Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti e

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Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti e
Eroi ed eroine nazionali manquée in
Fosca di Igino Ugo Tarchetti e Senso
di Camillo Boito
prendere tutti i romanzi di Anna Radcliffe, quelli di Féval
“Bisogna
e di Dumas, i racconti fantastici di Hoffmann, aggiungervi un
Ortis, un Renato e una Valentina sottoporli a distillazione, passarli in
un filtro, toglierne la quintamillesima essenza, abbeverarne un’amante
tradita, o un letterato che non trovi editori alle sue opere—e avremo
forse un personaggio che potrà sedere degnamente tra i pochi che frequentano quel luogo solitario” (1967, 500).
Nel suo pamphlet sterniano, Ad un moscone. Viaggio sentimentale nel
giardino Balzaretti (“Rivista minima,” 30 giugno e 15 settembre 1865), lo
scapigliato Igino Ugo Tarchetti abbozza una possibile formula per ritrarre un personaggio, che, a suo dire, possa assurgere a protagonista
ideale di un contemporaneo romanzo di successo. Tale romanzo, e le
sue creature, dovrebbero ispirarsi alla tradizione engagé dell’Ortis, di
George Sand e Chateaubriand, a quella metropolitana dei misteri di
Féval e del feuilleton di Dumas, nonché a quella nordico-europea dei
racconti fantastici di Hoffmann e del gotico (nella fattispecie rassicurante del “supernatural explained”) à la Mrs Radcliffe.1 Di scorcio, nel
1865, Tarchetti sintetizza una delle tendenze estetiche e narrative prevalenti nei circoli letterari di fronda di tardo Ottocento: l’emergere, all’interno di un impianto narrativo realista, di un repertorio tematico attinto da modelli stranieri, alla ricerca di una forma romanzo che
racconti non più l’avvenuta e gloriosa unificazione nazionale, ma piuttosto le sue molte sconfitte e altrettante idiosincrasie.
Tra i testi post-unitari che ricorrono a momenti di goticizzazione e
fantasticizzazione del testo spiccano Fosca (1869) di Igino Ugo Tarchetti
e il racconto lungo, Senso (1883), di Camillo Boito.2 Come in molti testi
gotici e fantastici dell’Ottocento europeo, il patto con il lettore è di natura antropologicamente identificativa; infatti, Fosca, Giorgio, Livia incarnano il paradigma della medietà, salvaguardata da un oculato compromesso sociale, il quale possa unire la comunità immaginaria di
lettori nazionali. Se fino a quel momento l’eroina del romanzo italiano,
dai tratti angelici e rassicuranti, aveva avuto un ruolo edificante nello
svolgersi della vicenda, dalla seconda metà del secolo figure di donne
dalla bellezza medusea, per citare Praz (1988, 31–53), e corrotta vengono alla ribalta della scena letteraria ed hanno un intento dichiaratamente sovversivo.
ITALICA Volume 88 Number 2 (2011)
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In quanto segue, secondo il consiglio di Tarchetti, analizzeremo
come questi testi post-unitari abbiano fantasticizzato e goticizzato la
narrazione, al fine di ritrarre figure di donne partecipi di un discorso
storico e politico, che racconta la fine di un’epoca, quella che dalla delusione dell’Ortis aveva condotto all’unità d’Italia, e il trapasso ad
un’altra, quella in cui si sarebbe dovuta realizzare una tale unità.3
Comprimari, o narratori in prima persona, di queste storie sono uomini che definiscono la loro identità, posizione sociale e profilo psicologico dal confronto, spesso perdente, con un modello di femminilità
ambivalente—al contempo donna decaduta ed eroina sconfitta—
proposto da questi modi e generi letterari.
In particolar modo, nei loro modi di rappresentazione del soggetto,
tanto sociale quanto psichico, il gotico e il fantastico hanno proposto
un messaggio socialmente eterodosso, che rende esplicito il pericolo
inerente all’oltrepassamento dei confini di gender (Punter 1980, 163).4
Come osserva Dorothea von Mücke, fin dai suoi albori nel diciottesimo
secolo, gli scrittori sono ricorsi al fantastico per costruire forme di
sessualità socialmente non accettabili allorché: “the formal and aesthetic innovations of the fantastic tale challenged psychological and
psychiatric models of subjectivity and agency that ancor and organize
the individual’s relationship to her own sensuality as well as her perceptions of the external world and her affective relationships to others”
(2003, 1–2). Analogamente, il gotico favorisce una tale indeterminatezza; infatti, se il female Gothic “is interested in sexual and political
right especially concening the secrets of the family,” il male Gothic lo è
nei “secrets of the gender paradigms” (Ferguson Ellis 2001, 257).5 Tanto
i villains gotici quanto i personaggi frammentati del fantastico, sebbene
depotenziati ed incapaci di affermarsi come forza sociale positiva e rigenerante, agiscono ciònonostante da forze sociali castranti, poiché
costringono le eroine ad occupare uno spazio marginale e recluso entro
le mura domestiche, dal quale devono trovare il modo per far sentire la
propria voce di soggetti subalterni.
La dimensione transnazionale del gotico e del fantastico è stata più
volte messa in evidenza tanto che, consideratene le dinamiche della
loro ricezione italiana tardo ottocentesca, è inevitabile trattare questi
modi narrativi quali momenti coalescenti (Billiani 2007, 16; Billiani
2008; Ceserani 2007, 41–2). La loro presenza quasi clandestina, invisibile e con intento anti-realista all’interno del panorama letterario italiano, ha fatto sì che molti scrittori non si sentissero vincolati a rispettarne i rispettivi confini tematici e, anzi, se ne appropriassero secondo
modalità narrative intercambiabili, che spaziavano dal riferimento intertestuale esplicito fino al plagio vero e proprio (Billiani 2007, 22–4;
Venuti 148–56).
Di conseguenza, è legittimo chiedersi: perché all’alba dell’unificazione nazionale l’avanguardia di Tarchetti e Boito si rivolge a due
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generi e modi narrativi che non si fanno vessillo di una visione del
mondo teleologica e borghese, ma propongono piuttosto ai loro lettori
una figura maschile depotenziata, sconfitta nel suo tentativo di dominio patriarcale dell’universo femminile?6
Fosca nell’attico
Scritto nel 1869 e rimasto incompiuto per la morte dell’autore,7 Fosca sigilla la breve carriera artistica di Tarchetti.8 Entro due blocchi narrativi
principali, cronologicamente ordinati, si susseguono la storia d’amore
adulterino di Giorgio, durante un periodo di congedo dal battaglione
per malattia a Milano, con Clara, donna sposata, e quella “malata” con
Fosca, che conoscerà una volta ripreso servizio in un reggimento di
stanza in campagna, due amori diversi ma altrettanto “fatali e formidabili” (Tarchetti 21).9 Il protagonista si presenta al lettore come soggetto depotenziato, miracolosamente sopravvissuto a queste due eccedenti esperienze sentimentali, cosicché “più che un racconto di una
passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia” (22).
Ma, nonostante questo passato sia fonte medesima di orrore e di attrazione, Giorgio non lo vuole dimenticare, pena l’oblio di se medesimo
(19–22).
Fin dall’incipit, il lettore viene accolto in un universo burkiano di
sublime terrore dove, come in un romanzo gotico, è la storia passata a
trasformarsi in movimento ossessivo nel presente, mentre la scrittura
in prima persona, stilema tipico del fantastico, diventa il mezzo di
auto-sopravvivenza a se stessi. Se Giorgio può vincere la solitudine sociale, è la solitudine delle passioni che più lo tormenta, poiché da eroe
narcisista per eccellenza—si definisce uomo per natura “ribelle alle
misure comuni e alle leggi comuni”—si rispecchia in se stesso per “trovare il centro della propria anima” (21), creando altresì un altro fenomeno tipico del testo fantasticizzato, ossia la mise en abîme con il lettore,
al quale rivolge la medesima domanda: “Chi oserebbe affacciarsi allo
spettacolo intero della sua esistenza, spiare nelle pagine sue tenebrose,
e ritesserne tutta la storia?” (23; e anche 3, 23–5).
L’inizio vero e proprio di questa fantasmagoria piena di apparizioni
inquietanti è la relazione extraconiugale di Giorgio con Clara che si
consuma dopo una notte agitata e scomposta trascorsa dal protagonista che, per ritrovare la propria energia, si abbandona alla lettura dell’epistolario di Foscolo, apostrofato “uomo antico” (29). Nel 1798, Ugo
Foscolo, ma soprattutto l’autore dell’Ortis, incarna un modello maschile eroico, appartenente ad un momento storico in cui, agli occhi del
protagonista, gli ideali assoluti venivano prima delle convenzioni, degli ordini stabiliti, e l’impertivo etico era quello del sacrificio della propria libertà individuale per la salvaguardia di quella collettiva della
nazione (Fubini 1963, 21–6). Nel 1868, Giorgio—da ufficiale dell’esercito del Regno e da una posizione non solo rispettabile, ma anche
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strategicamente chiave nella lotta per la realizzazione dell’unificazione
nazionale—si comporta e agisce invece in netta contraddizione rispetto ai principi di salvaguardia e tutela dell’interesse patriottico, fino
a pronunciare un’esplicita dichiarazione di sfiducia nell’esercito:
Gravi rovesci di fortuna mi avevano impedito di camparmi la vita in altro
modo che coll’essere inscritto nei ruoli d’un reggimento, e far pompa del
mio costume di capitano. E dico ciò perché allora la guerra era cessata, e mi
vergognava spesso di quell’inazione ricompensata sì largamente. Io
riscuoteva un lauto assegnamento sulle casse dello Stato. (24)
La vita militare non si accompagna ad ideali eroici, è piuttosto un
semplice strumento nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. A questo proposito, prima dell’incontro vero e proprio con Fosca, il nostro
s’imbatte in un’altra figura maschile depotenziata: il colonnello del
reggimento al quale è stato assegnato, un altro militare che ci viene
descritto come
esile e piccolo di statura; il suo carattere aveva in sé nulla di forte e di
maschio, ma l’abitudine del comando e della disciplina avevano dato ai
suoi modi un’impronta francamente energica e militare. (44)
Niente forza virile e potere gerarchico, ma un soggetto dal carattere
mite e artistico, che può identificarsi quale maschile e militare solo per
l’imposizione di una struttura repressiva. In questa specie di foucouldiana caserma (Foucault 1993, 327–28) si può creare un “cattivo soldato,” che è però “un abile disegnatore, espertissimo di tutte le scienze
attinenti alla guerra; e cosa straordinaria fra i militari, era uomo eccezionalmente onesto” (44–45). Disciplina e struttura sociale tradizionali,
se de-psicologizzate, si rivelano perdenti nel tentativo di creare un’identità stabile proprio nell’uomo d’armi, nel padre della patria, in
quanto è la loro eccentricità alle regole di classe a renderli soldati diversi, inclini ad apprezzare le virtù umane dell’individuo, nonché a
farsi portavoci di un mal celato anti-militarismo (47). A conclusione
della sua decostruzione della figura dell’eroe nazionale pre-romantico,
pronto a sacrificarsi per il bene comune, Tarchetti scrive:
Avrei voluto levarne le ceneri de’ miei cari, perché l’ultimo anello che mi
congiungeva alla mia patria fosse spezzato. Fui torturato lungo tempo da
un’idea insistente e malinconica: mi pareva che quelle reliquie adorate non
potessero aver pace là sotto, perché, io stesso, io sento che le mie ossa
fremerebbero se sepolte sotto quelle zolle abborite. (27; cfr. anche 29, 31)
Il richiamo alla vita militare in assonanza con un’eco intertestuale
esplicita a Dei sepolcri, ribalta il modello tradizionale maschile monolitico e propone un eroe malinconico e crepuscolare, incapace di passare
all’azione e desideroso di possedere un oggetto non datum: il passato
non è specchio di futura grandezza, se non in maniera maldestra e insicura, ma è fonte di melanconia, che si genera in un momento in cui
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nascita e morte si trovano a coesistere in un’unità che contiene il suo
principio e la sua fine. La patria appena costruita è un terreno estraneo,
arida di degna sepoltura per le ossa del protagonista, che simbolicamente rifiuta di unirsi al terreno che gli aveva dato la vita. Alla natura
empatica, libertaria, ed individualista degli eroi settecenteschi si sovrappone un manzoniano imperativo di rispettabilità borghese e di
totalità conoscitiva, una condizione etico-gnoseologica-estetica idiosincratica che può esprimersi adeguatamente solo attraverso un repertorio d’immagini gotiche e fantastiche, le quali, melanconiche, incompiute ed anelanti a Thanatos, rappresentano la caducità del presente e
l’irriconducibilità dell’uno al tutto.
In un universo post-foscoliano e post-unitario, è invece la Clara
diurna, adultera e insoddisfatta, ad essere sia per Giorgio sia per la società una madre, una fonte di energia positiva e riproduttiva, che può
trasformarsi in amica, sorella e patria: “sì patria perché è per amor tuo
che adoro codesto angolo di terra” (40) e quindi fonte di vita. Così facendo, Giorgio non solo ribalta la dinamica classica del potere patriarcale, che identifica la forza virile con la forza della patria, ma identifica,
come sarà anche nel caso di Senso, la patria con un amore adultero, destinato alla sua auto-consunzione, poiché socialmente ed economicamente insostenibile.
Durante il suo primo incontro con Clara, prossima a divenire sua
amante, Giorgio, in congedo per malattia di cuore dal suo reggimento,
si premura di collocare la donna-madre-patria su un ben determinato
gradino della scala sociale; scrive:
Suo marito era giovine e avvenente, occupava una carica distinta in
un’amministrazione governativa; non erano ricchi, ma parevano agiati e
felici; avevano un figlio; essa si chiamava Clara. (29)
Race, milieux e moment, potremmo quasi dire. Tarchetti ritrae una famiglia media, che, nella sua confortevole agiatezza, mantiene un atteggiamento realistico nei confronti delle proprie ambizioni di classe e, in
tal modo, si garantisce le condizioni propizie al raggiungimento di una
positivistica e verghiana felicità. Il marito è giovane ed avvenente, possiede quegli attributi che se Giorgio, annoiato eroe bohémien, nega a se
stesso, ritrova in un personaggio maschile di livello medio e convenzionale. Infatti, l’ideale ‘eroico’ della patria è passé, mentre l’avvenenza
del marito di Clara è una manifestazione esplicita della ragione dei
tempi correnti, dacché è la conseguenza della rispettabile accettazione
del giusto mezzo, della logica della riproduzione biologica all’interno
del nucleo familiare, e del principio di accumulazione capitalistica e
borghese dei beni (10).10 In altre parole, in Fosca Tarchetti vanifica l’identificazione della mascolinità sia con il nazionalismo sia con l’amor
patriae, tanto nella sfera sociale quanto in quella familiare, poiché, citando le parole di Bhabha: “The gendering of the nation’s familial, do-
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mestic metaphor makes its masculinism and its naturalism neurotic”
(1990, 104).
Fosca racconta di uno stato nevrotico non solo psichico ma anche sociale che, se di primo acchito appare di pertinenza femminile, “un male
di moda nella donna,” ad un’osservazione più attenta si mostra nondimeno interessare l’universo maschile (49).11
Fosca, cugina del colonnello, appare per dilazione e negazione: se ne
sentono le grida isteriche provenire dalla camera, dove si è autoreclusa
in quanto impossibilitata a scendere per la cena (47–50).12 Nonostante
l’assenza fisica, la donna è presente simbolicamente come donna affetta dalla malattia sociale del secolo.13 Susan Sontag ha proposto un’ermeneutica del cancro come della malattia che ha metaforizzato la
psico-corporaleità del ventesimo secolo, perché evocatrice di un senso
di mistero, in cui si ribaltano i meccanismi del coinvolgimento emotivo, oltreché sociale, del paziente entro la struttura familiare che lo sostiene. Il cancro è una malattia invisibile, dell’assenza, la quale rende il
corpo nella condizione di dolore presente a se stesso e agli altri. Non
diversamente, in un’epistemologia pre-freudiana, l’abbandono e la
perdita di controllo fisico e mentale che si sprigionano dall’attacco isterico, ne hanno formalizzato una diretta associazione con la sfera della
sessualità femminile. L’atto isterico, momento pericoloso di perdita di
controllo del sé personale e del sé sociale, non può mostrarsi se non attraverso uno spettro fenomenologico eccedente la norma della compostezza e unità corporale. Come l’isteria di Fosca, così la sessualità poteva essere presente solo in assenza ed era dunque da posizionarsi
esclusivamente ai margini invisibili della comunità.14 Quando Giorgio,
incuriosito dalle grida isteriche di Fosca, si informa sull’aspetto fisico
della donna, uno dei commensali gli risponde: “ ‘Giudicherete voi
stesso della sua bellezza. Bisognerà che vi mettiate sulle difese’. E
allontanandosi mi ripeté con aria scherzevole: ‘Badate al vostro cuore:
tenetevi in guardia!’ ” (50).
Ciò che più distingue e rende attraente Fosca agli occhi di Giorgio è
paradossalmente il suo atteggiamento moderno nei confronti della sessualità sociale. Ad esempio, in una delle sue memorie, Fosca ritorna
con la mente agli anni di collegio, per raccontare a Giorgio della sua
passione, chiaramente omosessuale, per una coetanea. La protagonista
dichiara di avere raggiunto, in questa sua infatuazione amorosa, sia
l’apice della propria crescita personale sia la pienezza della propria
maturità spirituale; scrive Tarchetti:
A quell’età fui posta in collegio, e mi innamorai di una mia compagna. Fu
una passione vera, ostinata, tenace, quale non poteva sentirla che io. Quella
fanciulla che ora è donna maritata, non comprendeva nulla della profondità
e dell’indole di quell’affetto; e quantunque mi riamasse, lo faceva sí
freddamente che io ne era desolata. Era—benché buona—una ragazza
vacua e leggera come le altre; era bellissima, e fu forse la sua beltà che mi
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trasse inconsciamente ad amarla. Mi ricordo, che mi alzavo di notte per
andarla a vedere mentre dormiva, e passava molte ore vicino al suo letto,
coi piedi nudi, colla sola camicia, tutta tremante di freddo. (99)
Fosca reputa siano bellezza e convenzioni i fattori limitanti le possibilità espressive della fanciulla di cui si è innamorata, e di contro
difende la sua bisessualità, perché posizione identitaria fluida e composita che la differenzia, anche e soprattutto socialmente, dalla mediocrità di quello che la circonda.15 In un saggio del 1908, Sigmund Freud
si sofferma sulla questione della bisessualità legata all’isteria, e giunge
alla conclusione che gli attacchi isterici siano sintomi da un lato delle
fantasie sessuali inconsce della parte maschile, e dall’altro di quella
femminile, presenti in maniera più o meno latente in qualsiasi individuo. Sebbene agli inizi del secolo Freud neghi alla formula che descrive la bisessualità quella medesima validità universale che egli attribuisce ad altre manifestazioni di nevrosi isterica, la reputa una
richiesta sociale e sessuale di presenza tale nella sfera pubblica da meritare menzione e analisi. Freud riconosce alla bisessualità una strutturazione psichica entro la quale coalescano in un continuo, mai stabile,
pulsioni erotiche altrimenti incanalate in classificazioni binarie, al fine
ultimo di garantire stabilità sociale e non psichica (XI, 164–66).
Sempre allo stesso proposito, discutendo della bisessualità dei classici greci, Michel Foucault ha scritto:
Ai loro occhi, ciò che faceva sì che ci si potesse invaghire di un uomo o di
una donna, era semplicemente il desiderio che la natura aveva immesso nel
cuore dell’uomo nei confronti di coloro che sono ‘belli’, indipendentemente
dal loro sesso. (Foucault 2, 192)
Di fatto, è la triangolazione tra potere, sessualità e desiderio, quali
istanze cardine nella definizione dei rapporti tra i sessi, che definisce le
relazioni sociali tra uomo e donna; infatti, i Greci rivolgevano la loro
interrogazione “all’oggetto del piacere, o, più esattamente, a quell’oggetto nella misura in cui era destinato a diventare a sua volta soggetto
nel piacere che si prende con gli altri e nel potere che si esercita su se
stessi” (226). Secondo le regole del contratto sociale che oppone natura
e cultura, alla mancanza di una struttura familiare e di un matrimonio
che sorreggano e legittimino la posizione identitaria del soggetto Fosca
e le conferiscano potere sociale vengono associate la malattia mentale,
fino alla psicosi e all’idea ossessiva di possesso fisico e mentale dell’altro sia maschile sia femminile.
Come ci viene rivelato in un excursus al centro della narrazione, infatti, Giorgio non era stato l’unico uomo della vita di Fosca, affiancato
in questo ruolo da un ambiguo ex-marito: il conte Ludovico B., all’apparenza veneto (ma invece dalmata) ed ufficialmente emigrato per questioni politiche (ma in realtà un libertino ed avventuriero). Ludovico B.
viene descritto come uomo di bell’aspetto, ma senza carattere, senza
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un’identità definita, un villain gotico, “incapace di sentire uno scrupolo”
(106) che, camaleonticamente ed opportunisticamente, si piega alle circostanze. Ludovico era stato in grado di sopravvivere alle sue avventure grazie alla sua l’avvenenza fisica, condita da un mediocre talento
per l’arte di scrivere versi e da modi aggraziati e femminili (106).
Nuovamente, ci viene presentata una figura maschile androgina che, in
virtù di questa sua abilità di moltiplicare la propria identità e abitare
personalità diverse, riesce ad ingannare gli altri e a trionfare nella lotta
per l’esistenza. Fosca cede a questo fascino perverso e sposa Ludovico,
in un tentativo fallimentare di ottenere una stabilità emotiva e sociale
che la condurrà, per una semplice legge del contrappasso, alla propria
rovina e a quella della sua famiglia, nonché alla sterilità “Mio figlio viveva ma io non poteva diventare madre” (113).
Non diversamente, in un dialogo con Giorgio, la ragione positivistica, la forza della filosofia narutalista, incarnatasi nel medico del battaglione si chiede: “Se Lucrezia avesse avuto una costituzione meno
linfatica, un sistema nervoso meno languido, se fosse stata malata d’isterismo, credete che la monarchia dei Tarquini? . . .” (82). Con il suo
sacrificio personale e la denuncia della violenza sessuale subita da
Sesto, un figlio di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, Lucrezia
permise la fine della tirannide e la salvezza della patria tanto nella
sfera pubblica quanto privata. Ma, a questo proposito, continua il medico, rivolgendosi sempre a Giorgio: “avete fatto dell’onestà della
donna una questione di virtù e di carattere, mentre non è quasi mai che
una questione di nervi e di temperamento” (82). Non osservando le regole binarie della morale sessuale eterosessuale, perciò, da un lato
Fosca non fa altro che negare i predicati dell’epica borghese, ed ammettere il fallimento di ogni suo tentativo di essere quell’emblema di
compostezza e rassicurazione, che si confà a tutte le immagini di spose
e madri della nascente nazione. Come Lucrezia e molte eroine da romanzo gotico, Fosca si condanna ad abitare uno spazio domestico,
dove può esprimersi solamente tramite grida isteriche (64, 68, 81–2).16
Nell’utopia tarchettiana, contravvenendo alle regole della società
patriarcale, proprio Giorgio potrebbe essere il compagno ideale di
Fosca, perché di animo mite e debole, dai tratti tipicamente femminei e
scevro degli attributi di produttività e dominio assegnati alla sfera maschile (83). In virtù della sua natura androgina, Giorgio diventa la vittima di Fosca, e ribalta il classico topos gotico del villain che perseguita
la fanciulla indifesa. Fosca è troppo forte per il debole Giorgio che la rifiuta, solo per sentirsi umiliato al rifiuto di lei, e per giungere, attraverso questo alternarsi di sentimenti, ad interessanti conclusioni sulla
natura dell’amore post-romantico, il quale non è una questione di sentimenti eroici e individuali, ma biologicamente e darwinianamente
una questione di “nervi, fluidi, di armonie animali: l’identità dei caratteri, la stima lo fortificano, non lo creano” (76).
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Al cospetto di Fosca, Giorgio è incapace di sostenere il confronto con
la sua eccezionalità di sentire, la sua vasta cultura e acume intellettuale. Purtuttavia, nonostante sforzi protratti, non riesce a vincere la
forte attrazione che prova per questa manifestazione di femminilità eccentrica e polimorfa. Giorgio si definisce un soggetto decentrato e isolato socialmente—un edificio in rovina, un vero e proprio castello gotico di cui è parte sineddotica. Durante una passeggiata nel giardino
del castello, Giorgio e Fosca si imbattono in un monumento di marmo
che mostra la tale incisione:
22 agosto 1863. Giulio e Teresa—amanti e sposi felici. Mentre Fosca me lo diceva
col dito, sentiva la sua persona pesare sopra la mia con abbandono. [. . .]
Quanto a me, quelle parole mi avevano colpito più intimamente: la mia situazione era tale da sentire più al vivo quel richiamo: “amanti e sposi,” noi
non eravamo che amanti, noi, io e Clara, non saremo stati sposi mai; il
nostro stesso amore non era che una colpa, che una violazione di quella
legittima felicità di cui godevano quei due ignoti. (62)
L’utopia tarchettiana non può che realizzarsi in maniera intermittente. Questa folle e formidabile passione in cui il protagonista riveste
contemporaneamente il ruolo maschile con Clara e femminile con
Fosca, propone uno schema sessuale e comportamentale non convenzionalmente eterosessuale. Da eroina e non da eroe, Giorgio sopravvivrà al bacio della donna morta e al contagio della malattia e, con accresciuta consapevolezza delle sue debolezze e della sua malattia,
racconterà questa storia. Fosca riconoscerà la bellezza di Giorgio solo
quando, talmente sopraffatto dalla malattia, egli prenderà uno specchio, ancora tipico motivo gotico, nel quale simbolicamente si specchieranno entrambi in uno scambio simbolico per la morte, il quale
consentirà a Giorgio di vivere e a Fosca di morire (136–7). Sconvolto da
questa ripetuta crisi di Fosca, Giorgio reagirà ancora una volta da
eroina e non da eroe, fuggendo in campagna in uno stato di semicoscienza e presenza a se stesso, di sonnambulismo (178).
L’onta dell’onore violato di Fosca deve essere lavata, e di qui il
duello finale tra Giorgio e il colonnello, cugino della protagonista, che
si svolge all’alba tra le rovine di un castello gotico. Durante il duello
per l’onore di Fosca, il seduttore-sedotto viene colpito da un attacco
isterico (108). A conclusione del racconto, una lettera del dottore che
rassicura Giorgio sulla natura psichica, e nondimeno transitoria, dei
suoi attacchi di eccitazione febbrile e gli reca notizia del trasferimento
ad un incarico amministrativo del colonnello, con la rassicurazione che
di questa sciagura lui, Giorgio, era stato solo uno strumento e non la
causa, da cercarsi piuttosto in un sovrannaturale e misterioso destino
che ne ha mosso autonomamente la mano (171). Il deus ex-machina
della storia non può trovarsi nel reame del vero (sociale e storico), ma
in quello sovrannaturale del racconto fantasticizzato e goticizzato.
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Senso: nazione e desiderio
Un’analoga rappresentazione di mascolinità depotenziata, ci conduce
idealmente alla vicenda di Senso, dove il nesso tra sessualità, potere e
critica sociale si lega esplicitamente ad un problema storico: il fallimento delle speranze e ambizioni di unità e palingenesi sociali promesse dal Risorgimento (Bertoni 2002, 6).17
La prima edizione di Senso uscì presso l’editore Treves nel 1883, raccolta nel secondo volume di narrativa di Camillo Boito intitolato Senso.
Nuove storielle vane, due anni dopo la pubblicazione dei Malavoglia. La
vicenda, serbata nello scartafaccio della contessa Livia e pubblicata
dopo molti anni (un nuovo manoscritto ritrovato da romanzo gotico e
fantastico), racconta della tormentata passione erotica tra la donna,
narratrice in prima persona intradiegetica, ed un ufficiale austriaco,
Remigio Ruz, nella Venezia e Trento tra il 1865, nell’imminenza dello
scoppio della terza guerra d’indipendenza, e il 1866. Livia si innamora
per noia di un uomo più giovane di lei, di un nemico della patria, che
la sfrutta e tradisce. Così, alla scoperta delle menzogne del giovane, la
contessa non si farà scrupolo alcuno nel denunciare l’amante alla giustizia austriaca.
Come in Fosca, ad una narrativa d’impianto realista si mescolano
momenti di goticizzazione del testo, specialmente nel ritratto impietoso della contessa Livia, de rigoeur una delle molte femme fatale che
hanno popolato questa letteratura del terrore—tanto nei panni di
eroine decadute vittime di matrimoni sbagliati e chiuse nel castello,
quanto in quelli di spietate carnefici sans merci. Quest’ennesima incarnazione medusea-mefistofelica18 inizierà la sua storia riflettendosi in
uno specchio narcisista e convesso, compiaciuta del mancato sfiorire
della sua bellezza; infatti, spiega Livia: “Alla inquietudine, che rode la
mia anima e che lascia quasi intatto il mio corpo, s’alterna la presunzione della mia bellezza: né trovo altro conforto che questo solo, il mio
specchio” (21–2). E Livia pronuncia queste parole, mentre volge le
spalle all’ultimo amante inadeguato, vile, per catturare piuttosto lo
sguardo di un lettore simpatetico che si accinga a leggere le memorie
di “quell’affannoso periodo del mio passato” (22). Come ha commentato Angelo Mangini a proposito del processo anamorfico attivo in
molti testi del fantastico: “ogni volta che il lettore legge di questo specchiarsi è a rischio di scoprirsi egli stesso rappresentato in quanto lettore, intrappolato in quel gioco di moltiplicazioni e rifrazioni al fondo
del quale sarà costretto a riconoscersi nella storia e nel personaggio”
(2007, 131–32).
A differenza dell’eroe malinconico Giorgio, Livia si presenta al lettore come una discendente del Satana miltoniano, reincarnatosi in una
popolana da romanzo nero, che si beffa delle attenzioni dei suoi ammiratori, poiché “c’è nella mia debolezza una forza audace; somiglio
alle Romane antiche, a quelle che giravano il pollice verso terra” (22).
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Francesca Billiani
Livia è un soggetto dominante per la sua avvenenza, dominato altresì
in una società patriarcale (e non matriarcale come fu quella della romanità classica) da un matrimonio di convenienza con un uomo più
anziano. Il conte è “un aristocratico burbanzoso, violento verso i timidi
e pauroso in faccia ai violenti, raccontatore vivace di storielle lubriche,” che non mostra pudore alcuno nel pronunciarsi anti-piemontese
e nei confronti del quale Livia dichiara di sentire “indifferenza mista di
pietà e di sprezzo” (23–4). Il matrimonio ha garantito a Livia quella che
Foucault ha definito la ‘cultura del sé’ poiché, come nel mondo ellenistico, questo matrimonio si posiziona e viene legittimato nella sfera
pubblica (non in quella privata), le cui regole ne determinano la sorte
fausta o infausta (3, 76–84). Tanto l’espressione della sessualità femminile, quanto la sua conseguente sussistenza sociale dovevano essere regolate dall’imposizione di una regola civile, alla quale il contratto sociale le obbligava a aderire, pena la perdita della propria libertà
personale e del controllo del sé. Infatti, “l’individuo che si preoccupa
di se stesso non deve solo sposarsi; deve dare alla sua vita matrimoniale una certa forma e uno stile particolare” (Foucault 3, 164); come
puntualmente dichiara Livia medesima: “Ma io mi sentivo stufa della
mia qualità di zitella: volevo avere carrozze mie, brillanti, abiti di velluto, un titolo e, sopra tutto, la mia libertà” (24), fattori che ne sostengono e distinguono la sopravvivenza pubblica.19
Per noia, Livia diventa l’amante di un ufficiale austriaco, fisicamente perfetto, come un eroe greco, ma pusillanime ed effeminato, un
misto di Adone ed Alcide “dalle orecchie tanto minute da assomigliare
a quelle di una ragazza” (26), che si rifiuta persino di prestare soccorso
ad un fanciullo sul punto di annegare (34). Il ritratto ‘eroico’ e classico
del corpo dell’amante si trasforma in una maschera androgina che non
nasconde forza guerriera, o anelito patriottico, ma vile egoismo e desiderio illegittimo. Quantunque la bellezza statuaria di Remigio fosse
quella di un eroe, “In acqua era un eroe,” che “rammentava le statue
romane dei gladiatori” (26), era socialmente inutile e parassitaria, e
quindi incapace di garantirsi uno spazio sociale pubblico. Contravvenendo alle regole matrimoniali della società patriarcale che prescrive la
fedeltà femminile ma tollera l’adulterio maschile, Livia dichiara che se
le avessero chiesto se desiderasse che Remigio diventasse un Leonida,
l’eroe che alle Termopili si fece baluardo della difesa della Grecia contro l’avanzata dei Persiani capitanati da Serse, avrebbe risposto che
preferiva i vizi alla virtù (33).
Motivata semplicemente dalla sua passione sensuale verso un ufficiale austriaco, Livia tradisce e vende la propria patria, come spiega
Remigio ai suoi compagni di avventure curiosi di scoprire la fonte
delle recenti fortune del Tenente:
“E [lei] paga la bellezza del tenente?” “Gli dà del denaro, e molto.”
“Povera sciocca!” “Remigio la chiama la sua Messalina. Non me ne ha detto
Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti
189
il casato, ma mi ha confidato ch’è di Trento e che ha nome Livia. C’è
nessuno qui che sia pratico di Trento?” (55)
Livia, un’ininfluente Messalina, può agire in tale direzione perché le
manca un’identità nazionale definita. Sul punto di denunciare l’amante come disertore e di condannarlo a morte, il generale austriaco
(padre esemplare che gioca con i figli) risponde alla dichiarazione di
Livia di fare semplicemente il suo dovere di suddita fedele con una domanda chiave: “La signora contessa è tedesca?”; la replica è inequivocabile: “No, sono trentina” (59).
Nel 1866, la terza guerra d’indipendenza vedeva l’alleanza
dell’Italia con la Prussia per sconfiggere, su due fronti, l’Austria e ottenere la cessione del Lombardo-Veneto. Durante le trattative per la
firma dell’accordo tra Italia e Prussia, tra Bismark da una parte, il
Generale Govone e il ministro conte Barral dall’altra non si fece però
cenno al problema ‘Trentino’ o alla sua possibile annessione. Per
giunta, la condotta della guerra da parte dei generali italiani, Alfonso
La Marmora ed Enrico Cialdini, avrebbe poi esacerbato i dissapori interni, ed evidenziato la mancanza di unità nell’esercito italiano: così,
una lotta che avrebbe dovuto riunire la nazione, ne svelava invece le
profonde idiosincrasie, soprattutto nell’esclusione delle classi più povere da questo processo di liberazione dei territori ancora irredenti. La
dichiarazione di Livia assume una rilevanza ancora maggiore dunque
se la si pone a confronto con la prospettiva di un avvicinamento tra
classi sociali in un riunito stato-nazione quale era stato lo scopo ufficiale di questa terza guerra d’indipendenza. Questo ottenebramento
del valore patriottico degli sforzi bellici per l’unificazione non era una
presa di posizione nuova per Lidia, che impunemente non è reticente
ad ammettere che:
A sedici anni avevo già assodata la mia fama scherzando con l’affetto di un
bel giovane del mio paese e disprezzandolo poi, sicché il misero tentò di
uccidersi e, guarito, scappò da Trento in Piemonte, e si arruolò volontario, e
in una delle battaglie del ‘59, non mi ricordo quale, morì. (24)
Il sacrificio, sia estetico-sentimentale sia patriottico, non intacca il
narcisismo della contessa. A tutti gli effetti, la seconda guerra d’indipendenza aveva spianato la via dell’unificazione, ma in quale delle
celeberrime ed eroiche battaglie nazionali avesse trovato la morte
il giovane amante, Melegnano o Marengo, non importa (24). Un
simile atteggiamento dissociativo tra gli interessi individuali e quelli
collettivo-patriottici riaffiora alla notizia del trasferimento di Remigio
ad un altro battaglione, lontano da Venezia, alla vigilia dell’inizio della
terza guerra d’indipendenza. In questo frangente, la sola, ossessiva
preoccupazione che assale la mente di Livia è quella di trovare un
modo per ricongiungersi all’amante straniero e nemico, usando ai suoi
fini anti-patriottici, impunemente, le conoscenze che le derivavano dal
suo matrimonio di convenienza:
190
Francesca Billiani
Quando seppi la cosa mi disperai: senza quell’uomo io non potevo vivere.
Tanto feci presso la moglie del Luogotenente, e tanto si adoperò mio marito,
sollecitato da me, presso il Governatore ed i Generali, che Remigio ottenne
di venire mandato a Trento, dove io ed il conte dovevamo tornare appunto
in quei giorni. Tutto fino allora era andato a seconda della mia cieca
passione. (35)
Il suo punto di vista sulla guerra è estraneo, latore dello straniamento tipico della narrazione storica ottocentesca, il quale permette al
personaggio di agire senza essere agito dagli eventi. Goticizzata, alla
Burke, secondo il contrappunto dello psico-dramma della contessa, la
storia del popolo italiano viene dunque negata e vinta da un solipsismo che è simbolico e figurativo di un atteggiamento di sfiducia nella
capacità del potere politico e militare di fomentare la coesione popolare (38–40).
Al deteriorarsi delle condizioni fisiche di Livia, consumata dalla
passione antipatriottica per Remigio, la ragione sociale non può reagire
che in tali termini:
I medici, che mio marito, premuroso ed inquieto, volle consultare, ripetevano, stringendosi nelle spalle: “Affare di nervi;” mi raccomandarono di far
moto, di mangiare, di dormire, di stare allegra.
Eravamo alla metà di aprile ed oramai gli appressamenti si facevano senza
maschera: militari d’ogni sorta ingombravano le vie; marciavano i battaglioni al suono delle bande e dei tamburi; volavano sui loro cavalli gli aiutanti di campo; i vecchi generali, un po’ curvi sulla sella, passavano al trotto
seguìti dallo Stato maggiore, baldo, brillante. Quei preparativi mi riempivano di paure fantastiche. L’Italia voleva passare a fil di spada tutti quanti
gli Austriaci; Garibaldi, con le sue orde di demoni rossi, voleva scannare
tutti quelli che gli sarebbero capitati in mano: si presagiva un’ecatombe.
Avevo le furie in corpo: da Verona in sei settimane m’erano capitate quattro
lettere sole. (37)
Non diversamente da Fosca, anche Livia è una donna affetta dalla
malattia del secolo. In entrambi i testi, l’isteria è una patologia psichica
e sociale che, come abbiamo discusso, si rende visibile in un corpo impazzito, come in quello di una nazione ritratta in balia, nella prima
metà del luglio 1866, della furia distruttiva delle orde di demoni rossi
guidati dell’eroe Giuseppe Garibaldi.20 Non viene fatta, dunque, nessuna menzione d’onore all’Italia, e al tentativo, seppure fallimentare,
di Garibaldi di liberare Trento. Nella visione della protagonista, la
guerra di liberazione e unificazione nazionale non avrebbe conferito
unità ad un’entità divisa, ma avrebbe prodotto solo corpi in pezzi, accatastati alla rinfusa senza ordine, o coordinamento, proveniente da un
centro di potere stabile (52, 54). Il tentativo di annessione di Trento
all’Italia era stata un’ecatombe, aliena da qualsiasi anelito patriottico,
che suscitava nella protagonista paure ‘fantastiche’. Queste paure potevano definirsi fantastiche, perché sintomi di un’ansia socialmente
Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti
191
inaccettabile: quella di non rivedere l’amante, di non consumare un’ennesima passione fatale e formidabile che si sarebbe conclusa con il tradimento della patria. Trattandosi ovviamente di un affare di nervi, concludeva di nuovo la ragione positivistica incarnatasi nel medico,
l’unica cura possibile era quella del corpo, e non della psiche, in
quanto ad essere interessati erano gli umori dell’utero.
Dichiarandosi estranea al processo di unificazione nazionale, Livia
assume una posizione di in-betwenness che le consente di attuare una
vendetta omicida senza rimorsi. La finale scoperta del tradimento di
Remigio scatenerà la sete di vendetta di Livia che lo denuncerà come
disertore e lo farò fucilare assieme ai medici compiacenti, firmatari del
certificato di congedo. In quest’ultima scena, convergono due delle tematiche che avevano sorretto sia la narrazione di Senso sia di Fosca: il
depotenziamento della figura dell’eroe maschile e un acceso tono antimilitarista. Dopo aver assistito alla fucilazione di Remigio, e alla vista
della giovane donna, Giustina, che era stata la sua ultima amante,
Livia pronuncia impunemente le seguenti parole:
Avevo la coscienza del mio diritto; m’avviai per uscire, tranquilla
nell’orgoglio di un difficile dovere compiuto. Alla soglia del cancello mi sentii
strappare il velo dal volto; mi girai e vidi innanzi a me il grugno sporco
dell’ufficiale Boemo. Cavò dalla bocca enorme il cannello della sua pipa, e,
avvicinando al mio viso il suo mustacchio, mi sputò sulla guancia. . . . (60)
La morte di Remigio, ma in special modo l’immagine dell’altra
donna protesa sul corpo esangue del suo amante, rafforza la convinzione di Livia di essere nel giusto, di avere compiuto il proprio dovere
di suddita fedele nei confronti di un uomo che aveva tradito due
amori, quello verso la donna e la nazione. Significativo è il gesto dell’ufficiale Boemo, allorché svela il volto di Livia, per umiliarla con un
gesto che immediatamente la classifica come altrettanto infedele a se
stessa e alla patria del disertore Remigio: “Cavò dalla sua bocca
enorme il cannello della sua pipa, e, avvicinandosi al mio viso il suo
mustacchio, mi sputò sulla guancia . . .” (61).
Ancora più pregnante è il contrasto di immagini tra questa scena e
l’explicit vero e proprio, quando, all’interno delle confortevoli mura
domestiche e dimenticata l’infamante avventura, Livia, come all’inizio
del romanzo, si ritrova alle prese con l’avvocatino Gino, che implora
da lei una risposta: “Bastò una riga: Venite, faremo la pace, perché capitasse a precipizio. Ha piantato quella bamboccia della sua sposa una
settimana innanzi al giorno destinato pel matrimonio; e va ripetendo
ogni tanto, stringendomi quasi con la vigoria del tenente Remigio:
‘Livia, sei un angelo!’ (61). La scena ci riporta dai campi di battaglia all’interior della casa italiana, dove si ristabilisce l’ordine iniziale: non
esiste altra via che accettare il compromesso e l’imperfezione intrinseca
in ogni forma d’unità teleologica ed epistemologicamente confinata
192
Francesca Billiani
all’interno di una morale codificata dalle necessità di coerenza dello
Stato nazionale unitario. Alla fine il rimpianto della donna, della femme
fatale angelicata di tardo Ottocento, è per l’abbraccio vile e maschile del
villain da romanzo gotico. In poche parole, qualsiasi rottura dell’ordine
sociale può essere accolta nelle mura domestiche e ricondotta ad una
forma di unità matrimoniale, politica ed estetica, purché sia classificabile o come fantasia o come melodramma; in entrambi i casi, sia per
Livia sia per Fosca non era altro in fondo che un affare di nervi, recluso
nello spazio dell’utero, uno spazio da inscriversi in una narrazione
goticizzata e fantasticizzata.
FRANCESCA BILLIANI
University of Manchester
NOTE
1
Si confronti, non solo su questo punto specifico, ma anche sul ruolo dell’editore nel promuovere forme narrative più lineari e dirette, ad esempio il romanzo epistolare, che rompono con la tradizione barocca del Seicento e si autodefiniscono moderne e in aperto dialogo con il lettore, Cadioli (14–5). Sulla
nascita del gotico in risposta al cambiamento della composizione sociale del
pubblico di lettori, si faccia riferimento a Punter (22–8). Sempre Cadioli si sofferma sia sull’importanza delle traduzioni nel promuovere queste osmosi estetiche, sia sulle teorie foscoliane sul nuovo romanzo e sui nuovi lettori, modellate, quest’ultime, sugli esempi stranieri, soprattutto su quello sterniano (18–
20, 24–27, 47–95). Sulla diffusione del romanzo gotico in Europa, si rimanda invece a Terry Hale che sottolinea proprio l’importanza tanto della traduzione
diretta, quanto della riscrittura come fenomeni testuali d’appropriazione culturale di generi e sottogeneri che non appartengono per tradizione ad una data
letteratura nazionale. Erroneamente, però, lo studioso non assegna alcuna importanza al caso italiano (17–38). Sul gotico pre-unitario, si rimanda a Monica
Farnetti (340–60). A proposito della mancata presenza di un fantastico italiano
di matrice ‘radicale’ nell’Ottocento, ossia della mancanza di ‘un vero e proprio’
Romanticismo nordico in Italia, si veda Lattarulo (123–25).
2 Gino Tellini lapidariamente raggruppa questi romanzi nelle categorie, limitanti, del perverso e del visionario, trascurando, come molta critica, di interessarsi alle problematiche di natura sociale che in essi vi si sollevano (121).
3 Per una discussione della modalità letteraria della fantasticizzazione e
delle sue radici nella teoria backtiniana della contaminazione tipica del modo
romanzesco del diciottesimo secolo, si veda Ceserani (100–1, 114).
4 Per quanto riguarda un’analisi dell’omosessualità nel romanzo gotico inglese, si veda Sedwick (83–96).
5 Su questo punto, e sulla posizione ‘sociale’ e ‘storica’ assunta dal romanzo
gotico dalla fine del Settecento agli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento si rimanda a Punter (165–66).
Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti
193
6 Discutendo del plagio tarchettiano del racconto The Mortal Immortal di
Mary Shelley, Lawrence Venuti parla di orientalismo come dell’atteggiamento
conoscitivo che modella la ricezione italiana del racconto gotico e fantastico,
giacché questi due generi vengono spesso interpretati quali espressione di
sovversione estetica (197).
7 Notoriamente, la parte conclusiva del romanzo si deve alla penna dell’amico di Tarchetti, Salvatore Farina. Fosca ha attratto significativa attenzione
critica, alla quale si accenna solo nelle sue linee essenziali. Gino Tellini lo ha
etichettato sinteticamente come un romanzo delle “psicologie alternate” (123),
una posizione sposata da gran parte degli studiosi, che hanno interpretato
questo testo come un gioco di riflessi tra luce ed ombra, i quali si incarnano
nelle psicologie dei vari protagonisti e nelle loro vicende. Inoltre, alla luce della
ricostruzione di David Del Principe degli ipotesti gotici in Fosca, possiamo definirlo senza esitazione un romanzo tanto fantasticizzato quanto goticizzato
(44–109). Questo studio è utile anche per una ricognizione delle posizioni assunte dalla critica tarchettiana fino al 1996. Sulla costruzione del personaggio
Fosca si rimanda anche a Caesar (77), e su questo stesso punto anche a Mangini
(2000, 145–6).
8 Sulla questione dell’androginismo, e per la storia del suo sviluppo negli
studi di psicologia, si veda Cook (1–32).
9 Il Battaglia tra le tante definizioni che fornisce di questi lessemi riporta per
“fatale:” che ha caratteristiche sovrannaturali (713), che suscita passione (714),
mentre per “formidabile:” spaventoso, mortifero, dannoso, straordinario
(190–91).
10 Si veda anche la posizione di Freud sulle cause sociali dalle quali si origina la nevrosi (IX, 181–204). Una di queste pulsioni sociali è appunto il desiderio di salire i gradini della scala sociale, un’ambizione che si rivela non essere altro che il risultato di proiezioni idealizzanti, inconsciamente presente in
qualsiasi individuo socialmente posizionato (182, 186).
11 Sedwick identifica nell’esplicita tematizzazione della paranoia maschile
una delle caratteristiche principali del romanzo gotico (97).
12 Per una discussione sul ruolo della casa di campagna, o della magione in
generale, nella letteratura gotica, si veda Davison che parla proprio di divisione domestica tra sfera pubblica, maschile, e privata, femminile (137–42).
13 Sul rapporto tra femminile e malattia si rimanda a Small (1–32). In questo
studio, l’autrice ripercorre la storia dell’associazione tra la donna e la malattia,
e in particolare l’isteria, spostandone le date di inizio al Settecento, piuttosto
che ai primi dell’Ottocento.
14 Cfr. Sontag (5–6). Per quanto concerne l’interpretazione clinica di Freud
dell’isteria, si veda VII (3–122, 125–302). Per una ricognizione dell’impatto di
questa malattia sulle strutture della società borghese, si rimanda a Peter
Stallybrass e Allon White (171–90).
15 Su questo punto si sono soffermati anche Del Principe (99–100) e
Guglielminetti (1979, 37–8). Per un’analisi dell’impatto della bisessualità sulla
vita psico-sociale dell’individuo, si veda Firestein e Udis-Kessler (52–63).
194
Francesca Billiani
16 A questo proposito, si rimanda a due testi classici sull’argomento
Ferguson Ellis (1989) e Spivak che trattano rispettivamente dello spazio domestico e della voce della donna nella letteratura gotica.
17 Nonostante il successo dell’adattamento cinematografico di Luchino
Visconti nel 1953, Senso ha goduto di una fortuna critica nettamente inferiore
rispetto al romanzo di Tarchetti. A proposito della scoperta critica di Boito, tra
i primi, Benedetto Croce si soffermò piuttosto sommariamente sull’opera e
sulla figura dell’architetto, critico d’arte e scrittore in La letteratura della Nuova
Italia (311–6). Per contributi, sempre sparuti, ma più recenti, si rimanda a
Bigazzi (5–18), e Guglielminetti (1974, 9–50). Anche in questo caso, ci preme soprattutto rilevare la scarsa attenzione critica riservata ai modi di rappresentazione della mascolinità, quale incarnazione simbolica della vacuità degli ideali
patriottici della nuova Italia, cfr. Bigazzi (146).
18 Sulla presenza di figure medusee-mefistofeliche nelle frequentazioni fantastiche della tradizione operistica post-unitaria della quale Arrigo Boito, fratello di Camillo, era uno degli esponenti di spicco, si veda Guranieri Corazzol
(176–78).
19 Sulla rappresentazione della donna nel romanzo di tardo Ottocento, si
veda Stubbs.
20 Conclusioni simili a proposito della rappresentazione della donna nella
letteratura francese post-rivoluzionaria e in quella vittoriana, si veda Small
(104–38, e in particolare, 108–11).
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