La schiera furiosa

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La schiera furiosa
La Schiera Furiosa
(Di Mauro Longo, vincitore del concorso “Sidhe, popolo delle colline” 2013)
Beatrice fu la prima a udire il suono dei corni e si girò a scrutare la forra alle proprie spalle. La notte era
tersa e luminosa, ma il fuoco da campo a pochi passi rendeva il bosco nero come la pece, attorno a lei e ai
suoi due compagni di escursione. La ragazza rimase a fissare per qualche tempo il fianco del colle dall’altro
lato della valle, mentre i suoi occhi si abituavano al chiaro di luna. Ben presto iniziò a distinguere alcune
luci rosse e bianche tra i tronchi delle querce e dei faggi, lumi evanescenti che apparivano e svanivano,
avvicinandosi nella loro direzione.
Il vento si alzò di colpo, come il soffio rauco di una gola immensa. Le fiamme del focolare si agitarono e
le foglie degli alberi stormirono rumorosamente.
Seguendo il suo sguardo, anche Fabien e Lucia si girarono, colti da un brivido improvviso. I corni
risuonarono ancora e questa volta le note echeggiarono chiare e profonde tra le alture e i burroni della
foresta di Broceliande, giungendo forse fino a Paimpont. Fabien impallidì e si alzò in piedi, mentre le
fiamme illuminavano il suo volto di bagliori rossastri.
“Cos’è?” chiese Lucia alzandosi di riflesso dietro di lui, altrettanto preoccupata. “I proprietari di questo
bosco possono venirci a caccia? A quest’ora della notte?”
“Ho paura di sì” rispose Fabien lentamente. “I vecchi proprietari...”
“Ve lo dicevo che era meglio non venire a campeggiare qui!” disse Beatrice, fissando ora l'uno ora l'altro
dei suoi compagni.
I corni squillarono una terza volta e dopo di essi vennero i latrati dei cani. D’improvviso, la forra vicino
cui i tre si erano accampati ne fu piena, come se un'intera muta rabbiosa stesse correndo verso il loro campo.
Dopo qualche istante Beatrice iniziò a distinguere delle macchie spettrali sfrecciare tra gli alberi,
sfolgorando alla pallida luce lunare. Qualche istante dopo giunse alle sue orecchie anche uno scalpiccio di
zoccoli, che battevano sul tappeto di foglie del terreno e producevano sbuffi ovattati. Poi, tra i latrati e il
suono degli zoccoli, cominciò a udire anche delle grida, suoni che parevano a metà tra incitamenti di caccia
e versi di bestie selvatiche.
Beatrice rimase a fissare la scena con occhi sbarrati. Un branco di cani bianchi risaliva ormai l’altura dove
si trovavano le loro tende e tra essi si facevano largo cavalieri ammantati, che montavano destrieri scuri e
impugnavano lance e corni.
“La chasse sauvage!” gridò Fabien con una voce stridula che Beatrice non gli aveva mai sentito. La caccia
selvaggia. Beatrice si ricordò di quella leggenda, tipica di quella zona della Francia. In certe notti, diceva la
storia, i demoni escono dall'inferno e guidano una schiera di anime dannate in forma di cani in una caccia
indiavolata, inseguendo chiunque trovano sul loro cammino. L'avevano trovata sulla guida quella mattina
stessa, in uno di quei riquadri in fondo alla pagina dove finivano le curiosità e le tradizioni locali. Ne
avevano anche riso. Era solo una leggenda dopotutto. O no?
Fabien si voltò e fuggì via, continuando a strillare mentre correva via dal campo.
Lucia guardò Beatrice per un istante. Negli occhi aveva lo stesso sguardo di una lepre davanti ai fari di un
auto. Lo stesso sguardo, fece in tempo a pensare Beatrice, che probabilmente in quel momento aveva anche
lei. In quel momento, lo scalpiccio degli zoccoli parve aumentare d’intensità e così le grida inumane dei
cavalieri. Un attimo dopo, senza aspettare che l’amica dicesse o facesse alcunché, Lucia si girò a sua volta e
scappò via dietro Fabien.
Ormai sola davanti al fuoco, Beatrice lanciò un grido e si alzò di scatto per correre via a sua volta, ma il
piolo di una delle tende la fece inciampare e lo slancio la gettò a terra, con il viso a pochi centimetri dalle
fiamme. Gli occhi le presero immediatamente a lacrimare per il calore. Si rialzò e corse a rotta di collo nella
direzione che credeva avessero preso Lucia e Fabien, mentre gli zoccoli e le grida si facevano sempre più
vicini. Raggiunse il sentiero che avevano percorso all’andata e lo imboccò verso destra, sperando che la
conducesse al parcheggio dove avevano lasciato la loro auto. La via presa le parve invece subito sconosciuta
e priva di punti di riferimento. Senza osare tornare indietro, continuò a correre nella stessa direzione, superò
un macigno bianco e raggiunse una radura con un cerchio di pietre in mezzo. Poi non vi furono più sentieri e
vie conosciute e si trovò a correre tra ampi tronchi e bassi cespugli, perdendosi sempre più nel fondo della
foresta. Passò accanto a un albero abbattuto e discese lungo un pendio erboso fino alla riva di un ruscello.
In quel momento, due cani emersero dal folto del bosco alle sue spalle e si lanciarono contro di lei.
Beatrice si volse indietro, terrorizzata, solo per vedere l’intera muta apparire dal limitare degli alberi e
gettarsi indiavolata sulle sue orme. Le bestie sembravano levrieri magri e slanciati, di pelo completamente
bianco se non per la punta delle orecchie, rossa come il sangue. I loro occhi risplendevano di un bagliore
spettrale e la lingua penzolava loro tra i denti mentre lanciavano bassi latrati.
Beatrice si gettò nel ruscello e annaspò verso la riva opposta, sollevando schizzi gelati. A loro volta, i
primi due segugi raggiunsero il ruscello in pochi balzi e le furono alle spalle, puntandole e mordendole le
gambe, lacerandole i pantaloni fradici e graffiandola in più punti.
Improvvisamente, come giungendo da un altro mondo, una moto passò rombando sull’altura che
racchiudeva il ruscello sull’altra sponda. Alla luce del suo faro anteriore Beatrice riuscì a scorgere una
staccionata di legno costruita in cima al pendio. “Aiuto!” gridò Beatrice, ma la moto si allontanò lungo la
strada e nessuno parve udirla. La ragazza strinse i denti e trattenne le lacrime, mentre con le braccia cercava
di tenere a bada le bestie più vicine. Con la forza del terrore più disperato si lanciò ancora avanti e risalì il
pendio sull’altra sponda del fiume.
L’intera muta era ormai alle sue spalle e i più veloci dei levrieri ai suoi fianchi. Un cavaliere le giunse a
lato, le gridò contro orrendi e incomprensibili versi e la sferzò con una frusta verde. Dal suo cappuccio
emergevano due occhi rossi di brace e quelle che parevano corna di cervo. La staffilata lacerò la maglietta
della ragazza e le incise la pelle a sangue, bruciandola come fosse fuoco vivo.
Beatrice lanciò un gemito inarticolato e consumò in pochi balzi la distanza che la separava dalla strada in
cima al pendio, proiettandosi in avanti con ogni muscolo del suo corpo stremato.
Infine, con un ultimo salto, raggiunse il limite dell’altura e si gettò contro la staccionata, volò oltre la
barriera di legno e cadde sull’asfalto freddo, con il volto schiacciato e graffiato, il petto che le esplodeva e i
muscoli delle gambe intorpiditi dallo sforzo.
Per un istante attese che i segugi bianchi la dilaniassero e i cacciatori la facessero a brani con le loro armi,
troppo esausta e affranta per potersi difendere in alcun modo.
Nulla del genere accadde.
Si voltò a guardarsi attorno, credendosi circondata.
La muta spettrale e i cacciatori infernali avevano continuato la loro corsa, ma non avevano raggiunto la
strada. Dietro di lei, i levrieri bianchi, i corsieri scuri e i cavalieri ammantati si staccavano dal suolo alla fine
del pendio, superavano a balzi la staccionata, poggiavano un’ultima volta le loro zampe sul legno e infine si
lanciavano nel cielo scuro. Come un turbine di faville trascinate dal vento, i suoi inseguitori balzarono via
dal terreno e disparvero in cielo, svanendo in lontananza nella notte rischiarata dalla luna.
Beatrice attese sdraiata a terra con il cuore che le martellava in petto, fino a quando il respiro non le tornò
regolare, la fatica le scivolò via e i pantaloni inzuppati non divennero il fastidio peggiore dell’intera
avventura.
Sola, al margine della foresta di Broceliande, nella notte serena, Beatrice iniziò a singhiozzare e piangere.
Infine si mise in piedi e si diresse al parcheggio del parco, in cerca della sua auto, di vestiti asciutti e dei
suoi amici.
In quest’ordine esatto.
“Morhout tiene ancora la testa della masnada!” disse Scopetta, chiocciando con il suo becco d’uccello. Il
cappuccio nero gli calava sulla fronte eppure gli occhi del goblin ardevano stellati e giungevan lontano nella
notte, seguendo la corsa dei levrieri in cielo dal ramo di quercia su cui sedeva.
Due orecchie da coniglio fecero capolino dal cavo del tronco. “Dici bene” rispose Rotundél, emergendo
del tutto e ghignando a bocca spalancata, come per mettere in mostra la sua chiostra di denti affilati.
“Eppure Clarenbaut gli sta al fianco fin dall’inizio e non molla!”
“Siate entrambi dannati!” si aggiunse dal basso Donarùm, arrampicandosi sul tronco con le dita verdi e le
esili gambette. “Ho puntato tutto il mio oro su quel vecchio sacco di pulci di Tribole, ma il balordo
scansafatiche si è fatto distrarre da quei tre mortali ed è rimasto in coda alla masnada.”
“Son giunti all’altezza di Orione, la gara è quasi finita” chiocciò allegro Scopetta poco dopo indicando in
cielo. “Ho vinto quaranta dobloni, sette corone e due zecchini!”
“A me invece tocca pagare,” bofonchiò Rotundél, “altrimenti il principe mi farà tagliare la testa. Di
nuovo!”
“Orsù torniamo al Reame,” disse mogio Donnarum, “almeno andiamoci a godere la Baraonda dei
Cacciatori. Piuttosto, quando si terrà la prossima corsa?”
“Saran quarantanove anni da oggi,” rispose Donnarum consultando il suo pallottoliere solstiziale, “Giorno
di Beltane, Mezzanotte in punto ora di Avalon. E speriamo che non si mettano di nuovo di mezzo i dannati
mortali, a rovinarci la corsa e le scommesse!”
“Andiamo, ribaldi!” li redarguì Scopetta gongolando, “sempre ad accusare la malasorte per le vostre
sconfitte! Siete pietosi... Quando ammetterete che quelle vostre bestiacce scellerate sono solo rosica-ossi a
tradimento? Corriamo alla festa, piuttosto. Stanotte il chiarodiluna delle fate lo offro io!”