Le donne del club omicidi - 758557
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LIBRO IN ASSAGGIO LE DONNE DEL CLUB OMICIDI DI JAMES PATTERSON LE DONNE DEL CLUB OMICIDI 1 PARTE PRIMA: DISINTERESSE TOTALE Mancavano pochi minuti alle quattro del mattino di un giorno feriale e avevo mille pensieri per la testa, quando Jacobi fermò la macchina davanti al Lorenzo Hotel, una sorta di residence nel Tenderloin District di San Francisco, un quartiere talmente malfamato che persino il sole ci entra contro voglia. Sul marciapiede c’erano tre auto della polizia e Conklin, il primo agente intervenuto sul posto, stava chiudendo al traffico la zona. Era insieme a un altro agente, Les Arou. «Che cosa abbiamo?» gli chiesi. «Maschio, bianco, adolescente, con gli occhi fuori della testa. Fulminato pure questo», rispose Conklin. «Stanza ventuno. Nessun segno di effrazione. Nella vasca da bagno, esattamente come quell’altro.» Appena entrati nell’albergo, Jacobi e io fummo investiti da una zaffata di odore di urina e di vomito. Non c’erano facchini, né ascensore, né servizio in camera. Le poche persone ancora in piedi a quell’ora si nascondevano appena ci vedevano, a parte una giovane prostituta dal colorito malsano, che prese Jacobi da parte. «Se mi dai venti dollari, ti do un numero di targa», sentii che gli diceva. Jacobi le diede una banconota da dieci dollari in cambio di un foglio di carta, quindi si rivolse al portiere di notte e gli chiese della vittima. Era con qualcuno? Aveva pagato con la carta di credito? Era un tossicodipendente? Aggirai un drogato seduto sulle scale e salii al primo piano. La porta della stanza ventuno era spalancata. Un giovane poliziotto era di guardia nel corridoio. «Buonasera, tenente Boxer.» «È mattina, Keresty.» «Scusi, tenente», mi disse. E mi diede un foglio da firmare. La stanza, tre metri e mezzo per tre metri e mezzo, era più buia del corridoio. La lampadina era bruciata e le tende alla finestra impedivano alla luce dei lampioni di filtrare all’interno. Mi guardai in giro alla ricerca di indizi, cercando di non calpestare niente, ma c’era troppa roba e troppa poca luce. Puntai la torcia sulle fiale di crack per terra, controllai il materasso pieno di vecchie macchie di sangue, le pile di rifiuti e di vestiti. C’era un angolo cottura con la piastra elettrica ancora calda e il solito armamentario dei tossici nel lavandino. P AG. 2 Nel bagno l’aria era spessa, umida. Percorsi con il fascio della torcia il filo elettrico che partiva dalla presa vicino al lavabo e, passando davanti al water intasato, arrivava alla vasca. Guardando il cadavere immerso nell’acqua mi venne la pelle d’oca. Era nudo, molto magro, biondo, pochi peli sul petto, mezzo seduto dentro la vasca con gli occhi fuori delle orbite e la schiuma alla bocca e alle narici. Sott’acqua, con la spina ancora infilata nella presa, c’era un vecchio tostapane. In quel momento entrò Jacobi. «Merda!» imprecai. «Ci risiamo.» «Fulminato pure questo», commentò lui. Essendo a capo della squadra Omicidi, avrei dovuto coordinare le indagini, non occuparmene in prima persona. Ma c’erano casi che non potevo fare a meno di seguire. Era stato ammazzato un altro ragazzo, fulminato nella vasca da bagno. Perché? Era vittima di un atto di violenza casuale, oppure era stato ucciso da qualcuno che lo conosceva? Mi sembrava di vederlo negli istanti prima che la corrente elettrica lo stroncasse. Il pavimento di mattonelle piene di crepe era bagnato. Avevo l’orlo dei pantaloni fradicio. Alzai un piede e chiusi piano la porta con la punta della scarpa, sapendo già che cosa avrei visto. La porta cigolò con il classico rumore di cardini da oliare. Sull’interno della porta qualcuno aveva scritto con una bomboletta di vernice due parole. Per la seconda volta in poche settimane, mi chiesi che cosa volessero dire. “Disinteresse totale”. 2 Sarebbe potuto sembrare un suicidio particolarmente macabro, ma la bomboletta di vernice non si trovava da nessuna parte. Arrivarono Charlie Clapper e i suoi tecnici, che approntarono le attrezzature per la raccolta delle prove nell’anticamera. Mi feci da parte per lasciare che il fotografo della Scientifica scattasse le sue foto, quindi staccai la spina dalla presa. Charlie cambiò il fusibile. «Gesù, ti ringrazio», disse, quando la luce illuminò quel posto infernale. Stavo frugando fra i vestiti della vittima alla vana ricerca dei documenti, quando nella stanza entrò Claire Washburn, una delle mie migliori amiche nonché direttrice dell’Istituto di medicina legale di San Francisco. «Brutta roba», le annunciai, mentre lei si dirigeva verso il bagno. Voglio molto bene a Claire, che è più di una sorella per me. «Mi sono dovuta trattenere.» P AG. 3 «Dal fare cosa?» mi domandò pacata Claire. Deglutii, ma il groppo che mi sentivo alla gola non voleva andarsene. Mi ero abituata a molte cose, ma non alla morte di ragazzi così giovani. «Dal togliere il tappo per svuotare la vasca.» La vittima sembrava ancor più terrorizzata, alla luce. Claire si inginocchiò vicino alla vasca, riuscendo a infilarsi in uno spazio molto ristretto nonostante la mole. «Edema polmonare», decretò osservando la schiuma rossastra sulla bocca e sul naso del cadavere. Sfiorò con il dito le zone violette vicino alla bocca e intorno agli occhi. «Prima di morire, l’hanno picchiato.» Indicai un taglio verticale sullo zigomo. «E questo, secondo te, come se l’è fatto?» «Tiro a indovinare: con la levetta del tostapane. Probabilmente prima di buttarlo nella vasca glielo hanno dato sulla testa.» La mano del ragazzo poggiava sul bordo della vasca. Claire gliela sollevò con delicatezza e la girò. «Niente rigor mortis. È ancora caldo, il livor mortis sta sbiadendo. È morto da meno di dodici ore, più probabilmente da meno di sei. Non ha buchi nelle braccia.» Gli passò la mano fra i capelli arruffati e sollevò il labbro superiore, livido, con le dita protette dai guanti. «Non vedeva un dentista da parecchio. Probabilmente era scappato di casa.» «Ah.» Rimasi un po’ in silenzio. «Che cosa pensi, Lindsay?» «Che mi ritrovo con un altro cadavere non identificato fra le mani.» Pensavo all’altro, anche lui adolescente, scappato di casa, morto in un postaccio come quello, sul cui assassinio avevo indagato appena arrivata alla Omicidi. Era stato uno dei peggiori casi della mia carriera e, a distanza di dieci anni, continuava a tormentarmi. «Dopo l’esame autoptico, ne sapremo di più», mi disse Claire. In quel momento, entrò Jacobi. «La nostra informatrice dice che il numero di targa incompleto appartiene a una Mercedes», mi disse. «Nera.» Anche sul luogo dell’altro delitto era stata vista una Mercedes nera. Sorrisi, speranzosa. Ormai era una questione personale: volevo trovare il bastardo che ammazzava ragazzini fulminandoli nella vasca da bagno. Volevo fermarlo, prima che ci riprovasse. P AG. 4 3 Era passata una settimana dalla scena da incubo del Lorenzo Hotel. I laboratori forensi stavano esaminando le numerose prove raccolte nella stanza numero ventuno e il parziale numero di targa fornitoci dalla nostra informatrice era risultato inventato, oppure sbagliato. Mi svegliavo tutte le mattine di pessimo umore, perché le indagini non ci stavano portando da nessuna parte. Pensai a quei ragazzini morti anche andando da Susie’s, quella sera, dove avevo appuntamento con le mie amiche. Susie’s è un ristorante luminoso e pieno di colori, specializzato in cucina caraibica. Jill, Claire, Cindy e io lo avevamo eletto a sede dei nostri incontri. Era lì che ci parlavamo a cuore aperto, senza peli sulla lingua e senza nessuno dei vincoli che i nostri rispettivi lavori ci imponevano. Insieme, in quel ristorante, avevamo trovato la soluzione di complicati delitti. Vidi che Claire e Cindy avevano già occupato il «nostro» séparé in fondo al locale. Claire stava ridendo, probabilmente di qualche battuta di Cindy. Succedeva spesso, perché Claire è molto ridanciana e Cindy è spiritosa, oltre che brava nel suo lavoro di giornalista al Chronicle. Jill, purtroppo, non era più fra noi. «Lo c’erano guardai assieme prendo anch’io, qualsiasi cosa sia», dissi sedendomi vicino a Claire. Sul tavolo una caraffa di margarita e quattro bicchieri, due dei quali vuoti. Ne riempii uno e le mie amiche, sentendo il forte legame che ci univa, e che avevamo costruito vivendo tante avventure. «Non avrai bisogno di una trasfusione?» scherzò Claire guardandomi. «Hai ragione. Fammela subito.» Bevvi un sorso, presi il giornale che Cindy aveva posato sul tavolo e lo sfogliai in cerca dell’articolo a pagina 17 della cronaca locale. scarseggiano le informazioni sui misteriosi omicidi del tenderloin. «Evidentemente sono l’unica a dargli importanza», borbottai. «La morte di certa gente non finisce in prima pagina», disse comprensiva Cindy. «È strano. Le informazioni non scarseggiano affatto. Settemila impronte digitali, formazioni pilifere, fibre, dna di pensione non veniva pulita da almeno mezzo secolo.» Mi «D’altra parte, però, nonostante in quel quartiere i potenziali solo una pista. Che peraltro fa schifo.» Anzi, ne abbiamo fin troppe. tutti i tipi: la moquette di quella interruppi e mi sciolsi i capelli. informatori abbondino, abbiamo «È una brutta faccenda», concordò Cindy. «Il capo ti sta con il fiato sul collo?» «No.» Indicai il breve articolo sul giornale. «Come dice l’assassino: disinteresse totale.» P AG. 5 «Non te la prendere», disse Claire. «Vedrai che prima o poi scoprirai il colpevole. Succede sempre così.» «Sì, devo smetterla di lamentarmi. Jill mi sgriderebbe, se fosse qui.» «Jill ti conosceva bene», mi consolò Cindy, indicando la sedia vuota. Facemmo un brindisi. «A Jill.» Riempimmo anche il quarto bicchiere e brindammo alla memoria di Jill Bernhardt, straordinario sostituto procuratore nonché amica carissima, che era stata uccisa qualche mese prima. Sentivamo tantissimo la sua mancanza. Parlammo un po’ di lei, poi ordinammo un’altra caraffa di margarita. «Ti vedo in forma», dissi a Cindy, che ci raccontò le ultime novità. Aveva conosciuto uno, un giocatore di hockey che militava negli Sharks a San Jose, ed era abbastanza contenta. Claire e io le facemmo un sacco di domande, ma poi arrivarono i musicisti e ci interrompemmo per cantare con loro una canzone di Jimmy Cliff, battendo il ritmo con il cucchiaino sul bicchiere. Mi stavo finalmente rilassando, grazie ai margarita, quando mi suonò il cellulare. Era Jacobi. «Ti aspetto fuori del ristorante, okay? Sono qui vicino. Abbiamo ricevuto una segnalazione sulla Mercedes nera.» Avrei dovuto dirgli di andare da solo, che ero fuori servizio. Ma quel caso mi stava a cuore e dovevo essere presente. Lasciai alcune banconote sul tavolo, diedi un bacio alle mie amiche e mi precipitai fuori. Il killer aveva torto: il disinteresse non era totale. © 2005 by James Patterson © 2006, Longanesi & C. S.p.A. Edizione Mondolibri S.p.A., Milano su licenza Longanesi & C. S.p.A. www.mondolibri.it P AG. 6