Intervento del prof. Pierre Laurens

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Intervento del prof. Pierre Laurens
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Pierre Laurens, Da Virgilio a Huysmans : Storia critica della letteratura latina
A Lei, Monsignore Borgonovo, che nella migliore tradizione della Chiesa dotta ha voluto
spalancarmi le porte di questa vera e propria cattedrale del sapere, a Lei caro Armando Torno che mi
ha usato l’amicizia di organizzare questo graditissimo incontro, a Lei caro collega Giuseppe che mi ha
preceduto con tanta eleganza d’eloquio e anche a Voi tutti Signore e Signori e giovani studiosi che mi
fate l’onore di assistere alla presente seduta, voglio chiedere la licenza, dato che ci troviamo a Milano,
di dedicare questo mio modesto intervento a un esimio defunto, voglio parlare del Professor Giuseppe
Billanovich, i cui lavori hanno onorato la Cattolica e inaugurato un filone di studi, che mi ha
permesso, anzi mi ha indotto a scrivere il libro a cui volete oggi manifestare il vostro generoso
interesse.
Questo libro come si può giustificare e cosa avrebbe la pretesa di aggiungere a tanti grandi manuali
così autorevoli? Il sottotitolo da me prescelto, Da Virgilio a Huysmans, forse potrebbe rispondere al
quesito nella misura in cui suggerisce una dimensione, quella del « tempo della lettura », del tempo
della ricezione.
Se apriamo infatti la migliore delle nostre storie della letteratura latina, vi troviamo ogni nozione,
dall’età arcaica fino alla tarda Antichità collocata al giusto posto, per nostro gran profitto; nell’ambito
cronologico, quello più neutrale, più apparentemente obiettivo, tutti i nostri autori vi compaiono,
offerti alla nostra attenzione, sennò alla nostra ammirazione, tutti partecipi a titolo uguale di una
medesima preziosa eredità; ognuno di loro vi è assistito dalla propria biografia, dell’elenco delle
proprie opere; vi troviamo delineata una periodizzazione e tracciati ampi contorni: Repubblica,
Principato, Alto e Basso Impero oppure: età dei Gracchi, ciceroniana, augustea, dei Flaviani, secolo di
Adriano, degli Antonini ... Uno schema storiografico, che dobbiamo a Floro, sovrasta l’insieme :
Plauto ovvero l’infanzia, Catullo ovvero l’adolescenza, Virgilio la piena maturità, Lucano la
senescenza: attorno ai valori stabiliti vengono ad aggregarsi e a schierarsi in fila gli autori di minore
importanza, quelli dimenticati, gli scomparsi.
Da dove ci vengono tutte queste informazioni? E chi non intuisce che quanto ci viene in siffatto
modo proferto con tanta luminosa evidenza, è solo una mera costruzione, frutto di una appassionata, e
a volte eroica, riconquista, la premessa di una presa di possesso che si è proseguita ed è stata a volte
consensuale, ma anche spesso conflittuale, in un arco cronologico estesosi su un millennio e mezzo?
Ed è appunto la storia di questa storia che vengo narrando in questo mio saggio. Per maggiore
chiarezza d’esposizione, la distinguerò in due tappe o parti disuguali. La prima è già stata molto
esplorata, ci è nota per il tramite della storia della filologia; l’altra invece, di più recente acquisizione,
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la dobbiamo alla vera e propria esplosione degli studi sull’umanesimo e sui dibattiti che hanno agitato
la Repubblica letteraria, quella della diffusione e della critica.
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Tutto inizia, come è ben noto, dal salvataggio in extremis di quello che in fine dei conti è solo la
congrua parte di un immenso continente sommerso: la fervorosa attività degli amanuensi nei
monasteri del Vivarium (Cassiodoro), di Montecassino (san Benedetto) nel sesto secolo, in più tarda
età della Fulda di Rabano Mauro, la rinascita carolingia attorno ad Acquisgrana, seguita da quella del
dodicesimo secolo; e via di seguito coi Petrarca, Salutati, Poggio, la grande vampata coll’apertura
delle grandi abbazie.
Quanto è andato perso è ingente : la storia di Tito Livio constava di centoquarantadue libri, divisi
in decadi e pentadi, di cui ognuna ha avuto la propria fortuna. Dante conosceva la prima decade che
usa a tutto spiano nella sua Monarchia); il Petrarca scoprì la terza nel Mille trecentoventi in Avignone
(da essa trarrà l’ispirazione per la sua Vita Scipionis e la sua Africa), a questa aggiunse la prima,
copiata di mano propria mentre Landolfo Colonna gli fornì la quarta, monca del libro quarantatré, il
che fa ammontare l’insieme a trentacinque libri consegnati nel codice Harleiano duemila
quattrocentonovantatré della British Library, uno dei cimeli della filologia umanistica, in parte vergato
dalla mano del Petrarca e corredato dalle sue annotazioni e successivamente da quelle del principe dei
filologi, Lorenzo Valla (questa vera e propria gesta è ricostruita da Giuseppe Billanovich in un suo
grande articolo del Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, il quale costituisce anch’esso una
pietra miliare della filologia umanistica: conservo l’estasiato ricordo di quel pomeriggio trascorso alla
Biblioteca Nazionale di Parigi, in cui mi imbattei sul volume Quattro del Giornale del Warburg in cui
è consegnato quell’articolo epocale. Si può dire lo stesso a proposito del testo di Petronio, il quale
conobbe vicissitudini non meno numerose di quelle riservate ai due suoi protagonisti. Al Medioevo
sono stati noti solo due episodi; quello del Vetro infrangibile e quello della Matrona di Efeso: Poggio
Bracciolini portò dall’Inghilterra una minima parte degli excerpta e un brano della Cena; per avere la
totalità della Cena, bisognerà aspettare il Seicento.
Neanche Cicerone rimane immune da tali perdite: dei sei libri della Repubblica, sole le pagine del
Somnium Scipionis, forniteci dal commento di Macrobio, queste « parole profetiche », come scrive il
Toffanin le quali « strappate al sesto libro, hanno brillato sull’oceano notturno del paganesimo quale
un messaggio di Dio » sono scampate al naufragio; degli altri libri sono stati rinvenuti frammenti
all’inizio dell’Ottocento dal futuro cardinale Angelo Mai in un palinsesto vaticano, scoperta a cui
ineggia quasi subito il giovane Leopardi in un suo ben noto poema.
Senza parlare poi degli scomparsi. Uno studioso tedesco faceva notare che sui settecento ventidue
autori identificati, solo cento quarantaquattro (ossia il venti per cento) ci sono stati conservati; di altri
trecento cinquantadue, possediamo solo frammenti, mentre duecento settantasei sono per noi meri
nomi. Ai miei studenti sono solito sottoporre questa riflessione: proviamo ad immaginare una
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letteratura francese di cui ci rimanessero solo lacerti del Giuramento di Strasburgo, un’unica strofa
della Canzone di Orlando; nel secolo classico, niente Racine (penso a Vario), nessun Lamartine
(penso a Gallo); una letteratura monca di interi generi, scomparsi senza aver lasciato altra traccia di sé,
tranne alcune righe lacunose e sospette. In parole povere
una nebbiosa e morta plaga da cui
emergessero solo alcune vette.
Tale prospettiva impone una fatica erculea : lo sforzo eroico per ricostituire, partendo da
testimonianze lasciateci dai poligrafi, dagli storici, dai grammatici, quel pulviscolo di testi che,
fornendoci qualche idea della prima epopea latina (Ennio), dei primi tentennamenti della storia (gli
annalisti), della prima elegia (Gallo), delle tragedie perse di Vario e Ovidio : uno sforzo teso non solo
a colmare tale particolare lacuna, ma per restaurare l’intera prospettiva. Una prima e grande sintesi di
simile compito ci è dato leggere nel prezioso libro di Henri Bardon La Littérature latine inconnue.
Ricupero dei testi, accenavamo, ma anche del testo, spesso sfregiato (nella lettera in cui narra la
sua scoperta di un Quintiliano integro, Poggio equipara lo stato fisico del reperto a quello di Deifobo,
quel giovanile eroe che Enea ritrova negli Inferni, cogli occhi cavati, le orecchie strappate, l’intero
corpo orrendamente sfregiato) : bisogna tentare di restituire l’opera alla sua primigenia verità, ope
ingenii, usando sottigliezza d’ingegno ( Poliziano, un Valla, un Giusto Lipsio fanno prova in ciò di
vero e proprio talento divinatorio), ope codicum (ricorrendo al confronto dei codici), tutto ciò molto
prima che un Lachmann mettesse a fuoco una vera e propria metodologia ! Bisogna ancora chiarirne i
significati : coll’elaborazione di tecnologie adatte, l’invenzione di attrezzature logistiche,
grammatiche, lessici, tabelle cronologiche, funzionali alla lettura delle opere e che consentano di
rapportare il testo al proprio tempo e, di conseguenza, di estendere il commento letterale
all’ermeneutica, alla storia e, in fin dei conti, alla critica.
Mi si potrebbe obiettare : ma tutto questo null’altro è sennò la grande avventura della filologia, la
quale ci è ben nota e ci è stata narrata da Pfeiffer, Sandys, da Reynolds e Wilson, nel loro Scribes and
scholars, tradotto in francese col titolo D’Homère à Érasme, titolo che anticipa il mio. E’ verissimo, e
di tutto questo faccio largo uso, ma me ne giovo, non a scopo di scrivere la storia della filologia, bensì
per evidenziare la luce che tali lavori proiettano sulla storia degli stessi testi.
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Questa è la prima differenza tra la mia opera e quella di Reynolds e Wilson. La seconda, che è più
significativa e giustifica la scelta del mio titolo, Histoire critique de la Littérature latine, risiede nel
fatto che riservo la parte (la part du lion) quella più cospicua, al giudizio che scaturisce dall’indagine
filologica : indagine che mira all’apprezzamento, alla presa di possesso, alla metabolizzazione,
all’assimilazione del tesoro dell’antichità, iniziato con passione dai primi lettori et prolungato in
seguito per un’ottima ragione: la concezione dell’Antichità come patria ideale di bellezza, di sapere e
di saggezza da riscoprire, una cui più precisa conoscenza avrebbe consentito di ritrovare le coordinate
di un brave new world, per riprendere l’eccelsa trovata di Francisco Rico nel suo Il sogno dell’
Umanesimo. L’importanza della posta in gioco è tale che, pur includendo la cerchia dei filologi, la
oltrepassa di gran lunga, valendosi d’altri strumenti, di altri protagonisti : istituzioni ( le accademie, le
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università, l’editoria colle sue grandi collezioni, quella ad usum Delphini, le varie Lemerre,
Panckoucke, Nisard, Teubner, Budé), ma anche singoli individui, e in primo luogo i traduttori, i quali
sono spesso sia gentiluomini colti (Nicolas Perrot d’Ablancour) sia dei dotti (Émile Littré) o ancora
dei poeti (Marot, Malherbe, Brébeuf, Laurent Tailhade, Paul Valéry…), e per finire la folla frettolosa
dei grandi scrittori, i quali sono, per così dire, parte della famiglia et vengono anche loro a recitare la
propria parte in quanto tali nei grandi processi che nel corso di numerosi secoli fisseranno i ritmi della
storia della ricezione dell’Antico.
La ricezione infatti nulla ha di irenico. In una società cristiana essa viene ostacolata dall’ateismo di
Lucrezio, dall’impudicizia di Ovidio, dalle sozzure e le cattiverie di Marziale : insomma, dal
paganesimo. Nel bel mezzo del secolo dei Lumi un poema-libello, L’Anti-Lucrèce del cardinale de
Polignac, conoscerà un suo momento di gloria e il De rerum natura viene ancora
escluso
nell’Ottocento dalla collezione diretta da Nisard. Ma neanche presso gli sfegatati fautori dell’Antico,
vige il consenso : è dato osservare notevoli fluttuazioni in queste Tavole della legge culturale che si
usa chiamare il canone : Stazio, Lucano, un tempo al vertice si trovano presto declassati, altri invece
vengono promossi ; lunghe ed appassionate controversie oppongono i difensori dello stile ampio e
periodico di Cicerone a quelli dello stile più acuto di Seneca, quelli del riso di Plauto e quelli
dell’umanità di Terenzio, quelli del sorriso d’Orazio e quelli delle esternazioni di Giovenale, gli
ammiratori di Tibullo a quelli di Properzio, eccetera (la figura del paragone si rivelerà d’altronde
stupenda e particolarmente illuminante). Nel sottofondo l’eterna contrapposizione tra barocco e
classicismo o vice-versa, tra avventatezza e misura, tra avanguardia e accademismo, come anche la
ricorrente critica a uno schema che oppone ad un’età dell’oro i secoli di gestazione e di decadenza.
Vorrei chiarire il mio assunto prendendo successivamente in esame tre casi topici.
Primo esempio : le spettacolari variazioni che riguardano il più stabile dei nostri autori : Virgilio.
Anche se si trascura l’immagine medievale studiata dal Comparetti del Virgilio mago o del Virgilio
pre-cristiano che, nella quarta bucolica pre-annuncia l’avvento di Cristo, o ancora del Virgilio
allegorizzato (i sei primi libri dell’Eneide interpretati da Bernardo Silvestre comme un’allegoria della
vita umana), lo statuto dell’autore si presenta sin dall’inizio come eccelso: nella Divina Commedia è
lui a salvare Dante dalle tre fiere e a guidarlo fino alle soglie del Paradiso; a lui, sempre nella stessa
opera, Dante rivolge le famose parole: « Tu se’ il mio maestro e ‘l mio autore », celebrando, ora in
nome proprio,
quella fonte, / che spandi di parlar sì largo fiume
ora per il tramite di Stazio
le faville … / de la divina fiamma, / … de l’Eneïda dico, la qual mamma / fummi, e fummi
nutrice poetando
Tale si presenta ancora, sulla base di nuove ragioni, il Virgilio dell’Umanesimo il quale, secondo lo
Scaligero, sorpassa Omero come un poeta civilizzato sorpassa quello di un’ età arcaica:
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Omero è stato in somma misura dotato dell’ingenium, ma l’ars in lui è balbuziente, e spetta a
Virgilio innazarla per filtrazione fino alle vette. Il primo è stato prodigo, ma l’altro ha vagliato;
il primo ha seminato profusamente, ma l’altro ha ordinato. Lì, la materia, qui la forma ; lì la
congerie, qui la disposizione.
Con altre parole :
Omero chaos geniale, senza dubbio, ma rudis indigestaque moles, e Virgilio il deus et melior
natura evocato da Ovidio.
Ma due secoli dopo, Diderot, nel Mille settecento cinquantotto, nel suo Discours sur la poésie
dramatique avrà da dire : « Plus un peuple est civilisé, moins ses mœurs sont poétiques… La poésie
veut quelque chose d’énorme, de barbare et de sauvage… » « Più un popolo è civilizzato, meno
poetici sono i suoi costumi …. La poesia richiede qualcosa di gigantesco, di barbaro e di selvaggio ...
» E sulla stessa scia, tre secoli dopo, Victor Hugo, disegnerà nel suo William Shakespeare del Mille
Ottocento sessantaquattro, una gradazione discendente di lune gravitando attorno ai loro rispettivi
soli :
« Virgile, lune d’Homère, Racine, lune de Virgile, Chénier, lune de Racine, et ainsi de suite jusqu’à zéro ».
« Virgilio, luna di Omero, Racine, luna di Virgilio, Chénier, luna di Racine, e via di seguito fino
all’azzeramento ».
Il colpo di grazia sembra che venga inferto, sempre in Francia, nel Mille ottocento ottantaquattro, e
questa volta contro i « pions et les cuistres » (i ripetitori e i pedanti) che continuano a « brucare dalla
mangiatoia del classico », alla Désiré Nisard, paladino della lotta alla Decadenza, dall’ Huysmans, il
quale, concordando con Léon Bloy, svalorizza con un colpo solo i classici latini a favore dei loro
epigoni tardo-antichi o medievali, appena riesumati dalla Patrologie di Migne. Neppure Virgilio si
salvò dalla stroncatura in questo brillante sfogo di malumore e cattiva fede :
Tra gli altri, scrisse l’Huysmans, il blando Virgilio, colui che i ripetitori hanno soprannominato
il cigno di Mantova, probabilmente perché fu quella città a dargli i natali, gli è apparso come uno
dei più temibili pedanti, uno dei più sinistri scocciatori prodotti dall’Antichità ; i suoi pastori tutti
pulitini e attillati, che si rovesciano a vicenda sul capo secchiate di versi sentenziosi e gelidi,
questo suo Orfeo che egli paragona a un usignolo grondante lacrime, questo suo Aristeo, che
piagnucola sulle api, questo suo Enea, quel personaggio indeciso e verboso, che va in giro, simile
a un’ombra cinese, con i suoi gesti meccanici, dietro il trasparente sipario malamente aggiustato e
malamente strutturato del poema, lo esasperavano.
Spetterà al Novecento controbattere questo disamore e restituire al poeta il posto che si meritava :
questo sarà il secolo di Eliot (Qu’est-ce qu’un classique ? Cosa è un classico), di Theodor Häcker
(Vergil, Vater des Abendlandes), di Viktor Poschl, della Harvard School degli anni cinquantasessanta, quando Adam Parry, Wendell Clausen, Michael Putnam misero in luce la profondità e il lato
pessimistico dell’epopea (« A public voice of triumph and a private voice of regret »). A questo punto,
mi preme rievocare il dialogo stabilitosi tra due grandi docenti universitari, il primo fu il mio
maestro, l’altro un mio amico. Nella recensione che fece del Virgilio di Jacques Perret, Henri Bardon,
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il quale avrebbe a breve pubblicato la sua edizione e il suo studio su Catullo, elogia il critico, ma
confessa di anteporre alla nobiltà di Virgilio la spontaneità del Veronese nonché il suo squilibrio.
Nella sua lettera di ringraziamento da me posseduta, Perret gli concede che Catullo ci somiglia di più
come un fratello, ma aggiunge che proprio per questo abbiamo bisogno di meditare sull’ordine
virgiliano.
Tale considerazione ci induce a parlare delle nuove classifiche e dell’evoluzione del canone.
Alcuni autori un tempo alle stelle (Stazio nella Commedia dantesca), sono soggetti, come ho già
accennato, ad una relativa scomparsa ; ma al contrario, alcuni altri, prima disprezzati, vengono
finalmente riconosciuti, come Tacito, Plauto o Giovenale.
TACITO riappare tardi quando il posto è invece occupato in modo sovrano da Tito Livio e
Sallustio. Di Tacito, il Boccaccio possiede le Storie e la seconda parte degli Annali, ma bisognerà
aspettare l’inizio del Cinquecento per la scoperta della prima parte degli Annali (Libri uno a sesto),
che contiene in particolare i regni di Tiberio e di Nerone. E anche quando si comincerà a parlarne
come fonte per il periodo dell’Alto Impero (dalla morte di Augusto all’assedio di Gerusalemme), sarà
per lamentarne l’oscurità : le senticeta, i rovi tacitiani, come si può leggere sotto la penna d’Alciato, di
Beatus Rhenanus, d’Emilio Ferreti. Bisognerà, anche in questo caso, aspettare la fine del Cinquecento
e il discorso di Marc Antoine Muret alla Sapienza per vederlo riabilitato e, per la prima volta, capito
ed apprezzato alla luce del sublime di Tucidide :
D’altronde, scrive il Muret, queste sciocche polemiche contro Tacito dimostrano che lo scrittore
ha raggiunto il proprio obiettivo. Perché aveva assunto a modello Tucidide, e, per quanto riguarda
lo stile, ambiva a essergli più vicino possibile. Ora di Tucidide i Greci sottolineano l’oscurità e
l’asprezza, annoverando queste sue caratteristiche tra i pregi, e non tra i difetti dello stile.
Nonostante un discorso nudo e limpido abbia un suo fascino, sta di fatto che viene a volte lodata
una certa forma d’oscurità la quale, nel discostare l’eloquio dall’uso comune, gli conferisce, per la
sua stessa stranezza, dignità e maestà e nello stesso tempo mobilita l’attenzione dei lettori. Esso è
simile al velo steso davanti allo sguardo dei profani. Per sua virtù, chi entra nella penombra del
tempio è compenetrato di sacro orrore. Per quanto riguarda tale asprezza, essa è esattamente come
l’amarezza del vino : quello che la possiede in maggior misura è più idoneo, almeno così si crede,
a sopportare l’invecchiamento. Ora i Greci hanno così bene identificato la costanza di tale qualità
in Tucidide che a proposito dell’ espiazione di Cilone, quando l’autore se ne discosta
deliberatamente, essi ritengono che la fiera si sia concesso un sorriso…
Discorso davvero splendido ! Esso sovverte la gerarchia e pone le fondamenta di una lettura che
verrà di continuo ulteriormente raffinata
e approfondita : da Carlo Pasquali il quale oppone
l’emphasis (esprimere il più col meno) tipica degli scrittori dell’Impero alla parrhesia, la libertà di
parola di cui si valevano quelli dell’età repubblicana ; da Lipsio, che ammira le sentenze, veri e propri
modelli di saggezza e di brevità) ; da Montaigne, per cui lo storico latino “è un vivaio di discorsi etici
e politici” (« une pépinière de discours éthiques et politiques ») ; da Racine che vede in Tacito il
maggiore pittore dell’Antichità). In tempi più vicini a noi, Alain Michel ha letto l’opera di Tacito
come une meditazione sulla tirannide e la libertà.
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HO PRIVILEGIATO il caso di Tacito, ma la stesa mutazione si potrebbe osservare a proposito di
Plauto o di Giovenale : anche questo ultimo, lungo svalutato a pro di Orazio, il quale morde col sorriso
(castigat ridendo) e rappresenta l’ideale della satira, dovrà aspettare che giunga la sua ora. Il vero
sovvertimento avviene quando un genio fratello, colla lungimiranza che li consente la sua propria
esperienza dell’intolerabile, quando Victor Hugo, nel suo esilio di Jersey, così si esprime nel secondo
libro del suo William Shakespeare, intitolato Les genies (I geni), cogliendo, contro l’imagine di un
Giovenale ampolloso e guastato dalle scuole di retorica, la sincerita del poeta et la violenza della sua
ribellione :
Giovenale batte sopra l’impero romano le ingenti ali del gipaeto che sorvola un nido di
rettili… Vi è dell’epico in cotesta satira : quello che Giovenale ha in mano, è lo scettro aureo col
quale Ulisse colpiva Tersite… Da quello splendido focolaio fuoriescono raggi che spandono fin
nella nostra civiltà libertà, probità, eroismo… Cos’è Mathurin Régnier ? Cosa d’Aubigné ? Cosa
Corneille ? Sono scintille giovenalesche.
Ma esaminiamo per concludere l’emblematico caso di una stessa opera sulla quale si oppongono
due punti di vista inconciliabili : le Elegie di Properzio, lette da Julien Benda e da Paul Veyne :
Avevo appena, scrive Julien Benda in Les amants de Tibur all’inizio dello scorso secolo,
seguito passo per passo le elegie di Properzio… mi ero appena imbevuto di parecchie dotte tesi
che riguardavano la storia d’amore che viene dipinta in questi versi, ed ero ormai intento a capire
tale amore…Vedevo quel virtuoso della gelosia fare coppia con una donna la cui funzione sociale,
come pure una sua clamorosa vocazione, costringevano a passare tra molteplici braccia. E lo
vedevo condannato dalla potenza della passione, a rimanere schiavo di tale civetta e a gemere, per
cinque anni, sotto il peso di una tale croce …
Sì, mi disse, apparendomi dal fondo della notte, io fui votato a servire un’amante tutta di carne,
che a letto apprezzava solo l’azione, sprezzando in quei momenti qualsiasi slancio di eloquenza
… Sì, accanto a questa femmina insensibile, i teneri bisogni del mio animo fecero di quella mia
breve vita un lungo martirio … Poi si allontanò, lasciandomi con questo bilancio che finiva col
turbarmi, quando all’improvviso apparve Cinzia. Sembrava Brunehild quando, solcando l’onda
della folla, viene a posare la mano sulla lancia di Hagen … Essa era davvero quella bellissima
donna che i versi del poeta mi avevano fatto intravedere, alta e snella, lo sguardo ardente e cupo
sotto la fulva chioma, le labbra frementi ed altezzose, le forme sensuali ed egoiste ; essa era
davvero quel miscuglio di patriziato e di crudeltà che effettivamente evocava la dea Pallade
incedendo davanti all’altare mentre tiene sul petto la testa della Gorgona irta di serpenti… Parlerò,
disse ; mi difenderò, e difenderò non solo me ma le mie sorelle, le amanti dei letterati, noi di cui si
dice che siamo state la croce dei nostri spasimanti … Quanto a me, concludeva, come Dante
davanti all’alata coppia, ma senza cadere a terra dato che stavo seduto, venni meno per la pietà
provata davanti a questi infelici che Dio aveva condannato a lacerarsi reciprocamente, ed ad
amarsi così tanto da non poter più dipartirsi l’uno dall’altro.
Ma adesso eccoci, dopo la doccia bollente, quella ghiacciata che ci viene somministrata da Paul
Veyne :
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E’ una delle forme artistiche più sofisticate dell’intera storia delle letterature ; due o tre decenni
prima dell’inizio della nostra era, alcuni giovani poeti romani, Properzio, Tibullo e, nella
generazione successiva, Ovidio, si accinsero a cantare in prima persona, usando il proprio nome,
vicende amorose e a riferire queste varie vicende ad una sola ed identica eroina, indicata con un
nome mitologico : la fantasia dei lettori andò così popolandosi di coppie da sogno …
Ma tutto ciò è solo di carta, puro infingimento … Il poeta adoratore usa, l’ « io » e parla di séstesso dunque non dubiteremo che esso esprima la propria passione, che ci confidi le proprie
sofferenze e percorra per noi la via maestra del cuore umano. In realtà, i commentatori hanno
coltivato questo controsenso piscologizzante più di quanto non siano caduti nel controsenso
sociologizzante, hanno preferito ignorare quanto gli amori elegiaci avessero di poco esemplare …
Il candore filologico si è spinto così in là che di rado ci si è avveduti che lo scherzo preferito dai
nostri elegiaci è di giocare sull’equivoco bisticcio tra Cinthia (Cinzia), nome della loro eroina, e
Cinthia indicante invece il libro in cui la celebrano. Quando Properzio esclama, nell’elegia finale
del suo libro terzo : « Sono stato il tuo schiavo fedele per cinque anni, o Cinzia, ma adesso è
finita », noi non dobbiamo concludere che la sua relazione col modello di Cinzia fosse iniziata
cinque anni prima, ma solo che la pubblicazione dei tre libri posti sotto l’intitolazione di Cinzia si
era prolungata per cinque anni della vita del poeta …
Si deve allora concludere che Cinzia non sia stata che un’amante di carta ? L’ironia della storia ha
voluto che negli ultimi decenni si sia scoperta ad Assisi, a poca distanza da una serie di epigrafi
recanti il nome della gens Propertia l’epitafio, ricostituito da Filippo Coarelli, di una certa Hostia, di
cui Apuleio ci insegna appunto che essa si nascondeva sotto il nome di Cinzia.
Cosa ci dimostra la storia di queste poche controversie a cui ho appena accennato? che il senso
non è mai ovvio, ma deve invece essere svelato ; che la bellezza non è data, ma deve essere da noi
liberata. Prendiamo Ovidio, a cui per tanto tempo i pedanti hanno rimproverato il suo retoricismo, a tal
segno che si stenta a capire come, dai Regrets di Du Bellay fino a Terra d’esilio di Pavese, esso abbia
così spesso ispirato gli esuli e i banditi. Per fortuna, alla sordità di Nisard, che all’esule rimprovera
(cito) di avere,
« come aveva fatto nei giorni di prosperità, rincorso lo spirito, raggiungendo solo il pessimo
gusto », e di cui biasima « le fastidiose lamentele », « monotona e povera cantilena d’un dolore che
sembra artificioso », Marie Darrieuscq che si è invece compenetrata del senso e della melodia
dell’Ovidio sofferente (Il fatto che un uomo abbia scritto su una spiaggia sperduta, duemila anni fa :
quel fatto mi riguarda) ci dà nei suoi Tristes Pontiques (Tristezze e Epistole dal Ponto) pubblicati
alcuni anni fa, la seguente traduzione da cui ogni retorica viene esclusa e in cui, per l’assenza di ogni
punteggiatura, si sente solo il dettato dell’anima :
Petit livre
Libriccino
Hélas
Purtroppo
Va sans moi dans la ville où je suis interdit Recati senza di me nella città da cui sono bandito
Va tout simple sans ornements savants
Va’ nella tua semplicità priva di ogni ricercato
ornamento
Comme il sied aux exilés
Come agli esuli si addice
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En habit de tous les jours
In veste quotidiana
Les déshérités ne portent pas la pourpre
I diseredati non indossano la porpora
C’est pour les petits livres heureux
Questa è riservata ai libriccini felici
Toi
Tu invece
Mon pauvre recueil
Misera raccolta mia
Tu portes ma misère et tu portes mon deuil
Porti la mia infelice sorte, porti il mio lutto
Va-t-en échevelé mal poli tout barbu
Va’ pure tutto arruffato e malandato, colla barba irta
Car tu n’es pas de ceux dont les aspérités
Ché non appartieni alla genia di quelli le cui asperità
Sont lissées à la pierre ponce
Sono state spianate colla pomice
Et n’aie pas honte de tes taches
E non vergognarti delle proprie macchie
Ce sont mes larmes…
Sono le mie lacrime …
Si potrà lecitamente pensare che in questa mia presentazione ho riservato un posto eccessivo alle
citazioni. La ragione sta nel fatto che la presentazione è l’immagine riflessa del libro, in cui la maggior
parte della materia è presa in prestito, solo l’impostazione è mia e devo pure ammettere che non è del
tutto scevra da qualche arbitraria scelta. Nel rivolgermi al lettore di buona volontà desideroso di
visitare a sua volta, attraverso l’esperienza di quelli che lo hanno preceduto, i più famosi come i più
rari cimeli di quel tesoro, mi è dunque stato d’obbligo procedere con arbitrio nel raccogliere sotto il
titolo della Bella Scuola tratto da Dante i nomi d Virgilio, Cicerone, Orazio, Ovidio, che non sono mai
scomparsi dall’orizzonte; nel collocare in un’ampia prospettiva, che mi fa da zodiaco, i protagonisti
principali dei massimi generi in prosa come in poesia: filosofia, storia, arte drammatica, romanzo,
senza dimenticare tutti i sotto-generi poetici: nell’esaminare in una terza parte la sopravvivenza delle
letterature tecniche ed erudite e, nel raccogliere in una parte successiva un pizzico di quella polvere
stellare a cui viene conferito il nome di « Letteratura latina ignota ».
L’ultima parte (i frammenti), assieme a qualche felice sorpresa, susciterà soprattutto rimpianti;
un’altra ancora (quella dedicata alle letterature tecniche), le quali ebbero un tempo una parte
essenziale, nell’agevolare il partorire della nuova enciclopedia che le fece poi cadere in disuso, sazierà
ma curiosità di chi si interessa delle grandi tappe del costituirsi di un sapere umano; per finire, una
parte, che non è di certo quella più trascurabile, è particolarmente intenta a rivolgersi ad ognuno in
modo privato. Ho parlato di intenzione perché – e qui mi rifaccio alla conclusione del libro – qui si
pone, in un momento in cui la nostra civiltà è presa, come non mai, nella rete fitta delle altre culture,
nel labirinto dei libri che compongono questo nostro mondo multiculturale, un ineludibile
interrogativo : « Ma perché mai bisognerebbe leggere i classici latini ? » Alla domanda si è tentati di
rispondere con quello che Italo Calvino ebbe a dire di qualsiasi classico, di Omero, ma anche di
Dante: bisogna leggerli perché essi non hanno finito di dirci quello che hanno da dirci ; perché ci
giungono portandosi addosso la traccia delle letture che precedettero la nostra; perché si portano
dietro la traccia che lasciarono nella cultura oppure nelle culture che essi attraversarono ; perché
coll’andar del tempo la congerie delle letture che hanno suscitato frana sempre di più; perché ogni rilettura è una lettura di scoperta. Ma per quel che riguarda i nostri cari Latini, e ricordando le immagini
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dantesche che abbiamo evocato in precedenza quando abbiamo iniziato questa nostra presentazione
parlando di Virgilio (« quella fonte che spande di parlar sì largo fiume », « quelle faville della divina
fiamma »), si è indotti ad aggiungere : perché ci insegnano a leggere gli altri classici – e persino quelli
che classici non sono.