Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti e
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Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti e
Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti e Senso di Camillo Boito prendere tutti i romanzi di Anna Radcliffe, quelli di Féval “Bisogna e di Dumas, i racconti fantastici di Hoffmann, aggiungervi un Ortis, un Renato e una Valentina sottoporli a distillazione, passarli in un filtro, toglierne la quintamillesima essenza, abbeverarne un’amante tradita, o un letterato che non trovi editori alle sue opere—e avremo forse un personaggio che potrà sedere degnamente tra i pochi che frequentano quel luogo solitario” (1967, 500). Nel suo pamphlet sterniano, Ad un moscone. Viaggio sentimentale nel giardino Balzaretti (“Rivista minima,” 30 giugno e 15 settembre 1865), lo scapigliato Igino Ugo Tarchetti abbozza una possibile formula per ritrarre un personaggio, che, a suo dire, possa assurgere a protagonista ideale di un contemporaneo romanzo di successo. Tale romanzo, e le sue creature, dovrebbero ispirarsi alla tradizione engagé dell’Ortis, di George Sand e Chateaubriand, a quella metropolitana dei misteri di Féval e del feuilleton di Dumas, nonché a quella nordico-europea dei racconti fantastici di Hoffmann e del gotico (nella fattispecie rassicurante del “supernatural explained”) à la Mrs Radcliffe.1 Di scorcio, nel 1865, Tarchetti sintetizza una delle tendenze estetiche e narrative prevalenti nei circoli letterari di fronda di tardo Ottocento: l’emergere, all’interno di un impianto narrativo realista, di un repertorio tematico attinto da modelli stranieri, alla ricerca di una forma romanzo che racconti non più l’avvenuta e gloriosa unificazione nazionale, ma piuttosto le sue molte sconfitte e altrettante idiosincrasie. Tra i testi post-unitari che ricorrono a momenti di goticizzazione e fantasticizzazione del testo spiccano Fosca (1869) di Igino Ugo Tarchetti e il racconto lungo, Senso (1883), di Camillo Boito.2 Come in molti testi gotici e fantastici dell’Ottocento europeo, il patto con il lettore è di natura antropologicamente identificativa; infatti, Fosca, Giorgio, Livia incarnano il paradigma della medietà, salvaguardata da un oculato compromesso sociale, il quale possa unire la comunità immaginaria di lettori nazionali. Se fino a quel momento l’eroina del romanzo italiano, dai tratti angelici e rassicuranti, aveva avuto un ruolo edificante nello svolgersi della vicenda, dalla seconda metà del secolo figure di donne dalla bellezza medusea, per citare Praz (1988, 31–53), e corrotta vengono alla ribalta della scena letteraria ed hanno un intento dichiaratamente sovversivo. ITALICA Volume 88 Number 2 (2011) Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti 179 In quanto segue, secondo il consiglio di Tarchetti, analizzeremo come questi testi post-unitari abbiano fantasticizzato e goticizzato la narrazione, al fine di ritrarre figure di donne partecipi di un discorso storico e politico, che racconta la fine di un’epoca, quella che dalla delusione dell’Ortis aveva condotto all’unità d’Italia, e il trapasso ad un’altra, quella in cui si sarebbe dovuta realizzare una tale unità.3 Comprimari, o narratori in prima persona, di queste storie sono uomini che definiscono la loro identità, posizione sociale e profilo psicologico dal confronto, spesso perdente, con un modello di femminilità ambivalente—al contempo donna decaduta ed eroina sconfitta— proposto da questi modi e generi letterari. In particolar modo, nei loro modi di rappresentazione del soggetto, tanto sociale quanto psichico, il gotico e il fantastico hanno proposto un messaggio socialmente eterodosso, che rende esplicito il pericolo inerente all’oltrepassamento dei confini di gender (Punter 1980, 163).4 Come osserva Dorothea von Mücke, fin dai suoi albori nel diciottesimo secolo, gli scrittori sono ricorsi al fantastico per costruire forme di sessualità socialmente non accettabili allorché: “the formal and aesthetic innovations of the fantastic tale challenged psychological and psychiatric models of subjectivity and agency that ancor and organize the individual’s relationship to her own sensuality as well as her perceptions of the external world and her affective relationships to others” (2003, 1–2). Analogamente, il gotico favorisce una tale indeterminatezza; infatti, se il female Gothic “is interested in sexual and political right especially concening the secrets of the family,” il male Gothic lo è nei “secrets of the gender paradigms” (Ferguson Ellis 2001, 257).5 Tanto i villains gotici quanto i personaggi frammentati del fantastico, sebbene depotenziati ed incapaci di affermarsi come forza sociale positiva e rigenerante, agiscono ciònonostante da forze sociali castranti, poiché costringono le eroine ad occupare uno spazio marginale e recluso entro le mura domestiche, dal quale devono trovare il modo per far sentire la propria voce di soggetti subalterni. La dimensione transnazionale del gotico e del fantastico è stata più volte messa in evidenza tanto che, consideratene le dinamiche della loro ricezione italiana tardo ottocentesca, è inevitabile trattare questi modi narrativi quali momenti coalescenti (Billiani 2007, 16; Billiani 2008; Ceserani 2007, 41–2). La loro presenza quasi clandestina, invisibile e con intento anti-realista all’interno del panorama letterario italiano, ha fatto sì che molti scrittori non si sentissero vincolati a rispettarne i rispettivi confini tematici e, anzi, se ne appropriassero secondo modalità narrative intercambiabili, che spaziavano dal riferimento intertestuale esplicito fino al plagio vero e proprio (Billiani 2007, 22–4; Venuti 148–56). Di conseguenza, è legittimo chiedersi: perché all’alba dell’unificazione nazionale l’avanguardia di Tarchetti e Boito si rivolge a due 180 Francesca Billiani generi e modi narrativi che non si fanno vessillo di una visione del mondo teleologica e borghese, ma propongono piuttosto ai loro lettori una figura maschile depotenziata, sconfitta nel suo tentativo di dominio patriarcale dell’universo femminile?6 Fosca nell’attico Scritto nel 1869 e rimasto incompiuto per la morte dell’autore,7 Fosca sigilla la breve carriera artistica di Tarchetti.8 Entro due blocchi narrativi principali, cronologicamente ordinati, si susseguono la storia d’amore adulterino di Giorgio, durante un periodo di congedo dal battaglione per malattia a Milano, con Clara, donna sposata, e quella “malata” con Fosca, che conoscerà una volta ripreso servizio in un reggimento di stanza in campagna, due amori diversi ma altrettanto “fatali e formidabili” (Tarchetti 21).9 Il protagonista si presenta al lettore come soggetto depotenziato, miracolosamente sopravvissuto a queste due eccedenti esperienze sentimentali, cosicché “più che un racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia” (22). Ma, nonostante questo passato sia fonte medesima di orrore e di attrazione, Giorgio non lo vuole dimenticare, pena l’oblio di se medesimo (19–22). Fin dall’incipit, il lettore viene accolto in un universo burkiano di sublime terrore dove, come in un romanzo gotico, è la storia passata a trasformarsi in movimento ossessivo nel presente, mentre la scrittura in prima persona, stilema tipico del fantastico, diventa il mezzo di auto-sopravvivenza a se stessi. Se Giorgio può vincere la solitudine sociale, è la solitudine delle passioni che più lo tormenta, poiché da eroe narcisista per eccellenza—si definisce uomo per natura “ribelle alle misure comuni e alle leggi comuni”—si rispecchia in se stesso per “trovare il centro della propria anima” (21), creando altresì un altro fenomeno tipico del testo fantasticizzato, ossia la mise en abîme con il lettore, al quale rivolge la medesima domanda: “Chi oserebbe affacciarsi allo spettacolo intero della sua esistenza, spiare nelle pagine sue tenebrose, e ritesserne tutta la storia?” (23; e anche 3, 23–5). L’inizio vero e proprio di questa fantasmagoria piena di apparizioni inquietanti è la relazione extraconiugale di Giorgio con Clara che si consuma dopo una notte agitata e scomposta trascorsa dal protagonista che, per ritrovare la propria energia, si abbandona alla lettura dell’epistolario di Foscolo, apostrofato “uomo antico” (29). Nel 1798, Ugo Foscolo, ma soprattutto l’autore dell’Ortis, incarna un modello maschile eroico, appartenente ad un momento storico in cui, agli occhi del protagonista, gli ideali assoluti venivano prima delle convenzioni, degli ordini stabiliti, e l’impertivo etico era quello del sacrificio della propria libertà individuale per la salvaguardia di quella collettiva della nazione (Fubini 1963, 21–6). Nel 1868, Giorgio—da ufficiale dell’esercito del Regno e da una posizione non solo rispettabile, ma anche Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti 181 strategicamente chiave nella lotta per la realizzazione dell’unificazione nazionale—si comporta e agisce invece in netta contraddizione rispetto ai principi di salvaguardia e tutela dell’interesse patriottico, fino a pronunciare un’esplicita dichiarazione di sfiducia nell’esercito: Gravi rovesci di fortuna mi avevano impedito di camparmi la vita in altro modo che coll’essere inscritto nei ruoli d’un reggimento, e far pompa del mio costume di capitano. E dico ciò perché allora la guerra era cessata, e mi vergognava spesso di quell’inazione ricompensata sì largamente. Io riscuoteva un lauto assegnamento sulle casse dello Stato. (24) La vita militare non si accompagna ad ideali eroici, è piuttosto un semplice strumento nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. A questo proposito, prima dell’incontro vero e proprio con Fosca, il nostro s’imbatte in un’altra figura maschile depotenziata: il colonnello del reggimento al quale è stato assegnato, un altro militare che ci viene descritto come esile e piccolo di statura; il suo carattere aveva in sé nulla di forte e di maschio, ma l’abitudine del comando e della disciplina avevano dato ai suoi modi un’impronta francamente energica e militare. (44) Niente forza virile e potere gerarchico, ma un soggetto dal carattere mite e artistico, che può identificarsi quale maschile e militare solo per l’imposizione di una struttura repressiva. In questa specie di foucouldiana caserma (Foucault 1993, 327–28) si può creare un “cattivo soldato,” che è però “un abile disegnatore, espertissimo di tutte le scienze attinenti alla guerra; e cosa straordinaria fra i militari, era uomo eccezionalmente onesto” (44–45). Disciplina e struttura sociale tradizionali, se de-psicologizzate, si rivelano perdenti nel tentativo di creare un’identità stabile proprio nell’uomo d’armi, nel padre della patria, in quanto è la loro eccentricità alle regole di classe a renderli soldati diversi, inclini ad apprezzare le virtù umane dell’individuo, nonché a farsi portavoci di un mal celato anti-militarismo (47). A conclusione della sua decostruzione della figura dell’eroe nazionale pre-romantico, pronto a sacrificarsi per il bene comune, Tarchetti scrive: Avrei voluto levarne le ceneri de’ miei cari, perché l’ultimo anello che mi congiungeva alla mia patria fosse spezzato. Fui torturato lungo tempo da un’idea insistente e malinconica: mi pareva che quelle reliquie adorate non potessero aver pace là sotto, perché, io stesso, io sento che le mie ossa fremerebbero se sepolte sotto quelle zolle abborite. (27; cfr. anche 29, 31) Il richiamo alla vita militare in assonanza con un’eco intertestuale esplicita a Dei sepolcri, ribalta il modello tradizionale maschile monolitico e propone un eroe malinconico e crepuscolare, incapace di passare all’azione e desideroso di possedere un oggetto non datum: il passato non è specchio di futura grandezza, se non in maniera maldestra e insicura, ma è fonte di melanconia, che si genera in un momento in cui 182 Francesca Billiani nascita e morte si trovano a coesistere in un’unità che contiene il suo principio e la sua fine. La patria appena costruita è un terreno estraneo, arida di degna sepoltura per le ossa del protagonista, che simbolicamente rifiuta di unirsi al terreno che gli aveva dato la vita. Alla natura empatica, libertaria, ed individualista degli eroi settecenteschi si sovrappone un manzoniano imperativo di rispettabilità borghese e di totalità conoscitiva, una condizione etico-gnoseologica-estetica idiosincratica che può esprimersi adeguatamente solo attraverso un repertorio d’immagini gotiche e fantastiche, le quali, melanconiche, incompiute ed anelanti a Thanatos, rappresentano la caducità del presente e l’irriconducibilità dell’uno al tutto. In un universo post-foscoliano e post-unitario, è invece la Clara diurna, adultera e insoddisfatta, ad essere sia per Giorgio sia per la società una madre, una fonte di energia positiva e riproduttiva, che può trasformarsi in amica, sorella e patria: “sì patria perché è per amor tuo che adoro codesto angolo di terra” (40) e quindi fonte di vita. Così facendo, Giorgio non solo ribalta la dinamica classica del potere patriarcale, che identifica la forza virile con la forza della patria, ma identifica, come sarà anche nel caso di Senso, la patria con un amore adultero, destinato alla sua auto-consunzione, poiché socialmente ed economicamente insostenibile. Durante il suo primo incontro con Clara, prossima a divenire sua amante, Giorgio, in congedo per malattia di cuore dal suo reggimento, si premura di collocare la donna-madre-patria su un ben determinato gradino della scala sociale; scrive: Suo marito era giovine e avvenente, occupava una carica distinta in un’amministrazione governativa; non erano ricchi, ma parevano agiati e felici; avevano un figlio; essa si chiamava Clara. (29) Race, milieux e moment, potremmo quasi dire. Tarchetti ritrae una famiglia media, che, nella sua confortevole agiatezza, mantiene un atteggiamento realistico nei confronti delle proprie ambizioni di classe e, in tal modo, si garantisce le condizioni propizie al raggiungimento di una positivistica e verghiana felicità. Il marito è giovane ed avvenente, possiede quegli attributi che se Giorgio, annoiato eroe bohémien, nega a se stesso, ritrova in un personaggio maschile di livello medio e convenzionale. Infatti, l’ideale ‘eroico’ della patria è passé, mentre l’avvenenza del marito di Clara è una manifestazione esplicita della ragione dei tempi correnti, dacché è la conseguenza della rispettabile accettazione del giusto mezzo, della logica della riproduzione biologica all’interno del nucleo familiare, e del principio di accumulazione capitalistica e borghese dei beni (10).10 In altre parole, in Fosca Tarchetti vanifica l’identificazione della mascolinità sia con il nazionalismo sia con l’amor patriae, tanto nella sfera sociale quanto in quella familiare, poiché, citando le parole di Bhabha: “The gendering of the nation’s familial, do- Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti 183 mestic metaphor makes its masculinism and its naturalism neurotic” (1990, 104). Fosca racconta di uno stato nevrotico non solo psichico ma anche sociale che, se di primo acchito appare di pertinenza femminile, “un male di moda nella donna,” ad un’osservazione più attenta si mostra nondimeno interessare l’universo maschile (49).11 Fosca, cugina del colonnello, appare per dilazione e negazione: se ne sentono le grida isteriche provenire dalla camera, dove si è autoreclusa in quanto impossibilitata a scendere per la cena (47–50).12 Nonostante l’assenza fisica, la donna è presente simbolicamente come donna affetta dalla malattia sociale del secolo.13 Susan Sontag ha proposto un’ermeneutica del cancro come della malattia che ha metaforizzato la psico-corporaleità del ventesimo secolo, perché evocatrice di un senso di mistero, in cui si ribaltano i meccanismi del coinvolgimento emotivo, oltreché sociale, del paziente entro la struttura familiare che lo sostiene. Il cancro è una malattia invisibile, dell’assenza, la quale rende il corpo nella condizione di dolore presente a se stesso e agli altri. Non diversamente, in un’epistemologia pre-freudiana, l’abbandono e la perdita di controllo fisico e mentale che si sprigionano dall’attacco isterico, ne hanno formalizzato una diretta associazione con la sfera della sessualità femminile. L’atto isterico, momento pericoloso di perdita di controllo del sé personale e del sé sociale, non può mostrarsi se non attraverso uno spettro fenomenologico eccedente la norma della compostezza e unità corporale. Come l’isteria di Fosca, così la sessualità poteva essere presente solo in assenza ed era dunque da posizionarsi esclusivamente ai margini invisibili della comunità.14 Quando Giorgio, incuriosito dalle grida isteriche di Fosca, si informa sull’aspetto fisico della donna, uno dei commensali gli risponde: “ ‘Giudicherete voi stesso della sua bellezza. Bisognerà che vi mettiate sulle difese’. E allontanandosi mi ripeté con aria scherzevole: ‘Badate al vostro cuore: tenetevi in guardia!’ ” (50). Ciò che più distingue e rende attraente Fosca agli occhi di Giorgio è paradossalmente il suo atteggiamento moderno nei confronti della sessualità sociale. Ad esempio, in una delle sue memorie, Fosca ritorna con la mente agli anni di collegio, per raccontare a Giorgio della sua passione, chiaramente omosessuale, per una coetanea. La protagonista dichiara di avere raggiunto, in questa sua infatuazione amorosa, sia l’apice della propria crescita personale sia la pienezza della propria maturità spirituale; scrive Tarchetti: A quell’età fui posta in collegio, e mi innamorai di una mia compagna. Fu una passione vera, ostinata, tenace, quale non poteva sentirla che io. Quella fanciulla che ora è donna maritata, non comprendeva nulla della profondità e dell’indole di quell’affetto; e quantunque mi riamasse, lo faceva sí freddamente che io ne era desolata. Era—benché buona—una ragazza vacua e leggera come le altre; era bellissima, e fu forse la sua beltà che mi 184 Francesca Billiani trasse inconsciamente ad amarla. Mi ricordo, che mi alzavo di notte per andarla a vedere mentre dormiva, e passava molte ore vicino al suo letto, coi piedi nudi, colla sola camicia, tutta tremante di freddo. (99) Fosca reputa siano bellezza e convenzioni i fattori limitanti le possibilità espressive della fanciulla di cui si è innamorata, e di contro difende la sua bisessualità, perché posizione identitaria fluida e composita che la differenzia, anche e soprattutto socialmente, dalla mediocrità di quello che la circonda.15 In un saggio del 1908, Sigmund Freud si sofferma sulla questione della bisessualità legata all’isteria, e giunge alla conclusione che gli attacchi isterici siano sintomi da un lato delle fantasie sessuali inconsce della parte maschile, e dall’altro di quella femminile, presenti in maniera più o meno latente in qualsiasi individuo. Sebbene agli inizi del secolo Freud neghi alla formula che descrive la bisessualità quella medesima validità universale che egli attribuisce ad altre manifestazioni di nevrosi isterica, la reputa una richiesta sociale e sessuale di presenza tale nella sfera pubblica da meritare menzione e analisi. Freud riconosce alla bisessualità una strutturazione psichica entro la quale coalescano in un continuo, mai stabile, pulsioni erotiche altrimenti incanalate in classificazioni binarie, al fine ultimo di garantire stabilità sociale e non psichica (XI, 164–66). Sempre allo stesso proposito, discutendo della bisessualità dei classici greci, Michel Foucault ha scritto: Ai loro occhi, ciò che faceva sì che ci si potesse invaghire di un uomo o di una donna, era semplicemente il desiderio che la natura aveva immesso nel cuore dell’uomo nei confronti di coloro che sono ‘belli’, indipendentemente dal loro sesso. (Foucault 2, 192) Di fatto, è la triangolazione tra potere, sessualità e desiderio, quali istanze cardine nella definizione dei rapporti tra i sessi, che definisce le relazioni sociali tra uomo e donna; infatti, i Greci rivolgevano la loro interrogazione “all’oggetto del piacere, o, più esattamente, a quell’oggetto nella misura in cui era destinato a diventare a sua volta soggetto nel piacere che si prende con gli altri e nel potere che si esercita su se stessi” (226). Secondo le regole del contratto sociale che oppone natura e cultura, alla mancanza di una struttura familiare e di un matrimonio che sorreggano e legittimino la posizione identitaria del soggetto Fosca e le conferiscano potere sociale vengono associate la malattia mentale, fino alla psicosi e all’idea ossessiva di possesso fisico e mentale dell’altro sia maschile sia femminile. Come ci viene rivelato in un excursus al centro della narrazione, infatti, Giorgio non era stato l’unico uomo della vita di Fosca, affiancato in questo ruolo da un ambiguo ex-marito: il conte Ludovico B., all’apparenza veneto (ma invece dalmata) ed ufficialmente emigrato per questioni politiche (ma in realtà un libertino ed avventuriero). Ludovico B. viene descritto come uomo di bell’aspetto, ma senza carattere, senza Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti 185 un’identità definita, un villain gotico, “incapace di sentire uno scrupolo” (106) che, camaleonticamente ed opportunisticamente, si piega alle circostanze. Ludovico era stato in grado di sopravvivere alle sue avventure grazie alla sua l’avvenenza fisica, condita da un mediocre talento per l’arte di scrivere versi e da modi aggraziati e femminili (106). Nuovamente, ci viene presentata una figura maschile androgina che, in virtù di questa sua abilità di moltiplicare la propria identità e abitare personalità diverse, riesce ad ingannare gli altri e a trionfare nella lotta per l’esistenza. Fosca cede a questo fascino perverso e sposa Ludovico, in un tentativo fallimentare di ottenere una stabilità emotiva e sociale che la condurrà, per una semplice legge del contrappasso, alla propria rovina e a quella della sua famiglia, nonché alla sterilità “Mio figlio viveva ma io non poteva diventare madre” (113). Non diversamente, in un dialogo con Giorgio, la ragione positivistica, la forza della filosofia narutalista, incarnatasi nel medico del battaglione si chiede: “Se Lucrezia avesse avuto una costituzione meno linfatica, un sistema nervoso meno languido, se fosse stata malata d’isterismo, credete che la monarchia dei Tarquini? . . .” (82). Con il suo sacrificio personale e la denuncia della violenza sessuale subita da Sesto, un figlio di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, Lucrezia permise la fine della tirannide e la salvezza della patria tanto nella sfera pubblica quanto privata. Ma, a questo proposito, continua il medico, rivolgendosi sempre a Giorgio: “avete fatto dell’onestà della donna una questione di virtù e di carattere, mentre non è quasi mai che una questione di nervi e di temperamento” (82). Non osservando le regole binarie della morale sessuale eterosessuale, perciò, da un lato Fosca non fa altro che negare i predicati dell’epica borghese, ed ammettere il fallimento di ogni suo tentativo di essere quell’emblema di compostezza e rassicurazione, che si confà a tutte le immagini di spose e madri della nascente nazione. Come Lucrezia e molte eroine da romanzo gotico, Fosca si condanna ad abitare uno spazio domestico, dove può esprimersi solamente tramite grida isteriche (64, 68, 81–2).16 Nell’utopia tarchettiana, contravvenendo alle regole della società patriarcale, proprio Giorgio potrebbe essere il compagno ideale di Fosca, perché di animo mite e debole, dai tratti tipicamente femminei e scevro degli attributi di produttività e dominio assegnati alla sfera maschile (83). In virtù della sua natura androgina, Giorgio diventa la vittima di Fosca, e ribalta il classico topos gotico del villain che perseguita la fanciulla indifesa. Fosca è troppo forte per il debole Giorgio che la rifiuta, solo per sentirsi umiliato al rifiuto di lei, e per giungere, attraverso questo alternarsi di sentimenti, ad interessanti conclusioni sulla natura dell’amore post-romantico, il quale non è una questione di sentimenti eroici e individuali, ma biologicamente e darwinianamente una questione di “nervi, fluidi, di armonie animali: l’identità dei caratteri, la stima lo fortificano, non lo creano” (76). 186 Francesca Billiani Al cospetto di Fosca, Giorgio è incapace di sostenere il confronto con la sua eccezionalità di sentire, la sua vasta cultura e acume intellettuale. Purtuttavia, nonostante sforzi protratti, non riesce a vincere la forte attrazione che prova per questa manifestazione di femminilità eccentrica e polimorfa. Giorgio si definisce un soggetto decentrato e isolato socialmente—un edificio in rovina, un vero e proprio castello gotico di cui è parte sineddotica. Durante una passeggiata nel giardino del castello, Giorgio e Fosca si imbattono in un monumento di marmo che mostra la tale incisione: 22 agosto 1863. Giulio e Teresa—amanti e sposi felici. Mentre Fosca me lo diceva col dito, sentiva la sua persona pesare sopra la mia con abbandono. [. . .] Quanto a me, quelle parole mi avevano colpito più intimamente: la mia situazione era tale da sentire più al vivo quel richiamo: “amanti e sposi,” noi non eravamo che amanti, noi, io e Clara, non saremo stati sposi mai; il nostro stesso amore non era che una colpa, che una violazione di quella legittima felicità di cui godevano quei due ignoti. (62) L’utopia tarchettiana non può che realizzarsi in maniera intermittente. Questa folle e formidabile passione in cui il protagonista riveste contemporaneamente il ruolo maschile con Clara e femminile con Fosca, propone uno schema sessuale e comportamentale non convenzionalmente eterosessuale. Da eroina e non da eroe, Giorgio sopravvivrà al bacio della donna morta e al contagio della malattia e, con accresciuta consapevolezza delle sue debolezze e della sua malattia, racconterà questa storia. Fosca riconoscerà la bellezza di Giorgio solo quando, talmente sopraffatto dalla malattia, egli prenderà uno specchio, ancora tipico motivo gotico, nel quale simbolicamente si specchieranno entrambi in uno scambio simbolico per la morte, il quale consentirà a Giorgio di vivere e a Fosca di morire (136–7). Sconvolto da questa ripetuta crisi di Fosca, Giorgio reagirà ancora una volta da eroina e non da eroe, fuggendo in campagna in uno stato di semicoscienza e presenza a se stesso, di sonnambulismo (178). L’onta dell’onore violato di Fosca deve essere lavata, e di qui il duello finale tra Giorgio e il colonnello, cugino della protagonista, che si svolge all’alba tra le rovine di un castello gotico. Durante il duello per l’onore di Fosca, il seduttore-sedotto viene colpito da un attacco isterico (108). A conclusione del racconto, una lettera del dottore che rassicura Giorgio sulla natura psichica, e nondimeno transitoria, dei suoi attacchi di eccitazione febbrile e gli reca notizia del trasferimento ad un incarico amministrativo del colonnello, con la rassicurazione che di questa sciagura lui, Giorgio, era stato solo uno strumento e non la causa, da cercarsi piuttosto in un sovrannaturale e misterioso destino che ne ha mosso autonomamente la mano (171). Il deus ex-machina della storia non può trovarsi nel reame del vero (sociale e storico), ma in quello sovrannaturale del racconto fantasticizzato e goticizzato. Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti 187 Senso: nazione e desiderio Un’analoga rappresentazione di mascolinità depotenziata, ci conduce idealmente alla vicenda di Senso, dove il nesso tra sessualità, potere e critica sociale si lega esplicitamente ad un problema storico: il fallimento delle speranze e ambizioni di unità e palingenesi sociali promesse dal Risorgimento (Bertoni 2002, 6).17 La prima edizione di Senso uscì presso l’editore Treves nel 1883, raccolta nel secondo volume di narrativa di Camillo Boito intitolato Senso. Nuove storielle vane, due anni dopo la pubblicazione dei Malavoglia. La vicenda, serbata nello scartafaccio della contessa Livia e pubblicata dopo molti anni (un nuovo manoscritto ritrovato da romanzo gotico e fantastico), racconta della tormentata passione erotica tra la donna, narratrice in prima persona intradiegetica, ed un ufficiale austriaco, Remigio Ruz, nella Venezia e Trento tra il 1865, nell’imminenza dello scoppio della terza guerra d’indipendenza, e il 1866. Livia si innamora per noia di un uomo più giovane di lei, di un nemico della patria, che la sfrutta e tradisce. Così, alla scoperta delle menzogne del giovane, la contessa non si farà scrupolo alcuno nel denunciare l’amante alla giustizia austriaca. Come in Fosca, ad una narrativa d’impianto realista si mescolano momenti di goticizzazione del testo, specialmente nel ritratto impietoso della contessa Livia, de rigoeur una delle molte femme fatale che hanno popolato questa letteratura del terrore—tanto nei panni di eroine decadute vittime di matrimoni sbagliati e chiuse nel castello, quanto in quelli di spietate carnefici sans merci. Quest’ennesima incarnazione medusea-mefistofelica18 inizierà la sua storia riflettendosi in uno specchio narcisista e convesso, compiaciuta del mancato sfiorire della sua bellezza; infatti, spiega Livia: “Alla inquietudine, che rode la mia anima e che lascia quasi intatto il mio corpo, s’alterna la presunzione della mia bellezza: né trovo altro conforto che questo solo, il mio specchio” (21–2). E Livia pronuncia queste parole, mentre volge le spalle all’ultimo amante inadeguato, vile, per catturare piuttosto lo sguardo di un lettore simpatetico che si accinga a leggere le memorie di “quell’affannoso periodo del mio passato” (22). Come ha commentato Angelo Mangini a proposito del processo anamorfico attivo in molti testi del fantastico: “ogni volta che il lettore legge di questo specchiarsi è a rischio di scoprirsi egli stesso rappresentato in quanto lettore, intrappolato in quel gioco di moltiplicazioni e rifrazioni al fondo del quale sarà costretto a riconoscersi nella storia e nel personaggio” (2007, 131–32). A differenza dell’eroe malinconico Giorgio, Livia si presenta al lettore come una discendente del Satana miltoniano, reincarnatosi in una popolana da romanzo nero, che si beffa delle attenzioni dei suoi ammiratori, poiché “c’è nella mia debolezza una forza audace; somiglio alle Romane antiche, a quelle che giravano il pollice verso terra” (22). 188 Francesca Billiani Livia è un soggetto dominante per la sua avvenenza, dominato altresì in una società patriarcale (e non matriarcale come fu quella della romanità classica) da un matrimonio di convenienza con un uomo più anziano. Il conte è “un aristocratico burbanzoso, violento verso i timidi e pauroso in faccia ai violenti, raccontatore vivace di storielle lubriche,” che non mostra pudore alcuno nel pronunciarsi anti-piemontese e nei confronti del quale Livia dichiara di sentire “indifferenza mista di pietà e di sprezzo” (23–4). Il matrimonio ha garantito a Livia quella che Foucault ha definito la ‘cultura del sé’ poiché, come nel mondo ellenistico, questo matrimonio si posiziona e viene legittimato nella sfera pubblica (non in quella privata), le cui regole ne determinano la sorte fausta o infausta (3, 76–84). Tanto l’espressione della sessualità femminile, quanto la sua conseguente sussistenza sociale dovevano essere regolate dall’imposizione di una regola civile, alla quale il contratto sociale le obbligava a aderire, pena la perdita della propria libertà personale e del controllo del sé. Infatti, “l’individuo che si preoccupa di se stesso non deve solo sposarsi; deve dare alla sua vita matrimoniale una certa forma e uno stile particolare” (Foucault 3, 164); come puntualmente dichiara Livia medesima: “Ma io mi sentivo stufa della mia qualità di zitella: volevo avere carrozze mie, brillanti, abiti di velluto, un titolo e, sopra tutto, la mia libertà” (24), fattori che ne sostengono e distinguono la sopravvivenza pubblica.19 Per noia, Livia diventa l’amante di un ufficiale austriaco, fisicamente perfetto, come un eroe greco, ma pusillanime ed effeminato, un misto di Adone ed Alcide “dalle orecchie tanto minute da assomigliare a quelle di una ragazza” (26), che si rifiuta persino di prestare soccorso ad un fanciullo sul punto di annegare (34). Il ritratto ‘eroico’ e classico del corpo dell’amante si trasforma in una maschera androgina che non nasconde forza guerriera, o anelito patriottico, ma vile egoismo e desiderio illegittimo. Quantunque la bellezza statuaria di Remigio fosse quella di un eroe, “In acqua era un eroe,” che “rammentava le statue romane dei gladiatori” (26), era socialmente inutile e parassitaria, e quindi incapace di garantirsi uno spazio sociale pubblico. Contravvenendo alle regole matrimoniali della società patriarcale che prescrive la fedeltà femminile ma tollera l’adulterio maschile, Livia dichiara che se le avessero chiesto se desiderasse che Remigio diventasse un Leonida, l’eroe che alle Termopili si fece baluardo della difesa della Grecia contro l’avanzata dei Persiani capitanati da Serse, avrebbe risposto che preferiva i vizi alla virtù (33). Motivata semplicemente dalla sua passione sensuale verso un ufficiale austriaco, Livia tradisce e vende la propria patria, come spiega Remigio ai suoi compagni di avventure curiosi di scoprire la fonte delle recenti fortune del Tenente: “E [lei] paga la bellezza del tenente?” “Gli dà del denaro, e molto.” “Povera sciocca!” “Remigio la chiama la sua Messalina. Non me ne ha detto Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti 189 il casato, ma mi ha confidato ch’è di Trento e che ha nome Livia. C’è nessuno qui che sia pratico di Trento?” (55) Livia, un’ininfluente Messalina, può agire in tale direzione perché le manca un’identità nazionale definita. Sul punto di denunciare l’amante come disertore e di condannarlo a morte, il generale austriaco (padre esemplare che gioca con i figli) risponde alla dichiarazione di Livia di fare semplicemente il suo dovere di suddita fedele con una domanda chiave: “La signora contessa è tedesca?”; la replica è inequivocabile: “No, sono trentina” (59). Nel 1866, la terza guerra d’indipendenza vedeva l’alleanza dell’Italia con la Prussia per sconfiggere, su due fronti, l’Austria e ottenere la cessione del Lombardo-Veneto. Durante le trattative per la firma dell’accordo tra Italia e Prussia, tra Bismark da una parte, il Generale Govone e il ministro conte Barral dall’altra non si fece però cenno al problema ‘Trentino’ o alla sua possibile annessione. Per giunta, la condotta della guerra da parte dei generali italiani, Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini, avrebbe poi esacerbato i dissapori interni, ed evidenziato la mancanza di unità nell’esercito italiano: così, una lotta che avrebbe dovuto riunire la nazione, ne svelava invece le profonde idiosincrasie, soprattutto nell’esclusione delle classi più povere da questo processo di liberazione dei territori ancora irredenti. La dichiarazione di Livia assume una rilevanza ancora maggiore dunque se la si pone a confronto con la prospettiva di un avvicinamento tra classi sociali in un riunito stato-nazione quale era stato lo scopo ufficiale di questa terza guerra d’indipendenza. Questo ottenebramento del valore patriottico degli sforzi bellici per l’unificazione non era una presa di posizione nuova per Lidia, che impunemente non è reticente ad ammettere che: A sedici anni avevo già assodata la mia fama scherzando con l’affetto di un bel giovane del mio paese e disprezzandolo poi, sicché il misero tentò di uccidersi e, guarito, scappò da Trento in Piemonte, e si arruolò volontario, e in una delle battaglie del ‘59, non mi ricordo quale, morì. (24) Il sacrificio, sia estetico-sentimentale sia patriottico, non intacca il narcisismo della contessa. A tutti gli effetti, la seconda guerra d’indipendenza aveva spianato la via dell’unificazione, ma in quale delle celeberrime ed eroiche battaglie nazionali avesse trovato la morte il giovane amante, Melegnano o Marengo, non importa (24). Un simile atteggiamento dissociativo tra gli interessi individuali e quelli collettivo-patriottici riaffiora alla notizia del trasferimento di Remigio ad un altro battaglione, lontano da Venezia, alla vigilia dell’inizio della terza guerra d’indipendenza. In questo frangente, la sola, ossessiva preoccupazione che assale la mente di Livia è quella di trovare un modo per ricongiungersi all’amante straniero e nemico, usando ai suoi fini anti-patriottici, impunemente, le conoscenze che le derivavano dal suo matrimonio di convenienza: 190 Francesca Billiani Quando seppi la cosa mi disperai: senza quell’uomo io non potevo vivere. Tanto feci presso la moglie del Luogotenente, e tanto si adoperò mio marito, sollecitato da me, presso il Governatore ed i Generali, che Remigio ottenne di venire mandato a Trento, dove io ed il conte dovevamo tornare appunto in quei giorni. Tutto fino allora era andato a seconda della mia cieca passione. (35) Il suo punto di vista sulla guerra è estraneo, latore dello straniamento tipico della narrazione storica ottocentesca, il quale permette al personaggio di agire senza essere agito dagli eventi. Goticizzata, alla Burke, secondo il contrappunto dello psico-dramma della contessa, la storia del popolo italiano viene dunque negata e vinta da un solipsismo che è simbolico e figurativo di un atteggiamento di sfiducia nella capacità del potere politico e militare di fomentare la coesione popolare (38–40). Al deteriorarsi delle condizioni fisiche di Livia, consumata dalla passione antipatriottica per Remigio, la ragione sociale non può reagire che in tali termini: I medici, che mio marito, premuroso ed inquieto, volle consultare, ripetevano, stringendosi nelle spalle: “Affare di nervi;” mi raccomandarono di far moto, di mangiare, di dormire, di stare allegra. Eravamo alla metà di aprile ed oramai gli appressamenti si facevano senza maschera: militari d’ogni sorta ingombravano le vie; marciavano i battaglioni al suono delle bande e dei tamburi; volavano sui loro cavalli gli aiutanti di campo; i vecchi generali, un po’ curvi sulla sella, passavano al trotto seguìti dallo Stato maggiore, baldo, brillante. Quei preparativi mi riempivano di paure fantastiche. L’Italia voleva passare a fil di spada tutti quanti gli Austriaci; Garibaldi, con le sue orde di demoni rossi, voleva scannare tutti quelli che gli sarebbero capitati in mano: si presagiva un’ecatombe. Avevo le furie in corpo: da Verona in sei settimane m’erano capitate quattro lettere sole. (37) Non diversamente da Fosca, anche Livia è una donna affetta dalla malattia del secolo. In entrambi i testi, l’isteria è una patologia psichica e sociale che, come abbiamo discusso, si rende visibile in un corpo impazzito, come in quello di una nazione ritratta in balia, nella prima metà del luglio 1866, della furia distruttiva delle orde di demoni rossi guidati dell’eroe Giuseppe Garibaldi.20 Non viene fatta, dunque, nessuna menzione d’onore all’Italia, e al tentativo, seppure fallimentare, di Garibaldi di liberare Trento. Nella visione della protagonista, la guerra di liberazione e unificazione nazionale non avrebbe conferito unità ad un’entità divisa, ma avrebbe prodotto solo corpi in pezzi, accatastati alla rinfusa senza ordine, o coordinamento, proveniente da un centro di potere stabile (52, 54). Il tentativo di annessione di Trento all’Italia era stata un’ecatombe, aliena da qualsiasi anelito patriottico, che suscitava nella protagonista paure ‘fantastiche’. Queste paure potevano definirsi fantastiche, perché sintomi di un’ansia socialmente Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti 191 inaccettabile: quella di non rivedere l’amante, di non consumare un’ennesima passione fatale e formidabile che si sarebbe conclusa con il tradimento della patria. Trattandosi ovviamente di un affare di nervi, concludeva di nuovo la ragione positivistica incarnatasi nel medico, l’unica cura possibile era quella del corpo, e non della psiche, in quanto ad essere interessati erano gli umori dell’utero. Dichiarandosi estranea al processo di unificazione nazionale, Livia assume una posizione di in-betwenness che le consente di attuare una vendetta omicida senza rimorsi. La finale scoperta del tradimento di Remigio scatenerà la sete di vendetta di Livia che lo denuncerà come disertore e lo farò fucilare assieme ai medici compiacenti, firmatari del certificato di congedo. In quest’ultima scena, convergono due delle tematiche che avevano sorretto sia la narrazione di Senso sia di Fosca: il depotenziamento della figura dell’eroe maschile e un acceso tono antimilitarista. Dopo aver assistito alla fucilazione di Remigio, e alla vista della giovane donna, Giustina, che era stata la sua ultima amante, Livia pronuncia impunemente le seguenti parole: Avevo la coscienza del mio diritto; m’avviai per uscire, tranquilla nell’orgoglio di un difficile dovere compiuto. Alla soglia del cancello mi sentii strappare il velo dal volto; mi girai e vidi innanzi a me il grugno sporco dell’ufficiale Boemo. Cavò dalla bocca enorme il cannello della sua pipa, e, avvicinando al mio viso il suo mustacchio, mi sputò sulla guancia. . . . (60) La morte di Remigio, ma in special modo l’immagine dell’altra donna protesa sul corpo esangue del suo amante, rafforza la convinzione di Livia di essere nel giusto, di avere compiuto il proprio dovere di suddita fedele nei confronti di un uomo che aveva tradito due amori, quello verso la donna e la nazione. Significativo è il gesto dell’ufficiale Boemo, allorché svela il volto di Livia, per umiliarla con un gesto che immediatamente la classifica come altrettanto infedele a se stessa e alla patria del disertore Remigio: “Cavò dalla sua bocca enorme il cannello della sua pipa, e, avvicinandosi al mio viso il suo mustacchio, mi sputò sulla guancia . . .” (61). Ancora più pregnante è il contrasto di immagini tra questa scena e l’explicit vero e proprio, quando, all’interno delle confortevoli mura domestiche e dimenticata l’infamante avventura, Livia, come all’inizio del romanzo, si ritrova alle prese con l’avvocatino Gino, che implora da lei una risposta: “Bastò una riga: Venite, faremo la pace, perché capitasse a precipizio. Ha piantato quella bamboccia della sua sposa una settimana innanzi al giorno destinato pel matrimonio; e va ripetendo ogni tanto, stringendomi quasi con la vigoria del tenente Remigio: ‘Livia, sei un angelo!’ (61). La scena ci riporta dai campi di battaglia all’interior della casa italiana, dove si ristabilisce l’ordine iniziale: non esiste altra via che accettare il compromesso e l’imperfezione intrinseca in ogni forma d’unità teleologica ed epistemologicamente confinata 192 Francesca Billiani all’interno di una morale codificata dalle necessità di coerenza dello Stato nazionale unitario. Alla fine il rimpianto della donna, della femme fatale angelicata di tardo Ottocento, è per l’abbraccio vile e maschile del villain da romanzo gotico. In poche parole, qualsiasi rottura dell’ordine sociale può essere accolta nelle mura domestiche e ricondotta ad una forma di unità matrimoniale, politica ed estetica, purché sia classificabile o come fantasia o come melodramma; in entrambi i casi, sia per Livia sia per Fosca non era altro in fondo che un affare di nervi, recluso nello spazio dell’utero, uno spazio da inscriversi in una narrazione goticizzata e fantasticizzata. FRANCESCA BILLIANI University of Manchester NOTE 1 Si confronti, non solo su questo punto specifico, ma anche sul ruolo dell’editore nel promuovere forme narrative più lineari e dirette, ad esempio il romanzo epistolare, che rompono con la tradizione barocca del Seicento e si autodefiniscono moderne e in aperto dialogo con il lettore, Cadioli (14–5). Sulla nascita del gotico in risposta al cambiamento della composizione sociale del pubblico di lettori, si faccia riferimento a Punter (22–8). Sempre Cadioli si sofferma sia sull’importanza delle traduzioni nel promuovere queste osmosi estetiche, sia sulle teorie foscoliane sul nuovo romanzo e sui nuovi lettori, modellate, quest’ultime, sugli esempi stranieri, soprattutto su quello sterniano (18– 20, 24–27, 47–95). Sulla diffusione del romanzo gotico in Europa, si rimanda invece a Terry Hale che sottolinea proprio l’importanza tanto della traduzione diretta, quanto della riscrittura come fenomeni testuali d’appropriazione culturale di generi e sottogeneri che non appartengono per tradizione ad una data letteratura nazionale. Erroneamente, però, lo studioso non assegna alcuna importanza al caso italiano (17–38). Sul gotico pre-unitario, si rimanda a Monica Farnetti (340–60). A proposito della mancata presenza di un fantastico italiano di matrice ‘radicale’ nell’Ottocento, ossia della mancanza di ‘un vero e proprio’ Romanticismo nordico in Italia, si veda Lattarulo (123–25). 2 Gino Tellini lapidariamente raggruppa questi romanzi nelle categorie, limitanti, del perverso e del visionario, trascurando, come molta critica, di interessarsi alle problematiche di natura sociale che in essi vi si sollevano (121). 3 Per una discussione della modalità letteraria della fantasticizzazione e delle sue radici nella teoria backtiniana della contaminazione tipica del modo romanzesco del diciottesimo secolo, si veda Ceserani (100–1, 114). 4 Per quanto riguarda un’analisi dell’omosessualità nel romanzo gotico inglese, si veda Sedwick (83–96). 5 Su questo punto, e sulla posizione ‘sociale’ e ‘storica’ assunta dal romanzo gotico dalla fine del Settecento agli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento si rimanda a Punter (165–66). Eroi ed eroine nazionali manquée in Fosca di Igino Ugo Tarchetti 193 6 Discutendo del plagio tarchettiano del racconto The Mortal Immortal di Mary Shelley, Lawrence Venuti parla di orientalismo come dell’atteggiamento conoscitivo che modella la ricezione italiana del racconto gotico e fantastico, giacché questi due generi vengono spesso interpretati quali espressione di sovversione estetica (197). 7 Notoriamente, la parte conclusiva del romanzo si deve alla penna dell’amico di Tarchetti, Salvatore Farina. Fosca ha attratto significativa attenzione critica, alla quale si accenna solo nelle sue linee essenziali. Gino Tellini lo ha etichettato sinteticamente come un romanzo delle “psicologie alternate” (123), una posizione sposata da gran parte degli studiosi, che hanno interpretato questo testo come un gioco di riflessi tra luce ed ombra, i quali si incarnano nelle psicologie dei vari protagonisti e nelle loro vicende. Inoltre, alla luce della ricostruzione di David Del Principe degli ipotesti gotici in Fosca, possiamo definirlo senza esitazione un romanzo tanto fantasticizzato quanto goticizzato (44–109). Questo studio è utile anche per una ricognizione delle posizioni assunte dalla critica tarchettiana fino al 1996. Sulla costruzione del personaggio Fosca si rimanda anche a Caesar (77), e su questo stesso punto anche a Mangini (2000, 145–6). 8 Sulla questione dell’androginismo, e per la storia del suo sviluppo negli studi di psicologia, si veda Cook (1–32). 9 Il Battaglia tra le tante definizioni che fornisce di questi lessemi riporta per “fatale:” che ha caratteristiche sovrannaturali (713), che suscita passione (714), mentre per “formidabile:” spaventoso, mortifero, dannoso, straordinario (190–91). 10 Si veda anche la posizione di Freud sulle cause sociali dalle quali si origina la nevrosi (IX, 181–204). Una di queste pulsioni sociali è appunto il desiderio di salire i gradini della scala sociale, un’ambizione che si rivela non essere altro che il risultato di proiezioni idealizzanti, inconsciamente presente in qualsiasi individuo socialmente posizionato (182, 186). 11 Sedwick identifica nell’esplicita tematizzazione della paranoia maschile una delle caratteristiche principali del romanzo gotico (97). 12 Per una discussione sul ruolo della casa di campagna, o della magione in generale, nella letteratura gotica, si veda Davison che parla proprio di divisione domestica tra sfera pubblica, maschile, e privata, femminile (137–42). 13 Sul rapporto tra femminile e malattia si rimanda a Small (1–32). In questo studio, l’autrice ripercorre la storia dell’associazione tra la donna e la malattia, e in particolare l’isteria, spostandone le date di inizio al Settecento, piuttosto che ai primi dell’Ottocento. 14 Cfr. Sontag (5–6). Per quanto concerne l’interpretazione clinica di Freud dell’isteria, si veda VII (3–122, 125–302). Per una ricognizione dell’impatto di questa malattia sulle strutture della società borghese, si rimanda a Peter Stallybrass e Allon White (171–90). 15 Su questo punto si sono soffermati anche Del Principe (99–100) e Guglielminetti (1979, 37–8). Per un’analisi dell’impatto della bisessualità sulla vita psico-sociale dell’individuo, si veda Firestein e Udis-Kessler (52–63). 194 Francesca Billiani 16 A questo proposito, si rimanda a due testi classici sull’argomento Ferguson Ellis (1989) e Spivak che trattano rispettivamente dello spazio domestico e della voce della donna nella letteratura gotica. 17 Nonostante il successo dell’adattamento cinematografico di Luchino Visconti nel 1953, Senso ha goduto di una fortuna critica nettamente inferiore rispetto al romanzo di Tarchetti. A proposito della scoperta critica di Boito, tra i primi, Benedetto Croce si soffermò piuttosto sommariamente sull’opera e sulla figura dell’architetto, critico d’arte e scrittore in La letteratura della Nuova Italia (311–6). Per contributi, sempre sparuti, ma più recenti, si rimanda a Bigazzi (5–18), e Guglielminetti (1974, 9–50). Anche in questo caso, ci preme soprattutto rilevare la scarsa attenzione critica riservata ai modi di rappresentazione della mascolinità, quale incarnazione simbolica della vacuità degli ideali patriottici della nuova Italia, cfr. Bigazzi (146). 18 Sulla presenza di figure medusee-mefistofeliche nelle frequentazioni fantastiche della tradizione operistica post-unitaria della quale Arrigo Boito, fratello di Camillo, era uno degli esponenti di spicco, si veda Guranieri Corazzol (176–78). 19 Sulla rappresentazione della donna nel romanzo di tardo Ottocento, si veda Stubbs. 20 Conclusioni simili a proposito della rappresentazione della donna nella letteratura francese post-rivoluzionaria e in quella vittoriana, si veda Small (104–38, e in particolare, 108–11). OPERE CITATE Bertoni, Clotilde. Senso. Lecce: Manni, 2002. Bhabha, Homi. Nation and Narration. London: Routledge, 1990. Billiani, Francesca and Gigliola Sulis, ed. The Italian Gothic and Fantastic. Encounters and Rewritings of Literary Genres. 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