genesi di una dittatura

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genesi di una dittatura
GENESI DI UNA DITTATURA
Di
Battimelli Carlo
Chi sono?
“Come definire una persona che si dedica alla scrittura per esprimere se stesso ,gli altri e
gli accadimenti che lo hanno plasmato in una sorta di “autoanalisi”
Autodidatta scrive nel linguaggio parlato con le sue forme dialettali e gergali
.Che scrive,insomma come parla,ignorando la costruzione stilistica
Uno che si ritiene un “primitivo”,qualcuno direbbe”naive”
Scrive prevalentemente in lingua napoletana
Vuole solo affermare a se stesso, la propria esistenza come “persona”
Nato a Napoli nel 1946 il 13 maggio
Ha cominciato a lavorare come benzinaio a 13 anni,nel 1968 si è trasferito a Milano dove
ha vissuto fino al 1971,
Attualmente vive a Bologna
Ama scrivere ,dipingere e occuparsi di politica
Non ha mai voluto fare delle sue passioni un “mestiere”
Gli piace soprattutto la “ provocazione” come mezzo di conoscenza
I suoi interlocutori… finiscono per diventargli amici.”
Così mi ha descritto qualcuno leggendo le mie cose.
Premessa:
Chest’è a storia e tant’e nuie
nat’cu e pezze n’culo,
che doppo à resistenza hannu creduto
e cagnà e cose e stù Paese
Che comme diceva Antonio*
ò popolo ch’è stato sempre schiavo
primma o poi se leva stì catene
Je che nun tengo chiese int’ò giardino
penzo che st’ommo è stato nù grand’ommo
si pè libberà à gent’e stà nazione
è muorto tiseco m’priggione
Cu stà certezza song’iuto nanze*
A mia ,cu tutto che è cose pareno* ò cuntrario,
nunn’è nà speranza,è nà convinzione
:a’gente che ha fatto e stà democrazia
“cosa mia”
Che s’è vennuto à resistenza
Pè degnere a credenza*
Primma o poi ha storia le dà ò cunto*
*Gramsci
* andato avanti
* sembrano
*per riempirsi la dispensa -per arricchire
*riscuote
Capitolo primo
Quello che si trovarono davanti era per loro, che avevano vissuto fin dalla nascita in un
convento, qualcosa che non si aspettavano
Conoscevano solo la descrizione che ne facevano i frati , le suore,ma soprattutto i libri ,di
quello che c’era fuori da quelle mura e cancelli troppo alti per loro.
L’ abbecedario…poi!
Bambini con le divise mai rattoppate.
Tutti ritti, allineati che cantavano canzoni di patria e di eroi.
Molti dai riccioli biondi,come i capelli del bambino Gesù vicino alla Madonna e a San
Giuseppe
Si mormorava nel convento che tutti quei bambini nei libri erano figli di questi santi,gli
orfani invece figli del peccato o della guerra che, dicevano i frati, erano opera del demonio.
Ecco perché loro erano tanto diversi
Per la verità c’erano due fratelli nell’orfanotrofio dai capelli rossi ,e un altro biondastro ,ma
aveva i capelli lisci
I disegni e le foto sui libri mostravano delle signore con vestiti sgargianti e i signori con
casacche nere alla guida di belle macchine,a volte su cavalli bianchi ; erano certamente
principi e principesse ; come quelli delle fiabe
Quello che colpiva di più la loro fantasia erano le fotografie delle case
Il mobilio, i letti , le tavole apparecchiate con vasi di fiori al centro e piatti ricolmi di cose
che dovevano, forse, essere buone ;loro non potevano saperlo,
Le sedie non come gli sgabelli di legno pesanti che dovevano trascinarsi sempre dietro:al
refettorio,in classe,in chiesa ,in tutti i posti dove c’era necessità di sedersi.
Per la verità anche i frati e le monache facevano lo stesso,tranne il priore;ma lui era il capo
dei frati aveva una sedia con spalliera in ogni posto
,Nino teneva per mano i fratelli, solo di cognome, si chiamavano Esposito tutti e tre:
Giovanni e Ciro più giovani di lui .
Ciro era il più piccolo.
Scendevano per la” salita del presepe” una viuzza che dalla Sanità porta a Capodimonte
Leggevano i manifesti
Uno che proclamava lo stato d’assedio in città, con l’ordine di “passare per le armi” ogni
cittadino che si fosse reso responsabile di azioni ostili al governo con rappresaglie di cento
civili per ogni tedesco ucciso.
Ebbero paura
Alla reggia di Capodimonte i frati raccontavano che ci veniva il re,la regina e i
principi,quando passavano le vacanze a Napoli
Loro non li avevano mai visti ;tanto che pensavano fosse un’altra favola raccontata dai
monaci.
Si domandarono cosa avessero combinato i napoletani contro il re per meritarsi quella
punizione :cento per un tedesco ucciso
Ma perché questa minaccia non erano amici con i tedeschi come asseriva fra Marco ?
Il “bosco di Capodimonte” è un immenso giardino, allo interno del quale c’è il palazzo reale
E’ grandissimo
Tanto che i napoletani lo chiamano “bosco di Capodimonte”
. Quando i monaci li portava a visitare quello che loro chiamavano meraviglia,ai bambini
non è che facesse molto piacere ; anzi …
.Girare a bocca aperta per quei corridoi,salire quelle scale di marmo bianco,vedere quei
quadri con quelle facce che sognavano negli incubi la notte,ma soprattutto vedere quei
letti”a baldacchino”dicevano i frati che confrontavano mentalmente con i loro:di legno e a
castello dove quello che dormiva di sotto spesso veniva svegliato di notte dal gocciolio della
piscia del compagno di sopra,nel caso di Nino…Ciro.
Quelle immense stanze li mettevano a disagio.
Rientravano sfiniti : dalla fatica,dalle spiegazioni e dalle domande che si ponevano
La stessa fatica che Nino sentiva in quel momento
Al di qua e al di la della strada cumuli di macerie,uomini e donne vestiti non come nei
libri;indossavano stracci.!
Forse più stracci delle loro divise,cucite e ricucite chi sa quante volte da suor Rosaria,.
Qualcuno con pantaloni e casacche verdastri.
Con badili e qualcuno servendosi delle sole mani cercavano di liberare la strada da quelle
pietre buttandole con violenza lontano su carriole,carretti e camion infangati.
Ogni tanto qualcuno si fermava e con un braccio cercava di liberarsi dalla polvere nera e dal
sudore che gli grondava dalla fronte impasticciandosi il viso inevitabilmente
.Un po’ come faceva Ciro alla recita di carnevale che per liberarsi dalla maschera di
Pulcinella che gli disegnavano sul viso con il carbone,finiva sempre con l’annerirselo del
tutto mettendo in risalto rigagnoli di lacrime a testimoniare qualcosa che i grandi gli
avevamo imposto ma che lui non condivideva.
“cos’è stato...”domandò Nino ad una ragazza ,facendo un largo gesto con la mano
“à….guerra !! centinaia e bumbardament…”
La guerra!?
Ne aveva sentito parlare i monaci quando li riunivano in un grande salone nel seminterrato.
Spesso,anzi quasi sempre di notte,e li facevano sedere o sdraiare in un angolo.
Molti preferivano continuare a riprendere i sogni interrotti.
Nino restava sveglio a guardare attraverso il lucernario,una fessura rettangolare posta su di
una parete troppo grande per quella finestra dalla quale s’intravedevano bagliori che
sembravano fulmini e boati simili a tuoni
Ombre rosse che s’innalzavano al cielo per poi magicamente scomparire
lo incantavano,era abbagliato dal susseguirsi di luci e colori.
Come i fuochi d’artificio che i monaci qualche anno prima li fecero vedere da sopra il
terrazzo del refettorio,in occasione di una festa importante
I ragazzi che restavano svegli,quasi tutti, non avevano paura,anzi trovavano quello
spettacolo fantastico,meglio di quelle immagini in bianco e nero che nelle feste
comandate,con la presenza del priore e anche delle monache,proiettavano sulla stessa
parete.
Commentavano la magnificenza di quei colori e di quei bagliori e qualcuno preferiva non
tapparsi le orecchie ,come Nino,anche se sussultava ad ogni boato.
Pensavano tutti che al di la del convento si festeggiassero avvenimenti e feste come
dicevano i frati “profane”che era meglio non vedere.
Continuavano a scendere, facendosi prendere divertiti dalla velocità inevitabile che
prendeva il loro correre per la ripidità della strada
Si fermarono davanti ad una chiesa
Dentro una piccola folla imprecava,si dimenava,qualche donna si strappava i capelli e
mandava ingiurie al cielo strappandosi le vesti.
Qualche altra piangeva stringendo tra le mani il Rosario.
Qualcuno restava in silenzio continuando a guardare una fotografia che mostrava a San
Gennaro.
Il parroco lo teneva un tabernacolo raffigurante il santo più in alto che poteva passando
attraverso quella folla che sembrava indemoniata tanto urlava e si dimenava
Poi c’era qualcuno che tenendo in mano il breviario muoveva le labbra senza pronunciare
parola.
Ciro rideva con le lacrime nel vedere quella scena ,come faceva quando in convento al
vespro i frati li riunivano nel refettorio a dire il rosario.
Loro e i frati muovevano solo le labbra ripetendo con un mormorio indecifrabile quello che
il priore con una litania monotona ripeteva per un tempo indefinito.
Lui non riusciva a capire perché nessuno gridasse le preghiere,oppure tutti facevano come
lui che con il pensiero era da tutta altra parte ?
Non diceva niente a nessuno anche perché dopo il rosario, si mangiavano i confetti
Il parroco innalzava e dondolava quella testa del santo ripetendo una litania incomprensibile
.
Un santo che ,dicevano i frati, era il protettore della città .
Nino guardando le macerie che lo circondavano e com’ era vestita quella gente,si spiegò le
urla e le invettive contro il santo
Un po’ come faceva lui,quasi tutte le mattine ,quando svegliandosi in quel convento se la
prendeva con Gesù che aveva pregato la sera prima di fare un miracolo e farlo volare via da
quel posto
Perché non aveva accolto le sue preghiere?
era proprio vero,lui era figlio del peccato
Forse anche tutta quella gente era figlia del peccato.
Mai Nino ,avrebbe pensato di trovare il coraggio di fuggire dal convento,che per tutti gli
altri era il posto più sicuro e bello al mondo
Molto probabilmente perché conoscevano solo quello e anche per il fatto che tutto quello
che gli veniva detto o mostrato nei documentari e nei libri,e nei film in bianco e nero era un
qualcosa di estraneo,di irreale,a volte di pauroso.
Spesso la domenica,dopo il riposo,giù nel seminterrato si proiettava un film
Sulla parete dove stava il lucernaio,l’unica che fosse libera da libri e scaffalature,ma
purtroppo per la poca distanza dal proiettore lo schermo era poco più grande di quel buco e i
bambini dovevano allungare il collo ed aguzzare la vista per poter mettere a fuoco le
immagini
S’iniziava sempre con un documentario che mostrava un signore che fiero descriveva
episodi di eroismo e scene di uomini vestiti di nero che marciavano cantando litanie,un po’
come quelle che recitava il priore
Chi sa, pensava Nino se anche tra quella immensa folla ci fossero quelli che come loro
muovevano solo le labbra ma con la testa pensavano a tutt’altro?
A volte si parlava di uomini malvagi che avevano tradito Gesù e che mangiavano una volta
all’anno per tradizione bambini , questi mostri dovevano essere eliminati, giustamente
Altre volte lo stesso signore dietro una grande scrivania parlava di popoli selvaggi che
avevamo ospitato nel nostro impero che bisognava rendere civili come noi,ma che purtroppo
uomini cattivi volevano impedircelo,bisognava combatterli e punirli.
I film , gira e rigira erano quasi sempre gli stessi ,parlavano di Gesù,di eroi romani,e poi le
comiche di Ridolini,poi c’erano storie di signore nobili che per le loro opere di bene erano
diventate sante
Come quelle che a Natale e alla epifania venivano nel convento a farli visita portando
dolcetti,abiti dimessi dai figli,o raccolti in giro dalle loro conoscenti ,ma anche giocattoli ,a
volte gia rotti.
Per Nino e i suoi compagni che non ne conoscevano altri,quello era un giorno di festa e ogni
volta baciavano la mano della santa donna befana facendo l’inchino come aveva insegnato
loro il priore.
Ad un certo punto della strada le macerie finirono,al loro posto c’erano delle montagne di
roccia nera,e tutte caverne scavate,come quelle che avevano visto nei libri che parlavano di
uomini primitivi
All’imbocco delle caverne coperte marroni ,come quelle del convento,facevano da porte
S’intravedevano: letti e mobili, come nelle case,ma non erano case,come avevano visto nei
film degli uomini civili
Fuori su sedie poggiate al muro erano sedute delle signore vestite a festa che parlavano con
soldati strani ,non erano quelli vestiti di nero,ma altri.
Nino che di natura era curioso si avvicinò ad una ragazza che se ne stava da sola mangiando
qualcosa,o dicendo il rosario ,visto il movimento della bocca
“chi sono quei soldati?”
“come chi sono…ma da dove vieni!?….non li vedi sono gli alleati quelli che sono venuti a
liberarci...a civilizzarci…”
“ah quelli?!..... quelli…..ho visto al cinema il loro capo…
Andiamo!! Andiamo!!” disse ai fratelli “vi ricordate cosa diceva quel signore dal
balcone…..ci sono i cattivi che sono nemici…che non vogliono essere civili ,che credono a
un altro Dio… non a Gesù...che a Pasqua si mangiano i bambini cristiani….e dai…
muoviti!”disse a Ciro che si era incantato a guardare quella ragazza .
Non ne aveva mai vista una così bella,sembrava una madonna .
Non come quelle signore tutte vestite di nero,che vedevano la mattina a messa .
Pensò in quel momento che la madre doveva essere così : giovane e bella...non come quelle
altre;infatti quelle non era mai riuscito ad associarle al pensiero di madre .
Non era alta,,bruna ,con dei capelli tagliati alla maschietta e degli occhi nerissimi
Poco più che una bambina
Con lo sguardo lontano,e quel vestito a fiori,bello ma forse troppo grande per lei.
Un po’ come i calzoncini che portavano in dono le signore a Natale…sempre troppo lunghi
e inadatti per il convento
Come quel vestito sgargiante che il ragazzo associò a feste
Lei continuava a masticare,un po’ come facevano loro all’orfanotrofio la domenica quando a
pranzo avevano a volte la carne,continuavano a tenerla in bocca masticando lentamente per
riempirne la lunga assenza e la fame
Mentre faceva questa considerazione un militare si avvicinò alla ragazza e dopo aver parlato
alcuni minuti, gli mostrò il contenuto aprendo un sacchetto di tela bianco ,come quello che i
frati li obbligavano a tenere appeso al letto per riporvi la biancheria sporca.
La ragazza chinò la testa in segno di consenso trascinando il militare per mano all’interno
della grotta .
Alcuni secondi dopo fece capolino dalla tenda
“guagliù…viene a cà” facendo segno con la mano ai ragazzi di avvicinarsi.
“a vulit à ciucculata…?”mostrando un pacchetto di carta argentata..”tiè.. …” lasciò il
pacchetto sulla sedia e richiuse la tenda.
I ragazzi divoravano quel ben di dio,correndo ancora di più per quella discesa,come se non
gli fosse stata regalata,ma che l’avessero presa di nascosto
Era troppa e troppo buona per essere vera...divoravano per non farla sparire
Come in orfanotrofio quando fra Marco dava a loro tre dei dolcetti o un confetto in
più.,rispetto agli altri. Ingurgitavano tutto immediatamente quasi vergognandosi di questo
trattamento di favore e anche per evitare che i compagni scoprissero il loro piccolo segreto.
Capitolo secondo
Arrivarono in fondo alla strada
Un bivio
Da una parte una lunga stradina che sembrava più un cunicolo,tanto era stretta, dall’altra
davanti a loro un ampia scalinata
“sono stanco…stanco…stanco!!!” cominciò a lamentarsi Giovanni,girando in tondo a quella
che una volta era una fontana
Sedettero ai bordi del primo scalino
La gente era strana
Bassi a destra e a sinistra
Le porte e le finestre sembravano quelle disegnate da bambini come loro,forse da bambini
ancora più piccoli tanto erano approssimate
Fuori a queste porte: bancarelle,pentoloni fumanti,pollai,e corde tenute distanti dai muri con
delle assi di legno, con una infinità di cose appese ad asciugare
La gente si muoveva distratta parlando e muovendosi lentamente ,come se non avesse altro
da fare,nessuna meta da raggiungere
Da una grossa pentola fumante ,una signora che stava a malapena seduta su di uno sgabello
tanto era grassa,riempiva scodelle di liquido rosso che i passanti le porgevano,dopo aver
fatto tintinnare una moneta in un grosso barattolo di latta
I ragazzi si avvicinarono
Guardavano quel pentolone nero e aspettavano,come facevano in convento quando passava
frate Giuseppe tra i tavoli a riempire le scodelle
“zingariè….tenite famme…!?....e sorde?
Che ve lo addimanno affare...piglie …..chillo” rivolgendosi a Nino e mostrando un barattolo
abbastanza grande e con un grosso mestolo lo riempì di quel liquido rossastro,con dentro dei
pezzi di carne verdastra.
.” a..trippa..ve piace..tiè ” diede a Nino una busta con delle fette di pane “americano”
I ragazzi guardarono quelle fette di pane bianco stranamente tutte uguali,non come quelle
che erano abituati a mangiare da sempre;scuro,spesso duro,che faceva fatica anche il latte a
renderlo morbido
Si misero a cerchio seduti in terra non molto lontano da quel donnone che ricordava frate
Marco,non solo per la bontà,ma soprattutto per la mole
Mangiavano con le mani, e quel sapore strano presto divenne buono,come il pane,non
importava che non riuscivano a premerlo sui bordi del recipiente, come facevano di solito
con il latte per non sprecarne;in quel modo avevano imparato a mangiare tanto pane e alla
fine farsi anche una bella bevuta di latte
Quel pane strano diventava subito molle e bisognava raccoglierne i pezzi insieme ai pezzetti
di frattaglie;non rimaneva attaccato alla fetta
Ciro guardò la signora che diede un sospiro ,guardò al cielo e poi fece un segno con la mano
al ragazzo di avvicinarsi
Prese il mestolo e, questa volta colando quanto più il brodo poteva, riempì il barattolo quasi
con tutta “trippa e patate…”
.poi chiamò una ragazza che fece capolino da una porta socchiusa
“puortame nata busta e pane..!”
Mentre mangiava Nino guardava quella gente
Una folla per lui ,così strana,così diversa tra loro
C’erano persone che sembravano vestite a festa ,altre con stracci sporchi e rotti,omoni neri
in divisa che ogni volta che ne vedeva uno,Ciro dava una gomitata al fratello,certi altri
biondissimi come Luca ,loro compagno di camerata
Persone che portavano pacchi,sacchi,o si trascinavano dietro bambini ,altri che si fermavano
davanti a bancarelle e compravano qualcosa
Più in la della grassona , un altro basso se possibile ancora più fatiscente,dove per porta e
finestre c’erano delle lamiere ondulate
Una corda attaccata al muro con una serie di indumenti posti ad asciugare e una donna bassa
che si arrampicava su di uno sgabello continuava ad appendestracci
. Davanti ad una padella fumante un omaccione con in dosso pantaloni strani con macchie di
diversi colori:nere,verdi marroni e una maglietta verde , tirava fuori dalla padella pizze che
metteva in una specie di catino dove molti si fermavano a guardare …..qualcuno comprava,.
Alcuni bambini ,qualcuno più ragazzo che bambino,si erano messi a semicerchio intorno
alla padella fumante
Dovettero aver detto, o fatto qualcosa di male perché l’uomo li cacciò in malo modo
“nunn’è tenite e sorde !?....jatevenne faciteme faticà…..wuà..tutt’e juorne a stessa storia …
andate a Santa Patrizia là e monache fanno doi vote ò mangià al giorno per i poveri
pezziente comm’è a vuie ..”
“guagliù …guagliù !!!”
Nino vide che c’è l’avevano con lui e i fratelli…fece un cenno con la testa interrogativo
“e….voi ....nun venite a Santa Patrizia…?.c’è stà ò mangià…puortete a buatta !…iamme “
Poi il più grandicello si avvicinò a Inno
“portala sempre cu te stà buatt,te serve…e cucchiai,e tiene… no?!va buò te li do io…”
Prese dalla tasca dei calzoni,che erano uguali a quello dell’uomo delle pizze,tre cucchiai
nuovi ,ancora avvolti nella carta…
” questi sono cucchiai importanti…vengono dall’America….iammo..facimmo anpresse…”
Largo San Gaetano ,per arrivarci avevano fatto una infinità di strade e stradine
Tutte presentavano lo stesso caotico spettacolo: militari ,macerie ,bancarelle improvvisate
sui marciapiedi,donne vestite a festa e straccioni
Molte persone vestivano come i militari con dei cappelli strani,ma si vedevano che non
erano soldati
Sotto la statua di un santo Nino notò un mucchio di persone in cerchio
Al centro di questo assembramento, un lenzuolo che una volta dovette essere bianco
Tre donne sedute in terra
Una prendeva da un sacchetto mozziconi di sigarette ,li apriva e metteva il tabacco sul
lenzuolo;ce n’era un bel mucchio al centro
Una grassona al centro prendeva quel tabacco e ne faceva pacchetti e un’altra li dava a
signori con un pacchetto di cartine
Anche il più grande dei nuovi compagni di Nino ne prese uno, ma lui non pagò tirò fuori da
uno di quei tasconi un pacco che aprì sul lenzuolo,era pieno zeppo di cicche .
La donna gli diede anche dei soldi strani
“e…visto comme se fanno e soldi…me li astipo e po’ quanno me faccio grande mi metto
una poteca e vendo e sigarette…..io è tengo e sorde che ti credi.
lo vuoi pure tu uno spinello,te lo faccio ,attenzione che questo ti fa pisciare a letto….,tiè ti
do tutto il cuoppo e pure le cartine.”
Nino prese quella specie di cono e cominciò ad imitare gli altri.
Alla prima boccata si sentì bruciare la gola e tossì fragorosamente,tanto che tutti gli altri
cominciarono a ridere e a urlarglie in coro
“ò puorchè cu a spiga in bocca…piscia sotto..pisciasotto…”
Prima di girare l’angolo che dalla stradina principale,(dove oggi ci sono le botteghe dei
presepi e pastori) i ragazzi furono fermati da una guardia o almeno così sembrava dai vestiti
che indossava
“dove andate…non la vedete la fila?! “
Nino guardò dietro l’angolo e capì che prima di due tre ore non avrebbero mangiato
“quanti poveri come noi “,pensò
In effetti erano tanti e tutti con pentole,scatoloni di latta che per manici avevano corde,ma
anche cinghie di cuoio,quelle dei pantaloni
“Quante donne e quanti bambini !
Non era vero che tutti i bambini fuori dall’orfanotrofio erano riccioluti biondi figli di
Giuseppe e Maria ,anzi fino a quel momento non ne aveva visto nessuno…quasi tutti come
loro ..vuoi vedere che siamo tutti figli del peccato e della guerra…che siamo tutti figli del
demonio..?”pensava Ciro
Quando arrivò il loro turno la suora prima riempì il loro barattolo di un minestrone quasi
tutte patate...poi con la mano li fece segno di accomodarsi su una panca all’ interno
Non si spiegarono questo privilegio fino a quando l’uomo della fila, la guardia non li
obbligò a seguirli
Li fece salire su di una camionetta
Nino capì dalla strada che percorrevano che li stavano riportando all’orfanotrofio,
“le divise.. mannaggia...le divise!!…perchè non le avevano tolte ? “
Si mise a piangere
In quel momento non sapeva se di rassegnata contentezza o di rassegnata tristezza
Capitolo terzo
Quando mio padre venne a riprendermi dal convento aveva 10 anni
Avevo lasciato Nino con i frati raccontare per l’ennesima volta la sua fuga ,condita volta per
volta con avventure nuove ,o per paura aveva tralasciato nel primo racconto
Dopo pochi giorni l’onorevole Giuseppe Romita, il 2 giugno annuncia alla nazione che è
nata la repubblica italiana.
Mio padre era tornato a Napoli,dopo quattro anni di campo di concentramento in Germania
Era partito per combattere a fianco dei partigiani spagnoli
Come diceva “ la guerra civile in Spagna aveva rappresentato una delle pagine più
importanti della lotta popolare contro il fascismo e per la libertà “
Combattuta fra le due guerre mondiali,anticipando quello che sarebbe accaduto in Italia
qualche anno dopo.
La resistenza partigiana in Italia si formò nel settembre del ‘43,soprattutto nelle regioni
sotto il dominio tedesco. All’inizio,come era avvenuto nelle altri parti D’Europa,si tratto di
un modo spontaneo di persone che manifestavano il loro dissenso attraverso il sabotaggio e
gli attentati.
Ben presto in Italia attraverso l’opera di diversi partiti antifascisti usciti dalla clandestinità
dopo la caduta di Mussolini,furono create le brigate partigiane: la <<Garibaldi>>era formata
soprattutto da comunisti,la <<Giustizia e Libertà>> da esponenti del partito d’azione, la
<<Matteotti>>da socialisti,quelle autonome raccoglievano cattolici, repubblicani e
monarchici.
La composizione delle brigate era quindi molto disomogenea, ma unico appariva il loro
scopo:cacciare l’invasione nazista,abbattere definitivamente il fascismo e dare vita a un
nuovo Stato democratico.
Mio padre si arruolò nella brigata Garibaldi,anche se non aveva condiviso la scissione di
Livorno del 21 restando socialista.
Quando tornò definitivamente a Napoli,occupò un monolocale situato in via Marina di
fronte al porto e fu eletto segretario del PCI a cui aderì dopo la svolta di Salerno Anche lui
riteneva ,come Togliatti che bisognava concorrere al primo governo Badoglio
Raccontava spesso che i l viaggio di Togliatti da Mosca a Salerno durò cinque settimane.
Ma le ragioni della lunghezza furono semplicemente la guerra e la geografia. Togliatti partì
da Mosca il 18 febbraio per Baku, in Azerbaigian, proseguì per Teheran, raggiunse il Cairo,
approdò ad Algeri, dove dette una intervista a un giornale comunista, e salpò per Napoli a
bordo della nave Ascania.
Giunse in vista del Vesuvio il 27 marzo, nel giorno stesso in cui una enorme massa di fumo
e una pioggia di cenere sottile, provocate da una eruzione del vulcano, oscuravano la vista
della città. Scrisse più tardi che «il volto della patria, di nuovo raggiunta dopo diciotto anni
di esilio, aveva qualcosa di apocalittico». È possibile che durante il viaggio abbia avuto
incontri politici, soprattutto ad Algeri, dove era installata la Commissione alleata di
controllo. Ma buona parte del suo tempo fu impiegata ad attendere pazientemente la
partenza di un mezzo di trasporto, nave o aereo, per la tappa successiva. Sulle ragioni della
«svolta di Salerno» (la partecipazione dei comunisti al governo Badoglio) è stato scritto
molto ed esistono oggi gli importanti documenti rinvenuti da Elena Aga Rossi e Viktor
Zaslavsky («Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca»,
edito dal Mulino). Sappiamo che Togliatti inviò a Badoglio due messaggi, fra il novembre e
il dicembre 1943, per chiedergli di essere autorizzato a rientrare in Italia. Sappiamo che
nelle settimane seguenti vi furono alcuni incontri fra il segretario generale del ministero
degli Esteri italiano Renato Prunas e il rappresentante sovietico nella Commissione di
controllo Andrej Vyshinskij. Sappiamo che questi incontri permisero la ripresa delle
relazioni tra l’ Italia e l’ Urss e che la notizia dell’ accordo fu data il 14 marzo, mentre
Togliatti era al Cairo. E sappiamo infine che l’ intesa raggiunta da Prunas e Vyshinskij non
piacque agli Alleati e irritò in particolare il governo britannico. Il ritorno di Togliatti, l’
accordo italo-sovietico e l’ irritazione della Gran Bretagna sono pezzi di uno stesso puzzle.
Come ha ricordato Paolo Spriano («Togliatti segretario dell’ Internazionale», Mondadori
1988), Churchill non si fidava degli antifascisti, voleva che l’ Italia avesse un governo
monarchico e intendeva tenere l’ Urss fuori della penisola. Per rompere il loro isolamento, i
sovietici si accordarono con Badoglio sulla ripresa delle relazioni e sostennero, con
argomenti a cui gli americani erano sensibili, che le forze antifasciste erano indispensabili
alla lotta contro la Germania e al futuro democratico del Paese. Sapevano di non poter fare
in Italia ciò che avrebbero fatto di lì a poco in Romania, Bulgaria, Ungheria,
Cecoslovacchia, Polonia. E puntarono su un obiettivo che avrebbe avuto almeno l’ effetto di
allargare la loro influenza sul Paese. Togliatti aveva il compito di spiegare ai comunisti
intransigenti, come Velio Spano, e agli altri partiti antifascisti, che era dannoso in quel
momento insistere sull’ abdicazione del re e l’ avvento della repubblica. Quei problemi
potevano attendere la fine della guerra e, nel frattempo, era meglio stare al governo che
starne fuori.*
• da un articolo di :Romano Sergio
Da giovane aveva fatto il falegname e questa breve esperienza gli permise di trasformare
quell’enorme stanzone in un mini appartamento
Capitolo4
Per festeggiare il mio primo anno di libertà mi portò con mia madre ad una festa
Il viaggio ,con altre famiglie ,compagni di partito fu interminabile durò cinque giorni
Avevano preso a nolo un vecchio camion,quello con il telone e sempre mio padre aveva
sistemato delle vecchie panchine per ospitare quella folla di uomini,donne e bambini festanti
Era una bella giornata e doveva essere una grande festa di popolo,la prima grande festa
popolare in Sicilia dopo la nascita della repubblica
Era il 1° di maggio del 1947 a Portella della Ginestra, nell’entroterra palermitano, tra Piana
degli Albanesi e San Giuseppe Iato. Quasi duemila tra contadini e braccianti di una Sicilia
povera e disperata si erano dati appuntamento sui prati a ottocento metri di quota per
celebrare la festa dei lavoratori, ascoltare un comizio sindacale e, soprattutto, passare una
giornata in allegria con pranzo finale all’aria aperta. Proprio per questo motivo c’erano, oltre
alle immancabili bandiere rosse e a un nutrito gruppo di esponenti sindacali, anche tante
donne, bambini e anziani. Interi nuclei familiari erano giunti a piedi, col carretto o a dorso di
mulo già di prima mattina. Avrebbe dovuto tenere il discorso Girolamo Li Causi, originario
di Termini Imerese, politico quotato e avversario storico dei boss e dei loro luogotenenti.
Impegnato però in un’altra manifestazione, fu sostituito dal calzolaio Giacomo Schirò,
segretario della sezione socialista di San Giuseppe Iato.
A Montelepre, la sera prima il bandito Salvatore Giuliano aveva radunato i suoi uomini e
impartito gli ordini per l’azione. Divisi in due gruppi dovevano raggiungere la Pizzuta, un
Promontorio che domina Portella della Ginestra, e la Cumeta, un’altro rilievo poco distante.
S’incamminarono all’alba. Armato di tutto punto, Giuliano con i suoi raggiunse la Pizzuta.
Gli altri, al comando di Antonino Terranova, videro in lontananza una pattuglia di
carabinieri: per evitare uno scontro che avrebbe mandato all’aria tutta l’operazione, il
secondo gruppo di fuoco ritornò quindi sui propri passi.
Sull’improvvisato palco l’oratore aveva appena attaccato il suo discorso quando dalla vicine
alture che dominano la piana di Portella partirono le prime raffiche di mitra. Saranno state le
nove e mezza, al massimo le dieci. Tra i presenti ci fu chi pensò a un tripudio di castagnole e
mortaretti lanciati in segno di festa. Ma dopo l’iniziale sbalordimento il sangue delle vittime
fece capire immediatamente la vera natura degli scoppi. Difficile intuire da dove
provenissero i colpi. Nessuna possibilità di scampo per la folla, che da compatta si stava
disperdendo in preda al panico, alla ricerca di un riparo qualsiasi. Nel giro di poco meno di
due minuti la strage era compiuta. A terra restavano undici corpi inanimati. Due erano
bambini. Più di sessanta i feriti.
Quattro cacciatori si erano imbattuti in Salvatore Giuliano poco prima della strage.
Immobilizzati e bendati dagli uomini del “commando” avevano sentito il crepitare dei colpi
e poi erano stati liberati. Saranno poi loro a mettere gli inquirenti sulle tracce del bandito.
Il clima politico di quei primissimi anni del dopoguerra era arroventato più che mai. Ad
aprile si erano tenute le elezioni regionali che avevano segnato un consistente successo del
Blocco del popolo, la coalizione guidata da Pci e Psi. Agrari e latifondisti temevano la
definitiva erosione della propria secolare supremazia. Un’atmosfera di panico che si stava
già diffondendo da qualche tempo tra i possidenti isolani. Un anno dopo lo sbarco alleato le
associazioni contadine avevano infatti ottenuto il diritto di occupare o di avere in
concessione terre incolte o sottoutilizzate dei grandi latifondi. Per la statica società siciliana
si trattava di uno sconvolgimento radicale, dal quale non poteva non conseguire anche un
riordino degli equilibri politici locali. Equilibri nei quali la mafia da sempre aveva un ruolo
di primo piano. Del resto, nonostante il pugno di ferro del prefetto Mori, in vent’anni
neanche il fascismo era riuscito a scardinare a fondo il sistema familistico e omertoso che
proteggeva l’onorata società. Al più, il regime era riuscito a far tacere le notizie: il fenomeno
mafioso pareva debellato solo perché non se ne se ne scriveva sui giornali. Ma con l’arrivo
delle truppe americane la ramificata organizzazione era tornata alla ribalta e con essa
l’esigenza di ridefinire le gerarchie criminali.
Nel caos postbellico - così come del resto era già accaduto negli anni immediatamente
successivi all’Unità - aveva di nuovo preso piede anche un altro fenomeno: il banditismo.
Condensato di ribellismo contro il potere costituito e di criminalità comune, espressione di
arretratezza sociale e palestra per i futuri picciotti, il banditismo era stato volta a volta
abilmente strumentalizzato, o semplicemente tollerato, dalla cupola mafiosa. Che in cambio
chiedeva il rispetto della sua antica immagine di onorata società e la sua funzione di arcaico
strumento di “ordine” e di “regolazione” sociale.
Giuliano tirò fuori la sua pistola e freddò un appuntato riuscendo a far perdere le proprie
tracce. La fama del “Turiddu di Montelepre”, che ammazza uno sbirro, simbolo di uno stato
forse assente e certo supremamente disprezzato, prese il via proprio allora. Seguirono altri
ammazzamenti, la definitiva costituzione della banda nel gennaio 1944 e il piano per
l’evasione dello zio e del cugino dalle carceri di Monreale. Nasce il mito della sua
imprendibilità mentre Montelepre diviene il suo feudo, una sorta di giurisdizione autonoma
rispetto al resto dell’isola.
Tra il 1945 e il 1946 Giuliano compie un salto di qualità, inserendosi nelle lotte del
movimento separatista siciliano. Non si accontenta più di fare il bandito, vuole “mettersi in
politica”. Così una relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno
mafioso, datata 1972, ne descrive l’apprendistato: “Giunge poi opportuno, ai suoi fini,
l’insorgere del Movimento separatista, che spera, attraverso una insurrezione, di ottenere
l’autonomia dell’isola. Nel Movimento separatista ritroviamo lo stesso Giuliano al servizio
di un’idea e pare che Giuliano abbia dimostrato con i suoi atti e con il suo atteggiamento un
profondo convincimento separatista. [...] sembra che al Giuliano furono consegnati i galloni
di tenente colonnello comandante dell’Esercito volontario indipendentista siciliano. [...]
L’occasione per la partecipazione alle attività separatiste dette, poi, al Giuliano la possibilità
di esplicare, naturalmente a modo suo, una qualche attività di ingerenza politica. È risaputo
infatti che, sciolto l’Esercito volontario indipendentista e rientrati i gregari di questo a far
parte del Movimento indipendentista siciliano, il Giuliano si impegna ad appoggiare, alle
elezioni politiche del 1946, il Movimento. Lo stesso atteggiamento egli assume in occasione
delle elezioni regionali dl 20 aprile 1947. In questa occasione il Giuliano, e soprattutto la
sua famiglia, profusero energie e risorse a favore del Movimento indipendentista siciliano
democratico repubblicano (Misdr)”. Continua la relazione: “Da questa sua multiforme
posizione ed aiutato altresì dalla situazione locale e storica del tempo, Giuliano riuscì a fare,
nella sua carriera criminosa, ben 430 vittime, sempre, purtroppo, protetto nella
inaccessibilità del suo rifugio dalla non malcelata protezione della mafia”. Assale le caserme
delle forze dell’ordine e le sezioni comuniste, rapisce illustri personaggi politici, uccide
mafiosi di rango, aggredisce colonne dell’esercito. Ma senza dimostrare una logica precisa.
Attacca la polizia perché la ritiene repubblicana mentre talvolta risparmia i carabinieri,
perché evocano in lui la monarchia, di cui si dichiarava confuso fautore.
Ed è in questo caotico agitarsi tra banditismo, legami mafiosi e pretenziosità politica che si
inserisce la strage di Portella della Ginestra, strage condotta dagli uomini di Giuliano con
l’abituale ferocia e per ragioni che oggi, a più di mezzo secolo di distanza, possono apparire,
fuori dal clima politico del dopoguerra e lontani dall’humus della società siciliana
dell’epoca, più che misteriose, banalmente incoerenti.
Le indagini, come abbiamo visto sopra, si indirizzarono subito verso il Turiddu di
Montelepre, nel doppio ruolo di esecutore e di mandante della strage. Ma la questione si
ingarbugliò fin dal principio. Nel rapporto della polizia, stilato poco dopo i fatti e inviato al
Ministero dell’interno, si indica con buona probabilità in Giuliano l’autore materiale e non
si esclude del tutto che “l’idea di un’azione criminosa contro i partiti della sinistra” fosse
stata “ispirata e rafforzata specialmente da qualche elemento isolato in strette inconfessabili
relazioni col bandito Giuliano”. Nel suo rapporto, l’Arma dei Carabinieri individuò, invece,
come possibili mandanti “elementi reazionari in combutta con mafia locale”. Il ministro
Mario Scelba, chiamato il giorno dopo gli avvenimenti a rispondere davanti all’Assemblea
costituente dichiarò che allo stato dei fatti, cioè ventiquattrore dopo la sparatoria, non
dovesse trattarsi di delitto politico. “Non può essere un delitto politico - spiegò con
sillogismo lapalissiano - perché nessuna organizzazione politica potrebbe rivendicare a sé la
manifestazione e la sua organizzazione”. Socialisti e comunisti denunciarono con veemenza
la tesi opposta, e cioè che i mandanti dovevano essere cercati tra gli agrari e i mafiosi, in
combutta con ambienti politici della destra siciliana ed esponenti del separatismo.
In un memoriale fatto pervenire ai giudici della corte d’assise di Viterbo, dove nel 1950
verrà istruito il processo, Giuliano diede invece questa spiegazione: “I caporioni comunisti
ad un certo punto diedero ordine ai contadini di far la spia dei banditi, evidentemente perché
i banditi consistevano e consistono per loro la forza invisibile dei mafiosi [...]
incominciai a maturare il mio piano di punizione [...] quella festa la credetti opportuna
perché credetti che in quella maniera potevano capitarci i principali responsabili cui
miravo”. In breve, Giuliano sentendo venir meno il consenso, o perlomeno il silenzio dei
contadini, sui quali aveva costruito tutto il suo potere, decide una vendetta. Una vendetta
che è anche politica, perché il successo elettorale del Blocco del popolo ha tolto voti al
“suo” Movimento indipendentista.
Nei quasi tre anni intercorsi tra la strage e la morte, avvenuta a Castelvetrano il 5 luglio
1950 ad opera del cognato Gaspare Pisciotta in accordo con le forze dell’ordine, il bandito
di Montelepre tornò più volte sull’argomento, con ulteriori memoriali o lettere inviate ai
giornali. Ribadì di aver voluto dare una “lezione” ai comunisti, rei di volere un
capovolgimento dei rapporti sociali in Sicilia. Disse inoltre che le vittime erano state un
terribile incidente di percorso, perché ai suoi uomini aveva dato disposizione di sparare
sopra la folla a scopo intimidatorio. Scagionò il ministro dell’interno Scelba il cui nome era
stato fatto da alcuni imputati come mandante occulto. Ma due mesi prima di essere ucciso
sembrò ricredersi e scrisse una lettera all’Unità dicendo che “Scelba vuol farmi uccidere
perché io lo tengo nell’incubo per fargli gravare grandi responsabilità che possono
distruggere tutta la sua carriera politica e financo la vita”.
Il processo si intorbidò ulteriormente per la chiamata in corresponsabilità di esponenti
politici siciliani. Antonino Terranova, detto il “Cacaova” fu uno degli imputati a tirare in
ballo la figura dei mandanti. Disse di non ricordare più i loro nomi ma di aver saputo da
Giuliano che se nelle elezioni politiche del 1948 la Democrazia Cristiana avesse vinto i
banditi avrebbero ottenuto la libertà. Ma Giuliano ormai era passato a miglior vita e non
poteva né confermare né smentire. Gaspare Pisciotta parlò di una lettera, una sorta di
lasciapassare per Giuliano firmato di pugno da Scelba. Nel fantomatico scritto il ministro
dell’interno avrebbe chiesto al bandito nientemeno che di aiutarlo a sconfiggere il
comunismo sparando sulla folla inerme a Portella della Ginestra. La storia della lettera tenne
banco a lungo - a un certo punto saltò fuori anche l’ipotesi che non fosse stata scritta dal
ministro, bensì da un colonnello del corpo americano di occupazione in Sicilia -, e solo anni
dopo si chiarì essere un clamoroso falso.
Il problema dei mandanti tornò d’attualità nel 1951 con una girandola di denunce da parte di
esponenti comunisti regionali nei confronti di alcuni deputati monarchici e dell’ispettore di
pubblica sicurezza Ettore Messana, quest’ultimo reo di aver avuto tra i suoi informatori
anche uno dei banditi coinvolti nella sparatoria. E ancora denunce di giornalisti contro
deputati, senatori e ministri per aver protetto in varie circostanze la banda di Giuliano.
Una cosa è certa. Pisciotta, su invito del suo avvocato, diede volutamente versioni confuse,
contrastanti, intese a coinvolgere più gente possibile per scompaginare meglio le acque.
Poco prima di essere ucciso nel carcere dell’Ucciardone a Palermo, il 10 febbraio 1954, con
un caffè alla stricnina, Pisciotta aveva accennato a nuove rivelazioni. Nello specifico una
serie di incontri tra il deputato democristiano Mattarella ed esponenti della mafia. Ma si
apprestava a dire la verità, e perciò fu ucciso, o si trattava dell’ennesimo depistaggio
Tornando ai fatti di Portella della Ginestra, alla sparatoria e alla questione dei mandanti
occulti, nel corso dei decenni hanno continuato ad accavallarsi ipotesi, congetture e
ricostruzioni. Ognuna con le proprie verità, frutto di letture appassionate, talvolta parziali,
talvolta interessate, dei fatti visti sopra. Tra i partecipanti alla manifestazione per il 1°
maggio del 1947 c’è chi si ricordò di aver sentito alcuni giorni prima, in paese, mormorare
una frase premonitrice: “Partirete cantando, tornerete piangendo”. Altre ricostruzioni hanno
ipotizzato che i colpi mortali siano stati esplosi da personaggi mescolati tra la folla e non
dalle alture che circondano Portella. Altre ancora hanno parlato di una serie di esplosioni,
che però non hanno mai trovato riscontro nei rilievi della polizia. Qualcuno ha messo in
campo l’ipotesi che in realtà a sparare fosse stata la mafia per far ricadere la colpa su
Giuliano, diventato ormai troppo ambizioso e ingestibile. Ma nei memoriali e nelle lettere
scritte dal bandito il complotto mafioso non viene mai menzionato.
Da:rosarossa (rete)
Capitolo 5
Ero tornato dal mio turno di mattina ,lavoravo all’Alfa-Romeo
Fortunatamente ero riuscito a prendere il treno e staccarmi dalla mia città; dopo la morte dei
miei non avevo più legami
Venire su a Milano era stata sempre la mia aspirazione
Quando scesi dal treno ero infreddolito
Era freddo…..si! proprio freddo come mi avevano raccontato,accentuato forse dal fatto che
la stazione oltre ad essere enorme,sembrava non dovesse finire mai,stava sotto una specie di
galleria che faceva da tiraggio non solo al vento ,ma anche alla nebbia che mi entrava nelle
ossa.
Non mi spiegavo tutta quella gente che dormiva avvolta in cartoni o coperte militari.
Ero andato ad abitare in via Foppa, in uno di quei cortili che una volta forse facevano parte
delle prime costruzioni fuori porta e che con gli anni il centro aveva risucchiato
Il monolocale era situato al secondo piano e affacciava su un ballatoio dove c’era il cesso e
la fontana dell’acqua comune
Ricordo che per le mie origini meridionali dovetti anticipare 3 mensilità (45 mila lire).
Erano gli anni che l’economia del nostro Paese cominciava a crescere rapidamente e anche
il miglioramento del tenore di vita,di alcuni, era percepibile
Per le strade il traffico automobilistico cominciò a creare i primi problemi e i negozi
cominciarono ad essere belli anche lontano dal centro cittadino
Le mie ore fuori dal lavoro le passavo o alla Upim o alla Rinascente o facendo in lungo e il
largo via Torino, i portici di piazza del Duomo,o la galleria,anche se mi sembrava tutto
troppo uguale;omologante
Cominciai a maturare l’idea che il consumismo fosse diventata una nuova divisa da
mostrare,che fosse una nuova dittatura ;come disse Pasolini…....... il vero fascismo (fosse)
quello che i sociologhi hanno troppo bonariamente chiamato «la società dei consumi». Una
definizione che sembra innocua,puramente indicativa. Ed invece no.
Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel
paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa
spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio
fascismo. […] Con una differenza, però. Allora i giovani nel momento stesso in cui si
toglievano la divisa e riprendevano la strada verso i loro paesi ed i loro campi,ritornavano
gli italiani di cento, di cinquant’anni addietro, come prima del fascismo.
Il fascismo in realtà li aveva resi dei pagliacci, dei servi, e forse in parte anche convinti, ma
non li aveva toccati sul serio, nel fondo dell’anima, del loro modo di essere. Questo nuovo
fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha
toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri
modelli culturali. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di una irreggimentazione
superficiale, scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato loro
l’anima. Il che significa, in definitiva, che questa «civiltà dei consumi» è una civiltà
dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la «società dei
consumi» ha bene realizzato il fascismo.
(P.P. Pasolini, Scritti corsari)
In quegli anni si stava anche formando una crescita culturale,che le forze di destra non erano
in grado di affrontare ;da questa debolezza l’impressione egemonizzante gramisciana della
sinistra
In quel periodo si erano creati degli strati sociali portatori di novità, che non da tutti erano
visti favorevolmente , con effetti favorevoli in occasione delle consultazioni elettorali ma
dietro un retroterra di volontà di rivincita delle forze reazionarie e dei poteri forti che
vedevano sgretolarsi i piloni del “palazzo”
Quelle stesse forze di cui il fascismo era stata solo l’espressione plateale,come disse
qualcuno in seguito “’immagine di parata” e che oggi si ritrovano a gestire economia e
politica Un periodo che si continuava a pensare di transizione ,che ben presto si sperava
sarebbe cambiato
Ma non era così, non si trattava di transizione ,ma animo permanente della società italiana ”
la distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risale niente meno che al giornale
“Il Politecnico”, cioè all’immediato dopoguerra...” Così comincia un intervento di Franco
Fortini sul fascismo (“L’Europeo, 26-12-1974): intervento che, come si dice, io sottoscrivo
tutto, e pienamente. Non posso però sottoscrivere il tendenzioso esordio. Infatti la
distinzione tra “fascismi” fatta sul “Politecnico” non è né pertinente né attuale. Essa poteva
valere ancora fino a circa una decina di anni fa: quando il regime democristiano era ancora
la pura e semplice continuazione del regime fascista. Ma una decina di anni fa, è successo
“qualcosa”. “Qualcosa” che non c’era e non era prevedibile non solo ai tempi del
“Politecnico”, ma nemmeno un anno prima che accadesse (o addirittura, come vedremo,
mentre accadeva).
Il confronto reale tra “fascismi” non può essere dunque “cronologicamente”, tra il fascismo
fascista e il fascismo democristiano: ma tra il fascismo fascista e il fascismo radicalmente,
totalmente, imprevedibilmente nuovo che è nato da quel “qualcosa” che è successo una
decina di anni fa.
Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si
lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in
Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e
probabilmente a capirlo anche meglio).
Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a
causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate
a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le
lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un
uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso
giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta).
Quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle
lucciole”.
Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si
possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate
addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente
hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla
scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a
oggi. Osserviamole una alla volta.
Prima della scomparsa delle lucciole
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio
su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel “Politecnico”: la
mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la
Costituzione. E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica retrospettiva.
La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era
spudoratamente formale.
Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti
medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era
possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i “valori” che
contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l’obbedienza,
la disciplina, l’ordine, il risparmio, la moralità. Tali “valori” (come del resto durante il
fascismo) erano “anche reali”: appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che
costituivano l’Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui
venivano assunti a “valori” nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire
atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e
democristiano. Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle “élites” che, a livello diverso,
delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime
democristiano.
Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani.
Tutto ciò che risulta chiaro e inequivocabilmente oggi, perché allora si nutrivano, da parte
degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze. Si sperava che tutto ciò non fosse
completamente vero, e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa. Ora, prima di
passare alla seconda fase, dovrò dedicare qualche riga al momento di transizione. In questo
periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul “Politecnico” poteva anche
funzionare. Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese - cioè la massa
operaia e contadina organizzata dal PCI - sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non
si erano accorti che “le lucciole stavano scomparendo”. Essi erano informati abbastanza
bene dalla sociologia (che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo dell’analisi
marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza formalistiche. Nessuno
poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l’immediato futuro; né identificare
quello che allora si chiamava “benessere” con lo “sviluppo” che avrebbe dovuto realizzare
in Italia per la prima volta pienamente il “genocidio” di cui nel “Manifesto” parlava Marx.
I “valori” nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e
paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine,
risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi
sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il MSI in sostanza li ripudia). A
sostituirli sono i “valori” di un nuovo tipo di civiltà, totalmente “altra” rispetto alla civiltà
contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia
essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima “unificazione” reale subita dal nostro
paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione
monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma
italiano del contatto tra l’”arcaicità” pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo
precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture
particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell’industrializzazione: con
la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e
non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile
corpo delle truppe naziste.
In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché
l’industrializzazione degli anni Settanta costituisce una “mutazione” decisiva anche rispetto
a quella tedesca di cinquant’anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a
“tempi nuovi”, ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui
scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a
tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo
degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma,
naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa
gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione
disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore
reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento
coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiani, fino a
una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista,
periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il
potere “totalitario” iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza
non ne era implicata. I “modelli” fascisti non erano che maschere, da mettere e levare.
Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima.
Lo si è visto anche in Portogallo: dopo quarant’anni di fascismo, il popolo portoghese ha
celebrato il primo maggio come se l’ultimo lo avesse celebrato l’annoprima .
È ridicolo dunque che Fortini retrodati la distinzione tra fascismo e fascismo al primo
dopoguerra: la distinzione tra il fascismo fascista e il fascismo di questa seconda fase del
potere democristiano non solo non ha confronti nella nostra storia, ma probabilmente
nell’intera storia.
Io tuttavia non scrivo il presente articolo solo per polemizzare su questo punto, benché esso
mi stia molto a cuore. Scrivo il presente articolo in realtà per una ragione molto diversa.
Eccola.
Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani:
in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a
sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della
vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell’ammiccante luce dell’arguzia e
della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri
potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i “flatus
vocis” delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo
che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d’ossa o di
cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c’è un
drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o
esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un
qualsiasi senso tradizionale Come siamo giunti, a questo vuoto? O, meglio, “come ci sono
giunti gli uomini di potere?”.
La spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono passati dalla
“fase delle lucciole” alla “fase della scomparsa delle lucciole” senza accorgersene. Per
quanto ciò possa sembrare prossimo alla criminalità la loro inconsapevolezza su questo
punto è stata assoluta; non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano
e gestivano, non stava semplicemente subendo una “normale” evoluzione, ma sta
cambiando radicalmente natura.
Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per
esempio, avrebbero potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi che il potere, che
essi stessi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più che farsene del Vaticano quale
centro di vita contadina, retrograda, povera. Essi si erano illusi di poter contare in eterno su
un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e non vedevano che il
potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base
di eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche. E lo stesso si dica per
la famiglia, costretta, senza soluzione di continuità dai tempi del fascismo, al risparmio, alla
moralità: ora il potere dei consumi imponeva a essa cambiamenti radicali nel senso della
modernità, fino ad accettare il divorzio, e ormai, potenzialmente, tutto il resto, senza più
limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che
totalitario in quanto violentemente totalizzante).
Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo
e soprattutto di manipolarselo. Non si sono accorti che esso era “altro”: incommensurabile
non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella lingua
si sono avuti dei sintomi. Nella fase di transizione - ossia “durante” la scomparsa delle
lucciole - gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo
di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile
come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che
appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state, organizzate dal ‘69
ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere.
Dico formalmente perché, ripeto, nella realtà, i potenti democristiani coprono con la loro
manovra da automi e i loro sorrisi, il vuoto. Il potere reale procede senza di loro: ed essi non
hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient’altro che il
luttuoso doppiopetto.
Tuttavia nella storia il “vuoto” non può sussistere: esso può essere predicato solo in astratto
e per assurdo. È probabile che in effetti il “vuoto” di cui parlo stia già riempiendosi,
attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l’intera nazione. Ne è
un indice ad esempio l’attesa “morbosa” del colpo di Stato. Quasi che si trattasse soltanto di
“sostituire” il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per trenta anni,
portando l’Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico.
In realtà la falsa sostituzione di queste “teste di legno” (non meno, anzi più funereamente
carnevalesche), attuata attraverso l’artificiale rinforzamento dei vecchi apparati del potere
fascista, non servirebbe a niente (e sia chiaro che, in tal caso, la “truppa” sarebbe, già per
sua costituzione, nazista). Il potere reale che da una decina di anni le “teste di legno” hanno
servito senza accorgersi della sua realtà: ecco qualcosa che potrebbe aver già riempito il
“vuoto” (vanificando anche la possibile partecipazione al governo del grande paese
comunista che è nato nello sfacelo dell’Italia: perché non si tratta di “governare”). Di tale
“potere reale” noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo
raffigurarci quali “forme” esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l’hanno
preso per una semplice “modernizzazione” di tecniche. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò
ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera
Montedison per una lucciola.
Corriere della Sera, P.P.PASOLINI
Capitolo 6
Come tutti i pomeriggi me ne stavo rannicchiato in poltrona ad ascoltare la musica preferita
e scrivere o rileggere la lettera che avrei inviato al giornale,come abitudine,il lunedì e
vedere se prima o poi si fossero decisi a pubblicare qualcosa.
.Lo squillo del telefono mi fece sussultare
Era un collega,un ragazzo sardo che si occupava di una nascente cellula del partito
comunista all’interno dello stabilimento…
“È esplosa una bomba nel salone”gridava concitato “…. della Banca Nazionale
dell’Agricoltura, a piazza Fontana
È una carneficina….( la banca era infatti gremita per il mercato del venerdì ; era un giorno
che tutti sapevano che venivano gli agricoltori da tutte le province )…..L’ordigno è stato
collocato in modo da provocare il massimo numero di vittime: sotto il tavolo al centro del
salone riservato alla clientela, di fronte agli sportelli…..Vieni …” continuava a gridare
“dobbiamo fare qualcosa .non .lo so …ma si stanno riunendo studenti e lavoratori che
..vogliono gridare la loro protesta…fare qualcosa….non lo so…vieni!!!!!????.”
Quando arrivai sul posto,di lontano, perché era tutto transennato si intravedevano i locali
devastati a testimoniare la potenza dell’esplosivo impiegato. Dicevano,quelli che
sembravano più informati che l’attentato aveva causato sedici morti, di cui quattordici sul
colpo, e ottantotto feriti Nelle ore che seguirono, vennero compiute perquisizioni nelle sedi
di tutte le organizzazioni dell’estrema sinistra. Venne visitata anche qualche organizzazione
d’estrema destra, ma senza molta convinzione, visto che le indagini risparmiarono Ordine
Nuovo e Avanguardia nazionale, le più importanti.
“hai visto…tu e le tue idee…..cosa combinate,adesso vedrai… sicuramente domani in
fabbrica ti verranno a pescare e …poi vedrai.quello che succede.”
Antonio ascoltava in silenzio .poi scoppiò a piangere: “.non lo so …aspettiamo….. il
governo sicuramente dovrà rispondere in parlamento di quest’attentato……sono sicuro che
noi non siamo colpevoli…..coinvolti…perché prendersela con la gente comune e in questo
modo infame…?
lo sai come la penso …le battaglie si combattono in parlamento…e nei posti di
lavoro…..ma gia a te non interessano le mie idee…sono convinto che è opera della parte più
reazionaria del Paese che ha paura e vuol dare un segnale forte….un attacco repressivo al
movimento operaio….e purtroppo c’è una parte del popolo italiano che si beve tutto quello
che gli raccontano senza fare niente…ti dico la verità....io odio quelli che non sono qua…a
gridare contro tutto questo …odio…odio l’indifferenza…..questo silenzio assenso,questa
paura di “compromettersi
Balbettai :“sono un tuo amico…non ti basta?....penso che è meglio tornare in pensione…
sicuramente dalla televisione sapremo più e poi domani alle 4 mi devo svegliare…..”
“avviati ..ci vediamo domani,…”rispose Antonio continuando a gridare qualcosa che non
riuscivo a capire
Fu l’ultima volta che lo vidi,almeno di persona .
L’indomani o qualche giorno dopo,non ricordo…
Il capo del governo rispondeva alle interpellanze parlamentari in merito all’attentato
Mentre ascoltavo quel discorso o meglio quella serie di cose dettate a mo di ordini senza
possibilità di replica…capii che un epoca di speranze,di cambiamenti era finita .
Che l’azione sconsiderata di qualche esaltato o come la pensavamo in tanti e come mi aveva
suggerito Antonio “la parte più reazionaria dello stato ha dato un segnale ,un avvertimento
…….. che era cominciata insomma una specie di controrivoluzione….”.vedrai le leggi
,leggine speciali !!!!!!”mi disse prima di salutarmi
“Vedrai l’indifferenza generale”,….continuava a ripetere
Strappai quello che avevo scritto fino a quel momento e andai a riprendere e copiare
integralmente uno degli articoli di Gramsci e lo spedii al giornale
Mai pubblicata.
”: credo che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini,
gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano.
Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la
materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda
la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri,
perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche
volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia.
Opera passivamente, ma opera. E’ la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che
sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella
all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene
che un atto “eroico” (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei
pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non
avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini
abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà
tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al
potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra
dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di
questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun
controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa.
I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati,
delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora,
perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela
tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e
tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un
terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e
chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E quest’ultimo s’irrita, vorrebbe
sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è
responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma
nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far
valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o
pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il
loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male,
combattevano. I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di
fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze.
Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro
nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei
problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono
tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma
questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di
curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti
attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere. Odio gli
indifferenti anche per questo e mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando
conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone
quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter
essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie
lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze meravigliose della mia parte già
pulsare l’attività della città futura che appunto la mia parte sta costruendo. E in essa la
catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla
fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a
guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrificio; e colui che sta alla finestra,
in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua
delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento. Vivo,
sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti e ogni opportunista.”
Mi misi a letto con uno dei mie libri
Cominciai a sfogliare le pagine svogliatamente;più per scacciare l’orrore di quello che
avevo visto che leggere veramente
Mi sembrò, ma non ne sono sicuro ..di alzarmi dal letto e alzare al massimo il volume della
radio come per stordirmi…per zittire le urla e i singhiozzi che avevo ascoltato in quella
piazza che continuavano a echeggiare nella stanza; Continuai a leggere qualcosa…o sognare
qualcosa?
“ Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere, a rigor di termini,
classificato come un discorso parlamentare.
Può darsi che alla fine qualcuno di voi trovi che questo discorso si riallaccia, sia pure
attraverso il varco del tempo trascorso, a quello che io pronunciai in questa stessa Aula il 16
novembre.
Un discorso di siffatto genere può condurre, ma può anche non condurre ad un voto politico.
Si sappia ad ogni modo che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero: ne ho avuti
troppi.
L’articolo 47 dello Statuto dice:
”La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all’Alta
corte di giustizia”.
Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si
voglia valere dell’articolo 47.
Il mio discorso sarà quindi chiarissimo e tale da determinare una chiarificazione assoluta.
Voi intendete che dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio, ai
quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per quello che hanno fatto, è necessaria
una sosta per vedere se la stessa strada con gli stessi compagni può essere ancora percorsa
nell’avvenire.
Sono io, o signori, che levo in quest’Aula l’accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei
fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo! Veramente c’è
stata una Ceka in Russia, che ha giustiziato senza processo, dalle centocinquanta alle
centosessantamila persone, secondo statistiche quasi ufficiali. C’è stata una Ceka in Russia,
che ha esercitato il terrore sistematicamente su tutta la classe borghese e sui membri singoli
della borghesia. Una Ceka, che diceva di essere la rossa spada della rivoluzione.
Ma la Ceka italiana non è mai esistita.
Nessuno mi ha negato fino ad oggi queste tre qualità: una discreta intelligenza, molto
coraggio e un sovrano disprezzo del vile denaro.
Se io avessi fondato una Ceka, l’avrei fondata seguendo i criteri che ho sempre posto a
presidio di quella violenza che non può essere espulsa dalla storia. Ho sempre detto, e qui lo
ricordano quelli che mi hanno seguito in questi cinque anni di dura battaglia, che la
violenza, per essere risolutiva, deve essere chirurgica, intelligente, cavalleresca.
Ora i gesti di questa sedicente Ceka sono stati sempre inintelligenti, incomposti, stupidi.
Ma potete proprio pensare che nel giorno successivo a quello del Santo Natale, giorno nel
quale tutti gli spiriti sono portati alle immagini pietose e buone, io potessi ordinare
un’aggressione alle l0 del mattino in via Francesco Crispi, a Roma, dopo il mio discorso di
Monterotondo, che è stato f orse il discorso più pacificatore che io abbia pronunziato in due
anni di Governo? Risparmiatemi di pensarmi così cretino.
E avrei ordito con la stessa intelligenza le aggressioni minori di Misuri e di Forni? Voi
ricordate certamente il discorso del I° giugno. Vi è forse facile ritornare a quella settimana
di accese passioni politiche, quando in questa Aula la minoranza e la maggioranza si
scontravano quotidianamente, tantochè qualcuno disperava di riuscire a stabilire i termini
necessari di una convivenza politica e civile fra le due opposte parti della Camera.
Discorsi irritanti da una parte e dall’altra. Finalmente, il 6 giugno, l’onorevole Delcroix
squarciò, col suo discorso lirico, pieno di vita e forte di passione, l’atmosfera carica,
temporalesca.
All’indomani, io pronuncio un discorso che rischiara totalmente l’atmosfera. Dico alle
opposizioni: riconosco il vostro diritto ideale ed anche il vostro diritto contingente; voi
potete sorpassare il fascismo come esperienza storica; voi potete mettere sul terreno della
critica immediata tutti i provvedimenti del Governo fascista.
Ricordo e ho ancora ai miei occhi la visione di questa parte della Camera, dove tutti intenti
sentivano che in quel momento avevo detto profonde parole di vita e avevo stabilito i
termini di quella necessaria convivenza senza la quale non è possibile assemblea politica di
sorta.
E come potevo, dopo un successo, e lasciatemelo dire senza falsi pudori e ridicole modestie,
dopo un successo così clamoroso, che tutta la Camera ha ammesso, comprese le
opposizioni, per cui la Camera si aperse il mercoledì successivo in un’atmosfera idilliaca, da
salotto quasi, come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, non dico solo di
far commettere un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a
quell’avversario che io stimavo perché aveva una certa crarerie, un certo coraggio, che
rassomigliavano qualche volta al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi?
Che cosa dovevo fare? Dei cervellini di grillo pretendevano da me in quella occasione gesti
di cinismo, che io non sentivo di fare perché repugnavano al profondo della mia coscienza.
Oppure dei gesti di forza? Di quale forza? Contro chi? Per quale scopo?
Quando io penso a questi signori, mi ricordo degli strateghi che durante la guerra, mentre
noi mangiavamo in trincea, facevano la strategia con gli spillini sulla carta geografica. Ma
quando poi si tratta di casi al concreto, al posto di comando e di responsabilità si vedono le
cose sotto un altro raggio e sotto un aspetto diverso.
Eppure non mi erano mancate occasioni di dare prova della mia energia. Non sono ancora
stato inferiore agli eventi. Ho liquidato in dodici ore una rivolta di Guardie regie, ho
liquidato in pochi giorni una insidiosa sedizione, in quarantott’ore ho condotto una divisione
di fanteria e mezza flotta a Corfù.
Questi gesti di energia, e quest’ultimo, che stupiva persino uno dei più grandi generali di
una nazione amica, stanno a dimostrare che non è l’energia che fa difetto al mio spirito.
Pena di morte? Ma qui si scherza, signori. Prima di tutto, bisognerà introdurla nel Codice
penale, la pena di morte; e poi, comunque, la pena di morte non può essere la rappresaglia di
un Governo. Deve essere applicata dopo un giudizio regolare, anzi regolarissimo, quando si
tratta della vita di un cittadino!
Fu alla fine di quel mese, di quel mese che è segnato profondamente nella mia vita, che io
dissi: “voglio che ci sia la pace per il popolo italiano”; e volevo stabilire la normalità della
vita politica.
Ma come si è risposto a questo mio principio? Prima di tutto, con la secessione
dell’Aventino, secessione anticostituzionale, nettamente rivoluzionaria. Poi con una
campagna giornalistica durata nei mesi di giugno, luglio, agosto, campagna immonda e
miserabile che ci ha disonorato per tre mesi. Le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più
macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tutti i giornali! C’era veramente un
accesso di necrofilia! Si facevano inquisizioni anche di quel che succede sotto terra: si
inventava, si sapeva di mentire, ma si mentiva.
E io sono stato tranquillo, calmo, in mezzo a questa bufera, che sarà ricordata da coloro che
verranno dopo di noi con un senso di intima vergogna.
E intanto c’è un risultato di questa campagna! Il giorno 11 settembre qualcuno vuol
vendicare l’ucciso e spara su uno dei nostri migliori, che morì povero. Aveva sessanta lire in
tasca.
Tuttavia io continuo nel mio sforzo di normalizzazione e di normalità. Reprimo l’
illegalismo.
Non è menzogna. Non è menzogna il fatto che nelle carceri ci sono ancor oggi centinaia di
fascisti! Non è menzogna il fatto che si sia riaperto il Parlamento regolarmente alla data
fissata e si siano discussi non meno regolarmente tutti i bilanci, non è menzogna il
giuramento della Milizia, e non è menzogna la nomina di generali per tutti i comandi di
Zona.
Finalmente viene dinanzi a noi una questione che ci appassionava: la domanda di
autorizzazione a procedere con le conseguenti dimissioni dell’onorevole Giunta.
La Camera scatta; io comprendo il senso di questa rivolta; pure, dopo quarantott’ore, io
piego ancora una volta, giovandomi del mio prestigio, del mio ascendente, piego questa
Assemblea riottosa e riluttante e dico: siano accettate le dimissioni. Si accettano. Non basta
ancora; compio un ultimo gesto normalizzatore: il progetto della riforma elettorale.
A tutto questo, come si risponde? Si. risponde con una accentuazione della campagna. Si
dice: il fascismo è un’orda di barbari accampati nella nazione; è un movimento di banditi e
di predoni! Si inscena la questione morale, e noi conosciamo la triste storia delle questioni
morali in Italia.
Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui,
al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io
solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto.
Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la
corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione
superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato
un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!
Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale,
ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io
l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento ad oggi.
In questi ultimi giorni non solo i fascisti, ma molti cittadini si domandavano: c’è un
Governo? Ci sono degli uomini o ci sono dei fantocci? Questi uomini hanno una dignità
come uomini? E ne hanno una anche come Governo?
Io ho voluto deliberatamente che le cose giungessero a quel determinato punto estremo, e,
ricco della mia esperienza di vita, in questi sei mesi ho saggiato il Partito; e, come per
sentire la tempra di certi metalli bisogna battere con un martelletto, così ho sentito la tempra
di certi uomini, ho visto che cosa valgono e per quali motivi a un certo momento, quando il
vento è infido, scantonano per la tangente.
Ho saggiato me stesso, e guardate che io non avrei fatto ricorso a quelle misure se non
fossero andati in gioco gli interessi della nazione. Ma un popolo non rispetta un Governo
che si lascia vilipendere! Il popolo vuole specchiata la sua dignità nella dignità del Governo,
e il popolo, prima ancora che lo dicessi io, ha detto: Basta! La misura è colma!
Ed era colma perché? Perché la spedizione dell’Aventino ha sfondo repubblicano! Questa
sedizione dell’ Aventino ha avuto delle conseguenze perché oggi in Italia, chi è fascista,
rischia ancora la vita! E nei soli due mesi di novembre e dicembre undici fascisti sono
caduti uccisi, uno dei quali ha avuto la testa spiaccicata fino ad essere ridotta un’ostia
sanguinosa, e un altro, un vecchio di settantatre anni, è stato ucciso e gettato da un
muraglione.
Poi tre incendi si sono avuti in un mese, incendi misteriosi, incendi nelle Ferrovie e negli
stessi magazzini a Roma, a Parma e a Firenze.
Poi un risveglio sovversivo su tutta la linea, che vi documento, perché è necessario di
documentare, attraverso i giornali, i giornali di ieri e di oggi: un caposquadra della Milizia
ferito gravemente da sovversivi a Genzano; un tentativo di assalto alla sede del Fascio a
Tarquinia; un fascista ferito da sovversivi a Verona; un milite della Milizia ferito in
provincia di Cremona; fascisti feriti da sovversivi a Forlì; imboscata comunista a San
Giorgio di Pesaro; sovversivi che cantano Bandiera rossa e aggrediscono i fascisti a
Monzambano.
Nei soli tre giorni di questo gennaio l925, e in una sola zona, sono avvenuti incidenti a
Mestre, Pionca, Vallombra: cinquanta sovversivi armati di fucili scorrazzano in paese
cantando Bandiera rossa e fanno esplodere petardi; a Venezia, il milite Pascai Mario
aggredito e ferito; a Cavaso di Treviso, un altro fascista è ferito; a Crespano, la caserma dei
carabinieri invasa da una ventina di donne scalmanate; un capomanipolo aggredito e gettato
in acqua a Favara di Venezia; fascisti aggrediti da sovversivi a Mestre; a Padova, altri
fascisti aggrediti da sovversivi.
Richiamo su ciò la vostra attenzione, perché questo è un sintomo: il diretto l92 preso a
sassate da sovversivi con rotture di vetri; a Moduno di Livenza, un capomanipolo assalito e
percosso.
Voi vedete da questa situazione che la sedizione, dell’Aventino ha avuto profonde
ripercussioni in tutto il paese. Allora viene il momento in cui si dice basta! Quando due
elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza.
Non c’è stata mai altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai.
Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il fascismo, Governo e Partito, sono in piena
efficienza.
Signori!
Vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo
comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo.
Ma se io mettessi la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo,
voi vedreste allora.
Non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno
definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la
tranquillità, vuole la calma laboriosa.
Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e
con la forza, se sarà necessario.
Voi state certi che nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà
chiarita su tutta l’area. Tutti sappiamo che ciò che ho in animo non è capriccio di persona,
non è libidine di Governo, non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e
possente per la patria.”*
*discorso di Mussolini al parlamento dopo il delitto Matteotti
Capitolo 7
Tornai a Napoli,trasferito dall’alfa romeo alla nascente alfa-sud di Pomigliano d’Arco
Le lamiere ondulate che limitavano l’accesso alla stazione ,forse per lavori di
manutenzione,qualcuno diceva che erano li da anni,più che una protezione davano
l’impressione di essere un muro messo la apposta per non far vedere a chi arrivava la
consunzione di una città prigioniera
La prima cosa una passeggiata lungo via Marina
Palazzoni rattoppati alla meglio portavano ancora i segni di una guerra che qui sembra non
essere mai finita
Guardai le colline del Vomero e di Posillipo ;un mare di cemento aveva preso il posto del
verde che da piccolo ammiravo e respiravo dal balcone di uno di quei palazzoni
Il verde era morto come i miei genitori,la mia ingenuità di bambino
Guardando quello scempio mi veniva in mente quando mio padre mi portava al cinema
“pidocchietto”
Una vero asilo nido dove i genitori del quartiere portavano i bambini la mattina e li
riprendevano il pomeriggio
Due film per venti lire
Vecchie pellicole che ogni tanto prendevano fuoco e sullo schermo una macchia bianca
divorava scene che venivano distrutte per sempre e di cui noi bambini non avremo mai
saputo,ma potuto solo immaginare.
Spesso ,quasi sempre ,le varie ipotesi finivano con una scazzottata generale che le maschere
riuscivano a stento a calmare
Per tanti che non avevano mai abbandonato la loro città,la scelta di andare via o era
casuale,come nel caso di Nino,perché il militare a Pesaro e non in un altro posto?o chiamati
da parenti ,conoscenti,o a seguito di un “caporale”in questo caso erano quasi tutti
muratori ,o braccianti agricoli convinti di fuggire dallo sfruttamento nelle proprie terre
Le mondine andavano a Torino per poi essere dirottate nelle paludi del vercellese
A differenza dei discorsi che faceva quella gente, lui amava la sua città.
Non ne conosceva tante poche per le verità;quelle visitate con i genitori sempre in
Campania, una sola volta a Roma e un’altra volta a visitare un frate che diceva la gente
facesse miracoli…..ma non ricordava il nome di quel paese ,quello del frate era padre Pio
.La sua città era tutta un’altra cosa,era bella! Proprio bella,tanto che nelle discussioni che
sempre nascono su di essa ,non era quasi mai intervenuto
Il bello ,pensava,non ha bisogno di essere spiegato
Un po’ come la donna di cui sei innamorato per te è bella.
Bella e basta!
Decantarla un artificio, una specie di giustificazione al proprio amore ,alla propria
devozione; trovarne i difetti significava non amarla abbastanza
Quella decisione era maturata negli ultimi due anni ,durante i quali troppi e repentini
cambiamenti si erano succeduti in modo caotico
“Nino “ era morto
Il suo funerale ateo,con la bandiera rossa sul feretro e quel furgone grigio del comune aveva
meravigliato un po’ tutti.
“già il suo ateismo..”pensava Nino tutte le volte, mentre stringeva tra le mani il mazzo di
garofani rossi che ogni domenica mattina gli portava ;un ateismo strano che non riusciva a
capire.
********
Il primo dicembre del 1970 il progetto Fortuna-Baslini è approvato definitivamente alla
Camera. In Italia, dopo anni di lunghi conflitti, il divorzio è legge dello stato. Lo stesso
giorno dalle colonne del quotidiano “L’Avvenire”, portavoce della Conferenza Episcopale
Italiana, un comitato di intellettuali cattolici capeggiato dal giurista Gabrio Lombardi
annuncia che è già partita l’iniziativa per abolire la legge appena approvata, per mezzo di un
referendum abrogativo.
Nei mesi precedenti le cronache politiche dei giornali italiani hanno parlato del lodo
Fanfani. “La legge per il divorzio—sarebbe stata approvata solo dopo il varo della disciplina
sul referendum abrogativo, e, quindi, solo dopo aver reso effettiva la possibilità del fronte
antidivorzista di disporre di un’arma per sconfiggere la maggioranza parlamentare
favorevole al progetto Fortuna-Baslini”.
Quella sul divorzio è una vicenda emblematica del nostro paese ,basti pensare che il primo
stato moderno della penisola italiana a consentire nella propria legislazione il divorzio fu il
regno di Napoli, sotto il governo di Gioacchino Murat. Il 1º gennaio 1809 entrò in vigore il
Codice Napoleone, un codice civile che, fra le altre cose, consentiva il divorzio, il
matrimonio civile, fra le polemiche che tali provvedimenti suscitarono nel clero più
conservatore, che vedeva sottratto alle parrocchie il privilegio della gestione delle politiche
familiari risalente al 1560
Una proposta di legge per l’istituzione del divorzio venne presentata per la prima volta al
parlamento italiano nel 1878
A prendere l’iniziativa fu un deputato del Salento, Salvatore Morelli, noto per le sue doti di
uomo integerrimo e per essere stato precedentemente rinchiuso in un carcere borbonico
sotto accusa di cospirazione. Da tempo si occupava di problemi sociali ed in particolare di
quelli riguardanti la famiglia. Il suo primo progetto di legge non ebbe successo, ma senza
scoraggiarsi lo ripresentò due anni dopo, nel 1880, ottenendo un risultato parimenti
negativo. Dopo la sua morte avvenuta nello stesso anno, il divorzio trovò altri fautori, e
progetti di legge in suo favore vennero presentati nel 1882, nel 1883, e dopo un periodo di
silenzio, comparirono ancora nel 1892 per opera dell’onorevole Villa. Ma fu necessario
arrivare al febbraio del 1902 perché si avesse l’impressione che una legge divorzista stesse
realmente prendendo forma. Infatti in quell’anno il Governo di Giuseppe Zanardelli
presentò un disegno di legge che prevedeva il divorzio in caso di sevizie, adulterio,
condanne gravi ed altro, ma anche questa volta il disegno di legge cadde con 400 voti
sfavorevoli contro 13 in favore. Poi la prima guerra mondiale fece dimenticare ogni cosa.
Nel 1920 ci fu battaglia fra i socialisti (che dichiaravano che in certi casi il divorzio«in virtù
dei soli principi religiosi non si può rigettare») e il Partito popolare italiano, cioè i cattolici.
Più tardi Mussolini, coi Patti Lateranensi, si pronunciò contro e dovettero passare 34 anni
prima che la legge sul divorzio venisse rimessa in discussione.
Il mondo cattolico,il Vaticano,in tutte le diocesi italiane , parlamentari che si
“riconoscevano”erano entrati in guerra
La Chiesa ancora una volta aveva fatto sentire il suo peso nell’ostacolare la funzione
primaria di uno stato democratico “la sua laicità”
. “Se lo stato rinuncia a essere centro attivo e permanentemente di una cultura propria,
autonoma, la Chiesa non può che trionfare sostanzialmente. E quando ciò avviene, lo Stato
non solo non interviene come centro autonomo, ma distrugge ogni oppositore alla Chiesa
che abbia la capacità di limitarne il dominio spirituale sulle moltitudini. Attraverso il
Concordato che non è un comune trattato internazionale, si realizza di fatto un’interferenza
di sovranità in un solo territorio statale, poiché tutti gli articoli di un concordato si
riferiscono ai cittadini di uno solo degli Stati contrattanti, sui quali il potere sovrano di uno
Stato esterno giustifica e rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione...”
”Il concordato è il riconoscimento esplicito di una doppia sovranità in uno stesso territorio
statale”. Non nel senso ch’esiste una sovranità statale e una sovranità ecclesiastica, ma nel
senso che quest’ultima si esplica in due modi: uno diretto (all’interno dello Stato del
Vaticano) e l’altro indiretto (all’interno dello Stato
Mentre il concordato - limita l’autorità statale di una parte contraente, nel suo proprio
territorio, e influisce e determina la sua legislazione e la sua amministrazione, nessuna
limitazione è accennata per il territorio dell’altra parte: se limitazione esiste per quest’altra
parte, essa si riferisce all’attività svolta nel territorio del primo Stato...”, in quanto appunto
attività “indiretta”.
Perché accade questo? Perché è inevitabile. “Un concordato non è un comune trattato
internazionale: nel concordato si realizza di fatto un’interferenza di sovranità in un solo
territorio statale, poiché tutti gli articoli di un concordato si riferiscono ai cittadini di uno
solo degli Stati contrattanti, sui quali il potere sovrano di uno Stato esterno giustifica e
rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione...”
Ecco perché “i concordati intaccano in modo essenziale il carattere di autonomia della
sovranità dello Stato moderno. Lo Stato ottiene una contropartita? Certamente, ma la ottiene
nel suo stesso territorio per ciò che riguarda i suoi stessi cittadini”. In pratica lo Stato
diventa “confessionale”, in quanto ha ottenuto “che la Chiesa non intralci l’esercizio del
potere, ma anzi lo favorisca e lo sostenga”. (L’espressione “non intralci l’esercizio del
potere” va appunto intesa nel senso che la Chiesa rinuncia a una gestione diretta del potere
politico, limitandosi a quella indiretta, ovvero rinuncia a una guerra civile per motivi
religiosi e accetta appunto il regime concordatario). “La Chiesa cioè s’impegna verso una
determinata forma di governo... di promuovere quel consenso di una parte dei governati che
lo Stato esplicitamente riconosce di non poter ottenere con mezzi propri...”
In sostanza, il regime concordatario è peculiare alla società borghese, la quale, fondandosi
sulla proprietà privata dei fondamentali mezzi produttivi, non può ottenere il consenso
democratico delle masse popolari: di qui la necessità di avvalersi del sostegno ideologico
della Chiesa cattolica.
Non dobbiamo infatti dimenticare che, da parte cattolica, concordato significa
“riconoscimento pubblico a una casta di cittadini dello stesso Stato di determinati privilegi
politici. La forma non è più quella medievale, ma la sostanza è la stessa. Nello sviluppo
della storia moderna, quella casta aveva visto attaccato e distrutto un monopolio di funzione
sociale che spiegava e giustificava la sua esistenza, il monopolio della cultura e
dell’educazione. Il concordato riconosce nuovamente questo monopolio, sia pure attenuato e
controllato, poiché assicura alla casta posizioni e condizioni preliminari che, con le sole sue
forze, con l’intrinseca adesione della sua concezione del mondo alla realtà effettuale, non
potrebbe mantenere e avere”(ib.). In altri termini, il cattolicesimo-romano, se vuole
salvaguardare i privilegi acquisiti con una forza politica propria, deve scendere a
compromessi, nella società moderna, con una forza politica laica, sempre più secolarizzata.
Come è potuto accadere questo? Per la debolezza dello Stato. “Se lo Stato rinuncia a essere
centro attivo e permanentemente attivo di una cultura propria, autonoma, la Chiesa non può
che trionfare sostanzialmente”. E quando ciò avviene, “lo Stato non solo non interviene
come centro autonomo, ma distrugge ogni oppositore della Chiesa
a.gramsci
«L’Italia è un paese cattolico». Quante volte ce lo siamo sentiti ripetere per giustificare
un’attenzione particolare, da parte dello Stato, alle esigenze della Chiesa cattolica e una
disparità di trattamento rispetto alle altre confessioni? Un inventario dei principali benefici
di cui godono le istituzioni cattoliche in Italia.
Uno degli aspetti più problematici connessi a quel principio di laicità dello Stato che è
assurto per merito della giurisprudenza della Corte costituzionale a momento supremo
dell’ordinamento italiano, è certamente rappresentato dalle modalità di stanziamento e dalla
quantità dei finanziamenti pubblici destinati alle Chiese ed agli istituti ad esse afferenti. Se,
infatti, la laicità si configura non come indifferenza dello Stato davanti al fenomeno
religioso, ma come garanzia di imparzialità ed equidistanza dei pubblici poteri dinanzi alle
comunità religiose strutturate, in un contesto caratterizzato da pluralismo confessionale e
culturale, allora il modo con cui viene strutturato il loro finanziamento pubblico e articolato
il quadro delle agevolazioni fiscali loro concesse diviene del tutto centrale.
Quanto questo principio di equidistanza fatichi ad affermarsi in concreto nell’orizzonte del
nostro paese lo dimostrano non solo la ritrosia ad accettare senza polemica le numerose
sentenze della magistratura amministrativa con cui, per il rispetto delle altrui sensibilità
religiose, è stato stabilito che non fossero applicabili le norme di epoca fascista che
imponevano alla collettività l’ossequio alle manifestazioni della religione di Stato, o ancora
il perdurare di formule cerimoniali che continuano a prevedere la partecipazione di alti
prelati alle manifestazioni dei vari livelli istituzionali, ma anche e soprattutto il quadro
complessivo dei finanziamenti pubblici destinati a vantaggio delle strutture della religiosità
dominante, finanziamenti che, lungi dal poter essere annoverati solo come una congrua
corresponsione a fronte di una indiscutibile funzione sociale da esse esercitata, arrivano
perlopiù a configurare situazioni di anacronistico privilegio.
Una Chiesa «più uguale» delle altre
Anche la più superficiale delle analisi consente infatti di rilevare la considerevole disparità
di trattamento che lo Stato riserva alla Chiesa cattolica rispetto alle altre confessioni
religiose beneficiarie di Intesa, laddove mentre le seconde possono godere pressoché solo
dei vantaggi derivanti dalle rispettive Intese – dagli sgravi fiscali alla possibilità di essere
ammesse al riparto dei fondi dell’otto per mille delle dichiarazioni dei redditi – l’universo
cattolico italiano trae beneficio dalle misure legislative più disparate, un coacervo di
disposizioni non solo di natura concordataria che rende gravoso anche solo individuare in
modo del tutto approssimativo il totale dei fondi pubblici che a vario titolo ad esso sono
destinati.
Furono gli stessi costituenti ad ammettere in modo implicito, sia pure in un contesto votato
al pluralismo e alla piena tutela della libertà di coscienza e di religione, una diversità di
attenzione nei confronti della Chiesa cattolica; con l’articolo 7 della nostra Carta
costituzionale, la cui approvazione fu resa possibile dall’appoggio del Partito comunista di
Togliatti, si volle «costituzionalizzare» non già i Patti lateranensi, pur richiamati come
fondamento dei rapporti bilaterali, ma la modalità di definizione dei rapporti Stato-Chiesa, e
ciò in considerazione del peculiare ruolo riconosciuto alla gerarchia ecclesiastica vaticana e
alla fede cattolica nella storia e nella coscienza del popolo italiano.
Per un immanente senso di colpa o di minorità nei confronti della cattolicità, sfigurata dalla
privazione violenta del suo potere temporale ad opera delle truppe italiane, o per un sincero
sentimento di riconoscenza verso l’universo culturale e religioso da essa rappresentato, o
ancora per un tornaconto talvolta di infimo livello che denota quantomeno scarsa
lungimiranza, la classe politica italiana è sempre stata incline a manifestare tendenze
risarcitorie nei confronti delle autorità vaticane: già la cosiddetta «legge delle guarentigie»,
approvata nel maggio del 1871 e peraltro mai compiutamente attuata per la ferma
opposizione pontificia, pur concepita nel solco del pensiero di Cavour, che era fautore di
una netta separazione dei due ambiti, volle conservare a favore della Santa Sede la
dotazione annua, già iscritta nel bilancio dello Stato ecclesiastico, di 3.225.000 lire. Nel
1929 fu poi Mussolini, desideroso di accreditarsi agli occhi dell’opinione pubblica italiana
come l’uomo capace di ricomporre la frattura dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa, a
promuovere la stipula dei Patti lateranensi, strumento che, nella parte relativa alla
convenzione finanziaria, disponeva l’obbligo per l’Italia di versare alla Santa Sede 750
milioni di lire in contanti e un miliardo di lire in titoli azionari quale risarcimento per gli
ingenti danni subiti a seguito della perdita del Patrimonio di San Pietro, mentre nel
Concordato accordava tutta una serie di esenzioni ai numerosi istituti afferenti l’universo del
cattolicesimo italiano, tale da garantirgli negli anni immediatamente successivi una enorme
accumulazione di beni e risorse sull’intero territorio nazionale.
I molti privilegi ancora in vigore
Quanto ancora oggi pesi sulla vita del paese, condizionandone scelte e visioni, questo legato
culturale, sociale e politico esercitato dalla Chiesa cattolica e dall’episcopato italiano è sotto
gli occhi di tutti. Meno noto è, viceversa, il quadro dei finanziamenti di cui attualmente il
mondo cattolico continua a beneficiare. Per tracciarne una sintesi che, senza alcuna pretesa
di esaustività ed escludendo i fondi destinati al sostegno degli organismi cattolici di carità o
impegnati nella cooperazione allo sviluppo, dia conto delle principali misure di sostegno
finanziario che la legislazione italiana, a livello statale, ha garantito alla Chiesa cattolica e
agli enti ad essa legati in un anno recente preso a riferimento, è possibile avvalersi del
documento di contabilità pubblica che reca gli impegni di spesa per l’esercizio finanziario
2004, nonché delle misure concretamente stabilite dalla Finanziaria 2004 e da altre
disposizioni normative approvate nel corso del 2003 e degli anni precedenti.
Occorre preliminarmente diversificare le misure di sostegno economico che derivano, in
modo più o meno diretto, dal Concordato, ovvero da quell’accordo bilaterale che, firmato
nel 1984 e recepito nel nostro ordinamento dalla legge 121/1985, nel rinnovare i Patti
lateranensi costituisce ad oggi la fonte principale di disciplina dei rapporti fra lo Stato
italiano e la Chiesa cattolica, dalle altre misure che sembrano, viceversa, non direttamente
correlate al contenuto di quell’accordo.
Otto per mille e finanziamenti alle scuole private
Il principale degli strumenti di derivazione concordataria è certamente rappresentato
dall’otto per mille del gettito derivante dalle dichiarazioni dei redditi: nel 2004 la Chiesa
cattolica si è vista destinare oltre 310 milioni di euro per scelta espressa dei contribuenti
italiani, beneficiando altresì del riparto successivo dei fondi relativi alle scelte non espresse
per ulteriori 472.594.000 di euro, per un totale complessivo di oltre 782.700.000 euro. A
questa cifra deve essere aggiunta anche la quota dell’otto per mille che, destinata dai
contribuenti italiani allo Stato, è stata da quest’ultimo stornata, sotto forma di finanziamento
per la conservazione dei beni culturali, alla Chiesa cattolica attraverso opere di
ristrutturazione di chiese, conventi, università confessionali, istituti di cultura religiosa, e
che ammonta a 9.410.989 euro, su di un totale di 20.517.592 euro a disposizione dello Stato.
In materia di insegnamento della religione cattolica, altra voce di derivazione concordataria,
occorre annoverare, come previsioni di spesa per l’anno 2004, 477.735.207 euro; a questa
cifra deve altresì aggiungersi il costo relativo alla equiparazione a tutti gli effetti degli
insegnanti di religione cattolica agli altri docenti di ruolo, disposto dalla legge 186/2003 e
pari a 19.289.150 euro.
Vi è quindi il tema, annoso e controverso, della parità scolastica. Per garantire agli studenti
delle scuole private le medesime condizioni godute da quelli delle strutture pubbliche, lo
Stato ha impegnato nel 2004, ai sensi della legge 62/2000, 30 milioni di euro, erogabili sotto
forma di buoni scuola; di questa cifra si può stimare, stando ai dati del Centro studi scuole
cattoliche e relativi al numero degli alunni delle scuole cattoliche sul totale degli studenti
delle scuole non statali, che almeno il 59% sia andato a vantaggio delle strutture cattoliche,
per una somma pari a circa 17.700.000 euro.
Ma lo Stato, nonostante l’articolo 33 della Costituzione preveda che la libertà degli enti e
dei privati di istituire scuole ed istituti di educazione debba essere pienamente garantita ma
senza oneri per la collettività, non si limita al finanziamento dei soli buoni scuola, ma
stanzia annualmente ed in modo diretto anche fondi per le scuole non statali; nel 2004, ai
sensi di una circolare del Ministero per l’Istruzione, l’università e la ricerca, il totale di detti
fondi è stato pari a 527.474.474 euro, il 49% dei quali può stimarsi essere stato destinato
alle scuole cattoliche, per un ammontare di 258.462.492 euro.
Aiuti diretti e indiretti: Ici, oratori, ospedali, università...
Sempre di derivazione concordataria, anche se ufficialmente prevista solo dalla legge
222/1985 nonché dal D.P.R. 917/1986, risulta essere la previsione circa la deducibilità
fiscale delle donazioni private a favore della Chiesa cattolica. Stando alle indicazioni fornite
dall’Istituto centrale per il sostentamento del clero cattolico, si può arrivare a stimare che nel
2004 il totale delle offerte volontarie destinate ai prelati cattolici sia stato pari a 18 milioni
di euro. Calcolando in modo approssimativo il mancato introito fiscale da parte dello Stato
su questa cifra, ricorrendo per il calcolo del prelievo dovuto ad una fascia di contribuenti
donatori dal reddito medio lordo compreso fra i 20.000 ed i 32.600 euro annui, si può
arrivare ad una stima, per il solo 2004, di 5.580.060 euro.
Da ultimo, fra gli strumenti in qualche modo riferibili al quadro concordatario e
concretamente previsti dalla legge 222/1985, vi è il Fondo per la costruzione degli edifici di
culto che, per il 2004, è stato pari a 1.807.599 euro.
L’esame delle altre disposizioni che, pur non riferibili al quadro tracciato dal Concordato,
stabiliscono misure economiche a favore del mondo cattolico, inizia da alcune munifiche
leggi del 2003. In particolare la legge 206/2003 – approvata a larghissima maggioranza – ha
previsto il finanziamento diretto degli oratori parrocchiali, riconoscendone esplicitamente la
valenza sociale, per 2.500.000 euro annui. A sua volta, la legge 244/2003, nel ratificare e
dare esecuzione ad una Convenzione sottoscritta fra la Santa Sede e la Repubblica italiana
nel 2000, ha disposto l’erogazione, per il 2004, di 9.397.000 euro per la sicurezza sociale
dei dipendenti vaticani e dei loro familiari.
Se poi la legge 293/2003 ha concesso un contributo aggiuntivo per il 2004 di 1.500.000 euro
in favore dell’Istituto di studi politici san Pio V di Roma, anche la Finanziaria 2004 (legge
350/2003) non è stata avara di provvidenze per la Chiesa: essa ha tra l’altro previsto il
finanziamento per 5 milioni di euro dell’ospedale Casa Sollievo della sofferenza di San
Giovanni Rotondo, il rifinanziamento per 20 milioni di euro dell’Università campusbiomedico (Cbm), e, curioso a sapersi, l’integrale esborso per la fornitura dei Servizi idrici
dello stato della Città del Vaticano per un importo, limitatamente al 2004, pari a 25.000.000
di euro.
Delle quattordici università non statali ammesse al finanziamento pubblico ai sensi della
legge 243/1991, che complessivamente hanno potuto beneficiare per il solo 2004 di uno
stanziamento pari a 124.149.000 euro, si può stimare che le cinque università cattoliche
abbiano percepito fondi per 44.338.929 euro.
Fra i contributi pubblici forse meno conosciuti a favore del mondo cattolico vi è poi l’onere
per i circa 200 stipendi erogati a favore dei cappellani militari presenti nel Paese, onere che,
previsto dalla legge 512/1961 a totale carico dello Stato, si può stimare essere stato, per il
solo 2004 e stando alla rielaborazione dei dati rinvenibili sul sito web dell’Ordinariato
militare in Italia, a circa 8 milioni di euro.
In materia previdenziale, ai sensi delle leggi 791/1981 e 903/1973, è da annoverare anche il
Fondo di previdenza per il clero, che, per il solo 2004 e relativamente ai fondi erogati a
favore della componente cattolica, può attendibilmente stimarsi in 6.713.253 euro.
Da ultime, relativamente al 2004, sono da ricordare anche misure che, destinate al
finanziamento di strutture legate all’organizzazione ecclesiastica o all’esenzione di
particolari soggetti dal pagamento dei tributi dovuti, impongono un ulteriore onere
economico per lo Stato, ma che, stanti gli attuali strumenti di rendicontazione pubblica, non
possono essere quantificabili. Oltre alle esenzioni dall’Iva e dalle dichiarazioni dei redditi
per gli enti ecclesiastici – di cui rispettivamente al dpr 633/1972 e al dpr 917/1986 – sono in
tal senso da annoverare soprattutto i fondi pubblici erogati a favore degli ospedali, delle
strutture di ricovero e dei policlinici cattolici; si tratta certamente di una cifra davvero
ragguardevole, dal momento che costituiscono una parte non secondaria del totale dei
finanziamenti pubblici destinati alla sanità convenzionata (non necessariamente di tipo
confessionale), che, per il 2004 assommava a circa 1.500 miliardi di euro.
Se il prospetto dei finanziamenti pubblici ha dovuto considerare, per esigenze di equilibrio e
di completezza, il 2004 come anno di riferimento, le misure disposte da leggi successive a
questa data contribuiranno piuttosto ad aumentare la cifra totale degli aiuti pubblici destinati
alla Chiesa cattolica, che non a diminuirne la portata. Solo per limitarsi agli ultimi – molto
discussi – provvedimenti, l’esenzione totale degli immobili ecclesiastici dal pagamento
dell’Ici (Imposta comunale sugli immobili) – disposta da una norma interpretativa contenuta
nella legge 248/2005 – comporterà, stanti le previsioni dell’Associazione nazionale dei
comuni italiani (Anci), un ammanco per le già magre casse degli enti comunali per 700
milioni di euro, a quasi esclusivo vantaggio della Conferenza episcopale italiana.
Alla prodigalità dello Stato nei confronti della Chiesa cattolica, si è peraltro aggiunto anche
il particolare favore con cui le Regioni, pur gravate da incipienti deficit di bilancio, hanno
continuato a dispensare a suo favore contributi pubblici sotto forma di ulteriori buoni scuola
o di generosi finanziamenti al comparto della sanità convenzionata.
Non è il caso di tracciarne qui un profilo completo; resta tuttavia l’interrogativo, del tutto
legittimo e di certo non mosso da rigurgiti anticlericali, se lo Stato abbia inteso sostenere in
un modo tanto generoso la Chiesa perché consapevole e compartecipe della missione
spirituale e sociale di questa o abbia viceversa, abdicando largamente ai propri doveri di
solidarietà anche nei confronti di quei cittadini che non si riconoscono in quel quadro di
valori, continuato ad alimentare le casse vaticane per ragioni di convenienza politica. Se
un’azione di Governo ed un quadro legislativo improntati a ragioni di equidistanza e di
imparzialità rispetto ai fenomeni religiosi possono secondo taluni essere ricondotti a forme
di inaccettabile relativismo etico, è certo che lo stretto sostegno economico e la contiguità
con i poteri pubblici di cui i numerosi istituti cattolici beneficiano rischiano letteralmente di
svuotare di significato quel principio, faticosamente desunto in via giurisprudenziale, della
laicità dello Stato, condizione essenziale perché la libertà di tutti possa essere pienamente
rispettata.
E non sembra valere la considerazione che il cattolicesimo resti la religione largamente
dominante nel paese per giustificare acriticamente questo copioso fiume di denaro, dal
momento che è lecito presumere come sia proprio la scarsa conoscenza dei meccanismi e
dei volumi di finanziamento di cui gode la Chiesa cattolica a non indurre una seria
riflessione sull’argomento da parte dell’opinione pubblica. Una riflessione che, alla vigilia
delle elezioni politiche, nessuno degli schieramenti candidati alla guida del paese avrà
probabilmente interesse a sollevare.
Gianluca Polverari
Capitolo8
Nell’ottobre del 1968 Luigi Longo, segretario del Pci, è vittima di un ictus cerebrale.
Continuerà per qualche anno a svolgere una certa attività pubblica, ma non sarà più in grado
di dirigere il partito. Dal quel momento le redini del più grande partito comunista
d’occidente passano di fatto nelle mani del vice-segretario Enrico Berlinguer.
PARTE DEL DISCORSO CONCLUSIVO DEL XII CONGRESSO NAZIONALE P.C.I.
BOLOGNA 15-02-1969.
Il Compagno Longo ha riconfermato con grande chiarezza la nostra scelta di una via
democratica al socialismo,ha riconfermato,cioè,che noi concepiamo l’avvento al potere
della classe operaia e delle masse lavoratrici,come un processo che deve svolgersi sul
terreno della democrazia e del suo sviluppo conseguente,in un intreccio non separabile di
lotte sociali e di massa e di battaglie politiche e parlamentari,in un movimento che tenda a
raggiungere,anche prima della conquista del potere,sempre nuove e più solide posizioni di
controllo e di potere delle classi lavoratrici in tutte le sfere della società civile,tali da
accrescere la loro influenza diretta ed indiretta sugli indirizzi della politica nazionale e sul
corso stesso dello sviluppo economico e sociale,in un movimento che solleciti in pari tempo
una continua estensione delle libertà,un generale avanzamento della democrazia politica.
Questa nostra scelta nasce da ragioni storiche e di principio molto profonde e si colora oggi
di significati nuovi.
Essa viene prima di tutto dal fatto che in conseguenza delle modifiche che si producono
nelle strutture del capitalismo quando esso entra nella fase imperialistica,monopolistica ed
autoritaria,il problema della libertà e della democrazia com’ebbe ad affermare una volta il
compagno Togliatti,
.
Le sorti della libertà, la loro estensione fino ai confini estremi in cui la democrazia supera
ogni limite di classe per trasformarsi in democrazia socialista .sono affidate essenzialmente
alle posizioni di forza che la classe operaia e le masse lavoratrici riescono a conquistare.
E proprio l’Italia è uno dei paesi in cui questo spostamento nella posizione delle opposte
classi sociali verso i problemi della
della libertà e della democrazia ha assunto le manifestazioni più evidenti,con tutto il
processo storico che si è venuto svolgendo negli ultimi decenni e che ha visto la classe
operaia assumere,prima,una funzione di guida nella lotta contro il fascismo,dare
successivamente una propria impronta alla elaborazione di una Costituzione di tipo nuovo, e
divenire infine,con le lotte combattute negli anni successivi,il fattore decisivo per il
mantenimento e lo sviluppo di quegli elementi più o meno estesi di democrazia che esistono
nel nostro assetto politico.
Una volta richiamato questo fondamento essenziale della nostra scelta, sorge il problema,ed
è problema che assume oggi aspetti nuovi,di come la difesa e lo sviluppo delle libertà
democratiche debbano essere utilizzati non solo per garantire sempre meglio la
soddisfazione degli interessi immediati delle masse lavoratrici,ma per trasformare le
strutture dell’economia e per rinnovare gli stessi istituti democratici, per introdurre,quindi in
tutta la vita politica e sociale forme nuove di democrazia diretta e assicurare così una reale
partecipazione dei lavoratori alla direzione dell’economia e della vita pubblica.
Come è stato sottolineato da molti compagni con ricchezza di argomentazioni e di esempi,il
fatto più importante dei processi che si sono sviluppati nel nostro paese nell’ultimo periodo
è costituito proprio dall’intreccio di tipo nuovo e più ravvicinato che è venuto e viene
stabilendosi tra tutti questi momenti dell’azione delle masse lavoratrici,tra i vari aspetti della
lotta nella sfera e quelli della lotta e della iniziativa nella sfera politica.
Questo avvicinamento si manifesta in modo sempre più evidente in quasi tutti i movimenti
delle masse lavoratrici.
E si manifesta inoltre in altri movimenti,come quello degli studenti prima di tutto; ma esso
si riflette,in modo o nell’altro,anche in questi fenomeni che non interessano solo o
prevalentemente la sfera sociale,perché si esprimono in tensioni nove che hanno luogo
anche nella vita culturale,nel costume, e persino nel settore della religiosità
Nel 1974,anche se con qualche riserva fui eletto vicesegretario di cellula nel reparto
verniciatura.
La grande svolta voluta da Berlinguer ,l’idea stessa di un comunismo europeo,che si
differenziava da quello francese e spagnolo soprattutto su questioni internazionali,portò il
PCI alle elezioni politiche del 1972 al 29% di consensi alla camera dei deputati e al 28 e
qualcosa % al senato.
C’era grande euforia e s’intravedeva la possibilità di un sorpasso e una nuova direzione del
Paese
Ben presto,come ci ha insegnato la storia di questo Paese ,al progresso c’è una parte che
risponde con efferata violenza
La mattina del 28 maggio 1974 una bomba esplode sotto i portici di piazza della Loggia a
Brescia, mentre era in corso una manifestazione antifascista indetta dai sindacati e dal
Comitato antifascista. L’attentato rivendicato da Ordine Nero, provocò otto morti e più di
novanta feriti. L’ordigno era stato posto in un cestino portarifiuti e fatto esplodere con un
congegno elettronico a distanza.
Le forze politiche si dibattevano nella ricerca di una soluzione al fenomeno “terrorismo”
Era nell’aria fin troppo evidente un ricorso a leggi restrittive per quanto riguardava le libertà
individuali e altro
La cosiddetta emergenza terrorismo provocò una involuzione poliziesca dello Stato italiano,
con una diminuzione delle libertà costituzionali ed un ampliamento della discrezionalità
delle forze di polizia. L’ampliamento del ricorso ai reati associativi o di pericolo presunto,
fu l’ossatura normativa di un’emergenza che poi in Italia non è mai terminata
Emblematica questa legge: è in questo senso la legge Reale (n. 152 del 22/5/1975), che
autorizzava la polizia a sparare nei casi in cui ne ravvisasse necessità operativa.
La legge in questione suscitò molte polemiche e fu sottoposta a referendum, attuato l’11
giugno 1978, da cui risultò il favore dell’opinione pubblica per76,5% votò per il
mantenimento e il 23,5% per l’abrogazione.
Sul reato di associazione e quello che si nasconde dietro è esplicativo il discorso che
Gramsci fece in proposito in parlamento contro un disegno di legge :
“ Il disegno di legge contro le società segrete è stato presentato alla Camera come un
disegno di legge contro la massoneria; esso è il primo atto reale del fascismo per affermare
quella che il Partito fascista chiama la sua rivoluzione. Noi, come Partito comunista,
vogliamo ricercare non solo il perché della presentazione del disegno di legge contro le
organizzazioni in generale, ma anche il significato del perché il Partito fascista ha presentato
questa legge rivolta prevalentemente contro la massoneria.
Noi siamo tra i pochi che abbiano preso sul serio il fascismo, anche quando il fascismo
sembrava fosse solamente una farsa sanguinosa, quando intorno al fascismo si ripetevano
solo i luoghi comuni sulla “psicosi di guerra”, quando tutti i partiti cercavano di
addormentare la popolazione lavoratrice presentando il fascismo come un fenomeno
superficiale, di brevissima durata.
Nel novembre 1920 abbiamo previsto che il fascismo sarebbe andato al potere - cosa allora
inconcepibile per i fascisti stessi - se la classe operaia non avesse fatto a tempo ad frenare,
con le armi, la sua avanzata sanguinosa**.
Il fascismo, dunque, afferma oggi praticamente di voler “conquistare lo Stato”. Cosa
significa questa espressione ormai diventata luogo comune? E che significato ha, in questo
senso, la lotta contro la massoneria?
Poiché noi pensiamo che questa fase della “conquista fascista” sia una delle più importanti
attraversate dallo Stato italiano, e per ciò che riguarda noi che sappiamo di rappresentare gli
interessi della grande maggioranza del popolo italiano, gli operai e i contadini, così
crediamo necessaria un’analisi, anche se affrettata, della questione.
Che cos’è la massoneria? Voi avete detto molte parole sul significato spirituale, sulle
correnti ideologiche che essa rappresenta, ecc.; ma tutte queste sono forme di espressione di
cui voi vi servite solo per ingannarvi reciprocamente, sapendo di farlo.
La massoneria, dato il modo con cui si è costituita l’Italia in unità, data la debolezza iniziale
della borghesia capitalistica italiana, la massoneria è stata l’unico partito reale ed efficiente
che la classe borghese ha avuto per lungo tempo. Non bisogna dimenticare che poco meno
che venti anni dopo l’entrata a Roma dei piemontesi, il Parlamento è stato sciolto e il corpo
elettorale da circa 3 milioni di elettori è stato ridotto ad 800mila.
È stata questa la confessione esplicita da parte della borghesia di essere un’infima
minoranza della popolazione, se dopo venti anni di unità essa è stata costretta a ricorrere ai
mezzi più estremi di dittatura per mantenersi al potere, per schiacciare i suoi nemici di
classe, che erano i nemici dello Stato unitario.
Quali erano questi nemici? Era prevalentemente il Vaticano, erano i gesuiti, e bisogna
ricordare all’onorevole Martire come, accanto ai gesuiti che vestono l’abito talare, esistono i
gesuiti laici, i quali non hanno nessuna speciale uniforme che indichi il loro ordine religioso.
Nei primi anni dopo la fondazione del regno i gesuiti hanno dichiarato espressamente in
tutta una serie di articoli pubblicati da “Civiltà cattolica” quale fosse il programma politico
del Vaticano e delle classi che allora erano rappresentanti del Vaticano, cioè delle vecchie
classi semifeudali, tendenzialmente borboniche nel meridione, o tendenzialmente
austriacanti nel Lombardo-Veneto, forze sociali numerosissime che la borghesia capitalistica
non è riuscita mai a contenere, quantunque nel periodo del Risorgimento essa rappresentasse
un progresso, e un principio rivoluzionario. I gesuiti della “Civiltà cattolica”, e cioè il
Vaticano, ponevano a scopo della loro politica come primo punto il sabotaggio dello Stato
unitario, attraverso l’astensione parlamentare, il frenamento dello Stato liberale per tutte
quelle sue attività che potevano corrompere e distruggere il vecchio ordine; come secondo
punto, la creazione di un’armata di riserva rurale da porre contro l’avanzata del proletariato,
poiché fin dal ‘71 i gesuiti prevedevano che sul terreno della democrazia liberale sarebbe
nato il movimento proletario, che si sarebbe sviluppato un movimento rivoluzionario.
L’onorevole Martire ha oggi dichiarato che finalmente è stata raggiunta, alle spese della
massoneria, l’unità spirituale della nazione italiana.
Poiché la massoneria in Italia ha rappresentato l’ideologia e l’organizzazione reale della
classe borghese capitalistica, chi è contro la massoneria è contro il liberalismo, è contro la
tradizione politica della borghesia italiana. Le classi rurali che erano rappresentate nel
passato dal Vaticano, sono rappresentate oggi prevalentemente dal fascismo; è logico
pertanto che il fascismo abbia sostituito il Vaticano e i gesuiti nel compito storico, per cui le
classi più arretrate della popolazione mettono sotto il loro controllo la classe che è stata
progressiva nello sviluppo della civiltà; ecco il significato della raggiunta unità spirituale
della nazione italiana, che sarebbe stato un fenomeno di progresso 50 anni fa; ed è oggi
invece il fenomeno più grande di regressione ...
La borghesia industriale non è stata capace di frenare il movimento operaio, non è stata
capace di controllare né il movimento operaio, né quello rurale rivoluzionario. La prima
istintiva e spontanea parola d’ordine del fascismo, dopo l’occupazione delle fabbriche è
stata perciò questa : “I rurali controlleranno la borghesia urbana, che non sa essere forte
contro gli operai”.
Se non m’inganno, allora, onorevole Mussolini, non era questa la vostra tesi, e tra il
fascismo rurale e il fascismo urbano dicevate di preferire il fascismo urbano ...
[Interruzioni].
Mussolini. Bisogna che la interrompa per ricordarle un mio articolo di alto elogio del
fascismo rurale del 1921-22.
Gramsci. Ma questo non è un fenomeno puramente italiano, quantunque in Italia, per la più
grande debolezza del capitalismo abbia avuto il massimo di sviluppo; è un fenomeno
europeo e mondiale, di estrema importanza per comprendere la crisi generale del
dopoguerra, sia nel dominio dell’attività pratica che nel dominio delle idee e della cultura.
L’elezione di Hindenburg in Germania, la vittoria dei conservatori in Inghilterra, con la
liquidazione dei rispettivi partiti liberali democratici, sono il corrispettivo del movimento
fascista italiano; le vecchie forze sociali, ma non assorbite completamente da esso, hanno
preso il sopravvento nell’organizzazione degli Stati, portando nell’attività reazionaria tutto il
fondo di ferocia e di spietata decisione che è stata sempre loro propria; ma in sostanza noi
abbiamo un fenomeno di regressione storica che non è e non sarà senza risultanza per lo
sviluppo della rivoluzione proletaria. Esaminata su questo terreno, l’attuale legge contro le
associazioni sarà una forza o è invece destinata ad essere completamente irrita e vana?
Corrisponderà essa alla realtà, potrà essere il mezzo per una stabilizzazione del regime
capitalistico o sarà solo un nuovo perfezionato strumento dato alla polizia per arrestare
Tizio, Caio e Sempronio? ...
Il problema pertanto è questo: la situazione del capitalismo in Italia si è rafforzata o si è
indebolita dopo la guerra, col fascismo? Quali erano le debolezze della borghesia
capitalistica italiana prima della guerra, debolezze che hanno portato alla creazione di quel
determinato sistema politico massonico che esisteva in Italia, che ha avuto il suo massimo
sviluppo nel giolittismo? Le debolezze massime della vita nazionale italiana erano in primo
luogo la mancanza di materie prime, cioè l’impossibilità della borghesia di creare in Italia
una industria che avesse una sua radice profonda nel paese e che potesse progressivamente
svilupparsi, assorbendo la mano d’opera esuberante. In secondo luogo, la mancanza di
colonie legate alla madre patria, quindi l’impossibilità per la borghesia di creare una
aristocrazia operaia che permanentemente potesse essere alleata della borghesia stessa.
Terzo la questione meridionale, cioè la questione dei contadini, legata strettamente al
problema dell’emigrazione, che è la prova della incapacità della borghesia italiana di
mantenere ... Interruzioni.
Mussolini. Anche i tedeschi sono emigrati a milioni.
Gramsci. Il significato dell’emigrazione in massa dei lavoratori è questo: il sistema
capitalistico, che è il sistema predominante, non è in grado di dare il vitto, l’alloggio e i
vestiti alla popolazione, e una parte non piccola di questa popolazione è costretta ad
emigrare ...
Rossoni. Quindi la nazione si deve espandere nell’interesse del proletariato.
Gramsci. Noi abbiamo una nostra concezione dell’imperialismo e del fenomeno coloniale,
secondo la quale essi sono prima di tutto una esportazione di capitale finanziario. Finora
l’”imperialismo” italiano è consistito solo in questo: che l’operaio italiano emigrato lavora
per il profitto dei capitalisti degli altri paesi, cioè finora l’Italia è solo stata un mezzo
dell’espansione del capitale finanziario non italiano. Voi vi sciacquate sempre la bocca con
le affermazioni più puerili di una pretesa superiorità demografica dell’Italia sugli altri paesi;
voi dite sempre, per esempio, che l’Italia demograficamente è superiore alla Francia. È una
questione questa che solo le statistiche possono risolvere perentoriamente, ed io qualche
volta mi occupo di statistiche; ora una statistica pubblicata nel dopoguerra, mai smentita, e
che non può essere smentita, afferma che l’Italia di prima della guerra dal punto di vista
demografico, si trovava già nella stessa situazione della Francia dopo la guerra; ciò è
determinato dal fatto che l’emigrazione allontana dal territorio nazionale una tal massa di
popolazione maschile, produttivamente attiva, che i rapporti demografici diventano
catastrofici. Nel territorio nazionale rimangono vecchi, donne, bambini, invalidi, cioè la
parte della popolazione passiva, che grava sulla popolazione lavoratrice in una misura
superiore a qualsiasi altro paese, anche alla Francia.
È questa la debolezza fondamentale del sistema capitalistico italiano, per cui il capitalismo
italiano è destinato a scomparire tanto più rapidamente quanto più il sistema capitalistico
mondiale non funziona più per assorbire l’emigrazione italiana, per sfruttare il lavoro
italiano, che il capitalismo nostrale è impotente a inquadrare.
I partiti borghesi, la massoneria, come hanno cercato di risolvere questi problemi?
Conosciamo nella storia italiana degli ultimi tempi due piani politici della borghesia per
risolvere la questione del governo del popolo italiano. Abbiamo avuto la pratica giolittiana,
il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè il tentativo di stabilire
una alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia settentrionale per
opprimere, per soggiogare a questa formazione borghese-proletaria la massa dei contadini
italiani, specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto successo. Nell’Italia
settentrionale si costituisce difatti una coalizione borghese-proletaria attraverso la
collaborazione parlamentare e la politica dei lavori pubblici alle cooperative; nell’Italia
meridionale si corrompe il ceto dirigente e si domina la massa coi mazzieri ...
(Interruzioni del deputato Greco) Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento di
questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l’aristocrazia operaia e i
contadini poveri di tutta Italia.
Abbiamo avuto il programma che possiamo dire dal “Corriere della Sera”, giornale che
rappresenta una forza non indifferente nella politica nazionale: 800.000 lettori sono
anch’essi un partito.
Voci. Meno ...
Mussolini. La metà! E poi i lettori dei giornali non contano. Non hanno mai fatto una
rivoluzione. I lettori dei giornali hanno regolarmente torto!
Gramsci. Il “Corriere della Sera” non vuole fare la rivoluzione.
Farinacci. Neanche “l’Unità”!
Gramsci. Il “Corriere della Sera” ha sostenuto sistematicamente tutti gli uomini politici del
Mezzogiorno, da Salandra ad Orlando, a Nitti, a Amendola; di fronte alla soluzione
giolittiana, oppressiva non solo di classi, ma addirittura di interi territori, come il
Mezzogiorno e le isole, e perciò altrettanto pericolosa che l’attuale fascismo per la stessa
unità materiale dello Stato italiano, il “Corriere della Sera” ha sostenuto sempre un’alleanza
tra gli industriali del Nord e una certa vaga democrazia rurale prevalentemente meridionale
sul terreno del libero scambio. L’una e l’altra soluzione tendevano essenzialmente a dare
allo Stato italiano una più larga base di quella originaria, tendevano a sviluppare le
“conquiste” del Risorgimento.
Che cosa oppongono i fascisti a queste soluzioni? Essi oppongono oggi la legge cosiddetta
contro la massoneria; essi dicono di volere cosi conquistare lo Stato. In realtà il fascismo
lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia avesse in Italia, per
soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La “rivoluzione”
fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale.
Mussolini. Di una classe ad un’altra, come è avvenuto in Russia, come avviene
normalmente in tutte le rivoluzioni, come noi faremo metodicamente! [Approvazioni].
Gramsci. È rivoluzione solo quella che si basa su una nuova classe. Il fascismo non si basa
su nessuna classe che non fosse già al potere ...
Mussolini. Ma se gran parte dei capitalisti ci sono contro, ma se vi cito dei grandissimi
capitalisti che ci votano contro, che sono all’opposizione: i Motta, i Conti ...
Farinacci. E sussidiano i giornali sovversivi! [Commenti].
Mussolini. L’alta banca non è fascista, voi lo sapete!
Gramsci. La realtà dunque è che la legge contro la massoneria non è prevalentemente contro
la massoneria; coi massoni il fascismo arriverà facilmente ad un compromesso.
Mussolini. I fascisti hanno bruciato le logge dei massoni prima di fare la legge! Quindi non
c’è bisogno di accomodamenti.
Gramsci. Verso la massoneria il fascismo applica, intensificandola, la stessa tattica che ha
applicata a tutti i partiti borghesi non fascisti: in un primo tempo ha creato un nucleo fascista
in questi partiti; in un secondo periodo ha cercato di esprimere dagli altri partiti le forze
migliori che gli convenivano, non essendo riuscito ad ottenere il monopolio come si
proponeva ...
Farinacci. E ci chiamate sciocchi?
Gramsci. Non sareste sciocchi solo se foste capaci di risolvere i problemi della situazione
italiana ...
Mussolini. Li risolveremo. Ne abbiamo già risolti parecchi.
Gramsci. Il fascismo non è riuscito completamente ad attuare l’assorbimento di tutti i partiti
nella sua organizzazione. Con la massoneria ha impiegato la tattica politica del noyautage,
poi il sistema terroristico dell’incendio delle logge, e infine impiega oggi l’azione
legislativa, per cui determinate personalità dell’alta banca e dell’alta burocrazia finiranno
per l’accodarsi ai dominatori per non perdere il loro posto, ma con la massoneria il governo
fascista dovrà venire ad un compromesso. Come si fa quando un nemico è forte? Prima gli
si rompono le gambe, poi si fa il compromesso in condizioni di evidente superiorità.
Mussolini. Prima gli si rompono le costole, poi lo si fa prigioniero, come voi avete fatto in
Russia! Voi avete fatto i vostri prigionieri e poi li tenete, e vi servono! [Commenti].
Gramsci. Far prigionieri significa appunto fare il compromesso: perciò noi diciamo che in
realtà la legge è fatta specialmente contro le organizzazioni operaie. Domandiamo perché da
parecchi mesi a questa parte senza che il Partito comunista sia stato dichiarato associazione
a delinquere, i carabinieri arrestano i nostri compagni ogni qualvolta li trovano riuniti in
numero di almeno tre ...
Mussolini. Facciamo quello che fate in Russia ...
Gramsci. In Russia ci sono delle leggi che vengono osservate: voi avete le vostre leggi ...
Mussolini. Voi fate delle retate formidabili. Fate benissimo! [Si ride].
Gramsci. In realtà l’apparecchio poliziesco dello Stato considera già il Partito comunista
come un’organizzazione segreta.
Mussolini. Non è vero!
Gramsci. Intanto si arresta senza nessuna imputazione specifica chiunque sia trovato in una
riunione di tre persone, soltanto perché comunista, e lo si butta in carcere.
Mussolini. Ma vengono presto scarcerati. Quanti sono in carcere? Li peschiamo
semplicemente per conoscerli!
Gramsci. È una forma di persecuzione sistematica che anticipa e giustificherà l’applicazione
della nuova legge. Il fascismo adotta gli stessi sistemi del governo Giolitti. Fate come
facevano nel Mezzogiorno i mazzieri giolittiani che arrestavano gli elettori di opposizione ...
per conoscerli.
Una voce. C’è stato un caso solo. Lei non conosce il meridione.
Gramsci. Sono meridionale!
Mussolini. A proposito di violenze elettorali io le ricordo un articolo di Bordiga che le
giustifica a pieno!
Greco Paolo. Lei, onorevole Gramsci, non lo ha letto quell’articolo.
Gramsci. Non le violenze fasciste, le nostre. Noi siamo sicuri di rappresentare la
maggioranza della popolazione, di rappresentare gli interessi più essenziali della
maggioranza del popolo italiano; la violenza proletaria è perciò progressiva e non può essere
sistematica. La vostra violenza è sistematica e sistematicamente arbitraria perché voi
rappresentate una minoranza destinata a scomparire. Noi dobbiamo dire alla popolazione
lavoratrice che cosa è il vostro governo, come si comporta il vostro governo, per
organizzarla contro di voi, per metterla in condizioni di vincervi. È molto probabile che
anche noi ci troveremo costretti ad usare gli stessi vostri sistemi, ma come transizione,
saltuariamente. [Rumori, interruzioni}. Sicuro: ad adottare gli stessi vostri metodi, con la
differenza che voi rappresentate la minoranza della popolazione, mentre noi rappresentiamo
la maggioranza. [Interruzioni, rumori].
Farinacci. Ma allora, perchè non fate la rivoluzione? Lei è destinato a fare la fine di
Bombacci! La manderanno via dal partito!
Gramsci. La borghesia italiana quando ha fatto l’unità era una minoranza della popolazione,
ma siccome rappresentava gli interessi della maggioranza anche se questa non la seguiva,
così ha potuto mantenersi al potere. Voi avete vinto con le armi, ma non avete nessun
programma, non rappresentate niente di nuovo e di progressivo. Avete solo insegnato
all’avanguardia rivoluzionaria come solo le armi, in ultima analisi, determinano il successo
dei programmi e dei non programmi ... [Interruzioni, commenti}.
Presidente. Non interrompete?
Gramsci. Questa legge non varrà affatto a frenare il movimento che voi stessi preparate nel
paese. Poiché la massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una tendenza,
è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni
operaie e contadine. Questo è il valore reale, il vero significato della legge.
Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di
quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa rimanere tale
permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere senza che essa abbia un partito
ed una organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C’è qualcosa di
vero in questa torbida perversione reazionaria degli insegnamenti marxisti. È certo molto
difficile che una classe possa giungere alla soluzione dei suoi problemi e al raggiungimento
di quei fini che sono insiti nella sua esistenza e nella forza generale della società, senza che
un’avanguardia si costituisca e conduca questa classe fino al raggiungimento di tali fini. Ma
non è detto che questa enunciazione sia sempre vera, nella sua meccanicità esteriore ad uso
della reazione! Questa è una legge che serve per l’Italia, che dovrà essere applicata in Italia,
dove la borghesia non è riuscita in nessun modo e non riuscirà mai a risolvere in primo
luogo la questione dei contadini italiani, a risolvere la questione dell’Italia meridionale. Non
per nulla questa legge viene presentata contemporaneamente ad alcuni progetti concernenti
il risanamento del Mezzogiorno.
Una voce. Parli della massoneria.
Gramsci. Volete che io parli della massoneria. Ma nel titolo della legge non si accenna
neppure alla massoneria, si parla solo delle organizzazioni in generale. In Italia il
capitalismo si è potuto sviluppare in quanto lo Stato ha premuto sulle popolazioni contadine,
specialmente nel Sud. Voi oggi sentite l’urgenza di tali problemi, perciò promettete un
miliardo per la Sardegna, promettete lavori pubblici e centinaia di milioni a tutto il
Mezzogiorno; ma per fare opera seria e concreta dovreste cominciare col restituire alla
Sardegna i 100-150 milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione sarda!
Dovreste restituire al Mezzogiorno le centinaia di milioni di imposte che ogni anno estorcete
alla popolazione meridionale.
Mussolini. Voi non fate pagare le tasse in Russia!...
Una voce. Rubano in Russia, non pagano le tasse !
Gramsci. Non è questa la questione, egregio collega, che dovrebbe conoscere almeno le
relazioni parlamentari che su tali questioni esistono nelle biblioteche. Non si tratta del
meccanismo normale borghese delle imposte: si tratta del fatto che ogni anno lo Stato
estorce alle regioni meridionali una somma di imposte che non restituisce in nessun modo,
ne con servizi di nessun genere ...
Mussolini. Non è vero.
Gramsci. ... somme che lo Stato estorce alle popolazioni contadine meridionali per dare una
base al capitalismo dell’Italia settentrionale. [Interruzioni, commenti]. Su questo terreno
delle contraddizioni del sistema capitalistico italiano si formerà necessariamente, nonostante
la difficoltà di costituire grandi organizzazioni, l’unione degli operai e dei contadini contro
il comune nemico.
Voi fascisti, voi governo fascista, nonostante tutta la demagogia dei vostri discorsi, non
avete superato questa contraddizione che era già radicale; voi l’avete anzi fatta sentire più
duramente alle classi e alle masse popolari. Voi avete operato in questa situazione, per le
necessità di questa situazione. Voi avete aggiunto nuove polveri a quelle già accumulate
dallo sviluppo della società capitalistica e credete di sopprimere con una legge contro le
organizzazioni gli effetti più micidiali della vostra attività stessa. [Interruzioni]. Questa è la
questione più importante nella discussione di questa legge!
Voi potete “conquistare lo Stato”, potete modificare i codici, voi potete cercare di impedire
alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso; non potete
prevalere sulle condizioni obiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che
costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fino ad oggi più diffuso
nel campo dell’organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse
contadine italiane da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno
schiantare, che il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi [interruzioni]. È molto
difficile applicare ad una popolazione di 40 milioni di abitanti i sistemi di governo di
Zankof . In Bulgaria vi sono pochi milioni di abitanti e tuttavia, nonostante gli aiuti
dall’estero, il governo non riesce a prevalere sulla coalizione del Partito comunista e delle
forze contadine rivoluzionarie, e in Italia ci sono 40 milioni di abitanti.
Mussolini. Il Partito comunista ha meno iscritti di quello che abbia il Partito fascista
italiano!
Gramsci. Ma rappresenta la classe operaia.
Mussolini. Non la rappresenta?
Farinacci. La tradisce, non la rappresenta.
Gramsci. Il vostro è un consenso ottenuto col bastone.
Farinacci. Parla di Miglieli!
Gramsci. Precisamente. Il fenomeno Miglieli ha una grande importanza appunto nel senso
di ciò che ho detto prima: che le masse contadine anche cattoliche si indirizzano verso la
lotta rivoluzionaria. Né i giornali fascisti avrebbero protestato contro Miglieli se il
fenomeno “Miglieli” non avesse questa grande importanza dell’indicare un nuovo
orientamento delle forme rivoluzionarie in dipendenza della vostra pressione sulle classi
lavoratrici.
Concludendo: la massoneria è la piccola bandiera che serve per far passare la mercé
reazionaria antiproletaria! Non è la massoneria che vi importa? La massoneria diventerà
un’ala del fascismo. La legge deve servire per gli operai e per i contadini, i quali
comprenderanno ciò molto bene dall’applicazione che ne verrà fatta. A queste masse noi
vogliamo dire che voi non riuscirete a soffocare le manifestazioni organizzative della loro
vita di classe, perché contro di voi sta tutto lo sviluppo della società italiana.
[Interruzioni].
Presidente. Ma non interrompano? Lascino parlare. Lei, però, onorevole Gramsci, non ha
parlato della legge!
Rossoni. La legge non è contro le organizzazioni!
Gramsci. Onorevole Rossoni, ella stesso è un comma della legge contro le organizzazioni.
Gli operai e i contadini debbono sapere che voi non riuscirete ad impedire che il movimento
rivoluzionario si rafforzi e si radicalizzi. [Interruzioni, rumori]. Perché esso solo rappresenta
oggi la situazione del nostro paese ... [Interruzioni].
Presidente. Onorevole Gramsci, questo concetto lo ha ripetuto tre o quattro volte. Abbia la
bontà! Non siamo dei giurati, a cui occorre ripetere molte volte le stesse cose!
Gramsci. Bisogna ripeterle, invece, bisogna che lo sentiate fino alla nausea. Il movimento
rivoluzionario vincerà il fascismo. [Commenti].
Con questo discorso, pronunciato alla Camera il 16 maggio 1925, Gramsci intervenne
contro il disegno di legge Mussolini-Rocco rivolto contro la massoneria e indirettamente
contro i partiti antifascisti.
Capitolo 9
La sera ci incontravamo spesso in una cantina cosiddetta “anarchica”,per la verità di
anarchico c’era solo il listino prezzi,che variava seconde le simpatie politiche del
proprietario
Si discuteva animatamente del nuovo corso del partito “compromesso storico” che aveva
trovato finalmente in Aldo Moro un interlocutore interessato alle tesi di Berlinguer esposte
fin dal 1973
Sapevamo da sempre che nella cultura politica del PCI la storia del Partito è stata sempre
letta in termini di rinnovamento nella continuità. Si tratta di un’interpretazione
sostanzialmente veritiera. Da questo punto di vista, il “compromesso storico” teorizzato da
Berlinguer è emblematico: nonostante le “discontinuità” (Vacca) che pure presenta, esso per
certi versi è il “catalizzatore” di una tendenza strategica di lunga durata.
Essa prende avvio già da Gramsci, che coglie l’importanza per la “rivoluzione italiana” di
un “blocco storico” tra la classe operaia settentrionale di orientamento socialista e masse
contadine, perlopiù meridionali e cattoliche. Ma è soprattutto con Togliatti - il Togliatti del
“Partito nuovo”, dell’unità nazionale antifascista e della “democrazia progressiva” - che la
politica delle alleanze trova la sua massima centralità.
Fin dalla Resistenza, Togliatti individua l’importanza di un’azione unitaria tra le forze
socialcomuniste e forze cattoliche, rappresentate dalla DC. All’interno di quest’ultima si
individua la compresenza di un’ala conservatrice, legata alla “borghesia possidente” e alla
parte più retriva della Chiesa cattolica, e un’ala democratica, più radicata nelle masse
popolari. Questa concezione della DC come partito “a due facce” rimarrà una costante nella
cultura politica del PCI, che si porrà l’obiettivo di favorirne l’ala progressista, evitando così
che la DC scivoli a destra, trascinando con sé l’intero quadro politico. L’alleanza tra le tre
grandi forze di ispirazione popolare viene così vista come una “necessità storica e politica”
(1946), o addirittura come “un aspetto della via italiana al socialismo” (1960).
In altri momenti, Togliatti si rivolgerà direttamente alle masse cattoliche, con gli appelli per
la pace e la salvezza del genere umano, nel tentativo di acuire la contraddizione, ormai
sempre più evidente, tra il gruppo dirigente conservatore della DC e masse cattoliche
potenzialmente progressive. Morto Togliatti, a seguito del Concilio Vaticano II e
dell’emergere di un diffuso “dissenso” cattolico, si valuterà anche la possibilità di rompere
l’unità politica dei cattolici, ma al tempo stesso si accentuerà il dialogo con la sinistra
democristiana, al fine di costruire quella “unità delle forze di sinistra laiche e cattoliche”,
che consenta di andare oltre il centrosinistra.
La strategia di Berlinguer nasce su questo retroterra. Ma nasce anche dalla storia italiana (e
mondiale) della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, allorché, sotto la spinta dei grandi
movimenti di massa del 1968-69, matura quella grande avanzata del movimento operaio e
democratico, a cui lo Stato italiano e l’alleato americano reagiscono innescando la strategia
della tensione. In questo quadro, si collocano le stragi di piazza Fontana, di Gioia Tauro e
della questura di Milano, il tentativo golpista di Borghese, l’attivismo del SID nello
scongiurare un’evoluzione del quadro politico verso sinistra. Né è senza significato l’intesa
tra DC e MSI sull’elezione di Leone a Capo dello Stato (1971). Dall’altra parte,
l’approvazione dello Statuto dei lavoratori e della legge sul divorzio, la nascita delle
Regioni, le grandi lotte operaie. Sul piano internazionale, alla situazione di grave crisi
economica si affianca l’ulteriore avanzata dei movimenti di liberazione (Vietnam) e
l’emergere di governi progressisti come quello di Allende in Cile.
Quest’ultimo, che si regge su un’unità delle sinistre con appoggio esterno democristiano, è
rovesciato nel settembre 1973 dal colpo di Stato di Pinochet, sostenuto dalla CIA e da
multinazionali come la ITT. Berlinguer commenta i fatti cileni con tre saggi su Rinascita,
nei quali afferma che, in Italia come in Cile, non si può governare col 51%, ossia con un
fronte di forze esclusivamente di sinistra; solo il consenso “della grande maggioranza della
popolazione”, e dunque una “strategia delle alleanze” che sposti settori consistenti di ceto
medio, è possibile scongiurare - o almeno rendere più difficile - colpi di mano autoritari e
tragedie come quella cilena. Occorre quindi riprendere il processo di rinnovamento e di
unità avviatosi con la Resistenza, attraverso un “compromesso storico” tra le maggiori forze
popolari e il perseguimento di una “alternativa democratica” alla direzione del Paese.
Si tratta dunque della riproposizione e dell’aggiornamento della tradizionale politica unitaria
del PCI, anche se Berlinguer allarga la sua visione delle alleanze fino a comprendervi i
nuovi movimenti e le soggettività sociali, politiche e culturali emergenti. Nella sua proposta,
dunque, c’è anche qualcosa di nuovo, che allude fin d’ora a quel “rinnovamento della
politica” su cui si soffermerà negli anni ’80. Tuttavia, la DC di Fanfani è un interlocutore
ben poco adatto: sulla questione del divorzio, il Segretario democristiano spinge per il
referendum abrogativo, alleandosi ancora col MSI e puntando a ricostituire un fronte
anticomunista. Ciò che avviene, al contrario, è l’aggregarsi di un ampio comitato di
“Cattolici per il NO”, e la vittoria del NO con circa il 60% dei voti.
Due settimane dopo, la strage di piazza della Loggia: un altro segnale inequivocabile delle
forze reazionarie. Berlinguer torna a chiedere un mutamento di linea e gruppo dirigente
della DC, rilanciando la prospettiva di un governo “di svolta democratica”. La strategia
della tensione, intanto, è in pieno sviluppo: in agosto c’è la strage dell’Italicus.
Al XIV congresso (1975), Berlinguer precisa che il compromesso storico è una strategia di
ampio respiro, non riducibile alla richiesta di partecipazione comunista al governo; è “un
più avanzato terreno di lotta” e “una sfida” alle altre forze democratiche. In sostanza, è una
proposta volta a superare la conventio ad excludendum ai danni del PCI. Se la DC si rivela
del tutto ostile alla proposta berlingueriana, non di meno lo sono le BR, che nella loro prima
risoluzione strategica condannano il compromesso storico senza mezzi termini. Ma
soprattutto sono ostili gli Stati Uniti, che con Kissinger ribadiscono il loro veto ad
un’eventuale ingresso al governo del PCI, ormai plausibile dopo la grande avanzata
elettorale delle Amministrative del ’75.
Nella DC, intanto, il gruppo dirigente è cambiato, e nuovo Segretario è Zaccagnini, più
aperto ad un dialogo coi comunisti. Alla vigilia delle elezioni del 1976,Berlinguer rilancia la
proposta di “un governo di unità democratica”, una sorta di Große Koalition che comprenda
“tutti i partiti democratici e popolari compreso il PCI”, invitando l’elettorato ad indebolire la
DC. Quest’ultima, dal canto suo, rispolvera il vecchio anticomunismo, chiamando a raccolta
grande capitale e Chiesa. A pochi giorni dal voto,Berlinguer afferma che in Italia si deve
costruire “il socialismo nella libertà”, ciò per cui si sente “più sicuro nel blocco occidentale
e dunque nell’ambito della NATO” - un’affermazione piuttosto discutibile, che Berlinguer
tempera aggiungendo che “di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero nemmeno lasciarci
cominciare a farlo [il socialismo], anche nella libertà”.
Le elezioni però si concludono con “due vincitori”: il PCI, che giunge al 34.4%, e la DC, col
38.7%. Per la prima volta un comunista - Ingrao - è eletto presidente della Camera, e al PCI
vanno anche le presidenze di varie commissioni parlamentari. Il governo, invece, è un
monocolore democristiano guidato da Andreotti, che si regge sulle astensioni di PSI, PSDI,
PRI, e su quella - determinante - del PCI: è il governo “della non sfiducia”. Comincia quindi
l’esperienza della “solidarietà nazionale”. La DC, in questo modo, cerca di “guadagnar
tempo concedendo il meno possibile” (Valentini). Per i comunisti, “è un accordo provvisorio
suggerito dalla gravità della situazione” (Fiori).
L’Italia infatti è in balia della crisi economica, a cui il governo cerca di riparare con una
serie di pesanti misure antinflazionistiche, che anche il PCI sostiene. Per Berlinguer,
tuttavia, la soluzione sta in una politica di austerità, che sia al tempo stesso portatrice di “un
nuovo tipo di sviluppo economico e sociale” e di un mutamento della direzione politica del
Paese. Occorre - dice - “un nuovo meccanismo di sviluppo”, basato su lotta gli sprechi,
programmazione economica, nuove politiche per scuola, trasporti e sanità, affinché migliori
la qualità della vita e si inseriscano nella società “elementi di socialismo”. Al tema
dell’austerità, il PCI dedica anche un importante convegno, concluso da Berlinguer, che
ricollega la sua proposta di politica economica ad un quadro di rapporti internazionali che
non possono più basarsi su quello sfruttamento delle risorse del Terzo mondo che consente
l’iper-consumo dei paesi a capitalismo avanzato. Tuttavia, il sostegno del PCI alle misure
antinflazionistiche comincia a ingenerare nei settori popolari notevoli perplessità, su cui
fanno leva il PSI di Craxi, la UIL, la CISL, cavalcando strumentalmente anche le critiche
dei gruppi extraparlamentari.
La rottura tra questi ultimi - e il movimento del ’77 - e la “sinistra storica” è sancita
drammaticamente dagli scontri che avvengono tra studenti e servizio d’ordine della CGIL,
allorché Lama tenta di tenere un comizio all’interno dell’Università di Roma occupata. Il
PCI, dunque, è in difficoltà, in qualche modo “accerchiato”, senza una precisa collocazione,
non più all’opposizione ma neanche al governo. Tuttavia - dirà Chiaromonte - la strada era
quasi obbligata, cosicché si decide di andare avanti, verificando fino in fondo le possibilità
esistenti. Si chiede agli altri partiti un “accordo programmatico”, ma si ottiene solo una
mozione comune. Le resistenze istituzionali e politiche al cambiamento costituiscono
dunque una sorta di “muro di gomma”.
A questo punto, mentre la situazione sociale si aggrava sempre di più e monta la protesta
operaia, il PCI prende le distanze dal governo, che - perso anche l’appoggio del PRI - si
dimette. Seguono due mesi - i primi del “terribile 1978” - di convulse trattative, incontri,
contatti. Per due volte Berlinguer e Moro si incontrano segretamente. Il Segretario del PCI
chiede a Moro di fare opera di mediazione come fece per il centrosinistra, per passare “dalla
democrazia difficile alla democrazia compiuta”; il leader democristiano, infine, accetta di
sostenere l’ingresso del PCI nella maggioranza governativa. Si va quindi all’incontro
ufficiale tra i due partiti.
Quella sera i commensali tacevano assorti in pensieri comuni
Pochi in effetti i commensali e l’oste se ne stava dietro il banco dei vini,leggendo e
rileggendo i titoli dell’unità uscita in edizione straordinaria
Era il Giovedì il 16 marzo 1978, le Brigate Rosse raggiungono l’apice della loro strategia
del terrore: “Portare l’attacco al cuore dello Stato”. Alle 9.02 del mattino, in via Fani
all’incrocio con Via Stresa, nel quartiere Trionfale a Roma, un commando composto da
circa 19 brigatisti rapisce il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e uccide i
cinque componenti della scorta: il Maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, l’appuntato
Domenico Ricci, il Brigadiere Francesco Zizzi, l’agente Raffaele Jozzino e l’agente
Giuliano Rivera.
Ma cosa successe realmente quella mattina, chi e quanti erano i brigatisti che presero parte
all’agguato e al rapimento? Secondo la deposizione di Valerio Morucci al processo Moro
Quater questa era la logistica del commando Br: “ Io ho detto che l’auto 128 targata corpo
diplomatico era guidata da Mario Moretti, che lo sbarramento all’incrocio di Via Fani è stato
fatto da Barbara Balzerani, che la 132 dove è poi stato caricato l’onorevole Moro era
guidata da Bruno Seghetti, che le quattro persone che hanno aperto il fuoco erano dal basso,
Io, Fiore, Gallinari e Bonisoli”. Questa dunque la ricostruzione secondo la deposizione al
processo Moro Quater di Valerio Morucci, unico dei Brigatisti presenti a Via Fani ad essersi
dissociato.
Più in dettaglio la disposizione era dunque la seguente: alla guida della 128 bianca che ha il
compito di frenare bruscamente e causare il tamponamento con la 130 Fiat su cui viaggiava
Moro c’è Mario Moretti. A controllare l’incrocio c’è Barbara Balzerani armata di un mitra e
di una paletta per far defluire il traffico. A sparare sono Valerio Morucci e Raffele Fiora ,
collocati sul lato sinistro della vettura di Moro, mentre a sparare sull’Alfetta di scorta sono
invece Prospero Gallinari e Franco Bonisoli anch’essi collocati sul lato sinistro della
vettura . Su Via Stresa c’è la 132 guidata da Bruno Seghetti che ha il compito di fare marcia
indietro su Via Fani e caricare l’Onorevole Moro. Ma a chiudere la scena dell’agguato,
quello che nella terminologia brigatista viene chiamato il” cancelletto superiore” c’è un’altra
128 messa di traverso da cui scendono altri due brigatisti. Non tutto quadro dunque con il
racconto di Morucci.
ll primo ottobre del 1993 su incarico della Corte i periti balistici depositano una nuova
perizia dove si afferma che, contrariamente a quanto dichiarato da Morucci, a sparare sulla
130 c’è stato almeno un altro brigatista collocato sul lato destro dell’auto dalla parte del
passeggero.
Si scoprirà in seguito che del gruppo di fuoco fecero parte anche Alessio Casimirri e Alvaro
Lo Jacono. Un’altra componente del commando invece è Rita Algranati, moglie di
Casimirri. Del ruolo della “compagna Marzia” nella strage di via Fani hanno parlato
successivamente Valerio Morucci e Adriana Faranda. “Le unità del commando - ha
raccontato Faranda - erano dieci. Rita Algranati stava all’incrocio con via Trionfale per
segnalare l’arrivo di Moro e della sua scorta a Moretti che era sulla 128.
Altre zone d’ombra permangono sulla dinamica dei fatti quel giorno a Via Fani. Quello
stesso giorno si trovò a passare in motorino l’ingegnere Alessandro Marini che ha dichiarato
che due persone a bordo di una motocicletta Honda esplosero dei colpi contro di lui. Ma le
Brigate Rosse hanno sempre negato che quella moto e i suoi due occupanti facessero parte
del commando.
Il 15 ottobre del 1993 un pentito della ‘Ndrangheta Saverio Morabito ha dichiarato che a Via
Fani quel giorno c’era anche Antonio Mirta, altro appartenente alla mafia calabrese, e
infiltrato nel commando brigatista. Sergio Flamigni, membro della Commissione Moro e
autore di molti libri sull’argomento, riferisce che quando seppe della deposizione di
Morabito gli vennero alla mente diversi elementi agli atti della Commissione che
avvaloravano l’ipotesi della presenza di un calabrese a Via Fani. Vi era la testimonianza
dell’Onorevole Benito Cazora, allora deputato della Democrazia Cristiana che riferì alla
commissione: “ che venne avvicinato da un calabrese che in una certa fase ebbe a chiedergli
di un rullino di foto scattate a Via Fani.
Quelle foto furono scattate immediatamente dopo la fuga del commando brigatista da un
abitante in Via Fani: il carrozziere Gerardo Nucci e furono visionate dal giudice Infelisi che
le ritenne molto importanti, fatto sta che questo rullino fotografico è scomparso. Forse su
quel rullino potrebbe essere impressa l’immagine di questo infiltrato. Queste fotografie sono
diventate uno dei tanti misteri del caso Moro.
Le ricerche per trovare Aldo Moro partono subito dopo l’eccidio, ma partono subito con il
piede sbagliato . Lo stesso sedici marzo il dottor Fardello dell’Ucigos emana a mezzo
telegramma l’ordine di attuare il piano Zero, elaborato per la provincia di Sassari, ma del
tutto sconosciuto alle altre questure italiane. L’ordine viene revocato in meno di ventiquattro
ore ma del resto la Commissione Parlamentare d’Inchiesta ha accertato che nel ’78 era
ancora in vigore un sistema per la tutela dell’ordine pubblico risalente agli anni Cinquanta .
Questo nonostante che il Settantasette avesse rappresentato l’apice dell’escalation
terroristica con 2000 attentati, 42 omicidi 47 ferimenti, 51 sommosse nelle carceri e 559
evasioni.
Estese a tutta Italia le ricerche si concentrano soprattutto su Roma . Dal 16 marzo al 10
maggio sempre nel territorio urbano di Roma vengono impiegati 172.000 unità tra
carabinieri e poliziotti che effettuano 6000 posti di blocco e 7000 perquisizioni domiciliari
controllando in totale 167.000 persone e 96.000 autovetture. Qualcuno dirà che si è trattato
soprattutto di operazioni di parata. La Commissione Parlamentare d’Inchiesta conclude che
la punta più alta di attacco terroristico ha coinciso con la punta più bassa del funzionamento
dei servizi informativi e di sicurezza.
Sergio Flamigni, membro della Commissione Moro, afferma: “Le indagini di quei 55 giorni
furono contrassegnate da una serie di errori, omissioni e negligenze. Basti citarne una: la
segnalazione giunta all’Ucigos al Viminale, una telefonata che comunicava i nomi dei
quattro brigatisti, le auto che usavano. Bene questa segnalazione fu trasmessa dall’Ucigos
alla Digos che era il corpo operativo per agire in quel momento con oltre un mese di ritardo.
Quando la Digos ebbe modo di avere questa segnalazione immediatamente individuò uno
dei brigatisti che tra l’altro era tenuto a presentarsi al Commissariato di Pubblica Sicurezza
perché era in libertà vigilata. Immediatamente seguendo questa brigatista sdi giunge a
individuare la tipografia di Via Pio Foà dove le Brigate Rosse stampavano i comunicati dei
55 giorni. Se questa comunicazione fosse stata trasmessa un mese prima, forse si poteva con
ogni probabilità individuare la traccia che portava alla prigione di Moro”.
Dalla rete :
In data 11 gennaio, l’ambasciatore statunitense [a Londra] ci ha comunicato che il
Dipartimento di Stato [Usa] ha recentemente inviato una serie di istruzioni alle sue sedi
diplomatiche, chiedendo di riferire le opinioni dei governi europei sull’attuale situazione
italiana. Brewster ha affermato che l’ambasciatore statunitense a Roma ha dipinto un quadro
decisamente fosco. Brewster ignora i motivi della convocazione [a Washington] di Richard
Gardner [ambasciatore Usa in Italia] per consultazioni. Tuttavia, alcune recenti informative
diramate dallo stesso Gardner suggeriscono che il rischio di una partecipazione del Pci al
governo [italiano] è ora maggiore. Inoltre, Gardner sembra particolarmente preoccupato
dalla possibilità che si verifichi una grave ricaduta dell’ordine pubblico. Brewster ignora chi
abbia messo in campo la circolare di Washington. A suo parere, potrebbe trattarsi di
“qualcuno del National security council (Nsc)”.
Anche noi abbiamo chiesto al Dipartimento per l’Europa occidentale [del ministero degli
Esteri britannico] una valutazione sull’Italia. Tuttavia, secondo Brewster, si tratta di una
stima meno allarmistica di quella statunitense. Brewster ha apprezzato il commento apparso
sul Financial Times dell’11 gennaio, sebbene non concordi con la tesi che l’attuale crisi di
governo sia stata aperta intenzionalmente dal Pci. Nel descrivere le nostre opinioni
sull’origine della crisi e sui suoi possibili sviluppi, egli ha trasmesso a Washington una
copia delle nostre analisi [v. documento KG E-5, di seguito].
Abbiamo letto il tuo telegramma n. 131. […] Attendiamo ora i commenti del nostro
ambasciatore a Roma [Alan Campbell].
DOCUMENTO KG E-10
DA PETER JAY (AMBASCIATORE BRITANNICO A WASHINGTON) ALL’FCO
(LONDRA), TITOLO: “TELEGRAMMA N. 86” (TELEGRAMMA N. 140), 12 GENNAIO
1978, ORE 22.10, CONFIDENZIALE.
Ho trasmesso a Bob Hunter (Nsc) le spiegazioni contenute nel paragrafo 1 del tuo
telegramma [v. KG E-9]. […] Hunter ha affermato che la decisione di emettere il
comunicato statunitense era da intendersi come un “ultimatum” [all’Italia]. Tuttavia,
considerata l’attenzione sollevata dalla questione dell’atteggiamento americano, si è deciso
di emettere il comunicato attribuendo grande importanza al tema della non ingerenza negli
affari interni dell’Italia. […].
*
DOCUMENTO KG E-11
DA PETER JAY (AMBASCIATORE BRITANNICO A WASHINGTON) ALL’FCO
(LONDRA), TITOLO: “IL MIO TELEGRAMMA N. 140: ITALIA” (TELEGRAMMA N.
141), 12 GENNAIO 1978, ORE 22.55, CONFIDENZIALE.
Il presidente Carter non ha (lo ripeto: non ha) fatto cenno alla situazione italiana durante la
sua conferenza stampa. Nelle ore precedenti, il portavoce del Dipartimento di Stato aveva
rilasciato la seguente dichiarazione: “La visita a Washington dell’ambasciatore statunitense
in Italia, Richard Gardner, ha fornito l’occasione per un giro d’orizzonte sulle nostre
politiche assieme ai nostri funzionari. Non vi è alcun cambiamento nell’atteggiamento
dell’amministrazione nei confronti dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, compreso
il Pci, sebbene i recenti sviluppi in Italia abbiano aumentato il livello delle nostre
preoccupazioni. […] I nostri alleati nell’Europa occidentale sono paesi sovrani e,
giustamente, la decisione su come devono essere governati spetta soltanto ai loro cittadini.
Al contempo, tuttavia, noi abbiamo l’obbligo di esprimere chiaramente le nostre opinioni ai
nostri amici e alleati. […] La nostra posizione è chiara: noi non favoriamo la partecipazione
dei comunisti ai governi dell’Europa occidentale e vorremmo vedere ridotta la loro
influenza in questi paesi”. […].
*
5. Al Dipartimento di Stato non ci si illude sull’efficacia della dichiarazione [del 12
gennaio]. Sospetto che molti veterani la considerino un gesto inutile oppure un atto di
disperazione (o entrambi) e, in ogni caso, inadeguata a imprimere un cambiamento reale al
corso degli eventi in Italia. La scorsa settimana, quando John Robinson ha sollevato la
questione con George Vest, questi si è scusato per il modo in cui l’intera faccenda è stata
gestita: sembrava decisamente scontento della dichiarazione. Ma il problema rimane. Che
cosa può effettivamente fare l’amministrazione Carter per aiutare Andreotti? Molto poco.
[…].
6. Almeno per ora, sembra sia da escludere anche un’operazione segreta [striscia nera a
nascondere due righe del testo in inglese]. Da un punto di vista politico più generale, le
difficoltà associate ad azioni di questo tipo non hanno bisogno di essere enfatizzate. Inoltre,
qualsiasi proposta di operazione segreta dovrebbe essere esaminata da almeno otto
commissioni del Congresso degli Stati Uniti. Di conseguenza, la possibilità di mantenerla
segreta sarebbe minima. Se si verificasse una fuga di notizie, anche in maniera confusa, le
reazioni sarebbero feroci e dannose, sia qui sia in Italia. Infine, da nessuna fonte si evincono
pressioni sull’amministrazione Carter perché ci si muova in tale direzione. Al contrario, qui
ci si rende ben conto – anche tra i “falchi” – che attività di questo genere in un paese
membro della Nato producono effetti scarsi, e che possono ritorcersi contro i loro artefici.
7. Malgrado le difficoltà, nei mesi avvenire l’amministrazione Carter continuerà certamente
a cercare il modo di far pesare in maniera attiva l’influenza americana. Ma le buone idee
scarseggiano. Se la situazione italiana dovesse ulteriormente deteriorarsi, gli americani
potrebbero essere costretti a divulgare nuove, preoccupate dichiarazioni nonché
potenzialmente dannose. E’ improbabile comunque che tali prese di posizione, anche se
redatte con parole ferme, siano in grado di soddisfare la “lobby italiana” al Congresso degli
Stati Uniti e la destra politica americana. Ma le critiche provenienti da questi ambienti
finiranno inevitabilmente per affrontare la seguente domanda: “Avete di meglio da
suggerire?”. Al momento, la risposta può essere soltanto una: “No”.
Dal blog di Giuseppe Casarrubea
Capitolo 10
Nelle elezioni anticipate del giugno 1979[1] il Pci perse il 4% dalle precedenti elezioni[2],
mentre il peso politico della Dc rimase invariato. Il Psi, che aveva vissuto gli ultimi anni
totalmente schiacciato tra la Dc e il Pci, con il cambiamento della leadership interna finita
nelle mani di Bettino Craxi e con il mutamento della situazione politica, pur rimanendo
stabile da un punto di vista elettorale, cominciò sempre di più a riprendere spazio, puntando
ad essere l’ago della bilancia tra i due principali partiti[3].
Il comportamento “corsaro” del Psi si manifestò anche dopo le elezioni regionali dell’8
giugno 1980, quando il Partito di Craxi mise in difficoltà il Pci, sceso in quelle elezioni al
31,5%[4], non riconfermando con esso l’alleanza in tutte le giunte costituite nel biennio
1975-76. La Dc, risalita al 36,8%, pur di riconquistare il maggior numero possibile delle
amministrazioni perse negli anni precedenti, in queste era solita offrire la guida al Psi,
ovviamente con l’obbligo per il Partito di Craxi di cambiare la maggioranza uscente. Dopo
avere a lungo oscillato, governando a livello locale sia con la Dc che con il Pci, il Partito di
Craxi formulò stabilmente, a livello nazionale, un’alleanza di governo con la Dc, facendo
pesare sempre di più, nelle richieste di posti di potere, il suo ruolo di partito di confine.
Anche i piccoli partiti, Pli, Pri e Psdi rientrarono nell’alleanza che fu detta, per il numero dei
partiti che la componevano, “pentapartito”. Il pentapartito, a differenza del centro-sinistra,
non si poneva l’obbiettivo di assumere un profilo riformatore, ma si caratterizzò
semplicemente per la tendenza innata alla conservazione del potere e alla spartizione dello
stesso, celando quest’intenzione dietro una parola molto in voga in quel periodo:
governabilità. Il Pci si ritrovò di nuovo all’opposizione e soprattutto completamente isolato.
La situazione si complicò ulteriormente con la rottura definitiva del Pci con l’Urss che
avvenne all’inizio degli anni ’80. Dopo avere duramente condannato l’invasione
dell’Afghanistan, ribadendo la volontà del Partito di non chiedere più l’uscita dalla Nato, fu
il colpo di Stato in Polonia a dire la parola fine nel rapporto tra il Pci e quello che poteva, a
quel punto, essere considerato ex Stato guida. Enrico Berlinguer, con un’intervista
televisiva, dichiarò conclusa la “spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”. La
dichiarazione, che destò grosso clamore, provocò un’importante frattura all’interno del
Partito, con l’ala filosovietica, diretta da Armando Cossutta, che insorse e cominciò una
battaglia interna che, raccogliendo consensi nella base nostalgica, continuò per motivazioni
diverse, fino alla fine del Pci.
Berlinguer, per uscire dall’isolamento in cui era caduto il Pci, provò a recuperare in Italia
quel ruolo di protagonista dell’opposizione sociale che si era ovviamente un po’ appannato
negli anni della solidarietà nazionale. Il Partito provò a ricostruire delle alleanze nella base
del Paese, cercando convergenze con le nuove forze sociali che chiedevano il rinnovamento
della società italiana e riprendendo i rapporti con quello che era il tradizionale riferimento
sociale del Pci: la classe operaia. In quest’ottica vanno lette le battaglie contro
l’installazione degli Euromissili, per la pace e, soprattutto, nella vertenza degli operai della
Fiat del 1980. Il Pci in quella lotta arrivò addirittura a scavalcare il ruolo della Cgil e la
sconfitta finale e quella riportata anni dopo nel referendum, che era stato fortemente voluto
da Berlinguer, per difendere la “scala mobile” cancellata da Craxi, segnarono in maniera
indelebile il Partito.
Il Pci cominciò ad accorgersi che la società stava mutando e che il Partito, così com’era,
cominciava ad essere uno strumento inadatto per fronteggiare e governare il cambiamento.
Gli iscritti cominciarono a calare con la stessa costanza con la quale erano aumentati fino al
1976 e nel Partito qualcuno cominciò ad immaginare che si fosse imboccata la via del
declino.
Certamente un momento di ripensamento e di necessità di un radicale cambiamento
Un momento di apprensione e di continui dibattiti all’interno sia della redazione del piccolo
giornale aziendale che nella sezione di partito
Un momento delicato anche per i 20000 lavoratori dell’alfa-sud,compreso l’indotto
Si cominciava a vociferare il passaggio definitivo,da sempre sospettato dell’azienda in mani
private
Ovviamente si parlava della Fiat come nuovo padrone
Un momento di vuoto di prospettive ma soprattutto di progetti alternativi
Era necessario rinsaldare i rapporti con il mondo del lavoro
Berlinguer incontra una folta rappresentanza di lavoratori dello stabilimento
Il segretario con loro trascorre quello che sarà un lungo pomeriggio, mentre sul suo tavolo si
affollano centinaia di fogli che iniziano tutti con la formula “Compagno Berlinguer voglio
chiederti...” prestampata dal partito, a cui loro hanno aggiunto domande, richieste,
riflessioni. I lavoratori si alzano in piedi, ognuno di loro si introduce dicendo nome e reparto
di appartenenza (presse, verniciature, ecc.), leggono le loro domande, inciampano sulla
pronuncia di Afghanistan, ma nei loro occhi c’è la gratitudine per quell’uomo minuto che
con pazienza e interesse prende appunti e ragiona con loro.
Berlinguer risponde con la sua voce ferma e precisa. Spiega con calma a quei compagni
quanto profondamente sia da rinnovare la società italiana per sradicare la disoccupazione e
soprattuto le sue cause. “Perché noi vogliamo una società che rispetti tutte le libertà. Meno
una. Quella di sfruttare il lavoro di altri esseri umani. Perché questa libertà tutte le altre
distrugge e rende vane”.
Cesare Annibaldi annuncia che l’esigenza, per la FIAT, sarebbe quella di licenziare 24.000
dipendenti (di cui 2.000 impiegati). Comunque è possibile evitarlo ponendo in Cassa
integrazione a zero ore, per 18 mesi dal 1° Ottobre, questi lavoratori.
La FLM dirama una nota in cui ribadisce di essere contraria “in queste condizioni” alla
mobilità esterna, perché essa significherebbe solo una mascheratura dei licenziamenti. E’
invece favorevole – conferma – a mobilità interna, blocco del turn over, prepensionamenti,
corsi di formazione per un riequilibrio anche qualitativo degli organici.
Viene giudicata inopportuna la dichiarazione pubblica di Cesare Del Piano (segretario
confederale CISL) che si è dichiarato favorevole alla riduzione dell’orario di lavoro.
Benvenuto, segretario generale della UIL, si dichiara favorevole anche alla mobilità
interaziendale “purché da posto a posto”.
A Cassino, per la questione dei ritmi, sciopero alla Verniciatura. La FIAT mette “in libertà”
3.200 operai.
Comune, provincia e regione incontrano la delegazione FIAT e dichiarano la propria
soddisfazione nel sentire che l’azienda vuole mantenere/recuperare un ruolo di primo piano
tra i produttori mondiali. Lamentano che non vengano fornite indicazioni sulla strategia e
sui programmi del gruppo
L’8 maggio 1980, due giorni dopo l’insediamento di Vittorio Merloni alla guida di
Confindustria, la FIAT, in crisi, propone la cassa integrazione per 78.000 operai per 8 giorni
Il 31 luglio Umberto Agnelli si dimette da co-amministratore delegato della Fiat.
Amministratore delegato unico resta Cesare Romiti. Romiti diventa il leader della linea dura
antisindacale, già iniziata nell’estate 1979 e culminata il 9 ottobre dello stesso anno, quando
erano stati licenziati 61 operai Fiat accusati spesso ingiustamente, come dimostrato da
appena quattro condanne, di violenze in fabbrica e sospettati di terrorismo.
Sul piano nazionale c’è a vari livelli la convinzione che il processo produttivo in particolare
le partecipazioni statali,che pur erano state il volano del miracolo economico
italiano,avevano fatto il suo tempo che si doveva cambiare
Capitolo 11
Il 2 agosto alle 10:25, nella sala d’aspetto di 2° classe della Stazione di Bologna Centrale,
affollata di turisti e persone in partenza o di ritorno dalle vacanze, un ordigno a tempo,
contenuto in una valigia abbandonata, esplode uccidendo ottantacinque persone e ferendone
oltre duecento. La città reagì con orgoglio e prontezza: molti cittadini prestarono i primi
soccorsi alle vittime e contribuirono ad estrarre le persone sotterrate dalle macerie. Non
essendo sufficienti le ambulanze per trasportare i feriti agli ospedali cittadini, vennero
impiegati anche autobus come il 37, auto private e taxi. Per curare i feriti medici e
infermieri tornarono dalle ferie e furono riaperti i reparti chiusi per l’estate.
La bomba era composta da 23 kg di esplosivo, una miscela di 5 kg di tritolo e T4 detta
“Compound B”, potenziata da 18 kg di gelatinato (nitroglicerina ad uso civile). L’esplosivo,
di fabbricazione militare, era posto in una valigetta sistemata a circa 50 centimetri d’altezza
su di un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala ovest della stazione, allo scopo
di aumentarne l’effetto.[1] La detonazione si udì nel raggio di molti chilometri e causò il
crollo di un’ala intera della stazione investendo in pieno il treno Ancona-Chiasso in sosta al
primo binario e il parcheggio dei taxi antistante.
Il governo, presieduto da Francesco Cossiga, e le forze di polizia attribuirono lo scoppio a
cause fortuite, ovvero all’esplosione di una caldaia nel sotterraneo della stazione. Non
appena apparvero più chiare le dinamiche e fu palese una matrice terrorista, attribuirono la
responsabilità della strage al terrorismo nero.
Già il 26 agosto 1980 la Procura della Repubblica di Bologna emise ventotto ordini di
cattura nei confronti di militanti di estrema destra dei Nuclei Armati Rivoluzionari: Roberto
Fiore e Massimo Morsello (futuri fondatori di Forza Nuova), Gabriele Adinolfi, Francesca
Mambro, Elio Giallombardo, Amedeo De Francisci, Massimiliano Fachini, Roberto Rinani,
Giuseppe Valerio Fioravanti, Claudio Mutti, Mario Corsi, Paolo Pizzonia, Ulderico Sica,
Francesco Bianco, Alessandro Pucci, Marcello Iannilli, Paolo Signorelli, PierLuigi Scarano,
Francesco Furlotti, Aldo Semerari, Guido Zappavigna, GianLuigi Napoli, Fabio De Felice,
Maurizio Neri. Vengono subito interrogati a Ferrara, Roma, Padova e Parma. Tutti saranno
scarcerati nel 1981.
Vi furono svariati episodi di depistaggio, organizzati per far terminare le indagini, dei quali
il più grave è quello ordito da parte di alcuni vertici dei servizi segreti del SISMI, tra i quali
Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, che fecero porre in un treno a Bologna, da un
sottufficiale dei carabinieri, una valigia piena di esplosivo, dello stesso tipo che fece
esplodere la stazione, contenente oggetti personali di due estremisti di destra, un francese e
un tedesco. Musumeci produsse anche un dossier fasullo, denominato “Terrore sui treni”, in
cui riportava gli intenti stragisti dei due terroristi internazionali in relazione con altri
esponenti dell’eversione neofascista, tutti legati allo spontaneismo armato, senza legami
politici, quindi autori e allo stesso tempo mandanti della strage.
LE IPOTESI AMERICANE NEI DOCUMENTI DELL’EPOCA
Gli Usa dissero: a Bologna strage di destra
Le prime analisi sull’attentato a firma dell’ambasciatore Usa Gardner “Sono stati i
neofascisti, BR e Prima Linea non usano esplosivi così”
CORRISPONDENTE DA NEW YORK
Paura per la presenza di vittime americane, convinzione della pista neofascista e timori per
la tenuta del governo Cossiga bersagliato dagli attacchi di Berlinguer e indebolito dalla
sfiducia di Craxi: così gli Stati Uniti vivono la strage di Bologna, secondo quanto si evince
dalle 74 pagine dattiloscritte di 32 documenti del Dipartimento di Stato, compresi fra il 2
agosto e il 19 settembre 1980, dei quali «La Stampa» ha ottenuto, dopo due anni e due
settimane, la declassificazione nel rispetto delle norme sul «Freedom of Information Act».
Dopo due ore esatte, un messaggio del Consolato Usa di Firenze firmato «Johnston»
informa il Segretario di Stato, Ed Muskie, dell’avvenuta «esplosione alla centrale
ferroviaria», precisando: «Non abbiamo informazioni di vittime americane». A Washington
però il timore di aver avuto morti c’è e il Consolato, alle 15,25, scrive ancora per fugarlo:
«Abbiamo parlato con la questura di Bologna, ci sono solo dieci stranieri feriti, sono tutti
tedeschi». Solo 24 ore dopo i diplomatici Usa scoprono che fra i feriti ci sono i connazionali
William Stephen Davis e Jeffrey Clay Davis, ma già il 4 agosto l’allarme a Washington
rientra, lasciando il posto alle prime analisi sull’attentato.
Dalla sede dell’ambasciata Usa in via Veneto è l’ambasciatore Richard Gardner che scrive a
Muskie un telegramma di cinque pagine nel quale indica la possibile matrice: «In Italia un
attentato dinamitardo terrorista suggerisce una responsabilità di estrema destra».
Gli effetti politici
Due i motivi - «analogie e modus operandi» - perché «per i due soli disastri simili, nel 1969
l’attentato a una banca milanese che uccise 16 persone e nel 1974 l’esplosione del treno
Italicus che fece 12 vittime, sono stati identificati responsabili neofascisti». Poi Gardner
aggiunge: «Da quanto abbiamo appreso su Brigate Rosse e Prima Linea, queste evitano
l’uso di potenti esplosivi perché non li immagazzinano né si addestrano al loro utilizzo». Da
qui l’ipotesi avanzata a Washington: «Siamo inclini ad accettare l’ipotesi neofascista». Con
l’unico dubbio che «potrebbe essere un attentato orchestrato dall’estero e il leader del Psdi
Pietro Longo ipotizza un responsabilità africana, presumibilmente libica». Ciò che più
preme spiegare a Gardner, però, sono gli effetti politici della strage di Bologna: «Il
presidente Pertini, il primo ministro Cossiga, il leader del Psi Craxi e il ministro degli
Interni Rognoni sono fra i primi a essere andati a Bologna, ma fonti del Consolato a Firenze
affermano che alcuni dimostranti in loco hanno avuto forti toni contro il governo, urlando
contro la sede della Dc e insultando Craxi».
Il telegramma di Carter
Si tratta di proteste che preoccupano Via Veneto, perché «le indagini saranno lente e
difficili, mentre i comunisti hanno messo a segno punti preziosi sulla propaganda,
enfatizzando la presenza di elementi fascisti nel terrorismo italiano e mettendo sotto
pressione il governo». Il timore è che traballi l’esecutivo di Cossiga. «Si aggiunge
un’ulteriore preoccupazione a un esecutivo segnato dai problemi» e per il premier «sarà
difficile far andar via il sentimento di disperazione e rabbia con cui l’Italia ha reagito alla
strage». E’ dopo aver letto l’analisi di Gardner che il Segretario di Stato Muskie scrive il
telegramma del presidente Jimmy Carter a Sandro Pertini. Arriva a Roma alle 23,25 del 4
agosto e recita: «A nome del popolo americano Le comunico lo shock e l’orrore che
proviamo di fronte alla strage della stazione. Siamo al fianco di tutti gli italiani». L’intento è
di rafforzare le istituzioni repubblicane. Ma i timori di svolte pro-Pci restano.
L’indomani, alle 17,09, Gardner torna a scrivere a Washington per avvertire sulle «tensioni
politiche in crescendo in Italia». Il discorso di Cossiga al Senato, con l’appello alla coesione
nazionale e le accuse ai neofascisti, lasciano dubbioso l’ambasciatore, secondo il quale ciò
che più conta è che «il segretario del Pci Berlinguer ha lungamente attaccato il governo
accusando Cossiga di lasciare l’Italia senza timone di fronte a terrorismo e crisi
economica». Il premier, d’altra parte, è «ovviamente stanco» e «non presenta nuove prove
sulla matrice di destra», mostrando così il fianco all’opposizione. «Ciò che Cossiga fa osserva Gardner - è appellarsi all’unità nazionale, ma se intendeva ammorbidire il Pci non
c’è riuscito, perché Berlinguer ha firmato un raro articolo sulla prima pagina dell’Unità,
accusando i vertici del governo di inettitudine, favorendo così iniziative sovversive».
Eventuali mandanti della strage non sono mai stati scoperti.
p.s
loggia P2
È molto probabile che la Loggia P2, che si è delineata come un vero e proprio servizio
segreto atlantico, fosse stata trasformata anche in una sede di raccordo e di incontro tra tutte
le strutture parallele che gestivano il potere reale in Italia.
Nelle liste della P2, rinvenute il 17 marzo 1981 nella villa di Gelli di Castiglion Fibocchi,
risultavano iscritti numerosi nomi di dirigenti dei servizi segreti:Miceli, Maletti, La Bruna,
D’Amato, Fanelli, Viezzer.
Vi risultavano anche Giuseppe Santovito, Grassini e Walter Pelosi, capo del CESIS dal
maggio 1978.
C’erano i nomi di numerosi altri dirigenti, tra cui Musumeci, capo della segreteria di
Santovito, Sergio Di Donato e Salacone, dell’ufficio amministrativo…
Nelle liste della P2 c’era anche una nutrita schiera di funzionari del SISDE.
Per molti iscritti la data di iniziazione era immediatamente precedente o successiva al
passaggio nei servizi segreti.
Nel 1962-64 il generale De Lorenzo e il SIFAR predisposero principalmente un’attività di
schedatura dei cittadini e di preparazione di un possibile colpo di Stato.
Negli anni settanta i dirigenti del SID (mutamento del nome del servizio segreto da SIFAR a
SID, dopo lo scandalo del “piano Solo”) esplicarono soprattutto azioni per proteggere
eversori di destra e sospetti autori di stragi.
Gli ufficiali del SISMI, che ne costituirono le strutture occulte, nel 1978-81 spaziarono dalla
trattativa trilaterale con Br e camorra per la liberazione di Cirillo, al depistaggio dei giudici
impegnati nelle indagini sulla strage del 2 agosto alla stazione di Bologna, dalla operazione
“Billygate” al peculato, dalle macchinazioni nei confronti dei collaboratori del capo dello
Stato alla diffusione di notizie calunniose attraverso la stampa, da loro stessi finanziata.
A somiglianza della P2, della quale per altro la struttura era una articolazione, il
SUPERSISMI svolgeva un amplissimo ventaglio di attività, tutte direttamente o
indirettamente finalizzate a intervenire nella sfera politica, il che era, con tutta evidenza,
incompatibile con le finalità d’istituto.
Quando Gelli nel marzo del 1965 s’iscrisse alla massoneria nella loggia del Grande Oriente
“Romagnosi” di Roma, aveva già delle buone credenziali come fascista della repubblica di
Salò.
Contava sull’amicizia con Giulio Andreotti e referenze con gli ambienti del Vaticano, una
lista di cinquanta nuovi iscritti molto qualificati.
Aveva legami con molti ufficiali dei servizi segreti, in particolare col generale Giovanni De
Lorenzo e con il colonnello dell’Arma dei Carabinieri Giovanni Allavena, reduci dalle trame
del “piano Solo”, (che sarebbe scattato se il governo di centrosinistra avesse adottato un
programma autenticamente progressista), e dallo scandalo delle schedature del SIFAR, il
nostro servizio segreto che in pochi anni aveva raccolto 157 mila dossier, per usarli come
arma di ricatto su politici, militari, giornalisti, preti, privati cittadini, uomini di cultura.
Questi dossier passarono molto probabilmente nelle mani di Gelli, che ne fece uno degli
strumenti del suo stesso potere.
Allo stesso De Lorenzo, capo del Sifar, venne dato il compito di organizzare l’esercito
clandestino di Gladio.
Nel 1962, quando Antonio Segni salì al Quirinale, De Lorenzo era impegnato con gli uomini
della CIA di Roma a creare “squadre d’azione per compiere attentati contro le sedi della
Democrazia cristiana e di alcuni quotidiani del Nord, da attribuirsi alle sinistre; sono
necessari altresì gruppi di pressione che chiedano, a fronte degli attentati, misure di
emergenza al governo e al capo dello Stato.”
(Il brano è tratto da un memorandum dei servizi segreti americani ratificato da De Lorenzo).
La carriera di Gelli in Massoneria fu velocissima.
Nel dicembre del 1966, poco più di un anno dopo la sua iscrizione alla massoneria, venne
nominato capo della loggia HOD, nota come P2, la più importante e misteriosa di tutto il
Grande Oriente.
La Commissione parlamentare d’inchiesta ha sottolineato che il ruolo di Gelli crebbe di pari
passo col defilarsi di Frank Gigliotti ormai anziano.
Gigliotti, uomo della CIA, era un feroce anticomunista, amico di molti mafiosi siciliani, ex
agente della OSS, la rete di spionaggio degli Stati Uniti in Italia durante la guerra.
Dalle logge massoniche americane gli era stato affidato il compito di rimettere insieme
quello che rimaneva della massoneria conservatrice di piazza del Gesù, con il Grande
Oriente di palazzo Giustiniani.
Gigliotti rimise in circolo logge come la “Alam” del principe Giovanni Alliata di
Montereale, protagonista di almeno un paio di mancati golpe e amico di boss mafiosi e
finanzieri alla Michele Sindona.
Gelli stesso rivendicherà sempre con orgoglio i legami con la destra americana più
reazionaria.
I legami tra la CIA e la P2 sono stati confermati in un’intervista al TG1 nel 1990, dalle
rivelazioni di Richard Brenneke e Razin, ex agenti della CIA, sui finanziamenti dei servizi
segreti americani alla P2.
Presero, quindi, l’avvio le inchieste che portarono a scoprire il ruolo della CCI, la “Kriminal
Bank”, usata dalla CIA e dai trafficanti internazionali di valuta e di armi.
I due agenti parlarono anche di qualcosa molto simile a Gladio.
Razin era stato addirittura supervisore della Gladio europea.
Questa intervista scatenerà una delle prime esternazioni del presidente Cossiga e porterà alla
rimozione del direttore del telegiornale, Nuccio Fava, e alla esautorazione del giornalista
Ennio Remondino, autore dell’inchiesta.
Per Cossiga, allora capo dello Stato , era inammissibile che i servizi di sicurezza di un paese
amico venissero attaccati in quel modo.
Bisognava prendere provvedimenti contro dirigenti e funzionari Rai.
Con altrettanta foga reagì qualche mese dopo, dando del “giudice ragazzino” a Casson che
voleva interrogarlo su Gladio.
Nella sua testimonianza resa ai giudici di Bologna, che indagavano sul coinvolgimento del
capo della P2 nella strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, Tommaso Masci,
primo portiere nella seconda metà degli anni 70 dell’albergo romano Excelsior, di cui Gelli
era in quel periodo cliente fisso, tracciava una descrizione efficace del formicolio dei potenti
intorno a Licio Gelli.
Tra i visitatori di Gelli c’erano politici, militari, giornalisti, alti funzionari dello Stato,
banchieri. Tra coloro che lo frequentavano, c’erano Andreotti, Cossiga, Craxi, Fanfani, solo
per fare i nomi più noti.
Tra i visitatori c’era anche il bombarolo Paolo Aleandri, il terrorista di destra a cui Gelli
aveva affidato il compito di mantenere i contatti con Filippo de Jorio, consigliere politico
dell’onorevole Andreotti, che era latitante per il golpe Borghese del 1970.
Lo stesso Aleandri incontrò nella stanza di Gelli il generale Vito Miceli, capo del SID, cioè
l’uomo che avrebbe dovuto arrestarlo.
Verso la fine del 1979 Alfredo De Felice, della cerchia dei neofascisti, assistette ad un
incontro tra Gelli e il ministro del Commercio Estero Gaetano Stammati, che doveva
sottoporre a Gelli le bozze di un decreto economico del Governo.
Il deputato democristiano si iscrisse alla loggia P2 nel 1977 e, poco dopo, diventò ministro
del Commercio estero del governo Andreotti.
Dopo le elezioni del giugno 1979, l’incarico di formare il nuovo governo fu dato a Cossiga,
che affidò il ministero del Commercio Estero a Stammati, quando, precedentemente, lo
aveva promesso al liberale Altissimo.
Alle inferocite rimostranze dei liberali, Cossiga rispose: “Non ne ho potuto fare a meno; ho
ricevuto tante pressioni…”.
Nello stesso tempo Gelli, nella sua stanza all’Excelsior, si vantava con gli amici di avere
imposto Stammati.
L’attività della P2 negli anni ‘70 era frenetica.
C’era la pratica costante della raccomandazione e c’erano gli affari, e gli affari intrecciati
col potere che lo alimentavano.
Degli affari citiamo i più noti: l’ Eni-Petronim, il banco Ambrosiano, il crak della Banca
Privata di Sindona, la scalata al “Corriere della Sera”, tutti collegati a scandali e cadaveri
come quello di Calvi, penzolante sotto un ponte di Londra o quello di Ambrosoli,
liquidatore della banca Privata di Michele Sindona.
A volte gli uomini della P2 si servirono delle organizzazioni criminali: mafia, camorra,
‘ndrangheta.
Collegamenti accertati dalle inchieste giudiziarie sul finto rapimento di Sindona, sul caso
Cirillo, sulla strage del rapido 904, sull’omicidio di Roberto Calvi.
I nomi degli iscritti alla P2 ritornano con ossessiva puntualità in tutte le indagini sui misteri
d’Italia: la strage sul treno Italicus, il caso Moro, la strage della stazione di Bologna del 2
agosto 1980, il delitto Mattarella, il traffico di armi e droga, solo per citarne alcuni.
Il treno “Italicus”, linea ferroviaria Firenze-Bologna, il 4 agosto 1974 verso sera tardi, venne
squassato dalla forte esplosione di una bomba ad altissimo potenziale:12 persone morte e
105 feriti.
Apparve certo, fin da subito, che la strage era opera del neonazismo. Le indagini si diressero
sul gruppo di neofascisti di Arezzo e precisamente su Franci, Malentacci e Tuti, che avevano
legami anche con la P2. I tre sono rinviati a giudizio e poi assolti. Il giudice istruttore di
Bologna Angelo Vella, affiliato alla massoneria locale, non coinvolge nessun piduista.
Il neofascismo terrorista era coinvolto nella grande operazione presidenzialista, che
rappresentava e rappresenterà lo scopo principale a cui tende, trasversalmente a tutti i partiti,
la politica italiana.
Luciano Violante, partendo dal golpe presidenzialista, era arrivato ai gruppi terroristici di
estrema destra. “Sussistono prove - scrive - di una corrispondenza tra Edgardo Sogno e
l’avvocato Antonio Fante di Padova…Che dagli elementi in atti appare che tale
corrispondenza abbia ad oggetto la costituzione di una organizzazione intesa a raggruppare
tutti i gruppi di estrema destra, tra i quali anche Ordine Nuovo, in epoca successiva al
decreto di scioglimento di questo gruppo.”
Spiega, inoltre, nella sua requisitoria contro Sogno e Cavallo, Violante: “..Va considerato
che l’allertamento disposto venne a conoscenza di quei settori militari che molteplici fonti di
prova indicano come interessati all’iniziativa eversiva, disincentivando per il momento la
realizzazione del piano…”
I giudici milanesi Turone e Colombo arrivarono alla scoperta degli archivi di Gelli
indagando sul finto rapimento e il soggiorno in Sicilia del bancarottiere Michele Sindona.
I giudici milanesi, come quelli di Palmi, che indagavano sulle nuove logge coperte,
scoprirono che attraverso la P2 passavano molti dei misteri e degli scandali italiani di quegli
anni, e furono costretti a suddividere in capitoli il materiale raccolto:
· la P2 e lo scandalo Eni;
· la P2 e il Banco Ambrosiano;
· la P2 e lo scandalo dei petroli;
· la P2 e la magistratura;
· la P2 e la Rizzoli;
· la P2 e i segreti di Stato;
· la P2 e i finanziamenti all’eversione nera;
· la P2 e le stragi;
· la P2 e il sequestro Moro;
· la P2 e il caso Pecorelli.
Un altro gigantesco capitolo fu aperto dall’inchiesta del giudice Carlo Palermo sul traffico
di armi, che coinvolgeva molti piduisti e da cui trasparivano forti legami con la criminalità
organizzata e col traffico di droga………….
Un intreccio solido quello che traspare dalle inchieste giudiziarie su mafia e massoneria.
Prima che i giudici di Palmi riaprissero il capitolo oscuro dei rapporti tra massoneria, traffici
di armi, affari sporchi e criminalità, altre logge coperte erano finite in inchieste della
magistratura.
A Palermo il giudice Falcone, prima di essere costretto a trasferirsi a Roma, si era a lungo
occupato di massoneria. Aveva scoperto la loggia di via Roma 391, dove politici locali e
funzionari pubblici venivano iniziati, insieme a mafiosi del calibro di Michele Greco e
Giovanni Cascio, del quale molti anni dopo verrà intercettata una telefonata in cui si parlava
in termini amichevoli di Gelli.
Gran maestro della loggia di via Roma era Pietro Calacione, direttore sanitario dell’ospedale
Civico di Palermo e il Civico, forse non per una semplice coincidenza, era uno dei feudi
elettorali dell’onorevole Salvo Lima.
Falcone si era occupato di un’altra inchiesta sull’intreccio tra mafia e massoneria e le
indagini dei carabinieri si erano svolte in tre direttrici: logge massoniche, rilevamento di
società sull’orlo del fallimento, contatti con i politici.
Le indagini erano arrivate fino a Roma e a Milano.
Pino Mandalari, capo di alcune logge, poi condannato a due anni di carcere per riciclaggio
di denaro sporco, in una telefonata intercettata, si vantava di potere arrivare fino alla
segreteria di Bettino Craxi; in altre telefonate si parlava del generale Cappuzzo, siciliano già
iscritto alla P2, di Salvo Lima, di alcuni sottosegretari di governo.
Inesplorata resta la questione delle coperture assicurate a Gelli dai politici, a cominciare da
Andreotti, suo grande amico, poi da Cossiga, da Fanfani, da Craxi, da Forlani e da molti
altri.
Fu scoperto che dietro la sigla del circolo Scontrino di Trapani si celavano ben sei logge
massoniche e una superloggia coperta( loggia C), con iscritti deputati regionali, alti
funzionari e mafiosi.
La loggia C saltò fuori anche nelle indagini del giudice Augusto Lama di Massa Carrara, sui
traffici di armi di Aldo Anghessa, un collaboratore dei servizi segreti italiani. Questa storia
intricata vede coinvolti anche dei neofascisti che, secondo una sentenza della magistratura,
avrebbero ricevuto tra l’altro finanziamenti da Licio Gelli.
E’ un intreccio solido quello che traspare dalle inchieste giudiziarie su mafia e massoneria
delle logge coperte.
Uno studio attento della struttura massonica più conosciuta, la P2, fa rilevare che la regione
più rappresentativa tra gli iscritti alla loggia di Gelli è proprio la Sicilia, che non è,
storicamente, una terra di grandi tradizioni massoniche.
La P2,quindi, risultò coinvolta in molte inchieste giudiziarie sulle stragi e su alcuni omicidi
politici
Non è un caso che a Castiglion Fibocchi, alla villa di Gelli, perquisita dai carabinieri per
ordine dei magistrati milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone, il 17 marzo 1981, i
giudici milanesi siano arrivati, indagando sul misterioso soggiorno in Sicilia di Michele
Sindona, il bancarottiere di Patti, iscritto alla P2 e legato a filo doppio ad Andreotti.
Nel corso del suo finto sequestro, Sindona si era avvalso dell’appoggio, tanto della
massoneria quanto della mafia.
Proprio durante il suo soggiorno in Sicilia, nell’estate del 1980, si aprì, con gli omicidi del
commissario Boris Giuliano e del giudice Cesare Terranova, la stagione dei cosiddetti delitti
“eccellenti”.
E’ solo un caso che nella stessa estate ci sia la strage alla stazione di Bologna?
Il 20 maggio 1981, il governo messo alle strette dallo scandalo, comunicò al Parlamento la
lista dei presunti aderenti alla loggia segreta P2 di Licio Gelli, alla quale risultavano affiliati,
tre ministri, un segretario di partito, i vertici dei servizi segreti, militari, imprenditori,
parlamentari, banchieri, giornalisti. .
Ogni nome era preceduto da un numero di fascicolo e da un numero di gruppo; seguiva un
“codice”, al quale talvolta seguiva il numero della tessera e un appunto relativo alle quote
sociali.
Nella lista c’erano: 52 alti ufficiali dei Carabinieri, 50 dell’esercito,
37 della Guardia della Finanza, 29 della Marina, 11 Questori, 5 Prefetti, 70 imprenditori,
(uno era un famoso costruttore di Milano, figlio di un dipendente della Banca Rasini,
pluriinquisito e pluriindagato), 10 presidenti di banca, 3 ministri in carica, 2 ex ministri, il
segretario di un partito di governo, 38 deputati,14 magistrati, sindaci, primari ospedalieri,
notai e avvocati.
Gli elenchi della loggia segreta P2 del Venerabile Maestro Gelli, come si può notare, erano
impressionanti: politici, imprenditori, giornalisti, alti gradi delle forze armate, tutori
dell’ordine pubblico, funzionari dello stato, dirigenti dei servizi segreti, magistrati. E
ancora,119 piduisti già insediati ai vertici delle maggiori banche, nel ministero del tesoro, e
in quello delle finanze.
Gente che spesso aveva giurato fedeltà e obbedienza tanto alla Costituzione Italiana quanto
alla massoneria.
Secondo la commissione parlamentare d’inchiesta, l’elenco completo degli iscritti alla P2
era all’incirca di 2500 nomi; ne mancano 1650. Solo la magistratura ha avuto il coraggio di
punire gli appartenenti alla P2.
L’assoluzione più sconcertante è stata quella dei militari, voluta dal ministro della Difesa
Lagorio, socialista e iscritto alla massoneria.
Tratto da: LA RAGNATELA: DALLE TRAME NERE AL GOVERNO BERLUSCONI.
Traccia storica e considerazioni di Renata Franceschini, Soccorso Popolare - Padova
Capitolo 12
Ormai da qualche mese mi ero licenziato dall’alfa romeo
Uno dei primi messi nella lista di mobilità
Avevo fatto diverse supposizioni del perché fossi stato praticamente licenziato ma
veramente non me ne veniva nessuna,se non quella delle iniziali del mio cognome
Veramente mi avevano proposto un ennesimo corso di aggiornamento che rifiutai
Lasciai l’appartamento dove avevo abitato nell’illusione di un benessere durevole e ne scelsi
uno meno caro
Una stanza e cucina
Avevo fatto costruire un soppalco a metà stanza da letto dove dormivo con mia moglie ;i
due bambini in quello che da quel momento sarebbe stato il mio salotto-soggiorno.
Quella sera tornavo a casa,dopo due giorni di assenza
Ero stato in Calabria da parenti che ptesero aiutarmi a trovare un lavoro;la liquidazione
stava agli sgoccioli
Cercai di mascherare con un vassoietto di dolci la mia ennesima sconfitta,ancora una volta
niente
Aprii la porta e mia moglie mi accolse piangendo
Riuscì solo a mormorare : Berlinguer è in coma!
“Un ictus cerebrale lo ha colpito al termine di un comizio elettorale a Padova. Nella notte, il
leader del Pci è stato sottoposto a un lungo e delicato intervento chirurgico: è entrato in
camera operatoria a mezzanotte e 15 minuti e c’ è rimasto fin quasi all’ alba. “Le sue
condizioni sono gravissime”, affermano i medici della clinica neurologica dell’ Università.
A Padova, sempre nella notte sono giunte la moglie e le figlie accompagnate dal senatore
Pecchioli e dal professor Francesco Ingrao. Il primo bollettino medico, emesso a mezzanotte
e mezzo dai professori Enrico Schergna, Salvatore Mingrino e Giampiero Giron, afferma
che “gli accertamenti clinici e strumentali hanno documentato l’ esistenza di uno
spandimento emorragico, per cui si è ritenuto opportuno procedere a un intervento
chirurgico”. In una serata fredda, sotto un cielo pieno di nuvole che minacciavano pioggia,
Enrico Berlinguer aveva cominciato a parlare in piazza della Frutta, nel cuore di Padova,
alle 21,30 davanti a oltre 5.000 militanti comunisti giunti da tutto il Veneto. Accanto a lui i
dirigenti locali del parito: Lalla Trupia, candidata alle europee, il segretario regionale del Pci
Gianni Pellicani, il segretario padovano Pietro Folena. Le immagini del comizio venivano
riprese anche da una telecamera e diffuse attraverso uno schermo situato alle spalle dell’
oratore. Berlinguer ha parlato normalmente per circa la metà del suo comizio, sottolineando
anzi con energia alcuni passaggi chiave dal punto di vista politico, soprattutto quando si
soffermava a parlare, in termini critici, dell’ azione del governo, della mozione di fiducia
richiesta ieri al Senato, delle accuse di Formica ad Andreotti. “Siamo ancora una volta in
presenza di una situazione che va precipitando, di fronte a un momento pieno di insidie per
le istituzioni della Repubblica. Ma è certo che...”. Improvvisamente il leader comunista è
impallidito, il tono della sua voce è calato di colpo, la frase è rimasta a metà. Nella piazza è
piombato il silenzio. Berlinguer si è voltato, le spalle al microfono, per prendere un
bicchiere d’ acqua, ma appena l’ ha bevuto è stato colto da alcuni colpi di tosse. Lo schermo
gigante della federazione del Pci dava l’ immagine del malore che aveva colpito il segretario
a tutta la folla presente nella piazza. Berlinguer ha avuto un conato di vomito, ma poi si è
ripreso quasi subito. Ed è andato avanti. Così Antonio Tatò, braccio destro del segretario del
Pci, racconta la fine del comizio: “Abbiamo capito subito che Berlinguer stava male. Gli
abbiamo detto: non parlare più, vieni via”. “Ma lui - prosegue Tatò - ci ha fatto segno di no,
voleva finire il discorso. E ce l’ ha fatta, nonostante le nostre insistenze. Si è interrotto altre
due, tre volte, la sua voce si è affievolita, ha saltato qualche passo del discorso, ma è
arrivato alla fine. Si reggeva in piedi a fatica, è sceso dal palco e si è seduto. Berlinguer ha
vomitato, s’ è portato una mano alla testa e ha chiuso gli occhi. Abbiamo subito capito che
stava molto male”. Un esponente della federazione padovana del Pci ha annunciato alla folla
che il discorso era concluso e che “il compagno Berlinguer” aveva “preso solo un po’ di
freddo, non ha niente, il comizio è finito”. La gente è sfollata tranquillamente ma il malore
di Berlinguer era sempre più evidente. Il segretario del Pci è stato sorretto da alcuni
esponenti del servizio d’ ordine che gli stavano attorno. A braccia è stato caricato su un’
auto. Le sue condizioni sono apparse subito molto gravi. Il segretario comunista è stato
quindi portato con la sua Alfetta all’ hotel Plaza, dove alloggiava, e di qui è stato chiamato
subito il medico dell’ albergo, che ha proceduto ad un primo sommario consulto col dottor
Lenci, il medico del seguito di Berlinguer. I due sanitari sono stati unanimi subito nel
valutare molto gravi le condizioni del segretario. Qualcuno ha parlato anche della possibilità
che si trattasse di ictus cerebrale, e del timore che potesse insorgere uno stato di coma.
Berlinguer difatti sembrava stesse per perdere conoscenza da un momento all’ altro. I medici
hanno deciso di farlo ricoverare. E’ stata chiamata un’ ambulanza, che è partita poco dopo a
sirene spiegate verso la Clinica neurologica dell’ ospedale padovano. Portato nella stanza al
primo piano, della Clinica neurologica, Berlinguer è stato subito sottoposto a una serie di
esami, che hanno rivelato ben presto la gravità del male e lo spandimento emorragico. Poco
dopo mezzanotte si sono aperte le porte della sala operatoria e l’ onorevole Berlinguer è
stato sottoposto ad una delicata operazione al cervello. Alle 2, da Botteghe Oscure hanno
comunicato che i medici erano riusciti a bloccare l’ emorragia, e le condizioni del cuore del
paziente venivano definite “buone”, ma l’ intervento non era ancora concluso. Il presidente
della Repubblica ha chiesto ai medici di Padova di essere costantemente informato delle
condizioni di Berlinguer. Da Londra, dove partecipa al vertice dei sette paesi più
industrializzati dell’ occidente, il presidente del Consiglio Bettino Craxi si è messo in
contatto con l’ ospedale e la prefettura di Padova per avere notizie del segretario del Pci.
Anche il segretario della Dc, De Mita, ha telefonato da Taranto. A Roma, intanto, i dirigenti
del partito presenti nella capitale si sono subito riuniti a Botteghe Oscure. Natta,
Chiaromonte, Napolitano, Occhetto, Ingrao e Minucci sono arrivati per primi nella sede
della Direzione.
Enrico Berlinguer ha compiuto 62 anni il 25 maggio scorso. Deputato dal 1968, è segretario
del Pci dal marzo del 1972.
Oggi l’ “Unità” uscirà in edizione straordinaria. - dal nostro inviato ROBERTO BIANCHIN
******
Un popolo intero trattiene il respiro e fissa la bara,
sotto al palco e alla fotografia.
La città sembra un mare di rosse bandiere
e di fiori e di lacrime e di addii.
Eravamo all’Osteriola, una sera come tante,
a parlare come sempre di politica e di sport,
è arrivato Ghigo Forni, sbianchè come un linsol, (..., bianco come un lenzuolo,)
an s’capiva ‘na parola du bestemi e tri sfundon. ( non si capiva una parola due bestemmie e
tre strafalcioni.)
”Hanno detto per la radio che c’è stata una disgrazia,
a Padova è stato male il segretario del PCI”
Luciano va al telefono parla in fretta e mette giù
”Ragazzi, sta morendo in compagno Berlinguer”.
Pipein l’è andè in canteina (...è andato in cantina)
a tor des butiglioun, (a prendere dieci bottiglioni)
a i’am fat fora in tri quert d’ora, ( li abbiamo fatti fuori in tre quarti d’ora)
l’era al vein ed l’ocasioun ( era il vino delle occasioni)
a m’arcord brisa s’le suces ( non ricordo cosa è successo)
d’un trat as’sam catee ( d’un tratto ci siamo trovati)
in sema al treno c’as purteva ( sul treno che ci portava)
ai funerel ed Berlinguer. ( ai funerali di...)
A Modena in stazione c’era il treno del partito,
ci ha raccolti tutti quanti, le bandiere e gli striscioni
a Bologna han cominciato a tirare fuori il vino
e a leggersi a vicenda i titoli dell’Unità.
C’era Gianni lo spazzino con le carte da ramino,
ripuliva tutti quanti da Bulagna a Sas Marcoun, (...da Bologna a Sasso Marconi)
ma a Firenze a selta fora Vitori “al professor”, ( ma a Firenze salta fuori Vitorio “il
professore”,)
do partidi quattro a zero dopo Gianni l’è stè boun. ( due partite quattro a zero dopo Gianni è
stato buono)
I vecc i an tachee ( I vecchi hanno cominciato)
a recurder i teimp andee, ( a ricordare i tempi andati)
i de d’la resisteinza ( i giorni della Resistenza)
quand’i eren partigian ( quando erano partigiani)
a’n so brisa s’le cuntee ( non so se sia contato)
ma a la fine a s’am catee ( ma alla fine ci siamo trovati)
in sema al treno c’as purteva (sul treno che ci portava)
ai funerel ed Berlinguer. ( ai funerali di...)
Gli amici e i compagni lo piangono, i nemici gli rendono onore,
Pertini siede impietrito e qualcosa è morto anche in lui.
Pajetta ricorda con rabbia e parla con voce di tuono
ma non può riportarlo tra noi.
Roma Termini scendiamo, srotoliamo le bandiere,
ci fermiamo in piazza esedra per il solito caffè
parte Gianni il segretario e nueter tot adree (...e noialtri tutti dietro)
per andare a salutare il compagno Berlinguer.
Con i fazzoletti rossi ma le facce tutte scure,
non c’era tanta voglia di parlare tra di noi,
po’ n’idiota da ‘na ca la tachè a sghignazer, ( poi un’idiota da una casa ha cominciato a
sgnignazzare)
a g’lom cadeva a tgnir ferem Gigi se no a’l finiva mel. ( siamo riusciti a tenere fermo Gigi
se no finiva male)
A sam seimpre ste de dre ( Siamo sempre stati dietro)
e quand’a sam rivee ( e quando siamo arrivati)
la piaza l’era pina ( la piazza era piena)
”ma quant comunesta a ghè” (“ma quanti comunisti ci sono”)
a’n g’lom cadeva a veder un caz ( non siamo riusciti a vedere un cazzo)
ma anc nueter as’ sam catee ( ma anche ci siamo trovati)
in sema al treno c’as purteva (sul treno che ci portava)
ai funerel ed Berlinguer ( ai funerali di...)
Pipein l’è andè in canteina
a tor des butiglioun,
a i’am fat fora in tri quert d’ora,
l’era al vein ed l’ocasioun
a m’arcord brisa s’le suces
d’un trat as’sam catee
in sema al treno c’as purteva
ai funerel ed Berlinguer.
I FUNERALI DI BERLINGUER
da “Riportando tutto a casa” (6’38”), una versione unplugged nel minicd allegato al libro
“L’Italia ai tempi dei MCR” (6’31”).a storia dei funerali di Enrico Berlinguer nel giugno ‘84
vista da un gruppo di militanti di Carpi che volle parteciparvi.
Capitolo 11
Ormai era un anno che vivevo in una piccola cittadina alla periferia di Bologna
Ero riuscito finalmente dopo cinque anni a trovare lavoro,a rifare il mio mestiere
La mia famiglia era ancora a Napoli e come tutti “gli emigranti” e gli studenti avevo trovato
un posto letto
Pagavo 250 mila lire al mese una camera condivisa con uno studente calabrese
Il proprietario era un operaio e sindacalista della cgil della Marelli che aveva ereditato
l’appartamento dal padre
Un parco di case popolari costruito negli anni 70 che gli inquilini avevano riscattato dopo
pochi anni per esigenze di” cassa “del comune
Qualche studente aveva scritto sotto un volantino di offerta posti letto :
“Bologna città dai tetti rossi e dai camini tristemente neri “
Avevo ripreso anche la mia attività di partito e fatto stimare dal giornale locale per alcuni
articoli che avevo mandato sotto forma di lettere
Ben presto mi chiamarono in redazione
Il 9 novembre del 1989 cade il Muro di Berlino.
È una data emblematica e un punto di svolta per la società politica internazionale. Insieme al
Muro, alla paziente tessitura di Solidarnosc, con il suo epilogo, alla sweet revolution di
Ungheria, Bulgaria, Romania, crolla infine l’impero comunista.
La perestrojka, il nuovo corso inaugurato da Gorbaciov con la sua politica della glasnost,
della trasparenza, porta al crollo del colosso sovietico: il tentato golpe dell’agosto del ’91
spiana la strada al nuovo governo di Eltsin; segue il movimento secessionista delle quindici
repubbliche sovietiche,che segna la fine dell’impero sovietico e con esso di una lunga fase
della storia europea e mondiale segnata dalla guerra fredda
Dalle lettere che arrivavano in redazione si poteva capire il travaglio e il dolore di molti
compagni nel costatare quello che da quasi un ventennio prima quasi bisbigliato ,poi sempre
più ad alta voce,fino a gridarle che quel sistema aveva fallito
Non era riuscito a trovare un equilibrio tra :libertà individuali e controllo mezzi di
produzione ;dare cioè vita ad un mercato libero equo -sostenibile
C’era l’impressione,in molte di quelle lettere che arrivavano in redazione,che la caduta
dell’URSS fosse stata voluta e pilotata dalla burocrazia di partito arricchitasi a dismisura
emblematica una lettera :
Cari compagni chi sa perché quello che è avvenuto in URSS mi fa venire in mente una
poesia di Pasolini :
Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano
Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d’una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell’ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c’è come l’aria d’un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell’occhio, l’ironia
che trapela il suo umido, rosso,
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n’hanno, usano lusinghe
abbiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce
piene.
Se lavorano - lavoro di mafiosi
macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani - avviene
che abbiano ugualmente un’aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene...
Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un’anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati...
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l’angosciosa scommessa,
a dirsi: “È fatta,” con un ghigno di re...
La nostra speranza è ugualmente
ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla
storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.
La volontà della burocrazia di partito diventata la nuova borghesia russa e dell’alta
finanza,attraverso la protesta popolare,di annientare l’aristocrazia parassitaria di partito e
sostituirsi ad essa
In poche parole la libertà tanto conclamata e desiderata sarà solo quella che il proletariato
russo passerà sotto nuovi padroni che non avranno più inibizioni di sorta
La importante ,tra le molte pur importanti conseguenze, che interessava in quel momento è
il venir meno del motivo che produceva e legittimava l’esclusione del Partito comunista
italiano dal governo.
La profonda, conseguente crisi interna che colpisce il partito ha un primo importante sbocco
nella riunione del Comitato centrale, il 26 novembre ’89, che ha all’ordine del giorno un
punto decisivo: il cambio del simbolo, ovvero dell’identità del partito.
A Rimini si tiene il XX Congresso del PCI, nel quale si sancisce la nascita del Partito
Democratico della Sinistra. Occhetto, dopo una prima votazione invalidata per l’assenza
del quorum, risulta eletto segretario con il 72% dei voti dei delegati. Al Congresso sono
state presentate tre mozioni: la mozione di Occhetto, Per il Partito democratico della
sinistra; quella di Rifondazione comunista (sottoscritta, tra gli altri, da G. Angius, P.
Ingrao, L. Magri, A. Natta, S. Garavini, R. Serri, A. Cossutta, L. Libertini, E. Salvato, L.
Castellina, A. Tortorella), dalla quale scaturiscono per alcuni dei firmatari le ragioni
della scissione e della formazione del Partito della Rifondazione Comunista; la mozione
Per un moderno partito antagonista e riformatore, proposta, tra gli altri, da A. Bassolino,
A. Asor Rosa, A. Minucci, M. Tronti.
La mozione di Occhetto fissa le fondamentali coordinate del nuovo Partito nella grande
idea della democrazia come via al socialismo e della democrazia come mezzo e come
fine e ne disegna l’organizzazione, sottolineando la necessità di superare il modello
centralistico a favore di uno decentrato e autonomistico. Secondo il segretario, la
scelta di dar vita al PDS rappresenta la sola garanzia che non vada disperso il meglio del
patrimonio politico e morale del PCI. Con la palesata intenzione di aderire
all’Internazionale Socialista, Occhetto conferma l’obiettivo di contribuire allo sviluppo di
un processo di profondo rinnovamento della sinistra, al quale devono concorrere
correnti di pensiero politico diverse: socialiste, democratiche, cristiane, liberaliprogressiste, e quelle che nascono dal movimento pacifista, femminista, ecologista.
Dichiarando l’impegno del PDS a costruire, nell’elaborazione e nella prassi, un rapporto
nuovo tra la funzione del mercato e l’esigenza di una direzione consapevole della
produzione e dello sviluppo sociale, si riconosce l’ineluttabile necessità di una riforma
del sistema politico che renda possibili delle alternative di governo e un ricambio
delle classi dirigenti.
In quei giorni,visto che il giornalino di partito era bimestrale avevo proposto di anticipare la
commemorazione dei 54 anni dalla morte di Gramsci con qualcosa di diverso dall’articolo
scritto da uno di noi
La verità ,che mi fu perdonata dai compagni di redazione è quella che pur riconoscendo
l’esigenza di un cambiamento avevo mal digerito sia la scelta della maggioranza che quella
fatta dal nascente rifondazione
Quindi pubblicai , l’annuncio della morte di Gramsci fatta dalla radio spagnola da: Camillo
Barberi
Lavoratori! Compagni!
Antonio Gramsci è morto, dopo undici anni di carcere, in una clinica, guardato a vista dai
poliziotti e negato alla famiglia fino negli spasmi dell’agonia. Mussolini è un tiranno che ha
buon fiuto per individuare i nemici più temibili: e tra questi egli teme le intelligenze solide
ed i caratteri inflessibili. Mussolini colpisce alla testa le opposizioni: scagliando la Ceka del
Viminale contro Matteotti, facendo linciare dagli squadristi Amendola, rendendo la vita
impossibile a Gobetti, gettando in carcere Riccardo Bauer, Ernesto Rossi ed altri intellettuali
di prim’ordine. Mussolini ha voluto la morte di Gramsci. Non gli bastò saperlo al confino,
tubercolotico. Lo volle sepolto vivo in carcere, dove lo tenne pur sapendolo soggetto ad
emotisi, a svenimenti prolungati, a febbri altissime.
Il prof. Arcangeli, che visitò Gramsci nel maggio 1933, dichiarò in un rapporto scritto che
<<il detenuto Gramsci non potrà sopravvivere a lungo in condizioni simili. Il suo
trasferimento si impone in un ospedale civile o in una clinica, a meno che sia possibile
accordargli la libertà condizionale>>.
Mussolini, pensando che un avversario avvilito è preferibile ad un avversario morto in piedi,
gliela avrebbe accordata, la libertà condizionale, ma in calce ad una domanda di grazia. Ma
Gramsci non era un qualsiasi Bombacci e, rifiutò la grazia, che sarebbe stata, secondo come
egli ebbe a definirla <<una forma di suicidio>>.
Il martirio, già settennale, continuò. Passarono ancora degli anni. Le condizioni del recluso
si fecero così gravi da far temere prossima la morte. Un’agitazione internazionale reclamò la
liberazione. Quando fu ordinato il trasferimento in clinica, la concessione era fatta ad un
moribondo.
Gramsci era un intellettuale nel senso intero della parola, troppo sovente usata abusivamente
per indicare chiunque abbia fatto gli studi. Lo dimostrò in carcere: continuando a studiare,
conservando sino all’ultimo le sue eccezionali facoltà di critica e di dialettica. E lo aveva
dimostrato come capo del Partito Comunista Italiano, rifuggendo da qualsiasi lenocinio
retorico, rifuggendo dalle cariche, sapendo isolarsi.
Piero Gobetti scriveva di lui, nel suo saggio La rivoluzione liberale:
<<La preparazione e la fisionomia spirituale di Antonio Gramsci invece apparivano
profondamente diverse da queste tradizioni, già negli anni in cui egli compiva i suoi studi
letterari all’Università di Torino e si era iscritto al Partito Socialista, probabilmente per
ragioni umanitarie maturate nel pessimismo della sua solitudine di sardo emigrato.
Pare venuto dalla campagna per dimenticare le sue tradizioni, per sostituire l’eredità malata
dell’anacronismo sardo con uno sforzo chiuso e inesorabile verso la modernità del cittadino.
Porta nella persona fisica il segno di questa rinuncia alla vita dei campi, e la
sovrapposizione quasi violenta di un programma costruito e ravvivato dalla forza della
disperazione, dalla necessità spirituale di chi ha respinto e rinnegato l’innocenza nativa.
Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario; il suo ritratto sembra costruito dalla sua
volontà, tagliato rudemente e fatalmente per una necessità intima, che dovette essere
accettata senza discussione: il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle
membra malate sembra costruito secondo i rapporti logici necessari per un piano sociale, e
serba dello sforzo una rude serietà impenetrabile; solo gli occhi mobili e ingenui ma
contenuti e nascosti dall’amarezza interrompono talvolta con la bontà del pessimista il
fermo vigore della sua razionalità. La voce è tagliente come la critica dissolutrice, l’ironia
toglie la consolazione dell’umorismo. C’è nella sua sincerità aperta il peso di un corruccio
inaccessibile; dalla condanna della sua solitudine sdegnosa di confidenze sorge
l’accettazione dolorosa di responsabilità più forti della vita, dure come il destino della
storia; la sua rivolta è talora il risentimento e talora il corruccio più profondo dell’isolano
che non si può aprire se non con l’azione, che non può liberarsi dalla schiavitù secolare se
non portando nei comandi e nell’energia dell’apostolo qualcosa di tirannico. L’istinto e gli
affetti si celano ugualmente nella riconosciuta necessità di un ritmo di vita austera nelle
forme e nei nessi logici; dove non vi può essere unità serena e armonia supplirà la
costrizione, e le idee domineranno sentimenti e espansioni. L’amore per la chiarezza
categorica e dogmatica, propria dell’ideologo e del sognatore, gli interdicono la simpatia e
la comunicazione, sicché sotto il fervore delle indagini e l’esperienza dell’inchiesta diretta,
sotto la preoccupazione etica del programma, sta un rigorismo arido e una tragedia cosmica
che non consente un respiro di indulgenza. Lo studente conseguiva la liberazione dalla
retorica propria della razza negando l’istinto per la letteratura e il gusto innato nelle ricerche
ascetiche del glottologo; l’utopista detta il suo imperativo categorico agli strumenti
dell’industria moderna, regola colla logica che non può fallire i giri delle ruote nella
fabbrica, come un amministratore fa i suoi calcoli senza turbarsi, come il generale conta le
unità organiche apprestate per la battaglia: sulla vittoria non si calcola e non si fanno
previsioni perché la vittoria sarà il segno di Dio, sarà il risultato matematico del
rovesciamento della praxis. Il segno epico è dato qui dal freddo calcolo e dalla sicurezza
silenziosa: c’è la borghesia che congiura per la vittoria del proletariato>>.
Per coloro, i più giovani, che nulla o poco sapessero dell’opera politica di Gramsci,
ricorderemo che egli cominciò a prendere parte attiva alla vita del Partito Socialista nel
corso della guerra, come collaboratore della stampa socialista di Torino, nella quale fu tra i
primi a seguire con cura e a valutare gli sviluppi teorici e pratici della rivoluzione russa.
Nel 1919 fondò la rivista L’Ordine Nuovo, che fu una delle migliori, e sotto certi aspetti la
migliore rivista di avanguardia. Gramsci, che aveva preparazione di glottologo, fu uno dei
pochi socialisti dalla cultura filosofica moderna ed aggiornata.
Del pensiero politico di Gramsci dell’epoca de L’Ordine Nuovo così scriveva Umberto
Calosso, nell’agosto 1933, in un quaderno di Giustizia e Libertà:
<<L’Ordine Nuovo rivelava fin dal titolo un indirizzo originale, un programma di serietà
costruttiva, lontano dalla retorica rivoluzionaria, quasi di un organo ufficiale avant lettre di
uno stato socialista, in qualche modo già fondato.
Esso non concepiva la rivoluzione come un attacco frontale, ma come un esplodere di germi
interni. Questi germi ricchi di tutto il futuro, Gramsci li vedeva nelle commissioni interne di
fabbrica.
Allo sviluppo delle commissioni interne, create come intermediarie tra i sindacati operai e la
direzione padronale in organi di autogoverno del proletariato, Gramsci dedicò tutta la sua
anima, tanto nel giornale che personalmente. Lì era, secondo lui, l’anticipo attuale del
governo di domani, lì l’incarnazione concreta del nuovo ordine, lì il prezioso “sancta
sanctorum” davanti a cui Gramsci si mise a guardia con l’intransigenza feroce della chioccia
sulla sua covata o del pastore sardo in difesa della sua donna. Tutto quello che poteva parere
una minaccia allo sviluppo dell’organizzazione di fabbrica, Gramsci lo sentiva attraverso
una gelosia che poteva sembrare settaria a chi non ne afferrava il motivo profondamente
obiettivo.
Le organizzazioni sindacali soprattutto gli erano sospette perché troppo vicine agli interessi
immediati degli operai, troppo impegnate nella difesa longitudinale di categoria o generica
di massa, troppo burocratiche e sperimentali di fronte alle nuove cellule appena in via di
nascita.
I “mandarini”, i bonzi, tutte le code dell’immobilità cinese furono mobilitate contro i
funzionari sindacali; e la camera del lavoro, istituto topografico organico del proletariato,
venne contrapposta ai sindacati come nell’anatomia umana l’organo vivente si contrappone
al tessuto convenzionale.
Anche il partito ufficiale, il Barnum, era guardato con ostilità di giorno in giorno più aperta,
fino allo scoppio della scissione. E come contropartita a questa intransigenza specifica,
l’Ordine Nuovo adottava la più larga comprensione e la più spregiudicata libertà di fronte
alle correnti culturali che si agitavano nel paese e il suo atteggiamento verso il liberalismo
gobettiano, verso le ricerche filosofiche e religiose, verso gli sperimentalismi letterari, non
aveva nulla di superficialmente partigiano e politico, tanto che il giornale nella sua povertà,
si collocò molto in alto nel concetto del pubblico colto e si impose all’attenzione degli
osservatori della vita italiana. Sorel ne parlò prestissimo sul Resto del Carlino di Missiroli e
più tardi Croce, pur lontanissimo dalle idee del giornale, non ebbe paura di camminare
attraverso i passaggi obbligati e i blindamenti per porgere una visita alla ridotta di via
Arcivescovado.
In questo ordine di idee l’Ordine Nuovo fu il giornale più libero che l’Italia abbia avuto
dopo la Voce e l’Unità, un foglio dove si poteva veramente discutere tutto e di tutto, senza
residui della meschinità culturale, tanto comune agli uomini politici italiani che fanno
entrare il loro catechismo di destra o di sinistra persino nell’abbottonamento dei
pantaloni>>.
Gobetti e Calosso ci hanno aiutato a lumeggiare i tratti salienti e centrali della personalità di
Gramsci.
L’uomo che aveva suscitato l’interesse di Sorel, di Croce e di altri pensatori è stato ucciso
lentamente. Per undici anni è stato mantenuto fuori della circolazione culturale ed impedito
perfino nell’attività di cultore di glottologia.
Noi salutiamo dalla radio della CNT-FAI di Barcellona, l’intellettuale valoroso, il militante
tenace e dignitoso che fu il nostro avversario Antonio Gramsci, convinti che egli ha portato
la sua pietra all’edificazione dell’ordine nuovo, ordine che non sarà quello di Varsavia o
quello carcerario e satrapesco attualmente vigente in Italia, bensì un moderno assetto
politico-sociale in cui il sociale e l’individuale si armonizzeranno fecondamente in
un’economia collettivista e in un ampio ed articolato federalismo politico”.
Camillo Berberi
Nello stesso numero :
Omertà aventinista
(l’Unità, 5 agosto 1926, anno 3, n. 184, articolo non firmato)
I documenti dell’attività dei partiti e dei gruppi della ex coalizione dell’Aventino venuti alla
luce in questi giorni sono tutti documenti anticomunisti. Oggi, come dopo il fatto Matteotti,
come prima della marcia su Roma, come nel periodo della occupazione delle fabbriche, i
vari componenti della cosiddetta democrazia italiana - massimalisti in prima linea - si
adoperano, ognuno nel campo che gli compete, a spezzare le forze rivoluzionarie degli
operai e dei contadini. Ogni volta che i lavoratori riescono ad organizzarsi, a coordinare i
loro sforzi su di un terreno rivoluzionario, questi elementi disgregatori intensificano la loro
attività compiendo nel campo della lotta politica la stessa funzione che gli spezzatori di
scioperi compiono nelle lotte economiche del proletariato. Ed anche ora, al vasto
movimento per il fronte unico che conquista rapidamente la maggioranza dei lavoratori, si
oppone - oltre, naturalmente, la reazione - una nuova offensiva anticomunista dei partiti
sedicenti democratici e socialisti. Democratici e riformisti, massimalisti, popolari,
repubblicani, responsabili in solido di fronte alle masse della politica aventinista che ha reso
possibile la controffensiva del fascismo, continuano, anche dopo lo sfacelo della coalizione,
a lavorare nell’unico intento di impedire ad ogni costo la ripresa del movimento
rivoluzionario del proletariato.
Nell’elaborazione del programma per il partito socialista dei lavoratori italiani, i riformisti
accentuano ancora il loro atteggiamento controrivoluzionario. Essi affermano di voler
restare fedeli alle tradizioni marxiste “respingendo i tentativi revisionisti promossi dalle
correnti idealistiche e neoprotestanti”, ma nello stesso tempo si dichiarano “fermamente
convinti della pregiudiziale che per ogni difesa del movimento operaio sia indispensabile la
libertà”. Da questa premessa non può derivare che l’avversione più ostinata contro il fronte
unico dei lavoratori, contro ogni tentativo di ripresa sindacale o politica del proletariato.
Allo stesso modo dei fascisti, i riformisti vogliono abolire la lotta di classe alleandosi con la
borghesia, in attesa che la libertà piova dal cielo, in attesa che la borghesia stessa offra al
proletariato la libertà di combattere e di riconquistare le posizioni perdute. È questo
l’atteggiamento che tutti gli ex aventinisti assumono nell’attuale situazione; è questo il
“programma” comune di tutti i nemici del fronte unico. Il partita comunista, invece, afferma
che presupposto indispensabile per la conquista di qualsiasi libertà è la ripresa del
movimento di classe del proletariato, che la libertà dei lavoratori deve essere opera dei
lavoratori stessi.
Anche il gruppetto dei miserabili politicanti che dirigono i resti del partito popolare si sono
fatti vivi in questi giorni con una circolare ai deputati ed ai segretari provinciali del partito
sulla questione dell’invio di una delegazione operaia in Russia sollevata dal Lavoratore di
Torino.(1) Questa circolare è un nuovo documento della sfrontata malafede dei suoi autori
che invano tentano di riguadagnare la fiducia delle masse irrimediabilmente perduta nei
mercanteggiamenti con tutti i governi della borghesia, da quello di Giolitti, a quello di
Bonomi, a quello di Facta, a quello di Mussolini. I popolari vogliono aggrapparsi alla
iniziativa del Lavoratore per fingersi nuovamente amici delle masse, gettare il discredito sui
comunisti e sull’Unione soviettista, sabotare l’invio della delegazione, stroncare fin
dall’inizio l’orientamento dei lavoratori bianchi verso il fronte unico. Ciò che l’Azione
cattolica ed i clerico-fascisti non hanno ottenuto con la loro aperta ostilità, si propongono di
ottenerlo i dirigenti popolari con l’abituale menzogna, con l’insuperabile ipocrisia, la
lusinga da trivio.
”Nella discussione - dice la circolare del partita popolare - sono intervenuti organi clericofascisti per la solita funzione di ricatto e di delazione e comunisti per rovesciare sul partito
popolare italiano una gragnuola d’insolenze, le quali hanno trovato la loro condanna più che
nella scemenza di cui si sostanziano, nell’elogio e nell’ospitalità avute dalla stampa fascista:
le polemiche tra 1’Unità e 1’Avanti! ci hanno dimostrato che i comunisti italiani hanno il
compito di seminare zizzania tra le masse, di tradirle ogni qualvolta stiano per conseguire un
successo, di servire insomma - come i loro colleghi clerico-fascisti - il regime per conto dei
Soviet. Il fatto che l’attacco, non motivato da nessun nostro atteggiamento, segua alle
perquisizioni della polizia romana che ha messo in luce i metodi vilissimi di questi
rivoluzionari da operetta combattenti il fascismo con foglietti volanti sistematicamente
scoperti prima che vengano lanciati, dimostra un chiaro obbiettivo: diversivo e ricatto e
peggio!”.
La calda difesa dell’Avanti! dà un significato preciso a tutta la circolare: i diversi
partecipanti alla ex coalizione aventiniana si sono separati soltanto per non perdere, ognuno
nel proprio campo, gli ultimi resti di influenza fra le masse, ma continuano, ognuno per
proprio conto, la politica aventiniana, sotto maschere diverse, ed a difendersi
vicendevolmente. Così riformisti, massimalisti, repubblicani combattono contro il fronte
unico proletario perché essi hanno già costituito il fronte unico antiproletario; così popolari
e massimalisti si scambiano regolari servigi nella lotta contro i comunisti. In una recente
intervista al settimanale popolare, il corrispondente torinese dell’Avanti! si congratulava con
i popolari per “la resistenza che essi hanno opposto a seduzioni ed a persecuzioni per
rimanere fedeli all’idea democratica” ed approfittava dell’occasione per dare ai redattori del
Lavoratore il seguente non richiesto consiglio:
”Essi si debbono guardare molto dalle serenate che stanno facendo sotto le loro finestre i
comunisti. Credi a me; noi i comunisti li conosciamo bene; essi sono dei perfetti speculatori
in malafede. Fanno l’occhiolino di triglia ai cattolici di sinistra per adoperarli come
specchietto per le allodole operaie. La loro unità proletaria è semplicemente un mezzuccio
per acciuffare il dominio delle masse operaie che loro sfugge; lo hanno dichiarato
apertamente al loro congresso di Francia. Del resto sono dei settari di un assolutismo
veramente tipico e sempre dediti a combattere non i nemici del proletariato, ma quelli di cui
temono la concorrenza nella propaganda fra le masse. Ne ho avuto recentemente la prova
nel Comitato pro Sacco e Vanzetti che si fece a Torino. Quello che non hanno tentato per
avere il monopolio dell’idea non venuta da loro! Quali giochi di bussolotti non hanno fatto
per valorizzare, attraverso l’iniziativa, la loro mentalità dittatoriale, per l’unità proletaria!
Stiano dunque attenti i cattolici del Lavoratore: i comunisti sono dei perfetti lavoratori in
malafede”.
Soltanto un imbecille poteva pensare di far presa sui cattolici del Lavoratore e sui lavoratori
bianchi con argomenti di questa fatta, ed associandosi per giunta ai dirigenti del partito
popolare, quegli stessi dirigenti che nel 1920 hanno costretto i popolari torinesi a bloccare
con i fascisti per trenta posti nel Consiglio comunale, quegli stessi dirigenti che hanno
trascinato le masse dei lavoratori bianchi sul terreno della collaborazione con Giolitti, con
Bonomi, con Facta, con Mussolini, quegli stessi dirigenti contro la cui bassezza morale e
politica il movimento torinese del Lavoratore appunto insorge. I massimalisti dovrebbero
almeno capire che i lavoratori bianchi non ridaranno la loro fiducia ai dirigenti del partito
popolare per il solo fatto che costoro si alleano, dopo di aver preparato e servito il fascismo,
con il partito che col fascismo ha firmato il patto di pacificazione. La firma di questo patto
ha segnato irrimediabilmente il destino del massimalismo, così come il filofascismo del ‘21
e del ‘22 ha segnato il destino del partito popolare. I massimalisti hanno concesso una mano
al collaborazionismo ed hanno poi dovuto dargli tutto il loro braccio e tutto se stesso.
L’Aventino era inevitabile per chi aveva firmato il patto di pacificazione e per chi aveva
collaborato con il fascismo; la lotta contro il fronte unico e contro i comunisti è inevitabile
per chi ha partecipato all’Aventino.
Tutti i gruppi dell’Aventino sono responsabili della nuova offensiva del fascismo; tutti i
gruppi dell’Aventino sono legati da omertà che ha come conseguenza inevitabile nuovi
tradimenti. La politica dell’Aventino ha provocato un processo di disgregazione ogni giorno
più evidente nelle file dei partiti che lo componevano; una parte, sempre più importante,
delle masse che seguivano questi partiti si orienta verso il fronte unico e verso il partito
comunista, ed è perciò che il blocco dell’Aventino si ricostituisce per la lotta non contro il
fascismo ma contro le forze dei lavoratori.
I lavoratori bianchi si staccano dai vecchi dirigenti e i popolari sorretti da tutti i compari
tentano di frenarli aggredendo con la diffamazione i comunisti. Gli operai massimalisti
aderiscono al fronte unico ed i capi del partito socialista chiudono gli occhi per non vedere,
sputano fiele sulle colonne dell’Avanti!: I medi ceti del Meridione abbandonano l’Unione
democratica ed il Mondo ed Arturo Labriola, colpiti da isterismo e da travasi di bile, tentano
di insultare i comunisti. Così i repubblicani, così i riformisti.
Lo spettro del fronte unico turba i sonni popolati di fantasmi degli ex componenti
dell’Aventino. Essi tentano, proclamandosi antifascisti e gettando il discredito sui lavoratori
rivoluzionari, di evitare la sorte che le masse preparano loro.
Ma il fronte unico progredisce irresistibilmente ed i lavoratori faranno definitivamente
giustizia di questi ingannatori patentati, di questi falsi pastori, di questi servi della reazione.
capitolo 14
Finalmente a 46 anni potevo dire di vivere una vita normale
Lavoravo in una grossa azienda,un pastificio e mi consegnarono le chiavi di un
appartamento .due camere soggiorno e cucina
Non vedevo l’ora che i ragazzi e mia moglie venissero a stabilirsi definitivamente
con me
Ci sarebbe voluto ancora qualche anno,preferimmo terminassero gli studi a Napoli
Il 17 febbraio 1992 le indagini della magistratura portano all’arresto di Mario Chiesa,
socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Prende avvio l’inchiesta Mani
Pulite e, con essa,Tangentopoli. Nel grave scandalo vengono coinvolti i più grossi nomi
dell’industria e della politica,dai presidenti di Fiat, Olivetti, ENI, IRI ai massimi esponenti
politici del pentapartito. L’opinione
pubblica è scossa e chiede ai magistrati del pool Mani Pulite, e soprattutto all’uomo che più
lo rappresenta, Antonio Di Pietro, di procedere, inesorabilmente. Non c’è scampo per
nessuno:politici, leader e portaborse, imprenditori, magistrati, rappresentanti del mondo
dell’informazione,del settore pubblico quanto privato, sono tutti coinvolti nello scandalo;
persino Carnevale, giudice
di Cassazione, è indagato per corruzione. Le attività illecite di corruzione e collusione, a
tutti i livelli, si rivelano tanto diffuse da essere connaturate al sistema socio - politico
italiano.
Per quanto riguarda i politici, con il 15 dicembre 1992, data in cui Bettino Craxi riceve il
suo primo avviso di garanzia per i reati di corruzione, ricettazione e violazione della legge
sul finanziamento pubblico dei partiti, inizia lo smantellamento del cosiddetto CAF: il 27
marzo 1993 sarà infatti la
volta di Giulio Andreotti, che riceve un avviso di garanzia dalla Procura di Palermo per
associazione mafiosa, e il 5 aprile 1993 anche ad Arnaldo Forlani verranno ipotizzati i reati
di ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Craxi si
dimette dasegretario del PSI l’11 febbraio 1993, dopo oltre sedici anni di protagonismo
politico indiscusso e,
dopo avere ricevuto ormai ben sei avvisi di garanzia. I vari segretari dei diversi partiti, così
come numerosi ministri, vengono citati come testimoni o indagati per corruzione.
Nella primavera del ’93 rassegnano le dimissioni ben sette ministri dell’uscente governo
Amato (giugno 1992-aprile 1993) per effetto delle indagini in corso sul loro conto (subentra
il governo Ciampi, che vede per la prima volta come primo ministro un non - parlamentare e
che è costituito da un certo numero di tecnici e di esponenti di più partiti). Il processo a
Sergio Cusani (maxi tangente Enimont; condanna a otto anni di carcere), che coinvolge
quasi tutti gli esponenti dei principali partiti, vede l’opinione pubblica nutrire una forte
riprovazione morale soprattutto nei confronti dei politici, più che degli imprenditori. L’alto
numero di deputati inquisiti ormai delegittima il parlamento e non resta che assistere al
tracollo della prima Repubblica
Era stato profetico e di monito un intervista rilasciata nel 1981 da Berlinguer su repubblica :
“Partiti sono diventati macchine di potere”
Intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari, «La Repubblica», 28 luglio 1981
«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e
questa è l’origine dei malanni d’Italia».
La passione è finita?
Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere
il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono
soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei
problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e
passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche
loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure
distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è
ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni
che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di
correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”.
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi
italiana.
È quello che io penso.Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno
occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti
culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è
il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo
o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa
come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si
vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le
diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste
prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve
la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e
rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene
aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se
i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta
soltanto di riconoscimenti dovuti.
Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla situazione?Debbo riconoscere, signor Segretario, che in
gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato
di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste
conquistato la guida del paese da un pezzo.
La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti
italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle
sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto.
Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e
delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una
conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei
referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum
non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita
candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da
questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ‘74 per il divorzio, sia, ancor di più,
nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno,
hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei
quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative
il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.
veniamo all’altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un
pezzo, se le cVose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il
nostro, che va così decisamente contro l’andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino
li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un
partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.
Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se
foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole
spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?
Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara
alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi,
così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti
cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere
alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando
pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma
interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo,
controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della
nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?
Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e
gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di
contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani
oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il
merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa
pubblica debba essere assicurata.
Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia
alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci
siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati
ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati
noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati
noi.
Non voi soltanto.
È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo
di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi
e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di
socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione
dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che
l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e
conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme
capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DCnon funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il
capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse
crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo
dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del
rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste
idee?
Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico
europeo. Però a lei sembra un’offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s’intende)
si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco
o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli
antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica
socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto
l’occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel
laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per
essi finora ignote o da essi ignorate.
Dunque, siete un partito socialista serio...
...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...Le dispiace, la preoccupa che il
PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i
loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente
difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte
dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela
democristiana, non c’è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che,
con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare
un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e
rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per
consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e
governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne
conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.
Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c’è o no?
Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad
esempio: vedrà che in gran parte c’è stato un trasferimento di clientele. Non voglio
affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici
non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e
istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la
quale non può cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la questione morale resterà
del tutto insoluta.
Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana.
Perché?
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei
concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna
denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno
con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno
con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di
governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico
che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti
possono profare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la
questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente
è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di
restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.
Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d’accordo sul fatto che il nemico
principale da battere in questo momento sia l’inflazione, e difatti le politiche economiche di
tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell’obiettivo. È anche lei del medesimo
parere?
Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è
la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L’inflazione è -se vogliamol’altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l’una e contro l’altra.
Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare
l’inflazione si debba pagare il prezzo d’una recessione massiccia e d’una disoccupazione,
come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe
sociale di proporzioni impensabili.
Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell’ “austerità”. Non mi pare che il suo appello sia
stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...
Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di
ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che,
comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all’aggravamento del
divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e
all’avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più
di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la “civiltà dei consumi”, con
tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per
esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente
carico. Ma dicevamo dell’austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere
gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la
dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro.
Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo
sforzo di raddrizzamento dell’economia, ma che l’insieme dei sacrifici doveva essere fatto
applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello
di dare l’avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma
anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell’austerità e della
contemporanea lotta all’inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e
sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo
ascoltati.
E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
Il costo del lavoro va anch’esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto
sul fronte dell’aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando
si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori,
mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere
credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso,
una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi
elementi non ci sono,l’operazione non può riuscire.
Mani pulite aveva aperto una voragine,accentuata anche dalla scelta
volutamente di comodo dei partiti
Come si diceva : cambiare tutto per non cambiare niente
Sciogliere ad esempio la DC ,ma anche altri partiti minori,servì solamente a garantire una
continuità con il potere locale,della maggior parte dei capi delle sue correnti
Frastagliarsi in una decina di partiti ad esempio anche se non avesse garantito alcuna
possibilità di governo garantiva una presenza sulla scena della politica italiana che come si
vedrà tra:sottosegretari,ministri,sindaci,assessori,presidenti di regioni o di province, lascerà
inalterata l’impalcatura che aveva generato mani pulite
C’è da considerare ,come dicevano in molti ,che questa voragine sarebbe stata riempita da
tutti quelli che fino a quel momento avevano e foraggiavano politici di riferimento “per
entrare in parlamento non avevano più bisogno “dell’autista”
Tra questi sicuramente la criminalità organizzata
I nipoti dei vecchi”pizzinari “( che a malapena sapevano fare la loro firma) e che ormai
venivano considerati,da questa nuova classe dirigente cresciuta nelle migliori università del
mondo, obsoleti,un fastidioso intralcio alle loro aspirazioni.
In quello stesso anno, alle elezioni politiche del 5-6 aprile 1992, fece particolarmente
scalpore il risultato ottenuto da un nuovo partito, la Lega Nord di Umberto Bossi, che
conquistò 80 seggi in Parlamento (25 senatori e 55 deputati), corrispondenti a oltre tre
milioni di voti, con una percentuale dell’8,7% sul territorio nazionale. Era l’approdo di un
lungo percorso, cominciato già nel 1979, quando alle elezioni politiche si presentò il primo
movimento leghista, La Liga veneta, (non a caso, quella consultazione elettorale si svolse
appena un anno dopo il referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti che nel 1978
– con il suo 43,8% di consensi – segnalò quanto vistosa fosse già allora la frattura nei
confronti della ‘partitocrazia’). In tutti quegli anni, il movimento, che si riconobbe subito
nel suo leader carismatico e fondatore Umberto Bossi, accompagnò il distacco tra la società
italiana e i partiti storici, dando visibilità ai soggetti sociali che erano cresciuti nelle pieghe
delle trasformazioni economiche e che nel corso degli anni ‘80 erano stati abbandonati a se
stessi, privati dei riferimenti partitici indispensabili per organizzare l’azione collettiva.
La Lega si inserì in questo vuoto, con parole d’ordine improntate dapprima al federalismo,
poi, via via sempre più radicali.
“la difesa dell’entità regionale contro i nuovi e vecchi “ospiti”:meridionali e extracomunitari
rispolverando slogan razzisti che ai più attenti ricordavano quelli del regime
il fondamento e la premessa teorica alla leggi razziali furono alcune considerazioni che
miravano a stabilire l’esistenza della razza italiana e la sua appartenenza al gruppo delle così
dette razze ariane. A tali considerazioni si cercò di dare un fondamento scientifico, benché
quest’ultimo sia poi risultato inconsistente.
Dopo l’entrata in vigore nel 1937 del Regio Decreto Legge n. 880 – che vietava il
madamismo (l’acquisto di una concubina) e il matrimonio degli italiani coi «sudditi delle
colonie africane» – altre leggi di spiccata indole razzista vennero promulgate dal parlamento
italiano.
Un documento fondamentale, che ebbe un ruolo non indifferente nella promulgazione delle
cosiddette leggi razziali è il Manifesto della Razza o più esattamente il Manifesto degli
scienziati razzisti (Manifesto della Razza), pubblicato una prima volta in forma anonima sul
Giornale d’Italia il 15 luglio 1938 con il titolo Il Fascismo e i problemi della razza, e poi
ripubblicato sul numero uno della rivista La difesa della razza il 5 agosto 1938.
Per la legislazione fascista era ebreo chi era nato da genitori entrambi ebrei oppure da un
ebreo e da uno straniero oppure da una madre ebrea in condizioni di paternità ignota oppure
chi, pur avendo un genitore ariano, professasse la religione ebraica. Sugli ebrei venne
emanata una serie di leggi discriminatorie. La legislazione fascista ammise tuttavia la
discussa figura dell’ebreo “arianizzato”, ovvero dell’ebreo che avesse particolari meriti:
militari, civili o politici. Agli ebrei arianizzati le leggi razziali furono applicate con alcune
deroghe e limitazioni
La legislazione antisemita comprendeva: il divieto di matrimonio tra italiani ed ebrei, il
divieto per gli ebrei di avere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana, il divieto per
tutte le pubbliche amministrazioni e per le società private di carattere pubblicistico – come
banche e assicurazioni – di avere alle proprie dipendenze ebrei, il divieto di trasferirsi in
Italia ad ebrei stranieri, la revoca della cittadinanza italiana concessa a ebrei stranieri in data
posteriore al 1919, il divieto di svolgere la professione di notaio e di giornalista e forti
limitazioni per tutte le cosiddette professioni intellettuali, il divieto di iscrizione dei ragazzi
ebrei – che non fossero convertiti al cattolicesimo e che non vivessero in zone in cui i
ragazzi ebrei erano troppo pochi per istituire scuole ebraiche – nelle scuole pubbliche, il
divieto per le scuole medie di assumere come libri di testo opere alla cui redazione avesse
partecipato in qualche modo un ebreo. Fu inoltre disposta la creazione di scuole – a cura
delle comunità ebraiche – specifiche per ragazzi ebrei. Gli insegnanti ebrei avrebbero potuto
lavorare solo in quelle scuole.[2]
Infine vi furono una serie di limitazioni da cui erano esclusi i cosiddetti arianizzati: il divieto
di svolgere il servizio militare, esercitare il ruolo di tutore di minori, essere titolari di
aziende dichiarate di interesse per la difesa nazionale, essere proprietari di terreni o di
fabbricati urbani al di sopra di un certo valore. Per tutti fu disposta l’annotazione dello stato
di razza ebraica nei registri dello stato civile. « È tempo che gli Italiani si proclamino
francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del
razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di
razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente
biologico, senza intenzioni i della tesi, il ministro della cultura popolare Dino Alfieri ed il
segretario del PNF Achille Starace – la segreteria politica del PNF comunica il testo
completo del lavoro, corredato dall’elenco dei firmatari e degli aderenti.
Tra le adesioni al manifesto spiccano quelle di personaggi illustri – o destinati a diventare
tali – come, ad esempio, Giorgio Almirante, Piero Bargellini, Giorgio Bocca, Galeazzo
Ciano, Amintore Fanfani, Agostino Gemelli, Giovanni Gentile, Luigi Gedda, Giovannino
Guareschi, Mario Missiroli, Romolo Murri, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Giuseppe
Tucci.
Al Regio Decreto Legge del 5 settembre 1938 – che fissava «Provvedimenti per la difesa
della razza nella scuola fascista» – e a quello del 7 settembre – che fissava «Provvedimenti
nei confronti degli ebrei stranieri» – fa seguito (6 ottobre) una «dichiarazione sulla razza»
emessa dal Gran Consiglio del Fascismo. Tale dichiarazione viene successivamente adottata
dallo Stato sempre con un Regio Decreto Legge che porta la data del 17 novembre dello
stesso anno.
Sono dunque molti i decreti che, tra l’estate e l’autunno del 1938, sono firmati da Benito
Mussolini in qualità di capo del Governo e poi promulgati da Vittorio Emanuele III. Tutti
tendenti a legittimare una visione razzista della così detta questione ebraica. L’insieme dei
questi decreti e dei documenti sopra citati costituisce appunto l’intero corpus delle leggi
razziali.
Alcuni degli scienziati ed intellettuali ebrei colpiti dal provvedimento del 5 settembre
(riguardante in special modo il mondo della scuola e dell’insegnamento) emigrano negli
Stati Uniti. Tra loro ricordiamo: Emilio Segrè, Achille Viterbi (padre di Andrea Viterbi),
Enrico Fermi (che aveva sposato un’ebrea), Arnaldo Momigliano, Bruno Pontecorvo, Bruno
Rossi, Ugo Lombroso.
Chi decide di rimanere in Italia è costretto ad abbandonare la cattedra. Tra questi: Tullio
Ascarelli, Walter Bigiavi, Mario Camis, Federico Cammeo, Alessandro Della Seta, Donato
Donati, Mario Donati, Marco Fanno, Gino Fano, Federigo Enriques, Carlo Foà, Giuseppe
Levi, Benvenuto Terracini, Tullio Levi-Civita, Rodolfo Mondolfo, Adolfo Ravà, Attilio
Momigliano, Gino Luzzatto, Donato Ottolenghi, Tullio Terni e Mario Fubini).
L’insegnamento nelle scuole riservate agli ebrei tuttavia non viene proibito.
Tra le dimissioni illustri da istituzioni scientifiche italiane ci sono quelle di Albert Einstein,
allora membro dell’Accademia dei Lincei.
Il 5 agosto 1938 sulla rivista La difesa della razza viene pubblicato il seguente manifesto: «
Il ministro segretario del partito ha ricevuto, il 26 luglio XVI, un gruppo di studiosi fascisti,
docenti nelle università italiane, che hanno, sotto l’egida del Ministero della Cultura
Popolare, redatto o aderito, alle proposizioni che fissano le basi del razzismo fascista.
La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a
una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata
da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e
psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi. Dire che esistono le razze
umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che
esistono razze umane differenti.
. Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che
comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma
bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i
mediterranei, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi
costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità
evidente.
Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione,
fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base
delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono
differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi
hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi
popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze differenti, che da tempo molto
antico costituiscono i diversi popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre,
sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una
alle altre le diverse razze.
Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è
rimasto della civiltà delle genti preariane. L’origine degli Italiani attuali parte
essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto
perennemente vivo dell’Europa.
Ma non fu la Lega l’unica novità politica di quella fase. A sinistra, fu significativa la
sparizione pressoché totale di un grande partito con una lunghissima tradizione storica come
il Psi (precipitato dal 13,6% alle elezioni del 1992 al 2,2% in quelle del 1994), che si
intrecciò con la spaccatura del vecchio universo del comunismo italiano (alle elezioni del
1994, il Pds ottenne il 21,1% dei voti e il Partito della rifondazione comunista l’8,6%). Al
centro, il terremoto fu ancora più clamoroso e comportò la dissoluzione del partito di
governo per eccellenza, quella Dc che aveva dominato la scena politica italiana: alle
politiche del 1992 il partito aveva ottenuto ancora il 29,7%; alle successive, nel 1994, non
erano presenti liste democristiane! Cominciò allora la ‘libera uscita’ dell’elettorato
democristiano e dei soggetti sociali che lo affollavano, un fenomeno destinato a esaurirsi –
come vedremo – solo con le elezioni del 13 maggio 2001.
Con le elezioni del 13 maggio 2001 e il varo del governo di centro-destra guidato da
Berlusconi e appoggiato da Bossi, la sensazione è che si sia consumato l’ultimo e definitivo
passaggio della lunga transizione italiana e che la Lega abbia sciolto quello che restava
l’ultimo paradosso di questa fase politica. I soggetti sociali raccoltisi in questi anni nelle file
leghiste hanno finalmente raggiunto i propri omologhi assiepati nel Polo; così, direttamente
nella concretezza delle condizioni materiali, sono maturate le premesse delle alleanze
elettorali che hanno portato alla vittoria della destra. La libera uscita è finita. Non è più il
momento di schieramenti trasversali. La destra si è messa a fare compiutamente la destra. Al
marasma degli anni ‘90 è subentrato una sorta di richiamo all’ordine, in cui gli schieramenti
si presentano con contorni nitidi, senza ambiguità.
Non siamo ancora in presenza di un unico contenitore politico, omogeneo e compatto; ma é
ormai chiaro che tutte le pulsioni, le passioni, gli interessi che hanno agitato in modo
tumultuoso l’universo sociale della Lega e del Polo hanno trovato finalmente un loro
orizzonte unitario. Affioreranno ancora crepe e contrasti, la convivenza tra Alleanza
nazionale, i centristi di matrice democristiana, Forza Italia e Bossi non sarà né facile, né
indolore; ma si tratterà comunque sempre di contraddizioni interne a uno schieramento
rinvigorito e reso nitidamente riconoscibile dalla vittoria elettorale.
Capitolo 15
23 Maggio 1992 -Giovanni Falcone, direttore della sezione Affari penali del Ministero di
Grazia e Giustizia e tra i più autorevoli candidati alla carica di procuratore nazionale
antimafia, viene ucciso insieme alla moglie e a tre agenti della scorta sull’autostrada nei
pressi di Capaci, in seguito ad un esplosione di cento chili di tritolo.
19 luglio 1992 a muore Paolo Borsellino a Palermo L’esplosione, avvenuta in via Mariano
d’Amelio dove viveva la madre e dalla quale il giudice quella domenica si era recato in
visita, avvenne per mezzo di una Fiat 126 contenente circa 100 chilogrammi di tritolo.
Oltre a Paolo Borsellino morirono gli agenti di scorta
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una
serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di
“golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori
materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una
prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e
Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei
colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una
crociata anticomunista, a tamponare il ‘68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per
ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro
del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato
la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di
un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in
concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e
forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi
delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel
generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre
i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il
generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno
scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a
disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi
colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che
succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o
che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e
frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove
sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile
che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà,
e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri
intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere.
Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ‘68
non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di
interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è
per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi,
dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e
certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario
coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per
definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non
ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha
escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere
prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie,
potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere),
compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta
probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza
ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio
intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in
Italia.
All’intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia
italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di
dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida
subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e
una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa
opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente
al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il
Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni
democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un
Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese
ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il
Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto
“insieme” di dirigenti, base e votanti - e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui
il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è
proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere
effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione
a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza,
nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”,
realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe
però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno
nell’altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce
anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella
degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di
costruttività.
Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un
Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre
potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi
anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi
hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene
meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma
soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno - come probabilmente
hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei
comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella
misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica
da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e
indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto
normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo
dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare
pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico,
non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che quando può e come può - l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di
Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e
ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia,
credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare
ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo
quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento,
ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei
responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può
non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo
“diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana
si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli
saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro
maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori).
Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato. Cos’è questo golpe? Io so
di Pier Paolo Pasolini
Il 1993 presenta, se possibile, uno scenario ancora più devastante e, questa volta, non più
in Sicilia - luogo abituale delle azioni di Cosa Nostra - ma addirittura nel continente.
Alle ore 21.40 del 14 maggio, a Roma, in via Ruggero Fauro, esplodeva un’ autobomba
che doveva provocare la morte del giornalista Maurizio Costanzo, rimasto
fortunatamente illeso.
Alle ore 1.02 del 27 maggio, nel centro di Firenze, esplodeva un’ altra autobomba che
cagionava il crollo di un’ala della Torre dei Pulci, con la sovrastante abitazione di una
famiglia, i cui quattro componenti, fra i quali due bambini, decedevano all’istante. I
vicini palazzi storici venivano sventrati e nell’incendio di uno di questi moriva uno
studente. Risultavano danneggiati anche la galleria degli Uffizi, palazzo Vecchio, la
Chiesa dei Santi Stefano e Cecilia al Ponte Vecchio e numerose opere d’arte conservate
in quegli edifici venivano distrutte o deteriorate, fra cui quelle di Giotto, Rubens, Tiziano,
Sebastiano del Piombo.
Alle ore 23.14 del 27 luglio, in via Palestro a Milano, davanti all’ingresso della Villa
reale, esplodeva un’altra autobomba che uccideva cinque passanti e danneggiava
gravemente vari edifici, fra i quali il Padiglione d’Arte Contemporanea con le opere in
esso conservate e la Galleria d’Arte Moderna.
Alle ore 23.58 del 27 ed alle ore 00.02 del 28 luglio, a Roma, venivano fatte esplodere
altre due autobombe: una in piazza S. Giovanni in Laterano e l’altra presso la Chiesa di
San Giorgio al Velabro. Anche in questi casi ingenti furono i danni al patrimonio artistico
e non solo a questo perché le esplosioni provocarono anche il ferimento di numerose
persone.
Nelle stragi del 1993 - che dovevano proseguire con l’esplosione di un’autobomba allo
Stadio Olimpico, in occasione di una partita di calcio, in danno di automezzi che
trasportavano i Carabinieri che avevano svolto servizio di ordine pubblico ed a parte
quella di via Fauro che doveva colpire un giornalista che aveva preso pubblica posizione
contro la mafia - gli obiettivi furono ben diversi da quelli presi di mira nel 1992. Non più
singole e ben individuate persone, ma direttamente lo Stato, colpito in alcune delle sue
più rilevanti espressioni artistiche, culturali e religiose. In tal modo l’azione di Cosa
Nostra assume valenze e significati sicuramente terroristico-eversivi.
Attraverso il programma di stragi realizzato in quell’anno l’associazione mafiosa voleva
perseguire finalità politiche sostituendo al metodo democratico, quello fondato
sull’intimidazione.
Dunque: non più regime speciale per i detenuti mafiosi, non più protezione dei
collaboratori di giustizia ed utilizzazione delle loro dichiarazioni.
L’indagine svolta sulle stragi del 1993 ha consentito di individuare coloro che
materialmente ebbero a compierle e coloro che, dall’interno di Cosa Nostra, le
progettarono.
Lo stesso è avvenuto per la strage di Capaci e per quella di via D’Amelio.
Tuttavia le procure della Repubblica che hanno indagato sull’una e sull’altra “serie
stragista” non hanno ritenuto chiuse le loro investigazioni: una pluralità di sintomi induce
infatti a prospettare un ulteriore percorso di indagine volto a verificare la concretezza
dell’ipotesi investigativa, suggerita appunto da quei sintomi, secondo cui di tali fatti
possano esser stati ispiratori “mandanti dal volto coperto” estranei, cioè,
all’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, ma mossi da interessi con essa convergenti ed
anch’essi appagabili con la strategia attuata da tale associazione.
Si tratterà di stabilire, al termine del cammino investigativo già iniziato, ma seminato di
difficoltà di vario tipo e spessore, se le tracce si saranno trasformate in orme o, meglio
ancora, in impronte digitali.
In tale prospettiva va rilevato che Cosa Nostra, cui sempre più sono collegate
‘Ndrangheta e Camorra, le altre storiche associazioni mafiose, è divenuta compartecipe
di un progetto disegnato e gestito insieme ad un potere criminale diverso e più articolato,
dando vita a quello che ben può definirsi “potere criminale integrato”.
Lo scenario criminale delineato sullo sfondo degli ultimi attentati ha infatti posto in
evidenza da un lato - come si è già avuto modo di rilevare - l’interesse alla loro
esecuzione da parte della mafia e dall’altro la certezza di una presenza operativa di Cosa
Nostra: ma è la sapienza della regia delle stragi a segnalare la novità.
Gli investigatori hanno notato che le sottili valutazioni sugli effetti di una campagna
terroristica e lo sfruttamento del conseguente condizionamento psicologico non sembrano
il semplice frutto della mente di un criminale comune, sia pure mafioso: si riconosce in
queste operazioni di analisi e di valutazione una dimestichezza con le dinamiche del
terrorismo e con i meccanismi delle comunicazioni di massa ed anche una capacità di
sondare gli ambienti politici e di interpretarne i segnali. Si potrebbe pensare ad una
aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi
particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso nel quale convergano
finalità diverse.
La stessa svolta della risposta giudiziaria, sia sul versante della repressione delle
associazioni di tipo mafioso che su quello della corruzione, con i ben noti effetti
dirompenti sull’apparato dei partiti, può aver determinato una coincidenza degli interessi
di Cosa Nostra con quelli di altri settori investiti dalle indagini: settori della politica
corrotta e dell’eversione di destra; logge massoniche coperte; imprenditori e finanzieri
d’avventura collusi; pezzi o reticoli di funzionari dello Stato infedeli.
Se questi nodi saranno sciolti, il nostro Paese avrà compiuti passi di decisiva importanza
per una sempre più radicata affermazione della democrazia.
Dalla rete
Capitolo 16
Per l’ennesima volta mi avevano licenziato,o meglio ero stato messo in mobilità e avendo
superato i 58 anni ne avevo per tre anni
L’azienda in cui lavoravo era in crisi
Crisi dovuta al mercato globale,alla concorrenza dei paesi dell’est anche se ,facendo il
meccanico di macchine automatiche mi avevano detto,dei meccanici esterni ,che avevano
montato alcune linee di lavorazione proprio in quei paesi di una multinazionale italiana nel
cui consiglio di amministrazione c’erano i miei”padroni”
Quando mi chiamò la direzione dell’azienda di servizi in cui lavoravo per offrirmi un
contratto a tempo indeterminato non volevo crederci;61 anni ,dopo tre anni vissuti tra
sussidio di disoccupazione e una infinità di contratti a tempo determinato
Certo gli stipendi che percepivo fino al 2004 me li sarei sognati
Ma come dicevo a mia moglie :in altri tempi alla mia età sarei andato in pensione,facciamo
conto che ci sia andato e diamo un taglio alle spese
In fondo ero stato fortunato se pensavo alle migliaia di ragazzi che girano per le agenzie
interinali alla ricerca di un contratto di lavoro; indipendentemente dalla durata del
contratto :.un mese,sei mesi,un anno
Negli ultimi anni per effetto,ma non per colpa della globalizzazione si andava delineando
sempre più nettamente un irreversibile stratificazione sociale
Le varie disuguaglianze tra gli uomini si andavano cristallizzando nella società Assume
quindi rilievo il ruolo che le disuguaglianze di genere, età, origine etnica hanno coperto
nelle relazioni di dominio e subordinazione nell’era “Berlusconiana”
L’era berlusconiana non è solo la politica di Berlusconi ma è determinata soprattutto da
come tutto il mondo politico italiano,in particolare la sinistra, ha risposto e non risposto al
modo “padrone”di intendere il potere
Questo comportamento avulso,e spesso tendente a imitarne le scorciatoie costituzionali ha
determinato il modo in cui si sono costituirsi gruppi sociali caratterizzati sia da diverse
possibilità di vita e di accesso alle risorse sociali, sia da specifiche visioni del mondo
In questi anni in Italia come in altri paesi avanzati la crescita economica ha prevalentemente
favorito chi era già ricco, e in questo modo si è ulteriormente aggravato il divario a discapito
dei poveri.
A lanciare l’allarme è l’Ocse - Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
- con un rapporto pubblicato su redditi, disuguaglianza e povertà.
Il peggioramento dei divari tra ricchi e poveri è un fenomeno molto esteso, colpisce i tre
quarti dei 30 paesi che fanno parte dell’organizzazione parigina, ma la penisola finisce nella
non lodevole lista degli stati in cui, in più, si assiste anche ad un aggravamento del divario
tra i più abbienti e la classe media.
Si conquista un poco invidiabile primato negativo, l’Italia, in questo rapporto dell’Ocse:
dalla metà degli anni ’80 ad oggi ha visto la disuguaglianza su redditi da lavoro, risparmi e
capitale aggravarsi del 33 per cento, rileva il rapporto nella scheda dedicata al bel paese. «Si
tratta del più elevato aumento nei paesi Ocse, dove l‘aumento medio é stato del 12 per
cento», avverte l’organizzazione parigina, e questa tendenza è proseguita durante i primi
anni novanta. In questo modo, da livelli di disuguaglianza in linea con la media, ora l’Italia
si ritrova a valori che invece sono più da «Europa del Sud»,
«La disuguaglianza é rimasta ad un livello comparativamente elevato. Tra i 30 paesi Ocse
oggi l‘Italia ha il sesto più grande gap tra ricchi e poveri
Sorprendentemente, l‘Italia é il paese i cui dati nudi e crudi restano allarmanti: il reddito
medio del 10 per cento degli Italiani più poveri è circa 5000 dollari, tenuto conto della parità
del potere di acquisto, quindi sotto la media Ocse di 7000 dollari. Il reddito medio del 10 per
cento più ricco è circa 55000 dollari, sopra la media Ocse. «I ricchi hanno beneficiato di più
della crescita economica rispetto ai poveri ed alla classe media».
La ricchezza è distribuita in modo più diseguale rispetto al reddito: il 10 per cento più ricco
detiene circa il 42 per cento del valore netto totale. In confronto, il 10 per cento più ricco
possiede circa il 28 per cento del totale del reddito disponibile».
«La crescente disuguaglianza tende a dividere. Polarizza le società, crea divisioni regionali
tra paesi e allarga la voragine tra ricchi e poveri I nuovi poveri sono soprattutto gli anziani che vivono della sola pensione. Secondo una
ricerca ci sono dieci milioni persone della terza età che hanno a malapena i soldi per
mangiare, pagarsi l’affitto e non sempre riescono a curarsi.
Ma anche le famiglie con più figli hanno sempre più difficoltà.
Ci sono anche molte persone a rischio di povertà perché i consumi non oltrepassano i 1000
euro al mese.
.
La classe politica tenta di ignorare questa ricerca e il fenomeno in generale
L’altra Italia è di quelli che: chiamano ‘High net worth individual’, soggetti con alti
patrimoni finanziari. Le banche e le aziende del lusso li studiano in tutto il mondo. Sono
clienti perfetti, con disponibilità di acquisto quasi illimitata.
La stima del mercato italiano, effettuata dall’Associazione italiana private banking, non
lascia dubbi: nel nostro Paese i conti correnti da favola superiori ai 500 mila euro sarebbero
in tutto 728 mila, per una fetta di ricchezza che arriva, in totale, a 870 miliardi di euro. La
metà, circa, del prodotto interno lordo.
Dato in aumento rispetto agli 820 miliardi censiti nel 2006. Nonostante i venti di recessione,
il numero dei ricchi la ricerca non comprende le proprietà immobiliari - è aumentato in 12
mesi del 2,5 per cento. Quasi la totalità (il 97 per cento) ha una liquidità, tra contanti, fondi
e azioni, compresa tra i 500 mila e i 5 milioni di euro, mentre un gruppetto di fortunati
sfonda il tetto dei 6 milioni.
Mentre facevo queste riflessioni e cercavo di documentarmi per renderle più esplicative
guardai fuori la portineria in cui lavoravo,e lavoro tutt’ora
C’è un posacenere,quelli che mettono fuori ai centri commerciali
Un signore anziano vestito dignitosamente si avvicinò al posacenere,scelse con cura le
cicche con più sigaretta rimasta e li ripose con cura in quello che una volta doveva essere un
portasigarette di argento
Mi guardò e con le mani mi fece un gesto come per dire “pazienza…..”
Mi è venne in mente il racconto di Nino e la sua prima sigaretta o quando mio padre mi
portava con lui a fare la spesa la domenica mattina
A Napoli i negozi del centro storico restavano aperti ;i commercianti sapevano che quasi
tutti i lavoratori della zona venivano pagati il sabato a tarda ora,
Si fermava davanti una bancarella e comprava per me uno spicchio di caramella di
zucchero,quelle che si facevano una volta in casa, e per lui un pacchetto di tabacco e un
pacco di cartine
Capitava,a volte che arrivavano dei ragazzini e scaricavano sul banchetto piccole montagne
di cicche
Prendevano quello che la donna li dava,caramelle o monetine e correvano via
La donna cominciava da subito a sventrare quelle cicche accumulando il tabacco e
facendone piccoli pacchetti come quello che aveva venduto a mio padre
Nino e il suo racconto !!
Di volta in volta arricchito,con verità nascoste per paura della reazione dei monaci ,o
inventati ? (non l’ho mai saputo)
La sua partecipazione alle 4 giornate e lo scontro con i tedeschi allo stadio Collana?
Quel posacenere,quell’anziano signore che si allontanava,le cicche mezze fumate da quelli
che entravano al supermercato,il mio pacchetto di tabacco ,le vetrate di cristallo del
grattacielo di fronte, emblema di quella “democrazia”che con guerre “di pace” esportavamo
in tutto il mondo,
Mi venne in mente : Il ritratto di Dorian Gray.e lo immaginavo implodere del male che lo
aveva reso agli occhi di chi non vuol vedere cosi accattivante.
Dovevo….continuare il mio cammino.