Psichiatria centrata sulla persona, applicazione delle

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Psichiatria centrata sulla persona, applicazione delle
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006
Psichiatria centrata sulla persona,
applicazione delle condizioni
necessarie e sufficienti
Alberto Stimolo
Psichiatria e approccio centrato sulla persona sembrano essere mondi
antitetici ed inconciliabili. Basti pensare alla lotta di C. Rogers contro la
psichiatria dominante, ai suoi tempi, reificante l'uomo, considerato un
malato, alienato ed incapace, da curare e, spesso, isolare dalla società. In
realtà ancora oggi, anche nell'Italia post legge 180, ai servizi psichiatrici
esistenti nel territorio, è delegato un' implicito, subdolo e non dichiarato,
ruolo di controllo sociale e di gestione di ogni comportamento umano
turbative e disfunzionale rispetto alle comuni dinamiche di produttività,
normatività, perbenismo.
Tuttavia la sfida di pensare una psichiatria reale "sufficientemente
buona" e centrata sulla persona è tutt'altro che da rigettare nonostante i
limiti, anche legali, del mandato e dei mezzi a disposizione.
Questo articolo nasce dall'esperienza da me maturata in S.P.D.C,
applicando alle specifiche condizioni dell'assistenza psichiatrica pubblica
nelle strutture sanitarie post-riforma quanto in me è derivato dalla
formazione secondo l'approccio centrato sulla persona e quindi si propone
di costituire una riflessione, su base empirica, dell'apprendimento ricavato
dalla specifica esperienza di frontiera del lavoro in setting istituzionale con
pazienti psichiatrici acuti, prevalentemente schizofrenici, degenti per periodi
di trattamento variabili dalla settimana al mese, al massimo, con terapie
prevalentemente farmacologiche.
L'obiettivo, nello specifico di questo scritto, non è di parlare
dell'applicazione della psicoterapia propriamente detta nel setting improprio
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e spurio di un reparto di psichiatria per ricoverati gravi ed acuti né di
articolare considerazioni estese ed esaustive su relazionalità ed alleanza
terapeutica nel reparto ospedaliero. Non è neanche di valutare
scientificamente l'applicazione di trattamenti ad orientamento centrato sulla
persona nel contesto suddetto o, in generale, nel lavoro con psicotici.
Unico obiettivo invece è di esporre alcune riflessioni, appunto sulla base
empirica dell'esperienza acquisita e di qualche riscontro rinvenuto in
letteratura, sull'estensione dei concetti di empatia, congruenza, accettazione,
all'intervento con psicotici gravi, valutando risvolti peculiari che le tre
condizioni necessarie e sufficienti definite da C. Rogers possono rivestire
nello specifico di un lavoro in acuto ed in strutture sanitarie improntate alla
continua emergenza, alla genericità e globalità delle problematiche
affrontate, alla complessità dell'intervento con variabili di ogni tipo tra loro
interagenti.
Considerato tale obiettivo articolerò l'intervento su tre domande,
cercando di formulare le risposte, continuando a sottolineare che ciò,
naturalmente, vuole essere ben lontano dall'inquadrare con compiutezza un
argomento vastissimo quale la relazionalità terapeutica nel contesto dei
reparti psichiatrici per acuti secondo l'operatività delle strutture sanitarie a
ciò deputate dalla legge 180.
Le tre domande:
•
Quali le specificità dell'accettazione positiva incondizionata se rivolta alla
persona psicotica?
•
La congruenza può essere difficilmente gestibile nei confronti dello
psicotico?
•
L'empatia, verso lo psicotico, necessita nel terapeuta specifiche
capacità?
Naturalmente le tre domande ne sottendono una, ad esse soggiacente,
che merita qualche breve considerazione: esistono gli psicotici? Chi sono?
A rigore la nostra impostazione teoretica ha fondamento nell'approccio
adiagnostico: è ben vero che le persone, nella multiformeità proteiforme
dell'essere al mondo sono tutte diverse l'una dall'altra. Non esistono le
persone malate distinte da quelle mentalmente sane. Le espressioni del
disagio personale, inscrivibili nell'ambito delle manifestazioni abnormi e
patologiche del comportamento umano, si presentano lungo un continuum
fenomenico dell'espressività che deve tener conto delle specificità
individuali. Tutti coloro che possiamo definire psicotici o schizofrenici sono
diversi l'uno dall'altro così come le persone che non diagnostichiamo in
questi ambiti. Una persona che chiamiamo psicotico è diverso ogni giorno e
ogni momento della sua vita tanto è vero che la stessa persona solitamente
fruisce di diagnosi diverse se osservato e valutato da diversi psichiatri e,
anche se seguita sempre dallo stesso operatore, nel corso della vita per la
multiforme cangiabilità del suo modo di essere.
Soggetti inquadrati come borderline vengono in seguito diagnosticati
come schizofrenici o, qualche anno dopo, come maniacali e così via. Questa è
un' ineludibile realtà nota a tutti i clinici. Allo stesso modo non si può negare
la patomorfosi dei cosiddetti disturbi mentali nel tempo e nello spazio col
variare delle culture umane di appartenenza.
Ciò nonostante, e continuando a tenere tali considerazioni nello sfondo,
non si può eludere il problema della struttura della personalità e non è
possibile sottrarsi ad una funzione diagnostica che, invece, è importante per
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la clinica in quanto supportante la possibilità di trattamento ed è inoltre
obbligatoria per legge in ospedale
Nel modello rogersiano la persona, che ha dovuto esistenzialmente
irrigidire la rappresentazione delle varie componenti esperenziali, non può
ascrivere al sé una gran parte di esperienze organismiche, essendo le stesse
incongruenti con un rigido concetto di sé, strutturato in un contesto di
ridottissima accettazione. L'incongruenza estrema tra concetto di sé ed
esperienza percettiva comporta una necessaria distorsione della
rappresentazione simbolica dell'esperienza con manifestazioni deliranti dei
vissuti personali in base ai parametri sociali di condivisione della realtà che
socialmente accomunano nella cultura d'appartenenza.
Il modo di presentarsi pervicacemente e costantemente a questo punto è
tale da definire il modo di essere psicotico, pur senza voler abbracciare
rigidamente ed acriticamente un riconoscimento ed un' adozione di criteri
diagnostici dei vari manuali statistici e diagnostici delle associazioni
psichiatriche, talmente discutibili quanto lo è la velleità che, nel corso dello
scorso secolo soprattutto, ha contraddistinto la storia della psichiatria nel
suo vano e sbagliato sforzo di ricostruire tassonomicamente l'elenco delle
malattie della cosiddetta mente e delle storie naturali di esse.
Il grande gruppo delle sofferenze "psicotiche" esiste globalmente,
genericamente, comprende tutte quelle condizioni in cui la disfunzionalità
mentale è grossolanamente alterata rispetto ai parametri cognitivi condivisi
dalla popolazione di riferimento. Bisogna riconoscere nel delirio il modo di
essere al mondo specifico degli psicotici, distaccati drammaticamente dal
sentire condiviso nella comunità e dalla possibilità di condividere
efficacemente elementi semplici o complessi della comunicazione umana.
Le tre domande:
•
Quali le specificità dell'accettazione positiva incondizionata se rivolta
alla persona psicotica?
La persona che struttura una condizione di funzionamento mentale
psicotico è una persona in grave stato di vunerabilità, rispetto alla propria
vita. La psicosi è una soluzione, disfunzionale rispetto alle dinamiche di
funzionamento sociale, di integrazione di una persona nella collettività di
appartenenza e di condivisione dei portati culturali delle interazioni umane.
E' però, e questo è veramente l'importante, l'esito, l'unico esito possibile, in
un dato momento, del percorso esistenziale di una persona, l'unica modalità
di cui essa dispone per attualizzare il suo essere al mondo in un dato punto
della sua vita.
Empatizzare tale realtà comporta una grande capacità di profonda
accettazione, di peculiare specifica accettazione di un essere umano
sicuramente molto sofferente.
La risorsa psicosi è ciò con cui ci incontriamo e ciò è particolarmente
evidente nelle condizioni acute. Risorsa perché senza psicosi quella persona
con cui interagiamo morirebbe, sarebbe annullata ed inesistente, non in
grado di sopravvivere al mondo in cui è inserita.
Senza voler affrontare specificamente il problema della componente
biologica delle psicosi, ritengo che, dal nostro punto di vista, sia inutile
enfatizzare molto quella che è stata la diatriba storica tra organicismo e
psicodinamica sulla componente biologica, sul peso genetico nelle psicosi,
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sulla schizofrenia come malattia del cervello. Ritengo che l'approccio
rogersiano sia abbastanza organicistico, profondamente radicato nelle
logiche del bios, olistico in ogni caso, e che pertanto dal nostro punto di vista
la distinzione soma-mente non abbia molto senso. L'uomo soffre
globalmente, olograficamente, con tutte le funzioni dei suoi organi, delle sue
cellule, dei suoi neuromediatori così come delle sue idee ed emozioni.
L'ereditarietà,
l'incomprensibilità
processuale
di
percorsi
misteriosamente deteriorativi è evidente in alcuni casi, non in altri. D'
altronde ancora neanche la psichiatria ha sicurezza né sulla patogenesi della
schizofrenia né sulla sua unicità come condizione patologica.
Ci possiamo trovare a volte di fronte a soggetti immodificabili, a persone
in cui non si capisca perché esiste un' alienazione dalle comuni modalità
dell'essere in relazione: dobbiamo accettarlo semplicemente e con grande
modestia e riuscire a sentirci vicini a queste persone, affiancarle anche senza
poterle comprendere. In questi casi, quanto mai in altri, la centratura è sul
cliente della nostra prestazione e meno che mai su di noi, sul nostro ruolo,
sul nostro potere, sulle nostre teorie che, in talune condizioni, non riescono a
fornire una chiave di lettura di un percorso patologico.
Bisogna però dire che vi sono altre situazioni, e sono moltissime, in cui il
delirio di una persona è comprensibilissimo, è il senso stesso della sua vita.
Il sintomo psicotico si inscrive in questo gruppo di casi nella storia
personale delle persone con evidenza della valenza compensatoria del
sintomo stesso. Attraverso il delirio le persone rappresentano alla propria
coscienza realtà non vere ma di cui hanno bisogno per sopravvivere
nell'unico modo possibile perché imbrigliate in situazioni vincolanti, di solito
sin dalla nascita, che le hanno costrette entro rigidi termini di accettazione.
Il delirio, l'allucinazione, realizzano in tali casi, che, ripeto, non sono tutti,
bisogni di amore, di realizzazione, di successo, di alienazione da sé del
dolore, dell'aggressività, della rabbia, dei sentimenti negativi ed ostili.
L'accettazione della persona psicotica da parte dell'operatore è una sfida,
essendo possibile solo se sussiste profonda e rispettosissima comprensione
empatica di questi bisogni e di un' estrema sofferenza, tanto indicibile da
creare distanza e barriera comunicativa fino all'estremo dell'incomunicabilità
nella catatonia, tanto indicibile da essere nascosta dietro un delirio,
strenuamente difeso, contro ogni logica, contro ogni messaggio dal mondo
della realtà socialmente condivisa, contro le proposte d' aiuto, al limite anche
contro le cure e lo stesso rapporto interpersonale.
L'operatore rogersiano accetta sinceramente ed autenticamente il modo
psicotico di vivere e non sente l'esigenza di svuotare le persone da ciò che
radicatamente sono.
Ricordo benissimo persone che, di fronte al mio tentativo di negare la
veridicità delle asserzioni deliranti che sostenevano e di proporre un
confronto con una lettura comune della realtà, mi hanno fulminato con lo
sguardo: "Dottore, perché vuole farmi soffrire?" mi chiese lacrimando una
signora mentre cercavo di farla riflettere sull'inesistenza di fatto di tale
Ornar perdutamente innamorato di lei e dell'ineludibile, per quanto ahimè
spiacevole, esistenza in vita, nel ruolo di legittimo consorte, di tale Salvatore,
individuo inespressivo, anaffettivo, grossolano e violento.
Non sussiste in noi il bisogno di contrastare il delirio, eliminarlo, in nome
dell'opportunità di un improponibile ritorno alla realtà. C' è però, ahimè,
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bisogno di contrastarlo su altre basi e per altre motivazioni che articolerò in
seguito, al punto sulla congruenza.
Un' altra considerazione: l'accettazione della persona ricoverata in
ospedale per acuzie psichiatrica va di pari passo con l'accettazione del suo
sistema familiare e con la dovuta considerazione per le caratteristiche del
sistema reparto, del contesto del lavoro d' equipe, delle sue dinamiche di
sistema in cui l'operatore rogersiano si trovi eventualmente ad agire, in un
complessità relazionale a molti livelli.
L'accettazione incondizionata della persona, in un contesto psichiatrico
pubblico, si muove in questa cornice di riferimento. E' impossibile concorrere
allo svilupparsi di aspettative irrealistiche. La degenza di quindici giorni vede
l'operatore in condizioni non solo di non poter strutturare un setting
propriamente psicoterapico ma anche nel dover accettare, congruentemente,
la limitatezza del suo ruolo di piccolo ingranaggio di fronte al potere di
sistemi micro e macrosociali in cui il ricoverato è stabilente inserito ed
eteronomicamente condizionato e guidato.
Una vera accettazione è innanzitutto congruente valutazione dei limiti
che il contesto pone. Tutti gli elementi del sistema si posizionano nel ruolo
economicamente più vantaggioso, il più indolore possibile e la saggezza
organismica dello psicotico lo sa. Anche noi siamo tenuti a saperlo e a
controllare la nostra onnipotenza terapeutica.
Non posso non tener presente l'espressione di meraviglia di pazienti
psicotici rispetto al mio atteggiamento di incontro da persona a persona
senza pregiudizio e condizionamento. Lo sguardo di queste persone mi
trasmetteva, oltre che meraviglia ed incredulità, anche un pesante giudizio
critico verso di me: "lei, dottore, appare come uno sprovveduto, un'
inesperto, voglio lo psichiatra vero" sembravano dire. E' chiaro che infatti il
mio atteggiamento di apertura e sincero rispetto nella reciprocità era vissuto
come minaccioso e null'affatto rassicurante, per niente credibile, da parte di
persone abituate a ben altro tipo di intervento psichiatrico, classicamente
direttivo, e su questo iperadattati di fronte a dottori a volte buoni a volte
cattivi, infermieri alle volte scherzosi alle volte incazzati, su cui erano
abituati a modellarsi costruendo ad arte il loro personaggio, il loro falso sé
psicotico, strutturando una pazzia che ha molte componenti di consapevole
compiacenza alle aspettative dei curanti, dell'essere malati come agli altri
piace.
Accettazione profonda significa capire profondamente la ragione di
queste persone, lo non avrei potuto garantire niente, non avrei potuto
assicurare alcunché rispetto ai vuoti incolmabili di questi psicotici. Un
atteggiamento autentico di ascolto profondo ed accettazione incondizionata
come persone, prescindendo da stereotipi e pregiudizi, sarebbe stato
smascherante e pericoloso per persone la cui unica possibilità di
sopravvivenza era sempre consistita nel mimetismo, nella malleabilità, nella
capacità di essere come gli altri volevano che essi fossero nel sistema di cui
facevano parte.
•
La congruenza può essere difficilmente gestibile nei confronti dello
psicotico?
La congruenza è strumento fondamentale nella relazionalità con lo
psicotico. "L'elemento più importante - scrive Rogers a tal proposito -della
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relazione è l'autenticità del terapeuta". Mi sono interrogato sul perché di ciò.
Penso di poter dire che l'autenticità può essere una felice scoperta,
un'innovazione dirompente, nel mondo relazionale di alcuni psicotici,
persone, come spesso ho notato, inserite in un sistema di comunicazioni
mistificanti e false, distorcenti e confondenti, in un sistema di sentimenti
spesso inautentici, di messaggi ambigui, sistema peraltro che solitamente
continua e si amplia, nel corso della vita, coinvolgendo i curanti e quanti si
occupano della persona. Naturalmente è un argomento complesso e
andrebbe articolato lungamente né mi sento di poter generalizzare queste
mie considerazioni, derivate da molte esperienze, alla generalità dei casi di
psicosi schizofreniche. La letteratura è vasta in questo campo. Ho comunque
spesso assistito ad atteggiamenti, anche degli psichiatri, collusivi con sistemi
familiari disfunzionali e confondenti il ricoverato, basate su comunicazioni
false, e a decisioni fondamentali sulla vita di un ricoverato concordate tra
curanti e familiari e del tutto celate o mistificate al ricoverato stesso.
Ho assistito anche alla sorpresa di ricoverati, da sempre adusi alla
reificazione della loro condizione, che, trattati autenticamente e con estrema
chiarezza, hanno iniziato ad aprirsi, a gettar via la maschera del delirio,
dell'allucinazione e ad iniziare, timidamente certo, a parlare di se stessi come
persone.
Questo concetto di congruenza è quello rilevato da Rogers e collaboratori
nell'individuare la congruenza come fattore terapeutico fondamentale
nell'approccio alle persone psicotiche. Nel lavoro in acuzie in setting
istituzionale vi sono però altri aspetti importanti che l'essere congruente da
parte dell'operatore riveste, anche se possono sembrare aspetti, ad una
prima disamina, apparentemente tutt’altro che terapeutici.
La congruenza può, in questo senso, essere difficile, può significare
dover affermare verità amare da condividere, spiacevoli da ascoltare, ma
ritenute profondamente vere dall'operatore ed importanti da comunicare. Nel
caso dello psicotico congruenza può essere il dover ricondursi, da parte
dell'operatore, a se stesso e alla necessaria assunzione di responsabilità per
l'altro. Nel caso di operatore centrato sulla persona ciò può apparire
particolarmente difficile, contraddirtene in termini, essendo un nostro
assunto fondamentale l'empowerment del cliente e la centralità delle sue
scelte ma la condizione psicotica acuta ci vede di fronte ad una condizione
molto peculiare, una condizione in cui non deve scandalizzarci il parlare di
esautorare la persona dalla capacità di decisione, assumersi la responsabilità
di forzare la sua volontà obbligando ad un trattamento coattante e contrario
al suo desiderio, confrontare la persona con la non veridicità del suo delirio.
Congruenza, nel lavoro psichiatrico con persone in condizioni
disfunzionali acute, è anche poter parlare con una persona, ad esempio, del
suo bisogno di una terapia farmacologica L'esperienza insegna che non per
tutti va bene una psicoterapia e che in alcuni casi essa è assolutamente
inutile, insegna che in alcuni casi la terapia con psicofarmaci è assolutamente
indicata ed utilissima per sfruttare, con grande giovamento per la persona,
gli effetti farmaceutici di tali preparati.
Allo stesso modo un terapeuta rogersiano non dovrà esitare a dichiarare
al cliente l'inopportunità di comportamenti che stima sinceramente
controproducenti per il suo bene. Vi sono persone che, a causa del loro
malessere, agiscono condotte assolutamente antieconomiche per i loro
interessi: e' è chi persegue condotte rischiose, chi trascura le persone care,
chi dilapida i beni, chi ama le persone sbagliate, chi protrae relazioni in cui è
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sfruttato, chi ripete sempre gli stessi errori, chi intraprende percorsi che lo
condurranno alla rovina. Lo psichiatra può capirlo. Può dover comunicarlo.
E' una condizione molto diversa dalla psicoterapia personale di libera
scelta in cui, come sappiamo, non è il caso di contestare ai clienti le loro
condotte pericolose, i sentimenti dannosi, le idee assurde e deliranti
assurgendo al ruolo di esperto e facendo sentire la persona ulteriormente e
gravemente incompresa.
Nella psichiatria con acuti valgono considerazioni diverse. Empatizzare
coi bisogni profondi della persona può e deve comportare la capacità di
cogliere l'implicito bisogno di protezione e cura che esiste nella
comunicazione, nel comportamento stesso della persona.
Il bisogno di essere protetto dal proprio modo disfunzionale di essere
esiste sicuramente in alcuni casi, anche se non dichiarato.
La persona che, in stato maniacale o delirante, agisce condotte
antieconomiche e pericolose per la sua stessa salvaguardia, manifesta con
questo comportamento il bisogno di negare una depressione, un dolore, una
profonda sofferenza che non può essere guardata in faccia. E' implicita la
richiesta di essere controllato, fermato, bloccato dall'esterno. Nel gioco delle
parti toccherà allo psichiatra, congruentemente, limitare, contenere, imporre,
contrastare il volere del cliente, esautorarlo dalle decisioni, coattarlo. Non
farlo significherebbe esporlo al pericolo.
L'empatia, in questi casi, è il profondo substrato della congruenza,
l'unico strumento attivabile da parte dell'operatore rogersiano per entrare
nel mondo dei veri bisogni, senza interpretare ma comprendendo
profondamente il correlato intimo della comunicazione non verbale, spesso
paradossale, della persona.
Non si tratta di condividere valorialmente l'approdo alla realtà
comunemente condivisa, anzi spesso l'operatore rogersiano è ben
consapevole che il delirio è una realtà preferibile per la persona, che
l'allucinazione è un bisogno compensatorio, che l'aggressività verso il
familiare è giusta e sacrosanta, molto più vera e sentita di altri atteggiamenti
possibili.
Tuttavia delirare, allucinare, agire violentemente, affermare contenuti
decontestualizzati ed inaccettabili per i congiunti, abbandonare i familiari,
vivere autisticamente, cercare di suicidarsi, crea problemi ingestibili e
complica ulteriormente la vita delle persone.
La congruenza dell'operatore di formazione rogersiana, capace di
guardare bene la risonanza inferiore che il modo di essere dello psicotico gli
induce, deve consistere nel rendersi conto responsabilmente che per la
persona degente sarebbe antieconomico agire la sua più autentica modalità
di essere, quella psicotica, ed assumersi la responsabilità di impedirgli il
diritto di esprimersi ancorandola, obtorto collo, alle comuni dinamiche
dell'accettabilità sociale dei comportamenti non perché il mondo delle
comuni relazioni sia meglio, valorialmente, di quello psicotico ma perché
costituisce il minore dei mali in quel momento.
• L'empatia, verso lo psicotico, necessita nel terapeuta specifiche
capacità?
Abbiamo sopra visto come l'empatia sia fondamentale per approcciare i
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vissuti degli psicotici, come essa sia la base per l'accettazione del loro mondo
inferiore e l'ascolto di elementi comunicativi a prima vista tutt'altro che
condivisibili.
L'empatia nel lavoro psichiatrico ha però un' altra componente
importante che riguarda l'aspetto cognitivo. Tale connotazione è specifica nel
rapporto con persone psicotiche ed è un aspetto diverso rispetto alle
consuete considerazioni sull'empatia. Per tale motivo voglio chiarire ciò in
questo lavoro, come punto finale delle mie considerazioni, spiegandolo con
l'esempio di un recente caso clinico che ben si presta ad esplicare ciò che
intendo esporre.
La persona psicotica, come la psichiatria ha classicamente illustrato,
cognitivamente ha caratteristiche tali da renderne difficile l'approccio e la
comprensione, "un modo di comunicare se stesso, spesso molto difficile da
capire" dice Rogers.
Concretamente si tratta di modalità comunicative abnormi, definibili
come paralogiche, perché basate su disfunzionalità nell'associazione dei
concetti, rispetto ai comuni strumenti della logica aristotelica. Ciò che si
pensa viene espresso in modo da corrispondere ai propri profondi bisogni
interiori più che alla logicità nella rappresentazione mentale.
La comprensione profonda delle modalità paralogiche del modo di essere
e ragionare di una persona non può essere un' operazione tecnica, necessita
di una profonda empatia, più difficile che con altre categorie di persone, per
la profondità del mondo interiore della persona, per la peculiarità del suo
stare al mondo che sottende la disfunzione formale del pensiero, come si
evincerà dall'esempio clinico che riporto a seguire, ricostruendo l'essenziale
di un colloquio clinico esplicativo.
Solo l'empatia con lo specifico modo di essere della persona, i suoi
bisogni, i suoi valori, i suoi problemi, è lo strumento per penetrare e
scardinare,
come
vedremo,
l'apparente
incomprensibilità
delle
rappresentazioni mentali paralogiche e facilitare la persona nello spostarsi
su contenuti più attinenti la comune realtà ed avvalersi di codici
comunicativi più facilmente comprensibili e fruibili per le comunicazioni
interpersonali correnti.
La signora Felicia si ricoverò nel nostro reparto l'anno scorso, in
primavera.
Cominciò con discorsi di questo tipo: "II problema è che ... non mi
accettano ... nasce una confusione sulle mie cose ... Le spiego: sono stata
ricoverata a Catania ... mi trovavo a Siracusa.. sono arrivati dei vigili, non so,
dei carabinieri forse, nell'albergo in cui risiedevo; mi hanno portato
all'Ospedale di Catania per ricoverarmi, non ho capito perché, hanno violato
la mia privacy, cosa volevano da me?.... Ho dovuto lasciare tutte le mie cose
nell'albergo di Siracusa, le ho ancora lì, prelevata come sono stata con la
forza ... avevo speso più di diecimila euro in vestiti, biancheria, certo una
spesa elevata, ma non credo che fosse un valido motivo per questa violenza
che ho subito ... d' altronde non dovevo presentarmi bene alla Casa Bianca?...
Avevo partecipato alla corsa alla Casa Bianca, che, si sa, avviene a Siracusa e,
ora che ero diventata Capo di Stato all'Apice, come pensa che dovessi
vestire? Non ho potuto stare un poco tranquilla, dopo lo stress, lei può
immaginare: la corsa alla Casa Bianca! Le Primarie! Capisce, Dottore?"
Espressi le mie difficoltà a capirla, il mio desiderio di orientarmi, la
sensazione di un suo essere stanca e confusa.
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Ella continuò: "Non mi capiscono, ora mi sono spostata qui da voi ... in
questa vostra residenza che avete messo a mia disposizione gentilmente ...I
miei fratelli non vogliono credere che mi hanno fatto diventare Hillary
Clinton, dottore. Neanche lei mi crede?"
Ribadii il mio desiderio sincero di comprenderla, il mio percepire in lei
uno sforzo importante per comunicare, il mio bisogno di elementi di
chiarezza.
Lei continuò: "Sì. Le spiego, prima ero fidanzata con un certo Jimmi
Carter; egli mi ha fatto diventare Hillary e ora, per fortuna, ho vinto le
Primarie ma sono rimasta senza le mie cose. Tutto è rimasto lì a Siracusa,
all'Albergo "Fontane bianche" ... ora che sono diventata Capo di Stato
all'Apice ... in particolare, sa chi sono? Il Capo di Stato Eppai e appartengo a
pieno titolo all'Associazione Internazionale dei Capi di Stato all'Apice e Capi
di Stato Semplici. " e così via.
A quel punto colsi un elemento e rimandai: "Un attimo ... mi sembra di
cominciare ad orientarmi, signora. - dissi - Voglio proprio cercare di capire ...
lei diceva un paio di cose che vorrei cercare di capire meglio. Diceva.. Capo di
Stato Eppai, così ha detto ... è per caso con la ipsilon finale?
"Sì, dottore, - lei confermò - mi pare si scriva con la ipsilon finale."
"Acca, a, pi,pi, ipsilon?" - chiesi
"Mi pare di sì, dottore." continuò
E io: "Happy, è vero? Lei si chiama Felicia, è vero, signora?
Lei mi confermò: "Sì, è in inglese."
Le feci notare l'associazione in base alle lingue e gli altri elementi
associativi che iniziavo a cogliere: l'albergo "Fontane Bianche", le primarie per
la Casa Bianca ... il "bianco" come elemento di congiunzione
Mi precisò di essere andata a Siracusa proprio per quel motivo, parlò dei
muri bianchi del nostro reparto, della fiducia che le ispiravano,
riconfermando i termini generali del suo delirio. "Le cose possono avere vari
nomi, dottore, - disse infine -anche il mio ex fidanzato aveva un altro nome
anagrafico, a parte Jimmi Carter si chiamava anche Giuseppe Carteri, me
l'hanno fatto sposare! Mi ricordo che siamo stati sposati per cinque anni, poi
mi ha fatto diventare Hillary Clinton e ora ho vinto la corsa alla Casa Bianca."
E io: "Non lo amava, signora ... quel Carteri?"
Parlò di quando gliel'avevano fatto sposare per opportunità, per
convenienza sociale, uomo vent' anni più vecchio di lei, dell'imposizione da
parte della famiglia alla separazione con un precedente fidanzato che aveva
molto amato ma che era operaio mentre lei era allora una professoressa di
matematica o almeno tale ricordava di essere stata un giorno.
"Non ha potuto sposare la persona che amava" le dissi e lei: "No, dottore
...io ho cercato di essere una brava moglie, sa? Con quel Carteri Giuseppe.,
anche lui era un buon uomo, è andato in pensione presto. Non stava mai in
casa, lì a Catania, mancava per mesi, io non conoscevo nessuno, stavo
sempre a casa, già stavo male ... ma ora voglio andare nella mia stanza., ho
uno strano mal di testa."
In questa interazione la chiave di svolta è stata, da parte mia, la
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comprensione del termine Eppai che la signora mi aveva proposto. Spesso chi
si esprime in termini paralogici fornisce elementi d' appiglio per chi vuole
porsi intenzionalmente in posizione di voler comprendere. A quel punto ho
capito che la persona con cui stavo parlando aveva eretto un muro
comunicativo, che le consentiva la difesa e la sopravvivenza, ma che era
pronta ad aprire qualche breccia. Associava i concetti per identità di
attributo, scomponendo fino alla disintegrazione, l'identità del soggetto.
Alla base vi era la chiave: il giocare sul suo nome, Felicia, per lei che
tutt'altro che felice era nella vita.
In questo modo l'interlocutore si trovava solo di fronte
all'incomprensibilità del delirio allontanandosi dal suo dolore, quello
derivato dall'esistenza piegata e spiantata, quello a cui non aveva retto. Il
fidanzato, per assonanza dei cognomi, Carter! - Carter, era diventato
presidente. L'albergo Fontane Bianche, come l'ospedale dai muri bianchi,
diventavano, per identità di attributi, la Casa Bianca, permettendole di vivere
un sogno di essere una persona importante, un capo di stato all'apice,
anziché una povera disgraziata che non aveva potuto amare chi preferiva e
che languiva nei letti di varie psichiatrie.
La signora Felicia mi consentì d' intravedere il suo dolore, l'empatia per
esso è stata la chiave di svolta per la comprensione cognitiva del delirio,
prima di viverlo come cefalea e ritirarsi nella sua stanza, nella prigione
dorata di una Casa Bianca mentale cui uno scalcinato reparto di psichiatria
può trasformarsi pur di permettere a un essere umano di sopravvivere in
qualche modo.
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Bibliografia:
AA.VV. (1993), I fattori terapeutici delle psicoterapie, Torino, Centro
Scientifico Editore
Grillo S. e al. (1991), II cambiamento nei contesti non terapeutici, Milano, R.
Cortina
Rogers C.R. (1986) La terapia centrata sul cliente, Firenze, Martinelli
Rogers C.R. e Kinget C.M. (1970) Psicoterapia e relazioni umane, Torino,
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