Trappole nel cielo

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Trappole nel cielo
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marzo 2003
Trappole nel cielo
Sono trascorsi dieci anni da quando il Comandante Adalberto Pellegrino, allora
pilota sui B747 della compagnia di bandiera Alitalia, scrisse il libro «Trappole nel
cielo – Sicurezza, rischi e anomalie dell’aviazione civile» per comunicare ad un
pubblico che andasse oltre gli addetti ai lavori, molti aspetti dell’aviazione civile e
del trasporto aereo che erano in gran parte ignorati, nascosti da miti o appannati da
stereotipi.
Dopo il pensionamento Adalberto Pellegrino fu Presidente della Società di Gestione
dell’aeroporto di Ronchi dei Legionari e attualmente è consulente per la
comunicazione presso l’Agenzia Nazionale per la Sicurezza del Volo.
Nel labirinto tecnocratico dell'aviazione commerciale degli anni Novanta ci si può
smarrire. Le aree di competenza e di responsabilità si sfiorano, si intersecano,
spostano di continuo i loro confini come gli accumuli di sabbia lasciati sulla battigia
dalle onde del mare. La stessa definizione di sicurezza varia con le circostanze e
tende a rimanere poco netta o a confondersi. Persino il suo metro di misura, la
statistica degli incidenti, viene usato al contrario: se un'operazione di volo si
conclude senza danni è considerata sicura.
Si verrebbe quasi tentati di dare ascolto a coloro che, con una scrollata di spalle,
decretano fatalisticamente: «È risaputo che non esiste attività umana esente da
rischi».
L'aviazione ha però già vissuto la stagione degli eroismi e dei fallimenti. E la storia
del volo è costellata di sciagure. Ma se all'inizio del trasporto aereo un certo numero
di incidenti era da considerarsi fatale per la mancanza di conoscenze e di
esperienze adeguate, ciò potrebbe ora venire evitato. E, anche se la sicurezza
assoluta non potrà mai venire garantita, è certamente possibile diminuire i pericoli
del volo civile.
L'aviazione commerciale — affermatasi come indispensabile a livello planetario —
appagata da clientele che si infittiscono incessantemente e da statistiche di
mortalità relativamente modeste, sembra non più stimolata ad alzare il livello della
sua qualità più preziosa. Disinformando o tacendo e ammaliando con l'incanto
sottile dei suoi luoghi comuni. Mai come adesso, che è diventato imponente
fenomeno di massa, la sua pubblicità insiste sull'immagine elitaria, quasi esclusiva,
della jet society. E la gente non ha ancora imparato a esercitare il diritto di rifiutare
le informazioni elusive o superflue.
Si usa spesso ripetere che quello aereo è il più sicuro fra tutti i mezzi di trasporto.
Per dimostrarlo si citano le perdite di vite umane avvenute per «passeggero ogni
miglio», che è il numero di viaggiatori trasportati moltiplicato per il numero delle
miglia percorse in volo durante lo stesso periodo. Un fattore enorme quest'ultimo,
riferito alla flotta mondiale, e che pertanto produce indici di fatalità irrisori, cifre
piccolissime precedute da narcotizzanti decine di zeri. Ma se invece di usare le
miglia — cioè lo spazio percorso — si prendesse in considerazione, ad esempio, il
tempo, ci si accorgerebbe che l'aeroplano non è più cosi sicuro come dicono i suoi
esercenti.
Ovviamente muoiono più persone sulle strade che nei disastri aviatori, ma questo
accade anche perché sulle strade i viaggiatori passano molto più tempo che non per
aria. Vengono diffuse certezze erronee e si favoriscono i processi della rimozione o
dell'apatia. Si induce la gente, per quanto immorale ciò possa essere, a dimenticare
i propri morti. E ciò finisce per fornire un cattivo servizio anche ai vivi.
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«Gli incidenti sono un modo per imparare a fare sicurezza», si legge sugli intriganti
ta-tze-bao affissi alle pareti delle scuole di volo. Ma perché la frase diventi realtà
operante bisognerebbe che ciascun incidente venisse indagato e ricostruito
fedelmente. La lettura dei registratori di volo (installati obbligatoriamente su tutti i
velivoli civili) lo consente abbastanza agevolmente. Ma anche fedelmente e
realisticamente? Attenzione: ricordiamo che il voice recorder è in realtà un sound
recorder che conserva tutti i suoni che raggiungono il microfono posto sul soffitto
della cabina di pilotaggio. In esso quindi confluiscono non solo voci, ma anche
segnali acustici di avviso, rumori di fondo e altri fruscii normalmente non
coscientemente avvertibili dall'equipaggio. Il fenomeno potrebbe venire definito
«impermeabilità ricettiva» tale da — in determinate condizioni — funzionare come
vero e proprio filtro di taluni stimoli sensoriali. D'altronde, e generalmente, l'uomo
«ode» con l'orecchio, ma «sente» con il cervello (cosi come con il cervello «vede»
ciò che gli occhi soltanto «guardano»).
È noto che i piloti solitamente non memorizzano i messaggi, percepiti attraverso le
cuffie radio, che non riguardano il loro volo. Similmente accade a ciascuno di noi di
ignorare ciò che viene detto in una stanza piena di gente che parla, qualora si sia
concentrati su qualche altra cosa. Questa caratteristica umana di ignorare suoni
udibili esiste anche per le percezioni visive.
Perciò l'analisi dei registratori — dopo avere appurato oltre ogni ragionevole dubbio
che un determinato segnale era udibile o visibile dai piloti — deve comportare la
successiva ricerca per chiarire se essi potevano effettivamente notare quel segnale.
O erano assorbiti da altro? E quali erano al momento le loro priorità? Inoltre, anche
per ciò che concerne tutti gli altri parametri del flight recorder, è necessario che
essi siano tradotti e interpretati correttamente, inseriti in uno scenario operativo
realistico e collegati da una meccanica chiaramente avvertibile e avvertita
dall'equipaggio. L'essere umano può reagire solo a ciò che percepisce
coscientemente. E infine, perché dagli incidenti derivi davvero maggior sicurezza,
bisognerebbe che i loro insegnamenti venissero rapidamente e completamente
tradotti in modifica e perfezionamento delle pratiche operative.
Gli organi pubblici però, un po' dappertutto, non sempre sono in grado di muoversi
con tempestività e pertinenza; appaiono inoltre inclini a minimizzare la gravita dei
fatti e restii a muoversi nel campo dei provvedimenti correttivi. D'altra parte, dopo
ogni incidente aereo c'è — da parte dei danneggiati — l'aspettativa, umana e
comprensibile, di ricavare il massimo indennizzo per i danni sofferti. Per questo,
anche nei casi in cui i costruttori degli aeromobili e altri interessati all'industria
aviatoria potrebbero facilmente prendere misure per evitare la ripetizione di un
incidente, non lo fanno per la paura che ciò possa risultare quale implicita
ammissione di colpa. La causa reale del fatto non verrà corretta o lo sarà, semmai,
molto più tardi e in un contesto diverso. In altre parole — e per quanto suoni
paradossale — le assicurazioni aeronautiche, e le aspettative di risarcimento
esorbitante che la gente si attende da loro, costituiscono uno dei tanti impedimenti
al miglioramento attraverso la correzione degli errori precedenti. Monotona e
ripetitiva, la casistica non può che concludersi — come di fatto avviene — con
l'appiccicamento dell'etichetta liberatoria e, per molti, deresponsabilizzante, di
«errore del pilota».
A queste conclusioni indiscriminate, il comandante H.M. Vermeulen, pilota della KLM
e per vari anni esponente di spicco della federazione mondiale dei piloti di linea
IFALPA, proprio non ci stava. Poco prima di andare in pensione, nel 1987, scriveva:
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«Mentre è un fatto accertato che gli esseri umani commettono errori, è del tutto
inusuale classificare questi errori con il nome della professione: ad esempio
manager, medici, giudici, ingegneri e politici o altre professioni rispettabili. Anche
se tutti costoro non hanno mai preteso di essere infallibili. In altre parole gli errori
sono umani eccetto quelli commessi presumibilmente dai — per gran parte defunti
— piloti. In ciò essi subiscono una discriminazione. Perché?»
«Per comprendere la facilità con cui un essere umano si fa un'opinione di un altro, è
necessario accettare la circostanza che ognuno ha bisogno di semplificare i problemi
complessi; e la maggioranza delle volte, cose semplici sono — in realtà — molto più
complicate di quanto esse appaiano a coloro che giudicano in retrospettiva il
comportamento umano. Il primo fattore importante è che l'osservazione di un
evento è fatta da cervelli carichi di diverse impressioni ed esperienze. Pertanto
l'interpretazione della lettura di uno strumento differisce da persona a persona e
l'azione richiesta, risultante da quella lettura, può analogamente essere diversa.»
«Ad esempio: viene osservata una bassa pressione dell'olio di un motore. È noto
che un motore che funziona con bassa pressione dell'olio di lubrificazione si sta
avviando verso il surriscaldamento e il grippaggio. In tale caso l'intero gruppo
motopropulsore necessiterà di grosse riparazioni se non di completa sostituzione.
Per evitare questi rischi vengono installati gli indicatori di pressione dell'olio,
affinché il pilota possa intervenire quanto prima possibile in maniera adeguata.»
«Allo stesso scopo ci sono delle luci di avviso che si accendono nel caso di calo della
pressione dell'olio. Se la pressione è troppo bassa — e viene confermata
dall'accensione della spia luminosa — la procedura prevede lo spegnimento
immediato del motore. Prima complicazione: cosa fare se un avviso non è
accompagnato dall'altro? Seconda complicazione: un motore a getto non può
essere fermato in volo. Escludendo l'alimentazione del carburante esso cesserà di
produrre spinta, ma continuerà a ruotare a mulinello fino a che non interverrà il suo
bloccaggio per mancanza di lubrificazione. Terza complicazione: la perdita di spinta
di un motore comporta serie conseguenze per il volo (può essere un motore critico
o il solo operativo). E questo è ben noto ai piloti.»
«Inoltre il calo della pressione stessa, come si manifesta? Ci sono, ad esempio,
motori in cui la pressione dell'olio varia con il numero dei giri della turbina. Se
quindi la pressione cala, ma i motori sono al minimo come nel caso della discesa,
ciò — per quei motori —è normale. La procedura di spegnimento nel caso di
indicazioni di bassa pressione dell'olio rimane comunque valida. Allora, se ciò
avviene con regime dei reattori vicino al minimo, se il pilota conosce come lavora
quel determinato regolatore di pressione olio (taluni piloti lo sanno), o se egli è
consapevole di recenti operazioni su piste con sabbia, può — avanzando la manetta
anziché tagliandola — aumentare la pressione dell'olio evitando l'operazione,
sempre rischiosa, di mettere fuori uso un motore. Vale la pena di tentare.»
«Se invece, come viene proposto da molti costruttori, per eliminare l'errore umano
lo spegnimento del motore fosse lasciato agli automatismi — dove un interruttore a
pressione calcolato a tavolino taglia il carburante e al pilota non viene più detto
come funziona un regolatore di pressione — allora l'operazione è molto più
semplice, ma certamente non più sicura.»
«Ne l'operazione ha modo di venire salvaguardata contro gli errori umani del
progettista e del programmatore. Tutti gli automatismi e i computer sono
programmati da esseri umani per agire in un certo modo in base all'indicazione di
certi parametri che si presentano in un determinato modo. Ogni circostanza non
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prevista dal programmatore non sarà e non potrà essere contrastata. E chi può dire
che tutte le circostanze possibili possono venire sempre previste? La prevenzione
dell'errore umano attraverso l'uso di computer può portare al risultato di sostituire
un errore umano con un altro. Ugualmente non c'è sempre una sola risposta
standard per la risoluzione di un particolare problema. Infine la semplificazione —
sebbene corrisponda a un comprensibile desiderio umano — non porta sempre la
risposta corretta.»
«Nella storia dell'aviazione numerosi incidenti sono stati attribuiti semplicemente a
errore del pilota; se però adesso usassimo la conoscenza acquisita negli anni per
re-investigare quegli incidenti potremmo determinare che, in molti casi, le concause
principali di quei fatti sono totalmente diverse. Windshear o microbust (la fortissima
sberla di vento capace di schiacciare contro il suolo aeroplani anche di grosso
tonnellaggio), ad esempio, non erano noti o non sono stati riconosciuti come
pericolosi per molto tempo, sebbene esistessero da quando volavano solo gli uccelli.
Si rifletta inoltre sul fatto che la risposta ai rischi di questi fenomeni è ancora
lontana dall'essere data soddisfacentemente e che non ci sono ancora adeguate
protezioni contro di essi.»
«Come risultato molti passeggeri e membri di equipaggio sono stati uccisi — e
ancora lo saranno — sotto l'etichetta di "errore del pilota“. Ma allora questi morti
devono essere attribuiti all'acquiescenza dell'industria o alla decisione di non
spendere denaro per investigare realisticamente?».
Il comandante Vermeulen ha ragione; ma ciò che egli scrive — con la convinzione e
il candore del tecnico — è poco conosciuto e i suoi interrogativi sono vivacemente
rimbeccati dalle «fonti ufficiali. Formalmente tutto è a posto. A disposizione degli
inquirenti e per la gioia degli archivisti c'è infatti un complesso di definizioni e di
metodologie che consentono e facilitano tutte le indagini e gli approfondimenti
immaginabili. Ed è solo per necessità di cose che gli enti o le persone che
investigano sugli incidenti aerei sono spesso collegati, quando non dipendenti, agli
organismi pubblici o industriali responsabili del trasporto aereo. E, in quanto
all'errore del pilota, si tratta pur sempre di una forzatura giornalistica, un modo,
oramai consueto, per semplificare faccende complesse.
Ancora semplificazioni, dunque. La sicurezza aerea, tuttavia, non è unicamente il
contrario della «non sicurezza»; e nemmeno un numero — solo fortuitamente
limitato — di cose che non sono andate per il verso giusto.
Le code e le carlinghe multicolori che si muovono negli scenari avveniristici allestiti
per questo inizio degli anni Novanta offrono tutte le lusinghe e gli ammiccamenti
escogitati dai servizi commerciali, ma nascondono ancora soluzioni costruttive
infelici o affrettate e sono insidiate da gestioni carenti e dalla mancanza di controlli
sistematici e approfonditi da parte delle autorità aeronautiche. E se accentuati sono
i timori sul tasso di sicurezza offerto da flotte con aeroplani ultravecchi (taluni con
oltre vent'anni di attività)' o con macchine eccessivamente innovatrici (computer
con le ali), ancora maggiori sono quelli legati all'efficienza e alla tenuta delle
infrastrutture: aeroporti, sistema di assistenza al volo e delle telecomunicazioni. Un
contorno che tende a diventare ogni giorno più fragile.
E che non rispetta nemmeno le «servitù aeroportuali» — il divieto cioè di costruire
centri abitati in prossimità degli aeroporti (nel raggio di 10 miglia nautiche dai quali
avviene l'80 degli incidenti aerei) — per evitare le ecatombi tipo quella provocata il
4 ottobre 1992 dal jumbo dell'EL-AL che tentava di rientrare in emergenza sullo
scalo di Amsterdam Skiphol dal quale era decollato dieci minuti prima per Tel Aviv.
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L'incapacità si mescola alle valutazioni di comodo; e, sullo sfondo, a frenare —
quando ci sono — le buone intenzioni, l'assillo economico che spinge al cinico
calcolo di quanto convenga spendere, e fino a che punto, per migliorare la
sicurezza. L'industria, per ricavare profitti, ha bisogno di mantenere i suoi costi più
bassi possibile: ciò allarga i settori del rischio e coinvolge la vita delle persone.
Gli incidenti aerei non capitano per una causa sola, ma — più spesso — per il
concorso di varie insufficienze o cattive abitudini, magari isolatamente non
gravemente significative, ma che, messe insieme, possono coagularsi in tragedia.
Facciamo un esempio. Supponiamo che un aereo di corto raggio — tipo DC9/30,
uno fra i più diffusi nella flotta mondiale — viaggi leggermente in ritardo. Quando
parcheggia sul piazzale dell'aeroporto di transito, la parola d'ordine, per tutti, è
«recuperare». Squadre delle pulizie, catering, rifornimento e tecnici di linea
assaltano il velivolo da ogni possibile accesso e lo rendono disponibile all'equipaggio
per una partenza in perfetto orario.
Magnifico! O no?
Al suo arrivo su quell'aeroporto il quaderno tecnico dell'aeroplano riportava:
«Indicazioni VHF NAV n. 1 U/S». La frase — di gergo — stava a significare che
durante il volo precedente erano mancate, o erano state giudicate inattendibili (U/S
sta per unserviceable, cioè inutilizzabile) le segnalazioni provenienti dall'apparato
radio a banda VHF (altissima frequenza) che capta le emissioni dei VOR e degli ILS
necessari alla navigazione strumentale.
A terra, pertanto, era stato cambiato l'apparato ricevitore in avaria, ma per la fretta
o per una dimenticanza del personale di manutenzione il nuovo ricevitore non era
stato provato sulle frequenze ILS. E il DC9 del nostro esempio, oltre ai malfamati
altimetri del modello Drum Pointer, ha la particolarità strumentale che se non
vengono controllate prima a terra, le indicazioni del ricevitore rimpiazzato risultano
perennemente centrate, simulando un allineamento perfetto con la pista e senza
provocare la fuoriuscita delle altrimenti regolari bandierine d'avviso. Sbalorditivo,
ma vero. Ci sono in giro velivoli ancora con apparecchiature ILS che, quando non
funzionano, non solo si accendono regolarmente e non avvisano dell'avaria, ma
forniscono un segnale di aereo correttamente posizionato sulla traiettoria di
avvicinamento.
L'anomalia — particolare inaudito — è conosciuta dalle compagnie fin dal 1984, ma
— come spesso succede — si è preferito non comunicarla ai piloti.
L'ignaro equipaggio accetta così l'aeroplano e, come detto, decolla in perfetto
orario. La tratta da compiere è breve: supponiamo una quarantina di minuti,
durante i quali, in cabina, le operazioni si susseguono a ritmo elevato. Manovre,
controllo degli impianti elettrico e idraulico, regolazione della pressurizzazione,
condotta dei motori, comunicazioni radio, sintonizzazione delle radio assistenze,
ascolto dei bollettini meteorologici; per i due piloti ai comandi non c'è un attimo di
respiro.
Dopo circa venticinque minuti dal decollo è già il momento di iniziare la discesa
verso lo scalo di arrivo. Altri controlli, selezione dei radioaiuti per l'avvicinamento;
meno male che l'area è sorvegliata da un servizio radar che gode fama di precisione
e affidabilità, tanto da alleviare gli equipaggi dall'obbligo di continui e ripetuti esami
incrociati sull'esattezza della propria posizione. Meno male veramente?
Seguendo le istruzioni suggerite dal radar il nostro velivolo abbandona il livello di
crociera e scende a gradini, occupando quote a mano a mano decrescenti. Alla
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minima altezza consentita dagli ostacoli l'aereo viene fatto virare verso la dirittura
finale e allineato sul prolungamento dell'asse pista.
Per i piloti tutto è regolare: indicazioni strumentali, assetto del velivolo e sua
configurazione, regolaggio degli altimetri.
Nel caso che stiamo immaginando, l'aeroporto di arrivo è in quota; siamo di notte,
e anche se il tempo non è poi molto cattivo, una nuvolaglia variabile impedisce
costanti riferimenti visivi con la superficie. La traiettoria di avvicinamento si
sviluppa inoltre su una zona montagnosa completamente disabitata e quindi del
tutto buia. Doverosamente il comandante seleziona sul suo apparato di radioguida
strumentale VHF NAV n. 1 la frequenza e l'orientamento dell'ILS in uso.
Sul relativo strumento di bordo compaiono le barrette al centro che garantiscono
una posizione corretta sul punto di inizio per la discesa finale. Con un rateo normale
di 5/600 piedi al minuto — ma almeno quattro miglia prima del dovuto — l'aereo si
inclina verso il suolo e vengono estesi completamente i flaps e il carrello.
Dopo circa un minuto trascorso su un sentiero di avvicinamento falso e al di sotto
della separazione minima dal suolo, interviene il controllo radar: ma non per
avvisare della critica posizione del volo, bensì per dire con tono del tutto normale e
tranquillo di commutare la radio sulla frequenza della torre aeroportuale cui spetta
dare l'autorizzazione all'atterraggio.
E questa comunicazione — per come e dove è avvenuta — non solo sottrae secondi
preziosi all'attenzione dei piloti, ma risulta tale da fugare ogni eventuale dubbio
sulla loro posizione e sulla procedura che stanno per ultimare. Ma che non
concluderanno. Dopo qualche secondo quel DC9 è infatti destinato a urtare contro
le colline che circondano l'aeroporto, senza che ai due piloti sia stato consentito il
tempo per una riattaccata. Nessun ammonimento neanche dal cicalino solitamente
petulante del ground proximity warning: infatti, quando flaps e carrello sono estesi,
quell'avvisatore non segnala l'eccessivo avvicinamento al terreno e — altra
sorprendente sua caratteristica — non è in grado di discernere fra un angolo di
discesa giusto e uno falso se l'apparato ILS, come nel nostro esempio, fornisce
indicazioni centrate e quindi «errore radio zero».
Si sarebbe cosi tragicamente conclusa un'altra sequenza di circostanze fatali
possibili nel trasporto aereo.
Non tanto ipotetica: visto che quella descritta è la più che verosimile
ricostruzione delle circostanze che hanno portato il volo 404 dell'Alitalia in
servizio da Milano Linate a Zurigo il 14 novembre 1990 a polverizzarsi
contro le alture di Veiach a sette-otto miglia dall'aeroporto di Kloten.
Ammazzando tutti i suoi quaranta passeggeri e i sei membri
dell'equipaggio che si trovavano a bordo.
Quasi mai una causa sola — chiara, definita e inconfutabile — ma un insieme di
fattori, dei quali molti estranei alla sfera di percezione, valutazione e decisione
dell'equipaggio, che si dispongono in formazione assassina. Un'errata indicazione
strumentale o una avaria imprevista possono indurre nel pilota una reazione o una
manovra che le circostanze ambientali — cattiva situazione meteorologica o carente
assistenza al volo — riescono a trasformare in episodio irreversibilmente pericoloso.
II compito primario dell'industria dovrebbe essere quello di impedire l'innesco della
catena perversa o, almeno; di riuscire a interromperla prima che si verifichi l'evento
di non ritorno. Nessuna catena può essere più forte del suo anello più debole: e
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l'eliminazione di questo (o di questi) consentirebbe di migliorare sensibilmente la
situazione.
Il complesso delle esperienze suggerisce da tempo quali sono i fattori di rischio e
molte fra le concause che ritualmente appaiono nella meccanica degli incidenti di
volo. Non a caso l'Australia — particolarmente previdente e accorta in campo
aeronautico — si presenta da anni come paese a praticamente «rischio statistico
zero» per le disgrazie aviatorie.
E che anche altrove si possa produrre trasporto aereo più sicuro è dimostrato dalla
storia del supersonico Concorde. Un aereo non esente da difetti progettuali e
costruttivi — come tutti i prototipi — nuovo per concezione e impiego, che però non
ha subito nessun grave incidente dalla sua entrata in servizio nel 1975. La flotta di
quel quadrigetto non è numerosa: solo quindici esemplari, ad abbassare
notevolmente la soglia statistica del rischio. Ma sono soprattutto le attenzioni e le
cure operative da cui è circondato, le manutenzioni ripetute e attente, la
preparazione dei suoi equipaggi salvaguardati da eccessi di impiego e da
condizionamenti esclusivamente commerciali che gli hanno consentito l'invidiabile
record. Perché non anche con gli altri?
[Nota: le cause del disastro del Concorde in decollo da Roissy il 25 luglio 2000
confermano questa considerazione di Adalberto Pellegrino]
Gli antichi, di fronte all'inesplicabile, chinavano il capo rassegnati e ne attribuivano
le cause al soprannaturale. Ma fabbriche e aziende aeronautiche non sono poi tanto
in alto e distanti: se ora si parla della sicurezza solo nei casi macroscopici della sua
assenza si può ragionevolmente pretendere che non sia più così, almeno da parte
dei responsabili istituzionali e politici del trasporto aereo.
Sulle statistiche che presumono di fotografare la tipologia dei fattori causali degli
incidenti aerei — ancor più che su quelle relative agli indici di mortalità — ci
sarebbe molto da osservare. A parte il fatto che inducono tutte alla conclusione
frettolosa cui perviene l'opinione pubblica di «errore del pilota» — che fa
giustamente andare fuori dai gangheri il comandante Vermeulen — non può essere
taciuto il fatto che esse derivano da investigazioni svolte quasi sempre in maniera
non adeguata. Con la conseguenza che anche la categorizzazione degli incidenti, e
quella dei fattori causali che li hanno provocati, non può non ritenersi ampiamente
imprecisa. È altresì vero che fino agli anni Sessanta, nelle indagini sugli incidenti di
volo, non si era data soverchia importanza ai «fattori umani» — intesi come
limitazioni psicologiche e piscodinamiche dell'uomo immerso nell'ambiente
operativo del volo — ed erano stati privilegiati gli aspetti tecnici e ambientali. Ma
ora (e non disinteressatamente visto che chi sostiene studi e pubblicazioni in
proposito sono quasi sempre i costruttori e gli operatori aeronautici) l'attenzione
eccessiva, quasi esclusiva, verso il fattore umano appare sospetta e tale da
distogliere indagini e verifiche necessario anche in altri, indubbiamente più
scomodi, settori. Inoltre «gli incidenti aerei non si verificano mai per una causa
sola»; invece di sollevare accecanti polveroni, sarebbe pertanto indispensabile
stabilire con rigorosa esattezza quali, caso per caso, siano stati fra i vari fattori
causali quelli scatenanti (causa primaria), quelli determinanti e quelli concorrenti.
Alla fine ci si accorgerebbe che la tipologia è un po' più complessa di quanto si
vuole far apparire e che alla sfera comportamentale degli equipaggi competono
responsabilità diverse da quel che invece siamo stati indotti a pensare.
Sfortunatamente non abbiamo capacità ed elementi per elaborare nostre autonome
statistiche. Siamo quindi costretti a riprendere quelle più recenti ufficiali —
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assolutamente grossolane e non convincenti — nelle quali al fattore causale umano
viene attribuita la responsabilità dei due terzi degli ultimi incidenti dell'aviazione
commerciale mondiale. Essi sono accaduti in maggioranza alle quote più basse —
durante le fasi di decollo e di atterraggio — quando la macchina è soggetta a
lavorare al limite e l'attenzione dei piloti è frazionata in più attività, tutte essenziali.
Ma avvengono ancora disastri aviatori che hanno come causa iniziale la rottura o la
corrosione del materiale gli incendi di motori o di pneumatici, il blocco dei comandi,
il malfunzionamento di strumenti o di impianti essenziali, la mancanza di un radar
di avvicinamento o di un aiuto radio per l'atterraggio.
Sogniamo per un istante che tutta questa percentuale di fattori causali scompaia:
ciò significherebbe che imprenditori e istituzioni si sono messi la coscienza a posto e
che nel mondo — come potrebbe essere — esistono esclusivamente superaeroplani,
superaeroporti e superassistenza al volo. Mancherebbe soltanto, ma in questo caso
per motivi indipendenti dalla volontà industriale, un sufficiente numero di
superuomini tali da rendere l'attività del settore a rischio zero. A parte accadimenti
imprevisti e imprevedibili, resterebbe quindi da fare i conti con il fattore causale
umano; un impegno non da poco, ma che potrebbe venire quasi totalmente assolto
— per i tempi e i mezzi a disposizione — nelle fasi di costruzione dei velivoli e della
preparazione dei voli e indubbiamente perfezionato in quelle operative. E opinione
diffusa tra i piloti, ad esempio, che al loro corpo, «il pezzo più importante
dell'aeroplano», non vengano dedicate le attenzioni — di ambiente lavorativo,
prevenzione, alimentazione e addestramento — necessario a una sua corretta
utilizzazione. Limitandoci alla responsabilità degli equipaggi, non possono inoltre
venire sottaciuti gli effetti di condizioni di lavoro non adeguate alle sempre più tese
prestazioni degli aviogetti commerciali, di limiti d'impiego troppo vicini alle soglie di
affaticamento e preparazioni individuali o collettive non ottimali.
«Bisogna puntare al miglioramento delle risorse in cabina di pilotaggio», è andato
predicando per anni Gerard M. Bruggink, direttore dell'ufficio investigazione
incidenti dell NTBS americano, uno che di questa materia se ne intende.
Proporzionalmente avvengono più incidenti sugli aerei di lungo raggio che in quelli
impiegati sui collegamenti brevi, tanto che con i primi si ha una percentuale di
perdita macchine 2,4 volte superiore. Ciò è dovuto, oltre ai particolari problemi
tecnici collegati all'autonomia degli aeroplani e alle informazioni meteorologiche e di
assistenza al volo, allo stress da fatica indotto sugli equipaggi delle rotte
transcontinentali dalle molte ore passate ai comandi con attraversamento di
numerosi fusi orari, cambiamento repentino del clima, notti insonni e ottundimento
psico-fisiologico per le vibrazioni e i rumori assorbiti in cabina di pilotaggio. E sui
velivoli di corto raggio i guai maggiori capitano agli equipaggi composti da due soli
membri di condotta, per il carico di lavoro risultante e la distrazione da manovre
importanti dovuta all'obbligo di compiti accessori quali le comunicazioni radio, la
sintonizzazione dei radio-aiuti o l'ascolto dei bollettini meteorologici. Malgrado la
consapevolezza della situazione, dalla metà degli anni Ottanta si sta diffondendo la
moda di far effettuare anche i collegamenti di lungo raggio a bireattori wide body,
con equipaggi composti da due soli piloti. Per gli esercenti, evidentemente, il troppo
non è ancora abbastanza. E le autorità aeronautiche — in ogni Paese — appaiono
restie a intervenire fissando norme cautelative che limitino i tempi di impiego
massimi e stabiliscano la composizione degli equipaggi adibiti al trasporto dei
passeggeri.
«Si tratta di argomenti che esigono accordi sindacali», sostengono i ponzio pilato
delle amministrazioni statali competenti. Dimenticano appena che quello aereo è
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anche un servizio pubblico affidato alla loro sorveglianza e che alle aerolinee
vogliose di sempre più redditizia produttività i naviganti potrebbero trovarsi in
condizioni tali da non sapere opporre eccessivi rifiuti o venire tentati di «vendere»
normative più estese e limiti d'impiego dilatati fino alla soglia della sopportabilità
fisiologica. Più in generale le autorità hanno il compito di definire, migliorare e
rafforzare, quando necessario, tutte le regole e le limitazioni intese a garantire il
sicuro esercizio di trasporto aereo.
Il cielo resterà per l'uomo un elemento estraneo, ma esperienza e previdenza, lo
stiamo ripetendo con la petulanza dei grilli parlanti, ci consentirebbero, sin d'ora, di
non renderlo ostile. Invece le carenze dell'Ambiente, delle Macchine e dell'Uomo,
non sufficientemente corrette, continueranno a ingrossare la lista di quelli che le
pubblicazioni ufficiali definiscono, con tecnologico distacco, «eventi negativi».
Ogni imputato, si usa dire, è da considerarsi innocente fino alla prova della sua
colpevolezza. Un dettato di vita civile e di diritto che, se applicato all'industria del
trasporto aereo degli anni Novanta, la farebbe condannare senza attenuanti non
appena conosciuta non tanto e solo la casistica degli incidenti, quanto la voluminosa
testimonianza dei «mancati incidenti»; di quegli episodi cioè che, per combinazioni
fortunate o abilità del pilota, non sono arrivati fino al punto di non ritorno.
Questo capitolo — con la sua proporzione di almeno cento a uno rispetto agli
accadimenti distruttivi o letali che succedono in aeronautica (secondo la piramide
«Modello di Frank Bird» dal nome di un famoso esperto di sicurezza industriale,
l'analisi statistica stabilisce che per ogni incidente fatale ci sono addirittura seicento
eventi significativi o irregolarità in materia di sicurezza) — sarebbe un indice
accurato e sensibile per prevenire quasi tutti i guasti che affliggono il settore.
Le aree di rischio rivelate dagli «incidenti» (la definizione stabilita dall'ICAO in
quelle circostanze) e la periodicità degli accadimenti dovrebbero però venire
sollecitamente comunicate e diffuse per ricercare analogie, approfondire le cause
più remote, attuare i provvedimenti correttivi e di prevenzione richiesti dalla
situazione. Produrre sicurezza reale, infatti, significa anticipare i problemi, non
reagire a essi quando oramai si sono evidenziati nella loro forma più drammatica.
Nairobi, 20 novembre 1974 - II volo 540 della Lufthansa doveva collegare con un
B747-Combi la città di Francoforte con gli scali di Nairobi e di Johannesburg. Il 20
novembre 1974, dopo una regolare sosta di transito sull'aeroporto keniota, il jumbo
si apprestava alla partenza per il Sud Africa con a bordo 140 passeggeri e 17
membri di equipaggio. Durante il decollo (con la manovra affidata al primo ufficiale)
l'aereo cominciò a vibrare intensamente appena staccatosi dal suolo. Sospettando si
trattasse di uno sbilanciamento nel gonfiamento delle gomme trasmesso attraverso
gli ammortizzatori, come talvolta avviene, il comandante anticipò la retrazione del
carrello. Malgrado la conseguente diminuzione di resistenza al moto del velivolo non
ci furono aumenti di velocità, tanto che il pilota ai comandi attenuò la pendenza
della salita nell'intento di accelerarlo. La manovra, teoricamente idonea, si dimostrò
invece un errore drammatico. A circa mille metri dalla fine della pista la parte
posteriore della fusoliera toccò il terreno, urtando contro una strada sopraelevata
che attraversava la zona, cento metri più avanti. Il velivolo cominciò a spezzarsi e,
dopo una giravolta di centottanta gradi, prese fuoco distruggendosi.
Straordinariamente 65 passeggeri e 9 membri di equipaggio rimasero illesi: 55
viaggiatori e 4 membri dell'equipaggio morirono nell'incendio e altre 20 persone
rimasero gravemente ferite. Era successa una cosa relativamente semplice: il
sistema pneumatico che su quel tipo di aeromobile comanda gli slats anteriori
(superficie aerodinamiche mobili che fuoriescono dal bordo di attacco delle ali per
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aumentarne la portanza durante le manovre di decollo e di atterraggio) non era
stato posizionato su «esteso» e non c'era nessun avviso in cabina di pilotaggio che
ricordasse ai piloti la non corretta configurazione dell'aeromobile al momento della
sua partenza. La conseguente mancanza di portanza rivelatasi al distacco —
aggravata dall'aria rarefatta del campo in quota (5.327 piedi) — aveva fatto stallare
l'aereo durante la fase critica dell'involo. Una carenza costruttiva? Certamente; ma
la storia che segue è ancora più allarmante.
Nell'investigazione compiuta dopo l'incidente venne scoperto che c'erano stati altri
otto casi simili riguardanti diversi operatori di jumbo. Episodi maggiormente
fortunati che non erano stati registrati nemmeno come «incidente — e pertanto non
erano stati denunciati ne all'FAA, ente certificatore, ne alla casa costruttrice della
macchina. E questo — di per sé — sarebbe già abbastanza grave e indicativo
dell'aria spirante nel mondo del trasporto aereo. Ma c'è di più. Due anni prima un
B747 della BOAC, diventata successivamente British Airways, aveva avuto lo stesso
inconveniente. Non si era concluso tragicamente ed era stato classificato come
«mancato incidente»; ma gli esperti della società si resero conto di quale rischio
fosse non disporre di un avviso di quel tipo nell'abitacolo dei piloti. Fu quindi deciso
di ignorare ciò che Boeing e FAA ritenevano sufficiente e sicuro e di provvedere alla
modifica di tutti i 747 della flotta inglese inserendo una spia della posizione degli
slats nel complesso degli allarmi acustici al decollo. In concreto, se un pilota si
fosse trovato prima della partenza con gli ipersostentatori non interamente o non
correttamente posizionati, all'avanzamento delle manette che aumentano la
potenza dei reattori sarebbe stato attivato un acuto cicalino di avviso.
Fu comunque consultata la Boeing che — pur giudicando superflua l'installazione —
non si oppose; la variante costruttiva venne quindi apportata dandone regolare
notizia all'ente di certificazione britannico: la mitica CAA, Civil Aviation Authority.
Quest'ultima — considerato che a quei tempi non c'erano altre compagnie aeree nel
Regno Unito che adoperavano il jumbo — si tenne l'informazione per sé ritenendo
che non era il caso di comunicarlo a nessun altro. E anche la Boeing, che pure
aveva acconsentito alla modifica, non diffuse la notizia fra gli altri esercenti che
adoperavano il suo 747. Non accadde nient'altro fino a poche settimane prima
dell'incidente di Nairobi quando, durante una riunione fra tecnici di aviolinee,
l'addetto alla sicurezza della BOAC apprese casualmente dal suo collega della KLM
che anche la società olandese aveva avuto un episodio recente di decollo senza
slats estesi: l'aereo era arrivato pericolosamente vicino allo stallo, ma il
comandante era riuscito a ricuperarne il controllo uscendo dalla situazione per il
rotto della cuffia. Non c'erano stati rapporti ufficiali, naturalmente, e meno che
meno denuncia di incidente. L'uomo della BOAC scrisse subito alla CAA
sottolineando che, dopo due anni — tanti ne erano passati dalla variante apportata
sugli aerei britannici — non sembrava esserci stato nessun intervento per
estenderla in campo internazionale o, almeno, comunicarla alle altre compagnie.
«Il prossimo pilota di jumbo a decollare senza gli slats, profetizzò nella circostanza,
«potrebbe essere meno fortunato». Non ricevette risposta e, quando contattò
personalmente il funzionario statale responsabile del servizio, si sentì persino
negare la ricezione della lettera. L'addetto dell'aviolinea, con ammirevole
perseveranza, ne spedì un'altra copia, ma, anche stavolta, senza ottenere nessuna
reazione. Quando, a due mesi dal suo secondo intervento, capitò l'incidente della
Lufthansa, il pervicace addetto alla sicurezza della BOAC ne sospettò
immediatamente la concausa determinante e telefonò agli uffici della CAA per
sapere se era stata diffusa la notizia tecnica riguardante l'opportunità di installare
un indicatore della posizione degli slats sui cruscotti dei B747. Ma gli uffici —
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consolatoria similitudine con quelli di casa nostra — caddero dalle nuvole
sostenendo che non avevano mai saputo niente sull'argomento. Un'altra pietra,
questa volta burocratica, venne così calata sopra i cinquantanove morti di Nairobi,
vittime del primo incidente distruttivo di un jumbo. La Boeing — dopo quel fatto —
finalmente si mosse provvedendo a modificare l'intera flotta mondiale dei 747 con il
montaggio di un avviso acustico nel caso di slats eventualmente non estesi al
decollo. Quante altre situazioni di pericolo si nascondono sotto le ceneri degli
incidenti mancati, delle ottusità burocratiche o delle più svariate pietà o ipocrisie
aziendali? Impossibile rispondere: come alla domanda di un dentista fatta mentre vi
sta trapanando i denti. È certo però che nelle decisioni tecniche, economiche e
organizzative che circondano gli ambienti del volo può esserci il «seme» di più di un
tipo di incidente. La scarsità di informazioni viene spesso giustificata dai
responsabili con la paura di danneggiare il settore, la necessità di risparmiare
perdita di immagine e, in definitiva, di giovare alla diffusione del mezzo aereo.
È vero — d'altro canto — che gli elementi in gioco nel campo aeronautico sono
normalmente molto tecnici e, una volta resi pubblici, potrebbero venire deformati e
male interpretati. «Ma qui si rischia di affogare il pesce», ci suggerisce il
manualetto del perfetto dirigente di aerolinea. Lo scambio di notizie — almeno fra
gli addetti ai lavori — dovrebbe avvenire quanto più completamente e rapidamente
possibile, con la minuziosa casistica non solo dei mancati incidenti, come
elementare, ma anche degli inconvenienti minori e delle anomalie operative. Cosa
che ancora non succede, malgrado i propositi e le dichiarazioni di buona volontà
rilasciati magnanimamente dall'industria. Persino i Safety Information Exchanges
della IATA, che vengono a quello scopo diffusi fra le compagnie aderenti, riportano
solamente «quando ritenuto opportuno» gli eventi anormali registrati in materia di
sicurezza durante l'impiego dei loro aeroplani. I nodi, solitamente, vengono al
pettine soltanto dopo un incidente. Ma in questi casi — se all'interno del settore se
ne parla per qualche giorno — all'esterno si arriva, non infrequentemente, all'uso
sapiente della controinformazione. Ciò può avvenire non indagando a fondo sulla
dinamica e sulla serie delle reali concause che hanno provocato un disastro
aviatorio, o facendolo dimenticare rapidamente dopo il clamore irrazionale e
scomposto dei primi giorni o, viceversa, fornendo sempre nuove notizie sullo stesso
episodio in modo da creare confusione e dilatati vuoti di memoria. Una tecnica che
induce a pensare che gli incidenti aerei siano, «oltre un certo punto», non
eliminabili; e che, «in fondo», si tratti di fatalità tutte riconducibili a errori umani e,
pertanto, non prevedibili o non evitabili in un contesto — per di più — di non
prepotente rilevanza statistica.
Ed è cosi che la prima vittima di un incidente aereo finisce quasi sempre per essere
la verità. E, con essa, viene gettato al vento il contributo che, comunque, ne
sarebbe potuto derivare alla sicurezza dei voli.
L'inchiesta tecnico-formale della Commissione ministeriale insediata in Italia dopo
l'incidente del DC9/30 dell'ATI avvenuto a Capoterra il 14 settembre 1979 si è
ufficialmente conclusa a metà del 1990: undici anni dopo! E pensare che si trattava
di un incidente emblematico perché aveva messo a disposizione degli investigatori,
fin dall'inizio, tutte le necessario evidenze — dal tracciato del flight recorder alle
incisioni del voice recorder, alla traiettoria sul radar di terra, alle testimonianze dei
controllori coinvolti. Ciò nonostante il rapporto finale su quell'episodio — arrivato
dopo oltre un decennio — è totalmente privo di conclusioni, fattori causali e
raccomandazioni. Questo — è spiegato con disarmante argomentazione — «a causa
della loro inutilità, dato il lungo tempo trascorso...».
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Anche il concetto di «normalità» che, volutamente, oramai circonda e banalizza
molti aspetti, anche delicati, dell'aviazione commerciale contribuisce ad abbassare
le soglie della diffidenza e a diminuire lo stimolo per la ricerca di una sicurezza
migliore. Si va in aeroporto come se ci si recasse alla stazione dei tram. A bordo
degli aerei, prima della partenza, gli assistenti di volo richiamano le principali
raccomandazioni per le azioni da compiersi in caso di emergenza: ma le leggono
frettolosamente e indicano con svogliatezza le uscite di scampo, i salvagente, gli
scivoli e le maschere per l'ossigeno mentre i viaggiatori continuano a leggere il
giornale o a chiacchierare col vicino di posto. La procedura è stata eseguita, la
legge rispettata: ma cosa accadrebbe effettivamente se — durante quel decollo —
si dovesse esperimentare un'evacuazione rapida o se, dopo un ammaraggio forzato,
si dovessero usare come prescritto gli scivoli e i battelli di salvataggio?
Una propaganda ripetuta e stregante ha portato alla conclusione che, invece di
temerli e combatterli, la gente sta imparando a «servirsi» degli incidenti aerei. Negli
USA, il giorno seguente a un disastro aviatorio, aumentano considerevolmente le
richieste dei voli e il numero dei passeggeri, convinti di poter godere del periodo
tranquillo e sicuro concesso loro dal calcolo delle probabilità. Siamo alla vigilia di
importanti novità che faranno presto guardare agli anni Ottanta come a un periodo
primitivo del volo commerciale. La tecnologia vincerà tutte le sue battaglie;
purtroppo anche quelle contro il buon senso perché — se si continueranno a
tappare bocche e a comperare coscienze — gli incidenti di volo sono destinati ad
aumentare. E tentare di fare sicurezza resterà ancora un periglioso camminare sulle
uova.
Head-up displays, sistemi di allarme per il wind shear disponibili a bordo, apparati e
avvisi per evitare le collisioni sono acquisizioni preziose, ma anche tali da innescare
un altro tipo di inconvenienti non meno gravi di quelli sinora verificatisi. Col fly-bywire, ad esempio, sono venuti a galla problemi nuovi di conoscenza e mentalità che
— allo stato delle attuali preparazioni ed esperienze — comportano situazioni
inattese, e potenzialmente pericolose, non solo durante il pilotaggio, ma anche nella
manutenzione, nella calibratura e nella gestione delle macchine che lo utilizzano.
Qui non si tratta soltanto di strumenti nuovi o più sofisticati installati per facilitare
la guida dell'aeroplano, ma si è voluto mettere un computer che vola al posto del
pilota.
Danilo De Judicibus, investigatore accreditato dell'IFALPA, International Federation
of Air Line Pilots Associations, e responsabile in questi ultimi anni dell'AIG, Accident
Investigation Group, dell'ANPAC, ci confida con amara e profetica ironia il suo
pensiero: «Con aeroplani progettati con l'ausilio del CAD (Computer Assisted
Manufacturing), mantenuti efficienti in un ambiente CME (Computerized
Maintenance Environment) e pilotati da equipaggi addestrati mediante il CST
(Computer Simulated Training) che 'parlano' al velivolo attraverso un FGS (Flight
Guidance System), naturalmente altamente computerizzato, non ci dovremo poi
meravigliare se, analizzando i futuri 'eventi negativi', finiremo con il constatare
l'esistenza anche dei CAA (Computer Assisted Accidents)... Con le nuove macchine
sarà inoltre difficile, se non impossibile, ricostruire la sequenza di causa-effetto di
molti incidenti. L'investigazione, che nel passato poteva avvalersi di reperti del
relitto
quasi
sempre
“leggibili”,
quali
cavi,
rinvii,
tubature,
pompe
elettromeccaniche, attuatevi elettrici o idraulici, valvole riduttrici, ed anche
equipaggiamenti elettronici a composizione “discreta” ed applicazione univoca, si
dovrà invece confrontare con circuiti elettronici estremamente "integrati", con una
gestione software di complessi computerizzati cripticamente “dedicata”, con canali
di trasmissione dati a fibre ottiche e “interfacce” macchina-pilota realizzate
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mediante indicazioni strumentali variamente e volubilmente configurabili in più CRT
(tubi a raggi catodici) o in pannelli LCD (diodi a controllo di luminosità), tutti
elementi che, dopo un impatto con il suolo, saranno ineluttabilmente muti a fini
investigativi... Sarà poi estremamente improbabile che un investigatore,
onestamente desideroso di conoscere la verità tecnica di un futuro incidente, possa
risalire a fattori causali relativi a manchevolezze di progetto, difetti di costruzione o
insufficienze di manutenzione, in un ambiente operativo nel quale è mutata
radicalmente la filosofia del processo di gestione e di manutenzione delle macchine.
Le schede elettroniche dei computer (grossi e piccini) che controllano, regolano e
comandano praticamente tutti gli impianti e gli equipaggiamenti dei velivoli della
nuova generazione, in caso di malfunzionamento non vengono riparate (almeno
dall'operatore), ma eliminate e sostituite con altre nuove. Sono stati così dimessi
complessi e costosi laboratori forniti di costose strumentazioni per l'analisi e la
calibrazione, ove doveva operare un personale dalle altissime e costosissime
qualificazioni. Se prima l'investigazione poteva anche avvalersi della collaborazione
di valenti tecnici “periferici” che sapevano tutto, quale logica e quali soluzioni
tecniche siano racchiuse in quelle vitali schede elettroniche sarà domani
esclusivamente nelle avare mani dei progettisti e dei costruttori. Dopo un incidente,
essi rimarranno arbitri esclusivi di ogni informazione in proposito. E le amare
esperienze del passato mi inducono a pensare che la massima reticenza circonderà
tutti quegli elementi che potrebbero condurre ad evidenze relative sulla
generazione di fattori causali dell'incidente da parte del costruttore. Non è poi
affatto vero che tutti amino realmente ed indiscriminatamente la sicurezza del
volo.»
«È vero soltanto che la conoscenza dei fattori causali di un incidente aereo
interessa moltissimo soprattutto coloro che temono o già sanno di aver concorso
atta loro generazione, ed è vero anche che essi intendono sempre esserne i soli
depositari e gli esclusivi gestori. Dati i conflitti di interesse economico, ma
soprattutto personale, che un incidente a un velivolo commerciale solleva, ogni
mezzo, anche il più ignobile, viene ritenuto lecito per limitare l'informazione ed
anzi, per disinformare sin dall'inizio al fine di dirottare le indagini. Poiché la
prevenzione si può fare soltanto con la conclamata e diffusa conoscenza della
“verità”, scaturita da una investigazione approfondita, onesta e professionale, verità
che potenzialmente è quasi sempre ritenuta scomoda dai responsabili, le
investigazioni ai velivoli delle nuove generazioni difficilmente riusciranno a produrre
prevenzione nel senso più ampio. Il sentimento più diffuso è il disprezzo per la
diffusione della verità sui fatti e, in definitiva, per la sicurezza del volo».
Se numerose cantano le sirene incantatrici, è indubbio che per il trasporto aereo
non ci sono possibilità di scorciatoie o di risparmi disinvolti sul cammino della
riduzione dei rischi. Credo si debbano abbandonare le presunzioni di uno sviluppo
senza limiti mentre indubbiamente è necessario che un po' tutti si impari ad
abbassare l'intero orizzonte delle aspettative per collegamenti sempre più veloci e
frequenti, puntando invece a elevare la soglia della loro sicurezza. Più in particolare
deve venire rifiutata la pretesa di considerare gli aerei adibiti al trasporto dei
passeggeri come banchi di prova per filosofie o tecnologie, magari allettanti, ma
non convenientemente esplorate. Negli ultimi trent'anni (dal 1959 al 1988 incluso)
si è avuta la perdita per incidente di 459 grossi turbogetti, 49 dei quali per cause di
guerra o sabotaggio. Gli incidenti operativi di aerolinea sono stati 392 (quasi tredici
ogni anno) e hanno causato la morte di 15.198 passeggeri e di 1.471 membri di
equipaggio; con una media annuale che, per il periodo considerato, è stata di 507
passeggeri e di 49 naviganti deceduti. Dovrebbe bastare.
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Gli industriali sono cattivi, forse, ma non stupidi. E anche fra loro — nel campo delle
costruzioni aeronautiche e dei motori così come in quello della gestione
commerciale delle reti — la complessità e onerosità dei problemi ha cominciato a
scheggiare le pretese di egemonia assoluta sia nazionale che planetaria. La
necessità di concentrazioni e di accordi è diventata sempre più pressante ed
evidente; e la loro attuazione non potrà che risultare benefica anche ai fini della
sicurezza dei voli. Gli imprenditori sono arrivati alla conclusione che — ma perché
Machiavelli è rimasto così a lungo distratto? — dove non si può vincere da soli,
tanto vale allearsi con gli avversari. «Risk-sharing partnership»: hanno felicemente
battezzato l'evoluzione i fabbricanti di aerei degli Stati Uniti.
Al fattore umano — in ogni settore dell'attività aeronautica — dovranno comunque
venire dedicate risorse imponenti: per migliorarlo, non per eliminarlo come
piacerebbe a qualcuno. Un aereo affidato esclusivamente ai computer è il sogno
vagheggiato da vari costruttori ed esercenti dell'aviazione civile. Un robot guidato
da loro, controllato dall'esterno e che — con la regia degli operatori a terra —
affronta e risolve tutte le fasi del volo. Senza porre fastidiosi condizionamenti di
carattere sindacale o professionale o altre odiose limitazioni tipiche della condizione
umana. Una macchina siffatta è già costruibile e in parte, col fly-by-wire, operante,
ma, trascurando ogni altra considerazione, è difficile che essa possa avere la facoltà
discriminatoria e le capacità di valutazione, di scelta e di intervento riflessivo che
vengono richieste durante l'effettuazione di un collegamento aereo. Inoltre — tanto
per mettere almeno un'altra pulce nell'orecchio e a parte l'eventualità che qualcuno,
per sbaglio, schiacci il bottone che ne cancella la memoria — un apparecchio
«controllato dall'esterno» può diventare anche «interferito dall'esterno». Così che
basterebbe un invisibile virus introdotto in un dischetto per...
Le principali cause degli Incidenti aerei secondo l'ICAO
Periodi considerati
1977-1982
1983-1986
Errore di pilotaggio
Aeroplano o motori
Infrastrutture
Meteorologiche
832 (40,9)*
176 (8,6)
66 (3,3)
339 (16,7)
590
160
54
147
(58,8)
(16,0)
(5,4)
(14.7)
* Le percentuali riportate in parentesi si riferiscono al totale degli incidenti aerei avvenuti nel periodo.
I soli quattro fattori causali qui riportati rappresentano il 69,5% degli incidenti per il periodo 1977-1982
e il 94.9% di quello 1983-1986.
Fonte- ICAO, ADREP (Accident/Incident Reporting System), raccolta degli incidenti e dei mancati
incidenti curata dall'International Civil Aviation Organization.
Intanto, con gli aeroporti di mezzo mondo e il sistema di assistenza al volo al limite
del collasso, sarà bene che gli altri due cavalieri di questa apocalisse annunciata,
politica e amministrazione, finiscano i loro minuetti in tempo di peste affrettandosi
a riassumere il proprio ruolo di garanti della sicurezza collettiva. Anche in questo
caso non ci sono possibilità di sconti o di percorsi abbreviati. L'attenzione e gli
investimenti richiesti dal settore sono elevati e proporzionali alla natura universale
che il trasporto aereo ha affermato nei fatti. E che è giusto continui a manifestare e
sviluppare senza ulteriormente appesantire la colonna «uscite» con i numeri in
rosso di fatalità tutt'altro che fatali.
Gli uomini — secondo antichi saggi orientali — appartengono al bestiame degli dèi.
Ma non è lecito credere che agli dèi piaccia perdere scioccamente il loro bestiame.
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