appartenenza e di condivisione dei portati culturali delle interazioni umane. E' però, e questo è veramente l'importante, l'esito, l'unico esito possibile, in un dato momento, del percorso esistenziale di una persona, l'unica modalità di cui essa dispone per attualizzare il suo essere al mondo in un dato punto della sua vita. Empatizzare tale realtà comporta una grande capacità di profonda accettazione, di peculiare specifica accettazione di un essere umano sicuramente molto sofferente. La risorsa psicosi è ciò con cui ci incontriamo e ciò è particolarmente evidente nelle condizioni acute. Risorsa perché senza psicosi quella persona con cui interagiamo morirebbe, sarebbe annullata ed inesistente, non in grado di sopravvivere al mondo in cui è inserita. Senza voler affrontare specificamente il problema della componente biologica delle psicosi, ritengo che, dal nostro punto di vista, sia inutile enfatizzare molto quella che è stata la diatriba storica tra organicismo e psicodinamica sulla componente biologica, sul peso genetico nelle psicosi, 3 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006 sulla schizofrenia come malattia del cervello. Ritengo che l'approccio rogersiano sia abbastanza organicistico, profondamente radicato nelle logiche del bios, olistico in ogni caso, e che pertanto dal nostro punto di vista la distinzione soma-mente non abbia molto senso. L'uomo soffre globalmente, olograficamente, con tutte le funzioni dei suoi organi, delle sue cellule, dei suoi neuromediatori così come delle sue idee ed emozioni. L'ereditarietà, l'incomprensibilità processuale di percorsi misteriosamente deteriorativi è evidente in alcuni casi, non in altri. D' altronde ancora neanche la psichiatria ha sicurezza né sulla patogenesi della schizofrenia né sulla sua unicità come condizione patologica. Ci possiamo trovare a volte di fronte a soggetti immodificabili, a persone in cui non si capisca perché esiste un' alienazione dalle comuni modalità dell'essere in relazione: dobbiamo accettarlo semplicemente e con grande modestia e riuscire a sentirci vicini a queste persone, affiancarle anche senza poterle comprendere. In questi casi, quanto mai in altri, la centratura è sul cliente della nostra prestazione e meno che mai su di noi, sul nostro ruolo, sul nostro potere, sulle nostre teorie che, in talune condizioni, non riescono a fornire una chiave di lettura di un percorso patologico. Bisogna però dire che vi sono altre situazioni, e sono moltissime, in cui il delirio di una persona è comprensibilissimo, è il senso stesso della sua vita. Il sintomo psicotico si inscrive in questo gruppo di casi nella storia personale delle persone con evidenza della valenza compensatoria del sintomo stesso. Attraverso il delirio le persone rappresentano alla propria coscienza realtà non vere ma di cui hanno bisogno per sopravvivere nell'unico modo possibile perché imbrigliate in situazioni vincolanti, di solito sin dalla nascita, che le hanno costrette entro rigidi termini di accettazione. Il delirio, l'allucinazione, realizzano in tali casi, che, ripeto, non sono tutti, bisogni di amore, di realizzazione, di successo, di alienazione da sé del dolore, dell'aggressività, della rabbia, dei sentimenti negativi ed ostili. L'accettazione della persona psicotica da parte dell'operatore è una sfida, essendo possibile solo se sussiste profonda e rispettosissima comprensione empatica di questi bisogni e di un' estrema sofferenza, tanto indicibile da creare distanza e barriera comunicativa fino all'estremo dell'incomunicabilità nella catatonia, tanto indicibile da essere nascosta dietro un delirio, strenuamente difeso, contro ogni logica, contro ogni messaggio dal mondo della realtà socialmente condivisa, contro le proposte d' aiuto, al limite anche contro le cure e lo stesso rapporto interpersonale. L'operatore rogersiano accetta sinceramente ed autenticamente il modo psicotico di vivere e non sente l'esigenza di svuotare le persone da ciò che radicatamente sono. Ricordo benissimo persone che, di fronte al mio tentativo di negare la veridicità delle asserzioni deliranti che sostenevano e di proporre un confronto con una lettura comune della realtà, mi hanno fulminato con lo sguardo: "Dottore, perché vuole farmi soffrire?" mi chiese lacrimando una signora mentre cercavo di farla riflettere sull'inesistenza di fatto di tale Ornar perdutamente innamorato di lei e dell'ineludibile, per quanto ahimè spiacevole, esistenza in vita, nel ruolo di legittimo consorte, di tale Salvatore, individuo inespressivo, anaffettivo, grossolano e violento. Non sussiste in noi il bisogno di contrastare il delirio, eliminarlo, in nome dell'opportunità di un improponibile ritorno alla realtà. C' è però, ahimè, 4 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006 bisogno di contrastarlo su altre basi e per altre motivazioni che articolerò in seguito, al punto sulla congruenza. Un' altra considerazione: l'accettazione della persona ricoverata in ospedale per acuzie psichiatrica va di pari passo con l'accettazione del suo sistema familiare e con la dovuta considerazione per le caratteristiche del sistema reparto, del contesto del lavoro d' equipe, delle sue dinamiche di sistema in cui l'operatore rogersiano si trovi eventualmente ad agire, in un complessità relazionale a molti livelli. L'accettazione incondizionata della persona, in un contesto psichiatrico pubblico, si muove in questa cornice di riferimento. E' impossibile concorrere allo svilupparsi di aspettative irrealistiche. La degenza di quindici giorni vede l'operatore in condizioni non solo di non poter strutturare un setting propriamente psicoterapico ma anche nel dover accettare, congruentemente, la limitatezza del suo ruolo di piccolo ingranaggio di fronte al potere di sistemi micro e macrosociali in cui il ricoverato è stabilente inserito ed eteronomicamente condizionato e guidato. Una vera accettazione è innanzitutto congruente valutazione dei limiti che il contesto pone. Tutti gli elementi del sistema si posizionano nel ruolo economicamente più vantaggioso, il più indolore possibile e la saggezza organismica dello psicotico lo sa. Anche noi siamo tenuti a saperlo e a controllare la nostra onnipotenza terapeutica. Non posso non tener presente l'espressione di meraviglia di pazienti psicotici rispetto al mio atteggiamento di incontro da persona a persona senza pregiudizio e condizionamento. Lo sguardo di queste persone mi trasmetteva, oltre che meraviglia ed incredulità, anche un pesante giudizio critico verso di me: "lei, dottore, appare come uno sprovveduto, un' inesperto, voglio lo psichiatra vero" sembravano dire. E' chiaro che infatti il mio atteggiamento di apertura e sincero rispetto nella reciprocità era vissuto come minaccioso e null'affatto rassicurante, per niente credibile, da parte di persone abituate a ben altro tipo di intervento psichiatrico, classicamente direttivo, e su questo iperadattati di fronte a dottori a volte buoni a volte cattivi, infermieri alle volte scherzosi alle volte incazzati, su cui erano abituati a modellarsi costruendo ad arte il loro personaggio, il loro falso sé psicotico, strutturando una pazzia che ha molte componenti di consapevole compiacenza alle aspettative dei curanti, dell'essere malati come agli altri piace. Accettazione profonda significa capire profondamente la ragione di queste persone, lo non avrei potuto garantire niente, non avrei potuto assicurare alcunché rispetto ai vuoti incolmabili di questi psicotici. Un atteggiamento autentico di ascolto profondo ed accettazione incondizionata come persone, prescindendo da stereotipi e pregiudizi, sarebbe stato smascherante e pericoloso per persone la cui unica possibilità di sopravvivenza era sempre consistita nel mimetismo, nella malleabilità, nella capacità di essere come gli altri volevano che essi fossero nel sistema di cui facevano parte. • La congruenza può essere difficilmente gestibile nei confronti dello psicotico? La congruenza è strumento fondamentale nella relazionalità con lo psicotico. "L'elemento più importante - scrive Rogers a tal proposito -della 5 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006 relazione è l'autenticità del terapeuta". Mi sono interrogato sul perché di ciò. Penso di poter dire che l'autenticità può essere una felice scoperta, un'innovazione dirompente, nel mondo relazionale di alcuni psicotici, persone, come spesso ho notato, inserite in un sistema di comunicazioni mistificanti e false, distorcenti e confondenti, in un sistema di sentimenti spesso inautentici, di messaggi ambigui, sistema peraltro che solitamente continua e si amplia, nel corso della vita, coinvolgendo i curanti e quanti si occupano della persona. Naturalmente è un argomento complesso e andrebbe articolato lungamente né mi sento di poter generalizzare queste mie considerazioni, derivate da molte esperienze, alla generalità dei casi di psicosi schizofreniche. La letteratura è vasta in questo campo. Ho comunque spesso assistito ad atteggiamenti, anche degli psichiatri, collusivi con sistemi familiari disfunzionali e confondenti il ricoverato, basate su comunicazioni false, e a decisioni fondamentali sulla vita di un ricoverato concordate tra curanti e familiari e del tutto celate o mistificate al ricoverato stesso. Ho assistito anche alla sorpresa di ricoverati, da sempre adusi alla reificazione della loro condizione, che, trattati autenticamente e con estrema chiarezza, hanno iniziato ad aprirsi, a gettar via la maschera del delirio, dell'allucinazione e ad iniziare, timidamente certo, a parlare di se stessi come persone. Questo concetto di congruenza è quello rilevato da Rogers e collaboratori nell'individuare la congruenza come fattore terapeutico fondamentale nell'approccio alle persone psicotiche. Nel lavoro in acuzie in setting istituzionale vi sono però altri aspetti importanti che l'essere congruente da parte dell'operatore riveste, anche se possono sembrare aspetti, ad una prima disamina, apparentemente tutt’altro che terapeutici. La congruenza può, in questo senso, essere difficile, può significare dover affermare verità amare da condividere, spiacevoli da ascoltare, ma ritenute profondamente vere dall'operatore ed importanti da comunicare. Nel caso dello psicotico congruenza può essere il dover ricondursi, da parte dell'operatore, a se stesso e alla necessaria assunzione di responsabilità per l'altro. Nel caso di operatore centrato sulla persona ciò può apparire particolarmente difficile, contraddirtene in termini, essendo un nostro assunto fondamentale l'empowerment del cliente e la centralità delle sue scelte ma la condizione psicotica acuta ci vede di fronte ad una condizione molto peculiare, una condizione in cui non deve scandalizzarci il parlare di esautorare la persona dalla capacità di decisione, assumersi la responsabilità di forzare la sua volontà obbligando ad un trattamento coattante e contrario al suo desiderio, confrontare la persona con la non veridicità del suo delirio. Congruenza, nel lavoro psichiatrico con persone in condizioni disfunzionali acute, è anche poter parlare con una persona, ad esempio, del suo bisogno di una terapia farmacologica L'esperienza insegna che non per tutti va bene una psicoterapia e che in alcuni casi essa è assolutamente inutile, insegna che in alcuni casi la terapia con psicofarmaci è assolutamente indicata ed utilissima per sfruttare, con grande giovamento per la persona, gli effetti farmaceutici di tali preparati. Allo stesso modo un terapeuta rogersiano non dovrà esitare a dichiarare al cliente l'inopportunità di comportamenti che stima sinceramente controproducenti per il suo bene. Vi sono persone che, a causa del loro malessere, agiscono condotte assolutamente antieconomiche per i loro interessi: e' è chi persegue condotte rischiose, chi trascura le persone care, chi dilapida i beni, chi ama le persone sbagliate, chi protrae relazioni in cui è 6 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006 sfruttato, chi ripete sempre gli stessi errori, chi intraprende percorsi che lo condurranno alla rovina. Lo psichiatra può capirlo. Può dover comunicarlo. E' una condizione molto diversa dalla psicoterapia personale di libera scelta in cui, come sappiamo, non è il caso di contestare ai clienti le loro condotte pericolose, i sentimenti dannosi, le idee assurde e deliranti assurgendo al ruolo di esperto e facendo sentire la persona ulteriormente e gravemente incompresa. Nella psichiatria con acuti valgono considerazioni diverse. Empatizzare coi bisogni profondi della persona può e deve comportare la capacità di cogliere l'implicito bisogno di protezione e cura che esiste nella comunicazione, nel comportamento stesso della persona. Il bisogno di essere protetto dal proprio modo disfunzionale di essere esiste sicuramente in alcuni casi, anche se non dichiarato. La persona che, in stato maniacale o delirante, agisce condotte antieconomiche e pericolose per la sua stessa salvaguardia, manifesta con questo comportamento il bisogno di negare una depressione, un dolore, una profonda sofferenza che non può essere guardata in faccia. E' implicita la richiesta di essere controllato, fermato, bloccato dall'esterno. Nel gioco delle parti toccherà allo psichiatra, congruentemente, limitare, contenere, imporre, contrastare il volere del cliente, esautorarlo dalle decisioni, coattarlo. Non farlo significherebbe esporlo al pericolo. L'empatia, in questi casi, è il profondo substrato della congruenza, l'unico strumento attivabile da parte dell'operatore rogersiano per entrare nel mondo dei veri bisogni, senza interpretare ma comprendendo profondamente il correlato intimo della comunicazione non verbale, spesso paradossale, della persona. Non si tratta di condividere valorialmente l'approdo alla realtà comunemente condivisa, anzi spesso l'operatore rogersiano è ben consapevole che il delirio è una realtà preferibile per la persona, che l'allucinazione è un bisogno compensatorio, che l'aggressività verso il familiare è giusta e sacrosanta, molto più vera e sentita di altri atteggiamenti possibili. Tuttavia delirare, allucinare, agire violentemente, affermare contenuti decontestualizzati ed inaccettabili per i congiunti, abbandonare i familiari, vivere autisticamente, cercare di suicidarsi, crea problemi ingestibili e complica ulteriormente la vita delle persone. La congruenza dell'operatore di formazione rogersiana, capace di guardare bene la risonanza inferiore che il modo di essere dello psicotico gli induce, deve consistere nel rendersi conto responsabilmente che per la persona degente sarebbe antieconomico agire la sua più autentica modalità di essere, quella psicotica, ed assumersi la responsabilità di impedirgli il diritto di esprimersi ancorandola, obtorto collo, alle comuni dinamiche dell'accettabilità sociale dei comportamenti non perché il mondo delle comuni relazioni sia meglio, valorialmente, di quello psicotico ma perché costituisce il minore dei mali in quel momento. • L'empatia, verso lo psicotico, necessita nel terapeuta specifiche capacità? Abbiamo sopra visto come l'empatia sia fondamentale per approcciare i 7 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006 vissuti degli psicotici, come essa sia la base per l'accettazione del loro mondo inferiore e l'ascolto di elementi comunicativi a prima vista tutt'altro che condivisibili. L'empatia nel lavoro psichiatrico ha però un' altra componente importante che riguarda l'aspetto cognitivo. Tale connotazione è specifica nel rapporto con persone psicotiche ed è un aspetto diverso rispetto alle consuete considerazioni sull'empatia. Per tale motivo voglio chiarire ciò in questo lavoro, come punto finale delle mie considerazioni, spiegandolo con l'esempio di un recente caso clinico che ben si presta ad esplicare ciò che intendo esporre. La persona psicotica, come la psichiatria ha classicamente illustrato, cognitivamente ha caratteristiche tali da renderne difficile l'approccio e la comprensione, "un modo di comunicare se stesso, spesso molto difficile da capire" dice Rogers. Concretamente si tratta di modalità comunicative abnormi, definibili come paralogiche, perché basate su disfunzionalità nell'associazione dei concetti, rispetto ai comuni strumenti della logica aristotelica. Ciò che si pensa viene espresso in modo da corrispondere ai propri profondi bisogni interiori più che alla logicità nella rappresentazione mentale. La comprensione profonda delle modalità paralogiche del modo di essere e ragionare di una persona non può essere un' operazione tecnica, necessita di una profonda empatia, più difficile che con altre categorie di persone, per la profondità del mondo interiore della persona, per la peculiarità del suo stare al mondo che sottende la disfunzione formale del pensiero, come si evincerà dall'esempio clinico che riporto a seguire, ricostruendo l'essenziale di un colloquio clinico esplicativo. Solo l'empatia con lo specifico modo di essere della persona, i suoi bisogni, i suoi valori, i suoi problemi, è lo strumento per penetrare e scardinare, come vedremo, l'apparente incomprensibilità delle rappresentazioni mentali paralogiche e facilitare la persona nello spostarsi su contenuti più attinenti la comune realtà ed avvalersi di codici comunicativi più facilmente comprensibili e fruibili per le comunicazioni interpersonali correnti. La signora Felicia si ricoverò nel nostro reparto l'anno scorso, in primavera. Cominciò con discorsi di questo tipo: "II problema è che ... non mi accettano ... nasce una confusione sulle mie cose ... Le spiego: sono stata ricoverata a Catania ... mi trovavo a Siracusa.. sono arrivati dei vigili, non so, dei carabinieri forse, nell'albergo in cui risiedevo; mi hanno portato all'Ospedale di Catania per ricoverarmi, non ho capito perché, hanno violato la mia privacy, cosa volevano da me?.... Ho dovuto lasciare tutte le mie cose nell'albergo di Siracusa, le ho ancora lì, prelevata come sono stata con la forza ... avevo speso più di diecimila euro in vestiti, biancheria, certo una spesa elevata, ma non credo che fosse un valido motivo per questa violenza che ho subito ... d' altronde non dovevo presentarmi bene alla Casa Bianca?... Avevo partecipato alla corsa alla Casa Bianca, che, si sa, avviene a Siracusa e, ora che ero diventata Capo di Stato all'Apice, come pensa che dovessi vestire? Non ho potuto stare un poco tranquilla, dopo lo stress, lei può immaginare: la corsa alla Casa Bianca! Le Primarie! Capisce, Dottore?" Espressi le mie difficoltà a capirla, il mio desiderio di orientarmi, la sensazione di un suo essere stanca e confusa. 8 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006 Ella continuò: "Non mi capiscono, ora mi sono spostata qui da voi ... in questa vostra residenza che avete messo a mia disposizione gentilmente ...I miei fratelli non vogliono credere che mi hanno fatto diventare Hillary Clinton, dottore. Neanche lei mi crede?" Ribadii il mio desiderio sincero di comprenderla, il mio percepire in lei uno sforzo importante per comunicare, il mio bisogno di elementi di chiarezza. Lei continuò: "Sì. Le spiego, prima ero fidanzata con un certo Jimmi Carter; egli mi ha fatto diventare Hillary e ora, per fortuna, ho vinto le Primarie ma sono rimasta senza le mie cose. Tutto è rimasto lì a Siracusa, all'Albergo "Fontane bianche" ... ora che sono diventata Capo di Stato all'Apice ... in particolare, sa chi sono? Il Capo di Stato Eppai e appartengo a pieno titolo all'Associazione Internazionale dei Capi di Stato all'Apice e Capi di Stato Semplici. " e così via. A quel punto colsi un elemento e rimandai: "Un attimo ... mi sembra di cominciare ad orientarmi, signora. - dissi - Voglio proprio cercare di capire ... lei diceva un paio di cose che vorrei cercare di capire meglio. Diceva.. Capo di Stato Eppai, così ha detto ... è per caso con la ipsilon finale? "Sì, dottore, - lei confermò - mi pare si scriva con la ipsilon finale." "Acca, a, pi,pi, ipsilon?" - chiesi "Mi pare di sì, dottore." continuò E io: "Happy, è vero? Lei si chiama Felicia, è vero, signora? Lei mi confermò: "Sì, è in inglese." Le feci notare l'associazione in base alle lingue e gli altri elementi associativi che iniziavo a cogliere: l'albergo "Fontane Bianche", le primarie per la Casa Bianca ... il "bianco" come elemento di congiunzione Mi precisò di essere andata a Siracusa proprio per quel motivo, parlò dei muri bianchi del nostro reparto, della fiducia che le ispiravano, riconfermando i termini generali del suo delirio. "Le cose possono avere vari nomi, dottore, - disse infine -anche il mio ex fidanzato aveva un altro nome anagrafico, a parte Jimmi Carter si chiamava anche Giuseppe Carteri, me l'hanno fatto sposare! Mi ricordo che siamo stati sposati per cinque anni, poi mi ha fatto diventare Hillary Clinton e ora ho vinto la corsa alla Casa Bianca." E io: "Non lo amava, signora ... quel Carteri?" Parlò di quando gliel'avevano fatto sposare per opportunità, per convenienza sociale, uomo vent' anni più vecchio di lei, dell'imposizione da parte della famiglia alla separazione con un precedente fidanzato che aveva molto amato ma che era operaio mentre lei era allora una professoressa di matematica o almeno tale ricordava di essere stata un giorno. "Non ha potuto sposare la persona che amava" le dissi e lei: "No, dottore ...io ho cercato di essere una brava moglie, sa? Con quel Carteri Giuseppe., anche lui era un buon uomo, è andato in pensione presto. Non stava mai in casa, lì a Catania, mancava per mesi, io non conoscevo nessuno, stavo sempre a casa, già stavo male ... ma ora voglio andare nella mia stanza., ho uno strano mal di testa." In questa interazione la chiave di svolta è stata, da parte mia, la 9 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006 comprensione del termine Eppai che la signora mi aveva proposto. Spesso chi si esprime in termini paralogici fornisce elementi d' appiglio per chi vuole porsi intenzionalmente in posizione di voler comprendere. A quel punto ho capito che la persona con cui stavo parlando aveva eretto un muro comunicativo, che le consentiva la difesa e la sopravvivenza, ma che era pronta ad aprire qualche breccia. Associava i concetti per identità di attributo, scomponendo fino alla disintegrazione, l'identità del soggetto. Alla base vi era la chiave: il giocare sul suo nome, Felicia, per lei che tutt'altro che felice era nella vita. In questo modo l'interlocutore si trovava solo di fronte all'incomprensibilità del delirio allontanandosi dal suo dolore, quello derivato dall'esistenza piegata e spiantata, quello a cui non aveva retto. Il fidanzato, per assonanza dei cognomi, Carter! - Carter, era diventato presidente. L'albergo Fontane Bianche, come l'ospedale dai muri bianchi, diventavano, per identità di attributi, la Casa Bianca, permettendole di vivere un sogno di essere una persona importante, un capo di stato all'apice, anziché una povera disgraziata che non aveva potuto amare chi preferiva e che languiva nei letti di varie psichiatrie. La signora Felicia mi consentì d' intravedere il suo dolore, l'empatia per esso è stata la chiave di svolta per la comprensione cognitiva del delirio, prima di viverlo come cefalea e ritirarsi nella sua stanza, nella prigione dorata di una Casa Bianca mentale cui uno scalcinato reparto di psichiatria può trasformarsi pur di permettere a un essere umano di sopravvivere in qualche modo. 10 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006 Bibliografia: AA.VV. (1993), I fattori terapeutici delle psicoterapie, Torino, Centro Scientifico Editore Grillo S. e al. (1991), II cambiamento nei contesti non terapeutici, Milano, R. Cortina Rogers C.R. 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