Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
scheda tecnica titolo italiano: Elephant titolo originale: Elephant durata: 81 minuti nazionalità: usa anno: 2003 regia: Gus Van Sant sceneggiatura: Gus Van Sant produzione: HBO FILMS, MENO FILM COMPANY, BLUE RELIEF INC. fotografia: Harris Savides montaggio: Gus Van Sant musiche originali: JEFF GIBBS interpreti: ERIC DEULEN (ERIC), ALEX FROST (ALEX), JOHN ROBINSON (JOHN), ELIAS MCCONNELL (ELI), TIMOTHY BOTTOMS (IL SIGNOR MCFARLAND), MATT MALLOY (IL SIGNOR LUCE) Gus Van Sant nato a Louisville, Kentucky (USA) il 24 luglio 1952 filmografia Mala Noche - 1985 Five Ways to Kill Yourself - 1987 My New Friend - 1987 Ken Death Gets Out of Jail - 1987 DRUGSTORE COWBOY - Regia e Sceneggiatura – 1989 BELLI E DANNATI - Regia, Soggetto e Sceneggiatura - 1991 Thanksgiving Prayer - 1991 COWGIRL IL NUOVO SESSO - Regia, Montaggio e Sceneggiatura – 1993 Bowie: The Video Collection - 1993 – Video DA MORIRE - Regia - 1995 Ballad of the Skeletons - 1996 Understanding - 1996 - TV Four Boys in a Volvo - 1996 WILL HUNTING - GENIO RIBELLE - Regia - 1997 PSYCHO - Regia - 1998 SCOPRENDO FORRESTER - Regia - 2000 JAY & SILENT BOB ... FERMATE HOLLYWOOD! - Interprete – 2001 The Best of Bowie - 2002 - Video Gerry - Regia, Montaggio, Soggetto e Sceneggiatura - 2002 ELEPHANT - Regia, Montaggio e Sceneggiatura – 2003 in minuscolo opere inedite in Italia premi e festival Cannes Film Festival 2003 vincitore migliore regia a Gus Van Sant, Palma d’Oro – miglior film, premio French National Education System a Gus Van Sant César Awards, France 2004 nomination César miglior film straniero French Syndicate of Cinema Critics 2004 vincitore Critics Award miglior film straniero Independent Spirit Awards 2004 nomination Independent Spirit Award miglior fotografia a Harris Savides, miglior regia a Gus Van Sant New York Film Critics Circle Awards 2003 vincitore NYFCC Award miglior fotografia a Harris Savides, anche per Gerry. il significato del titolo Il titolo del film di Gus Van Sant, Elephant, riprende quello di una pellicola prodotta nell’89 dalla Bbc e diretta da Alan Clarke. Il film di Clarke parlava della violenza nell’Irlanda del Nord. Ma nasce in realtà da una diversa interpretazione. Clarke, infatti, riprendeva un vecchio detto secondo il quale il problema è ignorabile quanto un elefante in un salotto. Mentre Gus Van Sant credeva che il regista inglese si riferisse a un antico proverbio buddista del II secolo A.C. nel quale alcuni ciechi esaminano le diverse parti del corpo di un elefante, ed ognuno è convinto fermamente di capire la vera natura di quello che sta toccando: e cioè che l’elefante è un ventaglio, o un albero, o un serpente, o una corda a seconda della parte che tocca, ma nessuno comprende la verità. Gus Van Sant: note biografiche da minimunfax.com Coppie di tossici, giovani prostituti narcolettici, cowgirls autostoppiste, annunciatrici televisive psicopatiche, genii disturbati: i personaggi che popolano i film di Gus Van Sant sono l’epitome della devianza dalla norma; il geniale regista che gli ha dato vita, viceversa, ha percorso quello che sembra il più classico dei tragitti dalla marginalità underground al successo mainstream – senza mai perdere, beninteso, il tocco del vero "autore". Nato a Louisville, nel Kentucky, nel 1952, dopo un’infanzia girovaga al seguito del padre commesso viaggiatore e un’adolescenza in cui già affiora la passione per le arti visive (la pittura, i cortometraggi fai-da-te in super 8), Van Sant approda alla Rhode Island School of Design, una scuola d’arte all’avanguardia dove (in compagnia, fra gli altri, di David Byrne e altri membri dei Talking Heads) conosce e studia il cinema sperimentale, scoprendo definitivamente la sua vocazione. Nel 1976 Gus Van Sant è a Los Angeles, dove lavora come assistente alla produzione, sviluppa progetti che non arrivano mai sul grande schermo e viene a contatto con la faccia più inquietante della Mecca del cinema, quella degli aspiranti divi, dei falliti e dei tossici di Hollywood Boulevard. Ne nasce, nel 1985, il suo primo film, interamente autofinanziato: si chiama Mala Noche, è la storia d’amore fra il commesso di un negozio di liquori e un immigrato messicano. Romanticismo frustrato, senso dell’assurdo, tematica omosessuale, caratteristiche fondamentali della "poetica" del regista, sono già tutte presenti nella sua opera prima. Nel circuito dei festival il film ottiene un grande successo, confermato nel 1989 da Drugstore Cowboy e nel 1991 da Belli e dannati, che offrono ruoli indimenticabili ai giovani attori Matt Dillon, River Phoenix e Keanu Reeves e consacrano Van Sant come uno dei più prestigiosi registi indipendenti americani. Dopo il flop di Cowgirls – Il nuovo sesso (visionario adattamento di un famoso romanzo di Tom Robbins), Van Sant torna al successo con la spietata black comedy Da morire, il suo primo film per una major. La strada verso il grande pubblico è ormai aperta: il film successivo, Good Will Hunting – Genio ribelle, del 1997, è apprezzato dalla critica, ha ottimi incassi, riceve varie nomination agli Oscar (fra cui quello per miglior regista) e ne vince due: miglior sceneggiatura (Matt Damon e Ben Affleck) e miglior attore non protagonista (Robin Williams). Sfidando il buon senso, Van Sant passa a cimentarsi con un progetto "impossibile", il remake di Psycho (1998): ne esce meno rovinosamente del previsto, ma subito dopo preferisce rientrare nei ranghi realizzando il suo film finora meno provocatorio (e meno amato dai fan e dalla critica), Scoprendo Forrester (2000), storia di amicizia fra un talentuoso ragazzino nero del ghetto e un vecchio scrittore di successo autoesiliatosi dalle scene. Nel frattempo, non ha mai smesso di dedicarsi a una serie di fortunati ed eclettici progetti collaterali: ha prodotto Kids, di Larry Clark, un ritratto iperrealista dell’adolescenza middle class nel Greenwich Village che ha lasciato esterrefatti i benpensanti americani; ha realizzato videoclip per gli U2, David Bowie, i Red Hot Chili Peppers; ha pubblicato un romanzo stralunato, psichedelico e commovente (Pink, 1997 – ed. Minimum Fax), che è per certi versi un omaggio postumo al suo amico River Phoenix, attore "bello e dannato" per antonomasia, morto giovanissimo per overdose proprio su un marciapiede di Los Angeles nel 1993. E dopo alcuni tentennamenti, che gli avevano quasi fatto perdere la fiducia in se stesso e nel proprio lavoro, si è imposto al festival di Cannes 2003, con il film Elephant - storia di un massacro di studenti che ricorda la tragedia del liceo Columbine - che gli è valso la Palma d'oro per il miglior film e per la miglior regia. Gus Van Sant è ora nell'Olimpo della storia del cinema. a tu per tu con Gus Van Sant Intervista di Andrea Carugati – GQ.com Ha vinto l’Oscar nel ’97 per Will Hunting, genio ribelle e quest’anno, il Festival di Cannes con Elephant. È Gus Van Sant e il suo ultimo film racconta la normale vita in un qualsiasi liceo americano, normale sino al giorno in cui non succede il dramma: due ragazzi arrivano a scuola armati sino ai denti e fanno una strage. “Questo fenomeno non è mai stato così comune. Ho voluto realizzare una pellicola che catturasse l'atmosfera che si è venuta a creare" Perché l'elefante? Una vecchia storia di un gruppo di indiani bendati. Ognuno doveva toccare un pezzo di elefante, senza sapere che cosa stavano toccando, una parte sola, e ognuno pensava di toccare un animale diverso. Insomma, non vedevano il quadro generale. Ecco il perché del titolo. Come mai un altro film sugli adoloscenti, un film ambientato nel mondo della scuola, raccontato da un adulto? Sono sempre stato interessato al quel periodo della vita. Nel tempo ho scritto parecchie storie di adolescenti. Dal ’79 in avanti i film ambientati a scuola sono diventati una costante a Hollywood. È una società particolare quella della scuola, interessante e semplice da descrivere come interessanti e semplici sono i pensieri che vanno formandosi nella testa di quei ragazzi, è il momento della scoperta della vita, dell’ingenuità, dell’entusiasmo, ma anche delle prime serie domande. Il film racconta un nuovo tipo di violenza e non la spiega, lei come la giudica? Io non credo che la società di oggi sia più violenta che in passato. La storia ci insegna che l’Inghilterra dell’Ottocento, la Francia del Settecento non erano certamente posti tranquilli. Quando ho letto il Marchese De Sade mi sono stupito di quanto, ai tempi, fosse normale per un nobile uccidere un poveraccio senza subirne le conseguenze. Sono venuto alla conclusione che l’uomo ha sempre convissuto con la violenza, solo cambia il modo di metterla in pratica, ora siamo nell’era informatica e ci possono assassinare via Internet. Se lei fosse un quindicenne e guardando la televisione le capitasse di ascoltare un discorso di Bush… Beh, sono convinto che buona parte della violenza del mondo di oggi sia responsabilità della nostra generazione, della generazione di Bush e mia. La generazione degli anni sessanta che è diventata più materialista e conformista di quella dei suoi genitori. Noi americani di mezza età abbiamo delle enormi colpe. Vediamo il mondo in una sola direzione, siamo noi contro tutti gli altri. Una società in cui un uomo, da solo, può mandare il suo paese in guerra è una società con leggi sbagliate. In Iraq c’è stato un dirottamento dei principi sottoscritti con il patto delle Nazioni Unite. Bush ha sfruttato l’11 settembre come un grimaldello, una banale scusa ed è andato contro la volontà mia e di molti americani. Ha sempre espresso quello che pensa in maniera così limpida? Penso di sì, a volte ho temuto ripercussioni, ma non sono mai arrivate. Anche le cose che ho appena detto potrebbero essere usate contro di me, non ha importanza. Cosa significa essere un regista indipendente? Significa che le storie che racconto non dipendono dai soldi che ho a disposizione, che i soldi non influiscono sulla trama, sono solo uno strumento per realizzare quello che ho pensato. Quando ha iniziato la sua carriera si era prefissato un obiettivo? Sì, quello di avere la possibilità di realizzare tanti film, per un lungo periodo di tempo. Non m'interessava il successo, volevo solo dirigere per il gusto di dirigere. hanno tradito il ‘68 Intervista di Francesca Gentile – L’UNITA’ 15/10/2003 In Elephant ci sono solo tre attori professionisti. Anche a loro ho lasciato ampio margine di improvvisazione, non volevo che recitassero, dovevano solo essere naturali, se stessi. Questo ci ha molto aiutato. Nonostante la presenza di adulti e delle cineprese? Certo, non è stato difficile, è bastato guardarli ed ascoltarli. Hanno abbastanza personalità da non farsi snaturare da una macchina da presa. Non mi interessava un copione, volevo catturare la loro spontaneità. Lei rappresenta il cinema indipendente americano. Ha mai avuto la tentazione di lavorare per una Major? Beh, ora lavoro per HBO, che fa parte di Time Warner, quindi tecnicamente non sono indipendente. Lo sono solo nel senso che le storie che racconto non dipendono dai soldi a disposizione, che il budget non influenza le decisioni che prendo o il cast che ingaggio. Se fai un film da cento milioni di dollari devi ingaggiare le star. Non è una questione di finanziatori, che siano Major o piccolissimi produttori, è una questione di quantità di denaro e di libertà nello spenderlo. La strage di Columbine, l'11 settembre, il Medioriente, l'Iraq. La violenza del mondo di oggi ha effetti sui ragazzi? Non credo che la società di oggi sia più violenta che in passato. La storia ci insegna che l'America o la Francia del ‘700 erano luoghi altrettanto violenti. A quei tempi era normale per un nobile uccidere un poveraccio solo perché questi gli aveva tagliato la strada, solo perché era arrabbiato. Sono arrivato alla conclusione che l'uomo non riesce a domare la sua natura violenta, che l'uomo ha sempre convissuto con la violenza. Solo sono cambiate due cose: il modo di metterla in pratica e la velocità con cui si apprende la notizia del fatto violento, ora viviamo in un tempo molto, molto veloce, siamo nell'era informatica e i ladri possono rubarci tutto, addirittura ucciderci, cliccando sul mouse. Un fatto può accadere in un angolo recondito del mondo e in tempo reale la notizia è dappertutto. Questo è ciò che è cambiato. Se lei fosse un quindicenne e stesse guardando la Cnn e ascoltasse un discorso di Bush... Mi sta chiedendo se quello che vedo ed ascolto in tv mi può rendere più violento? Beh, non c'è dubbio che quello che sta succedendo accade per colpa dei genitori dei quindicenni di oggi. La generazione di Bush, la mia generazione è colpevole. I ragazzi degli anni ‘60, quelli di “pace e amore”, sono diventati esattamente come i loro genitori, come la generazione che contestavano, anzi forse sono ancora più materialisti e conformisti. L'America è la terra del conformismo. Lo è da sempre e la ragione è da ricercarsi nelle nostre origini puritane. Il mio cognome è olandese, molti americani hanno un'origine europea ma se si guarda all'Europa di oggi, all'Olanda di oggi, le differenze, in fatto di mentalità, sono enormi. Perché chi è stato costretto a lasciare l'Olanda un paio di secoli fa lo ha fatto a causa delle sue idee puritane che non erano più accettate. Noi americani siamo un melting pot di conformismo, olandese, scozzese, francese e proprio a causa di questo conformismo abbiamo sviluppato un terribile pensiero semplificato, quello del “noi contro gli altri”. Prendiamo la guerra in Iraq, abbiamo detto: “O con noi o contro di noi”, abbiamo attuato una specie di dirottamento dei principi sottoscritti con l'Onu. Un paese come l'America in cui un uomo da solo può decidere una guerra è un paese con leggi sbagliate. Bush voleva la guerra e ha usato il terrorismo, l'11 settembre, come mezzo per ottenere il suo scopo. Ci ha detto “Siamo in pericolo, dobbiamo proteggerci”, scuse da bar sport. Così scoppiano le risse nei bar, c'è qualcuno che dice una cosa, un altro che non capisce o fa finta di non capire, parte il primo pugno e allora interviene un altro tizio che dà un pugno a un altro ancora solo perché è a portata di mano o perché gli sta antipatico o perché non crede in Dio o per qualsiasi altra ragione. Bush ha dato il primo pugno. Voleva far scoppiare la rissa e c'è riuscito. Ha fatto quello che voleva da tempo, da molto prima dell'11 settembre, contro la mia volontà e contro la volontà di molti americani. non solo cinema la voce di Van Sant scrittore: In the "Pink" Intervista di Cynthia Joyce a Gus Van Sant - Salon.com 1997 Gus Van Sant, filmmaker, produttore di musica e video, fotografo, musicista, stilista e adesso anche romanziere, sembra un po' a disagio quando sale goffamente sul podio per leggere dei brani dal suo primo libro, Pink. Il libro, con le sue virate sperimentali e con i suoi riferimenti sottilmente velati a personaggi della vita vera (il protagonista è un produttore cinematografico di nome Spunky innamorato di un giovane e bell'attore, somigliante a River Phoenix che si chiama Felix) è davvero profondo, a tratti anche difficile, e Van Sant sembra avere difficoltà a leggerlo ad alta voce. Spuntando dagli occhiali alla Elvis Costello osserva le facce nella folla di questa libreria di San Francisco e si interrompe: "Penso che adesso risponderò a qualche domanda, posso tornare a questo più tardi" E' un gesto generoso che rivela il rispetto che Van Sant nutre per il suo pubblico e prova che di persona, come anche nei suoi film, è molto più interessato a coinvolgere le persone invece che a compiacerle. Una delle prime domande che gli vengono fatte è a proposito dell'ultima scena di Belli e dannati, quando Mike, un ragazzo di vita (interpretato da Phoenix), giace sull'autostrada e viene raccolto da qualcuno che capita di là. "Chi è che carica in macchina River Phoenix alla fine del film?" una signora chiede. Van Sant dice che ha intenzionalmente lasciato la scena ambigia: "Speravo che lo spettatore si sarebbe proiettato nel film e avrebbe deciso da solo chi fosse." Non soddisfatta da questa risposta, la donna insiste: "Va bene allora. Chi lo raccoglie nella tua versione?" "Nella mia versione?" dice, chiaramente divertito. "Nella mia versione lo raccolgo io." Dopo aver autografato i libri, Van Sant concede alcuni minuti di intervista a Salon parlando di come la morte di Phoenix abbia ispirato le sue investigazioni in altri mondi, della sua paura di finire le copie e del perché vorrebbe che l'arte fosse più simile al cibo. Scrivere un romanzo è stato molto diverso dallo scrivere una sceneggiatura? Sì, scrivere un libro è molto più divertente. Scrivere per lo schermo è come una mappa stradale: la leggi mentre stai andando, guardi alla cosa finita mentre la stai facendo. Una cosa che non si può mai fare mentre si lavora a un film è andare in un posto, a meno che non si stia girando lì e comunque non lo vivi davvero questo posto. Quando scrivi un libro puoi andare in questo posto, anche se è Parigi, in Francia, e allo stesso tempo puoi stare ancora seduto alla scrivania. Ho parlato con altri scrittori di questa cosa e hanno detto "Sì, certo". Ma io ho pensavo che fosse una cosa sorprendente. Qualcuno ti ha chiesto se avresti fatto un documetario sulla vita di River Phoenix e tu hai risposto che Pink è quel documentario. E' vero? Be' sì. Questo libro è stato fortemente influenzato da River. E' un documentario sulla mia vita attraverso di lui. Il motivo per cui non amo dirlo è che molte delle cose del libro, si può dire siano state determinate da una reazione alla sua morte. L'impeto a scrivere me lo ha dato la sua morte. Ma il libro non è su questo, e quindi non mi piace tirarlo fuori. Il libro sembra parlare di molte più cose rispetto a questa fino alla parte in cui il personaggio-Phoenix, Felix, muore in un modo molto simile. A quel punto prendi delle scene molto specifiche della vita di Phoenix, e le inserisci in maniera non molto sottile: lui muore di fronte a una discoteca, suo fratello era lì e così via. Se eri preoccupato della comparazione, perché non hai fatto lo sforzo di mascherare? Non me la sono sentita di mascherare quella dimensione di ispirazione per il libro. Il libro potrebbe parlare di chiunque che muore. In realtà è su un personaggio disperato. E non è necessariamente disperato, è che non si sa cosa succederà, dove si va quando si muore. Tutto ruota attorno a questa ricerca. E' difficile parlare del libroin termini di persone reali, perché dopo succede quest'altra cosa, che ti chiedono "Chi sono le persone reali?" e "cosa è successo alle persone reali?" e non è davvero questa l'intenzione del libro. Il libro è su ciò che capita alle persone e non cosa capita a quelle persone. Hai fatto una cosa simile con Belli e dannati, inserendo certe scene testuali dall'Enrico IV. Anche Shakespeare ti ha fortemente influenzato? No, per niente. E' Falstaff. E io sono venuto a conoscenza di questo personaggio attraverso il film di Orson Welles che includeva questo personaggio e la storia del Principe Hal. Nel complesso comunque Shakespeare, come scrittore e come poeta, è straordianariamente affascinante. Ma non lo conosco a fondo. Mi piacerebbe molto. Anche le due opere che conosco, Enrico IV parte I e II, potrei continuare a leggerle. C'è moltissimo dentro. Ci sono sempre nuovi aspetti che si rivelano. C’è in Belli e dannati un motivo che ricorre anche in Pink, quello degli uomini che "amano, ma non s’innamorano". In quella scena di Belli e dannati, Mike dice a Scott di amarlo. E Scott dice che due uomini non possono amarsi, possono solo essere amici. In realtà questa è una citazione da Walt Curtis, che si trova nel suo nuovo libro, una raccolta di racconti intitolata Mala Noche and Other Illegal Adventures. Uno dei racconti parla di Raoul, un ragazzo messicano, e lui e Raoul sono su una strada sterrata, e stanno aspettando un autobus o qualcosa del genere. Sono soli soletti, e lui raccoglie un sasso e dice: "Mi ami tanto così?" e l’altro dice: "No." E lui fa: "Ok, allora mi ami..." e raccoglie un sasso più piccolo: "Mi ami tanto così?" E poi raccoglie un sassolino minuscolo, e finalmente Raoul dice: "Due uomini non possono amarsi, possono solo essere amici”. Una volta in un biscotto della fortuna ho trovato un fogliettino che diceva: "Lui ti ama più che può, ma non può amarti molto”. Questo è appunto un tema tradizionale che un uomo gay può trovarsi ad affrontare se ha molti amici etero. Lui ti ama più che può. A volte penso che capiti tra coppie eterosessuali, quando trovi qualcuno che è assolutamente incredibile e diventa il tuo migliore amico e poi la conseguenza logica, sai com’è, noi due potremmo essere innamorati persi. Solo che l’altro dice: "Oh, ma no... no, ti voglio bene ma non in quel senso”. E allora, perché no? Questo può capitare a due persone di qualsiasi tipo, ma spesso capita a due amici maschi. In Da morire, deridevi l’ossessione che la gente ha per l’immagine e per il fatto di apparire sullo schermo. Adesso, in Pink, prendi in giro i registi, presentandoli come personaggi pretenziosi e patetici. Nelle prime righe del libro, Spunky dice: "Un tempo ero bravo, ma ora, ora dovrei solo vergognarmi. Sono diventato pessimo. [...] Sono alla ricerca della salvezza. E di soldi facili. Sono al verde. Il sistema mi ha contaminato”. Questo vale anche per te? Come riesci a lavorare con un mezzo d’informazione verso il quale sei così critico? Sì, è vero. Come mai continuo a lavorarci? Mi fa sentire in colpa. Stavo pensando di cambiarmi nome oggi, tanto per venire fuori da questa situazione in cui mi trovo, in cui il mio nome è come un marchio di fabbrica. C’è gente che riesce a sfruttare una cosa del genere, è una fonte di potere. Qualcuno la sfrutta in politica. Un politico ha davvero bisogno di essere un temperamento attivo: "Eccomi qua, ecco come la penso, e se voi voterete per me farò quello che ho promesso”. Ma non c’è ragione perché un regista debba promuovere quello che fa, perché il film è sotto gli occhi di tutti. Se la gente dice che il film è buono, allora vai bene. Può darsi che venga pubblicizzato, ma il regista non è costretto ad andare in giro a cercare di avere una buona accoglienza da parte della stampa e articoli che parlano del suo film. In Pink, Spunky sta ascoltando alla radio un’emittente religiosa locale, e dice: "Penso che tutta l’arte dovrebbe essere al servizio di qualcosa come Gesù, e non al servizioni della gloria degli artisti stessi”. Sarebbe questo il tuo ideale? Be’, significa solo che voglio che l’arte sia come il cibo; quando vedi un pomodoro in un negozio, è una cosa che capisci, sai che cos’è. Fa parte della vita. E l’arte dovrebbe essere così, dovrebbe essere organica, qualcosa di non esclusivo. Dovrebbe essere una cosa di massa, non dovrebbe essere remota, in modo che solo una persona la capisca e dev’essere questa persona a spiegartela. Dovrebbe essere comprensibile per la massa. E questo che sto dicendo è utopistico, ma è così che l’arte era in passato. In altre epoche, immagino – e forse sto proiettando le mie convinzioni, forse penso che un vaso greco era inteso dai greci in un altro modo, forse c’erano davvero delle élite che erano le uniche ad apprezzarlo – ma immagino che l’arte fosse prodotta dalla gente allo stesso modo in cui venivano prodotti i mobili. Qualcosa la cui funzione è certa, ma che in più diventa arte. Sarebbe bello smantellare tutto questo sistema di etichette. Nel libro, Pink si riferisce all’altra dimensione che esiste al di là di quelle che viviamo, non esattamente un paradiso, ma un luogo di possibile salvezza. Come vedi questo altro posto, quest’altra realtà? L’unica cosa di cui possiamo essere davvero, davvero sicuri è che c’è di più. C’è di più nel senso che c’è un futuro, a un’ora da adesso, ma non c’è, adesso. Ma puoi essere sicuro che tra un’ora ci sarà più di quello che c’è adesso. C’è semplicemente di più. E questa è la cosa assurda, incredibile della realtà. Non ce ne accorgiamo in quanto ne facciamo parte e la realtà è tutto ciò che è in questa realtà è all’interno e non può esistere al di fuori di questa realtà. Ma se solo ti fermi a pensare alle altre realtà diventa incredibilmente sconcertante. Ma stranamente queste riflessioni non fanno sentire Spunky meno claustrofobico, lo fanno sentire perennemente vincolato al presente. E’ la parte misteriosa della nostra dimensione. C’è solo il presente. Non esistono cose come il passato e il futuro, eccetto nell’accezione in cui abbiamo un orologio e possiamo conteggiare avanti e indietro e questo significa che possiamo dire cose tipo “ah, mi ricordo di te, cinque anni fa, è passato così tanto tempo”. Ma era lo stesso tempo allora come adesso, perché è sempre “adesso”. Con il sole e la luna che girano, abbiamo il senso del tempo che passa e la rigenerazione cellulare, ma è solo una questione di trasferimenti. Per questo Spunky è fissato con l’idea di registrare tutto, di filmare tutto? Come filmmaker, la prima cosa che scopri è che puoi perdere le pellicole. Il capitolo in cui Spunky parla di questo è di base una storia che è successa a me. Ho fatto il mio primo film, una sorta di riproduzione di un libro animato, l’ho fatto e l’ho fatto vedere ai miei amici. Il giorno dopo era andato perso, non c’era più. Più tardi un mio amico mi ha detto: “l’ho preso io perché volevo far vedere ai miei amici quanto era bello.” E io gli ho chiesto “e dov’è?” e lui:”Non lo so, l’ho perso.” Questo era il mio primo film e due settimane dopo l’avevo già perso. Cosa pensi di Internet, dove in teoria, le cose possono esistere per sempre? Be’, non ne so molto, eccetto che sembra il Far West. Ma ho avuto un pensiero molto vivido, strano e spaventoso, in realtà non molto originale, ma era prima volta che ho visto il futuro dell’intelligenza. Era un’intelligenza artificiale, non umana e stava dominando. E ho pensato, wow, le macchine avranno il sopravvento e gli umani diventeranno come gli animali. Diventeremo come funghi organici, E i computer, le macchine, le cose, una volta che otterranno la loro indipendenza, prolifereranno e diventeranno organismi molto più intelligenti. Era la prima volta che realizzavo questa idea. Sono certo che sia il soggetto di qualsiasi tipo di fantascienza e sono sicuro che ci sono centinaia di persone che l’hanno già pensato, ma ho pensato che fosse un passo logico. Quando la macchina si renderà autosufficiente, avrà il suo stesso organismo vivente. E sarà abbastanza rapido da prendere il sopravvento, e diventeremo tipo rospi, perché le macchine diranno “non ci servono più questi organismi” e ci cacceranno via. Torneremo nelle caverne a nasconderci da queste stesse cose che abbiamo costruito. recensioni la Repubblica - Roberto Nepoti Dopo le esperienze hollywoodiane, Gus Van Sant è tornato alla produzione indipendente. Non che film come Will Hunting o Scoprendo Forrester mancassero di qualità, anzi; solo che Gus, da degno figlio della controcultura americana, è capace di rinunciare ai privilegi della categoria "mainstream" pur di fare esattamente il cinema che vuole. Lo ha dimostrato col precedente Gerry (non ancora uscito in Italia: ma ci arriverà tra poco), lo ha ribadito con Elephant, che a Cannes si è aggiudicato in un colpo solo la Palma d'oro e il premio per la migliore regia. Eppure, prima che la HBO accettasse di finanziarlo, il soggetto era sembrato troppo imbarazzante ai produttori interpellati dal regista. L'episodio evoca un fatto realmente accaduto: la strage del liceo di Columbine, che aveva già ispirato un film (omonimo) a Alan Clarke e al quale, l'anno scorso, Michael Moore dedicò l'eccezionale Bowling for Columbine. Più che un semplice film, nel senso del tipo d'intrattenimento con cui siamo abituati a intendere il termine, Elephant (il titolo si riferisce ai massacri compiuti dai pachidermi impazziti) è un'esperienza che ti lascia ammirato e, insieme, t'immerge in un profondo disagio. Là dove Moore conduceva un'inchiesta con le risposte già pronte in mente, Van Sant rappresenta invece i fatti come fosse all'oscuro dell'accaduto e li venisse scoprendo assieme allo spettatore: per far ciò mette in scena, con tocchi da impressionista, le ore che precedono la tragedia, le normali attività quotidiane che si svolgono nello spazio (apparentemente) protetto del liceo. Nulla di particolare avviene dentro l'isolotto iperregolato della scuola: i ragazzi (giovani sconosciuti scelti nella regione di Portland ) seguono le lezioni, flirtano, mangiano, fanno fotografie. La cinepresa li segue in lunghi piani-sequenza montati senza stacchi; praticamente li pedina, mettendo la cinepresa appena dietro le loro spalle per seguirne meglio le azioni. Le medesime situazioni tornano più volte, da differenti punti di vista: tanto che è difficile distinguere il flashback dal flashforward. Poi gli eventi precipitano. Due liceali in tuta mimetica, che hanno dichiarato guerra alla scuola, irrompono nell'edificio e uccidono tutti i coetanei che trovano sulla loro strada. La strage è terrificante: sembra un teen-movie dell'orrore, collocato in uno spazio fattosi improvvisamente fantasmatico; invece sono atti ben concreti, dei quali il film rifiuta di fornire approssimative spiegazioni sociologiche. Non c'è catarsi finale, né alcun tentativo di rassicurare: in questo consistono, a conti fatti, la terribilità e la bellezza di un film che s'installa nella mente dello spettatore, e proprio per il modo in cui sfugge ai canoni in uso nel discorso cinematografico. Il Giorno - Silvio Danese La versione esistenziale di Bowling a Columbine, il documentario premio Oscar sull'insensata, immensa diffusione delle armi negli Stati Uniti dove, tra il 1997 e il 1999, furono una decina i casi di violenza accanita e gratuita di studenti su compagni di scuola e professori. Elephant è il nome del fucile mitragliatore impiegato, insieme a bombe e pistole, da due allievi di un liceo di provincia per uccidere a sangue freddo. Con flashback incrociati, Van Sant racconta le ore e i minuti precedenti la strage, adottando un modello cronachistico e minimalista di pedinamento dei personaggi. Piani sequenza interminabili combinano la continuità delle azioni (attività sportiva, mensa, lezioni, pettegolezzi tra ragazzine) e il paesaggio antropologico (la provincia senza calore, i genitori ubriachi o assenti) penetrando nel vuoto sociale. Come a Columbine, Alex ed Eric entrano a scuola con le borse piene di armi acquistate via Internet, si dividono per i corridoi e incominciano ad abbattere compagni e professori come birilli. Allo spettatore l'ardua sentenza. Palma d'oro a Cannes. La Stampa - Lietta Tornabuoni In meno di due anni, tra il 1997 e il 1999, avvennero nelle scuole americane sette episodi di raptus omicida, studenti che ammazzavano studenti. L'episodio più tragico fu nel giugno 1999, al liceo di Columbine, dove due ragazzi di sedici e diciassette anni uccisero a colpi di mitra dodici studenti, un insegnante e se stessi. Ciascuno degli episodi suscitò negli Stati Uniti il più profondo smarrimento, l'incomprensione dolorosa, uno spaventato dibattito collettivo, un immenso clamore dei media. Ispirandosi a questi episodi, il regista Gus Van Sant ha fatto un bellissimo film, Palma d'oro all'ultimo festival di Cannes, senza informazioni né commenti, senza ipotesi psicosociologiche, senza tentativi di spiegazione, quasi senza dialoghi: soltanto i fatti, e gli autori dei fatti. È convinto che le tante parole abbiano soltanto la funzione non di capire gli eventi ma di sdrammatizzarli, di ridurli, sminuirli, addomesticarli, renderli accettabili. Ha ragione: con il suo silenzio, Elephant diventa terribile. Una bella giornata come tante nella scuola (siamo a Portland nell'Oregon, dove il regista vive dopo aver lasciato Hollywood tre anni fa): bel tempo, begli alberi dalle foglie rosse o dorate, bei prati, belle aule dove si possono seguire anche corsi di chitarra o di fotografia, bella biblioteca, bel coffee-shop, begli studenti ridenti e sani. In questa serena bellezza sopravvengono i due piccoli assassini e prendono a compiere il loro lavoro di morte: in una sorta di patto suicida, non credono nel futuro e dichiarano guerra alla scuola. Le vittime stupefatte e incredule cercano di scappare, ricadono nel proprio sangue: la loro eliminazione non è frutto d'una scelta, non nasce da rancori o antipatie, è del tutto casuale. I protagonisti armati sono filmati e ri-filmati da diversi punti di vista, oppure filmati di spalle; gli uccisori simili a tanti altri ragazzi, Alex Frost e Eric Deulan, che non sono attori professionisti, sono stati scelti e diretti benissimo. E perché tutto questo? Non si sa. Non si è mai saputo. Privati di parole, i fatti hanno una forza, un'intensità e definizione rare, emanano un orrore quasi insopportabile. Il film, decimo lungometraggio dell'autore, girato in venti giorni, prodotto dalla pay-tv americana HBO, trae il suo titolo da una parabola dei canoni buddhisti. Alcuni ciechi esaminano parti diverse di un elefante (orecchio, zampa, coda, corpo) senza riuscire a coglierlo nella sua interezza, senza arrivare a capire di quale animale si tratti. Come succede agli adulti con i giovani. Corriere della Sera - Tullio Kezich In Elephant di Gus Van Sant (prodotto anche da Diane Keaton), Palma d'oro a Cannes, siamo in una scuola superiore di Portland (Oregon), splende il sole, gli allievi appaiono impegnati nelle consuete attività quando all'improvviso risuona il primo sparo... Van Sant ha preso il suo titolo dall'apologo buddista dei ciechi che cercano di immaginare un elefante, riuscendo soltanto a descrivere la parte che ciascuno può toccare. È una metafora della parzialità di ogni sforzo destinato a capire l'universo dei giovani con le sue anomalie pericolose, come le mortali sparatorie avvenute in certe scuole americane. Interpretato da non attori (gli adulti sono professionisti), il film descrive l'ambiente scolastico con gli ambulacri interminabili, le aule, gli uffici, la biblioteca, la caffetteria e i servizi. Risuona Beethoven suonato al pianoforte da una mano incerta, la stessa che poi prenderà il fucile. Come i ciechi dell'apologo, l'autore non cerca spiegazioni, ci mette davanti i fatti e ci congeda angosciati. FilmChips - Angelica Tosoni Una giornata qualunque in un liceo americano, poi uno sparo, uno schizzo di sangue sulla parete, di nuovo un colpo da arma da fuoco e ancora un altro, senza tregua. La follia lucida di due studenti che nella violenza cercano se stessi. La morte di ragazzi di cui abbiamo sfiorato con gli occhi la vita. Elephant, palma d'oro e premio alla miglior regia all'ultima edizione del Festival di Cannes, non è un film innocuo. Gus Van Sant non inganna, non conforta, non placa e non spiega. Vite distrutte da una sparatoria senza senso, solo questo conta e solo questo resta. Una regia mirabile che non sovrappone un punto di vista univoco ai fatti, ma riesce ad appropriarsi di prospettive differenti. Non c'è indagine e neppure l'intenzione di rintracciare una causa, forse perché una motivazione che giustifichi l'orrore non c'è. In base ai personaggi di cui lo spettatore segue i minuti precedenti alla catastrofe, la cinepresa opera una scelta. Le angolazioni, le sfocature e i dettagli da mettere in risalto cambiano. Van Sant si sofferma più volte sugli istanti di vita che separano Alex, Eric, John, Nicole, Eric Elias e gli altri dalla strage, ogni volta lo sguardo si modifica, ogni volta la realtà muta. Sebbene l'approccio sia definibile come "realistico", non si tratta di un documentario. La realtà non è significativa in se stessa, ma lo diventa grazie ai piani sequenza, al rallenti, alle riprese di spalle. Poi ci sono i silenzi e i dialoghi tanto veri da sembrare improvvisati. Le mille sfumature ed i vuoti degli adolescenti sono i protagonisti di un film che è lontano dai facili stereotipi dei teen-movie. Un pugno nello stomaco, questa è la sensazione che si prova al termine della proiezione, un dolore gelido si diffonde nell'anima e non risparmia nessuno, attanaglia cuore e mente. Tutto è accaduto prima, prima dell'inizio, tutto sotto gli occhi adulti che non hanno saputo vedere, prima. Film TV - Emiliano Morreale Di nuovo Columbine. E non solo. Gus Van Sant, indipendente vezzeggiato dalla major e tentato dal successo, racconta un giorno di ordinaria follia in una scuola dell'Oregon, cerca un approccio giusto all'inspiegabile e ritrova necessità e purezza. Gira con i veri studenti, facendo coincidere la cronologia delle riprese e il tempo del film, modificando il copione. La vita quotidiana dei ragazzi, i dialoghi banali, la routine: per la prima ora di film non accade nulla, la stessa mattinata è raccontata da differenti punti di vista, con lunghi pianisequenza che trasformano la scuola in un Overlook Hotel o in una alienata playstation. Poi, l'esplosione di follia. Ma talmente coerente col mondo mostrato, che a quel punto i ragazzi stragisti potrebbero essere quasi tutti: l'occhialuta bibliotecaria, quello col padre alcolista, le tre ochette amorali, il pianista incuriosito dai nazi. Non si fraintenda: Van Sant non è un nichilista, amerebbe i suoi ragazzi col trasporto di un Pasolini, e perciò ne vede doppiamente l'orrore. Lo sguardo gelido che si impone è la cosa più dolorosa e appassionante del film. Rifiuta ogni spiegazione sociologica o psicologica (tranne un paio di accenni all'habitat e all'omosessualità repressa, che sono infatti le uniche piccole "stecche" del film), perché sa che ciò che il cinema deve e può dare, è la visione di un mondo, è far sentire il gelo fino all'insopportabile, restituirci i tempi i ritmi i segni. Metterci sotto gli occhi l'elefante che sta sotto gli occhi di tutti e che nessuno vuol vedere (è questo il senso del titolo), senza per forza dirci: ecco l'elefante. Giustamente premiato a Cannes (miglior film e miglior regia: quest'ultima sul filo del virtuosismo, ma mai gratuita) dal presidente di giuria Chéreau che se ne è fregato, anche lui, di ogni carità di patria, Elephant è un film che ha la giusta distanza dalle cose e che ridà un senso al concetto di cinema americano indipendente. Non a caso, è stato fatto fuori da ogni major, per la Tv via cavo.